dimanche, 02 décembre 2012
Carl Schmitt: Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza
Carl Schmitt: Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza
Marcello VENEZIANI
Ex: http://agsassarialtervista.blogspot.be/
L'aveva chiamata san Casciano la sua casa del buen retiro a Plattenberg, il luogo natìo in cui tornò per trascorrere la lunga vecchiaia fino alla morte, all'età di 97 anni, nel 1985. San Casciano, come l'ultima casa-esilio di Niccolò Machiavelli, quando si ritirò dall'attività di Segretario.
Ma Carl Schmitt confidò in un'intervista che aveva battezzato così la sua casa non solo in onore di Machiavelli ma anche perché San Casciano è il santo protettore dei professori uccisi dai loro scolari. Schmitt si identificava in ambedue, nell'autore de Il Principe, nel suo lucido realismo politico e nel suo amore per la romanità; ma anche nel Santo, perché si sentì tradito da molti suoi allievi. Quell'intervista dà il titolo a una raccolta di scritti di Carl Schmitt, curata da Giorgio Agamben e riapparsa da poco (Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, pagg. 314, euro 16,50).
Non è un caso ma un destino che Carl non si chiami Karl. La matrice cattolico-romana e latina è decisiva nella sua biografia intellettuale. La tradizione a cui si richiama Schmitt è lo jus publicum europaeum, di cui «padre è il diritto romano e madre la Chiesa di Roma»; la fede in cui nacque, visse e morì è quella cattolica apostolica romana; «la concezione di Schmitt - notava Hugo Ball - è latina»; la lingua latina era per lui «un piacere, un vero godimento»; un suo saggio chiave è Cattolicesimo romano e forma politica, e l'annesso saggio sulla visibilità della Chiesa. E non solo. La critica di fondo che Schmitt rivolge alla sua Germania è «il sentimento antiromano» che la percorre da secoli e che sostanzia la differenza tra cultura evangelica e cattolica. È una divergenza che spiega molte cose del passato e anche qualcuna del presente. Compresa quell'asprezza intransigente dei tedeschi e di altri popoli di derivazione protestante verso i Paesi mediterranei di formazione greco-latina e cattolico-romana. È quello per Schmitt il vero spread tra tedeschi e latini.
Ma Schmitt va oltre e coglie l'incompatibilità tra «il modello di dominio» capitalistico-protestante dei tedeschi e il concetto romano-cattolico di natura, col suo amore per la terra e i suoi prodotti (che Schmitt chiama terrisme). «È impossibile - scrive Schmitt - una riunificazione tra la Chiesa cattolica e l'odierna forma dell'individualismo capitalistico. All'alleanza fra Trono e Altare non seguirà quella di ufficio e altare o fabbrica e altare». È possibile invece che i cattolici si adattino a questo stato di cose. Per Schmitt il cattolicesimo ha il merito d'aver rifiutato di diventare «un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sanitario per lenire i dolori della libera concorrenza». Schmitt ravvisa un'antitesi radicale tra l'economicismo, condiviso dai modelli americano, bolscevico e nordeuropeo, e la visione politica e mediterranea del cattolicesimo, derivata dall'imperium romano. Rifiuta pure di riferirsi ai valori perché di derivazione economicista.
Nei saggi e nelle interviste raccolti da Agamben, figura anche un testo che apparve in Italia nel '35, in un'antologia curata da Delio Cantimori col titolo di Principi Politici del Nazionalsocialismo. Peccato che non siano stati più ripubblicati il saggio introduttivo di Cantimori e la prefazione di Arnaldo Volpicelli che sottolineava le divergenze tra fascismo e nazismo, e fra la teoria di Schmitt sull'Amico e il Nemico e l'idealismo di Gentile, a cui egli si ispirava, per il quale il nemico era accolto e risolto nell'amico, ogni alterità era superata nella sintesi totalitaria e «sostanza e meta ideale della politica non è il nazionalismo ma l'internazionalismo». Qui sta, diceva Volpicelli, «la differenza fondamentale e la superiorità categorica del corporativismo fascista sul nazional-socialismo». A proposito di Hitler, Schmitt ricorda che una volta confessò di provare compassione per ogni creatura e aggiunse che forse era buddista. Hitler era gentile nei rapporti personali, nota Schmitt, e non aveva mai visto il mare. Riferendosi al suo ascendente sul pubblico, rileva «la sua dipendenza quasi medianica da esso, dall'approvazione, dall'applauso interiore».
Le interviste percorrono i punti centrali delle opere di Schmitt: la critica al romanticismo che sostituisce Dio e il mondo con l'Io; il Nomos della terra e la contrapposizione con le potenze del mare; la derivazione teologica dei concetti politici; la dialettica amico-nemico; la teoria del partigiano e la sovranità come decisione nello stato d'eccezione; quel decisionismo peraltro estraneo alla sua indole («Ho una peculiare forma di passività. Non riesco a capire come la mia persona abbia acquisito la nomea di decisionista», confessa con autoironia). E poi la sua raffinata passione letteraria, anche in questo erede di Machiavelli.
C'è una ragione di forte attualità del pensiero schmittiano. È la sua doppia previsione della spoliticizzazione che avrebbe portato al dominio mondiale dei tecnici e dell'avvento di guerre umanitarie che sarebbero state più inumane delle guerre classiche, perché condotte nel nome del bene assoluto contro il male assoluto. L'intreccio fra tecnica, economia e principi umanitari è l'amalgama che comanda oggi il mondo. Per assoggettare i popoli, scrive profeticamente nel '32, «basterà addirittura che una nazione non possa pagare i suoi debiti». Schmitt descrive «la cupa religione del tecnicismo» e nota che oggi la guerra più terribile può essere condotta nel nome della pace, l'oppressione più terrificante nel nome della libertà e la disumanità più abbietta nel nome dell'umanità. L'imperialismo dell'economia si servirà dell'alibi etico-umanitario. Il potere, avverte Schmitt, è più forte della volontà umana di potere e tende a sovrastare in modo automatico, impersonale: «non è più l'uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui». Non dunque un complotto ordito da poteri oscuri ma un automatismo indotto da una reazione a catena non più controllata dai soggetti umani. Quella reazione a catena passa dall'incrocio fra tecnica e finanza ed è visibile nell'odierna crisi globale. Da qui la necessità di rifondare la sovranità della politica. E di ripensare al Machiavelli del '900, quel tedesco in odore di romanità che ipotizzava la nascita di un patriottismo europeo. La Grande Politica di Schmitt e il suo nemico: il Tecnico, bardato di etica, a cavallo della finanza.
(di Marcello Veneziani)
Pubblicato da agsassari.altervista a 14:56 Nessun commento:
Etichette: cultura
00:05 Publié dans Philosophie, Révolution conservatrice, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : carl schmitt, politologie, théorie politique, sciences politiques, philosophie, révolution conservatrice | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 30 novembre 2012
Sexual Liberation and Political Control
Sexual Liberation and Political Control
“Liberalism, by the inner dynamic of its logic, was forced to become an instrument of social control in order to avoid the chaos which it created by its own erosion of tradition and morals. Democratic man could not be left to his own devices; chaos would result. The logic was clear. If there is no God, there can be no religion; if there is no religion, there can be no morals; if there are no morals, there can be no self-control; if there is no self-control, there can be no social order; if there is no social order, there can be nothing but the chaos of competing desire. But we cannot have chaos, so therefore we must institute behavioral control in place of the traditional structures of the past — tradition, religion, etc. Abolishing tradition, religion and morals and establishing ”scientific” social control are one and the same project.”
— | E. Michael Jones, Libido Dominandi — Sexual Liberation and Political Control (via zerogate) |
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, contrôle, libération sexuelle, manipulation, manipulations médiatiques | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 29 novembre 2012
"FRANCIS COUSIN : L'ETRE CONTRE L'AVOIR"
"FRANCIS COUSIN : L'ETRE CONTRE L'AVOIR"
Méridien Zéro a reçu Francis Cousin, philosophe, pour son dernier ouvrage "L'être contre l'avoir".
Pour écouter:
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, entretiens | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 25 novembre 2012
Nietzsche, Physiology, & Transvaluation
Nietzsche, Physiology, & Transvaluation
By Mark Dyal
Ex: http://www.counter-currents.com/
“Whenever the will to power falls off in any way, there will also be physiological decline, decadence. And when the most masculine virtues and drives have been chopped off the god of decadence, he will necessarily turn into a god of the physiologically retrograde, the weak.” – Friedrich Nietzsche[1]
Bourgeois bodies exist only within a matrix of consumption, so much so that even “healthy lifestyles” are merely another marketing niche to be utilized by demographically defined individuals seeking more self-expression and corporate-friendly individuality. Health, as bourgeois capitalist science understands it, is most useful as a way of prolonging a life of consumption. This is clear when even radical scientists (such as New Biology advocate Bruce Lipton) advise their audiences to use health as a way to live “happier and longer.” Comfort, peace, security, and the prolonging of life are there for the taking – so long as the dystopia that makes health and fitness marketable to begin with is ignored.
But, these same arguments of bodily manipulation may be read as the promise of a foundation upon which a new cultural and physiological reality may develop. If we become soft and weak under the manacles of bourgeois modernity, might we also become hard and strong by the counter-narratives being created at the extreme edges of modernity? If bourgeois scientists tell us that we may counter the effects of modernity with even more softness, ecumenicalism, and “love,” they do so only because of a prohibition against bodily violence, hierarchy, and discrimination; and to direct the body even further away from its natural inclinations.
But does the body need violence, hierarchy, and discrimination? What is it about the naturalness of the body that is so dangerous? If softness and “free love” encourage one avenue of manipulation, what might become of us if harshness, precision, strictness, and a reimagining of our heroic past became our ideals? What might happen if, in all this talk about the body and physiology, there was a way to better understand the problems of morality and bourgeois selfhood? It is the purpose of this paper to address these questions while examining Friedrich Nietzsche’s understanding of physiology and the consequences of vitality.
Physiology versus Metaphysics
From his earliest notebooks and teaching materials in the 1870s to his last discernable thoughts in the 1880s, Friedrich Nietzsche was convinced that the body was the key to all of the causes of modern man’s cultural and intellectual degeneration. This was due in large part to the Christian and scientific separation of mind/soul and body, which not only made an abstraction of the body in order to convince men of their own divinity, but also, more importantly, encouraged them to ignore the bodily origins – and bodily connections – of what the church and scientists assumed made them divine. Against the modern metaphysical explanations of the “burden of man,” Nietzsche followed the Greeks and proposed instead the “nature” of man’s existence.
Nietzsche wrote so much on physiology that it is difficult to find a definitive statement or ideal on the subject. As we will see, Nietzschean physiology is primarily a way of reuniting the body and soul of the Greek ideal. Yet, it was not merely a metaphorical tool, for Nietzsche was deeply concerned that modern men were unable to understand their place in the world because of their inability to understand physiology. For the body, its instincts, and general functions was the source of consciousness, the will, and reason. Its vitality was, thus, directly related to the contours and functioning of all communicable human experience.
Through a complex web of signification, education, and communication, the body was also the source of morality and political philosophy. The body, and how humans come to care for, treat, ignore, or worship it, says much to Nietzsche about the ideals and supraordinate goals of a form of life. Later, we will examine how ascendant and descendant forms of life understand and use the body. First, however, we begin with a rough chronology of Nietzsche’s physiological philosophy.
In 1871, Nietzsche taught a course on Greek rhetoric that allowed the young professor to discuss at great length the power of persuasion in a world knowable only through interpretation. This epistemological approach put him at odds with the more established faculty members who sought metaphysical certainty over metaphorical mystification. However, far from stopping at an epistemological demolition of truth and reality, Nietzsche grounded epistemology itself in physiology, arguing that bodily processes limit and direct grammar, logic, and causality – the underlying principles through which we know the world.[2]
In a notebook entry from the same period, Nietzsche toyed with the notion that art is a manifestation of instincts making themselves known through consciousness. He posited that ideals, as well, have instinctual and thus bodily origins.[3] A few years later, in his “middle period,” Nietzsche more confidently discussed physiology and instincts, arguing that the intellect itself is only the symptom and instrument of “a bodily drive.”[4] This was part of a general argument that defined this period of his thought.[5] Whereas his earliest works can be said to organize around the conflict between science, art, and philosophy (and the concomitant divergence of truth and beauty), the middle period trilogy[6] is built upon Nietzsche’s use of physiology as a way to move beyond metaphysics.
This movement beyond metaphysics was a two-fold process. The first involved Nietzsche’s own study of physiology. Christian Emden makes a persuasive case that Nietzsche came to regard physiology so highly as a result of his own suffering. Wracked with headaches, nausea, and poor vision throughout his teaching tenure in Basel, Nietzsche poured through the scientific literature of the day, seeking diagnostic and curative possibilities. His notebooks indicate that he was particularly impressed with the ideas of Friedrich Albert Lange, a prominent philosopher of materialism who studied the physiology of sensory perception. Lange suggested that mental states such as thinking or feeling were the result of physiological functions occurring at the conceptual and preconceptual level. He was particularly interested in the physiology of thought, which he studied metaphorically through an examination of the mechanics of speech. His work theorized that thought is subject to constantly fluctuating bodily stimulation.[7]
As for Nietzsche himself, the two volumes of Human, All Too Human were written as an act of war against the physical pain of his everyday life. Gary Handwerk explains that this pain led to Nietzsche’s new aphoristic style and identity as a critic of Schopenhauer’s pessimism. His self-transformation was a question of mood and tone, and bespoke of a style that hit hard, fast, and precise. But Nietzsche knew that his style was also a direct reflection of his physiological state, and, importantly, he began to assume that such was the case for all philosophers. What made Nietzsche’s new style so martial (in regards to its subject matter), though, was his rejection of pessimism, for he had become determined to embrace a love of life that especially included and celebrated its darkest moments.[8] Nietzsche got no “enlightenment” from suffering, apart from realizing that it is an everyday part of life. As such, he believed – much to the chagrin of Christian priests and modern progressives – that suffering must combine with joy to teach us who we are, and that, to deny the one for the sake of the other was to commit an act of cowardice in the very face of life.
The second process involved making this type of “physiological knowledge” the basis of many human experiences assumed by religion, science, and philosophy to come from a metaphysical source. To do so, he turned to the instincts, specifically theorizing the origins, content, and purposiveness of this much-maligned mystery of the body. Like Lange, he saw the instincts as a product of physiological drives. But unlike Lange, he was convinced that the body’s instinctual processes produced consciousness, renaturalizing one of the pillars of metaphysics. He even began thinking about the impact of digestion on conceptualization. In the meantime, however, he realized that transvalued instincts gave him a way around the Christian/Platonic belief that exalting the human means to move beyond our animalistic drives.[9]
Having descended from a long line of Protestant preachers, Nietzsche undoubtedly knew, but still studied, the many methods of flesh-desecration promoted by Christianity to save the soul from bodily temptation.[10] He began to see the healthy body as a weapon against a Christianity that stimulated sickness as a means of salvation. But why did it do so? Later, Nietzsche answers the question in a number of ways that point to the political reality of the early church, as well as the nature of the first Christians.
In “The Religious Life” in Human, All Too Human, he follows the latter path to a scathing conclusion: “the saint” is the product of “a sick nature . . . spiritual poverty, faulty knowledge, ruined health, and overexcited nerves.”[11] In other words, the saint is the product of his derelict body and impoverished instincts, and not some metaphysical deity or utopia; just as all behaviors and concepts can be related to the physiological state of their human bearers. This type of analysis served Nietzsche well in his later examinations of the origins of morality. It demonstrates that physiology was not merely a metaphorical platform for explaining human behavior, but in fact, a philoso-scientific way of naturalizing even the most exalted of ethico-behavioral schemes.
Nietzsche maintained this line of thought until the end of his conscious life, making the body a veritable warzone, but one that could be used creatively and artistically against the regimes of metaphysical truth proposed by priests, scientists, and philosophers.[12]
Zarathustra Contra Darwin
In the two years between Dawn and the publication of Thus Spoke Zarathustra, Nietzsche’s health stabilized, allowing him the failed romance with Lou Salomè, and, more importantly, a new perspective on “physiological knowledge” as a critique of the bourgeois Last Man. In Ecce Homo, Nietzsche looked back at this period’s superabundant health and its impact on his thought. Whereas illness had made him a “decadent,”[13] his great health made him instead “the opposite of a decadent.”[14] Thus, he had been blessed with the ability to clearly identify with two divergent human potentialities.
Being decadent, Nietzsche says, gave him a dialectician’s skill for searching out nuances in the most obscure spaces – searching for truth with abandon. But, as one bestowed with greater health, he came to understand that truth (and the search for truth) is a symptom of instinctual and physiological decline (he also explained the value of truth in its relation to certain humans’ need for security). In other words, Nietzsche “recognized how perspectives on life reflected the instinctual circumstances of individual wills.”[15] The clever beginning of Ecce Homo also reveals an important aspect of Nietzsche’s later thought on physiology: that great health and vitality are beyond truth – an idea that he explored in Zarathustra.
Along with eternal recurrence, the Übermensch is one of the two major concepts introduced in Thus Spoke Zarathustra.[16] Philosophically speaking, the Übermensch is the attainment of a complete transvaluation of decadent values, while, from the perspective of physiology, it is the overcoming of the Darwinian Last Man. And, looked at from Nietzsche’s perspective, it is the overcoming of the one through the attainment of the other.
Zarathustra explains that the Übermensch is not the fulfillment of a higher reason, but a higher body, for the body is the “seat of life.” Its energy is ultimately and purely “creative,” and as such, it created the spirit and the will.[17] But these manifestations of bodily energy – primal but unique to each body – are capable of being consciously disciplined, making transvaluation, as we shall see, a project that “starts at home.” Nietzsche means for the Übermensch to be a profoundly physical man, in whom the instincts and drives are coordinated, allowing active energy to guide all thought and action. This is energy, then, that is never reactive but indicative of the harmonious and propulsive will. Nietzsche sheds some light on this human type in his self-description at the beginning of Ecce Homo. In Nietzsche’s words, the Übermensch has “turned out well”:
He is cut from wood that is simultaneously hard, gentle, and fragrant. He only has a taste for what agrees with him . . . what does not kill him makes him stronger. He instinctively gathers his totality from everything he sees, hears, and experiences: he is a principle of selection; he lets many things fall by the wayside.[18]
The Übermensch is the literal embodiment of a superior state of being and a higher awareness that emerges from the harmony of instincts and the willful practice of self-selection and self-hygiene. His will makes all interaction with the world a benefit to himself, even going so far as to court risk, danger, and the possibility of death with the maximum of self-affirmation.[19] In other words, he does not seek or cherish objective survival (random Darwinian fitness)[20] but the pure expression of his will, regardless of the environment.
The Übermensch, though, is a singular phenomenon and not the goal of a common evolution. It is a transvaluation of the “most contemptible” subject of Darwinian evolution – itself the subject of the fifth part of “Zarathustra’s Prologue.”[21] In contrast to the Übermensch, the Last Man suffers from life, avoiding danger, and seeking comfort, base personal gratification, and individual survival; all the while hoping for a long and uneventful life.[22] By following this course, the bourgeois Last Man guarantees his type’s survival. He is “ineradicable, like the flea beetle.”[23] While a Darwinian might rejoice at the fecundity and self-preservation instinct of the Last Man, these only add up to a horribly mediocre human overrunning the earth.
The power, and perhaps confusing nature, of Zarathustra is that it perfectly summarizes vast stretches of Nietzsche’s complex thoughts on art, science, philosophy, physiology, morality, and politics in single sentences. Thus, as Zarathustra explains the internal features of the Last Man, he also explains the external influences and consequences of his behavioral instincts. These influences and consequences seem to revolve around softness. As we know, Nietzsche understands modernity primarily as an ethico-political system based in weakness. Zarathustra tells us that man is growing “smaller,” “modest,” “tame,” “cowardly,” “virtuous,” “mediocre,” and, among a host of other things, clever fingers “that do not know how to form fists.”[24]
In contrast to these traits and virtues, Zarathustra presents a short but dynamic model of the benefits of harshness.
You are becoming smaller and smaller, you small people! You are crumbling, you contented ones! You will yet perish of your many small virtues, of your many small abstentions, of your many small resignations! Too sparing, too yielding – that is your soil! But in order for a tree to grow tall, it needs to put down hard roots amid hard rock! And even what you abstain from weaves at the web of all future humanity.[25]
After Zarathustra connects strength’s need of resistance with “self-love” and the very ability to “will,” he returns to the implications of softness for the future by shifting the focus of the discourse squarely on modernity. He does so in two words: “poor soil.”[26] Poor soil, as he puts it, only grows poor weeds. Modernity, in other words, is only capable of producing inferior human types.
The Last Man survives not on account of any superiority – genetic or ethical – but because he lacks the sufficient energy and higher will to squander himself in pursuit of creative self-affirmation. He considers his survival a virtue rather than a direct expression of his instinctual reality – much like the priests who impose ascetic practices on the strong. The superiority of the Übermensch – over both the bourgeois Last Man and the priests – is ultimately physiological.
The Body and the Priest
Moving toward the late-1880s, it becomes ever more clear that the ethical and political implications of Nietzsche’s thought are visible in his naturalistic, life-affirming physiology. Although as in his earlier works, Nietzsche weaves in and out of the body and the environment, making decadence both a cause and effect of bodily and instinctual weakness, in his later works he focuses more on the political implications of decadence. Still, though, the body and the will are ever-present, as Nietzsche’s life-affirming philosophy demands (of itself and adherents) contest with temporal sources of weakness. Fostering a noble, affirmative type and challenging modernity are inseparable pieces of Nietzsche’s project; as life involves contest, the path to a noble life demands that one challenge the reactive and decadent forces in life.[27]
Nietzsche variously describes these decadent forces as those promoting democratization; exalting of compassion, weakness, and pity; and stimulating a cult of facility and painlessness, in order to make of Europeans a race of sheep-like herd animals.[28] The Übermensch becomes a historical actor because of his transvaluation of these forces. His enemies, likewise, are defined by their unmooring of these forces from their instinctual origins in physiological weakness, illness, and fatigue of life to become, instead, the metaphysical basis of a “good life.” As Nietzsche moved away from Zarathustra and the Last Man, he renewed his focus of attack on the priests. But in doing so, the archetype of decadence remained.
As Nietzsche makes clear in On the Genealogy of Morality, ascetic interpretation is the key to the priest’s struggle for earthly power. He promotes a denatured existence where all active, life-affirming forms of life are discredited. Over and above active, affirmative understandings of nature, the priests become purveyors of a “higher existence.”[29] But, in order to promote such a form of life, the priests must have been considered degenerates by the other – more powerful – castes to begin with.
This priestly subversion of nature is Nietzsche’s best proof that, contrary to Darwin, the weak do not perish of the “struggle for existence,” but in fact thrive in its face. Even if the priests are unable to participate in the natural, superabundant, active existence of the warriors, for example, they continue to cling to life through devotion to asceticism (and denial of the primacy of the body). For Nietzsche, though, this is only the beginning of the problem, as the ascetic practices do not give the priests physiological strength and health, but instead make them more sickly and debilitated. Removed thus from nature, the priests seek a form of self-mastery that promises revenge against life.[30]
Nietzsche not only sees in this proof that priestly metaphysics is an outgrowth of physiological degradation, but that Judeo-Christian morality cannot be understood without realizing the bodily origins of resentment. General morality exists in this scheme as the outcome of the human struggle for existence and the outgrowth of conflicting physiological drives. Morality reflects a constellation of emotions, instincts, and drives peculiar to specific (ascending or descending) human types. As Johnson explains, Nietzsche is not interested in locating morality in nature, but in revealing what moral interpretations tell us about human instinctual reality.[31]
Self-Overcoming and Politics
It is in the face of this transcendentalized decadence and resentment that the Übermensch or the “higher type” must act. But because of the transcendental nature of this decadence, the man who fights to destroy it must start first with destroying its vestiges in himself. This is why the Greek ideal – with its balanced and harmonious relationship between the body and the regulatory instincts – remained central to Nietzsche’s political philosophy. Against the anti-nature of the priests, the higher type must embrace the “evil” instincts – all of the active, dangerous, harsh, spontaneous, outer-directed impulses that Judeo-Christian modernity has condemned.
Doing so is the first step away from modernity and toward self-overcoming. The latter, though, is most important here, as Nietzsche displays in the memorable scene in which Zarathustra encounters the shepherd and the snake. Because man is not able to simply go back to periods of strength, will, and natural nobility, he must create of himself a person with character worthy of such a past. It is only through this self-overcoming that we will overcome modernity and the modern Last Man.
The contrast between the Übermensch, Last Man, and the priests – and the instinctual-behavioral distance that separates them – provides a solid foundation on which to build a discussion of Nietzsche’s physiological politics. For each of these human types, we not only have a struggle for mastery between ascendant and descendant instinctual processes, but also an ethico-political environment that reflects this struggle. Again, it is this fluidity between internal and external that demonstrates Nietzsche’s commitment to the Greek ideal as a potential post-modern political reality. It also reveals each unique individual’s path toward self-and-modern-overcoming.
Nietzsche’s last works and notebooks of 1888 focus on ascendant and descendant lines of human development. While these lines are not teleological, he believes, first, that they can be demonstrated historically and physiologically, and second, that each person embodies one of these two lines. As he states in Twilight of the Idols,
Selfishness is worth only as much as the physiological value of the selfish person: it can be worth a lot or it can be worthless and despicable. Individuals can be seen as representing either the ascending or descending line of life . . . If they represent the ascending line, then they have extraordinary value, – and since the whole of life advances through them, the effort put into their maintenance . . . might even be extreme.[32]
Nietzsche then combines this eugenic political suggestion with an extreme evolutionary statement, which puts the onus of history squarely on the individual even as it is being decentered.
Individuals are nothing in themselves, they are not atoms, not ‘links in the chain.’ They are not just legacies of a bygone era, – each individual is the entire single line of humanity up through himself. If he represents descending development, decay, chronic degeneration, disease (illnesses are fundamentally consequences of decay, not its causes), then they are of little value.[33]
In the notebook entry that might correspond to this aphorism, Nietzsche discusses at length the social consequences of the rule of the descendant line. In essence, these are all of the prime characteristics of Judeo-Christian morality and political modernity: a preponderance of moral value judgments, resentment, altruism for the weak, and hatred of the strong and vital.[34] We must assume that these societal features are either the symptoms or causes of physiological and instinctual decline, as they are consistently described as intertwined with bodily weakness and decadence.
By understanding moral judgments as symptoms of physiological thriving or failure, Nietzsche is able to explain the conditions of preservation and growth represented in these lines of development. Forms of life, more specifically, ascendant and descendant forms of life, he explains, “educate the will” through morality, art, and aesthetics.[35] These produce what he calls “regulating instincts,” which, in ascending forms of life, stimulate to pride, joy, health, enmity and war, reverence, strong will, the discipline of high intellectuality, and gratitude toward life.[36] The problem with modernity is that it was formed as part of Christianity’s war against these types of instincts. It has, as he says, taken the side of everything weak and degenerate. Thus, the modern Last Man has poor instincts – those that desire what is harmful to the flourishing of strength, pride, and beauty.[37] As we have seen, the only way to overcome “poor instincts” is by self-overcoming – by transvaluing what is valued by descending forms of life.
Conclusion: Breeding Beauty and Strength
In contrast to the bourgeois “universal green-pasture happiness,” security, harmlessness, comfort, and easy living that has softened the instincts and bodies of the Last Man, Nietzsche suggests a festival of pride, exuberance, and unruliness; and an exclamatory Yes to oneself.[38] “Aristocraticism of the mind,” he says, must consist of pathos of distance from vulgarity, failures, weaklings, and the mediocre.[39]
Once again, we see Nietzsche returning to the Greeks as a curative to modern decadence, for the “festival” he describes matches “middle period” explanations of Greek pride.[40] But it is possible to read this description of the modern features from which one should feel a great distance as a curative of bodily decadence as well. Consciousness, explains Nietzsche, is a part of the body’s communication system, in that what we become aware of (and make communicable) is only that which serves the herd instincts of the human. It is “really just a net connecting one person with another,” he says, “the solitary and predatory person would not need it.” Because “becoming conscious” involves thought, and that “conscious thinking takes place in words, that is communication symbols,” the very ability to know oneself presupposes that one will do so only in terms useful to the herd/community.[41] Although thought is tainted with the herd, action, he says, is inherently personal, because, for the ascendant type at least, the body has the capacity to match “noble” instincts. This leads us back to the idea that great health and vitality are beyond truth.
But it also begs an examination of the role of the immediate environment in the body’s instinctual activity at any moment.
Sit as little as possible; do not believe any idea that was not conceived while moving around outside with your muscles in a celebratory mode as well. All prejudices come from the intestines – sitting down – I have said it before – is a true sin against the Holy Spirit.[42]
Nietzsche’s preferred method of working since at least Human, All Too Human was to walk or hike with a small notebook – carried either by himself or a companion – in which to note his various, evidently rapidly occurring thoughts. He not only felt it a “sin” to sit down but to wake in the morning and read a book. This was the habit of his Basel colleagues, and it helped Nietzsche’s attitude against academics to harden into contempt. These were men suited for the civil service, with wills to match their morbid bodies, he noted.[43]
In critiquing the philologists’ squandering of moments most full of vital energy on books, and in turn, creating a body of work (certainly not a philosophy) based on idleness, Nietzsche was working from the premise that conceptual vitality – philosophy itself – depended on the body’s instinctual vitality – what he called in Ecce Homo, the “surplus of life,” or superabundance of bodily energy flowing freely from the will and instincts.[44]
While he certainly understood transvaluation as part of the undamming of these forces, he also demanded that the body be made to move in order to create most vitally. It certainly seemed to help, as well, that the body move in beautiful environs. Nice, Genova, Sils-Maria, and Torino are striking in their man-made and natural beauty, combining the human nobility he so desired with demanding topographical harshness.[45]
With this in mind we may extrapolate from the “aristocratic festival” the true purpose of the Greek idealization of beauty and creativity. If form equals content, if the mind and body are one and the same, if “the will strives for purity and ennoblement,” then what did the Greeks gain from surrounding themselves with so much beauty? What, in turn, is the cost of modern vulgarity and lack of beauty?
Once again, the distance between the Greeks and moderns makes itself known, for we must remember that Greek and Nietzschean beauty does not prohibit violence or harshness. In fact, as an ascendant element of life, it could not exist without them. While for Nietzsche this had much to do with a transvaluation of modern softness, for the Greeks (Nietzsche’s “Greeks” were always pre-Socratic) it was natural and divine to equate beauty with the extreme effort required for its creation.
With the ideal of the Greeks in mind, Nietzsche began thinking of a new form of life to be made possible by breeding strength. He saw in it another grand transvaluation of the entire sum of modern institutions and values; of the “progressive diminishment” of man’s “will, responsibility, self-assurance, and capacity to set self-serving goals.” To fight this, he recommends moral and ethical systems (at a societal level) that value self-selection and hardship, education only to benefit the higher type of man, distance between ascendant and descendant types, and freely adopting all values that are forbidden by modernity.[46]
Elsewhere, he explains that, as long as democratic and socialist “ideas” are fashionable, it will be impossible for humanity to move en masse toward an ascendant form of life. However, he says, anyone who has studied life on earth understands the optimal conditions for “breeding strength:” “danger, harshness, violence, inequality of rights, . . . in short the antithesis of everything desirable for the herd.”[47] This “fire next time” scenario is of great contrast with the exuberance and pride of individual self-overcoming, but these are not necessarily contradictory as much as complimentary.
For in embracing strength, one must reject weakness; in embracing harshness, one must reject mildness; in embracing beauty, one must reject vulgarity; in embracing oneself, one must reject the mob. Once again, we’ve moved within and without the body, for overcoming the modern Last Man must begin with self-overcoming.
Notes
[1] Friedrich Nietzsche, “The Anti-Christ,” in The Anti-Christ, Ecce Homo, Twilight of the Idols, and Other Writings, trans. Judith Norman, ed. Judith Norman and Aaron Ridley (Cambridge: Cambridge University Press, 2005), 14 [17]. (All quotes from primary Nietzschean sources include page and aphorism number.)
[2] Christian J. Emden, Nietzsche on Language, Consciousness, and the Body (Urbana: University of Illinois Press, 2005), 138.
[3] Friedrich Nietzsche, Writings from the Early Notebooks, trans. Ladislaus Löb, ed. Raymond Geuss and Alexander Nehamas (Cambridge: Cambridge University Press, 2009), 24 (5[25]).
[4] Friedrich Nietzsche, Dawn: Thoughts on the Presumptions of Morality, trans. Brittain Smith (Palo Alto: Stanford University Press, 2011), 77 [109].
[5] An interesting example of how the idea expressed in Dawn 109 evolved can be found in Beyond Good and Evil 36.
[6] Human, All Too Human (1878-1880), Dawn (1881), and The Gay Science (1882).
[7] Emden 105.
[8] Gary Handwerk, “Translator’s Afterword,” in Friedrich Nietzsche, Human, All Too Human II and Unpublished Fragments from the Period of Human, All Too Human II (Spring 1878-Fall 1879), trans. Gary Handwerk (Palo Alto: Stanford University Press, 2013), 558.
[9] Fredrick Appel, Nietzsche Contra Democracy (Ithaca: Cornell University Press, 1999), 21.
[10] Horst Hutter, Shaping the Future: Nietzsche’s New Regime of the Soul and It’s Ascetic Practices (Lanham MD: Lexington Books, 2006), 146.
[11] Friedrich Nietzsche, Human, All Too Human I, trans. Gary Handwerk (Palo Alto: Stanford University Press, 1995), 112 [143].
[12] Paul E. Kirkland, Nietzsche’s Noble Aims: Affirming Life, Contesting Modernity (Lanham MD: Lexington Books, 2009), 11.
[13] Friedrich Nietzsche, “Ecce Homo,” in The Anti-Christ, Ecce Homo, Twilight of the Idols, and Other Writings, trans. Judith Norman, ed. Judith Norman and Aaron Ridley (Cambridge: Cambridge University Press, 2005), 75 [Wise 1].
[14] Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, 77 [Wise 2].
[15] Dirk R. Johnson, Nietzsche’s Anti-Darwinism (Cambridge: Cambridge University Press, 2010), 77.
[16] Although it is problematic to discuss them separately – as to truly be the latter one must fully understand and embrace the former – the purposes of the Übermensch for this paper do not require a detailed examination of eternal recurrence.
[17] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, trans. Adrian Del Caro, ed. Adrian Del Caro and Robert B. Pippin (Cambridge: Cambridge University Press, 2006), 22-24 [Despisers of the Body].
[18] Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, 77 [Wise 2].
[19] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 8 [Prologue 4].
[20] Dirk R. Johnson, 59.
[21] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 9-11.
[22] Dirk R. Johnson, 60.
[23] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 10 [Prologue 5].
[24] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 134-136 [On Virtue that Makes Small 2, 3].
[25] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 136-137 [On Virtue that Makes Small 3].
[26] Friedrich Nietzsche, Zarathustra, 137 [On Virtue that Makes Small 3].
[27] Paul E. Kirkland, Nietzsche’s Noble Aims: Affirming Life, Contesting Modernity (Lanham MD: Lexington Books, 2009), 8.
[28] Curtis Cate, Friedrich Nietzsche (Woodstock, NY: The Overlook Press, 2002), 472.
[29] Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morality, trans. Carol Dithe, ed. Keith Ansell-Pearson (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 85 [III 11].
[30] Friedrich Nietzsche, Genealogy, 85-86 [III 11].
[31] Dirk R. Johnson, 185.
[32] Friedrich Nietzsche, “Twilight of the Idols,” in The Anti-Christ, Ecce Homo, Twilight of the Idols, and Other Writings, trans. Judith Norman, ed. Judith Norman and Aaron Ridley (Cambridge: Cambridge University Press, 2005), 208 [Skirmishes 33].
[33] Friedrich Nietzsche, Twilight of the Idols, 208 [Skirmishes 33].
[34] Friedrich Nietzsche, Writings from the Late Notebooks, trans. Kate Sturge, ed. Rüdiger Bittner (Cambridge: Cambridge University Press, 2003), 242 [14 (29) Spring 1888].
[35] Friedrich Nietzsche, Late Notebooks, 200 [10 (165) Autumn 1887].
[36] Friedrich Nietzsche, Late Notebooks, 242 [14 (11) Spring 1888].
[37] Friedrich Nietzsche, The Anti-Christ, 4-5 [3, 6].
[38] Friedrich Nietzsche, Late Notebooks, 201 [10 (165) Autumn 1887].
[39] Friedrich Nietzsche, The Anti-Christ, 40 [43].
[40] Friedrich Nietzsche, Dawn: Thoughts on the Presumptions of Morality, trans. Brittain Smith (Palo Alto: Stanford University Press, 2011), 190 [306].
[41] Friedrich Nietzsche, The Gay Science, trans. Josefine Nauckhoff, ed. Bernard Williams (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), 212-213 [354].
[42] Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, 87 [Clever 1].
[43] Friedrich Nietzsche, Unpublished Writings from the Period of Unfashionable Observations, trans. Richard T. Gray (Palo Alto: Stanford University Press, 1995) 181-183 [28 (1) Spring-Autumn 1873].
[44] Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, 110 [Birth of Tragedy 4].
[45] David F. Krell and Donald L. Bates, The Good European: Nietzsche’s Work Sites in Words and Images (Chicago: The University of Chicago Press, 1997).
[46] Friedrich Nietzsche, Late Notebooks, 166 [9 (153) Autumn 1887].
[47] Friedrich Nietzsche, Late Notebooks, 31 [37 (8) June-July 1885].
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/11/nietzsche-physiology-and-transvaluation/
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, nietzsche, allemagne, 19ème siècle | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 24 novembre 2012
Citation de Jacques Ellul
Citation de Jacques Ellul
« La pensée qui domine l’ensemble de la société, c’est justement l’existence d’un cours de l’histoire, implacable, nécessaire, qui suppose que tout effort est vain s’il ne se situe pas dans le bateau qui suit le courant… Or, le lieu commun du sens de l’histoire correspond exclusivement à l’idéal du chien crevé. Bon petit chien bien gonflé (nécessaire pour surnager) qui s’installe au filet le plus fort du courant et descend le fil de l’eau en se dandinant gravement avec des airs de docteur ès sciences politiques et qui oscille à droite ou à gauche selon les vaguelettes (ses opinions mûrement pensées); parfois un remous lui fait perdre la bonne direction, il hésite en tournoyant (ce sont les scrupules de conscience), il dérive vers un banc de sable (c’est la manifestation de la liberté de sa personne); il se trouve aspiré par un entonnoir vers les fonds (c’est l’angoisse); mais il surmonte bientôt bravement ces tentations, une vague le remet à flot et il poursuit victorieusement son chemin ayant enfin retrouvé la bonne ligne, qui le porte, évidemment, vers la fin nécessaire. Et plus il avance, plus il se gonfle orgueilleusement d’horribles certitudes sur sa liberté et le sens de l’histoire, qui le font s’affirmer plus turgide chaque fois, jusqu’au moment où l’imprégnation de l’âme par cette corruption le fait s’en aller en lambeaux de matières affreuses, à jamais décomposées. »
Jacques Ellul, « Exégèse des nouveaux lieux communs », Ed. La Table Ronde.
00:05 Publié dans Histoire, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, philosophie, jacques ellul | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 21 novembre 2012
A Liçao de Carl Schmitt
00:05 Publié dans Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : carl schmitt, théorie politique, sciences politiques, politologie, philosophie, nouvelle droite | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mardi, 20 novembre 2012
Robert Nisbet oltre l'etichetta di conservatore
Robert Nisbet oltre l'etichetta di conservatore
Dal Secolo d'Italia del 16 settembre 2012
Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.be/
00:05 Publié dans Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : robert nisbet, théorie politique, politologie, sciences politiques, philosophie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 19 novembre 2012
Unité du monde et destin du peuple
Le sacré : Unité du monde et destin du peuple
Ex: http://vouloir.hautetfort.com/
Le problème posé ici est le suivant : que peut signifier la locution « unité du monde », que certains ont déjà élevée au rang de concept fondamental (1) et dans laquelle, apparemment, se trouve beaucoup plus qu'un antidote au dualisme métaphysique et chrétien ? En d'autres termes : comment penser “l'unité du monde” ? Pour répondre à cette question, considérons d'abord la formule grecque panta : en, « tout : un ». C'est, pourrait-on dire, sur ces simples mots d'Héraclite d'Éphèse que s'ouvre la pensée européenne. Toute sa vie, Heidegger n'a cessé de “tourner” autour d'eux en s'en rapprochant. « Tout : un » : que peut vouloir dire cela ?
“Tout” est la multiplicité changeante de ce qui est, c'est-à-dire de ce qui se manifeste, se présente à nous : tout ce qui change et devient, tout ce qui coule. Panta rhei, « tout coule », dit une autre maxime d'Héraclite. Tout coule, et pourtant tout est un. Comment ce qui constitue la multiplicité même peut-il être “un” ? Qu'est-ce que cette unité du divers ? “Unité” signifie-t-il ici “totalité”, “globalité” ? Est-il ici seulement question de cette évidence ensembliste qui veut que chaque chose soit un élément de l'ensemble de toutes les choses, contribue à l'unicité de cet ensemble ? Certes non. Panta : En pourrait également s'énoncer : chaque étant : un. La question qui surgit alors est : comment ce qui à chaque instant se manifeste comme pluralité peut-il être un ?
L'unité, par ailleurs, ne saurait être conçue en tant que “principe unifiant”, causal ou non. Une telle conception resterait enfermée dans le dualisme métaphysique, auquel d'ailleurs elle s'apparente, puisqu'elle ne permettrait jamais de résoudre la dualité de l'étant et du principe. La réponse souvent invoquée par la théologie chrétienne, qui postule l'unité du monde en Dieu, n'est en rien satisfaisante, dans la mesure où elle ne produit qu'une pseudounité surajoutée à la dualité fondamentale du monde et de Dieu.
En fait, si nous voulons véritablement saisir ce que contient le panta : en héraclitéen, il nous est demandé, autant que possible, de sortir du “règne” de l'essence platonicienne, de l'essence comme principe ultime constituant le “soi” de chaque étant. Une telle conception des essences fondatrices accessibles à la ratio pèse, on le sait, sur la plupart des modes explicatifs en usage aujourd'hui. Cependant, elle ne va pas “de soi” : elle n'est venue qu'après la pensée présocratique (qui, à l'exception du poème de Parménide, nous est parvenue sous forme de fragments) et avant celle de Heidegger, qui s'est d'ailleurs constamment appuyée sur la précédente.
Mais revenons-en au “paradoxe” évoqué plus haut : panta : en / panta rhei. On interprète souvent maladroitement l'image héraclitéenne du fleuve. « On ne se baigne jamais deux fois dans la même eau (du fleuve) », dit en substance Héraclite. On en déduit que le fleuve n'est qu'en tant que devenir — en se gardant bien de se demander ce que peut signifier ce “devenir” —, et l'on conclut que, hors du devenir, il n'y a rien (à penser). On passe alors à côté de ce que voulait dire Héraclite, et à côté de ce qui, dans ce “devenir”, se présente comme question.
Tout dans le fleuve est courant, changement, devenir. Mais qu'est-ce qui fonde ce devenir comme devenir-du-fleuve, et, plus précisément, devenir-de-ce-fleuve-ci ? Autre formulation (qui est plus qu'une boutade) : si le fleuve est devenir, il faut bien qu'il soit. De fait, pour que soit pensable le devenir du fleuve, il faut qu'une entité rassemble en soi ce devenir, ou plutôt (pour éviter de penser à une entité “agissante”) que ce devenir se rassemble en une entité : on ne se baigne jamais deux fois dans la même eau, mais cette eau qui coule est toujours celle du fleuve. Le fond de l'image du fleuve réside en ceci que le devenir voile ce qui est, dirons-nous par approximation, sa condition essentielle de possibilité : l'unité, celle-là même en laquelle sont assemblées les diverses et changeantes apparences (c'est-à-dire : manifestations de la présence) de l'étant.
