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vendredi, 02 octobre 2015

Non si può ridere sulle disgrazie tedesche

Non si può ridere sulle disgrazie tedesche

Ex: http://www.lintellettualedissidente.it

In tanti in Europa esultano per l’indebolimento dell’immagine della Germania; ma tralasciando gli asti interni al vecchio continente, ridere per le disgrazie tedesche non appare molto saggio: con una Berlino espugnata, è l’intera Europa ad uscire indebolita!
 

Merkel_Untergang.jpgAlzi la mano che non rida quando, il primo della classe, magari quel ‘secchione’ con gli occhiali che non perde occasione nel dimostrare la propria bravura e la contestuale impreparazione altrui, viene beccato con le mani nel sacco. In tutte le classi di tutto il mondo, quando magari un soggetto del genere viene colto impreparato è una festa per tutti e chi da mesi ha una sfilza di impreparati, improvvisamente torna entusiasta di andare a scuola. Si può quindi comprendere come mai molti italiani, alla notizia del ‘trucchetto’ della Volkswagen, hanno iniziato a ridacchiare ed a sfoderare tutta la retorica da sindrome di ultimo della classe: ‘Anche loro barano’, ‘adesso la Germania non può più dirci nulla’ oppure ancora ‘Germania Kaputt’, sono state le frasi più in voga sui social network in questi giorni. Va bene ridacchiare per le disgrazie di un paese che da anni bacchetta mezza Europa al grido di ‘austerity e rigore’, ma al tempo stesso è ben utile chiarire come in realtà la situazione non è così semplice come una banale querelle tra compagni di classe. In realtà, sulla disgrazia Volkswagen c’è ben poco da ridere e per due ragioni; in primo luogo, è da stolti oggi sfoderare retorica germanofoba.

La Germania, come detto anche in passato, nonostante i suoi difetti e nonostante possa ispirare poca ‘simpatia’, è un grande paese di 140 milioni di abitanti, traino dell’economia europea e dunque imprescindibile per ogni ipotesi di rilancio del vecchi continente; il suo posizionamento poi, ne fa un paese ponte (la storia, tra muri costruiti e muri divelti lo dimostra) tra occidente ed oriente ed un suo indebolimento costituirebbe un ulteriore ostacolo nelle relazioni tra Europa e Russia. Ma soprattutto, altro motivo per cui non è saggio ridere delle disgrazie Volkswagen, è abbastanza palese come l’uscita dei dati che mostrano il trucco sui dati in merito le emissioni, è strumentale; si è voluto dare un colpo molto forte all’orgoglio, all’economia ed all’immagine della Germania. La Volkswagen è cuore dell’industria tedesca, oltre che vanto da diversi decenni; al di là delle migliaia di posti di lavoro, il colosso delle auto è simbolo stesso dell’efficienza della Germania. Colpire adesso, suona come un avvertimento; Berlino in questi giorni era pronta a far valere il suo peso diplomatico sulla questione siriana: Angela Merkel aveva valutato la possibilità di considerare Assad un interlocutore, in più la pressione interna di molti imprenditori tedeschi danneggiati dalle sanzioni alla Russia, stava spingendo la cancelliera a primi passi verso il riavvicinamento a Mosca, pur senza mai citare (almeno in questi giorni) la possibilità di togliere da subito tali sanzioni.

volkswagen-dans-la-tourmente_1592965_418x209.jpgIn poche parole, la Germania era pronta a fare la sua parte; una parte che, seppur invisa a molte cancelliere europee, le spetta di diritto essendo l’economia più forte del continente ed il paese più popolato d’Europa. La politica estera tedesca presenta molte lacune e molte criticità, ma al tempo stesso ‘tifare’ per un peso minore di Berlino nello scacchiere internazionale, vuol dire tagliare fuori definitivamente il vecchio continente da ogni possibile ruolo da protagonista nelle crisi principali. Ed è inoltre proprio Berlino ad avanzare perplessità su alcuni aspetti del TTIP, che invece gli americani vorrebbero far approvare in tempi brevi; tale trattato transatlantico dovrà essere ostacolato soprattutto dal movimento di opinione che da 3 anni a questa parte si sta sviluppando in tutta Europa, ma anche una Germania che avanzava perplessità poteva certamente essere un valido baluardo di difesa. L’aver lanciato le prove del trucco Volkswagen sulle emissioni di gas comunque, non è probabilmente legato direttamente ad uno dei singoli casi prima citati; esso, visto dal luogo da cui è partito (dagli USA), è probabilmente ricollegabile ad un avvertimento generale: la Germania oltre certi limiti non può andare.

In tempi non sospetti, quando tutti elogiavano o temevano la Germania, in più ambienti ed anche nelle colonne del nostro giornale, si lanciava un avvertimento: Berlino può solo ‘giocare’ ad essere una potenza internazionale, resta però pur sempre un paese occupato da centinaia di basi straniere da 70 anni a questa parte e quindi ogni starnuto all’interno della Cancelleria viene valutato e studiato dall’esterno e se qualcosa non combacia con gli interessi dei proprietari di tali basi militari, allora arrivano questo genere di avvertimenti. Quel che sta subendo la Germania in questi giorni, è un attacco a tutto tondo, con tanto di main streaming sguinzagliati contro di essa; della fine del mito e del sogno tedesco se ne parla ormai da giorni, mentre la Volkswagen (non immune certamente da colpe ma, probabilmente, non l’unica industria automobilistica ad aver ‘barato’ nel corso della storia) viene catalogata come il ‘mostro del mese’ da attaccare. ‘Ben gli sta’, potrebbe obiettare qualcuno; ma in realtà no: come detto sopra, l’animo tedesco potrà essere anche poco preposto all’empatia, ma la Germania indebolita è preludio allo schianto definitivo dell’Europa. Giusta (a volte) o sbagliata (spesso) che sia, la via tedesca è l’unica europea rimasta; se anche questa arteria diplomatica viene tranciata, arriverà il via libera definitivo ad un’Europa meramente schiava di potenze straniere. Ed in ottica futura, per sperare ancora in una ripresa del nostro continente, non si può immaginare una Germania indebolita.

 

La légitimité pulvérisée de la “gouvernance” anglo-saxonne

La légitimité pulvérisée de la “gouvernance” anglo-saxonne

Ex: http://www.dedefensa.org

gov13-45EC-4FB1-98F88D9C1DECF511.jpgUne “crise de légitimité” est, à notre époque, nécessairement une crise de communication (en plus de ses composants politiques propres). La pratique statistique en politique (sondages, enquêtes) en fournit notamment mais principalement le moyen, pour le meilleur ou pour le pire, et elle exerce une influence considérable sur les psychologies. Pour cette raison, le dernier sondage Gallup aux USA représente une grave menace pour “le gouvernement des États-Unis” as a whole (toute l’organisation du gouvernement, – administration, Congrès, Cour Suprême, structure de lobbying, d’influence et de corruption, etc.). Ce sondage intervient à l’heure où la démission (effective le 30 octobre) du républicain John Boehner de sa fonction de Speaker (Président de la Chambre des Représentants et deuxième personnage dans la ligne de succession du président en cas d’indisponibilité) autant que de sa fonction de Représentant met en évidence la crise profonde du parti majoritaire (républicain), de plus en plus pressé par son aile droite populiste et anti-fédéraliste. Cela apparaît à l’heure où la politique de l’administration, intérieure et extérieure, avec les démocrates solidaires, est férocement contestée et extraordinairement inefficace...

(L’esprit populiste de révolte anti-Washington qu’exsude un tel sondage dont on va voir le détail rejoint celui qui apparaissait  dans cet autre sondage extraordinaire d’il y a trois semaines où une partie appréciable des citoyens se dit favorables à une prise de pouvoir par l’armée : « L’institut indique que 29% des citoyens américains envisagent des circonstances dans lesquelles ils seraient favorables à cela, la prise du pouvoir par les militaires des forces armées US, – dont 20% chez les démocrates et 43% chez les républicains. Le résultat chez les républicains est stupéfiant : 43% favorables à un coup d’État militaire, 32% défavorables... Longue vie à la Grande République ! »)

• Le sondage dont nous parlons aujourd’hui dit que 60% des citoyens veulent un “troisième parti de gouvernement”, ce qui implique, remarque Eric Zuesse qui le commente, la perception d’un système jugé bon dans sa conception initiale mais brisé par des incapables et des corrompus, et non d’un système contesté puisqu’il ne s’agit pas de l’appel à un parti protestataire ou révolutionnaire. La critique, plus conformiste dans ses causes et éventuellement discutable (le système US est-il si bon ?) est a contrario radicale même si elle est utopique dans ses conséquences : tout le personnel actuel doit être éliminé, pour permettre la création d’un nouveau parti de gouvernement, avec des hommes non-corrompus appliquant le système jugé originellement bon. Ce pourcentage d’hostilité au gouvernement n’a été atteint qu’une fois, lors de la crise de la cessation temporaire d’activité du gouvernement (lock-out) à cause d’un différend avec le Congrès, de l’automne 2013. Une telle crise dessine à nouveau et va encore aggraver le sentiment du public, qui rejette ainsi aussi bien les démocrates que les républicains.

En même temps, Gallup relève les réponses terribles à une autre question, sur la corruption du gouvernement. 75% des personnes interrogées estiment que le gouvernement as a whole souffre d’une “corruption généralisée”, contre 55% des personnes interrogées en 2005 et 66% en 2009. Ce résultat explique le précédent et l’aggrave en le justifiant, en le légitimant. La conséquence logique a contrario, tirée par Eric Zuesse dans Off-Guardian.org le 25 septembre 2015, est évidemment que le gouvernement des États-Unis, Washington D.C. as a whole, a perdu toute légitimité. Combien de temps et comment peut-on survivre dans un tel état d’illégitimité mis en évidence par le système de la communication, dans un pays qui reste “techniquement”, du point de vue de la communication, sous un régime démocratique théorique très strict qui a besoin au moins de l’apparence comptable du soutien de la population ?

« A Gallup poll issued on September 25 is headlined “Majority in U.S. Maintain Need for Third Major Party,” and it opens: “A majority of Americans, 60%, say a third major political party is needed because the Republican and Democratic parties ‘do such a poor job’ of representing the American people.” When Gallup started polling on this matter in 2003, only 40% wanted a different major party from the two existing major parties. The only other time when as high as 60% wanted a new major party was in October 2013, when the government shut down — something that now threatens to repeat. No other period had a percentage this high. [...] The way the question has been phrased is: “In your view, do the Republican and Democratic parties do an adequate job of representing the American people, or do they do such a poor job that a third major party is needed?” [...]

» When this polling started in 2003, it was not yet clear to most Americans that President George W. Bush’s repeated statements that he had seen conclusive proof that Saddam Hussein was stockpiling weapons of mass destruction (WMD) were mere lies; it was not yet clear that Bush had not actually seen any  such proof as he claimed existed; but, gradually the American public came to recognize that their government had, in fact, lied them into invading a country which actually posed no national security threat to the United States; and, so, gradually, this 40% rose to 48% in 2006, and then to 58% in 2007, as the realization that their government had lied finally sank in, gradually, among the American electorate. [...]

» Another Gallup poll, issued on September 19th, was headlined “75% in U.S. See Widespread Government Corruption.” 75% answered “Yes” to: “Is corruption widespread throughout the government in this country?” This could offer yet another explanation as to why 60% of Americans answer no to the question of “do the Republican and Democratic parties do an adequate job of representing the American people?” However, unlike the proposed Iraq War explanation, that one doesn’t possess any clear relationship to 2003. [...] Gallup provided no further details, except that, when Obama came into office, the percentage was 66%. So, a decade back, in 2005, the percentage was somewhere above 50%, and then it was 66% when Obama entered the White House in 2009, and it’s 75% today.

» The U.S. Government thus now faces a crisis of legitimacy. »

• Au Royaume-Uni, ce qui devrait être perçu nécessairement, même si indirectement, comme une crise de légitimité, est provoqué par l’arrivée de Jeremy Corbyn à la tête du parti travailliste. Le nouveau chef du parti travailliste introduit un discours nécessairement antiSystème même s’il est daté par certains côtés, parce qu’il se nourrit de certains arguments antiSystème extrêmement radicaux. (Corbyn est attaqué comme une sorte d’“antiquité trotskiste” pour mettre en évidence son côté désuet, mais ce qui compte c’est le discours antiSystème, pas du tout désuet celui-là, qu’il développe du fait de ses positions idéologiques.) Du coup, Corbyn est l’objet d’une guérilla interne très intense de la fraction-Système très puissante dans la direction du parti travailliste, et d’attaques d’une puissance inouïe de la communication du parti conservateur et de la presse-Système, considérés dans ce cas comme une fraction extérieure alliée à la fraction-Système interne des travaillistes. C’est là une situation opérationnelle difficile pour Corbyn, mais qui, d’un point de vue général, mesure le degré de panique haineuse du Système dans le chef de ces réactions extrêmes jusqu’à être autodestructrices du Système (rien pour nous étonner là-dedans...). Cette attitude, telle qu’on la perçoit aisément, porte un risque considérable de délégitimation du pouvoir-Système britannique, là aussi as a whole, – expression anglaise si bien appropriée. C’est donc, avec ce qu’on a vu de Washington D.C., tout le “modèle de gouvernance” anglo-saxon qui est en cause. (On pourrait même dire que c’est tout le système de l’“anglosphère” qui est en cause, si l’on ajoute des remous non négligeables qui affectent les gouvernements australien et canadien dans leurs propres pays.)

Toutes les attaques contre Corbyn sont justifiées du point de vue du Système et effectivement appuyées sur une ligne-Système considérée par les tenants du Système comme dominante et plus ou moins acceptée par le public ; cette affirmation peut être admise avec réticence par les plus optimistes (par rapport à la puissance du Système), et doit être largement mise en doute par les réalistes au regard des extraordinaires avatars auxquels se heurte le Système ces dernières années, et de plus en plus ces derniers mois sinon ces dernières semaines. Ainsi, mettre en évidence que Corbyn est viscéralement eurosceptique, comme le font également ses détracteurs, pourrait paraître un bon argument en fonction du prochain (2016) référendum sur l’appartenance de UK à l’UE, à cause de l’opinion majoritaire dans le pays ; mais voilà qu’il perd chaque jour de sa force à mesure que l’opinion jusqu’ici favorable à l’UE change très vite pour aller vers la majorité contraire à cause de la crise des migrants-réfugiés où l’on voit l’UE imposer des quotas d’accueil des personnes déplacées aux États-membres, alors que la cause est aujourd’hui très impopulaire en Angleterre. (Les circonstances se mélangent sans cohérence : Corbyn est eurosceptique mais favorable à l'accueil de réfugiés, l'opinion était plutôt pro-UE mais, à cause des quotas de réfugiés, devient anti-UE. Qu'importe s'il y a un effet général antiSystème...)

 

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La dernière attaque en date contre Corbyn porte sur ses opinions qu’il exprima in illo tempore sur la manipulation qu’on a faite du 11-septembre, sur l’exploitation que les gouvernements anglo-saxons firent de cette attaque pour justifier et déclencher notamment l’attaque contre l’Afghanistan, et donc, dans cette logique, implicitement sur l’enchaînement des diverses guerres, agressions, ingérences, introductions de désordre, etc., qui se sont développées depuis avec les résultats qu’on sait. C’est le Daily Telegraph qui a ressorti ces interventions passées de Corbyn. On reprend ici un compte-rendu de I24.News, qui donne en français un rapport acceptable en nous épargnant les anathèmes d’usage de ces deux aspects (passé de Corbyn, guérilla anti-Corbyn au sein du parti travailliste)

« Le nouveau chef du parti travailliste britannique Jeremy Corbyn, aurait écrit en 2003 que les attaques du 11 septembre 2001 aux Etats-Unis avaient été “manipulées” pour encadrer Oussama Ben Laden et son organisation al-Qaïda ”en vue de faciliter une invasion de l'Afghanistan par l'Occident”, rapporte le journal Telegraph, Selon le quotidien britannique, Corbyn, qui a été élu chef du Labour il y a deux semaines a écrit, en 2003, un article pour le journal socialiste ‘Morning Star’ dans lequel il affirmait que “les historiens étudieront avec intérêt la manipulation de l'information au cours des 18 derniers mois”.

» Le Telegraph a ainsi publié quelques extraits de l'article de Corbyn : “Après le 11 septembre, les allégations selon lesquelles Ben Laden et Al-Qaida étaient les auteurs de cet atrocité ont été diffusées rapidement et avec fracas”. “Cela s'est transformé en une attaque contre les talibans et ensuite, subtilement, il y a eu un changement de régime en Afghanistan.” [...]