Cette unité où sont assemblés les divers modes de l'apparaître d'un étant, Heidegger la nomme Wesen. Ce mot est généralement traduit par “essence”. (Il n'est d'ailleurs pas une des nombreuses inventions terminologiques de Heidegger, mais appartient à la langue philosophique allemande, qui l'utilisa pour rendre le latin essentia). Il ne faut pas oublier néanmoins toute la distance qui sépare ce Wesen de l'essence platonicienne. Osons une définition : Wesen (“essence d'un étant”), “unité rassemblante de ses modes de présence (de ses manifestations phénoménales)”. Être veut alors dire “déployer” son essence, apparaître de manière multiple, changeante, ambiguë, dans (et à partir de) l'unité de son essence. Il apparaît alors clairement que l'essence-unité rassemblante n'est “extérieure” ni à l'étant ni au temps, qu'elle n'induit aucune coupure entre un monde dit “sensible” et un monde dit “intelligible”. L'essence étant unité rassemblante des apparences, elle ne saurait être “au-delà” de ces apparences. Ne pouvant être pensée hors de son “déploiement” en présence, hors de son surgissement en un devenir, elle ne saurait non plus être “au-delà” du temps.
Les messagers de la “divinité”
Loin d'induire une coupure entre le “sensible” et “l'intelligible”, la notion heideggérienne de Wesen réduit celle-ci à néant. L'essence se manifeste en présence ; elle n'est pas accessible hors de cette manifestation. Les présocratiques, d'ailleurs, étaient incapables de concevoir la moindre distinction entre le sensible et l'intelligible pour la simple raison que, pour eux, le penser et le sentir n'étaient que des modes d'un même “faire face à la présence”. En allemand, “briller” et “apparaître” se disent tous deux scheinen. L'éclat, la lueur, l'apparence : der Schein. Paraître, c'est briller, laisser se déployer la totalité des signes de soi. Être et (ap)paraître ne sont donc nullement antinomiques. Être, c'“est” paraître, tout comme pour le soleil, être, c'“est” briller. Panta : en signifierait alors d'abord ceci : la pluralité des phénomènes est toujours rassemblée dans l'unité d'une essence (Wesen). La coupure entre “l'intelligible” et le “sensible” n'est qu'un sous-produit de la pensée socrato-platonicienne.
Il vaut la peine d'insister. L'essence (Wesen) n'“est” aucun principe, ni actif (l'unité est toujours, pourrait-on dire, intrinsèque et implicite) ni explicatif (expliquer est toujours re-présenter ; or, par l'unité, on ne re-présente rien, et l'unité elle-même est sans doute absolument non re-présentable). Heidegger a parfois utilisé l'image de la coupe pour faire sentir que cette unité n'“est” pas un lien, causal ou non, qui unirait en interdisant on ne sait quel éparpillement. Bien au contraire, il faut s'exercer à penser la coupe comme recueillant en elle la multiplicité, tout en n'étant pas “extérieure” au recueillement. (La coupe du Wesen est à la fois “recueillante” et “recueillement”).
Heidegger parlait des dieux (die Götter) en les appelant « les divins » (die göttlichen). Il voyait en eux les messagers de la « divinité » (die Gottheit). Maître Eckart, Angelus Silesius et d'autres ont aussi parlé de Gott ou de Gottheit en termes d'unité, de consubstantialité, de co-propriation. En fait, Gottheit ne signifie rien d'autre que cette « unité du monde » au sein de l'unité-recueillante que nous venons d'évoquer. Qu'est-ce alors que le sacré ? Il est le dévoilement de cette unité, et l'homme, en tant que faisant — face-à-l'étant (Da-sein), en est le dépositaire.
Essayons maintenant d'approcher l'unité-recueillante du monde en certains de ses modes de dévoilement. L'un des modes les plus importants est constitué par le peuple (das Volk). Qu'est-ce qu'un peuple ? Ce n'est ni une somme d'individus ni une structure évoluant dans un temps linéaire. Un peuple est une entité qui rassemble les ancêtres, c'est-à-dire le passé-origine surgissant dans l'immédiat d'une présence-au-monde, les présents, c'est-à-dire ceux qui vivent aujourd'hui et qui font la présence du monde, et les hommes-à-venir, notion qui représente l'anticipation dans la présence au monde d'un être-en-projet.
Pas d'opposition entre le sacré et le profane
L'unité-peuple est pour nous l'un des modes où se dévoile la Gottheit, la divinité de l'unité du monde. Nous dirons, par suite, que le sacré ne se laisse appréhender authentiquement qu'au sein d'une communauté populaire qui en constitue le « lieu de surgissement ». En ce sens, il n'y a pas de médiateur entre l'homme-d'un-peuple et la divinité ; celle-ci constitue pour lui le plus immédiat. Autrement dit, l'homme n'a accès à l'unité-du-monde qu'à partir (et dans) l'unité-du-peuple. Bien entendu, cela ne signifie pas qu'il n'y ait d'accès au sacré que dans la “religion collective”. Cela signifie que la personne individuelle ne peut s'ouvrir au sacré sans que l'ensemble du peuple soit “présent”, c'est-à-dire délimite le lieu de venue du sacré.
Cette notion de co-propriation de l'homme authentique et de la communauté populaire dans l'unité-recueillante de l'être est à la fois très immédiate, car elle s'adresse à une sensibilité originaire, et très difficile à saisir, car elle s'exprime difficilement au travers d'un langage bâti sur l'effectivité du concept. Heidegger la développe à partir d'un certain nombre de considérations sur l'idée de monde.
Pour Heidegger, un « monde » est un « existential », autrement dit un mode d'être de l'homme historial, c'est-à-dire de l'homme en tant qu'il est engagé dans le déploiement du destin de la communauté dont il relève. Qu'est-ce à dire ? Que cet homme ne vit jamais dans un “monde” qui lui serait indifférent et pré-existant, comme une boîte contenant un objet, mais qu'à proprement parler, il fonde sans cesse le “monde” en prenant sa part du destin communautaire. Heidegger dit : der Welt ist nicht, sondern weltet (le monde n'est pas, il mondifie). Le monde mondifie : il se manifeste comme une unité rassemblant d'une manière toujours progressante l'homme d'une communauté, cette communauté elle-même, les étants qui viennent à la “rencontre” de l'homme et les modes existentiels généralement représentés comme des fonctions culturelles. Cette unité de tout ce qui est dans un monde et de ce qui le fonde (l'homme historial) constitue à nos yeux un mode de la divinité.
Un temple n'est sacré que dans la mesure où il est un lieu de co-appartenance de la communauté du peuple et des hommes de cette communauté. S'il est ainsi, ainsi est-il immédiatement perçu. Cette immédiateté est le signe de l'unité qui se manifeste dans la rencontre de l'homme et du temple, par laquelle le temple est livré à son être, et l'homme révélé au sien. Quand, au contraire, le temple devient un “médiateur” entre l'homme et le dieu, il a déjà cessé d'être sacré. (Une réflexion sur la notion d'“idole” pourrait être développée à partir de là). Que nous le voulions ou non, nous ne pourrons plus jamais voir le temple d'Apollon à Delphes ainsi que le voyait un Grec contemporain de ceux qui l'ont bâti. Pour celui-ci, la place du temple à l'intérieur de la polis allait de soi. Or, c'est précisément cet “allant de soi” qui signale l'étant mondain (la Chose) en opposition à l'étant hors-du-monde (l'Objet). On comprend, dès lors, que pour un paganisme authentique, il ne saurait y avoir de “lieux saints” en opposition à des “lieux profanes” (tout comme il ne saurait y avoir, en général, d'opposition entre le profane et le sacré). Est sacré, relève de la Gottheit, de l'Un, tout lieu “mondain”, toute chose, toute région du monde en tant que ce dernier est sans cesse fondé et soutenu par la communauté du peuple. Tacite disait à propos des Germains : « Ils nomment Dieu le secret des bois ». On pourrait traduire : « Le sacré est partout où se fonde le monde de la communauté du peuple ».
Ce qui se manifeste dans la divinité, comme l'unité du monde, se manifeste partout, mais ne s'institue nulle part comme pouvoir (2). De même, la divinité n'étant aucun principe, elle n'est source également d'aucun principe, et en particulier d'aucune morale. Plutôt que d'“homme bon”, il vaudrait donc mieux, dans la perspective où nous nous plaçons, parler d'homme “bien destiné”, au sens que Heidegger a su retrouver chez les présocratiques. L'homme bien destiné est celui qui est “tout-un” avec le destin lui-même, c'est-à-dire avec l'Un de tous les tenants du peuple.
Il ne saurait pour nous y avoir de doute sur ce point : l'homme n'existe qu'en tant qu'homme-du-peuple. Le peuple en tant qu'unité à penser ne se définit pas par l'homme. Le peuple est ce dans quoi se trouve réalisée une unité essentielle, en même temps que le mode d'approche de cette unité. Comme “lieu” (topos) de réalisation d'un passé, d'un présent et d'un “à-venir”, le peuple n'est rien qui se laisse définir par l'homme. C'est au contraire l'homme qui ne se trouve révélé comme homme que par son appartenance à un peuple. Et si l'on tient à parler de “volonté de puissance”, on doit admettre que celle-ci tient son être de l'être du peuple, et non l'inverse.
Mais qu'en est-il de l'être du peuple ? Notre formulation, loin de régler les problèmes, les fait au contraire surgir avec force. Certes, on peut conjecturer un lien fondamental avec ce que Heidegger appelle la temporalité de l'être, et qu'on peut appeler aussi tridimensionnalité du temps historique. Mais des interrogations surgissent, en particulier dès que l'on parle d'« auto-affirmation de la volonté de l'homme » ou d'« auto-affirmation de l'homme dans la volonté ».
L'image d'un homme en pamoison devant sa propre marche vers la puissance, c'est-à-dire finalement devant lui-même, est à la fois puérile et bien commune : le réalisme socialiste l'a multipliée à l'infini. Ce n'est pas sur une telle image que l'on peut fonder le sacré, bien au contraire. Le mot “auto-affirmation” signifie-t-il affirmation de l'homme en tant que “porteur d'une volonté” ? Supposons cela. Les difficultés auxquelles on se heurte sont tout de suite insurmontables. Définir l'homme comme “sujet voulant” n'est rien d'autre qu'utiliser un mode “moderne” de la définition métaphysique de l'homme comme “animal rationnel”. Déplacer le centre de gravité de la raison vers la volonté ne change rien quant au fond (surtout si l'on pense la volonté comme projection de la raison dans un univers de pensée nominaliste). L'homme comme “animal doué de volonté” reste un fantasme métaphysique. En outre, une telle définition revient à se couper définitivement l'accès au peuple en tant que phénomène fondateur, et donc, à l'essence de la volonté comme pro-venant de celle du peuple. L'homme en tant que porté-par-un-peuple ne saurait donc se définir, et encore moins s'affirmer, comme “sujet voulant”. Tout au plus peut-il interpréter la volonté comme ouverture au destin du peuple et lien à son essence. Un tel homme ne dit “je” que secondairement.
Homme-du-peuple et liberté-pour fonder-un-monde
[Les métaphores heideggériennes restituent « l'appel silencieux de la terre », sol sur lequel prend pied notre liberté. Ci-dessous : gravure de Bodo Zimmermann (1902-1945)]
Allons plus loin. Aussi paradoxal que cela puisse paraître, l'homme comme “animal-doué-de-volonté” ressemble à s'y méprendre à l'homme du nihilisme achevé, c'est-à-dire à l'homme de la technique mondiale. En effet, l'homme du nihilisme achevé se constitue comme tel en tant que, dans son “faire”, il se reconnaît lui-même comme seule réalité. “Poétiquement”, il est cet étant solitaire à qui l'existant dans son ensemble ne renvoie plus que sa propre image, tellement vidée de substance qu'elle n'est plus qu'un leurre. Poser l'homme comme “animal voulant”, après qu'il l'eut été comme “animal rationnel”, c'est-à-dire, en fin de compte, comme individu absolu, c'est s'enfermer à terme dans cette fatalité de l'homme seul parmi ses avatars. Or, si l'essence de la technique n'est rien de technique, l'essence de l'homme n'est rien d'humain. L'homme comme “animal voulant” est précisément celui qui a perdu tout lien avec le “non-humain en l'homme”, qui a totalement oublié l'être.
Nous dirons, au contraire, que le non-humain est peut-être ce en quoi résident l'essence du sacré comme celle du peuple. Nous prendrons alors le mot d'“auto-affirmation” dans le sens que lui donne Heidegger, en parlant, par ex., de « l'auto-affirmation de l'université allemande » (die Selbstbehauptung der deutschen Universität). Ce sens est celui d'un retour à l'essence ou, pour employer un vocabulaire plus expressif, d'une compréhension et d'une explicitation (d'un déploiement) de ce qui appartient en propre à l'homme, de son essentiellement possible. La possibilité essentielle de l'homme, dit Heidegger, est sa liberté. Cette liberté est liberté-pour-fonder-un-monde, c'est-à-dire — si l'on considère les textes que Heidegger a pu écrire “en situation” — liberté que l'homme en tant que porté-par-un-peuple reçoit de la pro-venance, du destin du peuple. La liberté humaine est liberté pour la fidélité à ce destin. Dès lors, la volonté peut être sortie du cadre métaphysique. Il suffit de la penser comme résolution de soi dans le déploiement du destin d'un peuple.
Cette définition peut être difficile à recevoir en tant que notion à penser. Nous sommes, de toute évidence, encore trop conditionnés à penser la volonté comme l'attribut d'un ego absolu. Que dans une pensée radicalement différente de la volonté, l'ego doive se dissoudre (au moins en apparence) dans ce qui ne saurait se ramener à aucun “je”, le destin d'un peuple, voilà qui ne peut que troubler. Ceux qui, les premiers, ont reçu l'appel d'un peuple n'en ont-ils pourtant pas déjà fait l'expérience ? Le peuple dont nous relevons n'est pas en tant que présence ; il est en tant que venant. Nous ressentons son appel, et l'essence de notre action réside dans notre réponse à cet appel. Cette réponse n'est autre que l'expérience que nous faisons déjà de la liberté comme fidélité au destin d'un peuple. Chacun à un moment tragique de leur existence, Heidegger et René Char se sont retrouvés pour reconnaître que « toute grandeur est dans le départ qui oblige ». Cette simple phrase dit tout. L'engagement est fidélité résolue au destin du peuple qui nous appelle en tant qu'“à-venir”.
Quels sont les rapports existant entre le sacré et l'auto-affirmation telle que nous la concevons ? Plus précisément, quelle expérience du sacré avons-nous en tant que nous manifestons cette auto-affirmation ? Répondre à cette question, ce n'est pas dire ce qu'est le sacré aujourd'hui, tâche peut-être impossible, mais dire où il est. Panta : en : voilà Héraclite et voilà où est le sacré. Gott ist in mir das Feuer, ich bin ihm der Schein (Dieu est en moi le feu, je suis en lui l'éclat lumineux) : voilà Silesius et voilà où est le sacré. L'intuition que nous avons du sacré est qu'il réside dans une unité essentielle, et que c'est dans sa lumière que se déploie cette unité. Les textes sacrés indo-européens ne disent pas autre chose : ils disent la lumière dans laquelle un peuple se maintient en tant que peuple, c'est-à-dire la lumière dans laquelle se fait l'unité d'un monde. (Ainsi dans les Védas, où le sacrifice est pris comme acte de soutien du monde).
Que le sacré puisse ou non se passer de dieux, c'est là une question qui vient trop tard ou trop tôt. Quand un dieu est reconnu comme figure, c'est qu'il a déjà cessé d'être en tant que dieu. Qu'est-ce donc qu'un dieu ? Voilà une interrogation face à laquelle la prudence s'impose. Lorsque Friedrich Georg Jünger évoque Apollon [in : Nouvelle école n°35, 1979], il parle d'un dieu qui n'est rien d'humain, qui ne symbolise en aucune façon quelque chose d'humain. Le seul Apollon dont il a voulu s'approcher est celui dont les Grecs de la haute époque avaient l'expérience, qui aussi le seul qui puisse nous concerner. Tout questionnement sur la “réalité effective” du dieu, questionnement nécessairement métaphysique, car refusant d'emblée de prendre en compte ce par quoi le dieu se tourne vers les hommes pour mieux pouvoir le mesurer à un seul critère d'existence “objective”, nous semble oiseux. Relisons ce texte. Apollon y est délivré comme énigme. Cette énigme n'a rien à voir avec les mystères des religions révélées ; elle ne contient ni n'inspire aucun credo, et même elle rejette tout credo comme lui étant essentiellement étranger. Mais elle n'en a pas moins ce caractère incontournable d'inconnu, où Heidegger a cru retrouver le signe premier de la divinité. Quelle est donc l'énigme qui a nom “Apollon” ? Elle n'est pas tel ou tel caractère, tel ou tel attribut, telle ou telle apparence du dieu. L'énigme est l'unité des aspects du dieu, le rassemblement de ses aspects, de ses Scheinen, de ses “apparaître” au sein d'un même. Cette unité est le divin dans Apollon, et la divinité elle-même.
L'unité qui a pour nom “peuple” est aussi un tel mode d'approche de la divinité. Plus précisément, elle est à la fois le mode par lequel la divinité s'approche de l'homme dans le peuple, et le chemin par lequel l'homme en tant que porté-par-un-peuple s'approche de la divinité. Cette unité — qu'encore une fois il serait absurde de penser comme « unité d'un ensemble » — est le non-humain en l'homme. On pourrait alors reprendre, en la modifiant à peine, la sentence de Silesius : Das Volk ist in mir das Feuer, ich bin in ihm der Schein. Considérant le mot Schein dans le sens du grec phainestai, sa signification deviendrait la suivante : « Le peuple est en moi le feu, la flamme » (il est ce qui m'anime, me fait moi, me donne accès à mon essence, ce en quoi j'ai liberté de m'affirmer en tant que l'homme que je dois être), « Je suis en lui l'éclat de l'apparaître » (en tant qu'homme, je suis un aspect, un mode de l'apparaître du peuple, et ceci, en moi, est l'énigme et aussi, peut-être d'abord, le sacré).
On dira encore : quel rapport y-a-t-il entre l'expérience que nous faisons du sacré dans la “nature”, face à (et dans nos rapports avec) l'existant dans son ensemble, et l'unité ? Cette question est assez vaine. Car où donc se réalise l'unité du monde sinon dans une perception de l'existant dans son ensemble, qui, est, comme le dit Heidegger, une “prise en garde” ? Il nous faut en fait réapprendre à penser le monde comme destin, et dépasser autant qu'il est possible la perception comme “activité d'un sujet”. Tant que l'homme demeure en son essence, le monde n'est jamais un “dehors” auquel l'homme aurait accès en tant que sujet. L'homme ne voit le monde en tant que monde qu'autant qu'il est lui-même l'apparaître d'un peuple. Unité du peuple et unité du monde sont deux modes d'un même.
Nous autres aussi, bien que vivant en une époque où règne en maître la perception “objective” propre à l'individu (c'est-à-dire à ce que Heidegger appelait le « semi-homme »), nous faisons cette expérience. Si nous trouvons du sacré dans la “nature”, c'est que nous la voyons, non en tant qu'individus, non en “sujets-voulants-décidant-de-l'investir”, mais en hommes portés-par-un-peuple, le peuple européen, qui, rassemblé sur son essence (le “passé”), nous enjoint par son appel de le faire-venir à une nouvelle présence. Si la “nature”, pour nous, contient du sacré, ce n'est pas parce que nous y en avons mis, et pas non plus parce qu'elle nous renverrait l'image, au moins potentielle, de notre propre “volonté de puissance”, mais bien parce qu'un peuple est encore quelque peu en nous le « feu », même si nous n'en sommes encore que confusément l'« éclat ». Et c'est ce « feu » (das Feuer), constitutif de notre identité essentielle, de notre « hespérialité », qui est ce en quoi se dépose notre perception du monde, et donc aussi ce par quoi se réalise l'unité de notre monde.
Matin passé et matin venant sont les mêmes
Que le sacré ait donc beaucoup à faire avec l'auto-affirmation de l'homme en tant que mode de l'apparaître d'un peuple, c'est ce que l'on ne saurait nier. Unité du monde, unité du peuple : le même. Le même, mais pas « la même chose » — et, sur ce point, nous renverrons à ce que Heidegger a pu écrire dans le texte, essentiel, intitulé Identité et différence. En tant que le même, unité du monde et unité du peuple se trouvent dans un rapport de co-propriation, ce qui revient à dire qu'ils s'y cherchent pour y trouver ce qui est à chacun son propre. Le point, le “nœud” autour duquel s'enroulent ces “deux” unités est proprement pour nous le plus proche et le plus lointain. Il est, au sens le plus profond, le lieu de venue du sacré.
Ce “nœud”, qui correspond peut-être à ce que Heidegger a interrogé sous le nom d'Ereignis, nous apparaît, à nous aussi, comme question. Il ne s'agit pas d'une question à résoudre, mais d'une question à déployer. Que signifie ce terme ? Certainement pas aligner des propositions logiques ou paralogiques. Déployer la question du lieu de venue du sacré, c'est fonder le sacré en tant que sacré, et, du même coup, le peuple en tant que peuple. Heidegger en était arrivé à dire : Ereignis ereignet ; et il ajoutait : « c'est tout ». Ce « c'est tout » ne pose pas une fin, mais ouvre un horizon, en ce sens qu'il est un ordre de « départ pour l'assaut » ; et dans ce départ, est toute grandeur. Il signifie, si l'on peut dire, laisser Ereignis ereignen, c'est-à-dire répondre à l'appel qui nous enjoint de prendre en notre garde la « croissance de ce qui est petit » — la venue d'un peuple que nous nommerons peut-être hespérial. Là et là seulement est l'auto-affirmation.
Que dire maintenant de la technique ? Pour beaucoup, aujourd'hui, la technique reste quelque chose de “mécanique”, de “machinal” : un zu-Hand, dont l'homme aurait usage en tant que sujet, et sur lequel il pourrait agir. Une telle conception nous semble erronée. Cette apparence que prend la technique d'objet à la disposition d'un homme-sujet n'est qu'un leurre, ou plutôt un masque. (Ce qui ne veut pas dire qu'elle soit fausse, car il n'y a jamais d'apparence “fausse”). Quitte à tout décrire en termes de sujet et d'objet, c'est bien plutôt la technique qu'il faudrait considérer comme “sujet”, et l'homme désintégré du “on” qu'il faudrait voir comme “objet”. La technique n'est un outil pour le bien-être ou la puissance que pour les hommes du nihilisme achevé. En fait, elle n'est pas un outil du tout. Elle est ce qui nous enjoint de voir l'étant comme objet, et l'être comme efficience. Cette injonction se confond avec la nuit où les peuples se sont perdus eux-mêmes, et le danger — ce « désert qui croît », ainsi que Nietzsche nous en a avertis — est que, dans cette nuit de la technique mondiale, l'homme finisse par perdre tout lien avec son essence.
Relisons Nietzsche. S'il y a, aujourd'hui, un “seigneur de la terre”, c'est bien le « dernier homme » dont parle Zarathoustra, le « semi-homme » évoqué par Heidegger dans son texte sur le Service du Travail. C'est lui l'engeance aveugle et oublieuse qui règne en maître dans la nuit de la technique mondiale. Qui règne sur quoi ? Non pas sur la terre, qui, en tant que phénomène, qu'entité ou mode du Geviert, lui est interdite, mais sur le désert.
Quel est alors le salvateur qui vient avec l'ère de la technique ? On dira : l'être, en tant que lumière du matin qui se dévoile comme telle aux hommes du soir (Jean Beaufret). C'est dire trop et pas assez. On dira encore : l'Ereignis, en tant que signalé, devancé dans notre pensée, par le Gestell. Cette réponse, identique en fait à la précédente, ne nous mène pas plus loin. Il faut rappeler, en effet, que l'expérience que l'homme de l'aurore grecque avait de l'être ne s'est déployée en un monde que pour autant que l'être a pris cet homme en tant que son Dasein, c'est-à-dire, finalement en tant que peuple. Et de même, l'Ereignis implique la conjonction de l'unitépeuple et de l'unité intérieure de l'homme en tant que liberté pour l'accomplissement du destin du peuple.
Que deviennent alors la poiésis et la téchnè ? En quoi sont-elles, identifiées comme au cœur de la technique, de l'ordre de ce qui sauve ? Sûrement pas dans le sens où nous aurions le pouvoir d'investir d'un “sens nouveau” la production d'objets techniques. On ne peut asseoir sur la technique la tâche « destinale » de faire-venir d'un peuple. La poiésis nous regarde dans la mesure seulement où elle n'est au cœur de toute production technique d'objets que parce qu'elle est au cœur de tout faire-venir, de toute éclosion à la présence. Elle nous regarde d'abord en ceci que nous savons, comme on a savoir d'une évidence secrète, que vers nous s'est tourné ce qui « est encore petit », ce qui appelle à croître dans le danger. Et cela qui nous “appelle”, étant encore petit, pour qu'en son « faire-venir » nous trouvions notre liberté et notre destin, est un peuple et rien d'autre.
Le monde n'est jamais fait d'objets. Le monde est destin de l'homme en tant que Dasein, ce qui signifie : le monde est monde pour autant qu'il est demeure de l'homme, et l'homme, lui, n'est homme qu'en tant que porté-par-un-peuple. Nous ne ferons pas venir à la présence le peuple qui nous appelle en tant qu'« à-venir » en nous efforçant de donner un autre “sens” à des objets, quels qu'ils soient. Les étants ne seront rendus disponibles pour un usage poiétique qu'une fois délivrés à cet usage par un peuple. Ne confondons donc pas les racines et les derniers rameaux de l'arbre. C'est un peuple — nos racines — qui est à « pro-duire », et non pas une “nouvelle technique”.
Mais comment “pro-duit”-on un peuple ? On ne peut, à cet égard, qu'envisager un horizon appelé, une fois atteint, à disparaître pour céder la place à un autre. La pro-duction d'un peuple ne saurait en effet avoir de “fin”. Elle est un acte continu. Dans l'immédiat, il faut lutter par tous les moyens contre l'idée de l'homme-sans-peuple, du « semi-homme », de cet individu moral qui peut d'autant mieux se construire un “humanisme” qu'il a oublié l'être et s'est ainsi détourné de l'essence de l'homme. Sur notre chemin, nous sommes guidés par une lumière qui, n'étant aucune lueur nocturne, ne peut être que celle du matin. Matin passé et matin venant sont pour nous les mêmes. Ma certitude la plus profonde est que nous sommes voués à ce matin.
► Patrick Simon, Nouvelle École n°37, 1982.
◘ Notes :
(1) Cf. not. Alain de Benoist, Comment peut-on être païen ?, Albin Michel, 1981.
(2) Là réside l'erreur de ceux qui, tel Pierre Chaunu dans La mémoire et le sacré, tirent argument de la non-opposition entre sacré et profane pour affirmer, de façon plutôt légère, que le paganisme est fondamentalement théocratique.
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, sacralité, tradition | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Genèse de la pensée unique
Genèse de la pensée unique
par Claude BOURRINET
« Il n’y eut plus de rire pour personne. »
Procope
Polymnia Athanassiadi, professeur d’histoire ancienne à l’Université d’Athènes, spécialiste du platonisme tardif (le néoplatonisme) avait bousculé quelques certitudes, dans son ouvrage publié en 2006, « la lutte pour l’orthodoxie dans le platonisme tardif », en montrant que les structures de pensée dans l’Empire gréco-romain, dont l’aboutissement serait la suppression de toute possibilité discursive au sein de l’élite intellectuelle, étaient analogues chez les philosophes « païens » et les théologiens chrétiens. Cette osmose, à laquelle il était impossible d’échapper, se retrouve au niveau des structures politiques et administratives, avant et après Constantin. L’État « païen », selon Mme Athanassiadi, prépare l’État chrétien, et le contrôle total de la société, des corps et des esprits. C’est la thèse contenue dans une étude éditée en 2010, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive.
Un basculement identitaire
L’Antiquité tardive est l’un de ces concepts historiques relativement flous, que l’on adopte, parce que c’est pratique, mais qui peuvent susciter des polémiques farouches, justement parce qu’ils dissimulent des pièges heuristiques entraînant des interprétations diamétralement apposées. Nous verrons que l’un des intérêts de cette recherche est d’avoir mis au jour les engagements singulièrement contemporains qui sous tendent des analyses apparemment « scientifiques ».
La première difficulté réside dans la délimitation de la période. Le passage aurait eu lieu sous le règne de Marc Aurèle, au IIe siècle, et cette localisation temporelle ne soulève aucun désaccord. En revanche, le consensus n’existe plus si l’on porte le point d’achoppement (en oubliant la date artificielle de 476) à Mahomet, au VIIe siècle, c’est-à-dire à l’aboutissement désastreux d’une longue série d’invasions, ou aux règnes d’Haroun al-Rachid et de Charlemagne, au IXe siècle, voire jusqu’en l’An Mil. Ce qui est en jeu dans ce débat, c’est l’accent mis sur la rupture ou sur la continuité.
Le fait indubitable est néanmoins que la religion, lors de ce processus qui se déroule quand même sur plusieurs siècles, est devenue le « trait identitaire de l’individu ». L’autre constat est qu’il s’éploie dans un monde de plus en plus globalisé – l’orbis romanus – dans un empire qui n’est plus « romain », et qui est devenu méditerranéen, voire davantage. Une révolution profonde s’y est produite, accélérées par les crises, et creusant ses mines jusqu’au cœur d’un individu de plus en plus angoissé et cherchant son salut au-delà du monde. La civilisation de la cité, qui rattachait l’esprit et le corps aux réalités sublunaires, a été remplacée par une vaste entité centralisée, dont la tête, Constantinople ou Damas, le Basileus ou le calife, un Dieu unique, contrôle tout. Tout ce qui faisait la joie de vivre, la culture, les promenades philosophiques, les spectacles, les plaisirs, est devenu tentation démoniaque. La terre semble avoir été recouverte, en même temps que par les basiliques, les minarets, les prédicateurs, les missionnaires, par un voile de mélancolie et un frisson de peur. Une voix à l’unisson soude les masses uniformisées, là où, jadis, la polyphonie des cultes et la polydoxie des sectes assuraient des parcours existentiels différenciés. Une monodoxie impérieuse, à base de théologie et de règlements tatillons, s’est substituée à la science (épistémé) du sage, en contredisant Platon pour qui la doxa, l’opinion, était la source de l’erreur.
Désormais, il ne suffit pas de « croire », si tant est qu’une telle posture religieuse ait eu sa place dans le sacré dit « païen » : il faut montrer que l’on croit. Le paradigme de l’appartenance politico-sociale est complètement transformé. La terreur théologique n’a plus de limites.
Comme le montre Polymnia Athanassiadi, cet aspect déplaisant a été, avec d’autres, occulté par une certaine historiographie, d’origine anglo-saxonne.
Contre l’histoire politiquement correcte
La notion et l’expression d’« Antiquité tardive » ont été forgées principalement pour se dégager d’un outillage sémantique légué par les idéologies nationales et religieuses. Des Lumières au positivisme laïciste du XIXe siècle, la polémique concernait la question religieuse, le rapport avec la laïcité, le combat contre l’Église, le triomphe de la raison scientifique et technique. Le « récit » de la chute de l’Empire romain s’inspirait des grandes lignes tracées par Montesquieu et Gibbon, et mettait l’accent sur la décadence, sur la catastrophe pour la civilisation qu’avait provoquée la perte des richesses antiques. Le christianisme pouvait, de ce fait, paraître comme un facteur dissolvant. D’un autre côté, ses apologistes, comme Chateaubriand, tout en ne niant pas le caractère violent du conflit entre le paganisme et le christianisme, ont souligné la modernité de ce dernier, et par quelles valeurs humaines il remplaçait celles de l’ancien monde, devenu obsolète.
C’est surtout contre l’interprétation de Spengler que s’est élevée la nouvelle historiographie de la fin des années Soixante. Pour le savant allemand, les civilisations subissent une évolution biologique qui les porte de la naissance à la mort, en passant par la maturité et la vieillesse. On abandonna ce schéma cyclique pour adopter la conception linéaire du temps historique, tout en insistant sur l’absence de rupture, au profit de l’idée optimiste de mutation. L’influence de Fernand Braudel, théoricien de la longue durée historique et de l’asynchronie des changements, fut déterminante.
L’école anglo-saxonne s’illustra particulièrement. Le maître en fut d’abord Peter Brown avec son World of late Antiquity : from Marcus Aurelius to Muhammad (1971). Mme Athanassiadi n’est pas tendre avec ce savant. Elle insiste par exemple sur l’absence de structure de l’ouvrage, ce qui ne serait pas grave s’il ne s’agissait d’une étude à vocation scientifique, et sur le manque de rigueur des cent trente illustrations l’accompagnant, souvent sorties de leur contexte. Quoi qu’il en soit, le gourou de la nouvelle école tardo-antique étayait une vision optimiste de cette période, perçue comme un âge d’adaptation.
Il fut suivi. En 1997, Thomas Hägg, publia la revue Symbolae Osbenses, qui privilégie une approche irénique. On vide notamment le terme le terme xenos (« étranger ») de son contenu tragique « pour le rattacher au concept d’une terre nouvelle, la kainê ktisis, ailleurs intérieur rayonnant d’espoir ». Ce n’est pas un hasard si l’inspirateur de cette historiographique révisionniste est le savant italien Santo Mazzarino, l’un des forgerons de la notion de démocratisation de la culture.
La méthode consiste en l’occurrence à supprimer les oppositions comme celles entre l’élite et la masse, la haute et la basse culture. D’autre part, le « saint » devient l’emblème de la nouvelle société. En renonçant à l’existence mondaine, il accède à un statut surhumain, un guide, un sauveur, un intermédiaire entre le peuple et le pouvoir, entre l’humain et le divin. Il est le symbole d’un monde qui parvient à se maîtrise, qui se délivre des entraves du passé
Polymnia Athanassiadi rappelle les influences qui ont pu marquer cette conception positive : elle a été élaborée durant une époque où la détente d’après-guerre devenait possible, où l’individualisme se répandait, avec l’hédonisme qui l’accompagne inévitablement, où le pacifisme devient, à la fin années soixante, la pensée obligée de l’élite. De ce fait, les conflits sont minimisés.
Un peu plus tard, en 1999, un tome collectif a vu le jour : Late Antiquity. A Guide to the postclassical World. Y ont contribué P. Brown et deux autres savants princetoniens : Glen Bowersock et Oleg Grabar, pour qui le véritable héritier de l’empire romain est Haroun al-Rachid. L’espace tardo-antique est porté jusqu’à la Chine, et on met l’accent sur vie quotidienne. Il n’y a plus de hiérarchie. Les dimensions religieuse, artistique politique, profane, l’écologique, la sexuelle, les femmes, le mariage, le divorce, la nudité – mais pas les eunuques, sont placées sur le même plan. La notion de crise est absente, aucune allusion aux intégrismes n’est faite, la pauvreté grandissante n’est pas évoquée, ni la violence endémique, bref, on a une « image d’une Antiquité tardive qui correspond à une vision politiquement correcte ».
La réaction a vu le jour en Italie. Cette même année 1999, Andrea Giardina, dans un article de la revue Studi Storici, « Esplosione di tardoantico », a contesté « la vision optimiste d’une Antiquité tardive longue et paisible, multiculturelle et pluridisciplinaire ». Il a expliqué cette perception déformée par plusieurs causes :
— la rhétorique de la modernité,
— l’impérialisme linguistique de l’anglais dans le monde contemporain (« club anglo-saxon »),
— une approche méthodologique défectueuse (lecture hâtive).
Et, finalement, il conseille de réorienter vers l’étude des institutions administratives et des structures socio-économiques.
Dans la même optique, tout en dénonçant le relativisme de l’école anglo-saxonne, Wolf Liebeschuetz, (Decline and Full of the Roman City, 2001 et 2005), analyse le passage de la cité-État à l’État universel. Il insiste sur la notion de déclin, sur la disparition du genre de vie avec institutions administratives et culturelles légués par génie hellénistique, et il s’interroge sur la continuité entre la Cité romaine et ses successeurs (Islam et Europe occidentale). Quant à Bryan Ward-Perkins, The fall of Rome and the End of Civilization, il souligne la violence des invasions barbares, s’attarde sur le trauma de la dissolution de l’Empire. Pour lui, le déclin est le résultat de la chute.
On voit que l’érudition peut cacher des questions hautement polémiques et singulièrement contemporaines. Polymnia Athanassiadi prend parti, parfois avec un mordant plaisant, mais nul n’hésitera à se rendre compte combien les caractéristiques qui ont marqué l’Antiquité tardive concernent de façon extraordinaire notre propre monde.
Polymnia Athanassiadi rappelle, en s’attardant sur la dimension politico-juridique, quelles ont été les circonstances de la victoire de la « pensée unique » (expression ô combien contemporaine !). Mais avant tout, quelle a été la force du christianisme ?
La révolution culturelle chrétienne
Le christianisme avait plusieurs atouts à sa disposition, dont certains complètement inédits dans la société païenne.
D’abord, il hérite d’une société où la violence est devenue banale, du fait de la centralisation politico-administrative, et de ce qu’on peut nommer la culture de l’amphithéâtre.
Dès le IIe siècle, en Anatolie, le martyr apparaît comme la « couronne rouge » de la sainteté octroyée par le sens donné. Les amateurs sont mus par une vertu grecque, la philotimia, l’« amour de l’honneur ». C’est le seul point commun avec l’hellénisme, car rien ne répugne plus aux esprits de l’époque que de mourir pour des convictions religieuses, dans la mesure où toutes sont acceptées comme telles. Aussi bien cette posture est-elle peu comprise, et même méprisée. L’excès rhétorique par lequel l’Église en fait la promotion en souligne la théâtralité. Marc Aurèle y voit de la déraison, et l’indice d’une opposition répréhensible à la société. Et, pour une société qui recherche la joie de vivre, cette pulsion de mort paraît bien suspecte.
Retenons donc cette aisance dans l’art de la propagande – comme chacun sait, le nombre de martyrs n’a pas été si élevé qu’on l’a prétendu – et cette attirance morbide qui peut aller jusqu’au fond des cœurs. Le culte des morts et l’adoration des reliques sont en vogue dès le IIIe siècle.
Le leitmotiv de la résurrection des corps et du jugement dernier est encore une manière d’habituer à l’idée de la mort. Le scepticisme régnant avant IIIe siècle va laisser place à une certitude que l’on trouve par exemple chez Tertullien, pour qui l’absurde est l’indice même de la vérité (De carne christi, 5).
L’irrationalisme, dont le christianisme n’est pas seul porteur, encouragé par les religions orientales, s’empare donc des esprits, et rend toute manifestation surnaturelle plausible. Il faut ajouter la croyance aux démons, partagée par tous.
Mais c’est surtout dans l’offensive, dans l’agression, que l’Église va se trouver particulièrement redoutable. En effet, de victimes, les chrétiens, après l’Édit de Milan, en 313, vont devenir des agents de persécution. Des temples et des synagogues seront détruits, des livres brûlés.
Peut-être l’attitude qui tranche le plus avec le comportement des Anciens est-il le prosélytisme, la volonté non seulement de convertir chaque individu, mais aussi l’ensemble de la société, de façon à modeler une communauté soudée dans une unicité de conviction. Certes, les écoles philosophiques cherchaient à persuader. Mais, outre que leur zèle n’allait pas jusqu’à harceler le monde, elles représentaient des sortes d’options existentielles dans le grand marché du bonheur, dont la vocation n’était pas de conquérir le pouvoir sur les esprits. Plotin, l’un des derniers champions du rationalisme hellène, s’est élevé violemment contre cette pratique visant à arraisonner les personnes. On vivait alors de plus en plus dans la peur, dans la terreur de ne pas être sauvé. L’art de dramatiser l’enjeu, de le charger de toute la subjectivité de l’angoisse et du bon choix à faire, a rendu le christianisme particulièrement efficace. Comme le fait remarquer Mme Athanassiadi, la grande césure du moi, n’est plus entre le corps et l’âme, mais entre le moi pécheur et le moi sauvé. Le croyant est sollicité, sommé de s’engager, déchiré d’abord, avant Constantin, entre l’État et l’Église, puis de façon permanente entre la vie temporelle et la vie éternelle.
Cette tension sera attisée par la multitude d’hérésie et par les conflits doctrinaux, extrêmement violents. Les schismes entraînent excommunications, persécutions, batailles physiques. Des polémiques métaphysiques absconses toucheront les plus basses couches de la société, comme le décrit Grégoire de Nysse dans une page célèbre très amusante. Les Conciles, notamment ceux de Nicée et de Chalcédoine, seront des prétextes à l’expression la plus hyperbolique du chantage, des pressions de toutes sortes, d’agressivité et de brutalité. Tout cela, Ramsay MacMullen le décrit fort bien dans son excellent livre, Christianisme et paganisme du IVe au VIIIe siècle.
Mais c’est surtout l’arme de l’État qui va précipiter la victoire finale contre l’ancien monde. Après Constantin, et surtout avec Théodose et ses successeurs, les conversions forcées vont être la règle. À propos de Justinien, Procope écrit : « Dans son zèle pour réunir l’humanité entière dans une même foi quant au Christ, il faisait périr tout dissident de manière insensée » (in 118). Des lois discriminatoires seront décrétées. Même le passé est éradiqué. On efface la mémoire, on sélectionne les ouvrages, l’index des œuvres interdites est publié, Basile de Césarée (vers 360) établit une liste d’auteurs acceptables, on jette même l’anathème sur les hérétiques de l’avenir !
Construction d’une pensée unique
L’interrogation de Polemnia Athanassiadi est celle-ci : comment est-on passé de la polydoxie propre à l’univers hellénistique, à la monodoxie ? Comment un monde à l’échelle humaine est-il devenu un monde voué à la gloire d’un Dieu unique ?
Son fil conducteur est la notion d’intolérance. Mot piégé par excellence, et qui draine pas mal de malentendus. Il n’a rien de commun par exemple avec l’acception commune qui s’impose maintenant, et dont le fondement est cette indifférence profonde pour tout ce qui est un peu grave et profond, voire cette insipide légèreté contemporaine qui fuit les tragiques conséquences de la politique ou de la foi religieuse. Serait intolérant au fond celui qui prendrait au sérieux, avec tous les refus impliqués, une option spirituelle ou existentielle, à l’exclusion d’une autre. Rien de plus conformiste que la démocratie de masse ! Dans le domaine religieux, le paganisme était très généreux, et accueillait sans hésiter toutes les divinités qu’il lui semblait utile de reconnaître, et même davantage, dans l’ignorance où l’on était du degré de cette « utilité » et de la multiplicité des dieux. C’est pourquoi, à Rome, on rendait un culte au dieu inconnu. Les païens n’ont jamais compris ce que pouvait être un dieu « jaloux », et tout autant leur théologie que leur anthropologie les en empêchaient. En revanche, l’attitude, le comportement, le mode de vie impliquaient une adhésion ostentatoire à la communauté. Les cultes relevaient de la vie familiale, associative, ou des convictions individuelles : chacun optait pour un ou des dieux qui lui convenaient pour des raisons diverses. Pourtant les cultes publics concernant les divinités poliades ou l’empereur étaient des actes, certes, de piété, mais ne mettant en scène souvent que des magistrats ou des citoyens choisis. Ils étaient surtout des marques de patriotisme. À ce titre, ne pas y participer lorsqu’on était requis de le faire pouvait être considéré comme un signe d’incivisme, de mauvaise volonté, voire de révolte. En grec, il n’existe aucun terme pour désigner notion de tolérance religieuse. En latin, l’intolérance : intolerentia, est cette « impatience », « insolence », « impudence » que provoque la présence face à un corps étranger. Ce peut être le cas pour les païens face à ce groupe chrétien étrange, énigmatique, considéré comme répugnant, ou l’inverse, pour des chrétiens qui voient le paganisme comme l’expression d’un univers démoniaque. Toutefois, ce qui relevait des pratiques va s’instiller jusqu’au fond des cœurs, et va s’imprégner de toute la puissance subjective des convictions intimes. En effet, il serait faux de prétendre que les païens fussent ignorants de ce qu’une religion peut présenter d’intériorité. On ne s’en faisait pas gloire, contrairement au christianisme, qui exigeait une profession de foi, c’est-à-dire un témoignage motivé, authentique et sincère de son amour pour le dieu unique. Par voie de conséquence, l’absence de conviction dûment prouvée, du moins exhibée, était rédhibitoire pour les chrétiens. On ne se contentait pas de remplir son devoir particulier, mais on voulait que chacun fût sur la droite voie de la « vérité ». Le processus de diabolisation de l’autre fut donc enclenché par les progrès de la subjectivisation du lien religieux, intensifiée par la « persécution ». Au lieu d’un univers pluriel, on en eut un, uniformisé bien que profondément dualiste. La haine fut érigée en vertu théologique.
Comment l’avait décrit Pollymnia Athanassiadi dans son étude de 2006 sur l’orthodoxie à cette période, la première tâche fut de fixer le canon, et, par voie de conséquence d’identifier ceux qui s’en écartaient, à savoir les hérétiques. Cette classification s’élabora au fil du temps, d’Eusèbe de Césarée, qui procéda à une réécriture de l’Histoire en la christianisant, jusqu’à Jean Damas, en passant par l’anonyme Eulochos, puis Épiphane de Salamine.
Néanmoins, l’originalité de l’étude de 2010 consacrée à l’évolution de la société tardo-antique vers la « pensée unique » provient de la mise en parallèle de la politique religieuse menée par l’empire à partir du IIIe siècle avec celle qui prévalut à partir de Constantin. Mme Athanassiadi souligne l’antériorité de l’empire « païen » dans l’installation d’une théocratie, d’une religion d’État. En fait, selon elle, il existe une logique historique liant Dèce, Aurélien, Constantin, Constance, Julien, puis Théodose et Justinien.
L’édit de Dèce, en 250, est motivé par une crise qui faillit anéantir l’Empire. La pax deorum semblait nécessaire pour restaurer l’État. Aussi fut-il décrété que tous les citoyens (dont le nombre fut élargi à l’ensemble des hommes libres en 212 par Caracalla), sauf les Juifs, devaient offrir un sacrifice aux dieux, afin de rétablir l’unité de foi, le consensus omnium.
Deux autres persécutions eurent lieu, dont les plus notoires furent celles en 257 de Valérien, en 303 de Dioclétien, et en 312, en Orient, de Maximin.
Entre temps, Aurélien (270 – 275) conçut une sorte de pyramide théocratique, à base polythéiste, dont le sommet était occupé par la divinité solaire.
Notons que Julien, le restaurateur du paganisme d’État, est mis sur le même plan que Constantin et que ses successeurs chrétien. En voulant créer une « Église païenne », en se mêlant de théologie, en édictant des règles de piété et de moralité, en excluant épicuriens, sceptiques et cyniques, il a consolidé la cohérence théologico-autoritaire de l’Empire. Il assumait de ce fait la charge sacrale dont l’empereur était dépositaire, singulièrement la dynastie dont il était l’héritier et le continuateur. Il avait conscience d’appartenir à une famille, fondée par Claude le Gothique (268 – 270), selon lui dépositaire d’une mission de jonction entre l’ici-bas et le divin.
Néanmoins, Constantin, en 313, lorsqu’il proclama l’Édit de Milan, ne saisit probablement pas « toute la logique exclusiviste du christianisme ». Était-il en mesure de choisir ? Selon une approximation quantitative, les chrétiens étaient loin de constituer la majorité de la population. Cependant, ils présentaient des atouts non négligeables pour un État soucieux de resserrer son emprise sur la société. D’abord, son organisation ecclésiale plaquait sa logique administrative sur celle de l’empire. Elle avait un caractère universel, centralisé. De façon pragmatique, Constantin s’en servit pour tenter de mettre fin aux dissensions internes génératrices de guerre civile, notamment en comblant de privilèges la hiérarchie ecclésiastique. Un autre instrument fut utilisé par lui, en 325, à l’occasion du concile de Nicée. En ayant le dernier mot théologique, il manifesta la subordination de la religion à la politique.
Mais ce fut Théodose qui lança l’orthodoxie « comme concept et programme politique ». Constantin avait essayé de maintenir un équilibre, certes parfois de mauvaise foi, entre l’ancienne religion et la nouvelle. Pour Théodose, désormais, tout ce qui s’oppose à la foi catholique (la vera religio), hérésie, paganisme, judaïsme, est présumé superstitio, et, de ce fait, condamné. L’appareil d’État est doublé par les évêques (« surveillants » !), la répression s’accroît. À partir de ce moment, toute critique religieuse devient crime de lèse-majesté.
Quant au code justinien, il défend toute discussion relative au dogme, mettant fin à la tradition discursive de la tradition hellénique. On élabore des dossiers de citations à l’occasion de joutes théologiques (Cyrille d’Alexandrie, Théodoret de Cyr, Léon de Rome, Sévère d’Antioche), des chaînes d’arguments (catenae) qui interdisent toute improvisation, mais qui sont sortis de leur contexte, déformés, et, en pratique, se réduisent à de la propagande qu’on assène à l’adversaire comme des coups de massue.
La culture devient une, l’élite partage des références communes avec le peuple. Non seulement celui-ci s’entiche de métaphysique abstruse, mais les hautes classes se passionnent pour les florilèges, les vies de saints et les rumeurs les plus irrationnelles. L’humilité devant le dogme est la seule attitude intellectuelle possible.
Rares sont ceux, comme Procope de Césarée, comme les tenants de l’apophatisme (Damascius, Pseudo-Denys, Évagre le Pontique, Psellus, Pléthon), ou comme les ascètes, les ermites, et les mystiques en marge, capables de résister à la pression du groupe et de l’État.
Mise en perspective
Il faudrait sans doute nuancer l’analogie, la solution de continuité, entre l’entreprise politico-religieuse d’encadrement de la société engagée par l’État païen et celle conduite par l’État chrétien. Non que, dans les grandes lignes, ils ne soient le produit de la refonte de l’« établissement » humain initiée dès le déplacement axiologique engendré par l’émergence de l’État universel, période étudiée, à la suite de Karl Jaspers, par Marcel Gauchet, dans son ouvrage, Le désenchantement du monde. Le caractère radical de l’arraisonnement de la société par l’État, sa mobilisation permanente en même temps que la mise à contribution des forces transcendantes, étaient certes contenus dans le sens pris par l’Histoire, mais il est certain que la spécificité du christianisme, issu d’une religion née dans les interstices de l’Occident et de l’Orient, vouée à une intériorisation et à une subjectivité exacerbées, dominée par un Dieu tout puissant, infini, dont la manifestation, incarnée bureaucratiquement par un organisme omniprésent, missionnaire, agressif et aguerri, avait une dimension historique, son individualisme et son pathos déséquilibré, la béance entre le très-haut et l’ici-bas, dans laquelle pouvait s’engouffrer toutes les potentialités humaines, dont les pires, était la forme adéquate pour que s’installât un appareil particulièrement soucieux de solliciter de près les corps et les âmes dans une logique totalitaire. La question de savoir si un empire plus équilibré eût été possible, par exemple sous une forme néoplatonicienne, n’est pas vaine, en regard des empires orientaux, qui trouvèrent un équilibre, un compromis entre les réquisits religieux, et l’expression politique légitime, entre la transcendance et l’immanence. Le néoplatonisme, trop intellectuel, trop ouvert à la recherche, finalement trop aristocratique, était démuni contre la fureur plébéienne du christianisme. L’intolérance due à l’exclusivisme dogmatique ne pouvait qu’engager l’Occident dans la voie des passions idéologiques, et dans une dynamique conflictuelle qui aboutirait à un monde moderne pourvu d’une puissance destructrice inédite.
Il faudra sans doute revenir sur ces questions. Toutefois, il n’est pas inutile de s’interroger sur ce que nous sommes devenus. De plus en plus, on s’aperçoit que, loin d’être les fils de l’Athènes du Ve siècle avant le Christ, ou de la République romaine, voire de l’Empire augustéen, nous sommes dépendants en droite ligne de cette Antiquité tardive, qui nous inocula un poison dont nous ne cessons de mourir. L’Occident se doit de plonger dans son cœur, dans son âme, pour extirper ces habitus, ces réflexes si ancrés qu’ils semblent devenus naturels, et qui l’ont conduit à cette expansion mortifère qui mine la planète. Peut-être retrouverons-nous la véritable piété, la réconciliation avec le monde et avec nous-mêmes, quand nous aurons extirpé de notre être la folie, la « mania », d’exhiber la vérité, de jeter des anathèmes, de diaboliser ce qui nous est différent, de vouloir convertir, persuader ou contraindre, d’universaliser nos croyances, d’unifier les certitudes, de militariser la pensée, de réviser l’histoire, d’enrégimenter les opinions par des lois, d’imposer à tous une « pensée unique ».
Claude Bourrinet
• Polymnia Athanassiadi, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive, Paris, Les Belles Lettres, 2010.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2092
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : philosophie, pensée unique, théologie, christianisme, christianisme primitif | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 18 novembre 2012
Overcoming the Bourgeois Mind & Body
Overcoming the Bourgeois Mind & Body
By Marl Dyal and Nick Fiorello
Ex: http://www.counter-currents.com/
“I walk among these people and keep my eyes open; they have become smaller and are becoming ever smaller: but this is because of their teaching on happiness and virtue. So much kindness, so much weakness I see. So much justice and pity, so much weakness. Round, righteous, and kind they are to one another, like grains of sand are round, righteous, and kind to one another.” – Zarathustra[1]
This discussion of the relationship between bodily and conceptual vitality began with two historical topics: the “spiritual eugenics” of Fascist Italy [2] and the “proper eugenics” of Lycurgan Sparta [3]. In the former, we saw that the Fascists desired to transform weak bourgeois bodies into bodies capable of bearing the physical, moral, and intellectual weight of the Fascist revolution, thus making physiology central to Fascism. In the latter, we saw Lycurgus demand that Spartans overcome societal decadence by transforming their expectations, and ownership, of their bodies.
The Spartan example, while revealing the lengths necessary for bodily and societal transvaluations of decadent behaviors and values, demonstrated as well the power of the Greek ideal. This ideal, which maintains the interconnectedness of the mind/soul and what they do with the body, led to the simultaneous education of mind and body. Lycurgus promoted character and noble, masculine traits, while limiting avenues to elite status that did not involve the ennoblement of the mind through devotion to warfare and sacrifice for Sparta.
Even in Plutarch’s description of Lycurgan Sparta, written some 600 years after Lycurgus transformed his state and people, one sees the naturalness of the Greek ideal. For nowhere does Plutarch question the idea that ethics and character have something to do with the state of the body. Plutarch was not even surprised that Lycurgus was able to sell such a harsh regime to his people. Perhaps this is just deduction on Plutarch’s (and our own) part. Lycurgan Sparta happened. If there were casualties amongst the Spartan people – after all, moderns are culturally programed to seek out dissent when lofty and rarifying ideals are “imposed” on a people – then so be it. Greek and Roman history, to say nothing of values, have little concern for failures; but instead open up vast spaces of ennoblement and enrichment through examples of greatness – the very point of Plutarch’s Lives.
The Lycurgan view of life, with human aspirations focused on one ideal, is certainly heroic in the Homeric sense of the word; for what was ultimately to become praiseworthy in Greek thought — Platonic harmony and leisurely self-reflection — was in Sparta dismissed as decadent. Competition, strife, power, action, and worldly achievement were Olympian values shared by Lycurgus and the Homeric heroes. And it could be argued that the Spartans and Homer’s heroes are amongst a small handful of Western men who have achieved immortality – something to consider when perusing modern scientific literature motivated by a stark fear of death. While heroism and glory (kleos) are not the point of this paper, they are implicit in Lycurgus’ reforms, for the actions that guaranteed Spartan nobility culminate in them.
Our attention now turns to postmodern science, specifically New Biology and its promotion of epigenetics as a corrective to Newtonian/materialist genetics. In doing so, however, we must be clear: while Mussolini, other Fascist thinkers, and Lycurgus placed the body on the frontlines of a war between flabby decadence and hard nobility, postmodern science tends to understand what is best for the body as what is best for bourgeois man. Thus, we must read its theories and conclusions against the applications assumed by the bourgeois scientists themselves; for harshness, our goal, is not an ideal shared by New Biology, even as its methods demonstrate how transformative it might be for modern man. In other words, we no longer have the luxury and honor of being ennobled through research. In another sense, we have switched from saying Yes to saying No.
Body and Environment
As the Zarathustra epigraph makes clear, Nietzsche understood a direct relationship between the mind, body, and environment. Although he will be discussed thoroughly in the next paper in this series, suffice it to say that Nietzsche understood the human as a series of types created in conjunction with the moral and societal needs of the various forms of human life. Modern men, as he says above, are being made weak by the soft, comfortable, and egalitarian life promised by bourgeois modernity. And while the context was different for Lycurgus, both Fascist Italy and Lycurgan Sparta shared Nietzsche’s assumption about man and society. Epigeneticist (and New Biologist) Bruce Lipton does as well, explaining succinctly that the environment exerts some control over the activity of human genes.[2]
Lipton is working in the shadow of Jean Baptiste de Lamarck, the evolutionist who believed that individual traits acquired as a result of environmental influence could be passed on transgenerationally. In fact, this basic idea of Lamarck, known as “soft inheritance,” forms the very basis of epigenetic science. While Lamarck was influential in the mid-19th Century (and again in the mid-20th Century), being read with enthusiasm by many of the leading physiologists of the day, his work was discredited amongst evolutionists after the successful publication of Darwin’s The Origin of Species in 1859. Many of Darwin’s assumptions, such as the responsibility of passed hereditary factors for controlling offspring traits, were crafted in direct contradistinction to Lamarck. And even though Darwin came to lament the lack of attention paid to environmental factors in the modification of genetic material, modern genetic science came to be dominated by the “determinism” inherent in The Origin of Species.[3]
While “genetic determinism” is given a negative connotation in a postmodernity (popularly) committed to the denial of genetic primacy – at least when racial or gender proclivities for excellence or mediocrity are advanced – in the (genetic) scientific community it has been a major control on methodologies and assumptions. Classical genetics, especially the work of Thomas Morgan and the re-discovered work of Gregor Mendel, was essentially crafted within the conceptual universe of Darwinian natural selection, seeking to identify the hereditary material believed to control organic life.
Crick and Watson believed they found that material in 1953 when they discovered DNA, even going so far as creating the Central Dogma, or primacy of DNA. The primacy of DNA provides the logic for genetic determinism, reducing organic life to a series of DNA-encoded proteins that represent the primary determinant of an organism’s traits.[4] But by the early 21st century, the Human Genome Project (henceforth HGP) cast doubt on the primacy of DNA, demonstrating that there are not enough genes to account for human complexity. While much of 20th-century science assumed a 1-to-1 ratio of genes and the proteins constructive of the human body – which would amount to roughly 120,000 genes – the HGP found instead only 25,000; leaving unaccounted 80% of the genes presumed necessary for human life and behavior.
Geneticist David Baltimore interpreted the HGP results as a call to the primacy of environment,[5] which brings us to epigenetics. Epigenetics, or “control above genetics,” offers an explanatory model capable of answering the questions raised by the HGP. Recent epigenetic research has established that DNA blueprints passed down through genes are not set in stone at birth, but instead respond to their environment. In other words, genes are not destiny.[6] Environmental influences, “including nutrition, stress, and emotion,” can modify those genes, without changing their basic blueprint.[7]
By focusing on the regulatory chromosomal proteins to which DNA strands attach themselves, epigeneticists have been able to discern the physiologic functions of chromosomes independent of DNA, suggesting a more sophisticated flow of information through human cells. Biology, according to this thinking, starts with an environmental signal, then goes to a regulatory protein and only then goes to DNA, RNA, and the end result, a protein.[8]
Because scientific research focused primarily on the DNA blueprint, the contributions to human heredity made by the environment have gone largely unnoticed.[9] These contributions manifest themselves primarily through impulses that activate hereditary diseases like cancer. Genetic predispositions, in other words, are not in themselves causes of disease. In fact, only 5% of those suffering from cancer or cardiovascular disease can attribute their affliction to heredity.[10] But if the environment can trigger disease, it can also prevent disease.
The fluidity and ultimate responsiveness of the genome to environmental factors – be they internal or external to the body – actually brings us back to Mussolini, Lycurgus, and Nietzsche. For while they were not in a position to understand the body in the terms of postmodern science, their insistence on a relationship between body and conception is scientifically justified by epigenetics – especially when we consider the physiological consequences of quantum science.
Cell, Body, and Mind
Einstein revealed that we do not live in a universe with discrete, physical objects separated by dead space. The universe is one indivisible, dynamic whole in which energy and matter are so deeply entangled that it is impossible to consider them as independent elements.
When scientists study the physical properties of atoms, such as mass and weight, they look and act like physical matter. However, when the same atoms are described in terms of voltage potentials and wavelengths, they exhibit the qualities and properties of energy waves; leading to the conclusion that energy and matter are one and the same.[11] For epigeneticists, this model of energy and matter has allowed the mind and body to be reunited, with several scientists – among them Dr. Lipton – seeking to explain how thought, as the energy of the mind, controls the body’s physiology. Lipton’s work has actually demonstrated a direct relationship between thought and the behavior of regulatory chromosomal proteins, making it possible to infer an individual’s ability to override genetic programming.
Each cell is an intelligent being that can survive on its own, as scientists demonstrate when they remove individual cells from the body and grow them in a culture. Likewise, each individual cell performs the biological functions performed by each of our body’s systems. Each eukaryote (nucleus-containing cell) possesses the functional equivalent of our nervous system, digestive system, respiratory system, excretory system, endocrine system, muscle and skeletal systems, circulatory system, integument (skin), reproductive system and even a primitive immune system, which utilizes a family of antibody-like “ubiquitin” proteins.[12]
Like humans, single cells analyze thousands of stimuli from the microenvironment they inhabit. Through the analysis of this data, cells select appropriate behavioral responses to ensure their survival. Single cells are also capable of learning through these environmental experiences and are able to create memories, such as immunities, which they pass on to their offspring.[13]
Lipton believes that it is possible to explain the behavior of humans through better understanding of individual cells. And putting it simply, the human being is just a collection of trillions of cells, each of which is aware of, and responsive to, the environment – including the body’s energy. Ultimately, Lipton points to the primacy of this energy in controlling cell behavior. And, somewhat predictably given his postmodern American proclivities for ecumenicalism, he points to “perception” as a major influence on the direction and contours of bodily energy.[14]
If we believe that there is something useful in epigenetics and the results of Lipton’s cell studies, and we do, then it is certainly not the same use-value assumed by Lipton himself. As quoted above, Lipton is comfortable with the idea that the body and each of its cells can be cared for by controlling “nutrition, stress, and emotion.” However, nowhere in his work is the positive value of the bourgeois form of life questioned in this regard. Dr. Lipton (and certainly not only him) seems to assume that the normalcy of sloth, gluttony, and cultural philistinism that supplies the content of contemporary American life is of positive value to the natural human body, assuming that one properly manages these three environmental factors.
Harshness Destroys Decadence
Epigenetic research points to the fluidity of mass and energy. This fluidity gives us a scientific way of understanding the Greek ideal, as well as a scientific way of explaining what Yukio Mishima understood instinctively about the body: that without resistances, we become spiritually and bodily flaccid and docile.[15] In the spirit of Mishima’s Sun and Steel, we will leave aside “nutrition, stress, and emotion,” at least as bourgeois scientists assume them, and focus instead upon exercise and its role in creating and sustaining vitality. In so doing, we will also demonstrate the great potential of epigenetics as a tool directed against the bourgeois form of life.
Mishima’s attack on modernity was muscularly motivated. In addition to his conceptualization of heroism and the heroic life – both of which required muscles to be achieved – Mishima understood a physiological relationship between words and bodies. The former, he said, are figuratively projected onto the latter; and the body, as the natural repose of words, concepts, and (epistemic) grammatical systems, is a better gauge of a man’s “spiritual” state than his thoughts.[16] This is because the body, according to Mishima, has a closer relationship with ideas than the “spirit.”[17]
Thus, the body will conform to any ideal one holds as its goal. In the Homeric world, nobility required muscle, because heroism was the path to nobility. But taking an epistemic (or a writer’s) approach to Lycurgus’ idealization of heroism, Mishima explained that, without words, bodies would never have conformed to a Greek ideal.[18] Nonetheless, Mishima also followed Lycurgus’ path through physicality to the highest – most ideal – of consciousness. Steel, as he said, teaches what words cannot.[19]
Like Nietzsche, who also used physiological models of consciousness, Mishima’s thoughts on the body truly take flight when one moves from the individual body to the environment in which it is given meaning. Generally speaking, Nietzsche understood that human bodies would reflect the moral and ethical systems in which they lived. Mishima takes a similar approach, understanding that bodies reflect the ideals of the day (in question). Thus, while the Greeks idealized strength and courage – enough so to make these among the most valuable ideals to which a man may aspire – modernity idealizes passive judgment and resigned docility. As such, heroism is made an enemy of the people, history is stripped of singular examples, and men are taught to live in coded systems through which the possible is popularized.[20] Muscles, the basis of heroism, have no value and are resigned to extinction.[21]
In the decadent modern environment described by Mishima, fitness is not the ideal; for fitness is itself bourgeois and decadent – yet another vehicle for promoting hyper-consumption and shallow, self-congratulatory individualism. What is ideal is harshness. It is the body being transformed by resistance (steel) from flaccid and modern to tough and Classical – not for the sake of how it “looks” (even if this is important) but for the sake of the conceptual transformation that must have accompanied that of the apparent. Mishima demands that we consider how many of our conceptual tropes like cynicism and imagination are couched in a sense of physical inferiority and laziness.[22]
Unlike Nietzsche, who – to be read correctly – demands that the reader sees much of the Last Man in himself, Mishima seems more fruitful for those already initiated in the transformative affects of steel. In other words, it is hard to make sense of the transformation Mishima describes unless one has already undergone a similar transformation. Heightened awareness, or consciousness, through physical harshness is something one must experience for oneself.
But, if we briefly turn again to science, we can get a clear picture of how the body reacts to harshness. Restricting our discussion to testosterone alone, it is possible to demonstrate that the mind and body are equally transformed by harsh physical activity. Very intense and brief weight training is the most effective means of promoting large increases in testosterone levels. Testosterone is the main sex hormone in males, not only guiding the libido but also the pleasurable experience of sexual encounters. In addition to sexual functions, testosterone is critical to developing and maintaining muscle and bone mass.
However, studies of testosterone’s impact on the mind also confirm the value of physical harshness for cognition. One of these, published in 2006, demonstrated heightened visual-spatial abilities, cognition/recognition, and senses of vitality and esteem in men with high levels of testosterone (versus estrogen).[23] Chemically, these effects are caused by the impact of testosterone on the hypothalamus, the “nerve center” of hormone production and distribution, and the “command center of the emotions.”[24] Several men with whom we have discussed this paper – including Grammy-winning jazz musicians – pointed to the importance of weight training in the stimulation of creativity, clarity, and concentration.
Like so much of what we have described about the Greek ideal, there is a bidirectional relationship between using testosterone and muscularity. When the body’s muscle mass increases, its metabolic rate – whether active or at rest – increases as well. This means the body has to work harder in order to support the increased muscle. Everything else being equal, the body will utilize more fat for fuel to accomplish this supporting task. This is important because there is an inverse relationship between levels of fat and testosterone, while there is a direct relationship between levels of fat and estrogen. Thus, a high level of fat in relation to muscle mass has a detrimental effect on hormones, vitality, and conception.
Conclusion
It is not the purpose of this paper, the third of a series of four, to argue against the importance of genetics in determining the content of human lives. To the contrary, the paper seeks to explain the importance of the environment and personal behaviors to the proper and optimal functioning of human genetic material. Our hope was to use science, not to justify Nietzsche’s, Mishima’s, Lycurgus’, or Mussolini’s instinctual understanding of the body, mind, and society, but to convince contemporary men to place physiology at the center of a revolt against bourgeois modernity.
Both epigenetics and hormonal science demonstrate that the environment manipulates the body and mind. Through harshness (in this case, intense weight training) it is possible to place considerable distance between oneself and the environment of bourgeois modernity.
The bourgeois form of life creates the bodies it needs – obese, lazy, compliant machines that consume capitalist-invented foods, lifestyles, and pharmaceuticals – with the same regularity and purposefulness of Lycurgan Sparta. Where the one seeks decadence and consumption, the other sought purity and heroism. But even if we agree with Nietzsche that there must be something diminutive about modern bodies when compared to those produced by the pervasive Classical narratives of greatness, nobility, competition, and (standardized) beauty; and even if the modern body has been actively disciplined by dysgenic processes; we still share the same choice as that first generation of Spartan men: weakness or strength.
The modern bourgeois environment directs the body one way, toward softness, disease, and laziness. A revolt against that form of life must transvaluate this process. Epigenetics’ ultimate value lies not only in providing scientific data to support Counter-Enlightenment and Traditional philosophical understandings of the relationship between social-conceptual systems and the form and content of bodies, but also in making it clear that the body plays a critical role in both our enslavement to, and liberation from, bourgeois modernity.
But decadent physiology, as bad as it is, is compounded by the counter-modern belief that the content of our thoughts matches the form of our bodies. Bodily weakness was believed (by Mussolini, Lycurgus, Nietzsche, and Mishima – just to name the figures important to this series of papers) to represent both the cause and effect of conceptual and ethical weakness. Certainly, Mishima’s individualized example of distrust of ideas of the slothful, and Nietzsche’s post-Christian gaze upon the ravages of the “despisers of the body” provide breaks in the sense-making narrative of bourgeois physiological decadence. Ennoblement, as they both remind us, is naturally associated with strength.
Epigenetic science and New Biology seem content to promote bodily invigoration as a means of forestalling physiological enervation, as the mind (for them) seeks the same decadent tranquility and leisure as even the “fit” body. Instead, we are arguing that enervation is the normal state of the bourgeois mind and body and that low testosterone and vitality is a direct consequence of this form of life. What we proscribe for reaching our physiological and conceptual potential is not tranquility and leisure but pain and harshness. This series of papers will conclude with an examination of Nietzsche’s thoughts on this very idea.
Notes
[1] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra, trans. Adrian Del Caro, ed. Adrian Del Caro and Robert B. Pippin (Cambridge: Cambridge University Press, 2006), 134–35.
[2] Bruce H. Lipton, Biology of Belief: Unleashing the Power of Consciousness, Matter, and Miracles (Santa Rosa, Cal.: Elite Books, 2005), 69.
[3] Charles Darwin, Charles Darwin: Life and Letters, ed. Francis Darwin (London: Murray Publishing, 1888), 206.
[4] Lipton 61.
[5] David Baltimore, “Our Genome Revealed,” Nature 409 (2001), 814–816.
[6] Paul H. Silverman, “Rethinking Genetic Determinism,” The Scientist (2004), 32–33.
[7] Lipton 63.
[8] Lipton 69.
[9] Carina Dennis, “Epigenetics and Disease: Altered States,” Nature 421 (2003), 686–88.
[10] Walter C. Willett, “Balancing Lifestyle and Genomics Research for Disease Prevention,” Science 296 (2002), 695–98.
[11] Lucia Hackermüller and Stefan Uttenthaler, “Wave Nature of Biomolecules and Fluorofullerenes,” Physical Review Letters 91(9) (2003), 41–47.
[12] Lipton 37.
[13] Lipton 38.
[14] Lipton 16–17.
[15] Yukio Mishima, Sun and Steel, trans. John Bester (Tokyo: Kodansha International, 1970), 32.
[16] Mishima 17–19.
[17] Mishima 16.
[18] Mishima 26.
[19] Mishima 28.
[20] Mishima 36–44.
[21] Mishima 26.
[22] Mishima 41.
[23] Dheeraj Kapoor, et al, “Testosterone Replacement Therapy and Diabetic Men,” European Journal of Endocrinology 154 (June 2006), 899–906.
[24] Michael Colgan, Hormonal Health (New York: Apple Publishing, 1996), 18.
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
URL to article: http://www.counter-currents.com/2012/11/overcoming-the-bourgeois-mind-and-body/
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, corps, corporéité | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 17 novembre 2012
Julius Evola et la Modernité
Julius Evola et la Modernité
00:05 Publié dans Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : julius evola, tradition, traditionalisme, italie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 15 novembre 2012
Lire Philippe Muray
Lire Philippe Muray
dir. Alain Cresciucci
En librairie le 18 Octobre 2012 | |
ISBN | 2-36371-0413 |
Format | 125 x 195 mm |
Pages | 286 p. |
Prix | 23 € |
LES ESSAIS
Philippe Muray (1945-2006), partout cité sur Internet, court, désormais, le grand risque d'être réduit à une caricature de pamphlétaire ou comique Bobo. D’où l’urgence de rétablir la vérité à son sujet : loin de se revendiquer comme critique, Muray s’est, au contraire, essayé au roman. Parce que seul le roman se saisit de la réalité vivante. Problème : le monde avait changé, la « réalité » même n’était plus qu’une fiction. Usant de divers registres, armé de connaissances jusqu'au cou, il avoue multiplier les angles de vue pour tenter de circonscrire la véritable nature de notre monde : un monde bien loin de Balzac, avec ses agents d'ambiance, ses techniciennes de surface, son obsession de la fête et surtout du Bien. C'est l'histoire du "roman" murayien que raconte Lire Muray à l'aune de son expérience picturale (La Gloire de Rubens), de sa saisie de l'Histoire entre Hegel et Braudel (Le dix-neuvième siècle à travers les âges), de son rejet de la "comédie" du monde partagée avec Céline, Baudelaire et Balzac, sans oublier sa fascination pour le phénomène d' « indifférenciation » née de la désacralisation (Entretiens avec René Girard) qui dissimule une violence sans précédent. La place de Muray dans le "débat" ou plutôt le "non débat intellectuel", l'aspect très particulier de son esprit satirique, toujours épris d'authenticité, sans oublier un glossaire de ses "concepts" phares achèveront d'éclairer le lecteur sur le "code" d'interprétation à donner à son langage et à son discours.
LES AUTEURS
Alain Cresciucci : Professeur émérite à l’université de Rouen, ses recherches portent sur le roman et les romanciers français contemporains : Antoine Blondin (Gallimard) ou Les désenchantés (Fayard)
François-Emmanuel Boucher : est directeur du Département d'études françaises du Collège militaire royal du Canada et doyen associé de la Division des études supérieures et de la recherche. Cofondateur du groupe Prospéro sur « Le politique du roman contemporain », il est l’auteur d’un ouvrage sur la rhétorique révolutionnaire et réactionnaire au tournant du XVIIIe siècle : Les révélations humaines.
Jérôme Couillerot : Doctorant en philosophie du droit à Paris II-Assas (Institut Michel Villey).
Laurent de Sutter : FWO Senior Researcher en théorie du droit à la Vrije Universiteit Brussel. Enseignant aux Facultés Universitaires Saint-Louis. Auteur de (Pornostars – Fragments d’une métaphysique du X ; De l’indifférence à la politique, PUF ; Deleuze – La pratique du droit, il dirige la collection « Travaux Pratiques » aux P. U. F.
Guillaume Gros : Historien (Framespa-Grhi, Toulouse 2) est l’auteur d’une biographie de Philippe Ariès (Presses Universitaires du Septentrion, 2008) et d’un essai sur François Mauriac (Geste éditions, 2011).
Hubert Heckmann : Ancien élève de l’ENS Ulm, il est maître de conférences à l’Université de Rouen
Alain-Jean Léonce : travaille dans le commerce équitable. Il prépare un essai sur Muray.
Isabelle Ligier-Degauque : Maître de conférences en arts du spectacle à l’Université de Nantes, elle a publié Les Tragédies de Voltaire au miroir de leurs parodies dramatiques : d’Œdipe à Tancrède, (Champion, 2007).
LES POINTS FORTS
-Toute la vérité sur la « fausse » image de Philippe Muray, devenu auteur mondain malgré lui.
-A la recherche des sources d’inspiration cachées du grand « contemporain ».
-La naissance d’un genre romanesque hybride, tourné vers le monstrueux d’une société fictive.
00:05 Publié dans Littérature, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature; lettres, lettres françaises, littérature française, philippe muray | | del.icio.us | | Digg | Facebook
L’ennemi principal s’appelle modérantisme
L’ennemi principal s’appelle modérantisme
par Philippe Baillet
Ex: http://www.catholica.presse.fr/
Cet ouvrage collectif inaugure une prometteuse collection dont les premiers titres se proposent d’analyser, dans une perspective pluridisciplinaire et en faisant largement appel à des auteurs étrangers, trois attitudes produites par la situation minoritaire aujourd’hui propre aux membres des religions établies en Europe. Outre le modérantisme, sont visés le communautarisme, avec sa tentation de la contre-société, et le pluralisme religieux conjugué à l’esprit de concurrence.
[Note : cet article a été publié dans Catholica, n.98]
La culture du refus de l’ennemi. Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle1 : cet ouvrage collectif inaugure une prometteuse collection, la « Bibliothèque européenne des idées », dont les premiers titres se proposent d’analyser, dans une perspective pluridisciplinaire et en faisant largement appel à des auteurs étrangers, trois attitudes produites par la situation minoritaire aujourd’hui propre aux membres des religions établies en Europe. Outre le modérantisme, sont visés le communautarisme, avec sa tentation de la contre-société, et le pluralisme religieux conjugué à l’esprit de concurrence.
D’emblée, il faut féliciter les responsables de cet ouvrage d’avoir su dégager la problématique du modérantisme de la gangue de l’histoire de la démocratie chrétienne, française ou non, pour lui restituer toute sa profondeur sur le long terme. Ils manient aussi bien la loupe que la longue-vue, s’intéressant à la fois au proche et au lointain. L’intitulé des trois parties composant l’ouvrage (Histoire – Concepts – Perspectives) est à cet égard très parlant et pleinement justifié.
Au lieu de se limiter à la description ou à la dénonciation des traductions pratiques du modérantisme dans le champ politique ou religieux, il s’est agi d’abord de mettre en relief un état d’esprit, une attitude devant la vie, voire une philosophie implicite. En deçà des avatars politiques (Sillon, démocratie chrétienne, participation à la construction de l’Europe) ou religieux (théologie moderniste, instruments du compromis et de la » réconciliation »), c’est l’essence du modérantisme et de l’identité modérée — dont le caractère mouvant, difficile à saisir, n’altère en rien la capacité de nuisance — qui constitue l’objet de l’ouvrage. En effet, « depuis la politique moderne, la culture du refus de l’ennemi […] a pris forme avec une figure particulière, celle du modéré » (Jean-Paul Bled, « Présentation », p. 10). La culture en question est le produit de « l’esprit transactionnel qui prévaut dans l’immense majorité du monde catholique » (Gilles Dumont, « Problématiques du modérantisme », p. 17), esprit dont l’auteur souligne bien qu’il peut prendre au moins trois formes : la collaboration avec les « structures de péché », au nom de l’entrisme et des bonnes intentions visant à combattre et rectifier le mal de l’intérieur ; l’optimisme niais qui prétend savoir décrypter la réalité (l’ennemi est bien là, et même massivement, mais en fait c’est un ami qui s’ignore) ; enfin, option plus subtile et plus rare, le quiétisme, qui prend dans ce cas la forme du retrait du monde dans le jardin de l’intériorité, l’abandon à la Providence étant censé pallier tout le reste.
Mais avant toute enquête historique, c’est la réflexion philosophique qui doit démontrer en quoi le modérantisme est une déformation ou une caricature de la modération ou, mieux, de cette qualité éminente que le grec ou le latin nommait tempérance. Celle-ci est étroitement associée au sens de l’harmonie et de la mesure, non celui de M. Homais, mais en tant que la tempérance « c’est la conviction que le seul absolu c’est l’univers, conçu comme ce qui est tel que tout puisse y être contenu de manière harmonieuse sans qu’aucune des parties ne puisse paraître en constituer la fin propre et être cultivée comme telle sans intempérance » (Claude Polin, « Modération et tempérance : continuité ou antinomie ? », p. 25). Pour l’auteur, la tempérance n’a plus sa place dans le monde moderne, quand s’efface toujours plus la conscience de l’ordre du monde et du monde comme ordre, quand un prométhéisme encore très largement dominant malgré les aléas du « progrès » enseigne encore et toujours qu’il n’y pas d’autre ordre que celui constamment créé et recréé par l’homme. Mais Claude Polin est un philosophe qui sait aussi observer les manigances de la politique. Ainsi quand il taille aux politiciens modérés, en rappelant leurs deux règles de base, ce costume si bien ajusté qu’on le voit déjà sur le dos d’un certain président-vibrion : « La première est de présenter comme novatrices et révolutionnaires des idées qui ne fassent peur à personne, en tout cas pas au plus grand nombre, et la seconde de se tenir aussi près que possible de son concurrent et de ses discours (au point que la confusion devienne possible), tout en se présentant comme son irréductible adversaire » (p. 31).
Avec Péguy, ce sont surtout les clercs au sens propre du terme qui font les frais de la critique, parfois très incisive, à la limite même de l’invective quand l’écrivain catholique se moque de l’apparence physique des représentants du « parti dévot », ces théologiens modernistes dont il dit : « Parce qu’ils n’ont pas le courage d’être d’un des partis de l’homme, ils croient qu’ils sont de Dieu » (cité p. 35 par Laurent-Marie Pocquet du Haut-Jussé, « Péguy et les modérés »). Pour Péguy, le théologien moderniste est « l’homme qui tremble. C’est l’homme dont le regard demande pardon d’avance pour Dieu ; dans les salons » (ibid., cité p. 39). Bien qu’il faille se garder de généraliser sur la puissance plasmatrice des idées et des visions du monde, force est de constater que le modérantisme, et tout spécialement le modérantisme en matière religieuse, produit souvent des types humains immédiatement reconnaissables jusque sur le plan physique : mélange de mollesse et de suffisance, air compassé et plaintif, dignité et sérieux de commande sur le mode des huissiers annonçant, parmi les ors de la République, l’entrée du président de la Chambre dans la salle des séances. Que l’on songe par exemple à un Louis Schweitzer, ancien président-directeur général de Renault-Nissan, membre de la famille du célèbre médecin, musicologue et théologien protestant, à présent à la tête de la Halde (Haute autorité pour la lutte contre les discriminations et pour l’égalité). Il suffit de regarder un instant un personnage comme celui-là, par ailleurs richissime, pour saisir ce que signifie la subversion installée, dans ses meubles, « faisant autorité », mais se donnant toujours pour équilibrée, impartiale, au-dessus des passions et des factions. Chez ce genre de modérés, il est évident que modération rime avec tartuferie.
Toujours dans le cadre des traductions historiques du modérantisme, l’enquête se poursuit par un article (de Christophe Réveillard) sur la participation des catholiques à la construction de l’Europe, un autre (de Paul-Ludwig Weinacht) sur le même thème en lien avec les chrétiens-démocrates allemands, et un troisième (de Miguel Ayuso) montrant combien, pour l’Espagne restée « différente » jusqu’à la fin du franquisme, l’européisation a été synonyme de sécularisation accélérée. Ce sont là, en effet, autant d’exemples d’hétérogenèse des fins : les rêves d’Europe « carolingienne » entretenus par les catholiques modérés ont débouché sur un espace-Europe ouvert à tous les vents, théâtre de tous les mélanges, simple prélude au marché mondial déterritorialisé.
La partie la plus proprement politologique et théorique de ce recueil apparaît, logiquement, comme imprégnée de la leçon de Carl Schmitt, parfois aussi de son « disciple » français, Julien Freund. Qu’il s’agisse du refus d’admettre la possibilité de l’ennemi (Jerónimo Molina Cano), du refus du conflit (Teodoro Klitsche de la Grange) ou encore de l’ami extérieur et de l’ennemi intérieur (G. Dumont), plusieurs des grands thèmes chers au maître de Plettenberg reviennent ici, avec une insistance sur l’ennemi intérieur et le climat de guerre civile larvée, tous deux consubstantiels à la démocratie moderne. Le dernier auteur cité souligne la gravité encore plus forte de la négation de l’ennemi en milieu chrétien, dans la mesure où le refus du conflit est aussi négation de la présence agissante du Mal. Il introduit ainsi aux deux contributions de nature théologique, l’une (de Claude Barthe) portant essentiellement sur le domaine moral, l’autre (d’Ansgar Santogrossi) sur certaines démarches œcuméniques comme exercices de modérantisme.
Apparemment sans lien avec le modérantisme et la culture du refus de l’ennemi, les contributions de la dernière partie entendent ouvrir des perspectives de reconstruction, comme s’il s’agissait de prendre acte de l’écroulement définitif des grandes structures socio-historiques (Etat, nation, peuple) et de voir à partir de quoi il est possible de rebâtir. En fait, c’est par leur contenu « radical » qu’elles gardent une relation paradoxale avec le thème dominant de l’ouvrage. Tel est notamment le cas de la longue et originale contribution de Bernard Wicht (« Rebelle, armée et bandit : le processus de restauration de la cité »), en quête de réponses chez des penseurs qui ont dû méditer sur des situations de crise profonde : Platon, Machiavel ou encore Ernst Jünger écrivant son Traité du Rebelle six ans seulement après la défaite de l’Allemagne nazie. Par ailleurs, un thème auquel Schmitt s’était intéressé, celui du katekhon, « ce qui retient » ou « retarde » la venue du « mystère d’iniquité », revient dans la dernière contribution (de Bernard Marchadier). Selon l’interprétation de l’auteur, il y a analogie entre la Sagesse, la Vierge et la Cité, le mal retenu étant l’anomie, « le dérèglement de toutes choses dans la cité humaine » (p. 130).
Quant à l’article conclusif de Bernard Dumont (« La politique contemporaine entre grands principes et lâchetés »), il se termine par une interrogation sur la capacité des démocraties occidentales à absorber indéfiniment des contradictions de plus en plus criantes, y compris par l’entretien délibéré d’un « désordre établi » permettant au Système de se poser en ultime recours et moindre mal.
Après cette présentation détaillée, il importe de faire une réserve de caractère formel et de suggérer une piste de recherche, peu explorée dans l’ouvrage, sur les origines du modérantisme, en France du moins. La réserve porte sur le nombre de contributions. L’ouvrage aurait gagné en cohérence et en clarté, évitant chevauchements et redites, avec moins de contributions, mais plus fournies. Il faut cependant rappeler qu’il transcrit les interventions et certains débats d’un colloque. Si l’impression générale qui se dégage est que le sujet a été abordé sous de nombreuses facettes, il resterait à considérer la sociologie des modérés, quelle que soit l’époque où l’on peut à bon droit parler d’eux (depuis la fin du XVIIIe siècle, période de leur apparition, jusqu’à la récente et actuelle politique d’ « ouverture » de la majorité présidentielle à de pseudo-opposants), de même que la question d’une délimitation confessionnelle précise du modérantisme. Par exemple, le modérantisme doit-il être considéré comme un phénomène interne au catholicisme européen ou à l’ensemble du christianisme du Vieux Continent, et seulement ainsi ? Le terme de modérantisme a-t-il encore un sens lorsqu’il s’applique à des choix politiques qui n’ont plus qu’un lien très lâche avec l’héritage christiano-catholique de l’Europe ?