» Par ailleurs, le parti travailliste britannique aborde son congrès annuel plus divisé que jamais après l'élection à sa tête de Jeremy Corbyn, dont les positions très à gauche alimentent un climat de guérilla au sein du Labour. Réuni à Brighton, station balnéaire du sud de l'Angleterre, à partir de dimanche, le parti a quatre jours pour se mettre en ordre de bataille. Et la tâche ne s'annonce pas simple pour son leader, tenu de faire un grand écart entre les militants radicaux qui ont voté pour lui et les députés du parti aux positions plus centristes. Jeudi encore, Kim Howells, un des anciens secrétaires d'Etat de Tony Blair, a prévenu qu'ils étaient plusieurs à se préparer à une “guerre civile” pour ne pas laisser “une bande de vieux trotskistes prendre le pouvoir”.

» Leur détermination est renforcée par les débuts balbutiants de Jeremy Corbyn, empêtré dès les premiers jours dans plusieurs polémiques, comme lorsqu'il a refusé de chanter l'hymne national lors d'une cérémonie de commémoration. Autre dossier brûlant: la position du Labour vis-à-vis du référendum à venir sur le maintien du Royaume-Uni dans l'Union européenne. Ces dernières années, le parti a été viscéralement pro-européen. Mais Corbyn est un eurosceptique historique qui avait voté pour la rupture au référendum de 1975, afin de dénoncer le libre-marché. »

Il faut traiter conjointement ces deux aspects (USA et UK), même si les tenants et les aboutissants sont différents. Dans les deux cas, et sans trop s’attarder au sort de l’un ou l’autre des trouble-fêtes (une nouvelle orientation du parti républicain, le rôle déstructurant dans le parti républicain de Donald Trump, la position et la politique de Corbyn, le sort du parti travailliste, etc.), il s’agit d’un affaiblissement dramatique sinon vertigineux de la structure du pouvoir, de la gouvernance dans les puissances anglo-saxonnes. L’affaire est couronnée, activée, accélérée, par une désaffection terrible du public, qui se traduit désormais en une dynamique de délégitimation accélérée et non plus en manifestations de contestation et de mécontentement. Il y a une dynamique autodestructrice en cours dans les pouvoirs anglo-saxon, et les rumeurs diffamatoires lancées contre un Corbyn ou l’éventuelle radicalisation jusqu’à une fracture interne du parti républicain US ne profitent à aucune fraction en particulier parce que son principal effet est la poursuite de la dévastation du pouvoir anglo-saxon dans sa spécificité de Système bipartite où les deux partis forment les deux ailes du parti unique. Et le fait est qu’il n’y a rien pour remplacer cela...

 

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... Et le fait est que cela est logique. Ce que nous décrivons ici et là est constitué de diverses dynamiques antiSystème, – quelle que soient les vertus de ces choses/de ces acteurs, et même s’il n’y a aucune vertu  qu’importe. L’effet antiSystème est parfaitement observable et identifiable, mais on doit le prendre pour ce qu’il est et ne pas le parer, lui, de vertus qu’il n’a pas et qu’il ne peut avoir puisque son action n’existe qu’en référence à l’existence du Système et que la destruction du Système conditionne tout. En aucun cas ne sont en train de s’esquisser, encore moins de se construire, des alternatives viables ; mais d’abord une seule chose : dans tous les cas se manifestent des effets destructeurs dont pâtit le Système, et c’est la seule chose qui importe parce que c’est la seule chose possible dans l’état actuel des choses. Rien ne peut être fait, rien ne peut être construit, tant que le système n’est pas détruit. C’est là une logique implacable qui repose sur des facteurs irrémédiables et irréversibles. En un mot, nous ne pouvons concevoir un après-Système tant que le Système n’est pas complètement détruit ; nous ne pouvons concevoir que de l’anti-Système pour participer à l’accélération de son autodestruction, – et c’est effectivement ce qui se passe, et à quelle vitesse.

Société civile – Entre chaos, désobéissance et prise du pouvoir

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Société civile – Entre chaos, désobéissance et prise du pouvoir

Michel Garroté
Politologue, blogueur

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Les cinquante dernières années ont vu la victoire anti-culturelle, amorale et politicarde du courant initié dès le début des années 1960, puis, plus encore, par cette fumisterie que l’on nomme Mai 68. La civilisation française a progressivement perdu toute colonne vertébrale. A gauche comme à droite, la langue française est massacrée tous les jours par la caste politico-médiatique confortablement installée. L’individualisme prime sur les valeurs et sur le bon sens. Le concept de République est aujourd’hui vide et creux. La laïcité est devenue allahïcité. La culture classique -- à la fois judéo-chrétienne et gréco-latine -- est interdite de séjour sur son propre territoire.

L’immigration-invasion est majoritairement musulmane, pour ne pas dire islamique. L’islamo-gauchisme, c’est très « tendance » ; et oser écrire, cela est très incorrect. Une personne ouvertement de droite est aussitôt qualifiée « d’extrémiste de droite », de « frontiste » ou de « lepéniste ». Le travail des idées a été remplacé par de pseudo-débats aussi médiocres que sectaires. Dans cette ambiance, la société civile aura bientôt le choix entre le chaos, la désobéissance ou la prise du pouvoir.

Parler la langue de Mitterrand comme une lourde vache batave

Le chroniqueur catholique de droite Bernard Antony a récemment écrit (extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page) : Je suis resté hier devant mon poste un peu plus longtemps que d’ordinaire, je me suis promené dans les chaînes : à deux ou trois reprises, çà et là, l’indigent spectacle de François Hollande proférant d’ineptes assertions sur le bombardement du camp d’entraînement à Deir ez-Zor pour les jihadistes qui, paraît-il, ont besoin d’aller là-bas, si loin, pour apprendre à tirer à la kalach, à dégoupiller une grenade ou à placer une charge. Toutes choses pourtant que n’importe quel caïd de Marseille se ferait une joie de leur enseigner juste pour le plaisir du service rendu.

Bernard Antony : Mais le pire, ce n’est pas qu’il prend les Français pour des billes, c’est qu’il parle la langue de Mitterrand comme une lourde vache batave avec des mots impropres, des pronoms relatifs inappropriés, et des accords du participe massacrés. Cela ne manque pas de provoquer les quolibets des orateurs africains qui tous, je l’ai vérifié jadis dans les rencontres du Parlement Européen, se font un point d’honneur de s’exprimer parfaitement dans la langue de Bossuet, conclut Bernard Antony (fin des extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page).

Refaire des tissus, refaire des paysans, des esprits indépendants

Dans son dernier livre, Philippe de Villiers écrit (extraits ; voir lien vers source en bas de page) : Un jour, on retrouvera les étymologies : la patrie, la terre des pères, renvoie à la paternité. La nation – natio : naissance – renvoie à la maternité. On a voulu fabriquer une société de frères sans père ni mère. Il faudra bien reconnaître, face à la guerre contre la famille et contre la famille des familles – la communauté nationale –, l’objection de conscience, le refus de l’impôt quand on ne voudra plus payer de sa vie la mort des autres. Les premiers objecteurs iront en prison. Puis les murs de la prison tomberont, on ne peut pas emprisonner tout un peuple.

Philippe de Villiers : Car ceux qui luttent contre la vie et brisent les attachements vitaux ont choisi de ne pas survivre. Ils feront place nette. Ils n’auront pas de successeurs. Les derniers survivants seront les enfants des cercles de survie, les évadés de l’ordre marchand. Heureusement, dans un vieux pays, rien n’est irréversible. Il y a comme une mémoire quasi minérale du sol natal : le déracinement déracine tout, sauf le besoin d’enracinement. Nos âmes expirantes retrouveront un jour les sagesses instinctives. Il faudra refaire des tissus, refaire des paysans, des esprits indépendants, comme on replante des fleurs après l’hiver, conclut Philippe de Villiers (fin des extraits ; voir lien vers source en bas de page).

Une succession de trahisons et de reniements

De son côté, l’analyste Alexandre Latsa écrit (extraits ; voir lien vers source en bas de page) : Le 18 septembre dernier, un évènement assez inattendu s’est produit sur le plateau de l’émission "On n’est pas couché" (ndmg - il ne s’agit pas ici de la prestation récente de Nadine Morano). Pour la première fois sans doute depuis que le tandem de débat qui anime les discussions avec les invités existe, ces derniers ont été remis à leur place par un authentique intellectuel dont on ne peut que saluer l'honnêteté et la rigueur intellectuelle qui a été la sienne au cours de cet échange et qui, il faut bien le dire, aura laissé le binôme totalement KO, comme on peut le voir ici et.

Alexandre Latsa : Cet échange sur le plateau d'une émission du service public aura permis une nouvelle fois de constater le fossé qui existe au sein de tendances politiques pourtant plutôt similaires au sens large, entre les exécutants du système médiatique et le dernier noyau d'authentiques intellectuels français dont sans aucune hésitation, Michel Onfray fait partie tout comme par exemple Éric Zemmour. L'air totalement sonné, hagard même diront certains, de Léa Salamé ou Yann Moix sur le plateau le 18 septembre, ne peut pas ne pas nous rappeler la puissance lourde des démonstrations zemmouriennes qui mainte fois laissèrent les invités KO. Des états de fait traduisant l'écart cosmique de niveau entre Michel et Éric, et ceux qui sont censés analyser et évaluer leurs réflexions et leur production intellectuelle.

 

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Alexandre Latsa : De gauche et de droite, Michel et Éric sont pourtant équipés d'un logiciel de fonctionnement commun, logiciel les rapprochant sans doute en réalité beaucoup plus que ne les éloignent leurs pourtant réelles différences d'orientation politique.

Alexandre Latsa : Parmi ces points communs de fond et de forme on peut citer :

Une authentique maîtrise du verbe.

Une rhétorique axée sur la stratégie de vérité et l'analyse des faits.

Une pensée authentiquement cartésienne et donc française.

Une conscience nationale et/ou populaire affirmée.

La profonde remise en question des élites politiques ou médiatiques.

Le refus de cette insupportable menace permanente d'assimilation au Front national.

La tentative de compréhension des éléments visiblement sur une longue durée historique.

Et enfin, la tentative de résister à cette nouvelle dictature qu'est devenue l'information de l'instantané, qui favorise l'émotion au détriment de la réflexion.

Alexandre Latsa : A gauche, cette rupture est plus visible qu'à droite tant les 30 dernières années ont vu la totale victoire culturelle, morale et politique de la culture initiée par mai 68, une prise de pouvoir qui s'est affirmée au cours des années 1980. Une nouvelle gauche née sur les cendres du parti communiste et qui au cours des décennies suivantes s'est transformée en une nébuleuse sociale-démocrate sans idéologie et dont les principaux représentants n'ont plus que pour compétence leur aptitude à subsister au sein de la grande kermesse médiatique, cet espace oligarchique transnational au sein duquel, fondamentalement, le peuple n'existe pas, pas plus du reste que n'y existe la nation française.

Alexandre Latsa : A ce titre et pour se convaincre de la dépendance des premiers envers les seconds, une lecture attentive des excellents dossiers de l'Observatoire des Journalistes et de l'information permet de mieux comprendre ces nouvelles interactions. Les dynamiques qui ont pris naissance en amont de mai 68 et ont abouti à ce Maïdan français avaient pour corolaire historique naturel d'entraîner la disparition totale de l'ancienne gauche, que l'on peut qualifier de plutôt nationale, populaire et cohérente. Une disparition rendue nécessaire pour permettre la prise de pouvoir de cette Nouvelle Gauche qui, sous couvert d'aspirations sociétales fort séduisantes et d'une soi-disant sacro-sainte liberté individuelle, avait surtout pour raison et finalité historique de s'accorder avec l'hyper économisme dominateur et transnational.

Alexandre Latsa : L'histoire politique de notre pays de 1981 à 2015 n'aura finalement été qu'une succession de trahisons et de reniements opérés par les enfants de mai 68, ces libertaires capitalistes qui ont soutenu les processus économiques destructeurs (pour le petit peuple) et parfois antidémocratiques de la construction européenne, que l'on pense respectivement à l'instauration de l'espace Schengen en 1995 ou au référendum de 2005 sur la Constitution européenne. Nul doute que pour cette caste, l'entrée en vigueur du traité transatlantique soutenu par tous les socialistes européens sera vraisemblablement un soulagement mais aussi et surtout, au fond, un aboutissement.

Alexandre Latsa : De nombreux points communs avec notre classe politique, qui a au cours des quatre dernières décennies évolué de telle façon que notre président est devenu une sorte de VRP, et notre Assemblée nationale, chambre d'enregistrement des décisions américaines. Un comble alors que la France, en tant qu'Etat indépendant, devrait avoir à sa tête un président qui ne pense qu'aux intérêts supérieurs de la nation et une Assemblée qui valide les grandes directions insufflées par le chef de l'Etat.

Alexandre Latsa : Pourtant, ici et là, de nouvelles dynamiques apparaissent. Les Français sont visiblement de plus en plus nombreux à mesurer l'incompétence de leur classe politique et à comprendre que la solution ne viendra pas d'en haut mais d'en bas, du peuple. Nombreux sont ceux qui envisagent désormais de nouvelles figures politiques issues pourquoi pas de la société civile. De tels scénarios ont du reste déjà été envisagés, que ce soit avec Michel Onfray et Éric Zemmour. L'avenir pourrait-il voir l'émergence d'un gouvernement d'union nationale issu de la société civile ?, conclut Alexandre Latsa (fin des extraits ; voir lien vers source en bas de page).

Michel Garroté

http://www.bernard-antony.com/2015/09/devant-mon-poste.html

http://lesalonbeige.blogs.com/my_weblog/2015/09/de-la-d%C3%A9sob%C3%A9issance-civile-%C3%A0-lesp%C3%A9rance-selon-philippe-de-villiers.html

http://fr.sputniknews.com/points_de_vue/20150928/1018441210.html#ixzz3n8iJtIzf

   

Dossier Rebatet

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Lucien Rebatet est l'auteur d'un livre maudit qui fut le best-seller de l'Occupation : Les Décombres, livre qui lui a valu, entre autres raisons, d'être condamné à mort en 1946 avant qu'il voie sa peine commuée en détention à perpétuité. Ce texte est réédité dans son intégralité pour la première fois depuis 1942, après avoir reparu dans les années 1970 amputé de ses chapitres les plus délirants, notamment celui intitulé “ Le ghetto ”.

Pour la première fois aussi, alors que l'ouvrage est en libre accès sur le Net, il est accompagné d'un appareil critique conséquent, qui permet de le lire en connaissance de cause, de le resituer dans le climat de l'époque, avec ses outrances, ses haines et ses préjugés dont Rebatet fut l'un des plus véhéments porte-parole. Annoté par l'une des meilleures spécialistes de l'Occupation, Bénédicte Vergez-Chaignon, ce livre, empreint d'un antisémitisme viscéral et obsessionnel, apparaît aujourd'hui comme un document historique édifiant sur l'état d'esprit, les phobies et les dérives de toute une génération d'intellectuels se réclamant du fascisme.

L'auteur n'étant pas dénué de talent d'écriture, comme l'ont prouvé ses romans, notamment Les Deux Étendards, publiés par la NRF, et son Histoire de la musique, qui figure au catalogue “ Bouquins ”, Les Décombres constituent également une œuvre littéraire à part entière, reconnue comme telle, y compris par ses détracteurs les plus résolus. Ce Dossier ne manquera pas de susciter réactions et commentaires quant à l'opportunité de sa publication. Pascal Ory, qui a soutenu dès l'origine l'idée d'une réédition intégrale, mais encadrée et commentée, fournit dans une préface très éclairante les explications qui la justifient aujourd'hui.


À paraître le 15 octobre 2015.   

Source: http://zentropa.info

The Power of False Narrative

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The Power of False Narrative

Exclusive: “Strategic communications” or Stratcom, a propaganda/psy-op technique that treats information as a “soft power” weapon to wield against adversaries, is a new catch phrase in an Official Washington obsessed with the clout that comes from spinning false narratives, reports Robert Parry.

By Robert Parry

In this age of pervasive media, the primary method of social control is through the creation of narratives delivered to the public through newspapers, TV, radio, computers, cell phones and any other gadget that can convey information. This reality has given rise to an obsession among the power elite to control as much of this messaging as possible.

So, regarding U.S. relations toward the world, we see the State Department, the White House, Pentagon, NATO and other agencies pushing various narratives to sell the American people and other populations on how they should view U.S. policies, rivals and allies. The current hot phrase for this practice is “strategic communications” or Stratcom, which blends psychological operations, propaganda and P.R. into one mind-bending smoothie.

I have been following this process since the early 1980s when the Reagan administration sought to override “the Vietnam Syndrome,” a public aversion to foreign military interventions that followed the Vietnam War. To get Americans to “kick” this syndrome, Reagan’s team developed “themes” about overseas events that would push American “hot buttons.”

Tapping into the Central Intelligence Agency’s experience in psy-ops targeted at foreign audiences, President Ronald Reagan and CIA Director William J. Casey assembled a skilled team inside the White House led by CIA propaganda specialist Walter Raymond Jr.

From his new perch on the National Security Council staff, Raymond oversaw inter-agency task forces to sell interventionist policies in Central America and other trouble spots. The game, as Raymond explained it in numerous memos to his underlings, was to glue black hats on adversaries and white hats on allies, whatever the truth really was.

The fact that many of the U.S.-backed forces – from the Nicaraguan Contras to the Guatemalan military – were little more than corrupt death squads couldn’t be true, at least according to psy-ops doctrine. They had to be presented to the American public as wearing white hats. Thus, the Contras became the “moral equals of our Founding Fathers” and Guatemala’s murderous leader Efrain Rios Montt was getting a “bum rap” on human rights, according to the words scripted for President Reagan.

The scheme also required that anyone – say, a journalist, a human rights activist or a congressional investigator – who contradicted this white-hat mandate must be discredited, marginalized or destroyed, a routine of killing any honest messenger.

But it turned out that the most effective part of this propaganda strategy was to glue black hats on adversaries. Since nearly all foreign leaders have serious flaws, it proved much easier to demonize them – and work the American people into war frenzies – than it was to persuade the public that Washington’s favored foreign leaders were actually paragons of virtue.

An Unflattering Hat

Once the black hat was jammed on a foreign leader’s head, you could say whatever you wanted about him and disparage any American who questioned the extreme depiction as a “fill-in-the-blank apologist” or a “stooge” or some other ugly identifier that would either silence the dissenter or place him or her outside the bounds of acceptable debate.

Given the careerist conformity of Washington, nearly everyone fell into line, including news outlets and human rights groups. If you wanted to retain your “respectability” and “influence,” you agreed with the conventional wisdom. So, with every foreign controversy, we got a new “group think” about the new “enemy.” The permissible boundary of each debate was set mostly by the neoconservatives and their “liberal interventionist” sidekicks.

That this conformity has not served American national interests is obvious. Take, for example, the disastrous Iraq War, which has cost the U.S. taxpayers an estimated $1 trillion, led to the deaths of some 4,500 American soldiers, killed hundreds of thousands of Iraqis, and unleashed chaos across the strategic Middle East and now into Europe.

Most Americans now agree that the Iraq War “wasn’t worth it.” But it turns out that Official Washington’s catastrophic “group thinks” don’t just die well-deserved deaths. Like a mutating virus, they alter shape as the outside conditions change and survive in a new form.

So, when the public caught on to the Iraq War deceptions, the neocon/liberal-hawk pundits just came up with a new theme to justify their catastrophic Iraq strategy, i.e., “the successful surge,” the dispatch of 30,000 more U.S. troops to the war zone. This theme was as bogus as the WMD lies but the upbeat storyline was embraced as the new “group think” in 2007-2008.

The “successful surge” was a myth, in part, because many of its alleged “accomplishments” actually predated the “surge.” The program to pay off Sunnis to stop shooting at Americans and the killing of “Al Qaeda in Iraq” leader Abu Musab al-Zarqawi both occurred in 2006, before the surge even began. And its principal goal of resolving sectarian grievances between Sunni and Shiite was never accomplished.

But Official Washington wrapped the “surge” in the bloody flag of “honoring the troops,” who were credited with eventually reducing the level of Iraqi violence by carrying out the “heroic” surge strategy as ordered by President Bush and devised by the neocons. Anyone who noted the holes in this story was dismissed as disrespecting “the troops.”

The cruel irony was that the neocon pundits, who had promoted the Iraq War and then covered their failure by hailing the “surge,” had little or no regard for “the troops” who mostly came for lower socio-economic classes and were largely abstractions to the well-dressed, well-schooled and well-paid talking heads who populate the think tanks and op-ed pages.

Safely ensconced behind the “successful surge” myth, the Iraq War devotees largely escaped any accountability for the chaos and bloodshed they helped cause. Thus, the same “smart people” were in place for the Obama presidency and just as ready to buy into new interventionist “group thinks” – gluing black hats on old and new adversaries, such as Libya’s Muammar Gaddafi, Syria’s Bashar al-Assad and, most significantly, Russia’s Vladimir Putin.

Causing Chaos

In 2011, led this time by the liberal interventionists – the likes of Secretary of State Hillary Clinton and White House aide Samantha Power – the U.S. military and some NATO allies took aim at Libya, scoffing at Gaddafi’s claim that his country was threatened by Islamic terrorists. It was not until Gaddafi’s military was destroyed by Western airstrikes (and he was tortured and murdered) that it became clear that he wasn’t entirely wrong about the Islamic extremists.

The jihadists seized large swaths of Libyan territory, killed the U.S. ambassador and three other diplomatic personnel in Benghazi, and forced the closing of U.S. and other Western embassies in Tripoli. For good measure, Islamic State terrorists forced captured Coptic Christians to kneel on a Libyan beach before beheading them.

Amid this state of anarchy, Libya has been the source of hundreds of thousands of migrants trying to reach Europe by boat. Thousands have drowned in the Mediterranean. But, again, the leading U.S. interventionists faced no accountability. Clinton is the frontrunner for the Democratic presidential nomination, and Power is now U.S. Ambassador to the United Nations.

Also, in 2011, a similar uprising occurred in Syria against the secular regime headed by President Assad, with nearly identical one-sided reporting about the “white-hatted” opposition and the “black-hatted” government. Though many protesters indeed appear to have been well-meaning opponents of Assad, Sunni terrorists penetrated the opposition from the beginning.

This gray reality was almost completely ignored in the Western press, which almost universally denounced the government when it retaliated against opposition forces for killing police and soldiers. The West depicted the government response as unprovoked attacks on “peaceful protesters.” [See Consortiumnews.com’s “Hidden Origins of Syria’s Civil War.”]

This one-sided narrative nearly brought the U.S. military to the point of another intervention after Aug. 21, 2013, when a mysterious sarin gas attack killed hundreds in a suburb of Damascus. Official Washington’s neocons and the pro-interventionists in the State Department immediately blamed Assad’s forces for the atrocity and demanded a bombing campaign.

But some U.S. intelligence analysts suspected a “false-flag” provocation by Islamic terrorists seeking to get the U.S. air force to destroy Assad’s army for them. At the last minute, President Obama steered away from that cliff and – with the help of President Putin – got Assad to surrender Syria’s chemical arsenal, while Assad continued to deny a role in the sarin attack. [See Consortiumnews.com’s “The Collapsing Syria-Sarin Case.”]

 

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Upset over Iran

Putin also assisted Obama on another front with another demonized “enemy,” Iran. In late 2013, the two leaders collaborated in getting Iran to make significant concessions on its nuclear program, clearing the way for negotiations that eventually led to stringent international controls.

These two diplomatic initiatives alarmed the neocons and their right-wing Israeli friends. Since the mid-1990s, the neocons had worked closely with Prime Minister Benjamin Netanyahu in plotting a “regime change” strategy for countries that were viewed as troublesome to Israel, with Iraq, Syria and Iran topping the list.

Putin’s interference with that agenda – by preventing U.S. bombing campaigns against Syria and Iran – was viewed as a threat to this longstanding Israeli/neocon strategy. There was also fear that the Obama-Putin teamwork could lead to renewed pressure on Israel to recognize a Palestinian state. So, that relationship had to be blown up.

The detonation occurred in early 2014 when a neocon-orchestrated coup overthrew elected Ukrainian President Viktor Yanukovych and replaced him with a fiercely anti-Russian regime which included neo-Nazi and other ultra-nationalist elements as well as free-market extremists.

Ukraine had been on the neocon radar at least since September 2013, just after Putin undercut plans for bombing Syria. Neocon Carl Gershman, president of the U.S.-government-funded National Endowment for Democracy, wrote a Washington Post op-ed deeming Ukraine “the biggest prize” and a key steppingstone toward another regime change in Moscow, removing the troublesome Putin.

Gershman’s op-ed was followed by prominent neocons, such as Sen. John McCain and Assistant Secretary of State for European Affairs Victoria Nuland, urging on violent protests that involved firebombing the police. But the State Department and the mainstream media glued white hats on the Maidan protesters and black hats on the police and the government.

Then, on Feb. 20, 2014, a mysterious sniper attack killed both police and demonstrators, leading to more clashes and the deaths of scores of people. The U.S. government and press corps blamed Yanukovych and – despite his signing an agreement for early elections on Feb. 21 – the Maidan “self-defense forces,” spearheaded by neo-Nazi goons, overran government buildings on Feb. 22 and installed a coup regime, quickly recognized by the State Department as “legitimate.”

Though the fault for the Feb. 20 sniper attack was never resolved – the new Ukrainian regime showed little interest in getting to the bottom of it – other independent investigations pointed toward a provocation by right-wing gunmen who targeted police and protesters with the goal of deepening the crisis and blaming Yanukovych, which is exactly what happened.

These field reports, including one from the BBC, indicated that the snipers likely were associated with the Maidan uprising, not the Yanukovych government. [Another worthwhile documentary on this mystery is “Maidan Massacre.”]

One-Sided Reporting

Yet, during the Ukrainian coup, The New York Times and most other mainstream media outlets played a role similar to what they had done prior to the Iraq War when they hyped false and misleading stories about WMD. By 2014, the U.S. press corps no longer seemed to even pause before undertaking its expected propaganda role.

So, after Yanukovych’s ouster, when ethnic Russians in Crimea and eastern Ukraine rose up against the new anti-Russian order in Kiev, the only acceptable frame for the U.S. media was to blame the resistance on Putin. It must be “Russian aggression” or a “Russian invasion.”

When a referendum in Crimea overwhelmingly favored secession from Ukraine and rejoining Russia, the U.S. media denounced the 96 percent vote as a “sham” imposed by Russian guns. Similarly, resistance in eastern Ukraine could not have reflected popular sentiment unless it came from mass delusions induced by “Russian propaganda.”

Meanwhile, evidence of a U.S.-backed coup, such as the intercepted phone call of a pre-coup discussion between Assistant Secretary Nuland and U.S. Ambassador Geoffrey Pyatt on how “to midwife this thing” and who to install in the new government (“Yats is the guy”), disappeared into the memory hole, not helpful for the desired narrative. [See Consortiumnews.com’s “NYT Still Pretends No Coup in Ukraine.”]

When Malaysia Airlines Flight 17 was shot down over eastern Ukraine on July 17, 2014, the blame machine immediately roared into gear again, accusing Putin and the ethnic Russian rebels. But some U.S. intelligence analysts reportedly saw the evidence going in a different direction, implicating a rogue element of the Ukrainian regime.

Again, the mainstream media showed little skepticism toward the official story blaming Putin, even though the U.S. government and other Western nations refused to make public any hard evidence supporting the Putin-did-it case, even now more than a year later. [See Consortiumnews.com’s “MH-17 Mystery: A New Tonkin Gulf Case.”]

The pattern that we have seen over and over is that once a propaganda point is scored against one of the neocon/liberal-hawk “enemies,” the failure to actually prove the allegation is not seen as suspicious, at least not inside the mainstream media, which usually just repeats the old narrative again and again, whether its casting blame on Putin for MH-17, or on Yanukovych for the sniper attack, or on Assad for the sarin gas attack.

Instead of skepticism, it’s always the same sort of “group think,” with nothing learned from the disaster of the Iraq War because there was virtually no accountability for those responsible.

Obama’s Repression

Yet, while the U.S. press corps deserves a great deal of blame for this failure to investigate important controversies independently, President Obama and his administration have been the driving force in this manipulation of public opinion over the past six-plus years. Instead of the transparent government that Obama promised, he has run one of the most opaque, if not the most secretive, administrations in American history.

430190069_obama_lies_answer_1_xlarge.jpegBesides refusing to release the U.S. government’s evidence on pivotal events in these international crises, Obama has prosecuted more national security whistleblowers than all past presidents combined.

That repression, including a 35-year prison term for Pvt. Bradley/Chelsea Manning and the forced exile of indicted National Security Agency contractor Edward Snowden, has intimidated current intelligence analysts who know about the manipulation of public opinion but don’t dare tell the truth to reporters for fear of imprisonment.

Most of the “leaked” information that you still see in the mainstream media is what’s approved by Obama or his top aides to serve their interests. In other words, the “leaks” are part of the propaganda, made to seem more trustworthy because they’re coming from an unidentified “source” rather than a named government spokesman.

At this late stage in Obama’s presidency, his administration seems drunk on the power of “perception management” with the new hot phrase, “strategic communications” which boils psychological operations, propaganda and P.R. into one intoxicating brew.

From NATO’s Gen. Philip Breedlove to the State Department’s Under Secretary for Public Diplomacy Richard Stengel, the manipulation of information is viewed as a potent “soft power” weapon. It’s a way to isolate and damage an “enemy,” especially Russia and Putin.

This demonization of Putin makes cooperation between him and Obama difficult, such as Russia’s recent military buildup in Syria as part of a commitment to prevent a victory by the Islamic State and Al Qaeda. Though one might think that Russian help in fighting terrorism would be welcomed, Nuland’s State Department office responded with a bizarre and futile attempt to build an aerial blockade of Russian aid flying to Syria across eastern Europe.

Nuland and other neocons apparently would prefer having the black flag of Sunni terrorism flying over Damascus than to work with Putin to block such a catastrophe. The hysteria over Russia’s assistance in Syria is a textbook example of how people can begin believing their own propaganda and letting it dictate misguided actions.

On Thursday, Obama’s White House sank to a new low by having Press Secretary Josh Earnest depict Putin as “desperate” to land a meeting with Obama. Earnest then demeaned Putin’s appearance during an earlier sit-down session with Netanyahu in Moscow. “President Putin was striking a now-familiar pose of less-than-perfect posture and unbuttoned jacket and, you know, knees spread far apart to convey a particular image,’ Earnest said.

But the meeting photos actually showed both men with their suit coats open and both sitting with their legs apart at least for part of the time. Responding to Earnest’s insults, the Russians denied that Putin was “desperate” for a meeting with Obama and added that the Obama administration had proposed the meeting to coincide with Putin’s appearance at the United Nations General Assembly in New York on Monday.

“We do not refuse contacts that are proposed,” said Yuri Ushakov, a top foreign policy adviser to Putin. “We support maintaining constant dialogue at the highest level.” The Kremlin also included no insults about Obama’s appearance in the statement.

However, inside Official Washington, there appears to be little thought that the endless spinning, lying and ridiculing might dangerously corrode American democracy and erode any remaining trust the world’s public has in the word of the U.S. government. Instead, there seems to be great confidence that skilled propagandists can discredit anyone who dares note that the naked empire has wrapped itself in the sheerest of see-through deceptions.

Investigative reporter Robert Parry broke many of the Iran-Contra stories for The Associated Press and Newsweek in the 1980s. You can buy his latest book, America’s Stolen Narrative, either in print here or as an e-book (from Amazon and barnesandnoble.com). You also can order Robert Parry’s trilogy on the Bush Family and its connections to various right-wing operatives for only $34. The trilogy includes America’s Stolen Narrative. For details on this offer, click here.

jeudi, 01 octobre 2015

Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

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Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

 
In attesa della conferenza di sabato 3 Ottobre , presso la libreria di Raido, scopriamo la figura e il pensiero di Carlo Costamagna, tramite anche l’ausilio dell’ultimo  libro scritto da Rodolfo Sideri
L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna

a cura della Redazione

Ex: http://www.azionetradizionale.com

In un’epoca di “democrazia liquida”, di sovranità limitata e quant’altro, parlare del pensiero politico di Carlo Costamagna significa entrare a gamba tesa sulle categorie moderne del politico. Ed è proprio questo il merito di Carlo Costamagna: oggettivizzare in forma giuridica e politica quella “rivolta contro il mondo moderno” che rischia, altrimenti, di essere un’inattuabile visione del mondo.

E’ questo, perciò, il merito dell’ultimo libro di Rodolfo Sideri – “L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna”  che riscopre questo illustre sconosciuto del ‘900, e riporta alla luce pagine importantissime della sua troppo poco nota opera. Opera riedita in minima parte, ma comunque fondamentale e da conoscere.