Toute la difficulté pour cerner le sujet nous paraît venir du fait que les modérés et le modérantisme évoluent toujours à la frontière de la sociologie et de la psychologie. Comme l’avait bien vu Abel Bonnard dans son livre de 1936, les modérés sont, en France du moins, les restes de l’ancienne société ; sociologiquement, ils se recrutent assez souvent, à date plus récente, parmi les anciennes élites (chez les descendants des notables de robe, par exemple). Mais le modérantisme, lui, est un état d’esprit, qui déborde de beaucoup les milieux des conservateurs honteux formellement catholiques. Cet état d’esprit n’en doit pas moins avoir une histoire, bien que celle-ci soit difficile à retracer. La piste de recherche que nous soumettons, dans le sillage de Bonnard, se limite à la France et consiste à suggérer que l’origine des modérés remonte à la vie de société au XVIIIe siècle, laquelle, en France, « s’est signalée par une spécieuse activité de l’esprit, et c’est par là qu’elle a pu être aussi funeste dans ses suites qu’elle était fascinante dans ses manifestations »2 . La brillante formule de Bonnard — « La France est le pays où les défauts des salons sont descendus dans les rues »3 — nous paraît pouvoir rendre compte de plusieurs traits propres au phénomène des modérés et du modérantisme : l’importance des intellectuels dans les rangs modérés ; la surestimation par ces milieux de l’intelligence discursive et ratiocinatrice, au détriment de l’intuition intellectuelle impersonnelle et de la force de caractère ; la vanité des modérés, qui, comme disait Bonnard, « complique » leur faiblesse et la rend « très nuisible » ; leur permanent complexe d’infériorité envers les opinions subversives, en ce que celles-ci leur paraissent toujours témoigner d’une plus grande énergie, cette énergie qui leur fait tant défaut ; leur inguérissable puérilité, eux qui se laissent guider, sous prétexte de briller, par « la croyance enfantine que ce qu’ils ébranlent durera toujours »4 .
A tous ces titres et à quelques autres, modérés et modérantisme apparaissent donc, toujours en bornant la réflexion à la France, comme strictement indissociables de la prédominance dans notre pays de la mentalité bourgeoise et individualiste.
Au bout du compte, qu’ils soient formellement chrétiens ou non, catholiques ou non, ce dont souffrent avant tout les modérés français, c’est de ce que l’on pourrait appeler un « déficit d’incarnation ». En ce sens, le modérantisme, porteur de la culture du refus de l’ennemi, est bien l’ennemi principal de toute tentative authentique de restauration de la cité, puisque celle-ci passe nécessairement, comme l’a bien vu Bernard Wicht, par l’apparition, par la lente et silencieuse affirmation d’une nouvelle substance humaine, donc par une véritable révolution anthropologique.
- . Bernard Dumont, Gilles Dumont et Christophe Réveillard (dir.), La culture du refus de l’ennemi. Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle, Presses universitaires de Limoges, Limoges, 2007, 150 p., 20 €. [↩]
- . Abel Bonnard, Les Modérés. Le drame du présent [1936], Editions des Grands Classiques, 1993, p. 99. [↩]
- . Ibid., p. 101. [↩]
- . Ibid., p. 111. [↩]
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, modérantisme, modérés, bourgeois, bourgeoisie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
mercredi, 14 novembre 2012
Guerra y saber político:Clausewitz y Günter Maschke
Guerra y saber político:
Clausewitz y Günter Maschke
Antonio Muñoz Ballesta
Conviene, especialmente cuando suenan tambores de guerra, no malinterpretar a Carlos Clausewitz (1780-1831), y reconocer la conclusión realista del filósofo militar prusiano, que la Guerra es la expresión o la manifestación de la Política
«George Orwell advertía en una ocasión que, en las sociedades libres, para poder controlar la opinión pública es necesaria una «buena educación», que inculque la comprensión de que hay ciertas cosas que no «estaría bien decir» –ni pensar, si la educación realmente tiene éxito–.» (Noam Chomsky en Tarragona, octubre de 1998)
A José María Laso, luchador en la paz y en la guerra
1
La inminente guerra del Imperio realmente existente en el planeta, EEUU, contra Irak, y contra otros países del llamado «Eje del mal», entre los que se encuentra, según expresión de Gabriel Albiac, el «manicomio militarizado» de Corea del Norte, y que puede provocar la primera Guerra Nuclear en la que los dos contendientes utilicen efectivamente armas atómicas –aunque en la Historia contemporánea se ha estado varias veces al borde de la misma, y no solamente en la crisis de los misiles de Cuba, sino también hace unos meses en la guerra silenciada entre Pakistán y la India–, requiere que nos dispongamos a contemplarla con las mejores armas conceptuales posibles (pidiendo, a la misma vez, a Dios, a Alá, o a Yahvè, según la religión de cada uno, que «el conflicto bélico» no nos afecte individualmente).
¿Qué mejor arma conceptual, para nosotros, que delimitar lo que sea verdaderamente la «guerra» desde el punto de vista del «saber político»?
Porque las guerras no son una «maldición divina o diabólica» a pesar de que las consecuencias en las víctimas humanas, y la destrucción que provocan, así lo sea.
Las guerras pertenecen también, como nos recuerda Clausewitz, al «ámbito de la acción humana», y aunque siempre han estado envueltas en las formas artísticas de su tiempo y han sido el ámbito en el que se han realizado avances técnicos, tecnológicos y científicos de eficaz transcendentalidad –en el sentido del materialismo filosófico– innegable para las sociedades, las guerras «no pertenecen al campo de las artes y de las ciencias», y sin embargo, no son un saber sencillo, sino al contrario, «llevar una guerra» consiste en un saber de los más complejos y racionales que existen.
En las guerras se trata de «movimientos de la voluntad aplicado... a un objeto viviente y capaz de reaccionar», y por ello, subraya Günter Maschke, para Clausewitz, la guerra (también la próxima guerra contra Irak y Corea del Norte, &c., habría que añadir) es «incertidumbre, fricción y azar» que no permite una simplificación –ni por los militares, ni por los políticos e intelectuales– de los «complejos procesos» de la guerra, presentándola de tal forma «que incluso un niño podía tener el sentimiento de ser capaz de dirigir un ejército» («militärische Kinderfreunde»). Ni admite el desarme conceptual de la Filosofía ante ella, pues estaríamos renunciando a la comprensión verdadera de una de las cuestiones más cruciales del Presente histórico. ¡Ya es hora que la Filosofía no quede al margen de la Guerra, de la Idea de «guerra»!
2
El gran ensayista y pensador de lo político y la política, Günter Maschke, ha encontrado, al respecto y recientemente{1}, una solución plausible al laberinto interpretativo de lo que realmente nos quiso decir Carlos Clausewitz (1780-1831) sobre la Idea de la «Guerra» en su obra principal De la guerra, y en concreto en su relación con la «política».
Günter Maschke, después de un preciosa, y laboriosa, labor exegética de la correspondencia y demás obras, algunas inéditas, del famoso general prusiano, ha concluido, lo que muchos siempre hemos intuido, desde hace tiempo, a saber, que:
«La Guerra es la expresión o la manifestación de la Política».
Es ésta conclusión de Maschke una tesis que acerca el pensamiento de Clausewitz al «realismo político», y lo aleja, definitivamente, de los análisis bien intencionados y humanitaristas, de ciertos filósofos, intelectuales, especialistas universitarios y periodistas, que continuamente tratan de ocultarnos o silenciarnos la verdad de la geopolítica del inicio del siglo XXI en el Mundo (los que Antonio Gramsci denominó «expertos en legitimación»).
No podía ser de otra forma ya que la realidad política internacional, y nacional, es objetiva, y es la que es, independientemente de la propaganda orwelliana que realicen los «intelectuales», los «centros de educación» y los medios de comunicación.
3
La propaganda orwelliana de EEUU, y de sus «satélites» europeos –«satélites» porque no han conseguido tener una política exterior común, ni un ejército propio–, más o menos sutil, se presenta en dos frentes.
El primero es el frente de la opinión pública y consiste en conseguir que la misma adopte el consenso «políticamente correcto» de la élite intelectual.
En este caso el «consenso» significa que la guerra contra Irak es inevitable y necesaria por parte de EEUU y sus aliados (en cambio más razones tendría Irán), independientemente de saber si realmente el Irak de 2003 ha amenazado o agredido a EEUU o a Inglaterra o a Alemania o a España, o si sabemos con certeza las consecuencias sobre la población civil que tendrán los bombardeos y la invasión de los soldados de las fuerzas terrestres (bombardeos que se vienen haciendo, por lo demás, periódicamente desde 1991, y terminación «por tierra» de la guerra del golfo de 1991, sin hacer mención de la «medida política o militar» del «embargo de medicamentos, &c.»). Pueblo irakí y kurdo que, indudablemente, no se merece el régimen político de Sadam Husein (ni de Turquía), ni la ausencia de los derechos humanos elementales, inexistencia de derechos fundamentales que, lamentablemente, se suele olvidar por los que están en contra de la guerra contra Irak, salvo la honrosa excepción de Noam Chomsky, quién siempre ha defendido los derechos humanos auténticos contra cualquier organización estatal o no, sea EEUU o se trate de otro Estado.
El segundo frente de la propaganda orwelliana se presenta en el campo de las ideas del saber político. En el análisis político interesa que no se comprenda, no ya por la opinión pública, sino tampoco por parte de los dedicados a la «ciencia política», lo que significa la realidad de la guerra y la política, pues es propio de la ideología de un determinado régimen político que su «élite intelectual» posea unas herramientas conceptuales «apropiadas» para la consecución, no de la verdad, sino de los objetivos del régimen político –que suele coincidir con los objetivos de los más ricos y poderosos del régimen y sus monopolios económicos–.
Günter Maschke, en mi opinión, contribuye con su acertado análisis o comprensión verdadera del pensamiento de Clausewitz, a no convertirnos en víctimas conceptuales de este segundo frente de la propaganda orwelliana del «eje del bien» y/o del «eje del mal».
4
Los «intelectuales humanitaristas», que están afectados, del llamado por Noam, «problema de Orwell»{2}, suelen permanecer en la «ilusión necesaria» de que la política fracasa cuando se recurre a la guerra (de que la guerra es el «fin» de la política), porque han interpretado incorrectamente la famosa frase de Clausewitz:
«La guerra es un instrumento de la política/ Der Krieg ist ein Instrument der Politik»{3}
La «ilusión» de estos intelectuales de la «intelligentsia» viene de la confusión entre «instrumento» y «objetivo» de la «verdadera política». Si consideramos la guerra como un simple instrumento del «arte de la política», y la política tiene el instrumento pacífico de la diplomacia ¿no es, por tanto, un «fracaso» de la política, el recurrir al «instrumento de la guerra»?
Planteados así las premisas o los presupuestos, habría que concluir que sí; pero ocurre que las cosas no son así, es decir, que el pensamiento de Clausewitz (ni de los más importantes y coherentes «pensadores políticos», incluido Noam Chomsky) no tiene esos presupuestos que se les atribuye falsamente. Y ello debido a que la frase de Clausewitz (ni el pensamiento de los filósofos a los que me refiero) no puede sacarse del contexto de toda su obra, incluido la correspondencia, del general prusiano (y de los autores que miren «sin prejuicios» los hechos ).
Y el «objetivo» de la «política», como sabemos, es la eutaxia de su sociedad política; y para ello el objetivo no es solamente la «paz a cualquier precio», pues ello implicaría la renuncia a su «soberanía», a su «libertad» (si, en un país, todos aceptaran ser siervos o esclavos, o vivir en la miseria y sin luchar, no habría jamás violencia o «guerras»), &c., y en el límite la renuncia, de la misma sociedad política, a su «existencia» o permanencia en el tiempo de sus planes y programas –de su prólepsis política–.
Renuncia a la existencia de la misma sociedad política, puesto que, y esto se reconoce por Clausewitz y todos los autores, la «paz» como las «guerras», no son conceptos unívocos.
La «paz», y la «guerra», puede ser de muchas formas, desde la «Pax romana» a la «Paz establecida en Versalles». Además de la existencia, quizás más realista, de un «status mixtus que no es ni guerra ni paz», por ejemplo, ¿cómo calificar la situación actual entre Marruecos y España después de la «batalla» del islote Perejil? ¿O en el futuro, entre España e Inglaterra, por el asunto del peñón de Gibraltar? ¿O en el futuro, entre España y el «País Vasco» o «Catalonia» o «Galicia»? ¿De «diplomacia» o de «guerra»?
5
En realidad la guerra es la expresión o manifestación de la política, y ella –la guerra– es como «un verdadero camaleón, pues cambia de naturaleza en cada caso concreto», aparentemente creemos que se produce la «desaparición» de la política (o del Derecho Internacional) cuando «estalla la Guerra», y en verdad no es así, pues la política y la diplomacia continúa implementando sus planes y programas, ¿para qué?, para conseguir una mayor eutaxia de la sociedad política vencedora o no, en el «tiempo de paz» posterior (así consiguió EEUU su predominio en Oriente Medio después de la Guerra Mundial II).
Pues, recordemos que las guerras terminaban con los Tratados de Paz, por lo menos hasta la Guerra Mundial I. Hoy en día, parece más bien, que estemos en un permanente «estado de guerra» mundial, en el que es imposible un «Tratado de Paz» entre los contendientes. Así las cosas en el «mundo del saber político» ¿Cómo y cuando se firmará el Tratado de Paz entre EEUU y Ben Laden? ¿Y es posible tal cosa?
Bien dice G. Maschke que Clausewitz es autor de las siguientes frases que inclinan la balanza en favor del primado de lo político sobre lo militar en el tema de la «guerra»:
«la política ha engendrado la guerra», «la política es la inteligencia... y la guerra es tan sólo el instrumento, y no al revés», «la guerra es un instrumento de la política, es pues forzoso que se impregne de su carácter » político, la guerra «es solo una parte de la política... consecuentemente, carece absolutamente de autonomía», «únicamente se pone de manifiesto –la guerra– en la acción política de gobernantes y pueblos», «no puede, jamás, disociarse de la política», «pues las líneas generales de la guerra han estado siempre determinadas por los gabinetes... es decir, si queremos expresarlo técnicamente, por una autoridad exclusivamente política y no militar», o cuando dice «ninguno de los objetivos estratégicos necesarios para una guerra puede ser establecido sin un examen de las circunstancias políticas», &c.
Ahora bien, volvamos a la Guerra contra Irak, una manifestación más (en este caso de violencia extrema «policial») de la nueva «política «del «Imperio» constituido y constituyente de la también «nueva forma de la relación-capital» –el «Capitalismo como forma Imperio», según la reciente tesis del libro de Antonio Negri y M. Hardt– e intentemos «comprender» ahora, con las «armas conceptuales tradicionales» clausewitzianas, la política del bando «occidental». Entonces, EEUU, dirigido por Bush II, se nos presenta como un «nuevo Napoleón» que reuniera en su persona política la categoría de «príncipe o soberano» al ser, a los ojos del Mundo, al mismo tiempo «cabeza civil y militar» de la «civilización». Pero otorgándole que sea la cabeza militar en el planeta, ¿quién le otorga el que sea también la «cabeza civil»?{4} –Noam Chomsky es más realista al reconocer que desde el punto de las víctimas, es indiferente que el poder que los humilla y mata se llame «Imperio» o «Imperialismo». En cambio, el poder militar y civil de Sadam Husein se nos da en toda su crueldad dictatorial, apoyada –por cierto– hasta hace once años por los mismos EEUU y Occidente, que miraban, entonces, para otro lado, cuando se cometían innumerables atentados a los derechos humanos contra su propia población irakí y kurda.
6
En verdad la guerra es la expresión de la política, y en ese orden, es decir, que la política no es la manifestación de la guerra, lo cual viene a dar la razón, no solamente al realismos político de Carl Schmitt y Julien Freund, sino también a Gustavo Bueno, pues la existencia de las sociedades políticas auténticas, de los Estados o Imperios, requiere una capa cortical que se da, entre otras causas, por la acción política partidista y eutáxica.
Se consigue así que dichos intelectuales no incidan, como deseamos todos, en su lucha y defensa por una nueva política que se exprese predominantemente en diplomacia, y no en guerras de exterminio, predominantemente «exterminio de civiles».
Estos «intelectuales» y periodistas se concentran, en cambio, en la denuncia «humanitaria»{5} de los males de la guerra (males de la guerra que por más que se han denunciado en la Historia no han dejado de producirse salvo que se ha influido de manera práctica en la política), olvidándose de luchar conceptualmente, filosóficamente, por conseguir una vuelta a la verdadera política que no se exprese en guerras nucleares generalizadas o no.
Y, en cambio, la verdadera política incluye, como nos demuestra el análisis de G. Maschke, dos partes, en su expresión, la «diplomacia» y la «guerra». Y la política de una sociedad determinada no deja de ser «verdadera política» –utilizando conceptos de la «realista» filosofía política de Gustavo Bueno– cuando se manifiesta en diplomacia o en la guerra.
No se reduce la política a la paz, y a los medios pacíficos.
Otra de las causas del error habitual, hasta ahora, en la interpretación de Clausewitz, es no percatarse del origen histórico de determinadas Ideas del saber político, y viene recogida y resaltada por G. Maschke, a saber, la trascendental importancia del cambio histórico en la concepción de la guerra, con la Revolución Francesa de 1789 y Napoleón (príncipe o soberano, y no sencillamente «dictador»), ya que se pasó del «viejo arte de la guerra» de gabinete de los Estados Absolutistas, a «los grandes alineamientos engendrados por la guerras», por la Revolución.
Gustavo Bueno ha recogido también esta modificación crucial, sin hipostatizarla, con su análisis del surgimiento de la Idea de la «Nación política» o nación canónica:
«Algunos historiadores creen poder precisar más: la primera vez en que se habría utilizado la palabra nación, como una auténtica «Idea-fuerza», en sentido político, habría tenido lugar el 20 de septiembre de 1792, cuando los soldados de Kellerman, en lugar de gritar «¡Viva el Rey!», gritaron en Valmy: «¡Viva la Nación!» Y, por cierto, la nación en esta plena significación política, surge vinculada a la idea de «Patria»: los soldados de Valmy eran patriotas, frente a los aristócratas que habían huido de Francia y trataban de movilizar a potencias extranjeras contra la Revolución.» Gustavo Bueno, España frente a Europa, Alba Editorial, Barcelona 1999, página 109.
Por ello, el realismo político, y toda la filosofía política «realista» –en cuanto sabe separar la ideología y la verdad geopolítica– que incluye, en este sentido y a mi entender, a Gustavo Bueno y a Noam Chomsky, tienen que reconocer, lo que ya dijera Clausewitz:
«Que la «guerra no es otra cosa que la prosecución de la política por otros medios»
O como dice el mismo Günter Maschke: «La tesis fundamental de Clausewitz no es que la guerra constituye un instrumento de la política, opinión de los filántropos que cultivan la ciencia militar, sino que la guerra, sea instrumento o haya dejado de serlo, es la «prosecución de la política por otros medios.» Pero Clausewitz encontró una formulación aún mejor, sin percatarse de la diferencia con la precedente. Él escribe que las guerras no son otra cosa que «expresiones de la política» (tal cita proviene del estudio, todavía inédito, «Deutsche Streitkräfte», cfr. Hahlweg en la edición citada de Vom Kriege, pág. 1235), y en otro lugar, que la guerra «no es sino una expresión de la política con otros medios».» Empresas políticas, número 1, Murcia 2002, pág. 47.
7
En conclusión, es mucho más «humano» ser «realista» en el saber político, cuando se trata de Idea tan omnipresente como la «guerra», pues se evitan más «desastres humanitarios», y se consigue más auténtica libertad y justicia, cuando superamos el «problema de Orwell» y podemos contemplar la política tal como es, es decir, como la que tiene el poder real de declarar la guerra y la paz, que van configurando, a su vez, los «cuerpos de las sociedades políticas» en sus respectivas «capas corticales». Por ello la solución de G. Maschke a las ambigüedades de la obra de Clausewitz viene a contribuir al intento serio de cambiar la política para evitar las guerras. Se trata de una lucha por la verdad, en la paz y en la «guerra».
Notas
{1} «La guerra, ¿instrumento o expresión de la política? Acotaciones a Clausewitz», traducción de J. Molina, en la revista Empresas políticas (Murcia), año I, número 1 (segundo semestre de 2002).
{2} El «problema de Orwell» es el tema central de la labor de Noam como filósofo político, y consiste en la cuestión de «cómo es posible que a estas alturas sepamos tan poco sobre la realidad social» y política de los hombres(y olvidemos tan pronto las matanzas, miserias, etc. causados por el poder estatal imperialista), disponiendo, como se dispone, de todos los datos e informaciones sobre la misma. A Orwell no se le ocultó que una «nueva clase» conseguía en gran medida que los hechos «inconvenientes» para el poder político y económico, llegasen a la opinión pública «debidamente interpretados», y para ello si era preciso cambiar el Pasado, se hacía, pues se controlaba los hechos y los conceptos del Presente. La propaganda en las sociedades «libres» se consigue sutilmente, por ejemplo por el procedimiento de fomentar el debate pero dejando unos presupuestos o premisas de los mismos sin expresarse (y sin poder ser criticadas), o discutiendo por la intelligentsia, entre sí, cuestiones periféricas, dando la impresión de verdadera oposición.
{3} Clausewitz, Vom Kriege, págs. 990-998, 19 ed., Bonn 1980.
{4} La ONU, como institución internacional con «personalidad jurídica propia», ha sido «puenteada» continuamente por EEUU, cuando le ha interesado, y sus Resoluciones incumplidas sistemáticamente, siempre y cuando no sean como la 1441, que da a entender, o no –dicen otros– que se puede utilizar la «fuerza» contra el dictador irakí.
{5} ¡Como si no fuera «humano» el análisis científico y filosófico del concepto de las guerras y sus relaciones con la política, precisamente para conseguir mejores y mayor cantidad de Tratados de Paz!
00:05 Publié dans Défense, Histoire, Militaria, Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, clausewitz, günter maschke, théorie politique, politologie, sciences politiques, militaria, défense, 19ème siècle | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Georges ORWELL, Le Socialisme contre la modernité?
Georges ORWELL,
Le Socialisme contre la modernité?
00:05 Publié dans Littérature, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : geroge orwell, littérature, littérature anglaise, lettres, lettres anglaises | | del.icio.us | | Digg | Facebook
L’idéal de l’Empire de Prométhée à Épiméthée
L’idéal de l’Empire de Prométhée à Épiméthée
par Massimo CACCIARI
Nous reproduisons ci-dessous un texte intéressant du philosophe et homme politique italien, Massimo Cacciari, cueilli sur le site du quotidien Libération. Massimo Cacciari est l’auteur de nombreux essais et une partie de son œuvre est traduite en français. Les éditions de l’Éclat ont ainsi publié en 2011 un texte intitulé « Le Jésus de Nietzsche ».
Métapo Infos
Incontestablement, la période qui va de l’écroulement du « socialisme réel » à la nouvelle « grande crise » que nous traversons actuellement peut être définie véritablement comme une époque. Le terme Épochè indique, en effet, l’arrêt, l’interruption, mais non pas comme s’il s’agissait d’un espace vide, d’un intervalle. Il signifie, au contraire, un resserrement dans le cours du temps, une abréviation extraordinaire, dans laquelle ses caractères essentiels s’expriment comme contractés les uns sur les autres et les uns contre les autres. L’époque, de ce point de vue, n’est donc nullement un « temps long », mais le concentré de ses significations dans un spasme, qui les révèle et peut aussi, en même temps, les dissoudre. De ce même point de vue, on peut définir comme « époque » la grande guerre civile qui a anéanti la centralité politique de l’Europe entre 1914 et 1944 : trente ans seulement, à peine plus que « notre » 1989 – 2011. Dans l’époque, se précipitent évidemment des idées, des facteurs, des contradictions mûries dans le « temps long » – et c’est pourquoi il est impossible de la comprendre de manière isolée. Mais elle assume toutefois une valeur révélatrice et déploie les mêmes éléments qui étaient déjà à l’œuvre selon des dimensions et des énergies nouvelles. Alors que, précisément, toute « normalité » est arrêtée, ce qui semblait à première vue normal et facilement prévisible dans ses développements s’exprime désormais selon des formes inattendues et inquiétantes. Dans un certain sens, l’époque assume toujours une valeur « apocalyptique ». Conséquence évidente de cet état de choses : l’affirmation d’une extraordinaire porosité des mots. Leur puissance « apophantique » décroît redoutablement. Le rapport entre les mots et les choses qu’ils devraient désigner se fait dans la plus grande insécurité. Que signifient aujourd’hui les mots démocratie ? marché ? paix ? Ou encore : nous avons fait l’unité européenne – mais que signifie l’Europe ? l’Occident ? Ainsi, le terme époque résume aussi en soi sa profonde signification sceptique : toute époque authentique se révèle également en tant que doute radical sur son propre passé et ne s’ouvre au futur que de manière hasardeuse.
À la veille d’une telle « époque », les signes qui permettent de la lire restent cachés. Les temps semblent même favoriser des prévisions contraires. La veille d’une époque se caractérise par un certain bavardage sur notre capacité à « contrôler » l’avenir, tandis que l’époque qui suit semble « faite » pour démontrer la loi éternelle de l’hétérogenèse des fins. Ce fut le cas de l’anno mirabile 1989. La troisième guerre mondiale était terminée. Un seul Titan restait en scène, à la puissance inapprochable. Mais c’était un Titan qui, malgré son nom, se voulait non-violent. C’était un Prométhée bienfaiteur des misérables mortels, qui aurait travaillé et se serait volontiers sacrifié pour harmoniser et unifier leurs désaccords et leur assurer justice et bien-être. Comme Prométhée, il avait en réserve, pour nous, le don le plus précieux : la raison, le nombre, la capacité de calculer et de transformer. L’affirmation de son modèle de rationalité aurait été le fondement de la sécurité et de la paix.
Aube ou crépuscule ? L’époque rapproche les couleurs jusqu’à les confondre. Mais tous ou presque obéirent à cette Annonce, comme à l’aube d’un Nouveau Commencement. Le tragique vingtième siècle de la « tyrannie des valeurs » déclinait enfin et surgissait l’âge de la concorde entre science, technique, marché, démocratie et « droits de l’homme ». Qu’il y ait pu y avoir une symbiose inavouable entre les deux Titans (à partir d’une origine commune !) – qu’ils n’aient pu régner qu’ensemble – et que, donc, la fin de l’un ait pu représenter une menace mortelle pour l’autre – tout cela ne fut même pas suspecté. Tout au plus les traditionnels adversaires du vainqueur s’exercèrent à en dénigrer la puissance solitaire – justifiés en cela par l’indécente jubilation de ses vassaux.
L’époque qui s’est ouverte alors a fait justice de cette antiquaille, nous rappelant le célèbre dit romain : vae victoribus ! « Malheur aux vainqueurs ! » On ne remporte pas la victoire dans la guerre tant qu’on n’a pas remporté la victoire dans la paix. Prométhée pouvait-il vaincre ? Ce Titan pouvait-il mener à terme l’ordinatio ad unum, cette « aspiration à l’unité » de cette planète toujours plus étriquée et plus pauvre, pour laquelle il se sentait depuis longtemps appelé ? Certes, il représentait le courant spirituel et politique le plus fort d’Occident, la seule puissance hégémonique qui avait survécu au suicide d’Europe, profondément enracinée dans une grande culture populaire, forte de valeurs partagées. Mais là aussi résidait sa faiblesse. Sa propre puissance créait l’illusion que le monde pouvait être guidé depuis les sommets du Capitole. Il l’avait déjà été péniblement au cours des décennies précédentes à travers le foedus, l’« alliance », toujours incertaine, mais aussi toujours opérante, entre Empire d’Occident et Empire d’Orient. L’écroulement de ce dernier ébranlait de manière automatique des régions tout entières, stratégiques d’un point de vue géopolitique et sur lesquelles le vainqueur n’avait quasiment aucune prise : il « libérait » des énergies auparavant contrôlées de quelque manière et contraintes à jouer toujours, en tout cas à l’intérieur de la « guerre mondiale »; il brisait le conflit, en le rendant illisible pour celui qui avait été formé à calculer selon les paramètres « universalistes » de cette guerre.
L’époque a mis à l’ordre du jour, impérieusement, l’idée d’Empire – et tout aussi impérieusement elle l’a démantelée. Voici un exemple éclatant de cette morsure du temps qu’une époque représente. L’occasion impériale s’avérait presque comme nécessaire à la proclamation de la victoire. Les vassaux européens suivaient, en applaudissant, son char. Mais les adversaires en faisaient tout autant. Aucune apologie de l’Empire ne fut plus convaincante, concernant le destin qu’il aurait dû représenter, que les critiques de ses détracteurs. Mais Prométhée n’est pas intrinsèquement capable d’Empire. Il ne sait pas le concevoir ex nationibus; il n’a aucune idée du pluralisme (idéologique, religieux, culturel) qui est immanent à son concept; par conséquent, il ne parvient pas à donner naissance à des formes de gouvernements authentiquement « impériales ». La guerre – que, tout au long des années 60 et 70, le vainqueur s’était déjà montré incapable de conduire efficacement en dehors des schémas de la rationalité militaire, fondés sur le concept de justus hostis – n’était que la poursuite de la faillite de la politique par d’autres moyens. L’Empire dure jusqu’au 11 septembre. Puis l’époque en consume l’écroulement.
Le 11 septembre crée l’illusion d’une relance en grandes pompes de l’idée impériale; en réalité, elle en marque la fin. Les désastreuses guerres de Bush junior en poursuivent le fantôme, tandis qu’elles essaient de masquer les causes aussi matérielles qui en décrètent la faillite.
Il s’est avéré, toujours lors de ce temps bref, dans le dialogue tout aussi bref de l’époque, que le nouvel Empire avait construit une grande partie de son hégémonie en étendant sa dette; il s’est avéré que son peuple, même en se fondant sur la foi en sa propre mission, s’est caractérisé par une épargne négative. Il s’est avéré que les politiques de l’aspirant Empire ont donné libre cours à la plus glorieuse période de dérégulation que l’histoire du capitalisme ait peut-être jamais connue et à l’écroulement de toute forme de contrôle sur les activités économiques et financières. Il s’est avéré que tout cela portait le vainqueur à dépendre tout d’abord du Japon, puis de la Chine pour le financement de sa propre dette. Il s’est avéré encore que ce financement impliquait la « reddition » à la Chine sur des questions fondamentales, comme son entrée dans l’O.M.C. en tant qu’économie de marché (sic !) et le maintien de sa monnaie à des niveaux incroyablement bas. Il s’avère maintenant que l’Empire est dans une situation de « souveraineté limitée », comme n’importe quel État de la vieille Europe.
Naturellement les ressources de Prométhée sont immenses. Mais il est évident que ses velléités d’unification ont échoué. Et elles ne pouvaient qu’échouer. La présidence d’Obama enregistre et administre cet échec. Ce sera un blasphème – et ça l’est certainement – mais on ne peut s’empêcher de le penser. Qui n’a pas salué comme un nouveau lever du jour la perestroïka de Gorbatchev ? Quelqu’un s’en souvient-il ? Mais Gorbatchev était, tragiquement, uniquement, rex destruens, « roi démolisseur ». Lourd destin – mais il revient toujours à quelqu’un dans l’Histoire de devoir défaire, de n’avoir rien d’autre à faire que défaire, sans même espérer pouvoir repartir de là. Il n’y a pas de feu sans cendres. Obama : nouvelle ère, nouveau siècle, et même : nouveau millénaire. Nouveau visage à tout point de vue – comme Gorbatchev, qui ne ressemblait certes pas aux vieux staliniens, ni au typique représentant du K.G.B., comme Poutine. Obama : voici la possibilité de relancer l’idée impériale selon le fil d’Ariane des « droits de l’homme » de l’Évangile démocratique, de l’œcuménisme dialogique. Avec l’icône éternelle de J.F.K. dans le dos. Mais il semble qu’il ne lui reste qu’à « démonter » les guerres des autres, qu’à traiter avec les « maudites » agences de notation, qui, après avoir réduit en poussière tout contrôle effectif dans les années de la grande bulle, désignent maintenant, comme des censeurs sévères, les victimes imminentes à la spéculation internationale; qu’à essayer de donner une forme plausible à l’embrouillamini inextricable qui s’est formé entre économie américaine et République populaire chinoise.
Il n’y a aucun Empire à la fin de l’époque, et moins encore quelque organisation multipolaire fondée sur d’authentiques alliances. Celui qui, il y a vingt ans, semblait pouvoir aspirer à servir de « cocher » global, arrive à peine aujourd’hui à se tenir debout. Celui qui remplit aujourd’hui une fonction économique et financière clé n’est nullement en mesure d’assumer une fonction politiquement hégémonique. Le premier pourra-t-il renaître ? Le second pourra-t-il se transformer en puissance politique globale ? Les anciennes et nouvelles puissances pourront-elles donner vie à une organisation commune, à partir des « fondamentaux » financiers, économiques et commerciaux ? L’époque suspend son jugement. Les Prométhée qui croient tout prévoir ne sont que ceux qui la projettent et la préparent. Finalement, on « calcule » comment ce qui est arrivé correspond à ce qui était attendu en moindre proportion – et l’on n’ose pas faire de prévision. L’époque commence avec Prométhée, le « prévoyant », et s’achève avec Épiméthée, « celui qui réfléchit après coup ». De la modestie de son doute et du réalisme désenchanté de ses analyses, nous pourrons peut-être tirer quelque bénéfice.
Massimo Cacciari
• Traduit de l’italien par Michel Valensi
• D’abord mis en ligne sur le site de Libération, le 30 juin 2012, puis repris par Métapo Infos, le 6 août 2012.
Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com
URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2682
00:05 Publié dans Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : massimo cacciari, saint empire, idée impériale, théorie politique, philosophie, sciences politiques, italie, politologie, tradition, traditionalisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
lundi, 12 novembre 2012
Il cancro del liberalismo secondo Moeller van den Bruck
di Luca Leonello Rimbotti
Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]
Che da circa tre-quattro secoli i popoli vengano giocati da un inganno assurdo e atroce è cosa nota a chiunque sia interessato alla storia come manifestazione della scienza politica applicata. Che questo inganno teso alla nazione abbia un nome e si chiami liberalismo appare evidente da oltre un secolo a tutti coloro che, davanti alla crisi sempre più chiara in cui l’Europa veniva e viene gradatamente sprofondata, si sono interrogati circa il destino che attende i popoli che si lascino irretire dalla fiaba della democrazia parlamentare. Il liberalismo come «rovina dei popoli» è un concetto utilizzato ad esempio da Moeller van den Bruck nel 1923, allorquando il piano di sovversione etica e di disintegrazione sociale ordito dal liberalismo era già evidente a chiunque avesse occhi per vedere. Interi schieramenti di alta cultura politica europea se ne resero conto in tempo, e lanciarono i loro poderosi avvertimenti. Gli Spengler o i Sombart, i Barrés o i Maurras, i Papini o i “vociani”, e dunque tutto l’ambiente vasto della Rivoluzione Conservatrice europea – da “destra” a “sinistra”: dai nazionalisti ai sindacalisti rivoluzionari, dai nazionalrivoluzionari ai nazionalbolscevici, dai fascisti ai nazionalsocialisti – avevano chiara una cosa: il liberalismo, sotto la scorza di una copertura “democratica”, è il più micidiale pericolo mai corso dalla civiltà non solo europea ma mondiale, diciamo mai corso dall’umanità, poiché nasconde una promessa di morte sociale di massa che avanza con le logiche di una inesorabile volontà di distruzione.
Moeller van den Bruck non fu che uno tra i migliori fra quanti seppero leggere con rigore e chiarezza la natura della minaccia. Novant’anni fa egli lanciò uno degli avvertimenti più crudi e veraci circa la natura dell’abisso verso il quale i popoli venivano sospinti dalla famelica volontà di corrosione di cui il liberalismo è strutturalmente animato. Qualcosa che va molto al di là delle stesse categorie politiche, che non riguarda solo la febbre economicista o il delirio usurario, ma che investe la stessa natura umana, sovvertendola. Il liberalismo come male morale, come lebbra dello spirito, come abbandono dei tratti di un umanesimo sociale in un lucido disegno di morte.
«È il distruttivo mondo ideologico di un liberalismo che, attraverso le sue soluzioni, diffonde una malattia morale nei popoli e penetra con la sua forza dominante in una nazione, decomponendola». Questa frase di Moeller, presente nel suo libro famoso intitolato Il Terzo Reich, ci dà conto della natura del contagio liberale. Esso non è solo politico o sociale, ma spirituale, anìmico, va alle viscere della mente e del cuore, e lì decompone senza posa. L’uomo liberale, soggiogato dalle logiche dell’individualismo acquisitivo, è una struttura trans-politica, è un risultato del lavoro che la macchina liberal-liberista va compiendo per lo meno dal Seicento e da quando in terra inglese si affermò la saldatura fra circuiti massonico-mercantili e puritanesimo biblista. Si tratta della sindrome visibile di una patologia che lavora negli interstizi coscienziali, fra le penombre di menti alterate dalla dis-umanizzazione della personalità, dando luogo al lucido incubo della società dei diritti: «Il liberalismo è la libertà di non avere princìpi, ma allo stesso tempo di sostenere che questi princìpi esistono». Questa asserzione di Moeller è la più potente diagnosi sul liberalismo che mai sia stata fatta da un’intelligenza europea. Facciamoci caso. Ha la portata di un aforisma nietzscheano. Essa nasconde, nella breve linearità di una frase sintetica, l’intero universo della debilitazione che va ascritta ad un disegno di snaturamento dell’uomo qual è il liberalismo. Una dottrina e una pratica che operano un vero e proprio attentato antropologico lavorando sull’uomo, destabilizzando e poi liquidando il suo arcaico onore di appartenere ad una comunità di simili tra i quali vigano amore e reciprocità. Dell’uomo animale sociale teso al suo simile il liberalismo fa una cellula afflitta da forme di egoica incontinenza sempre crescenti e che, simili al tumore, hanno nell’idea di “espansione” il loro vertice necrotico.
L’uomo liberale espande i suoi diritti e allarga il suo accesso al denaro con la logica aziendale di un procedere vorace sul mercato delle menti, egli agisce sotto la spinta di una necessità biologica, secondo istinti indotti da una rovinosa concezione dell’umano, che fa dell’interesse personale la molla prima ed unica dell’esistere. L’ignobile che diventa codice etico. Qualcosa che, nell’Antichità o nel Medioevo, sarebbe parso indegno e infame, cioè l’individuo che antepone il profitto al codice etico comunitario, sotto il trattamento dei “princìpi” liberali diventa titolo di accesso ai massimi prestigi sociali: l’uomo di successo, il ricco, il vincente. Un tale rovesciamento dei valori non riguarda solo l’uomo, ma soprattutto l’uomo associato. Investe non solo l’Io, ma soprattutto il Noi, facendolo a pezzi senza possibilità che si abbia una ricostruzione quale che sia del tessuto sociale così rozzamente e così a fondo lacerato.
L’analisi del liberalismo fatta da Moeller – che più di altri pose l’accento sugli aspetti generali, oggi diremmo “mondialisti”, di questa sinistra affermazione della disumanità – oggi attira l’attenzione di tutti coloro che ancora si pongono su posizioni antagoniste rispetto al potere mondiale liberal, proprio perché l’accento veniva da Moeller posto sul liberalismo in quanto sistema: un sistema attraverso il quale si distruggono le identità dei popoli e, su questo terreno desertificato, si erige un potere mondiale fondato sul profitto privato e sul gigantesco sfruttamento di massa. Il liberalismo ha una sostanza di progetto ultimativo. Non è una semplice dottrina politica. È una rete. È un piano mondiale ed epocale, un metodo col quale si intende chiudere la storia e liquidare le appartenenze (famiglia, nazione, etnia, cultura, civiltà), una volta per tutte.
Il liberalismo, quindi, come metodo, come prassi di un potere che non ha ideologia, né intende averla, ma ha solo un fine ultimo combaciante con una sorta di millenarismo in negativo ed invertito di segno: la «rete di intrighi estesa sul mondo» di cui parlava Moeller nel 1923 è ad esempio quella in cui ingenuamente cadde la vecchia Germania imperiale, sospinta a recitare la parte dell’imperialista aggressiva dagli stessi maggiori gestori e azionisti dell’imperialismo di rapina su scala planetaria, e così aprendo il ciclo guerresco con cui si ottenne la rovina politica dell’Europa e la sua uscita di scena come contropotere a livello globale.
Quella rete è esattamente la stessa nella quale cadono, una ad una, le nazioni al giorno d’oggi, in quella ultima fase che stiamo vivendo e in cui si assiste al passaggio finale dal liberalismo capitalista internazionale – ancora in qualche modo legato alla finzione dei “governi nazionali” – al liberalismo finanziario cosmopolita su base apertamente snazionalizzata. Moeller va oggi riletto proprio in questa chiave, come testimone diretto e di assoluto rilievo di una fase decisiva del liberalismo, già ai suoi tempi ben leggibile, nel suo passaggio da macchinazione ancora parlamentaristica e “democratica”, con vari gradi di applicazione della pantomima egualitaria, ad aperto gioco al massacro degli interessi vitali dei popoli, in nome della brutale prevalenza di quelli internazionali privati.
Moeller, con poche e illuminanti osservazioni, stilò una diagnosi del fenomeno liberale con categorie a tutt’oggi del più grande interesse. Egli seppe individuare nell’insieme delle contraddizioni del piano mondialista la natura stessa del progetto liberale: lotta contrapposta fra concentrazioni di potere divise dalle tattiche contingenti, ma unificate dalla strategia di asservimento. Un modo di procedere tipicamente massonico. Ma, attenzione: non si deve pensare alla vecchia massoneria di pensiero e di club, il metodo massonico essendo un insieme di circuiti anche in contraddizione tra di loro, ma sostenuti da un unico procedimento volto al medesimo fine. In questo, Moeller è stato un maestro come analista: «Ma il carattere ambiguo, mutevole della massoneria, la sua plasticità e quindi la sua capacità di adattarsi agli eventi» erano e sono la struttura del progetto liberale, il suo scheletro osseo, su cui si impianta l’intera operazione di sovvertimento.