Tutta l’opera di Costamagna parte da un quesito: avrebbe potuto, il Fascismo, sorto grazie agli irripetibile eventi della Prima Guerra Mondiale, superare le contingenze temporali che lo avevano informato per divenire dottrina a-temporale dello Stato? E’ per questo che Costamagna cerca di definire la “dottrina fascista dello Stato”. Infatti, non è di “scienza” bensì di “dottrina” che devesi parlare nei confronti dello Stato. Lo Stato non è mera organizzazione politica: è “ordine” che contiene la diseguaglianza intrinseca di chi lo compone. E’ “ordine” poichè fondato su di una visione superiore: non un contratto sociale, semmai, reciproca subordinazione ad una volontà superiore e formatrice.

“Fascismo” è per Costamagna perciò un movimento “restauratore” della vera Idea di Stato (e di Uomo). Per questo Costamagna si batte in seno al Fascismo cercando spazio e consenso alle sue idee. Idee radicali, forse troppo per un movimento rivoluzionario divenuto prima regime e poi, in alcuni casi, burocrazia statolatrica. Costamagna propugna idee che lo rendono antipatico a chi aveva fatto carriera col Fascismo: invoca la formazione di una élite che vada al comando, integralmente fascista; invoca la funzione temporanea dello stesso “duce”, subordinata all’affermazione del vero Stato, secondo il leitmotiv diffuso fra i fascisti più intrepidi: “Deve essere Mussolini a servire il Fascismo, e non il Fascismo servire Mussolini

Lo Stato è realtà a sè, non è un “fatto giuridico”. E’ realtà irriducibile. Ed in Costamagna la concezione dello Stato diventa tutt’uno con quella dell’uomo: perché a quell’uomo avente dimensione spirituale ed integrale non potrà che corrispondere uno stato analogo.

Costamagna afferma, di conseguenza, la superiorità dello Stato su tutto: nazione, popolo, diritto stesso. Lo Stato è autosufficiente, è principio generatore. Si oppone così alla visione contrattualistica che pone l’individuo, ed il razionalismo, a fondamento dello Stato. E’ la riaffermazione totale del principio virile ed aristocratico della politica. La grande politica, potremmo dire.

Costamagna si schiera contro l’illuminismo, il liberalismo ed il positivismo in genere. E va oltre. La sua acuta analisi lo porta a comprendere che è proprio nella frattura, già segnalata da Evola e Guenon, determinata dal razionalismo e poi proseguita con Umanesimo e Rinascimento, che stanno i motivi della decadenza attuale.

Le pagine di Costamagna sulla sovranità sono una anticipazione beffarda al triste destino delle nazioni europee post-1945. Il vero Stato o è sovrano o non è. E’ uno schiavo eunuco, lo stato senza vera sovranità.

La questione del “bene comune” invece – un vero e proprio mantra del liberalismo e dell’individualismo moderno – secondo Costamagna si può risolvere solo alla luce di un’esperienza e d’una visione spirituale. Dove, però, per bene comune si intende un bene “politico”, e non misurabile secondo i criteri edonistici della felicità o, peggio, quelli economicistici della ricchezza.

Non è questa la sede per affrontare la biografia politica di Costamagna, che meriterebbe dei capitoli a parte che neanche il libro di Sideri, nella sua economia complessiva, può affrontare se non di sfuggita. Molto ci sarebbe da dire in merito al capitolo del rapporto con Gentile ed Evola. Rispetto al primo, non possiamo che ribadire e sottoscrivere le posizioni di Costamagna contro quell’idealismo liberale di Gentile che nulla aveva a che realmente spartire con il Fascismo. Ricordiamo di sfuggita che solo per un limite del Fascismo, che non seppe o non volle essere coerente con le sue premesse rivoluzionarie, non si apportò nella cultura politica quella spinta radicale che invece uomini come Costamagna, ardentemente fascisti – della “prima ora”, a differenza di Gentile – invocavano a gran voce. Gentile dagli anni ‘30, cioè dopo il consolidamento istituzionale del Fascismo, non ebbe vita facile, bersagliato com’era dall’eterogeneo mondo degli anti-idealisti fascisti.

Quanto al rapporto con Evola, parlano abbastanza le collaborazioni alla rivista di Costamagna “Lo Stato”. Inoltre, un capitolo a parte, pressoché sconosciuto, meriterebbe il progetto che nel secondo dopoguerra avrebbe visto Evola, su incarico di Berlino, costituire delle “uova del drago” a Roma all’indomani della conquista alleata. A tale progetto Costamagna avrebbe partecipato attivamente ma, altro non è dato sapere.

Capitolo a parte, su cui si sofferma Sideri, è dedicato ai rapporti fra Costamagna e la Rivoluzione Conservatrice germanica (austriaca e tedesca), nei rapporti con Spann e Schmitt in particolare. L’economia dell’opera non ha consentito di approfondirli ma, pure, Sideri sottolinea alcuni aspetti di convergenza e di divergenza che ci fanno dire come Costamagna abbia superato (positivamente) alcuni limiti di entrambi i filoni. Anche sul grandissimo Carl Schmitt, Costamagna infatti segna il punto, soprattutto circa le differenti vedute in merito al cosiddetto Führerprinzip.

Non male per un illustre sconosciuto

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Rébellion: nouvelle radicalité

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Editorial : Pour une nouvelle radicalité !

Société : La vidéosurveillance - Argos Panoptès du monde moderne ( Marie Chancel)

Politique : Réflexion sur l'organisation de l'immigration de masse ( Patrick Visconti)

Ecologie : Entretien avec Nicolas Fabre sur le retour à la terre.

International : Entretien avec Dari Douguina du mouvement eurasiste.

Histoire : Déboulonnons le XVIII ème Siècle ( David l'Epée)

Cinéma : Le Cinéma français et sa critique, entre “chien-de-gardisme” et schizophrénie ( D. Colin)

Commande  4 euros (port compris) :

Rébellion c/o RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

Contact : rebellion_larevue@yahoo.fr

«De l’anti-héros au héros mauvais: apologie de l’individualisme et destruction du lien social dans les séries contemporaines»

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«De l’anti-héros au héros mauvais: apologie de l’individualisme et destruction du lien social dans les séries contemporaines»

 
Ex: http://www.arretsurinfo.ch

Attention spoilers : cet article contient des éléments-clés de Game of Thrones, jusqu’à la saison 4 incluse, et un tout petit spoil de Desperate Housewives (saison 8). D’autres séries sont évoquées mais aucun élément-clé n’est révélé.

NB : Cet article n’engage que moi. Il se fonde grandement sur mes propres sensibilité et subjectivité et s’apparente bien plus à un fil de réflexions personnelles (qui pourraient néanmoins en intéresser d’autres) qu’à une véritable étude systématique et scientifique.

Nos héros sont des estropiés bourrés de vices. Cela peut sembler caricatural, mais c’est pourtant bien ce qui se détache d’une analyse de nos séries contemporaines.

Dans un précédent article, j’ai évoqué le concept de héros. Traditionnellement, il est un personnage exemplaire, censé édifier le lecteur ou le spectateur, l’inspirer, lui présenter une conduite modèle. Il peut bien sûr avoir des défauts, des failles, mais il tend globalement à la vertu, accomplit des actions nobles. Ce concept n’a pas entièrement disparu, et l’on a des héros de ce type aujourd’hui (Harry Potter, pour n’en citer qu’un). Néanmoins, on a aussi de nombreuses séries qui présentent des héros cyniques, vicieux, mais malgré tout charismatiques (beaucoup plus que les personnages vertueux !) Qu’est-ce que cela veut dire ?

Un point tout à fait marquant est le fait que plusieurs héros souffrent d’un lourd handicap. On a par exemple Dr House et Tyrion Lannister. Ajoutons quelques précisions. House est bel et bien infirme : le muscle de sa cuisse a subi des dommages qui le gênent fortement dans ses déplacements et, surtout, engendrent une douleur difficilement tolérable, qui le rend accro aux médicaments. Tyrion Lannister est nain, ce qui n’est pas en soi un handicap, mais engendre, dans son cas, le mépris général, jusqu’à celui de sa propre famille. Tous deux ont pour point commun de compenser ce handicap (physique pour House, social pour Tyrion) par un maniement habile de la parole, ce qui les rend extrêmement brillants par rapport aux autres personnages. Tyrion explique d’ailleurs dès le début (saison 1, épisode 2) qu’il cultive son penchant intellectuel pour pallier sa petite taille et la déconsidération sociale qu’elle engendre (en des termes bien plus drôles, évidemment !). Paradoxalement, ces personnages en souffrance deviennent les plus charismatiques de la série, les plus attirants, même les plus séduisants. Et pourtant, ils sont bien loin de la vertu. House est un cynique misanthrope qui ne voit dans la médecine qu’un puzzle à résoudre et envisage la vie humaine bien plus comme un calcul arithmétique que comme une fin en soi. Il est vrai que cela donne lieu à des situations qui proposent parfois une réflexion éthique très intéressante, les autres personnages incarnant des visions différentes et soulevant des cas de conscience épineux ; mais House reste souvent celui qui a la réplique la plus cinglante, qui trouve toujours le bon mot, ce qui fait pencher implicitement la balance de son côté. Tyrion, lui, commence la série ivre et entouré de prostituées, et continue sur cette voie pendant un certain temps. Les repères se brouillent quand il rencontre Shae, ancienne prostituée, et semble trouver en elle une certaine rédemption. Le spectateur apprécie qu’il ne se jette pas sur la jeune Sansa qu’on lui a mariée de force (une attitude, il faut le dire, peu courante dans ce monde où le viol apparaît comme tout à fait anecdotique). Mais c’est pour mieux appréhender une nouvelle déchéance : il tue, presque d’un même coup, la femme qu’il aime et son propre père (acte tabou s’il en est). Mais malgré cela, Tyrion reste le personnage le plus sympathique de la série, le seul personnage drôle d’ailleurs (tout comme House).

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Ce phénomène ne se cantonne pas à ces deux personnages, mais semble être plus global. Une simple étude de Game of Thrones suffirait à souligner toute l’ambiguïté axiologique dont est porteuse la série : le seul personnage clairement mauvais est, semble-t-il, Joffrey, tous les autres étant extrêmement ambivalents. Bien sûr, un personnage ne peut pas être parfait, au risque de tomber dans un sirupeux remake du Club des Cinq. Mais ce qui est dérangeant dans ces séries, c’est que les repères sont brouillés et que l’on ne distingue plus le bien du mal.

Est-il besoin de rappeler que Dexter est un tueur en série qui a un goût prononcé pour le sang et met en pratique la peine de mort (nous sommes aux États-Unis où elle est en vigueur dans la plupart des États, d’accord, mais ici le débat semble tranché d’avance) ? L’idée lumineuse du héros de Breaking Bad à qui l’on diagnostique un cancer en phase terminale est de mettre ses talents de chimiste au service de la fabrication de méthamphétamines… Barney, dans How I Met Your Mother, qui vole progressivement la vedette à Ted, à la fois dans le scénario et dans le cœur des spectateurs, n’est autre qu’un sex addict manipulateur et misogyne (et néanmoins il est celui qui nous aura fait le plus rire et qui tient le rôle central des meilleurs épisodes). Bon courage pour trouver l’ombre d’une vertu dans des séries historiques comme Rome ou Les Tudors, où les scénaristes ont même pris soin de remplir les vides laissés par l’histoire par de nouveaux vices (inceste, sadomasochisme, manipulation…). Ce serait un affront au lecteur de rappeler qu’un récit historique en dit plus sur notre temps que sur la période présentée…

Et qu’est-ce que cela nous dit, justement ? Pourquoi cherche-t-on à jouir et à nous faire jouir du vice, de la perversion, de la méchanceté, de la manipulation ? Pourquoi nos héros sont-ils malades, physiquement et psychiquement ? Pourquoi associe-t-on le charisme, l’habileté, la virtuosité à des « anti-héros », comme on entend si fréquemment ? À se demander si l’« anti » n’est pas en réalité devenu la norme. Vit-on une époque boiteuse et en souffrance, à l’image de House ? Estime-t-on plus le vice que la vertu ?

Ce qui est flagrant, c’est que ces séries développent très peu des sentiments de solidarité, de charité, de générosité. Peu d’actes sont gratuits et désintéressés ; toutes les actions des personnages semblent s’inscrire dans un vaste projet géopolitique où chacun serait un État en plein exercice de sa volonté de puissance. C’est, par exemple, particulièrement marqué dans Desperate Housewives où les relations les plus intimes que ces femmes entretiennent avec leur mari ou leurs enfants sont toutes faites de manipulations et de calculs froids. Et, paradoxalement, ces plans machiavéliques s’avèrent particulièrement divertissants, et la série devient de moins en moins intéressante quand elle se met à verser dans quelque chose de plus mielleux et moralisateur, surtout à partir du bon en avant de cinq ans à la suite de la saison 4 (à mon sens, la seule scène sincèrement touchante est celle où Gaby raccompagne Carlos, ivre, oubliant pour une fois son image sociale pour venir en aide à son mari qui a sombré dans l’alcoolisme (saison 8, épisode 5), mais c’est une appréciation tout à fait personnelle).

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D’une manière générale, les séries nous présentent comme séduisants l’égoïsme, le mépris de l’autre, en somme l’individualisme. Le mot est lancé. Se pourrait-il que les séries répondent à une certaine idéologie, l’idéologie dominante, celle du néolibéralisme, du « chacun pour soi » ? Un néolibéralisme qui marche doit casser les luttes sociales ; et quoi de plus facile que de les anéantir à la racine ? En faisant l’apologie de l’individualisme et en traitant avec mépris les actions généreuses, ces séries tendent à dissoudre la solidarité qui pourrait (et devrait) se créer face à l’oppression. Margaret Thatcher l’avait dit : « Il n’y a pas de société, il n’y a que des individus ». Je ne dis pas qu’il s’agit là d’un « complot », car je sais que le mot est mal vu. On peut davantage poser l’hypothèse d’une auto-alimentation du système : on fait rire le public par le vice et l’irrespect d’autrui, il en redemande, on lui fait croire que c’est ce qu’il aime, on n’envisage plus que ce biais pour créer des scénarios, etc. Il est vrai qu’on a (que j’ai ?) du mal à envisager un humour sans une bonne dose de répliques cinglantes, et elles passent souvent par le mépris.

C’est en tant que grande amatrice de séries que je m’interroge. Je m’interroge sur le bien-fondé de ce que je regarde, sur l’influence que cela peut avoir sur moi, sur nous. Est-on condamné à ne regarder que Plus belle la vie et La petite maison dans la prairie si l’on veut rester sain d’esprit (et d’âme) ? Réjouissante perspective…

Hannah Arendt disait que nous nous trouvions dans une brèche entre le passé et l’avenir (« a gap between past and future ») et que nous avions perdu le contact avec la tradition ; elle mettait son espoir dans les neoi, les nouveaux venus sur terre, qui pourraient créer à nouveau. Nietzsche a brillamment identifié la mort de Dieu qui nous a déconnectés des valeurs chrétiennes (ou religieuses au sens large) ; il en appelait de nouvelles, mais quelles sont-elles ? Spengler, quant à lui, parlait du déclin de l’Occident…

Clara Piraud

Source: brunoadrie.wordpress.com

 

Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

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Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

[This is an excerpt from Progressivism: A Primer on the Idea Destroying America (2014).]

One of the great virtues of liberalism is that, it alone among the political worldviews, discovered a way for people from different ethnic, racial and religious groups to live together in relative peace.  In all systems of powerful government, including progressivism, these groups struggle with each other for control of the state.  As I demonstrated in a paper presented at the Mises Institute in 2002, the major cause of war in the last fifty years was conflict between or among competing ethnic, racial and religious groups inside states: civil war.[1]  The state system has not only failed to solve the problem of peace among disparate groups but in fact is itself the major cause of conflict and violence among these groups.  The cause of the violence is the fear of or the actual exploitation and domination of ethnic, racial or religious groups by a state controlled by hostile groups.

It is also a myth that the best way to smooth over multicultural differences is through the ballot box.  This is false. The ballot box is simply a means to determine how state violence is to be used against the losers of the election and how those losers will then be exploited economically and in other ways by the majority.  Thus, the incentive for minority groups to attempt to secede or seize control of the state to avoid such domination and exploitation exists in democracies and dictatorships. In 23 of the 25 recent intrastate wars, the prevailing regime was democratic throughout the dispute or at least at certain times during the dispute.[2] In certain cases, a democratic government was overthrown because of the feeling of an ethnic or religious subgroup that its interests were not being protected or advanced by the democratic state.

Thus, in strong states that exercise a great deal of control over people’s economic and personal lives, groups that do not control the state live in constant fear of exploitation, domination, and sometimes genocide itself.  In such states, whether democratic or not, different groups live in continual fear that competing groups may increase their political power, including by increases in population and immigration and thus, the state creates a conflict of interests that would not otherwise exist! In a liberal market society, disparate groups and individuals may live side by side, house to house, without the slightest fear that those who differ from them will seize control of the state and deprive them of their life, liberty or property.  They may associate with them if they wish, trade with them to their mutual benefit if they wish, or not associate with them if that is preferred.  Most importantly, peace is achieved!

It must be emphasized that progressive government, contrary to popular myth, exacerbates racial, ethnic and religious tensions and does not ameliorate them.  Every progressive policy, involving as it does state violence, creates winners and losers and thus resentment among the losers.  The progressive’s favored policies such as civil rights laws (forced association), affirmative action (affirmative racism) and welfare, create winners and losers and therefore resentment among the losers.  Under liberalism, both parties in every voluntary transaction are winners and positive relations among different groups are attained.

Multiculturalism and big government are a toxic mix.  We see this today all over the world with ethnic, racial or religious violence ongoing in Iraq, Ukraine, Syria, Sudan, Israel/Palestine, Darfur, Chechnya and other regions. Those who look forward to a peaceful multicultural world should embrace liberalism and the free market.  No other political system can maintain peace and tolerance in a multicultural world.

Notes

[1] “The Myth of Democratic Peace: Why Democracy Cannot Deliver Peace in the 21st Century,” LewRockwell.com, Feb. 19, 2005.

[2] Id.

Migrants: une invasion soutenue?...

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Migrants: une invasion soutenue?...

par Alexandre Latsa

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue d'Alexandre Latsa, cueilli sur le site d'information russe Sputnik et consacré à l'invasion migratoire et aux soutiens dont elle bénéficie en Europe...

Migrants: une invasion soutenue ?

Alors que l’Europe entre dans un automne qui s’annonce complexe, la crise des migrants entame un tournant bien moins angélique que prévu.

Il y a tout d'abord les violences et les faits divers, qui accompagnent de plus en plus souvent les confrontations entre les groupes de clandestins et les autorités ou populations locales en Hongrie, Grèce, Slovaquie, Allemagne ou Croatie.

Il y a les chiffres, que finalement plus personne ne semble vraiment maîtriser. Alors que l'on nous annonce que ce sont désormais officiellement 500.000 personnes qui auraient traversé la Méditerranée depuis le début de l'année, ils seraient en réalité déjà 200.000 à avoir traversé la seule Hongrie. Nul doute que les chiffres réels ne soient beaucoup plus élevés.

Cet afflux de migrants économiques, puisque la grande majorité des migrants sont des hommes en relative bonne santé, ne fait pas que des malheureux, bien au contraire. Pour le vice-président de la Banque centrale européenne (BCE), Vitor Constancio: « l'Europe vieillissante a besoin de migrants ». En France c'est le prophète Jacques Attali qui pronostique que les migrants pourraient faire de l'Europe la première puissance économique mondiale. Même son de cloche pour le vice-chancelier allemand Sigmar Gabriel, pour qui les migrants aideront l'Allemagne à résoudre «l'un des principaux défis pour l'avenir de son économie: le manque travailleurs qualifiés ». Des propos repris par Dieter Zetsche le président du groupe Daimler AG, pour qui ces migrants permettront un miracle économique. En France, de tels propos nous sont familiers puisqu'en 1969, les grands patrons tel que Francis Bouygues faisaient pression sur les politiques pour que ceux-ci favorisent une forte immigration principalement issue du Maghreb. Des arrivants moins qualifiés et condamnés à être sous-payés, Bouygues embauchant jusqu'à 80% d'étrangers à cette époque.

Cette névrose allemande totalitaire, qui cherche à imposer à l'UE une immigration qu'elle ne veut pas, est apparue au grand jour lors des récentes déclarations d'Angela Merkel. La chancelière sommait les autres Etats européens de se partager ou de renvoyer (mais où?) le restant de capital humain que Berlin ne jugerait pas assez qualifié pour l'utiliser. Devenue Maman Merkel pour les migrants afghans ou syriens, Angela a en effet simplement menacé de couper les fonds européens aux pays récalcitrants aux quotas de répartition des migrants.

L'Allemagne a comme d'habitude pris l'Europe de court et impose sa volonté.

Les migrants n'arrivent pas par conséquent en territoire inconnu au sein d'une Europe hostile. Ils savent parfaitement qu'en Allemagne, ils sont attendus. Plus fort encore, sur la route vers Berlin, une kyrielle d'ONGs et d'associations, le plus souvent à l'ADN germanique, a mis en place un dispositif complexe et structuré visant à leur baliser la route, leur indiquer les itinéraires à suivre et à éviter et les informer de leurs droits en tant que clandestins, on croit rêver!

Comment Bruxelles peut-elle prétendre lutter contre les réseaux de passeurs alors que dans le meme temps Berlin organise le viol des règles nationales et communautaires sur le séjour au sein de l'UE?

Cela pourrait sembler tiré d'un livre de science-fiction. Que nenni. C'est malheureusement l'incroyable réalité.

Les migrants disposent par exemple d'un manuel leur expliquant comment enfreindre la législation, et leur explicitant les lois pour rejoindre l'Allemagne et se retrouver au sein de la zone euro. Un manuel qui annonce clairement la couleur: « Nous souhaitons la bienvenue à tous les voyageurs dans leur difficile traversée et vous souhaitons un bon voyage — Parce que la liberté de circulation est un droit pour tous! » Une conception open-society du monde qui n'est pas sans rappeler les excès idéologiques de certaines officines globalistes affiliées à la galaxie Soros, qui peut compter à l'occasion sur ces alliés du moment: l'extrême gauche immigrationiste, pour qui le Syrien smicard de demain devrait devenir un camarade de combat syndical.

Cette internationale de gauche et son cœur allemand ont notamment créé un site dédié aux migrants, sponsorisé par l'organisation allemande Bordermonitoring, elle-même intégrée au réseau Watchthemed. Watchthemed est lui soutenu par les ONGs allemandes Proasyl, et Medico qui elles-mêmes renvoient sur une foisonnante galaxie d'ONGs dont par exemple Siftung, Afrique-Europe ou Migreurop, dont le réseau comprend en France Act-up, la Cimade, le Fasti, l'association des travailleurs maghrébins de France ou encore le MRAP…

Les lecteurs se souviennent que l'auteur de ces lignes mettait le doigt, au début de ce mois, sur l'existence en Allemagne de projet visant à structurer l'accueil et le relogement des migrants clandestins. La piste allemande semble donc se confirmer.

Sous couvert d'antiracisme et de gauchisme tiermondiste, cette galaxie mondialiste est tout simplement en train d'organiser légalement l'invasion de l'Europe, pour le plus grand bonheur des grands patrons allemands. Ceci confirme ainsi l'alliance entre trotskystes 2.0 reconvertis et patrons libéraux, affichant une convergence d'intérêts inattendue sous le paravent du libéralisme libertaire. Les premiers pour pouvoir exploiter une main-d'œuvre dans le besoin, main-d'œuvre que les seconds accueillent pour se donner une raison d'exister et ne manqueront pas de pousser à la révolte contre l'ordre établi, qu'il soit économique ou politique.

Il y a quelques semaines, Sergueï Narychkine, président de la Douma (chambre basse du parlement russe), n'excluait pas que la vague migratoire actuelle vers l'Europe avait été préméditée et vise à déstabiliser les pays prospères de l'UE. Des propos confirmés dans l'esprit par le général Christophe Gomart, selon lequel l'invasion n'avance pas au hasard, mais fait juste face à un manque de volonté politique pour interrompre fermement ces flux humains.

Alors que Schengen est provisoirement ou définitivement KO, nos « élites » et autres « stratèges de choc » feraient bien de regarder par-delà leurs frontières, afin d'entrevoir ce qui se passe en Syrie. Depuis le début de l'année, un tournant géostratégique majeur est peut-être en train de s'y produire: les dix derniers mois ont en effet mis un coup d'arrêt à la dynamique victorieuse que connaissaient l'Etat et l'Armée syrienne dans leur guerre contre le terrorisme, les raisons de cette évolution ayant été en partie décryptées ici et là.

Si ces dynamiques venaient à se prolonger, et si, bien que nous n'en soyons pas là, des immixtions extérieures, régionales ou occidentales sous impulsion américaine, finissaient par provoquer l'effondrement du pouvoir syrien, la situation pourrait se compliquer pour l'Europe sur le plan migratoire. En se projetant dans les zones tenues à ce jour par le pouvoir et où sont concentrées de fortes minorités, l'Etat islamique pourrait être à l'origine d'un nouvel exode forcé de Syriens vers l'Europe, exode encore plus conséquent qu'auparavant.

Ceci ne manquerait pas d'accentuer une dynamique migratoire qui finira bien par faire tache d'huile dans une région plus instable et explosive que jamais.

Alexandre Latsa (Sputnik, 21 septembre 2015)

Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

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Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

par Richard Labévière

Ex: http://www.prochetmoyen-orient.ch

Quelques semaines avant l’élection de François Hollande, un groupe de hauts fonctionnaires français signait une tribune dans un quotidien parisien1, appelant à rompre avec les postures médiatiques de Nicolas Sarkozy. Commentant les propositions du candidat socialiste, ce collectif écrivait : « on ne voit pas encore les axes structurants d’une politique réfléchie. Sans tabous ni autocensure, la première des préoccupations reste la non-prolifération nucléaire et le dossier iranien, mais aussi et peut-être davantage le Pakistan, ainsi que le réarmement d’autres puissances. Quelle est la meilleure politique au regard de nos intérêts? Est-ce pertinent de soutenir Israël quelles que soient les extrémités où l’on risque de nous entraîner? Quelles leçons tire-t-on de l’expédition libyenne – guerre déclenchée au nom des droits humains – dont on ne connaît toujours pas le bilan des victimes, ni l’ampleur des effets déstabilisateurs dans la sous-région sahélienne, sans parler de l’évolution inquiétante des libertés civiles et politiques? Et que penser de la politique de gribouille sur la Syrie, pouvant déboucher sur une militarisation accrue de la crise? L’appel au changement de régime est-il légitime, surtout lorsqu’il est porté par des pays comme le Qatar ou l’Arabie Saoudite? Ne reproduit-on pas ici les erreurs commises par les Américains et les Britanniques en Irak ? Cela ne ressemble-t-il pas à un vieux remugle de néo-colonialisme? Quant à l’Afghanistan, il restera à dresser un bilan de notre engagement militaire. Ces questions rompent avec le politiquement correct dominant. Il faut cesser de se gargariser des grands discours ridicules sur notre « diplomatie universelle » et de nier béatement le déclin de la France dans le monde. Il est temps d’élaborer une doctrine de redressement, fondée sur des analyses géostratégiques tenant compte de la réalité, de nos moyens d’agir, de nos intérêts ainsi que de ceux de nos voisins européens, méditerranéens et africains ».

Une fois élu, François Hollande – qui ne s’était guère intéressé aux relations internationales – nommait à la tête de la diplomatie française l’ « ancien plus jeune Premier ministre de la Vème République ». En confiant le Quai d’Orsay à Laurent Fabius, le nouveau président de la République cédait ainsi à son tropisme d’ancien premier secrétaire du PS : ménager les tribus de la rue de Solferino en considérant que Fabius serait moins nuisible à l’intérieur du gouvernement qu’abandonné à la direction d’un courant qui avait mené la bataille contre le projet de constitution européenne, notamment. Du grand art… et un signal fort adressé à nos partenaires européens. Condition de son acceptation du maroquin des Affaires étrangères, Laurent Fabius favorisait le choix d’un conseiller diplomatique faible pour l’Elysée, en l’occurrence le regretté Paul Jean-Ortiz – homme droit et affable, surtout spécialiste de l’Asie, – ne voulant pas s’encombrer d’un sherpa trop pointu, genre Jean-David Levitte qui géra les dossiers internationaux pour Sarkozy tandis que Bernard Kouchner amusait la galerie du Quai d’Orsay, multipliant les voyages et des affaires pas toujours très claires…

Cette inversion hollandaise du dispositif Sarkozy (sherpa fort/ministre faible) pour un ministre fort et un conseiller diplomatique docile ne changea pas grand-chose à une diplomatie qui accentua les évolutions impulsées par une « école française néoconservatrice » qui avait déjà commencé à sévir sous le deuxième Chirac finissant : retour dans le commandement intégré de l’OTAN, alignement sur Washington et Tel-Aviv ! Et l’un de nos grands ambassadeurs de commenter : « avec Laurent Fabius, c’est Guy Mollet, les néo-cons américains et la morgue en prime… » Sans appel, ce jugement s’illustre particulièrement sur les trois grands dossiers proche et moyen-orientaux.

La Syrie d’abord ! En mars 2012, Alain Juppé avait curieusement décidé de fermer l’ambassade de France à Damas, contredisant les fondamentaux de la diplomatie qui consistent, justement, à ne jamais perdre le contact avec les pays qui s’éloignent le plus de nos positions, sinon de nos intérêts… Cherchant à corriger les effets désastreux du soutien passé de Michèle Alliot-Marie au dictateur tunisien, Paris se devait de revenir dans le sens de l’Histoire : Ben Ali dégage, Moubarak dégage, Kadhafi idem… Avec Washington et Londres, Paris s’enferma dans le « Bachar dégage ! », personnalisant une situation syrienne, pourtant très différente des autres mal nommées « révolutions arabes ».

Sur la Syrie, inaugurant une « ligne Juppé consolidée », selon les propres termes d’un ancien ambassadeur de France à Damas, Laurent Fabius a été principalement inspiré par deux personnes : Eric Chevallier – un copain de Kouchner promu par ce dernier « diplomate professionnel », thuriféraire de Bachar jusqu’en juillet 2011, moment où il fut rappelé à Paris pour se faire expliquer que la suite de sa carrière dépendait d’un complet revirement anti-Bachar2 – et Jean-Pierre Filiu, un ancien diplomate – ayant quelque compte personnel à régler avec le régime baathiste – devenu professeur des universités et militant de la « révolution syrienne ». Fin août, lors de son discours devant la 70ème conférence des ambassadeurs, François Hollande a encore confirmé cette ligne « renforcée » du « ni-ni » – ni Bachar, ni Dae’ch – estimant que bombarder Dae’ch en Syrie pourrait renforcer le « boucher de Damas ».

Début Septembre survient la « crise des migrants », soulevant un mélange d’émotions et de craintes dans les opinions européennes, confirmant l’absence de véritable politique de l’Union européenne en la matière. La décision d’accueil massif d’Angela Merkel, qui pense ainsi combler ses déficits démographique et de main d’œuvre, embarrasse François Hollande qui doit pourtant afficher sa convergence avec la dirigeante de l’Europe. Opposée en Mai 2015 à des quotas migratoires contraignants au sein de l’UE, la France se met à en soutenir le principe en Septembre. Après avoir qualifié de « stupide » l’idée de rétablir un contrôle aux frontières, le gouvernement français affirme qu’il « n’hésitera pas » à le faire si nécessaire, après la décision allemande de fermer certaines de ses frontières. Improvisation totale, le regard rivé sur la ligne d’horizon des présidentielles de 2017, ce revirement pathétique s’opèrera naturellement sous la pression des sondages d’opinion.

Avec la crise des migrants, le Front national retrouve son « cœur de métier », mais récolte aussi les bénéfices d’une équation relativement simple : les migrants affluent pour fuir la guerre civile syrienne dont Dae’ch est l’un des principaux protagonistes. Deux corollaires s’imposent tout aussitôt : 1) il faut lutter plus efficacement contre l’organisation terroriste d’autant que le bilan d’une année de lutte de la Coalition anti-Dae’ch, regroupant les plus puissantes armées du monde, est particulièrement nul. En effet, comment expliquer aux électeurs que la Coalition n’arrive pas à venir à bout d’une organisation qui compte tout au plus 40 à 45 000 hommes, alors qu’elle signe aussi des attentats en Europe ? 2) il faut parler avec Bachar al-Assad. Les affirmations régulièrement répétées du Quai d’Orsay selon lesquelles le « dictateur de Damas » a enfanté Dae’ch tout seul font sourire depuis longtemps les connaisseurs du pays et de la région. Depuis plusieurs mois, l’Espagne, la Pologne, la Tchéquie et d’autres pays de l’UE, plus récemment l’Allemagne, disent de même. Moscou défend cette position depuis l’hiver 2011/2012 et Washington a commencé à nuancer la sienne à partir de mars 2015.