«Dobbiamo inoltre considerare – continuava genialmente Moeller novant’anni, ripetiamo, novant’anni fa! – che, nel percorrere la storia della massoneria, ci si imbatte in una disgregazione di princìpi, che presuppone un uomo del tutto particolare, nel quale individuiamo la tipologia del liberale: un individuo con un cervello vacuo, debole, il quale o non è in grado di dare ordine ai propri princìpi, o si prende cura di metterli da parte. Un uomo cui non costa nessuna fatica rinunciare a tali princìpi, anzi è lieto di trarne vantaggio». Si tratta, quindi, essenzialmente di qualcosa di non-politico, anzi di a-politico e di anti-politico. La mutazione genetica dell’antropologia umana applicata dal massonismo liberale è la piattaforma su cui si erge la pratica di sbriciolamento dei legami umani. Le massonerie in competizione tra di loro – la Trilateral, il WTO, gli associazionismi ebraico-puritani, etc. – sono la maschera di un potere che nel suo fondamento è unico e unidirezionale. Questa la lettura: «La massoneria è solo una direttiva generale. Essa si rifà al liberalismo». E tutto, oggi ancora di più di ieri, è “massoneria”. Il potere mondiale è “massoneria”. Il fine agitato davanti alle masse e quello realmente perseguito dagli oligarchi liberali non sono altro che “massoneria”, esclusivamente “massoneria”. Poiché «l’appello al popolo serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse». Cos’altro c’è da aggiungere? Dallo scatenamento della Prima guerra mondiale fino alle “guerre umanitarie”, fino all’Iraq, fino alla Libia di oggi o all’Iran di domani, è tutto un unico piano inclinato, un unico procedere sulla via tracciata dallo stesso, immodificato progetto “massonico” che anima il liberalismo: «Il liberalismo ha distrutto le civiltà. Ha annientato le religioni. Ha distrutto le patrie. Ha rappresentato la dissoluzione dell’umanità». Può esserci qualcosa di più da dire, rispetto a queste plastiche osservazioni espresse agli inizi degli anni Venti del Novecento da Moeller, adesso che siamo vicini agli anni Venti del Duemila?
Il segreto del progetto di rovesciamento liberale – che si è sempre servito della “patria”, del “popolo”, della “nazione” come di grimaldelli coi quali abbattere la patria, il popolo e la nazione – è il segreto stesso del male americano e del suo estendersi nel mondo con la negatività di una metastasi inarrestabile. I progettisti liberali sono gli ingegneri della dissoluzione:
La loro ultima idea è diretta alla grande Internazionale in cui vengono del tutto ignorate le differenze di lingue, di razze, di culture: si dovrebbe essere governati come un unico popolo di una famiglia fatta di fratelli selezionati dalle intelligenze di tutti i paesi, i quali assommerebbero in sé le prerogative morali del mondo nella sua globalità. Essi piegano la nazionalità a questo internazionalismo, e per fare ciò si servono anche del nazionalismo.
I liberali si servono di quella macchina infernale che è il “patriottismo costituzionale”, impiantata sul diritto acquisito per ius solii, sull’indifferenziato inglobamento nella “repubblica mondiale”: il sogno spaventoso dei massoni di vecchia data è il tappeto su cui scivola veloce la macchina della globalizzazione, che Moeller così lucidamente osservò durante quella Repubblica di Weimar, un laboratorio nel quale si fece un ottimo esercizio di prova sui metodi e i tempi con i quali si potevano ottenere ad un tempo lo sbriciolamento politico dell’Europa e l’annientamento della sua cultura differenziante e identitaria.
Oggi l’occhio dell’uomo europeo che ancora sappia sottrarsi alla rete degli inganni liberali deve di nuovo posarsi su Moeller van den Bruck come su un antesignano, un veggente e un sicuro diagnostico in cui trovare parole di risveglio. E attingere dalle sue analisi potrà significare ricostruire dalle fondamenta quella cultura politica che occorre per ingaggiare con i mondializzatori il loro stesso gioco. La lotta per la vita o per la morte, che impegna le residue energie delle avanguardie popolari ancora potenzialmente risvegliabili, passa attraverso una presa di coscienza totale del pericolo di fronte al quale si trovano i popoli e che si chiama dominio mondiale delle banche anonime e fine fisica di ogni legame dell’uomo con i suoi patrimoni di bio-storia. Una lotta con questa posta e di questa virulenza presuppone, come negli anni Venti del secolo scorso, idee radicali e una potente volontà di rivolta.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:05 Publié dans Histoire, Philosophie, Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : allemagne, révolution conservatrice, années 20, arthur moeller van den bruck, libéralisme, anti-libéralisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
La France intellectuelle de Jules Monnerot
La France intellectuelle de Jules Monnerot
Ex: http://www.juanasensio.com/
«L’illusion intellectuelle par excellence est l’illusion de l’intellectuel sur lui-même.»
Jules Monnerot, Inquisitions (José Corti, 1974), p. 54.
Comment serait-il aimé, voire, tout simplement, lu et commenté, ce penseur durablement ostracisé par une élite médiatico-politique qu'il n'est plus vraiment besoin de présenter, puisque non seulement Jules Monnerot a magnifiquement analysé la faillite de son surgeon le plus réussi, l'intellectuel, mais a en outre averti qu'il n'écrivait que s'il avait quelque chose à dire (1), au rebours donc des pratiques lamentables de cette même élite dont l'essence labile réside dans le fait de parler, écrire ou, simplement, se montrer, pour ne rien dire, écrire ou même, montrer ?
Comment Jules Monnerot ne serait-il pas réduit à quelques signes extérieurs qui, dans ce qui reste encore l'un des pays les plus idéologisés de notre planète, la France, ont valeur, depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale, de jugement et de condamnation intellectuelle, morale et même physique, sous une forme certes plus adoucie qu'à l'époque de l'Épuration, où n'étaient point rares les exécutions ?
Rions, a contrario, de la fausse intelligence et de la fausse bravoure d'un Richard Millet (paraît-il phalangiste lors de la Guerre du Liban, ce qu'aucune preuve historique ne vient conforter) ayant pignon sur rue, voix sur les plateaux de télévision et qui, lui, vend en quantité ses essais, à vrai dire de plus en plus affligeants, et affligeants, avant tout, pour celui qui se prétend le dernier écrivain de France, d'un point de vue littéraire.
Nous avons, en fin de compte, les proscrits et les penseurs que nous méritons, tous deux d'opérette, alors qu'un écrivain de talent comme Robert Brasillach, lui, a été expédié ad infernos, en toute bonne conscience n'en doutons point, par un jury de petits juges gris pâle.
Dès lors, nous ne pouvons que comprendre le mouvement d'humeur de Jules Monnerot qui, en préambule de son analyse remarquable du phénomène de décomposition de la vie intellectuelle française, s'étonne que son nom ne se trouve, «sauf erreur, en 1969, dans aucun dictionnaire français des auteurs ou des œuvres écrites» (Avertissement au lecteur, p. 7, en italiques).
Il n'est pas davantage acquis que son nom figure dans des dictionnaires plus récents, tant paraît scandaleuse à nos penseurs la position d'un auteur comme Monnerot : il pense, et il pense justement, méchamment, et sa pensée est une critique absolue de la non-pensée de nos penseurs.
Je me contenterai ici, n'étant point ce qu'il est convenu d'appeler un analyste politique ni même un historien des idées, d'éclairer durement quelques arêtes du texte de Monnerot, sur lesquelles je souhaite que les imbéciles à la vue courte et au cerveau atrophié se coupent mauvaisement, quitte à ce que la gangrène infecte une plaie à vif et que, à défaut de leur couper la tête, d'humanistes chirurgiens les privent de leur faculté de se déplacer.
Commençons par remarquer la façon, aussi méchante que drôle, dont Monnerot caractérise la nouvelle cléricature de l'intellectuel, laquelle n'a pu voir le jour, de même que le suffrage universel, qu'au moment où le christianisme, en tant que corps politico-théologique régissant la vie politique, sociale, morale et intellectuelle française, a été contraint de relâcher son emprise formidable.
L'homme ayant on le sait horreur du vide, il a bien fallu inventer un substitut à l'Église si, selon Monnerot, la «déchristianisation illustrait dans le fait l'axiome que Saint-Simon et Auguste Comte avaient répété toute leur vie : «Un système... ne peut être remplacé par la critique qui en fait apparaître les inconvénients.» Il s'agit en effet de deux fonctions psychologiques différentes. Le catholicisme avait été élaboré par plus de dix-neuf siècles de pensée et de charité. Il laissait derrière lui un immense manque à gagner affectif. La thématique socialiste, elle-même affectivisation du marxisme (2), lui-même philosophie à dominante affective (messianique) en dépit d'une indigence certaine, devait tomber dans un avenir qui n'était pas éloigné, comme une sorte de pluie bienfaisante sur ces landes affectives désertiques où ne poussaient, de place en place, que les affligeants cactus du progrès pour demain» (p. 12).
On constate qu'un polémiste, mais pouvions-nous l'ignorer en lisant un Bernanos, un Bloy ou un Boutang, est d'abord un écrivain de panache et surtout de talent. On constate aussi qu'un Philippe Muray n'a fait que développer, sans doute sans même le savoir, ces lignes tranchantes en quelques milliers de pages, bien souvent répétitives et, n'en déplaise à Maxence Caron, trop souvent faciles.
Jules Monnerot affirme qu'il faut dater «de l'avènement du suffrage universel l'époque où les idées politiques sont pratiquement frappées d'impuissance en politique» (p. 13) puisqu'il s'agit désormais «d'extraire des idées-forces (de la pensée conservatrice comme de l'autre), des thèmes intellectuellement assez sommaires et affectivement assez motivants, pour déterminer des individus incultes (comparés aux électeurs des précédents régimes), polarisés par des appétits ou des aversions élémentaires» (ibid.), les clercs, qui depuis les années 30, depuis qu'ils se sont défroqués, comme Julien Benda l'a si bien montré, sont devenus les véritables maîtres de l'intelligence, exerçant leur nouveau pouvoir sur les masses moutonnantes de ce qui ne portait pas encore le nom d'opinion publique.
Jules Monnerot choisit, pour illustrer cette idée d'un travestissement du pouvoir intellectuel (3) la figure de Renan, honnie par tant d'écrivains qui ne lui ont jamais pardonné sa palinodie intellectuelle, morale et spirituelle : «Il changera d'habit, mais non de ton, méritant de manière équivoque la révérence d'un auditoire déchristianisé en surface, qu'il devait rassurer sourdement par des gestes de prêtre» (p. 15).
Ainsi, les «desservants du nouveau culte ne portent plus d'ornements sacerdotaux. La soutane s'allège en redingote, avant de se raccourcir en veston» (pp. 15-6).
Cette idée du travestissement de la modernité, si chère aux yeux d'écrivains tels que Léon Bloy et Georges Bernanos, est constante, dans le livre de Monnerot, par exemple lorsqu'il aborde, dans des pages assez belles, la question de l'intellectuel en littérature, cette dernière étant définie, voici qui plairait à Roberto Calasso, comme «le surnaturel lorsqu'on n'y croit plus» (4), le fait «d'y avoir cru laiss[ant] un ancien frisson; et cet art [n'étant] que la possibilité de l'évoquer» (p. 19), puisque la «fonction spécifique de l'artiste du langage, de l'homme qui agit par le mot», est de «jouer des mots avec une telle habileté qu'il leur reste (aux mots) quelque chose des pouvoirs acquis au cours de leur usage premier, quelque chose du temps où les mots renvoyaient à la mort, à la vie, à l'ordre et au désordre» (ibid.).
Le faux écrivain, disons Jean-Paul Sartre sur le roman le plus connu duquel Monnerot écrit des pages terribles (cf. pp. 95-113) (5), évoque lui, au contraire, moins un usage second des mots (qui selon Monnerot est l'essence même de la littérature, à savoir «des mouvements de la sensibilité en l'absence de la chose», p. 19), qu'un usage frauduleux de ces mots au moyen de ce que j'ai appelé un langage vicié, de plus en plus facilité par les techniques de masse (6) dont un Serge Tchakhotine, avec Le Viol des foules par la propagande politique ou un Armand Robin avec le magistral La Fausse parole, ont donné des aperçus saisissants.
Pourtant, il serait faux de penser que Jules Monerrot place l'intellectuel moderne sous la seule lumière, ô combien crue, de l'imposture. Son analyse est plus subtile puisqu'il admet que l'intellectuel, «en même temps qu'il abuse, s'abuse. C'est un «auto-abusé». Il n'a point la stature du grand trompeur. Ce n'est pas Lucifer. Ce n'est même pas Protagoras qui voulait bien parler pour tromper les autres mais dont il était exclu que, ce faisant, il se trompât lui-même» (p. 36), peut-être parce que, comme l'écrit Monnerot en utilisant une comparaison savoureuse, l'intellectuel n'a pas la stature d'un Socrate, dont «la voix porte si loin parce qu'il y a eu la cigüe. Le whisky n'a pas les mêmes vertus» (p. 35), peut-être parce que seule l'exemplarité d'une vie, son témoignage direct, ne peuvent être contrefaits, si celui «qui est exposé, qui s'expose, est toujours autre chose qu'un professeur de morale» (p. 131), peut-être parce que l'intellectuel «s'affirme un simple justificateur» car, «professeur dans la vie, il est contre-professeur sur l'estrade», le «public populaire» étant de fait la «dupe des formes et marques extérieures de la compétence (une certaine phraséologie, l'autorité de la voix, l'assurance du maintien, tous les trucs enfin que confère une longue pratique)» et cette duperie étant escomptée «par les ordonnateurs et les metteurs en scène de la représentation théâtrale» (ibid.), ces «moutons privés [étant] des lions publics», les «surenchères verbales compens[ant] les timidités de la conduite» (p. 55).
«L'histoire des intellectuels, qui selon Monnerot se ramène, certes, à une série de faillites sur les deux plans qui leurs sont propres : celui de la justesse de la pensée par rapport à elle-même et celui de la justesse de la pensée par rapport au réel» (p. 62), est développée à l'aide d'exemples précis tout au long du deuxième chapitre du livre.
Selon l'auteur, quelque chose change à partir de la Seconde Guerre mondiale : «À cette époque la figure de l'Intellectuel se fige. Les traits s'en exagèreront après la deuxième guerre (sic) mondiale, ils ne changeront pas. Nous avons déjà l'éminent fonctionnaire qui est moralement de toutes les grèves et de toutes les révoltes, postalement de toutes les insurrections. Célébrateur rituel des défaites nationales, il hurle à la mort en toute sécurité. Quelles que soient l'outrance des exhibitions sur tréteaux, l'intensité des violences pétitionnaires, pour ce «rebelle à prix fixe», tout se passera comme si, outre ses émoluments, la société qu'il vilipende par principe, lui avait reconnu, comme à l'officier la propriété de son grade, le monopole de l'épithète morale, de la phrase révolutionnaire, de l'anathème inconséquent» (p. 85).
Ce sont bien évidemment les idéologies inhumaines du communisme (7) et de l'hitlérisme, leur lutte à mort et la défaite historique de la seconde, qui vont cristalliser, jusqu'à nos jours c'est une évidence, cette posture grotesque de l'intellectuel.
Il nous faut cependant revenir aux années trente : «La chronologie (l'existence joue de ces tours à l'essence) nous indique que l'effervescence antifasciste atteint son acmé au temps même de la Iejovtchina, la grande purge de Staline, et des plus célèbres procès de Moscou : après Zinoviev, Kamenev, Radek et Boukharine, pour ne parler que d'eux. Des cent trente-quatre membres du Comité central du P.C. de l'U.R.S.S., et des suppléants qui siégeaient au XVIIe congrès (1934), cent dix furent fusillés ou disparurent... Que ces victimes trouvent des pleureuses, ou qu'elles s'en passent ! L'intellectuel a toutes ses larmes retenues !» (p. 84).
Il les verse pourtant, ses larmes, notre intellectuel, mais sur les seules victimes, certes courageuses, qui ont lutté, au nom du communisme, contre la folie nazie. Les propos de Jules Monnerot sembleront dès lors, pour le lecteur contemporain, une dangereuse révision de l'histoire officielle de France, qui on le sait est parfaitement fausse, à tout le moins scandaleusement exagérée : le communisme nous a libéré du fascisme. Ainsi, les «condamnations à mort ou à la prison portées contre des écrivains réputés pro-hitlériens, alors que les intellectuels communistes florissaient (sic) à Paris, sont des crimes judiciaires, et doublement, puisque la société semblait soudain reconnaître à l'écrivain, pour le tuer, des responsabilités qu'elle lui refusait lorsqu'il n'était question que de le faire vivre. Mais ceux des intellectuels chez qui les sympathies pour le communisme et la haine du fascisme étaient récentes, se déchargeaient sur ces boucs émissaires d'un poids de culpabilité dont, par ce sacrifice humain, ils étaient délivrés» (p. 91).
Et Jules Monnerot, dans une page remarquable, d'évoquer le mécanisme qui, depuis que le communisme est devenu, dans l'esprit des Français, une idéologie fondamentalement moins délétère que le nazisme (alors que le bilan humain du communisme se chiffre, selon les estimations les plus prudentes, en dizaines de millions de morts), rejette en enfer tout personne qui oserait contester la bonté de ce fanatisme messianique laïcisé : «L'identité de nomination a pour fin d'étendre le même sentiment hostile à deux êtres artificiellement et abusivement identifiés. En ce sens la magie – c'est bien d'opérations magiques qu'il s'agit – a des effets réels. Car si ce transfert de haine réussit (faire passer par exemple sur la dernière en date des droites les sentiments de haine déjà investis sur les «droites» précédentes [...]), ce n'est qu'une question de moyens (les «mass media» ici sont déterminants), si ce transfert réussit, il a des effets réels, il motive des actes. Si l'on a réussi à lier par conditionnement de réflexes une épithète à des conduites hostiles, l'épithète, disons, de «fasciste», et ensuite à l'accoler à tel individu, il suffira par exemple de circonstances favorables pour que l'individu soit lynché par une foule à motivations «antifascistes». La chose n'est pas sans précédents. L'usure inévitable de l'épithète «fasciste», en dépit des malédictions rituelles de ceux qui s'appellent eux-mêmes des «mandarins», a amené nos publicistes sous contrôle «intellectuel» à y substituer progressivement l'épithète «d'extrême-droite». Mais cette dernière épithète ne tient que par le mot d'ordre. Trop abstraite, elle n'est pas assez «magique». On peut crier «fasciste assassin !» pour faire lyncher un homme; avec «d'extrême-droite assassin» on n'y parviendrait pas. Et c'est ainsi que d'insuffisance en incapacité, le mauvais logicien finit par n'être plus même un bon «publicitaire». Sur la voie déclive de l'inintelligence intellectuelle, on cherche en vain une ligne d'arrêt» (p. 123).
Des lignes qui n'ont pas vraiment perdu leur terrifiante actualité et qui me font dire que Jules Monnerot, hélas, s'est trompé sur un seul point, le plus important en fin de compte de sa démonstration : «Certes, l'Intellectuel n'a pas fini de nuire. Il peut nous montrer encore combien forte est la malfaisance des faibles. Mais nous le savions déjà. L'oraison funèbre par anticipation est aussi contraire aux lois du genre qu'aux convenances elles-mêmes. Mais peut-être, en ce qui les concerne, n'en est-il pas d'autre. Tout porte à croire qu'on ne célébrera pas le centenaire des Intellectuels en 1998» (p. 136).
Notes
(1) «Le lecteur parvenu jusqu'à la fin m'a déjà excusé si, contrairement à une idée aujourd'hui reçue, mais qui pudiquement demeure informulée, je n'écris que si j'ai quelque chose à dire, et pour le dire», Jules Monnerot, La France intellectuelle (Éditions Raymond Bourgine, 1970, p. 135). Sans autre mention, toutes les italiques sont de Jules Monnerot lui-même.
(2) Il n'est sans doute pas inutile de rappeler que Jules Monnerot est l'auteur d'une Sociologie du communisme parue en 1949 et traduite en plusieurs langues, qui constitue un réquisitoire aussi implacable que documenté sur l'idéologie la plus meurtrière qu'ait connue, jusqu'à ce jour, l'humanité. Sans doute tenons-nous là l'explication majeure de l'occultation volontaire dans laquelle les mandarins français ont tenu (et continuent de tenir) les analyses de Jules Monnerot, et cela en dépit même du fait qu'un Julien Gracq a répété son admiration pour un livre tel que La poésie moderne et le sacré. Évoquons ce jugement sans appel de l'auteur sur ses contemporains si prudemment taiseux : «Une généralisation de la lâcheté sociologique telle que les paralogismes marxistes et communistes ne rencontrent pas du tout de résistance spécifique, reste encore improbable, en dépit des immenses efforts et moyens consacrés à ce résultat grandiose», Inquisitions, op. cit., p. 84.
(3) «Il faut chercher l'origine historique de l'emploi du mot clerc comme épithète que l'intellectuel s'applique à lui-même dans les années 1930 dans l'influence qu'eut encore Ernest Renan sur les hommes d'une génération, celle de Péguy. Renan effectivement avait été clerc : séminariste. Mais ne dépouillant point les manières du clerc qu'en définitive il avait voulu être, Renan, qui mène jusqu'à son terme une carrière universitaire et académique hors de pair, est l'incarnation historique par excellence du cléricalisme qui supprime Dieu et garde le prêtre, en sorte que le nouveau «clerc» hérite du prestige de l'homme consacré sans se refuser aucune des commodités de l'homme qui ne l'est pas. Ses manières rappellent au respect un peuple qui garde en lui l'archétype social de la hiérarchie catholique. L'intellectuel va naître» (p. 15).
(4) C'est la thèse de La poésie et le sacré (Gallimard, 1949), pp. 159-60 : «Quand, au lieu du sacré, il n’y a de plus en plus que l’officiel – risible, indifférent ou profitable mais jamais exaltant – les dispositions affectives et les situations vécues d’où il tire sa substance sont rejetées de l’autre côté. Les hommes en qui le sacré demande à être, tournent le dos à tout ce que conservent, que représentent et que signifient des religions qui ne sont plus que ritualisme, des ritualismes qui ne sont plus que le rempart de ce que le profane compte de plus vulgaire, refusent d’y participer. Ou «nous ne sommes pas au monde» ou «nous y sommes pour qu’il ne soit plus». Si, comme le voulait Sorel, les «renouveaux» sont des retours aux sources, si les grands fondateurs d’ordres catholiques – comme en un autre sens les réformateurs hérétiques – ont remagnétisé leur religion par le contact de vertus et de particularités originelles que leur vocation était de retrouver et de réinventer, de ce que les derniers avatars du romantisme font curieusement écho aux premières (?) manifestations de la religion, on pourrait peut-être inférer, non seulement que le surréalisme est symptôme d’un état de besoin, mais encore qu’il prend place dans une constellation qui pourrait peut-être apparaître un jour préreligieuse, c’est-à-dire religieuse. À travers les alternances de décomposition et de recomposition du sacré, ses sources surréelles, qu’elles bouillonnent ou qu’elles filtrent, ne tarissent pas»,
(5) C'est l'intégralité de cette analyse qu'il faudrait citer : «Sartre excelle donc dans cette forme spécialisée de la rhétorique qu'on nomme philosophie universitaire, et qui semble faite tout exprès pour qu'y brillent les talents littéraires les plus introvertis et abstraits. Il lui arrive constamment d'oublier de définir les notions, de préciser la portée et les limites des conventions, de passer sous silence les postulats implicites grâce auxquels il lui donne à lui-même, et aux lecteurs qu'il abuse par des procédés littéraires, l'illusion de démontrer ce qu'il affirme», p. 112.
(6) «On prévoit le temps où le pur consommateur, comme les enfants jouent au jeu de construction, en disposant dans tous les ordres possibles des éléments de films préfabriqués à cet usage, et en se les projetant successivement jusqu'à ce qu'il ait épuisé le nombre de combinaisons possibles, pourra se faire ses romans tout seul» (p. 21).
(7) Je cite, pour le plaisir, ces quelques lignes consacrées aux chrétiens progressistes : «Apparemment, en dépit d'expériences concluantes, comme celle des prêtres ouvriers, ils n'ont pas compris que la différence entre les communistes du XXe siècle et les barbares des cinq premiers siècles de notre ère, est que les barbares se convertissaient au christianisme, alors que les communistes au XXe convertissent les chrétiens en leur laissant (pour combien de temps ?) des rites», pp. 140-1.
00:05 Publié dans Philosophie, Sociologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, théorie politique, sciences politiques, politologie, doxanalyse, jules monnerot, intelligentsia, intellectuels, intellocrates, sociologie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Odiel Spruytte
Odiel Spruytte
Ex: http://www.cruycevanbourgonje.wordpress.com/
Van de Westvlaamse priester Odiel Spruytte (1891 -1940) kan met zekerheid worden vastgesteld dat hij tot de konservatief-revolutionaire strekking binnen de Vlaamse Beweging behoorde. En met even grote zekerheid dat hij zowel intuïtief als intellektueel het fascisme, resp. het nationaal-socialisme heeft gemeden. Hij heeft er nooit de zij het nog maar potentiële realisatie van ‘zijn” denkrichting in gezien. Daarvoor had hij een te luciede, afstandelijke benadering van het tijdsgebeuren, gepaard aan een grote onverschilligheid t.o.v. uiterlijkheden en openbaar vertoon.
Om misverstanden te vermijden willen we duidelijk stellen dat het uitsluitend in onze bedoeling ligt door middel van dit artikel de lezer een zo globaal mogelijk overzicht van én een inleiding tot het denken van Odiel Spruytte te geven; een andere bedoeling hebben we niet.
Spruytte’s aktiviteiten als publicist, zijn hoofdzakelijk te situeren op het metapolitieke vlak. Met aktuele vraagstukken heeft hij zich vrijwel nooit beziggehouden. Spruytte heeft, vanwege zijn konsekwent Vlaams-nationalistische houding, meermalen in verbitterd konflikt met zijn kerkelijke overheid gelegen.
We dienen rekening te houden, met de ideologische evolutie die Spruytte tijdens zijn korte leven doormaakte. De solidarist Spruytte uit het begin der jaren 20 verschilt aanmerkelijk met de korporatieve universalist van het einde der jaren 30. Op één punt heeft Spruytte evenwel nooit koncessies gedaan of evoluties ondergaan: hij was en bleef steeds vurig Vlaams-nationalist en radikaal Heel-Nederlander.
Sommigen noemen Spruytte, en niet hele maal ten onrechte trouwens, de “theoreticus van het Vlaams-nationalisme”. Ongetwijfeld waren Dosfel en Joris van Severen, om er maar enkele te noemen, voorlopers in het nationalistische denken tijdens het interbellum. Daar waar Dosfel echter niet uit zijn katholieke milieu geraakte en Van Severen, om het zacht te formuleren, niet altijd voor de hand liggende paden betrad, opteerde Spruytte voor een zgn. integraal nationalisme. Ongetwijfeld zijn er tijdens het interbellum in Vlaanderen vele, vaak verdienstelijke nationalistische theoretici geweest, maar de voornaamste én interessantste exponent blijft toch Spruytte. Voor zijn intellektuele vorming ging Spruytte zowat overal ten rade: Plato, Thomas van Aquino, Augustinus maar ook Nietzsche, Moeller van den Bruck, Othmar Spann en de Indische wijsbegeerte. Zoals we verder zullen zien, heeft Spruytte dit met een welbepaalde bedoeling gedaan. Als (anonieme) redakteur van het toonaangevende maandblad Jong Dietschland toonde hij een levendige maar tevens zeer kritische belangstelling voor het fascisme en het nationaal-socialisme. In de plaats van zich te vergapen aan uniformen en parades, zoals toen rechts (en links!) de grote mode was, zocht Spruytte naar de wezenskern en de filosofische onderbouw van deze nieuwe stromingen.
Alhoewel men kon vermoeden dat zijn furieuze afkeer van de toenmalige partij demokratische verwording hem meteen de demokratie zélf zouden doen verwerpen, blijkt dit bij onvooringenomen lektuur van zijn artikels helemaal niet zo te zijn, in tegen deel zelfs. Spruytte stond bekend als een scherp en intelligent tegenstander van het als “demokratie” geserveerde parlementaire treurspel der dertiger jaren maar hij heeft, vanuit zijn positie als theoreticus, niets nagelaten om de demokratie in gezondere banen te leiden. Voor hem betekende demokratie volksmedezeggenschap in de ruimste zin van het woord of, zoals zijn inspirator Arthur Moeller van den Bruck (1876-1925) het uitdrukte: “Het is niet de staats vorm op zich die een demokratie uitmaakt, maar de deel name van het volk aan de staat.” Voor de Vlaams-nationalist Spruytte, die leefde in een tijd dat van de Belgische grondwet niet eens een wettelijke Nederlandse versie bestond, vloeiden demokratie-kritiek, in Moellers zin, en anti-Belgische houding konsekwent in elkaar over — en vice versa. Als jong leraar aan een college te Oostende stond Spruytte een tijdje onder invloed van de Duitse kultuurfilosoof en pedagoog Friedrich Wilhelm Förster en poneerde daardoor, dat persoonlijke vrijheid steeds vergezeld van verantwoordelijkheidszin moest zijn. Persoonlijke vrijheid! Een van de reden waarom hij zich reeds te Izegem én tegen de kleursyndikaten én tegen de “partijhengsten” keerde. (1)
Wij trekken onze konklusies niet op een wijze zoals Maurice De Wilde en beschouwen Spruytte dan ook niet als een “vroege voorloper” van het fascisme of nationaal-socialisme in Vlaanderen.
Wel heeft Spruytte in aanzienlijke mate bijgedragen tot de “ruk naar rechts” tijdens de jaren 30 van het Vlaams-nationalisme. Het dichtst bij de werkelijkheid staat nog Spruytte’s biograaf, G. Vandewoude, die het gevat, zij het wel in dithyrambische bewoordingen als volgt uitdrukte: “Als een medicinale bloedzuiger zoog hij het gif met het bloed mee, om zijn bezoeker in zijn natuurechte gaven en geschiktheden, in zijn dynamisme en potentialiteit te verkennen”. (2) Spruytte’s benadering van ideologieën en filosofieën was van dezelfde natuur. Hij was een onvermoeibaar zoeker, een eclecticus bovendien, die even principieel als realistisch kon zijn. A.W. Willemsen zegt van hem in één zin : “Op tal van Vlaams-nationalisten heeft hij een grote persoonlijke invloed uitgeoefend” (3) Slechts twee namen ter illustratie : Staf De Clercq en Victor Leemans. Het leven van Spruytte is snel samengevat. Hij werd op 4 juli 1891 in het Westvlaamse Rumbeke geboren, als oudste kind uit een boerengeslacht. Hij studeerde aan het Klein Seminarie te Roeselare, werd in 1916 tot priester gewijd en vervolledigde zijn theologische studies aan de universiteit van Leuven. De baccalaureus die Spruytte was, werd achtereenvolgens in Izegem, Zwevegem, Wervik en Slijpe tot… onderpastoor benoemd. Hij zal het nooit “verder” brengen. Overal waar hij kwam, trachtte hij door middel van zelfstudie de ongeschoolde arbeiders hogerop te werken. Dat dit op tegenstand van Katholieke Staatspartij en klerus stuitte hoeft nauwelijks betoog. Spruytte werd een van de ontelbare petits vicaires die in Vlaanderen van parochie naar parochie zwerfde, om uiteindelijk te Slijpe van ellende te overlijden, op 49-jarige leeftijd. Ondanks zijn geleerdheid, enorme eruditie en haast encyclopedische kennis bleef Spruytte in wezen een Westvlaamse landman, zeer verbonden met zijn geboortegrond en met het geestelijke erfgoed van zijn voorva deren.
Een waardeloos leven? Een gefaalde man? Wij geloven het niet. Van Spruytte’s ideeëngoed is “iets” blijven hangen. Misschien staat de waarheid nog het dichtst bij wat ‘t Pallieterke in 1970 naar aanleiding van een Spruytte-herdenking ooit schreef: “Menselijkerwijze gezien is het leven van deze hoogbegaafde mislukt. Een priester rekent echter met andere maatstaven. En de geschiedenis van de Vlaamse Beweging ook.”
Wanneer wij Spruytte’s meta-politieke denken benaderen, dan dienen wij in acht te nemen dat bij hem twee opvattingen primeer deren: organische staatskoncept en de universalistische leer van Othmar Spann (4) Wegens het feit dat Spruytte zijn ideeën nooit heeft samengebundeld, kunnen we onmogelijk van een “systeem” spreken. Daardoor zullen we dan ook los van elkaar hangende themata aansnijden de organische staatsidee, universalisme, elitarisme, personalisme, pacifisme — toen en ook nu nog erg aktueel, zijn houding tegenover het V.N.V., het Verdinaso en het christendom. Voor wij met de meta-politiek aanvangen, willen wij de lezer eerst een bondig overzicht geven van het wijsgerig denken van Odiel Spruytte. Het een is onlosmakelijk verbonden met het ander. Ook willen wij iets over zijn bekende Nietzsche-essays vermelden. Het is moeilijk, om niet te zeggen onmogelijk, om Spruytte’s wijsgerig denken te situeren, of in één bepaald vakje te duwen, en aldus zijn denken te normeren. Trouwens, Spruytte’s denken is daarvoor te exuberant en te zeer verspreid. Wel vinden we in zijn leer herhaaldelijk bepaalde themata terug die toen gloeiend aktueel waren en zijn universalistische visie is meestal bepalend.
De filosoof Spruytte
Ofschoon Spruytte in menig artikel herhaaldelijk het empirisme verworpen heeft, is hij toch niet helemaal vrij te pleiten van invloeden ervan : “De levend-konkrete politieke denk- en aktiewijze die niet alleen vonken maar vuur doet loskomen is nog niet gevonden. Alleen waarheid die door het leven gewaarborgd en bekrachtigd wordt is werkelijke waarheid, beginsel van orde. Aan een abstrakte tijd- en ruimteloze waarheid gaat de geschiedenis voorbij. Om te werken moet het denken dienen midden een konkrete tijd, een konkreet volk, een konkrete situatie.” [Jong-Dietschland, nr. 37, 19331. Opmerkelijk is het eveneens, dat de Augustinus-volgeling die Spruytte was, en daardoor monotheïstisch-lineair gedacht zou moeten hebben, het thema van het cyclisch verloop van de tijd vrijwel centraal stelde : “De onbegrensde rijkdom der natuur (en van het mensenleven) drukt zich uit in steeds wisse lende vormen. Alles op de wereld vergaat, alles op de wereld vernieuwt. Wanneer het leven in vormen vastgegroeid is, groeit het erboven uit. De oude vormen zijn van dan af voos, onwaar, dood. Zij hebben hun betekenis verloren, zij drukken de kwaliteit omlaag, zij verhinderen de groei. Alleen wat in een konkrete situatie beantwoordt aan de stijg kracht van het leven, van de mens, van de gemeenschap, heeft een positieve betekenis, alleen dat bezit leven. Het is om een modern veel- en weinig-zeggend woord te gebruiken : existentiëel noodzakelijk”. [Kultuurleven, nr. 1,1935]
In dat belangrijke artikel in Kultuurleven schreef Spruytte zijn principes en doelstellingen neer omtrent hetgeen hij essentiëel en primerend vond in de konservatief-revolutionaire gedachten van zijn tijd. Hij opende zijn artikel met de vaststelling, dat : “de omkering, waarin onze wereld zich bevindt, is in haar kern van innerlijk-geestelijke aard. Er staat oneindig veel meer op het spel dan
De nieuwe denkhouding, gaat Spruytte verder, staat diametraal tegenover die van de vorige generaties, en hij spot met de “empirische geleerden” die het menselijke weten enkel kwantitatief vergroten, en de “abstrakte systematici”, die louter begrippen met begrippen vergelijken. Beiden verweet hij veelweterij, ban kiersgeest en intellektualisme. Overigens heeft Spruytte voor het “intellektualisme” niets dan verachting “Tengevolge van het intellektualisme leed onze tijd aan een tweespalt tussen geest en leven. De boom des Wetenschappen was wel dor, maar groen de boom des Levens.” Tegenover het intellektualisme, stelde Spruytte zijn koncept van “de mens der waarheid”, want die “beleeft de waarheid als vruchtbaar-organische kracht van de kosmos, en hij hangt met de blik van zijn ziel aan het levend oorspronkelijke, aan het wezenlijk eenvoudige, hij beluistert de oerklanken van het leven. Niet veel-weten is zijn zorg, maar levende deelneming aan de rijk- dom van het zijnde, aan de schoonheid van wat alles is. Derhalve is zijn denken niet los gerukt van het zijn, doch dorst naar het zijn, wijsgerige gezindheid dan. Het is ook niet vreemd aan zijn leven en eigen zijn als ijdel liefhebber, als een lastige dwangarbeid, maar het is geheel gericht op de verruiming, de verrijking van zijn menselijk wezen: het is onmisbaar levensbrood, geen sieraad maar levens bestanddeel en levensnoodzakelijkheid.”
Wanneer we stellen dat Spruytte een humanist was, dan plaatsen we dit woord in een heel andere kontekst als dewelke het woord nu symboliseert : marxistoïde, naïef, ireëel, een zoeterige smaak in de mond nalatend. Spruytte was humanist in de zin zoals Nietzsche, Spengler e.a. het waren. Hij koesterde geen verheven utopische theorieën nopens zijn medemens, maar aanvaardde hem in zijn komplexe werkelijkheid. Hij heeft boeiende geschriften aan de mens gewijd, en het lijkt ons de moeite waard om uit enkele daarvan te citeren.
De vraag, zo schrijft Spruytte, wat is edel ? kan niet opgelost worden zonder rekening te houden met de vraag: wat is de mens ? [Kultuurleven, nr. 1, 1939]. Spruytte beschouwde de mens als een “vrij zichzelf bepalend wezen, … is aan geen enkel ondergeschikt, heeft tenslotte enkel voor eigen geweten en God te verantwoorden. Hij heeft in de schepping een eigen onvervangbare plaats, is door de schepper met eigen gaven toegerust, beschikt over de vrijheid en de roeping om zijn aanleg en mogelijkheden binnen de orde van het geheel te verwezenlijken.” vraagstukken van louter uiterlijke sociaal-ekonomische of politieke aard. De in richtingsvormen der maatschappij krijgen maar een zin wanneer zij begrepen worden in hun verhouding tot het menselijke type, waarvan zij een werktuig en een weerspiegeling uitmaken. Het ideaal ‘mens’, zoals het aan onze tijdgenoten voortzweeft, is de innerlijkste ziel en de verklaring van het zichtbaar gebeuren.” Spruytte stelde vast, dat het koncept van de nieuwe mens het “strijdbeginsel van de sociale en politieke nieuwwording” impliceerde. Het ideaal van “de nieuwe mens” was inherent aan de staatsvorm. De lezer moet wel in ogenschouw nemen dat de formulering “de nieuwe mens” bij Spruytte een specifieke betekenis had. Volgens Spruytte was er eigenlijk niets absoluut nieuw, want de geschiedenis staat nooit stil en doen de elkaar opvolgende perioden “nu weer eens deze dan gene krachten en funkties van het menselijke wezen aan het licht of weer in het duister treden”. Spruytte heeft het verder over de voorzienigheid, die volgens hem, niet mechanisch van buiten af beweegt “maar immanent van binnen uit, wij bedoelen hiermede de volgende vaststelling : de mikrokosmos Mens, zoals de makrokosmos Heelal, is op even wicht aangelegd maar tevens op dynamische groei nooit staat iets stil en alles is met alles verwant. Dit geldt ook voor de gemeenschapswereld.” Hier reikt Spruytte de hand aan het oeroude Herakleitische beginsel panta rhei, alles vloeit, alles verandert voort durend.
De nieuwe denkhouding, gaat Spruytte verder, staat diametraal tegenover die van de vorige generaties, en hij spot met de “empirische geleerden” die het menselijke weten enkel kwantitatief vergroten, en de “abstrakte systematici”, die louter begrippen met begrippen vergelijken. Beiden verweet hij veelweterij, bankiersgeest en intellektualisme. Overigens heeft Spruytte voor het “intellektualisme” niets dan verachting “Tengevolge van het intellektualisme leed onze tijd aan een tweespalt tussen geest en leven. De boom des Wetenschappen was wel dor, maar groen de boom des Levens.” Tegenover het intellektualisme, stelde Spruytte zijn koncept van “de mens der waarheid”, want die “beleeft de waarheid als vruchtbaar-organische kracht van de kosmos, en hij hangt met de blik van zijn ziel aan het levend oorspronkelijke, aan het wezenlijk eenvoudige, hij beluistert de oerklanken van het leven. Niet veel-weten is zijn zorg, maar levende deelneming aan de rijk- dom van het zijnde, aan de schoonheid van wat alles is. Derhalve is zijn denken niet los gerukt van het zijn, doch dorst naar het zijn, wijsgerige gezindheid dan. Het is ook niet vreemd aan zijn leven en eigen zijn als ijdel liefhebber, als een lastige dwangarbeid, maar het is geheel gericht op de verruiming, de verrijking van zijn menselijk wezen: het is onmis baar levensbrood, geen sieraad maar levens bestanddeel en levensnoodzakelijkheid.”
Wanneer we stellen dat Spruytte een humanist was, dan plaatsen we dit woord in een heel andere kontekst als dewelke het woord nu symboliseert : marxistoïde, naïef, ireëel, een zoeterige smaak in de mond nalatend. Spruytte was humanist in de zin zoals Nietzsche, Spengler e.a. het waren. Hij koesterde geen verheven utopische theorieën nopens zijn medemens, maar aanvaardde hem in zijn komplexe werkelijkheid. Hij heeft boeiende geschriften aan de mens gewijd, en het lijkt ons de moeite waard om uit enkele daarvan te citeren.
De vraag, zo schrijft Spruytte, wat is edel? kan niet opgelost worden zonder rekening te houden met de vraag: wat is de mens ? [Kultuurleven, nr. 1, 1939]. Spruytte beschouwde de mens als een “vrij zichzelf bepalend wezen, … is aan geen enkel ondergeschikt, heeft tenslotte enkel voor eigen geweten en God te verantwoorden. Hij heeft in de schepping een eigen onvervangbare plaats, is door de schepper met eigen gaven toegerust, beschikt over de vrijheid en de roeping om zijn aanleg en mogelijkheden binnen de orde van het geheel te verwezenlijken.”
Vermits Spruytte een universalist was, zag hij de mens als enkeling deel uitmaken van het geheel der maatschappij, maar hij voegde er wel een bijzondere overweging aan toe “Het is denkbaar dat de mens én persoonlijk en sociaal aangelegd weze. Dit zou leiden tot de erkenning van een goddelijk-natuurlijke rechtsfeer én van het individu én van de staat. De spanning van dubbele rechtsfeer in de mens, die even oorspronkelijk en natuur lijk in hem woont, en de dubbele rechtsfeer maakt heel het vraagstuk uit van de gemeen schap. De twee polen zijn natuurlijk en onmisbaar. Tussen beide beweegt zich het leven en de geschiedenis. De formulering van één enkel alternatief leidt tot de uitscha keling van een der beide polen en drijft het onderzoek in tamelijk eenzijdige richting.” [Kultuurleven, nr. 6, 19341 Zoals vrijwel alle konservatieve denkers, koesterde Spruytte grote belangstelling en bewondering voor het heroïsche in de mens, hetwelk hij in nauwe relatie zag met — de volgens hem — beste tradities uit de christelijke ethiek en beschouwde beide inherent aan elkaar. Maar, aldus Spruytte, niet zelden wordt “de ethiek van adel, eer, dapperheid, heldhaftigheid, enz., geprezen ten koste van de christelijke ethiek, die deze waarden z.g. uitsluit en enkel op de liefde is gericht.” [Kultuurleven, nr. 1, 19391 Spruytte betitelde sterkte als een “kardinale deugd”. Ongetwijfeld was hij hierdoor beïnvloed door Friedrich Nietzsche, en het heroïsme stond tijdens het interbellum in vele stelsels centraal. Het is vooraf klaar, zo meende Spruytte, dat “de ontwaking van de zin voor edele waarden een grote vooruit gang uitmaakt op de louter utilitaristische en materialistische ethiek, waarop zij een reaktie betekent.”