Le coup de grâce du « ni-ni » hollando-fabiusien intervient mi-septembre avec l’officialisation d’un engagement militaire russe accru afin d’épauler Bachar al-Assad pour éviter que les catastrophes d’implosion territoriale et politique, commises en Irak et en Libye, ne se répètent. Durant un déplacement de Laurent Fabius à l’étranger, Jean-Yves Le Drian, dont la compétence en matière de défense n’est plus à prouver, le général Pierre de Villiers, chef d’état-major des armées (CEMA), et le général Benoît Puga, chef d’état-major particulier du Président, finissent par convaincre celui-ci que la position française n’est plus tenable au risque de se trouver marginalisée dans la nouvelle donne inaugurée par l’accord sur le nucléaire iranien du 14 juillet dernier.

C’est le deuxième échec personnel de Laurent Fabius qui rejaillit sur l’ensemble de la diplomatie française : ne pas avoir accompagné la finalisation de l’accord sur le nucléaire iranien et n’avoir pas anticipé non plus ses conséquences régionales et internationales. Pire, Laurent Fabius s’est opposé pendant plus d’un an et demi aux progrès de la négociation en relayant systématiquement les critiques et les exigences… israéliennes ! Au nom de quels intérêts français ? On se le demande encore… La signature à peine sèche, le ministre français se précipite pourtant à Téhéran afin de devancer son homologue allemand : ce voyage est une telle catastrophe que lors de la dernière visite des patrons du MEDEF à Téhéran, il préfère se faire porter pâle et céder sa place au porte-parole du gouvernement Stéphane Le Foll. Au Quai d’Orsay comme au MEDEF, personne n’ose dire que son entêtement contre l’accord a plombé les grandes, moyennes et petites entreprises françaises pour pas mal de temps ! Heureusement que les Iraniens sont pragmatiques et qu’ils ne mettent jamais tous leurs œufs dans le même panier, mais tout de même ! Pourquoi avoir refusé si longtemps cet inéluctable début de normalisation avec l’une des grandes puissances régionales du Moyen-Orient ? La question reste entière…

Les yeux toujours rivés sur le baromètre intérieur, François Hollande demande instamment à Laurent Fabius d’organiser à Paris, le 8 septembre dernier, une conférence internationale pour venir en aide aux Chrétiens et autres minorités d’Orient. Celui-ci s’exécute à reculons, toujours partisan d’armer l’opposition syrienne « laïque et modérée » pour en finir avec Bachar, c’est-à-dire « les bons p’tits gars de Nosra », comme il l’affirmait en décembre 2012 lors d’un voyage au Maroc. Rappelons que Jabhat al-Nosra, c’est tout simplement Al-Qaïda en Syrie, qui achète et absorbe, depuis plusieurs années, les rebelles de l’Armée syrienne libre (ASL) qui n’existe plus que sur le papier. Rien appris, rien oublié ! Laurent Fabius persiste et signe. Cette conférence est un fiasco absolu. Mais un autre dossier inquiète fortement le président de la République : le conflit israélo-palestinien et les gosses des banlieues françaises qui critiquent, d’une manière de plus en plus organisée, les choix inconditionnellement pro-israéliens du gouvernement français.

Laurent Fabius effectue donc plusieurs déplacements en Israël et dans les Territoires palestiniens occupés. Des projets de résolution pour le Conseil de sécurité des Nations unies sont mis en chantier. Mais là encore, l’improvisation va coûter cher. Le chef de la diplomatie française s’étonne de ne pas trouver un Benjamin Netanyahou enthousiaste et surtout redevable à la France éternelle d’avoir tout mis en œuvre pour faire échec à l’accord sur le nucléaire iranien ! Le 8 juillet 2015, Paris renonce à présenter devant l’ONU son projet de résolution concernant le conflit israélo-palestinien. En coulisses, Tel-Aviv et Washington ont torpillé le texte. « Je peux dire que le projet français de résolution du conflit devant le Conseil de sécurité n’est plus une priorité pour les dirigeants français », déplore le ministre palestinien des Affaires étrangères, Riyad al-Maliki.

Au Liban, Paris tente de débloquer la situation politique pour l’élection d’un président de la République (chrétien selon la constitution). Le palais de Baabda est inoccupé depuis août 2014. A la demande de Laurent Fabius, le patron d’ANMO (Direction Afrique du Nord/Moyen-Orient) Jean-François Girault multiplie vainement les consultations au Pays du cèdre, en Iran, en Jordanie et en Egypte. En fait, Paris ne fait plus rien sans en référer au nouvel allié saoudien. A la « politique arabe » du général de Gaulle et de François Mitterrand s’est substituée une « politique sunnite » de la France ! Il faut dire que cette « évolution » pèse quelque 35 milliards d’euros pour les grandes sociétés du CAC-40. Quant aux droits de l’homme tellement sollicités afin de pouvoir « punir », sinon « neutraliser » Bachar al-Assad, ils n’empêchent guère les ronds de jambe et les courbures d’échine répétés devant les dictateurs du Golfe.

Aux dernières nouvelles, un jeune saoudien chi’ite, Ali Mohamed al-Nimr risque d’être décapité puis crucifié, pour avoir « manifesté » contre le régime saoudien – cet ami de la France qui nous achète nos matériels d’armement et finance les Rafale pour l’Egypte… Une diplomatie époustouflante, en effet !

Richard Labévière
28 septembre 2015


1 « Pour un changement de politique étrangère » – Libération du 13 mars 2012.
2 Eric Chevallier coule aujourd’hui des jours heureux à Doha comme ambassadeur de France. Ayant tellement mis de cœur à l’ouvrage dans son revirement anti-Bachar en faveur de « l’opposition » syrienne, financée par le Qatar, les autorités du petit émirat pétrolier sont intervenues directement auprès de François Hollande pour qu’il y soit nommé représentant de la France.

mercredi, 30 septembre 2015

The Paranoid German Mind: Counting Down to the Next War

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The Paranoid German Mind:

Counting Down to the Next War

Tom Sunic, Ph.D.

Ex: http://www.theoccidentalobserver.net

Having lost, during and after World War II, over 9 million of its soldiers and civilians, Germany has had to wallow in expiation and self-abnegation.  Its present grotesque multicultural policy of Willkomenskultur (“welcoming culture” toward non-European migrants), openly heralded by Chancellor Angela Merkel and her government, is the direct result of the lost war. Germany’s role of an exemplary host country for millions of non-European migrants has been a major linchpin of its legal system over the last 70 years —  and by default for present day Central European countries subject today to floods of non-European migrants. The countries that were most loyal to National Socialist Germany in World War II, the contemporary Hungary, Croatia and to some extent Slovakia and Baltic countries further north, have similar self-denying dilemmas — due, on one  hand, to their historically friendly pro-German ties, and on the other, due to the obligatory rituals of antifascist mea culpas, as demanded by Brussels and Washington bureaucrats.  I have put together for TOO some excerpts from the chapter “Brainwashing the Germans” from my book Homo americanus: Child of the Postmodern Age, 2007 (foreword by Kevin MacDonald) (The second edition of this book is to be published by Washington  Summit Publishers). I guess some of those lines below might shed some light into extremely serious political developments in Europe today.

  *   *   *

In the aftermath of World War II, the role of Frankfurt School “scholars,” many of whom were of Jewish extraction, was decisive in shaping the new European cultural scene.  Scores of American left-leaning psychoanalysts — under the auspices of the Truman government — swarmed over Germany in an attempt to rectify not just the German mind but also to change the brains of all Europeans.  But there were also a considerable number of WASP Puritan-minded scholars and military men active in post-war Germany, such as Major Robert A. General McClure, the poet Archibald MacLeish, the political scientist Harold Laswell, the jurist Robert Jackson and the philosopher John Dewey, who had envisaged copying the American way of democracy into the European public scene.

As a result of Frankfurt School re-educational efforts in war-ravaged Germany, thousands of book titles from the fields of genetics and anthropology were removed from library shelves and thousands of museum artifacts were, if not destroyed by the preceding Allied fire-bombing, shipped to the USA and the Soviet Union. Particularly severe was the Allied treatment of German teachers and academics, wrote Caspar von Schrenck-Notzing, a prominent postwar conservative German scholar in his book on the post-WWII brainwashing of the German people. In his seminal book Schrenck-Notzing  writes that the Western occupying authorities considered that the best approach in curing the defeated Germany was by treating Germans as a nation of “clinical patients” in need of a hefty dose of liberal and socialist therapy.  Since National Socialist Germany had a significant support among German teachers and university professors, it was to be expected that the US re-educational authorities would start screening German intellectuals, writers, journalists and film makers first.

Having destroyed dozens of major libraries in Germany, with millions of volumes gone up in flames, the Allied occupying powers resorted to improvising measures in order to give some semblance of normalcy to what was later to become “democratic Germany.”

During the post-WWII vetting of well-known figures from the German world of literature and science, thousands of German intellectuals were obliged to fill out forms known in at the time as “Der Fragebogen” (The Questionnaire).  In his satirical novel under the same name and translated into English as The Questionnaire, German novelist and a former conservative revolutionary militant, Ernst von Salomon, describes American “new pedagogues” extorting confessions from the German captives, who were subsequently either intellectually silenced or dispatched to the gallows. Schrenck-Notzing  provides his readers with a glimpse of the mindset of the Allied educators showing the very great influence of the Frankfurt School:

Whoever wishes to combat fascism must start from the premises that the central breeding ground for the reactionary person is represented by his family.  Given that the authoritarian society reproduces itself in the structure of the individual through his authoritarian family, it follows that political reaction will defend the authoritarian family as the basis for its state, itsculture and its civilization. (my  emphasis)

From Ethno-Nationalism to National-Masochism

Much later,  Patrick J. Buchanan, in a similar vein, in his The Death of the West  also notes that Frankfurt School intellectuals in postwar Germany, having been bankrolled by the American military authorities, succeeded in labeling National Socialist sympathizers as “mentally sick,” a term which would later have a lasting impact on political vocabulary and the future development of “political correctness”  in Europe and America.  Political prejudice, notably, a sense of authority and the resentment of Jews, were categorized as “mental illnesses” rooted in traditional European child-rearing. The ideology of antifascism became by the late twentieth century a form of “negative legitimacy” for Germany and the entire West.  It implicitly suggested that if there was no “fascist threat,” the West could not exist in its present form.

Later on, German political elites went a step further. In order to show to their American sponsors their new democratic credentials and their philo-Semitic attitudes, in the early 1960’s they introduced legislation forbidding any historical revisionism of World War II and any critical study of mass immigration into Western Europe, including any study of negative socio-economic consequences of multiculturalism and multiracialism.

As of today the German Criminal Code appears in its substance more repressive than the former Soviet Criminal Code.  Day after day Germany has to prove to the world that it can perform self-educational tasks better than its former American tutor.  It must show signs of being the most servile disciple of the American hegemon, given that the “transformation of the German mind (was) the main home work of the military regime.” 

In addition to standard German media vilification of local “trouble-makers” — i.e. “right -wingers” —  Germany also requires from its civil servants obedience to constitutional commands and not necessarily their loyalty to the people or to the state of Germany. This is pursuant to Article 33, Paragraph 5, of its Basic Law.  ]) The German legal scholar Josef Schüsselburner,Germany’s observes that the powerful agency designed for the supervision of the Constitution (the famed “Office for the Protection of the Constitution” [Verfassungsschutz]) is “basically an internal secret service with seventeen branch agencies (one on the level of the federation and sixteen others for each constituent federal state).  In the last analysis, this boils down to saying that only the internal secret service is competent to declare a person an internal enemy of the state.

Given that all signs of German nationalism, let alone White racialism, are reprimanded in Germany on the grounds of their real or purported unconstitutional and undemocratic character, the only patriotism allowed in Germany is “constitutional patriotism” — Germany is de jure a  proposition nation:  “The German people had to adapt itself to the Constitution, instead of adapting the Constitution to the German people,” writes the German legal scholar, Günther Maschke. German constitutionalism, continuesSchüsselburner, has become “a civil religion,” whereby “multiculturalism has replaced the Germans by the citizens who do not regard Germany as their homeland, but as an imaginary “Basic Law country.”   As a result of this new civil religion, Germany, along with other European countries, has now evolved into a “secular theocracy.”

Similar to Communism, historical truth in Western Europe is not established by an open academic debate but by state legislation. In addition, German scientists whose expertise is the study of genetically induced social behavior, or who lay emphasis on the role of IQ in human achievement or behavior, and who downplay the importance of education or  environment — are branded as “racists.“

When Muslim Arabs or Islamists residing in Germany and elsewhere in Europe are involved in violent street riots, the German authorities do tolerate to some extent name calling and the sporadic usage of some anti-Arab or anti-Turkish jokes by local autochthonous (native) Germans. Moreover, a Muslim resident living in Germany can also legally and temporarily get away with some minor anti-Semitic or anti-Israeli remark—which a White German Gentile cannot dream of.  By contrast, a non-Jewish German average citizen, let alone a scholar, cannot even dream about making a joke about Jews or Muslims—for fear of being labeled by dreaded words of “anti-Semitism” or “racism.”

Tom Sunic is author (www.tomsunic.com)

LES CONDITIONS D’UNE «IMMIGRATION HEUREUSE»

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LES CONDITIONS D’UNE «IMMIGRATION HEUREUSE»

Yves-Marie Laulan*
Ex: http://metamag.fr
 
Il n’y a pas « d’immigration heureuse », ni au départ, ni à l’arrivée. Une immigration, surtout si elle porte sur des chiffres élevés, exerce forcément des effets traumatisants dans le pays de départ. Les  migrants vont tout abandonner, dans l’espoir souvent déçu, d’une vie de félicité. Dans le pays d’arrivée, l’entrée en masse d’éléments étrangers par l’origine, la langue, les coutumes ne peut manquer, la première vague d’émotion passée, de produire des réactions de réserve, puis d’hostilité. C’est très exactement ce qui est en train de se produire en Europe où les frontières se ferment les unes après les autres, devant l’arrivée d’une foule d’indésirables . (Le terme d’indésirable n’a rien de péjoratif en soi. Il faut le comprendre au pied de la lettre, à savoir des personnes non désirées, dont l’entrée sur le territoire national ne correspond  en rien à un manque  ou un besoin national sur le plan économique ou social. Or, faut-il le rappeler en France , le marché du  travail est totalement saturé notamment en raison des politiques malthusiennes poursuivies par tous les gouvernements successifs de notre pays, y compris le gouvernement socialiste actuel . La générosité française officielle s’arrête au niveau des déclarations publiques).

La France ne fait pas exception à cette règle quoi qu’en disent  les médias et, maintenant, les autorités religieuses, au plus haut niveau . C’est entendu, la France est un pays généreux où le droit d’asile a toujours honoré notre pays. Mais, avant de se lancer tête baissée,au nom de la « tarte à la crème » de la France « terre d’asile », dans un nouvelle vague d’immigration d’une ampleur inégalée susceptible d’engendrer des réactions de xénophobie, certains faits doivent être tenus présents à l’esprit, au risque de passer pour  un esprit grincheux.
 
1- En premier lieu, il faut rappeler que depuis 15 à 20 ans au moins, notre pays accueille chaque année entre 200 et 250 000 immigrés , sans compter les immigrés clandestins, si bien que la France abrite aujourd’hui une population de clandestins non déclarés et non titulaires de « documents », estimée à 300 000 à 500 000   personnes (selon les personnes bénéficiant de l’AMG  soit près d’un million), dont une très grand majorité de musulmans venant du Maghreb et d’Afrique noire et maintenant du Moyen-Orient. Ainsi s’explique que le pourcentage d’enfants d’immigrés scolarisés dans nos écoles se rapproche de 20 %, soit près d’un cinquième. Dans 10 à 20 ans, ces enfants deviendront adultes et constitueront un pourcentage relativement élevé de  la population, soit un Français sur 5.(Source CICM, le Centre interministériel de Contrôle de l’Immigration créé en 2005)

Cela est tout à fait compréhensible car les sources de l’immigration actuelle proviennent quasi exclusivement de pays musulmans (à l’exclusion de pays de tradition chrétienne  ou simplement laïque). Les pays musulmans exportent massivement leurs fidèles (et leurs problèmes) . Il est avéré que les flux migratoires proviennent exclusivement de pays musulmans. L’Islam, la religion de l’échec social, engendrerait-il naturellement les conflits et le chaos ? L’immigration syrienne et irakienne ne fera que renforcer la présence, déjà considérable de l’Islam dans notre pays (et, demain, l’immigration africaine potentielle !). L’immigration actuelle n’est pas un évènement  neutre. C’est un phénomène religieux de la plus haute importance dont les conséquences se feront sentir pour les siècles à venir . L’exemple type est la Tchétchénie, pays slave, colonisé par les Turcs au 16° siècle, devenu un foyer de rébellion musulmane irréductible en territoire orthodoxe. Il est peu croyable que les pouvoirs publics ferment benoitement les yeux sur cette caractéristique pourtant évidente, au nom de la laïcité.

2- En second lieu , il faut rappeler qu’en dehors de l’émotion suscitée par le spectacle désolant de ces cohues d’adultes et de leurs familles en route vers l’Eldorado allemand ou français, l’installation d’adultes présente de redoutable problèmes d’assimilation et de cohabitation avec les populations d’accueil. Toute immigration de quelque ampleur est nécessairement déstabilisante dans l’immédiat, et plus encore à terme, en perturbant les équilibres établis dans la population d’accueil en termes de financement, de chômage et de majorités électorales au plan local et national. (Rappelons à cet égard que François Hollande a été élu avec 2 millions de voix d’immigrés et de leurs descendants).
 
3- Une dernière considération est à prendre en compte. Peut-on sérieusement instaurer une politique d’immigration forcément importante et donc coûteuse sans prendre en compte l’avis des gens, c’est-à-dire de la population d’accueil ? La question s’est récemment posée en Allemagne où Angéla Merkel avait, dans un premier temps, avancé que son pays était prêt à recevoir un million de migrants. Mais cette déclaration imprudente avait promptement déclenché un véritable raz de marée humain en direction de l’ Allemagne et de l’Autriche. En conséquence, la Chancelière a été, sans tarder,  contrainte de tourner casaque peu de temps après devant les réactions plus que réservées des pays voisins (Hongrie , Slovaquie, Croatie etc.,), vite débordés par ces flots humains mis en mouvement par les déclarations allemandes ,mais aussi et surtout par les répercussions franchement hostiles sur le plan  intérieur, en  Bavière notamment.

Ces péripéties appellent deux types de réflexion. 

En premier lieu, les dirigeants européens, Allemagne en tête, n’ont nullement pris conscience de l’importance des problèmes migratoires qui ne font pas partie de leur univers mental habituel. Or les migrations d’aujourd’hui et, plus encore, celles de demain, représentent un phénomène démographique totalement inédit dans l’histoire du monde,en raison de l’énormité des flux migratoires mis en cause. On est désormais en présence d’une problématique totalement nouvelle que les gouvernements ne sont nullement préparés à affronter. L’attitude de l’Allemagne en est la preuve la plus récente.L’immigration d’aujourd’hui représente désormais une véritable dynamite sociale dont les effets sur le plan politique peuvent être foudroyants. Or, ni en France, ni en Allemagne, n’existe un Ministère des Migrations habilité à traiter raisonnablement de ces problèmes. Or c’est un sujet chargé d’émotion et d’hypocrisie  où, plus que tout autre, foisonnent les clichés et les idées fausses.

En second lieu, le traitement des phénomènes démographiques, et notamment des migrations, a été jusqu’à présent abordé comme des  manifestations relativement bénignes,voire secondaires, peu dignes de retenir l’attention des pouvoirs publics.

On en voudra pour preuve la totale liberté accordée à l’INED, qui est un démembrement de l’État placé théoriquement sous la tutelle du ministère des Affaires sociales. Mais cette administration jouit en réalité d’une  totale impunité  ce qui a permis à ses responsables, depuis longtemps pénétrés par une idéologie tiers mondiste, de déverser dans la presse peu informée de ces problèmes (et donc dans  l’opinion publique),un flot ininterrompu d’informations inexactes, déformées ou tronquées. Jusqu’au jour où l’opinion publique effarée  a été placée devant un fait accompli .

4- Or le monde a changé. La problématique migratoire revient au premier plan. Il faudra s’en accommoder et, sous peine de provoquer de graves désordres dans la société civile, prendre l’avis des gens, c’est-à-dire de l’opinion publique. Cela signifie que les problèmes migratoires ne devront plus être traités comme un élément relevant exclusivement et arbitrairement des pouvoirs régaliens de l’État. Il convient de mettre le public à l’épreuve et le placer devant ses responsabilités.

A cet égard, la décision prise sous la présidence de Valery Giscard d’Estaing avec Jacques Chirac, Premier Ministre, de mettre en œuvre le rapprochement familial par un simple décret représente une de ces mesures aux conséquences incroyablement marquantes (de 30 000 à50 000 entrées annuelles sur le territoire français dans des  conditions plus que douteuses) prise avec légèreté, comme par mégarde, sans y accorder la moindre importance . C’est typiquement l’exemple à ne pas suivre. A l’avenir toute décision concernant les problèmes migratoires devrait faire , a minima, l’objet d’un large débat public au niveau du Parlement. (Valéry Giscard d’Estaing s’en est par la suite « mordu les doigts »,  bien  mais trop tard ).

Mais il faudrait aller plus loin et ne pas hésiter à tenir un référendum destiné à doter les décisions prises en ce domaine de la plus forte légitimité politique, compte tenu de l’importance capitale des migrations dont on perçoit bien qu’elles façonnent  l’avenir même de la France.
 

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Et puisque les médias s’égosillent à soutenir mordicus que les Français sont largement disposés à recevoir les migrants, une dernière mesure destinée à mettre à l’épreuve les bonnes dispositions de l’opinion publique serait de créer une taxe spécialement dévolue au financement d’un « Fonds pour l’Accueil des Migrants ». Car les conseilleurs ne sont pas forcément les payeurs. Et il n’est pas exclu que l’enthousiasme proclamé par les médias ne se refroidisse pas singulièrement devant ces perspectives d’alourdissement de la pression fiscale.
 
Par ailleurs et enfin, l’accueil des migrants devrait  se faire sous conditions,à savoir :
-L’apprentissage obligatoire de la langue française et de la nation française, son histoire et ses institutions
-l’acceptation d’une formation professionnelle pour exercer un métier dans les secteurs déficitaires de l’économie,
-l’installation à résidence dans des régions défavorisées et dépeuplées où leur arrivée serait susceptible de revitaliser ces zones.
Ces réfugiés ne pourraient pas, en outre, bénéficier des aides sociales sans fournir, en contrepartie,  une prestation économique significative sous peine de créer de nouvelles couches d’assistés sociaux à  perpétuité.

 

Perché Putin ha vinto il duello con Obama all’Onu

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Perché Putin ha vinto il duello con Obama all’Onu

Il presidente russo ha diviso l'Europa dagli Usa e ha messo in secondo piano la crisi ucraina

di Eugenio Cipolla

Ex: http://www.lantidiplomatico.it

«Il colloquio con Obama è stato sorprendentemente franco, costruttivo. Possiamo lavorare insieme. Eventi come questi sono utili, informali e produttivi». Vladimir Putin ha scelto queste parole, chiaramente di cortesia, per commentare il vertice con il presidente Usa Barack Obama, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Novantacinque minuti di incontro a porte chiuse che hanno sancito la vittoria del leader del Cremlino sull’ex senatore dell’Illinois, mai percepito così debole e senza idee dall’inizio del suo secondo mandato. Non sono le opinioni di un tifoso, ma la constatazione della realtà, fatta di alcune considerazioni importanti dalle quali non si può prescindere per fare un’analisi seria dello scontro tra Mosca e Washington sulla crisi siriana e la guerra in Ucraina, le due spine più dolorose nei rapporti diplomatici tra i due paesi.
 
Stamattina diversi quotidiani italiani e internazionali parlavano di un avvicinamento, di un accordo, di una strategia comune tra i due dopo mesi di gelo e silenzio. Non è così. Non lo è per il semplice fatto che, al di là dei retroscena giornalistici, non è stato messo nero su bianco proprio nulla. E questo concede a Putin il vantaggio di poter continuare a proteggere l’alleato Assad, fornendo protezione diplomatica, armi e truppe. In sostanza si andrà avanti come prima, ognuno per conto proprio, ognuno con la sola preoccupazione di non creare incidenti tra le due superpotenze. Insomma, non è cambiato nulla e questo agli occhi dei russi è una cosa positiva, perché il loro presidente è uscito dalla trincea, ha sfidato il mondo intero e non si è fatto piegare dalla politica espansionistica dell’occidente, dal minaccioso Obama, difendendo gli interessi nazionali della propria gente. Al contrario, per gli americani questo nulla di fatto è un duro colpo, una sconfitta bruciante per un presidente, Obama, che in vista delle prossime presidenziali ha poco e nulla da dare.
 
Geopoliticamente, poi, il “capolavoro” di Putin è piuttosto evidente. Gli Usa, dopo le cosiddette “Primavere arabe”, hanno lasciato in Medio Oriente un vuoto che il presidente russo si è deciso ad occupare con astuzia, aumentando la propria influenza su una regione strategica. Così, oltre la Siria, considerato un vitale avamposto per impedire l’avanzata “imperialista” degli Usa, Putin si sta premurando di stringere accordi e rapporti con i maggiori paesi di quell’area, come Egitto, Iran, Turchia, Arabia Saudita, continuando peraltro a gridare al mondo che Isis e religione musulmana sono due cose distinte e separate, che il vero Islam è altra cosa (in Russia ci sono oltre 20 milioni di musulmani e questo rappresenta anche un messaggio in chiave elettorale con il fine di allargare il proprio gradimento tra i cittadini russi).
 
Ma il vero scacco matto è stato un altro. Anzi, sono due in realtà. Il primo è l’aver diviso l’Europa dagli Usa, con i capi di stato del vecchio continente, a parte l’eccezione francese, molto più disposti a questo punto a tenersi Assad pur di mettere fine all’immensa ondata migratoria che sta investendo l’Ue. Il secondo, invece, è l’aver messo in secondo piano la crisi ucraina, riuscendo de facto a congelarla, dimostrando di essere lui a muovere i fili della politica e della diplomazia in quello che considera il giardino di casa sua. 

L’Allemagne demande aux États-Unis la levée des sanctions contre la Russie

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L’Allemagne demande aux États-Unis la levée des sanctions contre la Russie
 
Le gouvernement fédéral commence à réaliser avoir été doublement piégé par les Américains!
 
 
Ex: http://www.bvoltaire.fr
 

La preuve criante de la vassalité de l’Allemagne aux États-Unis est apportée. C’est fou que ce Merkel est naïve, malléable, influençable, incompétente, peu prévoyante pour son peuple et nous autres Européens ! C’est tout aussi fou que Hollande soit le double caniche de Merkel-Obama au détriment des Français.

Le gouvernement fédéral commence à réaliser avoir été doublement piégé par les Américains. Les sanctions contre la Russie ont provoqué l’effondrement des exportations. Le scandale Volkswagen du contrôle antipollution met la branche industrielle la plus importante du pays sous pression. Dans ce contexte, Sigmar Gabriel, ministre fédéral de l’Économie, souhaite que les sanctions contre la Russie soient levées. Cette déclaration est un appel à l’aide aux Américains, lesquels, selon leurs propres déclarations, ont forcé l’Union européenne à participer aux sanctions. En effet, les Américains ont ouvertement admis avoir contraint l’Union européenne aux sanctions contre la Russie. C’est Joe Biden en personne qui déclarait qu’il était important, aux yeux d’Obama, que l’Europe puisse faire l’effort de subir des dommages économiques pour punir les Russes.

Ces déclarations de Biden prouvent que Merkel et ses collègues de l’Union européenne, Hollande en tête de tous les autres caniches, ont, sur ordre de Washington, porté préjudice à leurs peuples. Ils se sont rendus coupables de soumission aux intérêts américains. L’on admirera au passage le sang-froid de Vladimir Poutine et de son ministre Sergueï Lavrov, qui sortent grandis de cette affaire, désastreuse pour les Européens, et nous Français en particulier ! L’Allemagne piégée s’agite pour sortir de ce guêpier économique, quand Hollande vend les Mistral aux Égyptiens, payés par les Saoudiens, tout en perdant de l’argent. Chapeau, les artistes ! De cette histoire est à espérer que les Européens, la France en premier, retiennent la leçon. Il faut se rapprocher de la Russie, dont nous sommes culturellement proches « De Brest à Vladivostok » et, ainsi, mettre un terme à cette uni-polarité sous emprise exclusivement américaine.

Sigmar Gabriel a déclaré vendredi 24 septembre, à Berlin, que l’on ne peut demander aux Russes de collaborer sur le dossier syrien si les sanctions ne sont pas levées. « Chacun doit être assez intelligent pour savoir qu’on ne peut garder des sanctions ad vitam æternam et, de l’autre côté, vouloir collaborer ensemble. » Pour commencer de meilleures relations, il faudrait commencer par mettre en place un second pipeline et lever les sanctions contre la Russie. Gabriel continue : « Le conflit en Ukraine ne peut continuer à endommager les relations de l’Allemagne, de l’Europe et des États-Unis, pour que la Russie fasse défaut en Syrie. » Les déclarations de Gabriel viennent un peu tard. Les Russes ont déjà commencé à intervenir en Syrie, sans même « l’autorisation » américaine, et cela dans leur propre intérêt.

mardi, 29 septembre 2015

Traditional Britain Conference


Great speakers (one of whom will comment upon the mass immigration crisis), great surroundings and a wide range of attendees. It's the premier UK traditionalist event, the Traditional Britain Conference! A day of intellectually stimulating talks, followed by an evening of great conversation and meeting of like-minds. Register your place here: http://traditionalbritain.org/…/traditional-britain-confer…/ Early bird booking ends soon - October 1st!

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Quand la réalité vient sèchement démentir le monde virtuel que s’était construit les élites occidentales...

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Quand la réalité vient sèchement démentir le monde virtuel que s’était construit les élites occidentales...

Entretien avec le Prof. David Engels

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par David Engels à Atlantico et consacré à la réaction des élites européenne à la crise multiforme qui touche leur continent. Professeur d'histoire à l'Université libre de Bruxelles, David Engels a récemment publié un essai fort intéressant intitulé Le déclin - La crise de l'Union européenne et la chute de la République romaine (Toucan, 2013).

Atlantico : En quoi des évènements majeurs comme ceux de Charlie Hebdo au mois de janvier, mais aussi la crise des migrants que l'Union européenne gère péniblement, ont-ils pu constituer un choc pour la vision qu'avaient les élites occidentales du monde ? Dans quelle mesure ces dernières se voient-elles bousculées ?

David Engels : En analysant les diverses expressions d’opinion dans les grands médias, je ne suis pas certain de la mesure dans laquelle on peut vraiment parler d’un bousculement des opinions établies au sein des élites occidentales. Certes, les nombreux drames humanitaires et sécuritaires des derniers mois ont été vécus comme extrêmement affligeants, à la fois par le grand public et par les milieux politiques et intellectuels, mais ce qui l’est encore plus, c’est l’absence totale de véritable remise en question d’une certaine vision du monde qui est à l’origine de ces drames.

Comprenons-nous bien : quand je parle ici de « responsabilité », ce n’est pas dans un sens moralisateur, mais au contraire, dans un sens pragmatique. Car il faut bien séparer deux aspects : d’un côté, le drame migratoire, la crise économique et les dangers du fondamentalisme musulman nous mettent devant des contraintes morales et nécessités pragmatiques que nous ne pouvons nier sans inhumanité ; d’un autre côté, il faudrait enfin cesser d’ignorer que ces crises sont en large part dues au dysfonctionnement politique, économique et identitaire profond de notre propre civilisation.

Il faudrait enfin accepter les nouveaux paradigmes sociaux qui s’imposent et prendre les mesures, à l’intérieur comme à l’extérieur, pour arrêter la casse, au lieu de surenchérir sur nos propres erreurs. Car c’est exactement ce que nous faisons pour le moment. Le refus de mener une politique extérieure européenne digne de ce nom a-t-il laissé le champ libre aux interventions des États-Unis et provoqué un exode ethnique sans pareil ? Retirons-nous encore plus de notre responsabilité politique et cantonnons-nous à faire le ménage des autres ! La libéralisation de l’économie nous a-t-elle poussés dans une récession sans pareil ? Pratiquons encore plus de privatisations et d’austérité ! Le remplacement des valeurs identitaires millénaires de notre civilisation par un universalisme matérialiste et individualiste a-t-il créé partout dans le monde la haine de notre égoïsme arrogant ? Prêchons encore plus les vertus d’un prétendu multiculturalisme et de la société de consommation !