Vanzelfsprekend verwierp Spruytte én het liberalisme én het marxisme. Volgens hem beweren de eerste te geloven dat “het staathuishoudkundige leven door niets dan stoffelijke profijtzucht vooruitgestuwd wordt en zij schakelen alle zedelijke beweegredenen uit dit gebied”. De marxistische theorie werd door Spruytte eveneens gewogen en te licht bevonden : “Karl Marx zag in de ganse geschiedenis geen ander dan stoffelijke werkkrachten aan de arbeid. De Wijze, de Held, de Heilige behoorden dan ook logisch tot het gebied, dat hij ‘ideologie’ noemde. Zij ook zijn niet anders dan een behendig masker, waarachter zeer realistische belangen zich verschuilen.” Spruytte resumeerde beide stelsels en plaatste ze onder één noemer “ De mens, die met handelsgeest bezield is, denkt te laag over het leven om aan heldenverering te doen.” Maar konkreet gezien, hoe stond Spruytte zelf tegenover het heroïsme ? Hij gaf daar over eerst een psycho-analytische verklaring “ Wij weten dat de mens niet altijd zijn ‘geluk’ wil. Hij is zelf de grootste vijand van dat ‘ geluk’ — in deze zin. Voor de beleving van een korststondige glorie, voor een droom, slaat hij jaren ver zijn ‘ geluk’ redde loos stuk. Hij verzaakt aan eigen, kleine veiligheid — uit heroïsche impulsen, uit gemeenschapszin, enz.” Spruytte stelde het zo voor : “Een heroïsche levensvisie, zonder meer, stelt voorop dat men boven het utilitaristische uitgestegen zij, doch ook dat men vreemd sta ten opzichte van de goddelijke transcendentie, volgens het woord van Nietzsche, de heraut van de moderne helden verering ‘ God is dood, — nu willen wij dat de Übermensch leve.” Het is zeer opmerkelijk, dat Spruytte’s visie op het heroïsme gekoppeld wordt aan Nietzsche’s begrip van de ‘Übermensch’, de superieure mens, want beiden zijn verschillend in wezen en geest. Spruytte beschouwde de heroïsche levensvisie inherent aan “ adel”. Dit is een natuurlijk uitvloeisel van zijn bewondering voor Nietzsche, alhoewel hij in ons geval enkele thomistische aforismen citeerde. Spruytte konkludeerde als volgt: “De verzoekingen van het heroïsme zijn :
trotse weigering om de last van het noodlot door gedachten van een voorzienigheid te verlichten, volle aanvaar ding van een niets dan tragische werkelijkheid, dappere bekentenis tot het eindige en tot het niets.” Het is merkwaardig, dat ondanks Spruytte’s voorliefde voor het heroïsche, hij in zijn geschriften daarover, merkwaardig nuchter bleef en nooit in dithyrambische lithanieën viel.
Laten wij de ethiek van Spruytte eens onder ogenschouw nemen. Voor Spruytte vormden ethiek en aristokratisch denken geen kontradiktie, maar één geheel. Hij heeft dit meermaals herhaald en benadrukt. Het blijkt, dat Spruytte’s ethiek opmerkelijke invloeden van Nietzsche heeft ondergaan : “Het goede is niet altijd groot, niet altijd edel. Het kan ook gewoon, alledaags zelfs kleinburgerlijk zijn. Men kan zelfs het grensgeval vaststellen dat het kwade van grootheid en adel getuigt.” Voor Spruytte waren “denkhouding en ethische houding steeds innig met elkaar verwant. De theoretische wereldbeschouwing van een periode en haar zedelijke idealen zijn altijd door dezelfde geest beheerst.” [Kultuurleven, nr. 1, 19351 De degeneratieverschijnselen in een bepaalde kultuur omschreef Spruytte als volgt “Indien bij een mens, of bij een periode der menselijke geschiedenis, zedelijke verschrompeling, verdorring ontstaat, dan is het steeds omdat de primaire zedelijke waarheden, waarden en krachten hun natuurlijke invloed, hun elementaire werkkracht hebben ingeboet, daar zij overdekt of gefnuikt waren. In de ongeremde werking der eerste beginselen ligt de ware zedelijke levensader en zij is de voorwaarde tot zedelijke ademtocht.” Wil men uit de impasse geraken, dan moet men aan deze beginselen heraanknopen “Alleen een mens die van volmaaktheid afweet er een innerlijke drang toe voelt, zal bekwaam zijn om een zedelijke herstelling van zichzelf tot zedelijke gansheid door te zetten”. De zedelijke gezindheid is nooit onveranderlijk geweest, want zo beklemtoont Spruytte: “Wij kunnen de natuurvaste geldigheid van alle zedelijke goederen en normen handhaven en toch bevestigen dat de voorkeur van bepaalde tijden naar bepaalde deugden gaan.”
Spruytte merkte op, dat zijn tijd een voor liefde koesterde voor de “edele mens, hun gezindheid is aristokratisch” en alhoewel dit een persoonlijkheidsideaal is beschouwde hij het evenzeer als een maatschappelijk ideaal.
Terloops rekende Spruytte af met het egalitarisme, dat zich in onze tijd meer en meer opwerpt als de nieuwe “mythe van de 20ste eeuw” “Van natuurwege bestaan onder de mensen een rangordening van uitmuntendheid, die kulmineert in de hoogste vertegenwoordigers. Ten alle tijde en in elke menselijke groepering was deze uitmuntendheid, die enige personen voorbestemde tot leiding en heerschappij. En het was deze adel die de maatschappij bewaarde en naar de toekomst droeg. Alle aristokratie brengt onderscheid mee in denken, voelen, houding een onder scheid dat weldra uitloopt op kontrast met het gemene, zodat wij komen te staan voor gesloten groepen.
De adel waarvan het moderne ethos zich oriënteert is niet deze van titels of ereposten, maar de natuurlijke adel die sluimert in het volk, een adel van levende en niet afgezonderde krachten. Het ethos der adelijke gezindheid is in tegenstelling met dat van de gelijkmakerij en van het humanitarisme.” Adel is, volgens Spruytte in strijd met het gemene, niet met het algemeen menselijke. En Spruytte ging verder met zijn aanval op het egalitarisme; of zoals hij het noemde, de ‘gelijkmakerij’ “De egalitaire strevingen maken de mensen gelijk, naar onder toe d.i. in de materiële belangen. Hun ethos is beheerst door de vraag : wat is nuttig, wat is voordeelbrengend ? Zij strijden tegen alle meerwaardigheid voor de gelijkheid di. voor de maatschappij der minderwaardigen. Het algemeen menselijke vatten zij oppervlakkig op, als de stoffelijke uiterlijke zijde van ‘s mensens bestaan. Het ethos van onze indus triële maatschappij is gekant tegen alle menselijke superioriteit, vooral tegen deze die aangeboren is.”
Even verder heeft Spruytte het over het “prestatiebegrip”, dat hij als het “scheppend kunnen” beschouwde. Spruytte was de pertinente overtuiging toegedaan, dat de persoonlijkheid van de edele mens staat of valt met zijn prestatie. Spruytte haastte zich wel — om eventuele misverstanden te voorkomen — te vermelden, dat dit voorrecht niet zou blijven voorbehouden “aan enkele genieën op het gebied van politieke heer schappij, uitvinding, kunst, grootbedrijf”. Neen, zo konfirmeerde Spruytte, “ook de geringste arbeider kan iets van zijn persoon in zijn werk neerleggen. De grondslag blijft dezelfde, alleen de graad verschilt in grote mate. Onze ethische gezindheid is een arbeidsgezindheid in de zin van dienst aan een scheppende taak.”
De aristokratische levenswijze is bijzonder gesteld op de persoonlijke eer. Ook Spruytte heeft dit goed opgemerkt, en vertelt daar het volgende over “Eer staat in nauw verband met het persoonlijk zijn van de mens. Zij hangt innig samen met wat hem onverdiend is aangeboren en toch een glorietitel uit maakt, met zijn werk en prestatie, met zijn strijdbaarheid en dapperheid. Het is een mengsel van al deze dingen samen dat eerbied afdwingt; deze inwendige grond is ver boven alle eerbewijzen verheven, lokt ze vanzelf uit doch weet ze desnoods te misprijzen, in de rustige en heilige zekerheid van eigen innerlijke louterheid en volheid.” Spruytte greep ook terug naar het oude Herakleitische principe dat strijd de vader van alle dingen is. Uiteraard deed hij dit in zijn eigen bewoordingen : “Wij zien ons aards bestaan zoals het is, kamp en strijd, verrassing en verscheurdheid. De illusie van een gemakkelijke wereld met plat ‘geluk’ is geweken en zij bekoort de besten niet. Een komfortabel leventje is het leven niet waard. Het gevaar beminnen en er zich door ten gronde richten lijkt aan menigen een groter geluk.”
Heel even, stipte Spruytte ook het Wil-tot-Macht principe van Nietzsche aan, getoetst aan zijn eigen denkbeelden: “Een gedachte of de drager ervan, een scheppend persoon, die overeenstemt met het leven zelf, wordt door de oerkrachten des levens zelf, door een natuurlijke gerechtigheid zo men wil gevoed en gesterkt. Deze gedachte, deze wil zelf is macht, beladen met geheel het gewicht van het leven. Zo een gedachte, zo een wil dringt om zo te zeggen elementair vooruit naar existentiële verwezenlijkingen. Haar bestaan zelf is macht, is niet willekeurig weg te loochenen, zij schept vanzelf ruimte krachtens haar inwendige aanspraak op heerschappij. Zo wordt de macht een bestanddeel zelf van een hogere en diepere gerechtigheid, die in de dingen werkt… De macht is de drang tot zelfverwezenlijking van de gerechtigheid. En aldus is zij edel.”
Spruytte en Nietzsche
Tijdens de jaren 1937 tot 1939, schreef Odiel Spruytte in een serie artikels voor Kultuurle ven zijn gedachten omtrent Nietzsche neer. Als enige priester in het ganse land, had hij van zijn geestelijke overheid daarvoor toe stemming gekregen. Spruytte gold tijdens het interbellum als een der eminentste Nietzsche-kenners in de Nederlanden en zijn peilingen kunnen, ook nu nog, als waardevol worden beschouwd. Het zou nog steeds de moeite lonen om de oorspronkelijke teksten samen te bundelen en te publiceren. In 1944 werden de Nietzsche-essays door de priester G. Vandewoude “gepubliceerd en met nieuw materiaal voorzien” onder de titel “Nietzsches Kringloop”. Het werkje werd door de Duitse censuur dermate verminkt, dat er van Spruytte’s originele tekst nauwelijks nog sprake is. Ons artikel is dan ook op de originele essays uit Kultuurleven gebaseerd. Wel een raar stel : Spruytte, de diepgelovige geestelijke, en de woest anti-christelijke Nietzsche, die stelde dat het christendom slavenmoraal is en van zichzelf getuigde “Indien er goden bestonden, hoe hield ik het uit geen god te zijn.” Waar en wanneer Spruytte in aanraking met Nietzsche’s werk is gekomen, zal waarschijnlijk nooit meer te achterhalen zijn. Het is bekend, dat Spruytte de meesters der literatuur en filosofie gelezen heeft. Iemand opperde ooit de mening, dat Spruytte de artikels schreef om met Nietzschc een “tweestrijd” aan te gaan. Wie de essays aandachtig leest, komt tot de vaststelling dat Spruytte’s werk steeds verklarend is. Nergens vindt de lezer in Spruytte’s werk de bij geestelijken veelvuldig voorkomende scheld partijen. Een ander opmerkelijk gegeven is, dat Spruytte’s konklusies over Nietzsche meestal regelrecht indruisen tegen de toenmalig geldende dogma’s der nazi-filosofen.
Nu is er nog een ander mysterie in de Spruytte-Nietzsche relatie. Mevrouw Michel Spruytte vertelde ons, dat Odiels broer Adolphe (eveneens priester), tijdens de meidagen van 1940 aan zijn broer de raad gaf, een door Odiel geschreven en later gedrukt boek over Nietzsche te verbranden. Mevrouw Spruytte voegde er ons verder aan toe, dat Adolphe omwille van het boek aan zijn broer Odiel moeilijkheden met de Duitsers voor spelde! Wij staan hier echter voor een raadsel, want “het boek” wordt nergens vermeld, is bij geen enkele bibliotheek bekend Houden wij ons echter aan konkrete gege vens, en onderzoeken de oorspronkelijke Nietzsche-essays. Het eerste “Nietzsche’s poging tot een goddeloze mystiek” verscheen in “Kultuurleven” nr. 5, september 1937, het vervolg daarvan in nr. 6, november 1937. In 1 “Kultuurleven” nr. 5 van 1938 verscheen het essay “Fr. Nietzsche en de Rastheorie”. Een jaar later publiceerde hij in nr. 4 “Fr. Nietzsche en depolitieke krisis”. Spruytte’s laatste Nietzsche-essay “Nietzsche en het moderne imperialisme” verscheen in nr. 6 van 1939 en nr. 3 van 1940.
Nietzsche’s poging tot een goddeloze mystiek
“Er is een mystiek van het licht, het is deze van het christendom; er is ook een mystiek van de nacht, het is deze van het heidendom. Ook de Godheid van het christendom, voorwaar, is afgrondelijk duister: zij is een mysterie, doch een mysterie van het licht dat elke geschapen geest overtreft. De godheid van het heidendom is echter blind, willekeurig, macht zonder licht of liefde: noodlot. Zij werpt neder maar laat geen vertrouwen toe, zij verplet bij voorkeur het grote, het ongewone, zij blijft stom en verleent geen antwoord op de laatste vragen naar de zin van ons bestaan.” Dit citaat is de aanloop van Spruytte’s eerste Nietzsche-essay. Spruytte beschouwt Nietzsche als een “mysticus van de nacht” wiens hoogste levensleus Amor fati luidde, maar zijn mystiek is ‘dubbelzinnig’ want, zo schrijft Spruytte : “In hem leefde immers een onsterfelijk verlangen naar het licht, een herinnering aan de kroon des levens, aan de zaligheid der liefdegemeenschap met God en mens”. En Spruytte betittelt Nietzsche’s mystiek dan ook als “luciferisch”. Zijn mystiek, zo gaat Spruytte verder, weigert te aanbidden, maar kroont de mens met goddelijke eer: een schrikwekkend mengsel van godloochenende trots en goddelijke heimwee. Spruytte resumeert enkele begrip pen over het begrip mystiek en besluit “Elke filosofie steunt in deze zin op een mystiek, in zover zij de naam van ‘wijsbegeerte’ waardig is”. Doet zij dit niet, dan vervalt de filosofie tot “profane verlichting, kennistheoretische kritiek, bodemloos gedachtenspel.” Nu is Nietzsche volgens Spruytte een kind van de profane verlichting, maar “zijn rationalisme is de vlakke zielloze verlichting niet meer : het is demonische klaarheid.” Spruytte merkt op, dat de periode van het profane rationalisme met Nietzsche haar hoogtepunt bereikte, maar tevens haar einde. Maar Nietzsche kon volgens Spruytte niet leven met het sombere NIETS, en grijpt door middel van zijn eeuwigheidsdorst en een ‘totaal nihilisme’ terug naar de mystieke totaliteit van het leven. Nietzsche’s wegstelt hij, is deze van het huidige mensdom. Spruytte vervolgt met de gekende themata uit Nietzsche’s filosofie “God is dood”, de daaruitvolgende deemstering over Europa, het nihilisme, en besluit : “De mens is losgerukt van iets oneindigs waardevols dat zich in hem uitwerkte en bevindt zich nu in de uiterste vereenzaming.” Nietzsche, zo gaat Spruytte verder, onder scheidt zich van andere denkers doordat hij de katastrofe niet wil afwenden. Integendeel, wil zij ooit herrijzen, dan zal de wereld haar zwarte periode van het ‘niets’ moeten door schrijden. De oude waarden moesten sterven volgens Nietzsche, want zij waren onecht geworden, en de christelijke moraal huichel de. Spruytte: “De toestand van vertwijfeling moet plaats ruimen voor de kritiek der vertwijfeling.” En Spruytte somt de bekende argumenten van Nietzsche’s nihilisme op. De nieuwe mens van Nietzsche zag Spruytte als volgt: “Het oude type-mens vloeide uit God, het nieuwe type zal niet meer wegstromen, maar zichzelf bevestigen, alle kracht binnen zich opsluiten en daardoor zelf stijgen, tot het bovenmenselijke dood zijn alle goden, nu willen wij dat de Übermensch leve.” Deze van goddelijkheid onverzadig bare mens, zo verklaart Spruytte, deed niets dan ersatz-goden dromen om de ijdele ruimte van de gestorven God te vullen. Maar “De droom van Nietzsche was de droom der aarde.” Spruytte heeft het ook over Nietzsche’s nieuwe levensideaal, dat zal “beant woorden aan het natuurlijkste der natuur, het zal gegrondvest zijn in de aarde en verbonden met de meest gesmade driften de wil tot macht als kern van het leven.” Spruytte somt Nietzsche’s symbolen van het nieuwe leven op Dionysos, Eeuwige weder keer, Übermensch, als kompensatie voor de gestorven God: “Door zijn mystiek van de nacht, door zijn goddeloze mythe van de aarde en het noodlot zocht Nietzsche dam men en dijken op te werpen om niet mee in God weg te vloeien…” Even verder, onderzoekt Spruytte naar de mogelijke wortel van Nietzsche’s ‘goddeloos held’: “Wij moeten op het oog houden dat het atheïsme van Nietzsche niet ontstond uit oppervlakkige onverschilligheid, die zich beperkte bij het zichtbare, en het oneindig onzichtbare als overbodig vergeet: neen, Nietzsche’s geest is bezield met de drang naar het onbeperkte en beladen met de wil tot godsmoord.” Een nogal krasse bewering van Spruytte zo lijkt het ons. Nietzsche, beweert Spruytte, overtrof Celsus, Voltaire en Renan in hun haat tegen het christendom. Spruytte beschrijft Nietzsche’s levensloop zijn vrome ouders, de kritische bijbelstudies, zijn kennismaking met Das lebenfesu kritisch bearbeitet van David Friedrich Strauss en Die Welt als Wille und Vorstellung van Arthur Schopenhauer, de daaropvolgende afvallig heid. Hij komt tot volgende vaststelling “Het prijsgeven van het christendom en van het theïsme schijnt dan wel een kwestie van ‘intellektueel geweten’ te zijn geweest, niet een vraag van persoonlijk ressentiment of wezensverschil met zijn aard.” Toch voegt Spruytte er aan toe “De intellektuele godsverzaking van Nietzsche is evenwel reeds met een zonderling niet-intellektueel bestanddeel doortrokken. In zijn godloochening werkt zich een stuk van zijn protestantse ascese uit, die het natuurlijk-gelukkige voor verdacht houdt en een neiging vertoont naar het zwaarste, naar het minst gelukkige”. Spruytte benadert hier Nietzsche als psycholoog, trekt er zijn konklusies uit, maar of ze raak zijn laten we in het midden. Spruytte geeft grif toe, dat Nietzsche “ner gens de theïstische levensopvatting onder zoekt of poogt te weerleggen”, maar dat hij het christendom eerder als een vijand van het leven zag. In het tweede gedeelte van zijn essay, schrijft Spruytte: “De godsloochening van Nietzsche is geen vrucht van redenering of van bijzondere wereldervaring, maar van een wilsdogmatisme, dat diktatoriaal beslist: God mag niet bestaan.” En Spruytte vermoedt dan ook dat Nietzsche Atheist aus lnstinkt was. Op het einde van zijn essay, vat Spruytte alles samen en besluit : “Nietzsche heeft heel zijn leven lang de eerbied voor het goddelijk lichtgeheim uit zijn ziel geweerd, hij heeft aangekampt tegen elke metafysica en elke transcendentie. Hij heeft gewaagd te leven, te strijden en te filosoferen in het aanschijn der goddeloosheid. Hij is niet teruggedeins voor de sprong in de nacht en de ondergang. Doch immer heeft hem de stijgkracht verlaten naar datgene wat hij verloochende. Boven de zwakke symbolen van zijn eigen mythische droombeelden heen, leefde in zijn binnenste een tocht naar het onbereikbare. Niet door het te erkennen doch door er zich aan te gronde te richten heeft hij zijn hulde gebracht aan het Bovenwerkelijke.”
De sterksten van lichaam en ziel
In zijn tweede essay Nietzsche en de rastheorie, begint Spruytte met ons mede te deler dat “Nietzsche het rasvraagstuk nooit methoddisch behandeld heeft”, maar dat hij het principe van “de sterksten van lichaam en ziel zijn de besten” huldigde. Hij vermeldt daarna, dat Nietzsche het wei van Gobineau Essay sur l’inégalité des races humaines tussen 1875 en 1878 te Bazel gelezen en bewonderd heeft “Door de ener wordt het gezag van Nietzsche ingeroepen om het racisme aan te bevelen, door de anderen om het te bestrijden,” stelt Spruytte vast. En Spruytte geeft toe, dat het nationaalsocialisme in ruime mate uit Nietzsche’s leer geput heeft, maar verwerpt het dogma dat Rosenbergs rassenleer door Nietzsche geïnspireerd zou zijn.
Nietzsche is inderdaad niet aan de nazi ontsnapt, en Spruytte heeft dit uitstekend begrepen, want de tamelijk filosofieloze inhoud van het nationaal-socialisme stelde ongeveer alles in het werk om toch maar grote namen voor de wagen te spannen. Spruytte stelt, dat Nietzsche de rassenleer benadert in de ethische geest en niet als antropoloog of etnoloog. Hij verwerpt ook de mythe van de “Germaanse Übermensch” die Nietzsche volgens de officiële “den kers” van het Derde Rijk zou gepredikt hebben “Zijn mensomscheppende wil gaat naar een bovennationale, Europese leidende kaste, die Herren der Erde.”
In het daaropvolgende hoofdstuk, werpt Spruytte op, dat Nietzsche slechts twee rassen kende, namelijk het “Arische”, dat een heerserras en het vóór-Arische dat een “slaven ras” zou zijn. De lezer moet daarbij wel weten, dat ten tijde van Nietzsche de antropologie nog in de kinderschoenen stond. Daarom begint Spruytte dan ook met de Europeanen raciaal volgens Ripley en Günther in te delen. Hij vervangt het woord “Germaans” door Noords en vernoemt verder het Alpiene, Mediterane, Faalse, Dinarische en Oostbaltische ras. Volgens Spruytte is het ras een “metafysische-goddelijke grootheid, waarbinnen de oneindigheid van de schepper der rassen ingeënt is” en vermeldt ook dat bij Nietzsche niet zozeer de rassenleer, maar wel de erfelijkheidstheorie van belang zijn “Het is niet mogelijk, dat de mens niet de eigenschappen en voorliefden 1 zijner ouders en voorouders in het lijf hebbe.”
Nietzsche, zo gaat Spruytte verder, beweerde dat de afstamming de mens bepaalt en dat hij zijn neigingen van zijn voorvaderen erft, maar verantwoordelijk is voor zijn eigen daden. Ook zag Nietzsche, volgens hem een 1 sterke samenhang tussen lichaam, afstamming en geest. Spruytte besluit het hoofdstuk 1 als volgt “De erfelijkheid is een feit, doch wij kennen haar wegen te weinig.”
Het hoofdstuk “Ras en Volk” is een ander staaltje van Spruytte’s inzicht in de leer van 1 de Duitse filosoof. Alhoewel, volgens Spruytte, Nietzsche goed onderscheid weet te maken tussen taalverwantschap en rasver wantschap, zijn voor hem de Europese volkeren licht verschuifbaar d.w.z. ze zijn nog geen ras. Van de “zuiverheid van het ras” neemt Spruytte vervolgens afstand : “Er zijn weliswaar geen raszuivere volkeren meer. Alle volkeren zijn rasgemengd en het Duitse niet het minst. Doch ten overstaan van de rassen maken volkeren om zo te zeggen secundaire eenheden uit.”
De raszuiverheidstheorieën stootten Nietz sche tegen de borst, maar zo merkt Spruytte op, hij voegde er wel het begrip reingeworden rassen aan toe, een begrip dat ongekend is in de rassenkunde. Spruytte beweert, dat dit begrip op “de herstelling van het even wicht in de psyche” terugvalt.
Spruytte’s eindoordeel is vernietigend, zowel voor de aanhangers als tegenstanders van Nietzsche’s invloed in de nationaal-socialistische rassenleer: “Terwijl Nietzsche een verzwakking met tenslotte een vernietiging van de Europese volkeren, en een gemengd Europees ras in het verschiet stelt, en aanstuurt op een internationaal ‘Herenras’ dat boven de rassenchaos heersen zal, wil de rassenleer de ontbinding van de Noordse raskern in het Duitse volk tegenwerken en door raspolitiek zoveel mogelijk terugkeren tot de raseenheid.”
En Spruytte eindigt: “Nietzsche is meer de filosoof van de grote politiek, dan de filosoof van het racisme.”
(1) Odiel Spruytte, Strijder, Denker en Mensch, door G. Vandewoude (= G. Lambrechts, een priester), “W)ek Op”, Brugge, 1942.
(2) Over deze droevige periode te Izegem verneemt de lezer meer in het artikel Odiel Spruytte, Vlaams strijder en sociaal werker in Izegem door Pieter Jan Verstraete in “Ten Mandere” nr. 1, 1983. Voor een meer gedetailleerde Ievenschets verwijzen wij de lezer graag naar Odiel Spruytte. een levenschets door Jozef Delbaere in “Dietsland-Europa” nr. 5, 1971. Priester Odiel Spruytte (1891-1940), Vlaams strijder en denker door Pieter Jan Verstraete in de “AKVS-Schrif ten” nr. 4, 1982. Odiel Spruvtte (1891-1940) door Frank Goovaerts in “Revolte” nr. 12, 1983. Roeland Raes, Odiel Spruytte, in “De Vendel jongen”, nov-dec. 1956. Odiel Spruytte, in “De Volksunie”, 7 maart 1964.
(3) A.W. Willemsen, Het Vlaams Nationalisme. De geschiedenis van de jaren 1914-1940, Ambo, Utrecht, 1969 (tweede druk), pag. 206.
(4) Othmar Spann (1878-1950), professor in de ekonomische en sociale wetenschappen aan de universiteit van Wenen, van 1919 tot 1938. Afgezet door de nazi’s en na 1945 niet in eer hersteld. Tussen 1925 en 1935 was Spann een van de meest invloedrijke auteurs en redenaars van de konservatieve revolutie. Zijn universalisme (niet te verwarren met het eveneens “universalisme” genoemde tegendeel van nominalisme) behoort tot de zgn. jongkonservatieve strekking.
00:05 Publié dans Histoire, Philosophie, Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, révolution conservatrice, flandre, odiel spruytte, nietzschéisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
dimanche, 11 novembre 2012
J. Evola: Der Adelige Geist (1942)
Julius Evola:
Der Adelige Geist (1942)
Ex: http://www.velesova-sloboda.org/
Julius Evola (1898-1974) gilt als bedeutendster antimoderner Denker und Theoretiker der Tradition. Er stammte aus einem sizilianischen-normannischen Adelsgeschlecht und nahm als Artillerieoffizier am I. Weltkrieg teil. Während des Krieges schrieb er für die futuristische Zeitschrift Noi. Evola versuchte sich auch selbst als Künstler und begann als Futurist um 1915 mit dem Malen (eine erste Werkschau fand 1918 im Palazzo Cova in Mailand statt). Aus dem Krieg kehrte Evola 1920 nach Rom zurück und widmete sich neben der Malerei (Kunsttheoretisches Werk: Arte astratta, posizione teoretica, 1920) bis Mitte der 1920er verstärkt der Esoterik und Philosophie und schrieb zahlreiche Aufsätze. Später leitete er die Zeitschriften UR (hinter der eine okkulte Gruppierung stand) und Torre. Seit 1925 in Italien als Autor tätig, gelang es ihm 1928 mit dem Werk imperialismo pagano (Heidnischer Imperialismus, deutsch: Leipzig 1933) von 1928 erstmals außerhalb Italiens größere Aufmerksamkeit zu erregen, insbesondere weil er von den bisher gewählten esoterisch-philosophischen Themenstellungen abweichend, deutlich politischer wurde und scharfe Kritik an der Moderne übte. Die Rückkehr zu der von Evola kulturanalytisch beschriebenen Tradition mit ihren vorchristlichen Mythen und Lebensgesetzen wurde darin zur politischen Forderung erhoben. Im Jahr 1934 veröffentliche Evola sein Schlüsselwerk Rivolta contro il mondo moderno (Revolte gegen die moderne Welt), in der er seine Kulturanalyse erweiterte und eine Gesamtschau der Traditionen aller Indogermanischen Kulturen anbot (Die „Welt der Tradition“). Evola beschrieb die Moderne kulturkritisch als „Zeitalter des Wolfes aus der nordischen Welt“, die der verlorenen Welt der Tradition gegenübersteht.
„Der aristokratische Pessimismus“ (Alain de Benoist) der aus dem Schlüsselwerk spricht machte Evola nicht nur Freunde. Viele Köpfe des seit 1927 in Italien unangefochten herrschenden Faschismus kritisieren seine elitäre Haltung. Neben weiteren esoterischen Studien über den Yoga und den Buddhismus, veröffentlicht Evola 1937 die Studie Il mistero del Graal (Das Mysterium des Grals), die sich mit der Gralsidee als vorchristlichem Weistum auseinandersetzt. 1945 hielt sich Evola in Wien auf und wurde bei einem Bombenangriff schwer verletzt. Er kehrte 1948 nach Italien zurück und blieb trotz vielfacher Anfeindungen schriftstellerisch tätig. Sein Spätwerk Cavalcare la tigre (Den Tiger reiten, 1961) darf als Fortsetzung der Revolte angesehen werden, ist aber auf das ‚Überleben’ des Traditionalisten in der Moderne ausgelegt und wurde von der Rechten Italiens vielfach positiv aufgenommen, weil es eine lebbare antimoderne Haltung zum Ausdruck bringt. Evola starb am 11. Juni 1974 in Rom. Seine Asche wurde von Freunden, die seinem letzten Wunsch folgten, auf den 4634m hohen Monte Rosa in den Walliser Alpen getragen und in einer Gletscherspalte versenkt. [Eine längere Einführung bietet: Alain de Benoist: Aus rechter Sicht. Bd.2. Tübingen 1984. S.343-S.354.]
Julius Evola: Grundlagen eines Ordens: Der Adelige Geist (1942)
[Orden: von lat. Ordo (Stand, Verfassung, richtige Reihenfolge und Ordnung) ist ein für Evolas Denken zentraler Begriff. Er benennt damit die männerbündische Organisationsform, die zum ältesten kulturellen Erbe der Indogermanischen Welt gehört. Anzuführen sind die Kşhatriya, die in einer Kaste organisierten Krieger der Indo-arischen Kultur. Als Spätformen die weltlichen und „geistlichen“ Ritterorden des abendländischen Mittelalters wie den der Templer (gegründet 1120) und den Deutschen Orden (gegründet 1198). Im Herbst des Mittelalters der im Zuge der Türkenabwehr in Rumänien gegründete Drachenorden (1408) sowie der im Großherzogtum Burgund gegründete Orden vom Goldenen Vlies (1430), der sich bewußt auf die griechisch-heroischen Argonauten-Mythos berief. Im Mythos: Die Marut, die Jungmannengefolgschaft des Indo-arischen Kriegsgottes Indra. Die germanische Kampf- und Kultgemeinschaft der Asgardsrei oder Einherjer, gehört ebenso dieser Tradition an (Odin-Wodan als Gott der Männerbünde). Zu den Überresten in der Volkskultur vgl. Otto Höfler: Kultische Geheimbünde der Germanen. Bd. I. Frankfurt 1934.]
Da der Adelige Geist allen seinen Äußerungen vorangeht und über sie hinausragt, setzt die Frage jedes konkreten aristokratischen Gebildes die vertiefte Kenntnis vom Wesen dieses Geistes voraus. Man soll sich jedenfalls darüber klar sein, daß es sich für einen Wiederaufbau nicht um eine bloß politische, mehr oder weniger mit dem verwaltenden und gesetzgebenden Körper des Staates verbundene Klasse handelt. Es handelt sich vor allem um ein an bestimmte Schichten gebundenes Prestige und Beispiel, die eine Atmosphäre gestalten, einen höheren Lebensstil herauskristallisieren, besondere Formen des Empfindens wecken und damit tonangebend für eine neue Gemeinschaft sein sollen. Man könnte daher an eine Art Orden denken, in dem männlichen und asketischen Sinn, der diesem Ausdruck in der ghibellinischen, [Ein Schlüsselbegriff des Europäischen Mittelalters. Der Begriff Ghibellinen taucht Anfang des 13. Jht. in Reichsitalien auf. Er leitet sich von der Stammburg des salischen Kaiserhauses Waiblingen ab und wurde als Schlachtruf zu ‚ghibellino’ italienisiert. Mit diesem gaben sich die Parteigänger des staufischen Kaiserhauses zu erkennen. Hintergrund waren die Machtkämpfe um das Reich, in denen die staufische Partei sich gegen eine Reichsopposition (die Welfen, italienisiert ‚Guelfen’) und gegen ein anti-staufisches Papstum behauptete. Später wurde der Sinngehalt erweitert und löste sich von der Benennung einer Fraktion im imperialen Thronstreit, so daß mit ghibellinisch klar und deutlich die pars imperatoris (die Partei des Kaiserhauses) im Gegensatz zur Partei des Papstes bezeichnet wurde. Der Begriff wurde in der ersten Hälfte von Kaiser Friedrich II. (1194-1250) in den politischen Wortschatz in Reichsitalien aufgenommen und wurde in der Moderne von Parteigängern einer traditional verankerten imperialen Idee für sich in Anspruch genommen.] mittelalterlichen Kultur innewohnte.
Kaiser Friedrich II. Zeitgenössische Miniatur |
Noch besser könnte man aber an die alt-arischen und indo-arischen [Evola bezieht sich auf die für ihn vorbildhafte Kultur des alt-arischen bzw. Indo-arischen Indien. Um 1500 v.d.Z eroberten Indogermanische Stämme (Arier) den Subkontinent und unterwarfen seine Urbevölkerung (Drawiden). Auf erstere gehen die Sprachen Vedisch und Sanskrit zurück. Neben den kriegerischen, sind vor allem die kulturellen Leistungen der Indo-arischen Kultur wertvolle Anknüpfungspunkte, so z.B. die Verfassung der Veden, philosophisch-mythologischen Texten, die noch heute die Grundlagen des Hinduismus darstellen.] Gemeinschaften denken, wo bekanntlich die Elite in keiner Weise materiell organisiert war, wo sie ihre Autorität nicht aus der Vertretung irgendeiner greifbaren Gewalt oder einem abstrakten Prinzip herleitete, sondern durch einen unmittelbaren, von ihrer Essenz ausstrahlenden Einfluß ihren Rang bewahrte und tonangebend für die entsprechende Kultur war. Die moderne Welt kennt viele Nachahmungen des Elitismus, von denen man Abstand nehmen muß. Der Adelige Geist ist in seinem Wesen antiintellektualistisch. Er ist auch nicht mit einer unbestimmten autoritären oder diktatorischen Idee zu verwechseln. Schon der Umstand, daß man von einer "Diktatur des Proletariats" sprechen konnte, zeigt uns heute die Notwendigkeit einer näheren Bestimmung hinsichtlich Diktaturen und Autoritätsgedanken. Man hat übrigens versucht, das Phänomen des Elitismus - d.h. einer führenden Minderheit - als ein historisches Schicksal hinzustellen. Vilfredo Pareto [1848-1923; Der italienische Ökonom und Soziologe arbeitete zu den Themen ‚Ideologie-Kritik’ und ‚Elitenkreislauf’. Er gilt als einer der bedeutendsten Soziologen und lehrte ab 1891 an der Universität Lausanne. Laut Pareto ist die Geschichte ‚ein Friedhof der Aristokratien’. Revolutionäre und evolutionäre Systemwechsel beschrieb er aus soziologischer Perspektive. Er ging dabei davon aus, daß bei diesem einen Ablösung der Elite durch eine Reserveelite erfolgte, die Masse jedoch nicht zum Zuge komme.] hat diesbezüglich von einem "Kreislauf der Eliten" gesprochen, die einander ablösen, indem sie durch eine mehr oder weniger gleichartige Technik des Herrschens abwechselnd aufsteigen und sich verschiedener Ideen bedienen, die aber in diesem Zusammenhang weniger eigentliche Ideen sind als Suggestionen, bzw. zweckmäßig vorbereitete Kristallisationszentren für irrationale Suggestivkräfte. Elitismus erscheint hier also als ein rein formaler Begriff: eine gewisse Schicht ist insofern Elite, als sie die Macht ergriffen hat und es ihr gelingt, eine gewisse Suggestion auszuüben, während nach normaler Auffassung dies nur insofern der Fall sein sollte, als die Elite eine auserwählte Gruppe ist (Elite kommt von lat. eligo - wählen), der Überlegenheit, Prestige und Autorität innewohnen, die von gewissen unveränderlichen Grundsätzen, einem bestimmten Lebensstil und einer bestimmten Essenz untrennbar sind. Der wahre Adelige Geist kann daher nichts mit den Spielarten eines Herrschens auf machiavellistischer [Nicolo Machiavelli (1469-1527) kann als Begründer der Politikwissenschaft angesehen werden. Er schrieb mit Il Principe (Der Fürst) 1513 (gedruckt postum 1532) ein die politische Verhältnisse des territorial zersplitterten Italiens beschreibendes Handbuch für den Fürsten bzw. Territorialherrn. Machiavellis Fürstenhandbuch erläutert ohne Pathos nach größtmöglichem politischem Nutzen orientiertes Handeln. Ideale soll der Fürst bei der Ausübung von Macht hinten anstellen und sich ganz dem Machterwerb und Machterhalt widmen.] oder demagogischer Grundlage gemeinsam haben, wie es bei den antiken Volkstyranneien und im Tribunal des Plebs [Kurzform für die Plebejer, die Angehörigen der römischen Volksmasse] der Fall war. Er kann auch nicht nur auf einer Lehre des "Übermenschen" beruhen, wenn man in der Beziehung nur an ein wild gewachsenes Führertum denkt, d.h. an eine Macht, die nur auf die rein individuellen und naturverhafteten Gaben gewalttätiger und furchterregender Gestalten gestützt ist. In seinem Wesenskern ist hingegen der wahre Geist "olympisch" [Die ursprüngliche Bedeutung von olympisch geht auf den griechisch-antiken Mythos und seine Kosmogonie zurück. Dieser lag ein Urkampf zwischen den olympischen Göttern (Zeus, Ares, Apollon) und den Titanen als machtvollen Gegenspielern zu Grunde, der mit der Niederlage der „reinen titanischen Kraftwesen“ und der Herrschaft der Olympier, den Schöpfern, endete. Die olympischen Spiele der griechischen Antike waren deshalb als Bestandteile des Kultus den Göttern Zeus und Apollon gewidmet, denen in Olympia Altäre geweiht waren. Mit olympisch meint Evola: im Geiste des ursprünglichen, also kämpfend und siegreich für eine höhere Idee. Olympisch steht ferner für heroisch und schöpferisch. Vgl. Julius Evola: Grundrisse d.f.R. Berlin 1943. S.167 und 169.]
Rückbesinnung auf die Antike: Skulpturengruppe, Rom. |
- wir sagten, daß er für uns aus einer schon metaphysischen Ordnung erwächst. Die Grundlage des adeligen Typs ist vor allem geistig. Der Sinngehalt des Geistigen hat aber, wie schon angedeutet, wenig mit dem modernen Begriff desselben zu tun: er verbindet sich mit einem eingeborenen Sinn der Souveränität, einer Verachtung für die profanen, gemeinen, erworbenen, aus Geschicklichkeit, Schlauheit, Gelehrsamkeit und sogar Genialität herrührenden Dinge, einer Verachtung, die sich gewissermaßen der des Asketen nähert, sich jedoch von dieser durch die restlose Abwesenheit von Pathos und Feindseligkeit unterscheidet. Man könnte das Wesen der wahren adeligen Natur in dieser Form umfassen: eine Überlegenheit dem Leben gegenüber, die zur Natur, zur Rasse [Evolas Rassenbegriff ist weniger biologisch als charakterlich begründet. Der Evola-Kenner Martin Schwarz deutete den Terminus ‚Rasse’ in Evolas Denken als „Nähe zum Ursprung“. Diese Nähe ist zu allererst seelisch und charakterlich bedingt und findet erst dann ihren Ausdruck im Körperlichen. Vgl. Martin Schwarz: Biographisch-bibliographische Vorbemerkungen, in: Julius Evola: Tradition und Herrschaft. Aufsätze von 1932-1952. Aschau i. Ch. 2003. S.10.] geworden ist. Diese Überlegenheit, die wohl Asketisches an sich hat, schafft jedoch im adeligen Typ keine Zwiespälte: wie eine zweite Natur überragt und durchdringt sie in ruhiger Weise den niederen menschlichen Teil und setzt sich in gebieterische Würde, Kraft, Linie, in ruhige und beherrschte Haltung der Seele, der Worte und der gebärden um. So ruft sie einen Menschentyp ins Leben, dessen ruhevolle, unantastbare innere Macht im schärfsten Gegensatz zu der des titanischen, prometheischen und tellurischen [Diese Begriffe stammen aus Evolas Lehre von den Rassen als „Rassen des Geistes“. Evola trägt den „Völkervermischungen im mittelmeerischen Raum“ Rechnung und stellt insbesondere die „pelasgisch-mittelmeerischen“ und die „afrikanisch-mittelmeerischen“ Einschläge (Grundrisse, S. 31f.) ebenso wie einen „orientaloiden Einschlag“ (T.16) in Italien fest. Bezugspunkt bleibt für ihn die arisch-nordische Rasse als „aktive Rasse“ (T.12) bzw. „sonnenhafte Rasse“ (T.1), die er im republikanischen Rom als „treibende und vorherrschende Kraft“ (S. 36) wirken sieht. Ein frühes Bildnis des Buddha (T.8) zieht er als Beleg für ein übergreifendes Wirken dieser geistigen Rasse in der Indogermanischen Welt heran. Die in Der Adelige Geist genannten Begriffe, nämlich „tellurisch“ oder „titanisch“, „promethisch“ (mit Bezug auf den Titanen Prometheus) müssen vor eben skizzierten Hintergrund als rassisch-bedingte Geisteshaltungen verstanden werden. Mit „tellurisch“ (von lat. tellus: Grund und Boden, ursprüngl. von Tellus, der altrömischen Göttin der Saatfelder. Für Evola: auf den Ertrag ausgerichtet, matriarchalisch) bezieht er sich auf eine aktive geistige Haltung, die am „Selbstzweck“ (T.14) ausgerichtet ist und „keinen höheren Anhaltspunkt“ (ebda) besitzt und damit nicht als arisch-römisch angesprochen werden kann. Ebenso die Adjektive „titanisch“ und „promethisch“, die eine aktive Geisteshaltung beschreiben, die machtstrebend ist, ohne einer höheren Idee verhaftet zu sein.] Typs steht.
Diskurswerfer. Menschen und Marmorbilder. |
(Veröffentlichung in: Die neue Rundschau, 1942)
Nachwort:
Der von Evola eingeführte Terminus Adeliger Geist ist nicht mit dem historisch-politischen Herrschaftsanspruch und dem Lebensstil des Adels als herrschender Schicht (Aristokratie) in der europäischen Geschichte gleichzusetzen – diese sind höchstens Ausdrucksformen, die Verfall und Entartung unterworfen sind. Es geht Evola darum, die grundlegende geistige Haltung bzw. das ihm innewohnende Wesen (die ‚Essenz’), die sich trotz vieler Brüche in Überresten bis zum Verfall der Aristokratie bzw. dem beginnenden politischen Ende des aristokratischen Zeitalters (Französische Revolution von 1789) erhalten hat, von seinem Ursprung aus und als geistige Grundlage zu betrachten. Man könnte den Begriff Adeliger Geist auch allgemein als charakterlich ‚edel’ oder ‚elitär-heroisch’ bzw. ‚höheren Idealen verpflichtet’ deuten. Evola wendet sich hier besonders scharf gegen den in der Verfallszeit der Moderne propagierten Elitebegriff, der eine durch Finanzmittel und anstudierte Bildung (Funktions- bzw. Herrschaftswissen ohne Bindung an höhere Ideale) herrschende und kulturell unfruchtbare Clique bezeichnet. ‚Antimaterialistisch’ und ‚Antiintellektualistisch’ in reiner Haltung, dazu ein Leben nach dem Grundsatz ‚Das beste Wort ist die Tat’ sind die für Evola vom Adeligen Geist durchdrungene Elite kennzeichnende Tugenden.
Der Adelige Geist ist damit das geistige Fundament auf dem sich traditionale, männerbündische Organisationsformen gründen müssen. Hier schwebt Evola als historisches Beispiel der Ritterorden vor, der im europäischen Mittelalter eine zentrale Stellung einnahm. Evola analysiert bei seinen Betrachtungen Rittertum und Ritterorden mit durchdringender Schärfe: „Das Rittertum verkündet als Ideal mehr den Helden als den Heiligen, mehr den Sieger als den Märtyrer; es anerkennt als Wertmaßstab mehr Treue und Ehre als caritas [Nächstenliebe] und Liebe … in seinen Scharen duldet es den nicht, der das christliche Gebot ‚Du sollst nicht töten’ buchstäblich befolgen wollte. Als Grundsatz anerkennt es nicht Liebe zum Feind, sondern Kampf mit ihm und Großmut nur im Siege. So behauptete das Rittertum in einer nur dem Namen nach christlichen Welt eine fast ungemilderte heldisch-heidnische und arische Ethik“ [Julius Evola: Die Unterwelt des christlichen Mittelalters. Europäische Revue Juli/September 1933, in: Julius Evola: Tradition und Herrschaft. Aufsätze von 1932-1952. Aschau i. Ch. 2003. S.37.]. Ähnlich die Deutung des deutschen Philosophen Peter Sloterdeijk, der die „Unerträglichkeit des Widerspruchs zwischen dem christlichen Liebesgebot und der feudalen Kriegerethik“ feststellt und weiter ausführt: „Im Heiligen Krieg wurde aus dem unlebbaren Gegeneinander einer Liebesreligion und einer Heldenethik ein lebbarer Aufruf: Gott will es“ [Peter Sloterdeijk: Kritik der zynischen Vernunft. Frankfurt a. M. 1983. S.436f.]
Fontana della palla, Rom. |
Wie gelesen: Ein Bezugspunkt im evolianischen Denken ist die Indo-arische Kultur Indiens, die durch ihre sakralen Texte spricht. Der heute oft mißverstandene Begriff Arier muß jedoch in seiner ursprünglichen Bedeutung verstanden und scharf von dem politisierten späteren Sinngehalt getrennt werden. Zunächst als Aryá (als Adjektiv „arisch“) stellte er einen Volksnamen dar. So bezeichneten die Dichter der Götterpreislieder der Rig-Veda (sanskr. „Wissen von den Versen“, 1200 v.d.Z.) ihre Götter und sich selbst. Trotzdem besteht ein übergeordneter Deutungsgehalt, denn „arisch“ bedeutet in der Rig-Veda zudem „rechtmäßig, in Ehren stehend, edel“ und das Substantiv „Arier“ demnach „Edler, Gebieter“. In erster Linie Kultur- und auch Sprachbegriff, darf aber nicht übersehen werden, daß schon damals der Begriff auch zur Abgrenzung von der unterworfenen Urbevölkerung verwendet wurde. Später wurde der Begriff in den politischen Bereich überführt und verengte sich zusehends politisch und kulturell („nordeuropäisch“ oder „nordisch“), wobei es zur einer Verballhornung und Beliebigkeit der Anwendung bzw. Mißbrauch im Dritten Reich kam [Vgl. Ingo Leither: Der Hinduismus als Ausdruck arischen Geistes, in: Hagal. Studien zu Tradition, Metaphysik und Kultur 2 (2005). S.30f.]
Lesen Sie auch: |
Julius Evola. Mit E-Book! |
Die Anschauungen Machiavellis sind für Evola Ausdruck einer titanischen Idee: Machtgewinn und Machterhalt durch eine „Technik der Macht“ und nicht an eine höhere Idee gebunden. Man spricht heute allgemein auch von „machiavellistischer“ Politik, wenn diese skrupellos und ohne Ideale bzw. Werte ist. Dabei kommt etwas zu kurz, daß Machiavelli, der selbst nicht adelig und ein zeitlebens ein Dienstmann war, eine klare und durchdringende Studie gelungen ist, die sich auch dem Kriegswesen widmet. Was Evola an dessen Werk kritisiert, sind die profanen Nützlichkeitserwägungen, denen laut Machiavelli Herrschaft folgen soll. Diesen steht eben jener Adelige Geist als geistige Grundhaltung unversöhnlich gegenüber. Wohl gemerkt: es geht hier um zwei geistige Prinzipien, die herrschendes Handeln bestimmen sollten. Betrachtet man aus historischem Blickwinkel gerade die Epoche in der Machiavelli lebte (Renaissance) so findet sich in dieser neben dem Wirken des machiavellistischen Prinzips auch das des Adeligen Geistes. Als historisches Beispiel möchte ich Kaiser Maximilian I. (1459-1519) anführen, der seine Herrschaft und Herrschaftsausübung ganz deutlich an der imperialen Idee eines göttlich legitimierten Kaisertums ausrichtete und deshalb sich – entgegen vieler politischen Erwägungen – nicht von dieser Idee lossagte, obwohl diese der Hausmachtpolitik des Habsburgers oftmals im Wege stand. Die Idee des Kaisers als semper augustus (ewiger Mehrer des Reichs) war für Maximilian sicherlich eine ganz bedeutende Motivation und hierin ist das Wirken des von Evola skizzierten Adelige Geistes zu beobachten. Auf dieses Wirken deutet auch die Tatsache hin, daß Maximilian, der in die burgundische Dynastie einheiratete und danach tief von der kulturell ungeheuer fruchtbaren burgundischen Feudalkultur beeinflußt wurde, ein begeisterter Mäzen und Teilnehmer spätmittelalterlicher Ritterturniere war und bereits früh als „letzter Ritter“ angesprochen wurde. Auch der Ordensgedanke wurde von Maximilian aufgegriffen und transformiert. Selbst Ritter des burgundischen Ordens vom Goldenen Vlies [vgl. Anmerkung zu „Orden“] schwebte Maximilian, der früh die Bedeutung der Landsknechte und ihrer Kampfformationen in der spätmittelalterlichen Schlacht erkannte, ein „Landsknechtsorden“ vor. Dieser sollte die Landsknechte aus dem Söldnerdasein lösen und sie durch eine ideelle Grundhaltung und Ordensverfassung unter Maximilians Führung an die Reichsidee binden [Vgl. Günther Franz: Vom Ursprung und Brauchtum der Landsknechte, in: MIÖG 41 (1953). S.79-98]. Auf der anderen Seite war Maximilian aber auch ein skrupelloser Machtpolitiker, der bereit war, erreichtes hohen Risiken auszusetzen und gerne Bündnisse wechselte, wenn dieses politisch opportun wurde. In diesem Sinne muß auch die Heiratspolitik des Habsburgerkaisers gedeutet werden, die Macht und Reichtum des Hauses Habsburg vergrößerte, sich aber zuletzt für das Reich teilweise negativ auswirkte (machiavellistische Haltung).
© Edition des Textes, Nachwort, Kurzbiographie von Siegling (Juli/Heuert 2006)
Filippo Sgarlata: Pflug vom Schwert beschützt. |
00:07 Publié dans Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : tradition, traditionalisme, italie, julius evola, philosophie, noblesse, aristocratie, aristocratisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
De las "Ruinas" al "Cabalgar"...
De las "Ruinas" al "Cabalgar"...
Ernesto Mila
Ex: http://infokrisis.blogia.com/
Es hora de cambiar Los Hombres y las Ruinas por Cabalgar el Tigre
PD.- Dedico estas líneas a Carlos Oriente Corominas, muy querido camarada, diez o doce años más joven que yo, que ha fallecido en Barcelona este fin de semana de manera inesperada. El hecho de que los “amados de los dioses mueran jóvenes” no implica que muchos dejemos de lamentar su pérdida. Él era uno de esos “tipos humanos superiores” capaces de comprometerse con cualquier causa con una completa entrega. Valiente, con un sentido del humor que impedía aburrirse a su lado, también él pertenecía a otro tiempo.
Este artículo será entendido perfectamente por los evolianos (gentes familiarizadas con el pensamiento de Julius Evola) y acaso sonará raro a quienes no se hayan aproximado hasta este autor que es considerado como el maestro de la “derecha tradicional” del siglo XX. En efecto, cuando Evola regreso a Italia en 1949 tras su periplo hospitalario tras la II Guerra Mundial, inmovilizado por las heridas en su médula, empezó a relacionarse con los medios activistas de la derecha radical, los neofascistas que formaban en las filas del entonces recientemente constituido Movimiento Social Italiano.
Percibía en ellos las mismas componentes que habían estado presentes en el fascismo de los orígenes con su activismo y su militantismo desenfrenado y en el fascismo de la República Social Italiana, con su fideísmo y su compromiso con una causa irremisiblemente perdida. En ambos casos se entregaba todo a cambio de nada. Evola había identificado en las primeras generaciones del MSI el mismo estado de ánimo y por eso se comprometió con ellos. A finales de los años 40 escribió un pequeño folleto, Orientamenti (Orientaciones), que con 14 breves puntos anticipaba lo que en 1954 iba a ser el verdadero manifiesto político de la “derecha tradicional” en la postguerra: Gli uomini e le rovine (Los hombres y las ruinas). Los dedica a los hombres que representan a un “tipo humano superior”, dotados de un carácter que hace de la acción el centro de su vida casi como si los antiguos guerreros hubieran resucitado entre las ruinas morales y materiales herederas del segundo conflicto mundial.
El libro iba dirigido a los militantes que creían que todavía podía hacerse algo, a aquellos en cuyos cerebros ardía un ideal. En el marasmo de la postguerra, esa generación se preocupaba mucho más de las actitudes que de la doctrina, pero en ese gesto estaba implícito su valía. Evola les facilitó elementos doctrinales y una ideología coherente, completa y orgánica. Muchos, desde las columnas de las múltiples revistas neofascistas de aquellos tiempos asumieron esos ideales y salieron a la calle desarrollando un activismo frenético con el respaldo de un proyecto político.
Pasaron 10 años, en ese tiempo (entre 1950 y 1960) Evola siguió colaborando con los generaciones del MSI, pero también tuvo entre sus alumnos (los que le iban a visitar a su domicilio romano) a cuadros de las organizaciones juveniles que se habían ido desgajando del MSI. Evola colaboró con Ordine Nuovo y con Avanguardia Nazionale. A partir del congreso de Bari del MSI (1950), fueron habituales la presentación de mociones evolianas que intentaron siempre encarrilar a esta organización sobre rieles tradicionalistas.
Justo cuando la “contestación” empezó a despuntar en los primeros años 60 desde los EEUU, Evola que con el tiempo se había configurado como un agudo observador de la sociedad norteamericana entendió cuál iba a ser el signo de los tiempos que estaba por llegar: fue el primero en analizar el pensamiento de Herbert Marcusse y percibió en el underground algo que ya había visto en sus escritos sobre la beat-generation, entendió que la revolución sexual de los 60 y el descubrimiento de la píldora anticonceptiva iban a revolucionar los usos sociales. Entrevió también los contenidos de la agitación estudiantil y empezó a preguntarse si todos estos elementos de crisis afectaban a quienes defendían ideas tradicionales. El fruto de estas reflexiones le llevó a establecer importantes conclusiones que cristalizarían, primero en la publicación de ensayos y artículos en las revistas próximas al MSI y a los grupos extraparlamentarios y luego en la publicación de un libro que todavía hoy no ha perdido actualidad: Cabalcare la tigre (Cabalgar el Tigre).
Esta nueva obra va dirigida a otro público: si Los hombres y las ruinas iba dirigido a los hombres que todavía querían hacer algo, Cabalgar el Tigre lo está a los “hombres diferenciados”, esto es, a aquellos que se sienten alejados de la modernidad, que no tienen sitio en la modernidad, que se reclaman “ciudadanos” de otra realidad (el mundo tradicional) y de otros valores y que no están dispuestos a la “acción exterior” simplemente porque ya no creen que pueda hacerse nada en este terreno. ¿De qué manera hombres así pueden vivir en el seno de la modernidad? Y Evola responde a lo largo de 250 intensas páginas.
El título, como se sabe, responde a la antigua idea oriental de que la única forma con la que alguien puede escapar del ataque de un tigre es… subiéndose a sus espaldas, cabalgándolo. En esa situación el tigre no puede atacar con sus garras y, finalmente, cansado con el peso de alguien que es invulnerable a sus espaldas, se sentirá agotado y se le podrá derrotar. De lo que se trata es, pues, de no dejarse ganar por la virulencia y la omnipresencia del “tigre”, sino vivir en una especie de permanente exilio interior. Evola utiliza entonces una frase de Hoffmansthal para definir un futuro en el que se darán la mano los que han estado en vela en la noche oscura con los que hayan nacido en el nuevo amanecer. Y plantea una imagen evocadora: la modernidad es como un alud que desciende por una montaña cada vez arrastrando más masa y a mayor velocidad: nadie puede detenerlo y situarse ante él para intentar frenarlo constituye la forma más directa de suicidarse. Evola, ya no está hablando de “mantenerse en pie entre las ruinas”, la actitud de aquellos jóvenes de la postguerra que intentaban detener el alud con la mera fuerza de su activismo. Está hablando a otro tipo humano, a los “hombres diferenciados”, aquellos que ESTÁN EN EL SENO DE LA MODERNIDAD, pero que NO SON DE LA MODERNIDAD.
Cabalgar el Tigre es hijo de dos influencias: la de Ernst Jünger, de sus Tempestades de acero y de su Trabajador, y de la experiencia acumulada por Evola a lo largo de su extenso periplo por las doctrinas tradicionales y especialmente por la llamada “Vía de la Mano Izquierda”. Así como en la “Vía de la Mano Derecha” de lo que se trata es de rechazar el mal y combatir las destrucciones, contraponiendo un programa positivo, en la “Via de la Mano Izquierda” de lo que se trata es de “convertir el veneno en remedio”, ver en todos los procesos de disolución, puntos de apoyo. Es evidente que la primera vía es la que corresponde a lo redactado para el “tipo humano superior”, mientras que la segunda es propia del “tipo humano diferenciado”. La primera es la propia de los lectores identificados con el proyecto político de Los hombres y las ruinas, y los segundos con los contenidos de Cabalgar el Tigre.
Evola explica que las destrucciones presentes en la modernidad no deben ser tenidas por el hombre que vive su exilio interior como algo negativo: a fin de cuentas, ese no es su lugar, no es la “sociedad tradicional” la que está en crisis sino la “sociedad moderna”, no es la “familia tradicional” sino la “familia burguesa” y las “nuevas fórmulas familiares” las que están en crisis, no es la “metafísica” la que experimenta una crisis terminal, sino las viejas fórmulas religiosas agotadas e inadaptadas por su dogmatismo y su rigidez; no es la economía orgánica y comunitaria la que vive su período postrero, sino la economía liberal que después de su fase industrial, luego multinacional y finalmente globalizadora, ha llegado a su última etapa; así pues, es la totalidad del mundo moderno lo que está en crisis, no los valores, las ideas y el mundo tradicional. El “hombre diferenciado” no debe entristecerse por estas desintegraciones que no son las de su mundo, sino las de una estructura que no tiene nada que ver con él. No debe hacer, por tanto, nada para defender ese mundo: su hundimiento es garantía de la próxima renovación, del “nuevo amanecer” al que aludía Hofmansthal.
Durante cuarenta años de mi vida he creído que “aún podía hacerse algo”, incluso que era posible hacerlo disponiendo de cuadros políticos perfectamente formados doctrinal y técnicamente. He creído que era posible, utilizando técnicas políticas, generar un movimiento de masas capaz de detener el proceso de disolución de la modernidad y revertirlo. He creído que en la misma lucha política operaría a modo de “fuego purificador” que afectaría en primer lugar a los “combatientes” (los “hombres en pie”, aquellos en cuyo cerebro arde un proyecto político que quieren dar vida) y que sería posible operar una transmutación del mundo: que el poder no estuviera en manos de una casta política degenerada y miserable que considera la política como la mejor relación “esfuerzo-beneficio”, que la comunidad nacional se viera libre de las ideas nacidas en 1789 con la revolución liberal, la ley de la cantidad (la democracia numérica) y el marxismo que vino luego, que desaparecieran partidos y sindicatos como sujetos políticos y fueran las estructuras intermedias de la sociedad quienes asumieran la representatividad en el marco de un Estado Orgánico y Comunitario. He creído incluso que la “construcción de Europa” superaría las carencias de los Estados Nacionales surgidos tras el Renacimiento lograría un marco con “dimensión adecuada” para responder a las necesidades de un tiempo en el que los “bloques” han condicionado le mundo y que una Europa surgida de la hermandad entre combatientes de distintos países estaría en condiciones de ser “primera fuerza” o bien un “espacio cerrado” a la economía globalizada. He creído que la “lucha cultural” era un complemento de la lucha política y que en ese terreno podía realizarse un trabajo que afectaría a toda la sociedad y construiría las bases de un “nuevo orden”. A fin de cuentas, combatir los “productos culturales” que llegan de la “cultura americana”, supone hoy una prioridad en la medida en que se trata de meros productos de intoxicación contaminación. Todo eso (y mucho más) valdría la pena hacerlo y se podría hacer a través de la lucha política. Nadie me podrá reprochar que no lo intentara hasta el punto de que mi propia vida se ha visto comprometida y que incluso he recibido ataques (en Internet las mentiras sobre mí son uno más de los motivos que inducen a pensar que hoy calumniar salen gratis) de personajillos irrelevantes que jamás me han interesado ni preocupado. Pero todo esto ha llegado demasiado lejos y vale la pena detenerse un momento y reconocer, no solo mi fracaso personal, sino el de todo el ambiente que en un tiempo ya lejano pensó que era posible combatir “a la bestia” e incluso, vencerla.
Cuando escribí las Ultramemorias resultaba evidente mi alejamiento de la extrema-derecha y el análisis crítico que vertía en relación a los últimos 40 años de este ambiente político. Pero no quedaba cerrada la puerta a una acción política posterior. La puerta para desembocar en ella cada vez se ha ido estrechando más y más, y no creo que en la actualidad haya motivos para ser optimista: el percibir en España 7.000.000 de inmigrantes y un signo de desfiguración de la identidad nacional no implica que ese fenómeno vaya a generar una reacción y una respuesta a partir de la cual se vaya a construir un movimiento político sólido y en condiciones de responder a las exigencias de la lucha contra la modernidad, quiere decir solamente que la tierra sobre la que he nacido perderá su rostro y el pueblo al que he pertenecido puede desaparecer… La actual crisis económica es de una envergadura suficiente como para que no nos hagamos ni la más mínima esperanza sobre cómo va a desembocar: en Grecia se ha vivido en los últimos tres años una situación igual y la reacción ha sido mínima, a través del Amanecer Dorado, casi como una respuesta exclusivamente económico-social y el problema trasciende con mucho esa dimensión. En España ni siquiera ha aparecido un fenómeno similar. La economía liberal en su última etapa de desarrollo deglutirá naciones y pueblos enteros y estas naciones y pueblos solamente pensarán –solamente están pensando- como sucumbir antes y de manera más extrema, pues los gobiernos que han elegido democráticamente, ni tienen interés en defender otros intereses que los suyos propios, es decir, los de meros siervos del gran capital financiero internacional. En la modernidad y en la España actual no existen intelectuales y “hombres de tipo humano superior” como para establecer un pensamiento que alguien afecto a los principios tradicionales puede compartir ni mínimamente, ni existe tampoco un “pensamiento crítico” que abarque siquiera a una pequeña élite cultural en condiciones de repercutir sobre un sector social con claridad e impacto suficiente como para hacerse ilusiones de que algo pueda cambiar.
Introducirse en los circuitos culturales y políticos de la modernidad (y, por tanto, tener repercusiones y ver que el trabajo realizado sirve para algo) implica tal nivel de compromisos, renuncias y adaptaciones que, simplemente, no vale la pena ni abordarlo. En cuanto a los que hoy todavía tienden a presentarse como “intransigentes” y activistas que responderían a un “tipo humano superior”, o se engañan, o están en la lucha política por alguna carencia, o simplemente, por una dinámica endiablada, casi como si una fuerza de inercia les impulsase desde el pasado.
Evola me enseñó dos cosas: en primer lugar la necesidad de esforzarse en todo momento, a toda hora, en percibir los rasgos de un tiempo. A eso se le llama “objetividad” (y a definir una “nueva objetividad” utiliza 40 páginas de su Cabalgar…). Hay que esforzarse continuamente en percibir el mundo tal cual es, intentando sobre todo no engañarse queriéndolo ver tal como a nosotros nos gustaría (o nos interesaría) ver. Objetividad siempre, objetividad ante todo. En segundo lugar me enseñó la importancia de la claridad: renuncias las mínimas, compromisos solamente cuando sean inevitables, calidad anterior y superior a cantidad, élite antes que masa, pero la élite es tal solamente cuando lo demuestra, no cuando se califica así misma como tal; la política no es un fin en sí mismo sino un medio para alcanzar un fin, la construcción de un marco orgánico para la Comunidad del Pueblo, de otra manera no es más que una forma para satisfacer egocentrismos de pobres tontos, carencias afectivas o simplemente para llenar el tiempo libre…
Lo esencial. Lo importante, lo auténticamente importante, es ser “de verdad” o bien un “tipo humano superior” o un “hombre diferenciado”, y demostrárselo a uno mismo, todo lo demás es completamente secundario.
* * *
Por todo esto, estos días, mientras estaba escribiendo un ensayo sobre Julius Evola y el neofascismo que se publicará en los dos próximos meses en la Revista de Historia del Fascismo, he caído en todas estas reflexiones que transmito a los lectores de esta página. Los textos de apoyo pueden encontrarse en http://juliusevola.blogia.com en la Biblioteca Evoliana. No se trata de un debate nuevo sino de la continuación de una conversación que tuve en el invierno de 1980 con Philipe Baillet en París. Era Baillet traductor al francés de los textos de Julius Evola y autor de una notable biografía de Evola que traduje y edité al regresar a España. Un reciente viaje a Sardegna este mes de septiembre me ha dado la ocasión de meditar nuevamente sobre aquella conversación y de realizar una relectura de los textos de Evola para la confección del ensayo sobre las relaciones de Evola con los grupos neofascistas entre 1949 y 1974. Y esas líneas que he escrito suponen un hablar sólo en voz alta. Porque, en realidad, estamos solos, nacemos solos, aunque nos veamos rodeados de seres queridos, mantengamos una vida social intenta, en realidad, siempre estamos solos: dentro de mí no hay nadie… si hubiera alguien no sería yo, sería otro. Y si fuera otro estaría alienado, por tanto, cuando escribimos hablamos sólo para nosotros mismos. Evola lo sabía y sus libros no son más que las reflexiones interiores de un hombre preocupado por el tiempo en el que le había tocado vivir y que, en realidad, no era su tiempo.
© Ernesto Milà – infokrisis – Ernesto.mila.rodri@gmail.com
00:05 Publié dans Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : julius evola, ernesto mila, tradition, traditionalisme, philosophie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Henri Corbin, orientaliste et iraniste
Henri Corbin, orientaliste et iraniste
par Jean MONCELON
« Je suis orientaliste et iraniste : tout cela et rien que cela »
A Matthias Körger
Henry Corbin est né à Paris le 14 avril 1903, dans une famille protestante – sa mère mourra quelques jours après sa naissance. Une licence de philosophie en 1925 et des cours avec Gilson l’orientent vers l’étude de l’arabe (Langues O) et l’École Pratique des Hautes Études d’où il sort diplômé en 1928.
La même année, il entre à la Bibliothèque Nationale où il rencontre Louis Massignon dont « une inspiration du ciel » va décider de sa vocation : « Je lui parlais des raisons qui m’avaient entraîné comme philosophe à l’étude de l’arabe, des questions que je me posais entre la philosophie et la mystique, de ce que je connaissais, par un assez pauvre résumé en allemand, d’un certain Sohravardî… Alors Massignon eut une inspiration du ciel. Il avait rapporté d’un voyage en Iran une édition lithographiée de l’œuvre principale de Sohravardî, Hikmat al-Ishrâq : « la Théosophie orientale ». Avec les commentaires, cela formait un gros volume de plus de cinq cents pages. « Tenez, me dit-il, je crois qu’il y a dans ce livre quelque chose pour vous. » Ce quelque chose, ce fut la compagnie du jeune shaykh al-Ishrâq qui ne m’a plus quitté au cours de ma vie » [1]. De cet épisode date ce qu’on pourrait appeler la naissance spirituelle de Henry Corbin, en ce sens, comme il le dira lui-même, que par cette rencontre, « [son] destin pour la traversée de ce monde était scellé ». Sohravardî incarne, en effet, un certain « style de conscience et de vie spirituelle » auquel Henry Corbin restera fidèle toute sa vie, qui ajoute d’ailleurs que le sens et la portée de la philosophie du shaykh al-Ishrâq débordent son cadre : « Elle est une forme de l’aventure humaine, qu’il importe à l’homo viator de méditer spécialement de nos jours. »
Les années suivantes, jusqu’en 1936, le voient suivre les cours de Massignon, Gilson, Puech, Benveniste, Koyré, à Paris et surtout accomplir plusieurs séjours en Allemagne, à Bonn, Hambourg et Marburg, où il découvrira Swedenborg, « dont l’œuvre immense, dira-t-il, allait ainsi m’accompagner tout au long de ma vie », et où il fera la connaissance de Rudolf Otto, en 1930 : « Comment dire l’éblouissement d’un jeune philosophe débarquant à Marburg au début de juillet 1930 ? L’enchantement des lieux, de cette « colline inspirée » ne vivant que par et pour l’Université, les magnifiques forêts alentour… ». Quelques années plus tard, c’est à Freiburg, durant le printemps 1934, qu’il rendra visite au philosophe Heidegger – qu’il rencontrera à plusieurs reprises ensuite et dont il sera le premier traducteur en France, avec Qu’est-ce que la métaphysique ? en 1939.
L’Iran et l’Allemagne furent assurément les deux patries d’élection de Henry Corbin. L’essentiel, toutefois, est de comprendre, comme il y invite lui-même, que ces deux patries furent, dans sa vie, « les points de repères géographiques d’une Quête qui se poursuivait en fait dans les régions spirituelles qui ne sont point sur nos cartes. » Il dira à ce sujet : « Je ne suis ni un germaniste ni même un orientaliste, mais un philosophe poursuivant sa Quête partout où l’Esprit le guide. S’il m’a guidé vers Freiburg, vers Téhéran, vers Ispahan, ces villes restent pour moi essentiellement des « cités emblématiques », les symboles d’un parcours permanent »[2].
Henry Corbin s’était marié en 1933 avec Stella Leenhardt, « Stella matutina », à qui il dédicacera son œuvre majeure, En Islam iranien, en 1971, en ces termes : « Stellae consorti dicatum ». Parmi les amitiés de ces années, il faut signaler celle de Jean Baruzi et surtout celle du philosophe russe Nicolas Berdiaev. C’est de lui qu’il tient l’idée d’une Eglise de Jean succédant à l’Eglise de Pierre, qui inaugurerait le règne du Paraclet (selon Joachim de Flore) et qui serait, « non pas la tutrice des pauvres », mais l’Eglise éternelle et mystérieuse « découvrant en elle le vrai visage de l’homme et de son extase vers les sommets »[3].
En 1939, Henry Corbin part pour une mission de six mois à l’Institut français d’archéologie d’Istanbul où la guerre le retiendra finalement jusqu’en 1945. C’est là qu’il préparera l’édition des œuvres de Sohravardî : « Au cours de ces années, pendant lesquelles je fus le veilleur du petit Institut français d’archéologie mis en veilleuse, j’appris les vertus inestimables du Silence, de ce que les initiés appellent la « discipline de l’arcane » (en persan ketmân). L’une des vertus de ce Silence fut de me mettre seul à seul en compagnie de mon shaykh invisible (…). A longueur de jour et de nuit, je traduisis de l’arabe (…). Au bout de ces années de retraite, j’étais devenu un Ishrâqî, et l’impression du premier tome des œuvres de Sohravardî était presque achevée »[4]. A la mi-septembre 1945, il part pour Téhéran et lance le projet d’un département d’Iranologie au sein du nouvel Institut français. Il en assurera la direction jusqu’en 1954 et créera la fameuse « Bibliothèque iranienne ».
Cette « Bibliothèque iranienne » répondait pour Henry Corbin à un double objectif qui était, d’une part, de prouver l’existence d’une « philosophie proprement et originairement shî’ite » et, d’autre part, que l’on prenne « au sérieux », selon ses mots, le projet sohravardien de « ressusciter la théosophie des Sages de l’ancienne Perse ». L’objectif a été pleinement atteint, et nous sommes nombreux aujourd’hui à se reconnaître une dette envers Henry Corbin qui nous aura fait découvrir non seulement Sohravardî, mais aussi Haydar Âmolî, Mollâ Sadrâ Shîrâzî et surtout Rûzbehân Baqlî Shîrazî, pour ne rien dire des extraordinaires textes ismaéliens qui se trouvent désormais à notre disposition, en langue française. A la mort de Henry Corbin, Mircea Eliade fera remarquer : « Il est mort en ayant accompli à peu près tout ce qu’il s’était promis de réaliser », et il devait avoir en tête certainement cette « Bibliothèque iranienne ». C’est d’ailleurs l’existence de celle-ci qui a permis à son promoteur d’écrire, vers la fin de sa vie, en 1978 : « Nous n’en sommes plus, certes, à croire que la pensée en Islam ne soit représentée que par les cinq ou six grands noms de philosophes qui furent connus de la Scolastique latine. Mais combien faudra-t-il de temps encore pour que l’on soupçonne le nombre de monuments de pensées et de chefs-d’œuvre spirituels, tant en arabe qu’en persan, dont l’homme cultivé de l’Occident a généralement tout ignoré jusqu’ici ? Combien plus de temps encore faudra-t-il pour que le trésor de leur pensée rentre dans ce que l’on appelle le « circuit culturel », et vienne fructifier jusque dans les colloques de bonne volonté qui pourraient enfin aborder l’essentiel » [5].
Cela pourrait constituer assurément le programme d’une Unité de recherche « Henry Corbin », consacrée à l’Iran.
Pendant quelque cinquante ans la propriété de Madame Fröbe-Kapteyn, à Ascona, « sur les rives du lac majeur », en Suisse, a été le centre symbolique d’une communauté de chercheurs spirituels, parmi lesquels on peut citer outre Corbin, Massignon, Jung, Denis de Rougemont, Rudolf Otto, Gershom Scholem, Mircea Eliade, etc. Henry Corbin a donné sa première conférence à Ascona en 1949, inaugurant une collaboration qui durera jusqu’à sa mort. Or, Eranos a représenté infiniment pour lui : « Ce que nous voudrions appeler le sens d’Eranos, et qui est aussi tout le secret d’Eranos, c’est qu’il est notre être au présent, le temps que nous agissons personnellement, notre manière d’être. C’est pourquoi nous ne sommes peut-être pas « de notre temps », mais nous sommes beaucoup mieux et plus : nous sommes notre temps. Et c’est pourquoi Eranos n’a même pas de dénomination officielle ; ni de raison sociale collective. Ce n’est ni une Académie, ni un Institut, pas même quelque chose que l’on puisse, suivant le goût du jour, désigner par des initiales. Non, ce n’est pas un phénomène de notre temps »[6].
A partir de 1955, Henry Corbin partagera son temps entre Paris et Téhéran, entre son enseignement à l’Ecole Pratique des Hautes Etudes (de janvier à juin)[7], où il succèdera à Louis Massignon, à la Section des Sciences Religieuses[8], et la direction du Département d’Iranologie de l’Institut franco-iranien (docteur honoris causa de l’Université de Téhéran en 1958).
En 1959, paraît son Imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî dont la rédaction fut, selon ses propres termes, « un nouveau point de départ, un moment privilégié dont la clarté illumina la route suivie depuis lors », puis en 1961, grâce à Marie-Madeleine Davy, Terre céleste et corps de résurrection [9]. Ces deux ouvrages connaîtront l’un et l’autre une deuxième édition, respectivement en 1975 et 1978.
D’autres ouvrages seront publiés, après 1959, qui récapitulent l’ensemble des travaux de Henry Corbin en matière d’ésotérisme ou de gnose. Il est indispensable de bien comprendre que l’ésotérisme selon Henry Corbin, c’est d’abord la théosophie mystique et surtout la gnose, en relation avec l’enseignement qu’il avait retiré de la fréquentation des textes ismaéliens et qui lui fera affirmer : « La gnose shî’ite est par excellence l’ésotérisme de l’Islam » [10]. En cela, bien sûr, Henry Corbin parait fort éloigné d’un René Guénon, par exemple, et de l’ésotérisme « traditionnel », tandis qu’en termes d’ésotérisme chrétien, cette orientation de son œuvre l’inscrit plutôt dans la lignée de Swedenborg, de Novalis, et surtout de Jacob Boehme. Parmi ces ouvrages, il faut citer, par exemple, son Histoire de la philosophie islamique, en 1968. C’est aussi son Anthologie des philosophes iraniens depuis le XVIIème siècle jusqu’à nos jours. Ce sont surtout ses quatre volumes d’En Islam iranien, publiés à partir de 1971.
En 1974 vient sa retraite universitaire pendant laquelle il continue à donner des conférences et à séjourner en Iran. Il fonde aussi à Paris une Université Saint-Jean de Jérusalem qu’il définit comme un « Centre international de recherche spirituelle comparée ». « Son esprit : celui d’une chevalerie spirituelle » et quant à sa finalité : « Ménager enfin, écrira-t-il, en la cité spirituelle de Jérusalem, un foyer commun, qui n’a jamais encore existé, pour l’étude et la fructification spirituelle de la gnose commune aux trois grandes religions abrahamiques, bref l’idée d’un œcuménisme abrahamique fondé sur la mise en commun du trésor caché de leur ésotérisme »[11]. Cette idée a occupé les dernières années de la vie de Henry Corbin Malheureusement son Université de Saint Jean de Jérusalem ne lui a pas survécu. Sans doute parce que son ambition était trop élevée, et pourtant s’il est un message de son oeuvre qu’il conviendrait de prolonger, de revivifier, c’est bien celui d’une communauté des ésotéristes « de partout et toujours » unis dans ce projet commun : « Faire face ensemble, nous tous les Ahl al-Kitâb [les Gens du Livre], écrivait-il, en reprenant ensemble notre aventure théologique depuis les origines, pour qu’au lieu de nous séparer, l’aventure cette fois nous rassemble. »
Henry Corbin meurt à Paris le 7 octobre 1978.
Il n’aura pas de disciples – pas plus que René Guénon – « Il était et reste un maître parce qu’il libérait et libère en chacun de ceux qui le lisent son propre futur »[12], dira de lui Christian Jambet. Mais aussi son œuvre ouvre des perspectives qui ne peuvent plus être ignorées, parce qu’elles intéressent notre avenir, l’avenir même de l’Occident. Sous ce rapport, la comparaison avec l’œuvre d’un René Guénon ne manque pas d’intérêt. C’est ainsi que Michel Le Bris remarque : « Voyez comme l’Orient spirituel de Henry Corbin est éloigné de l’Orient de Guénon ! L’un y apprend à lire, en retour, ce qui fut, sans doute, l’âme vivante de l’Occident, l’autre, quoiqu’il prétende, y trouve le prétexte de s’en écarter toujours plus – la lecture qu’il fait des mystiques d’Occident, de ce point de vue, me paraît catastrophique. L’un veut réconcilier la philosophie des « Orientaux de l’Orient » et des « Orientaux de l’Occident », pour la chance d’une mutation de l’Occident, (…) – l’autre tire une sombre jouissance de la prédication de sa mort fatale »[13].
Pour Henry Corbin, il existait autant d’« orientaux » en Occident qu’en Orient. En aucune manière il ne soumettait la connaissance ésotérique à l’adhésion à une religion et c’est aussi en cela que son propos intéresse notre futur : « Chacun des ‘orafâ [des gnostiques] d’Orient et d’Occident, écrit-il, ne peut penser et peser les choses qu’en termes d’intériorité et d’intériorisation, ce qui veut dire faire en soi-même une demeure permanente aux philosophies, aux religions, vers lesquels le conduit sa Quête. Et il ne peut que garder son secret : Secretum meum mihi. Le secret du château de l’Âme. »
Pour conclure ces aperçus biographiques, on donnera le témoignage d’une Iranienne, Shusha Guppi : « Henry Corbin était un mystique protestant, espèce rare parmi les Français, et il parlait de la façon la plus émouvante de ce qu’il appelait « le génie de la Perse », qui avait produit de grands philosophes et d’immenses poètes, avait presque inventé l’amour, et lui avait en tout cas donné, en poésie, son expression la plus haute pour des générations et des générations futures. Puis exprimant son admiration pour mon pays d’adoption, il me parla des mystiques anglais, tels que Julienne de Norwich, et de toute cette tradition ésotérique dont le monde anglo-saxon a vu le déclin à dater de la Réforme. Nous parlâmes aussi de politique et d’une manière générale, de l’état du monde. Il était très au fait, et se montra préoccupé, de problèmes fondamentaux : la démographie, le pillage des ressources naturelles, l’écart qui allait s’élargissant entre nantis et démunis, avec toutes ses conséquences… Je l’entends encore conclure :
- A propos d’un malade, on dit que son état est grave mais pas désespéré; à propos du monde, on pourrait dire que son état est désespéré, mais qu’heureusement tout cela n’a rien de grave! »[14].
Sohravardî
Le maître de Henry Corbin aura été finalement un jeune théosophe perse, Sohravardî, mort tragiquement le 29 juillet 1191, à l’âge de 36 ans, dont le projet était rien de moins que de « ressusciter la philosophie de la Lumière des sages de l’ancienne Perse ». De ce projet grandiose que Sohravardî paiera de sa vie, puisqu’il fut condamné à mort à Alep, Henry Corbin en a été le commentateur « oriental » en Occident, mais le mot « oriental » est ici placé entre guillemets, selon ce que Henry Corbin en dira dans son Prélude à L’Archange empourpré : « Le Shaykh al-Ishrâq nous a appris les sens spirituel des mots « Orient » et « Occident » (…). Lors donc que nous parlons avec lui de « l’exil occidental », il ne s’agit pas d’une mise en accusation des pays d’occident au sens géographique, pas plus que, lorsque nous parlons de « théosophie orientale », il s’agit tout simplement de se rendre tout simplement à l’Orient géographique pour la trouver » [15].
Cette précision faite, la théosophie « orientale » (hikmat al-Ishrâq) de Sohravardî a inspiré nombre des recherches de Henry Corbin, à commencer par la doctrine ishrâqî elle-même et ses développements à travers les œuvres de ses disciples qu’il nomme « les Platoniciens de Perse ». Mais, elle a surtout influé sa Quête personnelle. Pour cette raison, il n’est pas inutile de rappeler, après lui, les caractéristiques essentielles de la doctrine ishrâqî qui sont, d’une part, « la volonté délibérée de renouer avec la théosophie de la Lumière professée par les sages de l’ancienne Perse », et, d’autre part, une « spiritualité dont la caractéristique est de conjoindre indissociablement la recherche philosophique de la Connaissance et la fructification de cette Connaissance en conversion, une métamorphose intérieure de l’homme ». Il s’agit là d’un thème majeur de Henry Corbin et qui fait de lui un gnostique, au sens où la gnose est essentiellement une « connaissance salvifique », et même une « connaissance amoureuse » au sens où l’entendra cette fois un autre de ses maîtres, Rûzbehân Baqlî de Shîrâz (1128-1209) dont il parlera comme d’un Maître Eckhart « qui aurait écrit quelque chose comme l’histoire de Tristan et Yseult ». La formule est heureuse, s’agissant de l’« Enfant divin », comme l’appelait Louis Massignon[16].
Pour revenir à Sohravardî deux œuvres en particulier méritent l’attention, Le Récit de l’Exil occidental qui est un traité initiatique, portant sur la voie ésotérique qui conduit « l’exilé » dans le pays d’Occident jusqu’à sa patrie « orientale », sa vrai patrie. (Nous en avons parlé ce matin). Le second traité s’intitule le Vade-mecum des fidèles d’amour. Il s’agit également d’un récit initiatique qui éclaire singulièrement l’expérience intérieure d’un Dante et de ceux que l’on appelle après lui les fedeli d’amore.
A l’origine de toute initiation à l’Ordre des fedeli d’amore se place une expérience amoureuse – qui est le point de départ d’un développement spirituel, au cours duquel l’amour deviendra un amour de passion[17]. Mais ce développement reste réservé à un petit nombre : « Amour n’ouvre pas à n’importe qui la voie qui conduit à lui ». Comme pour n’importe quelle initiation, l’être épris doit en manifester les dispositions. Mais dès qu’Amour en vient à constater qu’il en a les aptitudes, il « envoie vers lui Nostalgie qui est son confident et son délégué, afin que celui-ci purifie la demeure et n’y laisse entrer personne ». Il s’agit donc d’une première étape dans le développement personnel de l’être sincèrement épris qui est celle de l’initiation. Ensuite, « il faut qu’Amour fasse le tour de la demeure et descende jusque dans la cellule du cœur. Il détruit certaines choses ; il en édifie d’autres ; il fait passer par toutes les variantes du comportement amoureux ». C’est au terme de cette seconde étape que se produit « l’illumination » – ce que symbolise le Cuore gentile selon Dante, à savoir « le cœur purifié, c’est-à-dire vide de tout ce qui concerne les objets extérieurs, et par là-même rendu apte à recevoir l’illumination intérieure ». C’est alors qu’Amour « se résout à se rendre à la cour de Beauté ». Dans cette dernière étape, l’être épris devra connaître « les étapes et les degrés par lesquels passent les fidèles d’amour » et surtout il devra « donner son assentiment total à l’amour ». C’est à cette condition que l’initié devient un fidèle d’amour et « c’est après cela seulement que seront données les visions merveilleuses ».
Rulman Merswin et l’Île verte
On ne peut manquer d’évoquer, même brièvement, à propos de l’itinéraire spirituel de Henry Corbin, la figure de Rulman Merswin.
Rulman Merswin, né en 1307 et mort en 1382, issu d’une importante famille de banquiers strasbourgeois, se retira de la vie publique pour entrer en une retraite spirituelle de quatre années (Tauler est alors son confesseur), après lesquelles il fit l’acquisition d’un ancien couvent bénédictin à l’abandon, en un lieu dit l’Île Verte : « L’Île Verte de Strasbourg, écrit Henry Corbin, fut un centre spirituel des chevaliers johannites où se développa au XIVème siècle une forme de spiritualité caractérisée par le nom de ceux qui en sont le centre, à savoir le nom d’ « Amis de Dieu » (Gottesfreunde) » [18]. « Chevaliers johannites », simplement du fait que la présence ecclésiale dans ce couvent de l’Île Verte fut confiée à l’Ordre des Chevaliers hospitaliers de Saint Jean de Jérusalem, tandis que Rulman Merswin précisait que le couvent devait être « une maison de refuge où puissent se retirer tous les hommes honnêtes et pieux, laïcs ou ecclésiastiques, chevaliers, écuyers et bourgeois, qui désireraient fuir le monde et se consacrer à Dieu, sans cependant entrer dans un ordre monastique ».
Mais il y a plus dans l’histoire de l’Île Verte. Rulman Merswin et les Amis de Dieu se trouvèrent rapidement en relation avec un personnage mystérieux qui va les guider dans la voie spirituelle qu’ils se sont choisie, par une série de missives (de 1363 à 1380) et d’écrits, parmi lesquels on peut citer Le Livre du maître de la Sainte Écriture, Le Livre des Cinq hommes « qui décrit la société idyllique du Haut Pays ».
Pour Henry Corbin, il paraît superflu de rechercher l’identité de cet « Ami de Dieu du Haut Pays », tout comme il serait vain de tenter de localiser le Haut Pays sur une carte de géographie, car « personne n’en eut connaissance, qui ne s’en approcha par la voie intérieure ». L’essentiel est aux yeux de Corbin que l’« Ami de Dieu du Haut Pays » ait été, selon ses propres termes, « le pôle des Amis de Dieu de l’Ile Verte des Johannites », autrement dit qu’il ait été le Maître intérieur de Rulman Merswin lui-même. Or, qui est le Maître intérieur ? C’est celui qui guide l’initié, non plus en ce monde-ci, mais bien dans les contrées au-delà de l’Orient du monde terrestre.
Tel est le secret de l’identité de l’« Ami de Dieu du Haut Pays ».
Henry Corbin assimila ce dernier au XIIème Imâm [19] de la tradition shî’ite et en tira la conclusion qu’il existe en ce monde « une élite spirituelle commune aux trois rameaux de la tradition abrahamique », dont l’éthique « prend origine aux mêmes sources et vise la même hauteur d’horizon. »
Le monde imaginal
« Le contact entre Dieu et l’homme se fait « entre Ciel et Terre », dans un monde médian et médiateur »
Selon le mot du philosophe Christian Jambet, Henry Corbin a ressuscité « la métaphysique de l’imaginal en terre d’islam ». Et l’on peut tenir cette « résurrection » comme un apport les plus significatifs de son œuvre. Deux ouvrages, déjà cités, permettent de préciser la notion de « monde imaginal ».
Dans le premier de ces ouvrages, L’Imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, il dira : « Que l’on entende pas le mot « images » au sens où de nos jours on parle à tort et à travers d’une civilisation de l’image ; il ne s’agit jamais là que d’images restant au niveau des perceptions sensibles, nullement de perceptions visionnaires. Le mundus imaginalis de la théosophie mystique visionnaire est un monde qui n’est plus le monde empirique de la perception sensible, tout en n’étant pas encore le monde de l’intuition intellective des purs intelligibles. Monde entre-deux, monde médian et médiateur, sans lequel tous les événements de l’histoire sacrale et prophétique deviennent de l’irréel, parce que c’est en ce monde-là que ces événements ont lieu, ont leur « lieu ».
Dans le second, Corps spirituel et terre céleste, le Prélude à la deuxième édition (1978) s’intitule « Pour une charte de l’Imaginal »[20]. On y lit ceci : « La fonction du mundus imaginalis et des Formes imaginales se définit par leur situation médiane et médiatrice entre le monde intelligible et le monde sensible. D’une part, elle immatérialise les Formes sensibles, d’autre part, elle « imaginalise » les formes intelligibles auxquelles elle donne figure et dimension. Le monde imaginal symbolise d’une part avec les Formes sensibles, d’autre part avec les Formes intelligibles. C’est cette situation médiane qui d’emblée impose à la puissance imaginative une discipline impensable là où elle s’est dégradée en « fantaisie », ne secrétant que de l’imaginaire, de l’irréel, et capable de tous les dévergondages. »
L’apport le plus remarquable chez Henry Corbin est par conséquent d’avoir « revivifié » pour l’Occident ce mundus imaginalis « qui n’est ni le monde empirique des sens ni le monde abstrait de l’intellect » – dont la notion – et donc la réalité – s’était éclipsée depuis plusieurs siècles de pieux agnosticisme et de Lumières. On conviendra qu’il s’agit de quelque chose qui éclaire considérablement le sens de notre pèlerinage vers nos origines, vers l’Orient, cette nostalgie du « paradis perdu », qui aiguise notre sentiment d’exil en ce monde et avive, pour les uns, le désir eschatologique du monde à venir, pour les autres, l’attente de leur délivrance.
L’ismaélisme
« Il y a l’ismaélisme et rien »
L’ismaélisme est une branche du chiisme.
Que sait-on de l’ismaélisme ? Généralement, on en connaît la légende des Assassins et du Vieux de la Montagne. On connaît également le prodigieux essor culturel et spirituel de la dynastie des Fatimides au Caire (909-1130). On sait parfois qu’il existe des Ismaéliens au Yémen et aussi que l’Aga Khan est le chef spirituel d’une importante communauté ismaélienne. Pourtant l’ismaélisme est beaucoup plus que ces quelques clichés. Nous en donnerons ce bref aperçu historique.
Ja’far al-Sadîq, le sixième Iman de la descendance de ‘Alî ibn Tâlib, avait désigné comme successeur et héritier spirituel son fils aîné Ismâ’il. Celui-ci meurt prématurément en 754 et Ja’far al-Sâdiq transfère alors son investiture à Mûsâ al-Kâzim, frère cadet d’Ismâ’il, qui deviendra le septième imâm de la lignée, en 756. Mais, autour du jeune Ismâ’il s’était constitué un groupe de disciples particulièrement fervents et de tendance « ultra-chiites », selon le mot de Corbin, qui refusèrent ce transfert et reportèrent leur allégeance sur la personne du fils d’Ismâ’il, Muhammad. Ce sont les premiers Ismaéliens qui forment ce que Henry Corbin désigne comme le proto-ismaélisme. Suit une période assez mal connue durant laquelle se succèdent les descendants de Muhammad, jusqu’à l’avènement de la dynastie des Imams Califes fatimides du Caire. Celle-ci commence en 909, avec le règne de Obadayallah al-Mahdi (mort en 934). Mais deux siècles plus tard, en 1094, le huitième Imam Calife, Al-Mustansir bi’allah, donne son investiture à son fils cadet al-Mustali bi’llâh, au lieu de Nizâr son fils aîné. La communauté fatimide se divise alors et les partisans de Nizâr fondent ce qu’on appellera l’Ismaélisme réformé d’Alamût, du nom de cette forteresse, au sud-ouest de la Mer Caspienne, qui en devient le centre. C’est là que le 8 août 1164, l’Imam Hassan ‘alâ dhikrihi’s-salâm, grand maître d’Alamût, proclame la Grande Résurrection : « Ce qu’impliquait la proclamation, écrit Henry Corbin, ce n’était rien de moins que l’avènement du d’un pur Islam spirituel, libéré de tout esprit égalitaire, de toute servitude de la Loi, une religion personnelle de la Résurrection, parce qu’elle fait découvrir et vivre le sens spirituel des Révélations prophétiques »[21].
L’ismaélisme s’inscrit ensuite dans une hiérohistoire.
Chaque religion est apparue, en effet, successivement à l’un des six « jours » (six époques) de la « création du cosmos religieux ». Ainsi les Mazdéens sont-ils apparus au troisième jour, les Juifs au quatrième, les Chrétiens au cinquième et les Musulmans au sixième jour. Chaque religion a voulu arrêter à son propre « jour » cette création du cosmos religieux, or si chaque « jour » ou période est inaugurée par un prophète, elle se prolonge par une succession d’Imams, jusqu’à ce que Dieu suscite un nouveau « jour ». Ces saints Imams qu’ils soient visibles ou invisibles sont les dépositaires du sens caché de la Loi qui préside à chaque période, de cette Religion divine qui forme l’ésotérisme de la religion littérale et qui est professée par les Amis de Dieu, les disciples, les fidèles de l’Imam. Ce sont eux qui « propagent leur appel en secret et en observant strictement la discipline de l’arcane, car le monde terrestre ne peut jamais resté privé, fût-ce un seul instant, de celui qui en est le contrepoids devant Dieu, qu’Il soit manifesté publiquement et à découvert, ou qu’il doive resté caché et incognito »[22].
Ce « contrepoids », c’est l’Imam, le « pôle mystique » de notre monde[23].
Mais l’Imam est beaucoup plus que cela, ou plutôt de sa fonction de « pôle mystique », découlent nombre d’autres attributions.
Il est celui qui détient le sens ésotérique de la Loi révélée par le Nâtiq, le prophète « énonciateur de la Loi religieuse »[24], et par conséquent le « dépositaire » de la Religion divine.
Il est aussi le Pôle céleste et le Maître intérieur de chacun de ses fidèles.
Il est enfin la « théophanie éternelle », grâce à quoi les adeptes, les amis de Dieu, contemplent le visage divin.
A ce sujet, Henry Corbin usait d’un diagramme explicitant cette dernière idée de « théophanie » : « Si nous voulions nous figurer la situation par un diagramme, écrivait-il, nous pourrions nous représenter deux ellipses se recoupant l’une l’autre, telles que le foyer compris dans le champ de leur intersection soit un foyer commun à l’une et à l’autre. Ce foyer commun figurerait l’Imâm. Il y a polarité entre le Deus absconditus et sa Forme théophanique, sa Face qui est l’Imâm ; et il y a polarité entre cette Face et l’homme à qui elle se montre comme Face divine. Mais il n’y a pas de polarité entre l’Absconditum et l’homme »[25]
Conclusion
S’agissant de l’ismaélisme, Henry Corbin a accompli pleinement sa vocation de « passeur », car Henry Corbin a été un remarquable « passeur », au moins en un sens profane, – en mettant à la disposition de ses lecteurs occidentaux tout un corpus d’œuvres « orientales » qui demeureraient encore sans lui inconnu, – mais surtout, en un sens ésotérique, dès lors qu’il ne s’est pas contenté de traduire, mais de transmettre quelque chose de leur enseignement ésotérique, en une langue exceptionnelle. Il disait lui-même : « Parler, c’est traduire… d’une langue angélique en une langue humaine. » C’est ce que Marie-Madeleine Davy qui fut intime avec lui avait si bien compris – de même qu’elle avait compris que sa vocation était de vivre pour cette Terre qu’il avait « découverte » et, aussi, qu’il était entré vivant dans la mort : « Henry Corbin, était un homme « ressuscité » avant d’aborder l’autre rive. Il portait sur son visage et dans ses yeux le scintillement de son appartenance. Dans ses ouvrages et lors de ses conférences, il a su faire passer le monde des anges »[26]. C’est bien ainsi qu’il faut comprendre le sens de sa vocation et de sa destinée, l’essentiel restant que l’homme professe « authentiquement » sa Foi.
On peut se faire une idée de cette Foi de Henry Corbin avec ces mots écrits, le 24 avril 1932, au bord d’un lac de Dalécarlie : « Terre, Ange, Femme, tout cela est une seule chose que j’adore et qui est dans cette forêt ».
La Terre dont il est question est le monde de Hûrqalyâ, le mundus imaginalis, ou encore la « Terre des visions », la Terre céleste
L’Ange est l’ange de la destinée, le Double céleste de l’âme « qui lui vient en aide et qu’elle doit rejoindre, ou au contraire perdre à jamais, post-mortem, selon que sa vie terrestre aura rendu possible, ou au contraire impossible, le retour à la condition « célestielle » de leur bi-unité », comme il expliquera dans un autre de ses ouvrages les plus révélateurs, intitulé L’homme et son ange.
C’est en référence à cet ange que Mircea Eliade dira : « Il est mort avec sérénité tant il était sûr que son ange gardien l’attendait. »
Enfin, la Femme – Stella matutina – qui manifeste un mystère qui est celui de l’Eternellement-Féminin – « Un Eternellement-Féminin, antérieur même à la femme terrestre, parce qu’antérieur à la différenciation du masculin et du féminin dans le monde terrestre, de même que la Terre supracéleste domine toutes les Terres, célestes et terrestres, et leur préexiste » [27] – que Corbin interprète ainsi – et nous touchons alors au plus près son secret : « C’est d’un monde où socialisation et spécialisation n’arracheraient plus à chaque âme son individualité, sa perception spontanée de la vie des choses et du sens religieux de la beauté des êtres ; un monde où l’amour devrait précéder toute connaissance ; où le sens de la mort ne serait que la nostalgie de la résurrection. Si tout cela même peut être encore pressenti, la conclusion du second Faust nous l’annonce comme un mystère de salut qu’accomplit l’Eternellement-Féminin, comme si l’appel ne pouvait venir d’ailleurs pour qu’il y soit répondu avec un assentiment confiant – l’appel impérieux : « Meurs et deviens ! » [28]
[1] Henry Corbin, « Post-scriptum biographique à un Entretien philosophique », Henry Corbin, Cahier de l’Herne, 1981, pp. 40-41
[2] Henry Corbin, « De Heidegger à Sohravardî », Idem, p.24
[3] Nicolas Berdiaev, Le sens de la création, cité par Henry Corbin, En Islam iranien, Gallimard, IV, 1978, p.446.
[4] Henry Corbin, « Post-scriptum biographique à un Entretien philosophique », Henry Corbin, Cahier de l’Herne, op. cit., p.46
[5] Henry Corbin, Corps spirituel et Terre céleste, op. cit., p.137.
[6] Henry Corbin, « Le temps d’Eranos », Henry Corbin, Cahier de l’Herne, op. cit. p.260
[7] L’Institut Français de Recherche en Iran a publié un résumé des conférences de Henry Corbin à l’École Pratiques des Hautes Etudes de 1955 à 1979, sous le titre : «Itinéraire d’un enseignement », IFRE, Téhéran, 1993
[8] « Le cher Massignon n’était pas étranger à cette élection. Je connaissais son souci, et quelles que fussent nos différences de pensées, il me considérait comme le plus proche de lui pour prolonger la direction qu’il avait donnée aux recherches, sinon quant à leur contenu, du moins quant à leur sens et à leur esprit » Henry Corbin, « Post-scriptum biographique… », op. cit., p.47
[9] Lors de la seconde édition, en 1978, Corbin modifiera ce titre qui deviendra : Corps spirituel et Terre céleste.
[10] On se rappelle de son mot : « Il y a l’ismaélisme et rien ».
[11] « Post-scriptum biographique à un Entretien philosophique », op. cit. p.53.
[12] Christian Jambet, « Le guide intérieur », in Henry Corbin, Suhrawardî d’Alep, Fata Morgana, p.16
[13] Michel Le Bris, « Pour en finir avec les guerres de religion », René Guénon, Dossier H, L’Age d’Homme, 1984, p.221. Voir aussi dans le même Dossier H, Frédérick Tristan, « Réflexions sur René Guénon : « Je ne doute pas que Guénon aurait suspecté Corbin d’agir en poète, lorsque Corbin l’accuse d’une logique trop étroite. Mais il faut avoir vu le visage anguleux et jaune de Guénon et la face épanouie de Corbin pour comprendre comment la révélation utilise le tempérament autant que la nature. Le dieu du désert n’est pas celui de la forêt ni de l’océan », p.206
[14] Shusha Guppi, A girl in Paris, 1991 (traduction français, Phébus, 1996), p.118.
[15] Henry Corbin, Prélude à L’Archange empourpré de Sohravardî, Fayard, 1976, p.XXIII.
[16] Massignon aurait préféré d’ailleurs que Corbin se complaise plus dans la compagnie de Rûzbehân Baqlî que de Sohravardî ou d’Ibn ‘Arabî. Il le lui écrira, dans une lettre du 8 juillet 1958.
[17] Amour de passion qu’il ne faut pas confondre avec l’amour passion des romantiques !
[18] Henry Corbin, En Islam iranien, Gallimard, 1978, IV, p. 392.
[19] « Il y a un pacte de fidélité conclu pré-existentiellement entre l’Imâm et ses fidèles (…). Et ce ne fut pas le moindre enseignement de nos recherches de constater que nos théosophes shî’ites avaient identifiés le XIIe Imâm aussi bien avec le Saoshyant des zoroastriens qu’avec le Paraclet annoncé dans l’Évangile de Jean », idem, p391.
[20] Cette « Charte de l’Imaginal » a séduit un certain nombre d’intellectuels français comme Christian Jambet, Gilbert Durand, Michel Le Bris, etc.
[21] Pour un exposé complet, voir Henry Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Gallimard, 1986.
[22] Henry Corbin, L’homme et son Ange, Fayard, 1983, p.187. Autrement dit, pour les chiites en général, et les Ismaéliens en particulier, « au temps ou au cycle de la mission prophétique (nobowwât) succède le temps ou le cycle de la walayât ou de l’initiation spirituelle par les Amis de Dieu ».
[23] Pour le chiisme duodécimain, ce pôle est le Douzième Imam, qui vit actuellement une période d’occultation.
[24] C’est en ce sens que l’Imâm est appelé al-Sâmit, le Silencieux.
[25] Henry Corbin, Face de Dieu, face de l’homme, Flammarion, 1983, p.247
[26] Elle dira aussi : « L’homme ressuscité porte dans son regard les reflets d’une nouvelle aurore, on pourrait v parler d’un regard d’éternité. Cette éternité colore l’écriture, la sculpte, révèle le secret de la profondeur. A certains instants elle éveille un écho chez le lecteur, le cœur de celui-ci s’anime. Envahi par une chaleur insolite, le cœur devient brasier. »
[27] Henry Corbin, Corps spirituel et Terre céleste, op. cit., p.94.
[28] Cf. Henry Corbin, Cahier de l’Herne, op. cit., p.22
00:05 Publié dans Islam, Philosophie, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : henry corbin, philosophie, iran, tradition, traditionalisme, perse antique, islam persan, ismaëlisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook
The Visionary Theories of Pitirim Sorokin
Culture in Crisis: The Visionary Theories of Pitirim Sorokin
Ex: http://www.satyagraha.wordpress.com/
Introduction
Pitirim Sorokin, a leading 20th century sociologist, is a name you should know. Consider this quote of his:
The organism of the Western society and culture seems to be undergoing one of the deepest and most significant crises of its life. The crisis is far greater than the ordinary; its depth is unfathomable, its end not yet in sight, and the whole of the Western society is involved in it. It is the crisis of a Sensate culture, now in its overripe stage, the culture that has dominated the Western World during the last five centuries. It is also the crisis of a contractual (capitalistic) society associated with it. In this sense we are experiencing one of the sharpest turns in the historical road…. The diagnosis of the crisis of our age which is given in this chapter was written…. Gigantic catastrophes that have occurred since that year…strikingly confirm and develop the diagnosis…. Not a single compartment of our culture, or of the mind of contemporary man, shows itself to be free from the unmistakable symptoms….
Shall we wonder, therefore, that if many do not apprehend clearly what is happening, they have at least a vague feeling that the issue is not merely that of “prosperity,” or “democracy,” or “capitalism,” or the like, but involves the whole contemporary culture, society, and man? …
Shall we wonder, also, at the endless multitude of incessant major and minor crises that have been rolling over us, like ocean waves, during recent decades? Today in one form, tomorrow in another. Now here, now there. Crises political, agricultural, commercial, and industrial! Crises of production and distribution. Crises moral, juridical, religious, scientific, and artistic. Crises of property, of the State, of the family, of industrial enterprise…Each of the crises has battered our nerves and minds, each has shaken the very foundations of our culture and society, and each has left behind a legion of derelicts and victims. And alas! The end is not in view. Each of these crises has been, as it were, a movement in a great terrifying symphony, and each has been remarkable for its magnitude and intensity. (P. Sorokin, SCD, pp. 622-623)
Background
Pitirim Alexandrovich Sorokin (1889 – 1968) was born in Russia to a Russian father and an indigenous (Komi, an ethnic group related to Finns) mother. Like other intellectuals of his age, he was swept up in the revolt against the tsarist government. He held a cabinet post in the short-lived Russian Provisional Government (1917), and had the distinction of being imprisoned successively by both tsarist and Bolshevist factions. Eventually sentenced to death, he was pardoned by Lenin, emigrated, and came to the US. There he enjoyed a long and distinguished academic career, much at Harvard University, where he served as head of the sociology department.
His experience and acute observations of Russian politics left him uniquely suited for understanding the transformational forces of the 20th century. By 1937 he published the first three volumes of his masterpiece, Social and Cultural Dynamics, but he continued to refine his theories for nearly three more decades.
Based on a careful study of world history – including detailed statistical analysis of art, architecture, literature, economics, philosophy, science, and warfare – he identified three strikingly consistent phenomena:
- There exist two fundamental, alternative cultural patterns, broadly characterized as materialistic (Sensate) and spiritual (Ideational), along with certain intermediate or mixed patterns.
- Every society tends to alternate between materialistic and spiritual periods, sometimes with transitional, mixed periods, in a regular and predictable way.
- Times of transition from one orientation to another are characterized by many wars and crises.
Characteristics of the two primary cultural patterns and one important mixed pattern are outlined below.
Sensate (Materialistic) Culture
The first pattern, which Sorokin called Sensate culture, has these features:
- The defining cultural principle is that true reality is sensory – only the material world is real. There is no other reality or source of values.
- This becomes the ubiquitous organizing principle of society. It permeates every aspect of culture and defines the basic mentality. People are unable to think in any other terms.
- Sensate culture pursues science and technology, but dedicates little creative thought to spirituality or religion.
- Dominant values are wealth, health, bodily comfort, sensual pleasures, power and fame.
- Ethics, politics, and economics are utilitarian and hedonistic. All ethical and legal precepts are considered mere man-made conventions, relative and changeable.
- Art and entertainment emphasize sensory stimulation. In the decadent stages of Sensate culture there is a frenzied emphasis on the new and the shocking (literally, sensationalism).
- Religious institutions are mere relics of previous epochs, stripped of their original substance, and tending to fundamentalism and exaggerated fideism (the view that faith is not compatible with reason).
Ideational (Spiritual) Culture
The second pattern, which Sorokin called Ideational culture, has these characteristics:
- The defining principle is that true reality is supersensory, transcendent, spiritual.
- The material world is variously: an illusion (maya), temporary, passing away (“stranger in a strange land”), sinful, or a mere shadow an eternal transcendent reality.
- Religion often tends to asceticism, or attempts at zealous social reform.
- Mysticism and revelation are considered valid sources of truth and morality.
- Science and technology are comparatively de-emphasized..
- Economics is conditioned by religious and moral commandments (e.g., laws against usury).
- Innovation in theology, metaphysics, and supersensory philosophies
- Flourishing of religious and spiritual art (e.g., Gothic cathedrals)
Integral Culture
Most cultures correspond to one of the two basic patterns above. Sometimes, however, a mixed cultural pattern occurs. The most important mixed culture Sorokin termed an Integral culture (also sometimes called an idealistic culture – not to be confused with an Ideational culture.) An Integral culture harmoniously balances sensate and ideational tendencies. Characteristics of an Integral culture include the following:
- Its ultimate principle is that the true reality is richly manifold, a tapestry in which sensory, rational, and supersensory threads are interwoven.
- All compartments of society and the person express this principle.
- Science, philosophy, and theology blossom together.
- Fine arts treat both supersensory reality and the noblest aspects of sensory reality.
Western Cultural History
Sorokin examined a wide range of world societies. In each he believed he found evidence of the regular alternation between Sensate and Ideational orientations, sometimes with an Integral culture intervening. According to Sorokin, Western culture is now in the third Sensate epoch of its recorded history. Table 1 summarizes his view of this history.
Table 1
Cultural Periods of Western Civilization According to Sorokin
Period | Cultural Type | Begin | End |
Greek Dark Age | Sensate | 1200 BC | 900 BC |
Archaic Greece | Ideational | 900 BC | 550 BC |
Classical Greece | Integral | 550 BC | 320 BC |
Hellenistic – Roman | Sensate | 320 BC | 400 |
Transitional | Mixed | 400 | 600 |
Middle Ages | Ideational | 600 | 1200 |
High Middle Ages, Renaissance | Integral | 1200 | 1500 |
Rationalism, Age of Science | Sensate | 1500 | present |
Based on a detailed analysis of art, literature, economics, and other cultural indicators, Sorokin concluded that ancient Greece changed from a Sensate to an Ideational culture around the 9th century BC; during this Ideational phase, religious themes dominated society (Hesiod, Homer).
Following this, in the Greek Classical period (roughly 600 BC to 300 BC), an Integral culture reigned: the Parthenon was built; art (the sculptures of Phidias, the plays of Aeschylus and Sophocles) flourished, as did philosophy (Plato, Aristotle). This was followed by a new Sensate age, associated first with Hellenistic (the empire founded by Alexander the Great) culture, and then the Roman empire.
As Rome’s Sensate culture decayed, it was eventually replaced by the Christian Ideational culture of the Middle Ages. The High Middle Ages and Renaissance brought a new Integral culture, again associated with many artistic and cultural innovations. After this Western society entered its present Sensate era, now in its twilight. We are due, according to Sorokin, to soon make a transition to a new Ideational, or, preferably an Integral cultural era.
Cultural Dynamics
Sorokin was especially interested in the process by which societies change cultural orientations. He opposed the view, held by communists, that social change must be imposed externally, such as by a revolution. His principle of imminent change states that external forces are not necessary: societies change because it is in their nature to change. Although sensate or ideational tendencies may dominate at any given time, every culture contains both mentalities in a tension of opposites. When one mentality becomes stretched too far, it sets in motion compensatory transformative forces.
Helping drive transformation is the fact that human beings are themselves partly sensate, partly rational, and partly intuitive. Whenever a culture becomes too exaggerated in one of these directions, forces within the human psyche will, individually and collectively – work correctively.
Crises of Transition
As a Sensate or Ideational culture reaches a certain point of decline, social and economic crises mark the beginning of transition to a new mentality. These crises occur partly because, as the dominant paradigm reaches its late decadent stages, its institutions try unsuccessfully to adapt, taking ever more drastic measures. However, responses to crises tend to make things worse, leading to new crises. Expansion of government control is an inevitable by-product:
“The main uniform effect of calamities upon the political and social structure of society is an expansion of governmental regulation, regimentation, and control of social relationships and a decrease in the regulation and management of social relationships by individuals and private groups. The expansion of governmental control and regulation assumes a variety of forms, embracing socialistic or communistic totalitarianism, fascist totalitarianism, monarchial autocracy, and theocracy. Now it is effected by a revolutionary regime, now by a counterrevolutionary regime; now by a military dictatorship, now by a dictatorship, now by a dictatorial bureaucracy. From both the quantitative and the qualitative point of view, such an expansion of governmental control means a decrease of freedom, a curtailment of the autonomy of individuals and private groups in the regulation and management of their individual behavior and their social relationships, the decline of constitutional and democratic institutions.” (MSC p. 122)
But, as we shall consider below, at the same time as these crises occur, other constructive forces are at work.
Trends of our Times
Sorokin identified what he considered three pivotal trends of modern times. The first trend is the disintegration of the current Sensate order:
In the twentieth century the magnificent sensate house of Western man began to deteriorate rapidly and then to crumble. There was, among other things, a disintegration of its moral, legal, and other values which, from within, control and guide the behavior of individuals and groups. When human beings cease to be controlled by deeply interiorized religious, ethical, aesthetic and other values, individuals and groups become the victims of crude power and fraud as the supreme controlling forces of their behavior, relationship, and destiny. In such circumstances, man turns into a human animal driven mainly by his biological urges, passions, and lust. Individual and collective unrestricted egotism flares up; a struggle for existence intensifies; might becomes right; and wars, bloody revolutions, crime, and other forms of interhuman strife and bestiality explode on an unprecedented scale. So it was in all great transitory periods. (BT, 1964, p. 24)
The second trend concerns the positive transformational processes which are already at work:
Fortunately for all the societies which do not perish in this sort of transition from one basic order to another, the disintegration process often generates the emergence of mobilization of forces opposed to it. Weak and insignificant at the beginning, these forces slowly grow and then start not only to fight the disintegration but also to plan and then to build a new sociocultural order which can meet more adequately the gigantic challenge of the critical transition and of the post-transitory future. This process of emergence and growth of the forces planning and building the new order has also appeared and is slowly developing now…
The epochal struggle between the increasingly sterile and destructive forces of the dying sensate order and the creative forces of the emerging, integral, sociocultural order marks all areas of today’s culture and social life, and deeply affects the way of life of every one of us. (BT, 1964, pp. 15-16)
The third trend is the growing importance of developing nations:
“The stars of the next acts of the great historical drama are going to be — besides Europe, the Americas, and Russia — the renascent great cultures of India, China, Japan, Indonesia, and the Islamic world. This epochal shift has already started…. Its effects upon the future history of mankind are going to be incomparably greater than those of the alliances and disalliances of the Western governments and ruling groups. (BT, 1964, pp. 15-16)
Social Transformation and Love
While the preceding might suggest that Sorokin was a cheerless prophet of doom, that is not so, and his later work decidedly emphasized the positive. He founded the Harvard Research Center for Creative Altruism, which sought to understand the role of love and altruism in producing a better society. Much of the Center’s research was summarized in Sorokin’s second masterpiece, The Ways and the Power of Love.
This book offered a comprehensive view on the role of love in positively transforming society. It surveyed the ideals and tactics of the great spiritual reformers of the past – Jesus Christ, the Buddha, St. Francis of Assisi, Gandhi, etc. – looking for common themes and principles.
We need, according to Sorokin, not only great figures like these, but also individuals who seek to exemplify the same principles within their personal spheres of influence. Personal change must precede collective change, and nothing transforms a culture more effectively than positive examples. What is essential today, according to Sorokin, is that individuals reorient their thinking and values to a universal perspective – to seek to benefit all human beings, not just oneself or ones own country.
A significant portion of the book is devoted to the subject of yoga (remarkable for a book written in 1954), which Sorokin saw as an effective means of integrating the intellectual and sensate dimensions of the human being. At the same time he affirmed the value of traditional Western religions and religious practices.
The Road Ahead
Sorokin’s theories supply hope, motivation, and vision. They bolster hope that there is a light at the end of the tunnel, and that it may be not too far distant. The knowledge that change is coming, along with an understanding of his theories generally, enables us to try to steer change in a positive direction. Sorokin left no doubt but that we are at the end of a Sensate epoch. Whether we are headed for an Ideational or an Integral culture remains to be seen. It is clearly consistent with his theories that an Integral culture is attainable and is something to seek: a new Renaissance.
A similar view was expressed by Frijtof Capra, who, in his book, The Turning Point, suggested we are on the verge of one of the greatest cultural transitions ever:
The rhythmic recurrences and patterns of rise and decline that seem to dominate human cultural evolution have somehow conspired to reach their points of reversal at the same time. The decline of patriarchy, the end of the fossil-fuel age, and the paradigm shift occurring in the twilight of the sensate culture are all contributing to the same global process. The current crisis, therefore, is not just a crisis of individuals, governments, or social institutions; it is a transition of planetary dimensions. As individuals, as a society, as a civilization, and as a planetary ecosystem, we are reaching the turning point…
During this phase of revaluation and cultural rebirth it will be important to minimize the hardship, discord, and disruption that are inevitably involved in periods of great social change, and to make the transition as painless as possible. It will therefore be crucial to go beyond attacking particular social groups or institutions, and to show how their attitudes and behavior reflect a value system that underlies our whole culture and that has now become outdated. It will be necessary to recognize and widely communicate the fact that our current social changes are manifestations of a much broader, and inevitable, cultural transformation. Only then will we be able to approach the kind of harmonious, peaceful cultural transition described in one of humanity’s oldest books of wisdom, the Chinese I Ching, or Book of Changes: “The movement is natural, arising spontaneously.” (Capra, pp. 32-34)
One reason that change may happen quickly is because people already know that the present culture is oppressive. Expressed public opinion, which tends to conformity, lags behind private opinion. Once it is sufficiently clear that the tide is changing, people will quickly join the revolution. The process is non-linear.
Christianity and Islam
Viewed in terms of Sorokin’s theories, the current tensions between the West and Islam suggest a conflict is between an overripe ultra-materialistic Western culture, detached from its religious heritage and without appreciation of transcendent values, against a medieval Ideational culture that has lost much of its earlier spiritual creativity. As Nieli (2006) put it:
“With regard to the current clash between Islam and the West, Sorokin would no doubt point out that both cultures currently find themselves at end stages of their respective ideational and sensate developments and are long overdue for a shift in direction. The Wahabist-Taliban style of Islamic fundamentalism strays as far from the goal of integral balance in Sorokin’s sense as the one-sidedly sensate, post-Christian societies of Northern and Western Europe. Both are ripe for a correction, according to Sorokin’s theory of cultural change, the Islamic societies in the direction of sensate development (particularly in the areas of science, technology, economic productivity, and democratic governance), the Western sensate cultures in the direction of ideational change (including the development of more stable families, greater temperance and self-control, and the reorientation of their cultural values in a more God-centered direction). Were he alive today, Sorokin would no doubt hold out hope for a political and cultural rapprochement between Islam and the West.” (Nieli, p. 373)
The current state of affairs between Christianity and Islam, then, is better characterized as that of mutual opportunity rather than unavoidable conflict. The West can share its technological advances, and Islam may again – as it did around the 12th century – help reinvigorate the spirit of theological and metaphysical investigation in the West.
Individual and Institutional Changes
Institutions must adapt to the coming changes or be left behind. Today’s universities are leading transmitters of a sensate mentality. It is neither a secret nor a coincidence that Sorokin’s ideas found little favor in academia. A new model of higher education, perhaps based on the model small liberal arts colleges, is required.
Politics, national and international, must move from having conflict as an organizing principle, replacing it with principles of unity and the recognition of a joint destiny of humankind.
A renewal in religious institutions is called for. Christianity, for example, despite its protestations otherwise, still tends decidedly towards an ascetic dualism – the view that the body is little more than a hindrance to the spirit, and that the created world is merely a “vale of tears.” Increased understanding and appreciation of the spiritual traditions of indigenous cultures, which have not severed the connection between man and Nature, may assist in this change.
Sorokin emphasized, however, that the primary agent of social transformation is the individual. Many simple steps are available to the ordinary person. Examples include the following:
- Commit yourself to ethical and intellectual improvement. In the ethical sphere, focus first on self-mastery. Be eager to discover and correct your faults, and to acquire virtue. Think first of others. See yourself as a citizen of the world. Urgently needed are individuals who can see and seek the objective, transcendent basis of ethical values.
- Cultivate the Intellect: study philosophy; read books and poetry; listen to classical music; visit an art museum.
- Practice yoga.
- Be in harmony with Nature: plant a garden; go camping; protect the environment.
- Reduce the importance of money and materialism generally in your life.
- Turn off the television and spend more time in personal interaction with others.
A little reflection will doubtless suggest many other similar steps. Recognize that in changing, you are not only helping yourself, but also setting a powerfully transformative positive example for others.
The Supraconscious
Sorokin’s later work emphasized the role of the supraconscious — a Higher Self or consciousness that inspires and guides our rational mind. Religions and philosophical systems universally recognize such a higher human consciousness, naming it variously: Conscience, Atman, Self, Nous, etc. Yet this concept is completely ignored or even denied by modern science. Clearly this is something that must change. As Sorokin put it:
By becoming conscious of the paramount importance of the supraconscious and by earnest striving for its grace, we can activate its creative potential and its control over our conscious and unconscious forces. By all these means we can break the thick prison walls erected by prevalent pseudo-science around the supraconscious. (WPL, p. 487)
The reality of the supraconscious is a cause for hope and humility: hope, because we are confident that the transpersonal source of human supraconsciousness is providential, guiding culture though history with a definite plan; and humility, because it reminds us that our role in the grand plan is achieved by striving to rid ourselves of preconceived ideas and selfishly motivated schemes, and by increasing our capacity to receive and follow inspiration. It is through inspiration and humility that we achieve a “realization of man’s unique creative mission on this planet.” (CA, p. 326).
References
- Capra, Fritjof. The Turning Point: Science, Society, and the Rising Culture. Simon and Schuster, 1983.
- Coser, Lewis A. Masters of Sociological Thought. 2nd ed. New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1977.
- Nieli, Russell. “Critic of the sensate culture: rediscovering the genius of Pitirim Sorokin“. The Political Science Reviewer (Intercollegiate Studies Institute), 2006, 35: 264-379.
- Sorokin, Pitirim A. Social and Cultural Dynamics. 4 vols. 1937 (vols. 1-3), 1941 (vol. 4); rev. 1957 (reprinted: Transaction Publishers, 1985). [SCD]
- Sorokin, Pitirim A. The Crisis of our Age. E. P. Dutton, 1941 (reprinted 1957). [CA]
- Sorokin, Pitirim A. Man and Society in Calamity. E. P. Dutton., 1942 (reprinted: Transaction Publishers, 2010). [MSC]
- Sorokin, Pitirim A. The Reconstruction of Humanity. Beacon Press, 1948. [RH]
- Sorokin, Pitirim A. The Ways and Power of Love. 1954 (reprinted: Templeton Foundation Press, 2002). [WPL]
- Sorokin, Pitirim A. The Basic Trends of Our Times. Rowman & Littlefield, 1964. [BT]
- Suburban Emergency Management Project. “Influence of Catastrophes on Political Organization: The Sorokin Perspective.” Biot Report #467: October 11, 2007. Accessed: 9 August 2010.
00:05 Publié dans Philosophie, Sociologie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : pitirim sorokin, philosophie, théorie politique, sociologie, politologie, sciences politiques | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Pitirim Sorokin
Pitirim Sorokin
by Morris Berman
Ex: http://morrisberman.blogspot.be/
00:01 Publié dans Philosophie, Sociologie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, pitirim sorokin, sociologie, politologie, sciences politiques, théorie politique | | del.icio.us | | Digg | Facebook
samedi, 10 novembre 2012
APUNTES SOBRE “INGSOC”: EL LENGUAJE NO SEXISTA
APUNTES SOBRE “INGSOC”: EL LENGUAJE NO SEXISTA,
por Cristina Martinez
Teniendo en cuenta la proliferación de guías de lenguaje no sexista, no queda más remedio que realizar la siguiente reflexión:
Quienes defienden el uso inclusivo del lenguaje arguyen que el género masculino es excluyente. Sin embargo, si analizamos esta afirmación detenidamente, podremos comprobar que, como tantas otras emitidas sin conocimiento suficiente, es falsa.
En la oración los niños pequeños son preciosos, se incluye tanto a las mujeres como a los varones; en cambio, la frase las niñas pequeñas son preciosas sólo puede referirse a mujeres y, por tanto, quedan excluidos los varones. Con este sencillo ejemplo, queda demostrado que el masculino es el género inclusivo y el femenino, el exclusivo. De ahí que en gramática se hable de género marcado (femenino) y género no marcado o genérico (masculino).
Dado que en español, como en otras muchas lenguas románicas, el género no marcado representa la concordancia por defecto, si, a fin de evitar la supuesta discriminación sexista implícita en el lenguaje, según esas guías, recurrimos al desdoblamiento pueden ocurrir dos cosas: o bien, pondremos en peligro la concordancia; o bien, caeremos en imposibles circunloquios que atentan contra el principio de economía lingüística.
Veamos un ejemplo. En la oración los humanos son mamíferos, que hace referencia tanto a mujeres como a hombres, si para evitar la discriminación obedecemos los principios no sexistas que tratan de imponer y recurrimos al desdoblamiento, el resultado, respetando la concordancia, debería ser el siguiente: las humanas y los humanos son mamíferas y mamíferos. Es obvio que, esta solución es impracticable, especialmente a nivel oral, además de caer en irrelevantes repeticiones que cansan al lector o al oyente.
Si se opta por concordar únicamente los artículos definidos, se cae en una incorrección gramatical, dado que en castellano los elementos átonos (los artículos) no pueden ir coordinados. Por tanto, una solución como la que sigue, tan recurrente en los medios de comunicación, es agramatical: las y los humanos son mamíferos.
Otra de las soluciones a la que se ha recurrido es el uso de símbolos, ilegibles en el lenguaje escrito e invisibles en el oral, tales como paréntesis, arrobas, etc.
Al no haber una norma sobre el asunto, no parece ni útil, ni justificado, ni mucho menos necesario recurrir a este tipo de desdoblamientos. Es necesario un criterio unificado que homogeneice los usos lingüísticos y eso, precisamente, es lo que trata de hacer la Real Academia, tan criticada a raíz del artículo de Ignacio Bosque sobre este asunto que, paradójicamente, ha recibido el apoyo de la gran mayoría de los lingüistas.
Es tal la estulticia lingüística de los que se han aventurado a escribir esas guías que confunden género con sexo deliberadamente, porque desconocen que con el género, en español, ocurre algo parecido que con el plural y el singular. Este es el genérico y engloba a aquel. Por tanto, no se excluye al resto de madres cuando se afirma, por ejemplo: Una madre nunca abandona a su hijo.
Si los abanderados del lenguaje no sexista fueran coherentes y siguieran sus propios criterios a pies juntillas, caerían en continuas aberraciones porque cualquier afirmación podría resultarles excluyente. Así, por ejemplo, una afirmación como alimente a su hijo con leche materna puede resultar discriminatoria tanto con las niñas como con el resto de bebés del mundo. Siendo consecuentes con las normas (que, curiosamente, no existen) del lenguaje no sexista, deberíamos optar por: *padres y madres alimenten a todos sus hijas e hijos con leche materna y paterna. Huelga el comentario.
El desdoblamiento sólo está justificado cuando exista ambigüedad que no pueda resolverse mediante elementos extralingüísticos o contextuales. Será totalmente aceptable, en este caso, por ejemplo: Tengo hermanos y hermanas, si el interlocutor desconoce que son varones y hembras; o en este otro: los alumnos, varones y hembras, usarán el mismo uniforme, para aclarar que tanto unos como otras vestirán igual. Excepto en estos pocos casos, el desdoblamiento resulta innecesario e injustificado.
Se ha dicho hasta la saciedad que la lengua no entiende de sexos y, por tanto, es el hablante el que discrimina. Esta es una problemática que debería tratarse desde el punto de vista social, no lingüístico, y proponer soluciones que sean aplicables en la realidad y no falacias que lo único que proporcionan son discusiones fútiles y gastos inútiles del dinero público. Poco podemos hacer, en cuanto a lengua se refiere, si la idea de igualdad entre hombres y mujeres no es una realidad en el imaginario social. Forzar al uso de un lenguaje artificial, en vez de concienciar activamente sobre el asunto, es un disparate que no sólo atenta contra la libertad de los hablantes sino que, además, contraviene las normas gramaticales y sintácticas del español
Cuando el cambio de mentalidad respecto a este asunto se produzca, de una manera real, en la sociedad; cuando se extienda y se consolide la igualdad de sexos, se trasladará de forma natural a la lengua, sin necesidad de forzar el sistema. La realidad hay que cambiarla de raíz y no limitarse a barnizar las palabras que la reflejan, intentando sugestionar a los hablantes para crearles una suerte de sentimiento de culpa por provocar con sus palabras la discriminación femenina. Esto no es otra cosa que un burdo ejercicio de manipulación de la conciencia y un intento evidente de crear una Neolengua que refleje una realidad que no existe.
Las palabras tienen significado pero no ideología. Yo, personalmente, no voy a eludir de toda responsabilidad al hablante porque, si existe machismo en el lenguaje, es la intención del que lo usa la que lo contiene.
00:05 Publié dans Littérature, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : ingsoc, georges orwell, littérature; lettres, lettres anglaises, littérature anglaises | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Ex: http://mediabenews.wordpress.com/