Dès lors, le véritable enjeu n’est pas la question de savoir s’il faut accueillir ou non les réfugiés syriens, iraquiens ou afghans – la réponse découle obligatoirement des responsabilités de la condition humaine –, mais plutôt la nécessité d’œuvrer courageusement et efficacement pour que les réfugiés puissent rapidement retourner chez eux et trouver un pays stabilisé, au lieu de rester en Europe et d’être exploités soit par une économie en recherche d’une main d’œuvre bon marché, soit par des groupuscules islamistes fondamentalistes. Le véritable enjeu, ce n’est pas l’assainissement des finances grecques, mais plutôt la réforme d’un système économique global permettant à des agences de notation privées de rendre caduques toutes les tentatives désespérées de diminuer les dettes souveraines des États avec l’argent des contribuables européens. Le véritable enjeu, ce n’est pas la question de savoir s’il faut renvoyer chez eux les nombreux étrangers nationalisés depuis des décennies, mais plutôt, comment les intégrer durablement dans notre société et maintenir le sens de la loyauté et solidarité envers notre civilisation européenne.

D'ailleurs, comment décririez-vous cette vision "virtuelle" du monde d'après ces élites ? En quoi consist(ai)ent ces représentations mentales ?

David Engels : La vision du monde développée par la majorité de nos élites actuelles est caractérisée, consciemment ou inconsciemment, par une profonde hypocrisie me faisant souvent penser à la duplicité du langage idéologique pressentie par Orwell, car derrière une série de mots et de figures de pensée tous aussi vaticanisants les uns que les autres, se cache une réalité diamétralement opposée. Jamais, l’on n’a autant parlé de multiculturalisme, d’ouverture et de « métissage », et pourtant, la réalité est de plus en plus caractérisée par l’hostilité entre les cultures et ethnies. Jamais, l’on n’a autant prêché l’excellence, l’évaluation et la créativité, et pourtant, la qualité de notre système scolaire et universitaire est en chute libre à cause du nivellement par le bas généralisé. Jamais, l’on n’a autant fait pour l’égalité des chances, et pourtant, notre société est de plus en plus marquée par une polarisation dangereuse entre riches et pauvres. Jamais, l’on n’a autant appelé à la protection des minorités, aux droits de l’homme et à la tolérance, et pourtant, le marché du travail est d’une dureté inouïe et les droits des travailleurs de plus en plus muselés. Jamais, l’on ne s’est autant vanté de l’excellence de nos démocraties, et pourtant, la démocratie représentative, sclérosée par la technocratie et le copinage à l’intérieur, et dépossédée de son influence par les institutions internationales et les « nécessités » de la globalisation, a abdiqué depuis bien longtemps. Force est de constater que non seulement nos élites, mais aussi les discours médiatiques dominés par l’auto-censure du « politiquement correct » sont caractérisés par un genre de schizophrénie de plus en plus évidente et non sans rappeler les dernières années de vie de l’Union soviétique avec son écart frappant entre la réalité matérielle désastreuse d’en bas et l’optimisme idéologique imposé d’en haut…

david engels,actualité,europe,affaires européennes,politique internationale,entretien,déclin,déclin européenCertains intellectuels avancent l'idée que cette déconnexion découle de la fin de la guerre froide, qui les aurait contraint à penser le monde de manière pragmatique. Comment expliquer que ces élites en soient arrivées-là ?

David Engels : Oui, la fin de la Guerre Froide me semble aussi être un élément crucial dans cette équation, car la défaite de l’idéologie communiste et le triomphe du capitalisme ont fait disparaître toute nécessité de respecter l’adéquation entre discours politique et réalité matérielle afin de ne pas donner l’avantage à l’ennemi idéologique, et ont instauré, de fait, une situation de parti unique dans la plupart des nations occidentales. Certes, nous maintenons, sur papier, un système constitutionnel marqué par la coexistence de nombreux partis politiques, mais la gauche, le centre et la droite sont devenus tellement proches les uns des autres que l’on doit les considérer désormais moins comme groupements idéologiques véritablement opposés que comme les sections internes d’un seul parti.

De plus, n’oublions pas non plus l’ambiance générale de défaitisme et d’immobilisme auto-satisfait qui s’est installée dans la plupart des nations européennes depuis déjà fort longtemps : la valorisation de l’assistanat social, l’américanisation de notre culture, le louange de l’individualisme, la perte des valeurs et repères traditionnels, la déconstruction de la famille, la déchristianisation, l’installation d’une pensée orientée uniquement vers le gain rapide et la rentabilité à court terme – tout cela a propulsé l’Europe dans un genre d’attitude volontairement post-historique où l’on vivote au jour le jour tout en laissant la solution des problèmes occasionnés aujourd’hui à de futures générations, selon cette maxime inoubliable d’Henri Queuille qui pourrait servir de devise à la plupart de nos États : « Il n'est pas de problème dont une absence de solution ne finisse par venir à bout. »

A quel point est-ce que ce décalage a pu s'observer ? Quels en sont, selon vous, les exemples les plus marquants ?

David Engels : Le potentiel d’un décalage formidable entre l’idéal et la réalité des démocraties libérales modernes s’est déjà manifesté dans l’entre-deux-guerres, période d’ailleurs non sans quelques ressemblances évidentes avec la nôtre. Mais la Guerre Froide, avec l’immobilisme de la politique étrangère qu’elle a imposée aux États et avec les avantages sociaux qu’elle a apportés aux travailleurs dans les sociétés capitalistes, a, pendant quelques décennies, endigué cette évolution. Néanmoins, au plus tard depuis le 11 septembre, il est devenu évident que l’Occident fait fausse route et va de nouveau droit dans le mur. Ainsi, en mettant délibérément de côté l’importance fondamentale des identités culturelles au profit d’une idéologie prétendument universaliste, mais ne correspondant en fait qu’à l’idéologie ultra-libérale, technocratique et matérialiste développée dans certains milieux occidentaux, l’Ouest a provoqué l’essor du fondamentalisme musulman et ainsi le plus grave danger à sa sécurité. De manière similaire, en contrant le déclin démographique généré par la baisse des salaires et l’individualisme érigé au titre de doctrine officielle par l’importation cynique d’une main d’œuvre étrangère bon marché sans lui donner les repères nécessaires à une intégration efficace, nos élites ont durablement déstabilisé la cohésion sociale du continent. De plus, en concevant l’Union européenne non comme un outil de protection de l’espace européen contre les dangers de la délocalisation et de la dépendance de biens étrangers, mais plutôt comme moyen d’arrimer fermement le continent aux exigences de ces « marchés » aussi anonymes que volatiles et rapaces, nos hommes politiques ont créé eux-mêmes toutes les conditions nécessaires à la ruine des États européens structurellement faibles comme la Grèce ainsi qu’à la prise d’influence de quelques grands exportateurs comme l’Allemagne. Finalement, en appuyant les interventions américaines en Afghanistan et en Iraq, puis en projetant, sur le « printemps » arabe, une réalité politique occidentale, l’Europe a été complice de la déstabilisation du Proche Orient et donc de l’exode de ces centaines de milliers de réfugiés dont le continent commence à être submergé. Et je pourrai continuer encore longtemps cette liste illustrant les égarements coupables de nos élites politiques et intellectuelles…

David Engels (Atlantico, 20 septembre 2015)

Comprendre l'Islam, entretien avec Guillaume Faye pour son nouveau livre

Comprendre l'Islam, entretien avec Guillaume Faye pour son nouveau livre

http://editionstatamis.com/2015/09/18...

05:41 L'islamisme véritable nature de l'Islam ?
08:40 Possibilité d'islamisation massive de la France et de l'Europe dans l'avenir ?
10:50 l'invasion des Francs et Wisigoths est-elle comparable à celle des musulmans ?
14:54 L'idéologie égalitariste est-elle responsable ?
19:16 Quelle est l'origine de DAESH et peuvent t-ils avoir des combattants sur le sol français dans l'avenir ?

Lo zen delle vette

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Lo zen delle vette

La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota

di Giulia Pompili

Ex: http://www.ilfoglio.it

Nel centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un piccolo cimitero dedicato agli alpinisti. Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi non ce l’ha, viene ricordato con una lapide dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là c’è una targa che ricorda il gemellaggio di Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché protetto da cinque vette, il luogo di ritiro invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi. Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14 luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter Taugwalder figlio. Ma durante la discesa, ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello di Lord Francis Douglas riposa ancora sul Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si salvarono erano due guide alpine.

“Adesso, che sono ormai quasi vecchio e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma ben assicurato alla corda di una paziente guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai capicordata, alle guide, e soprattutto agli accademici e a quelli che, senza avere la formale laurea, appartengono tuttavia alla loro intrepida famiglia, ora capisco come unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a seguire lo stato di avanzamento dei lavori per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione d’amore” che ebbe inizio quando aveva quindici anni con la vetta della Croda da Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2” – che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta. Fu un’ammissione sincera, dopo anni di menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche e di tritacarne mediatici, di arditismo, di bugie che finiscono per sbattere contro con la nuda verità della roccia. Quella stessa roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili (“La gente che si accontenta di guardare le montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla Lettura nel 1933).

Poco prima di morire, il 28 gennaio del 1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di difficoltà, nel suo scalare, eppure parla delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi, quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da Mondadori – che lo aiutarono a scalare. Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla senza di loro. La montagna è anche questo, spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti. Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.

Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Mario aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una famiglia di operai romani il 7 maggio del 1938, Luigi Mario è stato il primo romano a diventare guida alpina. A dire la verità, Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro Engaku a raccontare la sua storia nel libro “Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni Monte Rosa. Anche lui, come succede ai grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como, mentre la spedizione italiana scalava il K2. Frequentavo il secondo anno della scuola professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Facevamo il giro del lago e nel vedere tutte quelle rocce, così importanti poi per la mia crescita alpinistica, pensai ad alta voce che sarebbe stato bello montarci sopra. […] L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche giorno dopo volle raggiungere in bicicletta il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli alpini.

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Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto mica ce sta er buro. Una frase che Luigi Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema, questo punto supremo al quale si sacrifica tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate più difficili davano certo sensazioni più forti delle altre ma rimanevano sul piano della sensazione, richiedendone altre più forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una scrittura schietta, decisa. Come quando un maestro giapponese insegna le do (le vie di ascesi, di cui fanno parte anche le arti marziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle do giapponesi il maestro è il depositario dell’arte che si vuole apprendere e in lui si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la trasmissione dell’arte e al suo maestro ha promesso di trasmetterla con sincera fede ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante il suo quinquennio d’insegnamento in Giappone. Basandosi su ciò che aveva imparato, nel 1953 pubblicò il famoso libro “Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che da noi erano considerati né più né meno che degli sport.

E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller sul “magico potere del riordino. Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che scoperta. Ogni volta che sento parlare di lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La sua preparazione è un rito. E il nemico, l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale, perché non esiste cosa che non abbia un peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi conosce la montagna conosce il peso di ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa che viene portata fino in cima. Per ore si cammina in silenzio, perché ogni respiro è dedicato all’unico scopo di salire. Come nelle discipline orientali, la respirazione è il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto: “Negli speciali riguardi delle ascese alpine (s’intende: là dove non si tratta di salti, di pareti da scalata – là dove l’ascensione, per quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perché qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin da subito le energie normali, ed entrare nello stato di ritmo e di “instancabilità”, mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi, ogni sforzo effettuato per raggiungere la vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”.

Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in tutte le culture antiche, sia occidentali sia orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di Evola. E non è un caso se Messner è uno di quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di mezzo secolo fa – non stette uno sportman, ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa idea, le grandi ascensioni dovevano essere esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un impulso alla liberazione e alla vita ‘in un più spirabil aere’”.

 

Invitation to Become Who We Are

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BECOME WHO WE ARE
10/31/15
Washington, DC

Registration: http://NPIEvents.com
Eventbrite: http://becomewhoweare.eventbrite.com

 

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Archerie et arts martiaux japonais

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ARCHERIE ET ARTS MARTIAUX JAPONAIS

Le paradis perdu

Rémy Valat
Ex: http://metamag.fr 

Le Sentier, la Voie « n’est rien d’autre que le méridien central sis au cœur de la moelle épinière à travers lequel le pratiquant au cours de sa vie cherche à s’élever de l’obscurité (l’ego) vers la lumière (le Soi). » Michel Coquet, "Le Kyûdô".


L’histoire des guerriers japonais, leurs techniques de combat et leur éthique fascinent le public occidental. Études, romans, films, animations et mangas nous offrent une image souvent trompeuse sur ces hommes dépeints comme des fanatiques, des serviteurs zélés, fidèles jusqu’à la mort, le drame de la Grande Guerre en Asie, venant pour beaucoup, confirmer cette interprétation des guerriers japonais. La guerre terminée, le Japon pacifié et placé sous tutelle nord-américaine, s’efforce d’oublier ce passé violent et militariste et de forger une nouvelle image, que l’on appelle depuis peu, le Cool Japan. La soif du public européen et nord-américain pour une spiritualité exotique, et par conséquent plus vrai, plus authentique, a favorisé le développement en Occident des arts martiaux modernes, exportés du Japon.

Le budô, apparu au début de l’ère Meiji, représente aujourd’hui l’image que le Japon et les Japonais souhaiteraient se donner d’eux-mêmes au monde. Un grand écart donc entre le Hagakure de Yamamoto Tsunetomo (et son apologie contemporaine, Le Japon moderne et l’éthique samouraï de Mishima Yukio) et les publications contemporaines sur les arts martiaux mettant en avant le développement personnel masquant en réalité, dans le cas du kendô par exemple, une activité sportive occidentalisée. Le livre de Michel Coquet, « Le kyûdô, art sacré de l’éveil », paru cette année aux éditions du Chariot d’Or (groupe éditorial Piktos) apporte un éclairage « objectif », reposant sur une longue et sincère "expérience" de la méditation, des arts martiaux en général et du kyûdô en particulier. Il existe une multitude d’ouvrages sur un sujet vendeur qui fait le bonheur des auteurs et éditeurs spécialisés, dont il ne faut pas diminuer l’importance et le rôle dans la connaissance- et bien souvent la méconnaissance - de la culture martiale japonaise. Il est préférable de jeter un voile pudique sur le manque de fondement (et de profondeur) de certains de leur propos (tel ce grand maître de ïaïdô japonais au « keikogi » bariolé, qui nous laisse découvrir non seulement des techniques prétendument avancées, apprises dès la première année au Japon avec un professeur digne de ce nom, mais aussi son beau caleçon bleu...).


kyudo82360470525.jpgLoin du tape-à-l’oeil, Michel Coquet, né en 1944, a sincèrement voué sa vie à l’apprentissage des arts martiaux japonais (karaté, kenjutsu, ïaïdô, kyûdô, aïkidô, etc.), un apprentissage spirituel, car le budô, la voie du guerrier, ne peut être assimilée à un sport ou à une discipline olympique (tel le judô, et comme une partie de la fédération internationale de kendô le souhaiterait). Au Japon, une grande compagnie de sécurité sponsorise des lutteurs, des kendôkas, et les "matches de sumo" flairent bon le business... Actuellement le budô inclut de multiples disciplines, comme le judô, le kyudô, sumô, l’aïkidô, shôrinji kempô, naginata, jukendô : le guerrier de jadis est aujourd’hui éclaté en de multiples disciplines édulcorées. En somme, « budô » désigne les « arts martiaux » depuis l’ère Meiji (1868-1912). Avant cette date, on employait les termes de « bugei » et de « bujutsu », et même « l’ancienne voie du guerrier », ou « kobudô » est un néologisme. Bugei, ou l’ « art du guerrier » est une appellation caractéristique de la période d’Edô, où l’art militaire s’inspirait des autres domaines artistiques, comme le noh (pour les déplacements et les postures) ou la cérémonie du thé (les katas), ce qui manifestait une volonté d’esthétiser les techniques de combat. 


Les auteurs contemporains rappellent non sans raison que l’idéophonogramme désignant le guerrier « bu » (武) se décompose en « hoko », partie supérieure du tracé ressemblant à deux lances entrecroisées signifiant « lance, hallebarde » et, dans sa partie inférieure « tomeru » (止arrêter), soit une idée défensive, proche de l’idéal de la shinkage-ryu, le « sabre de vie ». L’interprétation la plus satisfaisante, car la plus ancienne, rappelle que le radical « tomeru » serait dérivé d’un idéogramme d’une graphie proche signifiant « pied » ce qui désignerait l’homme portant les armes pour la bataille ou le fantassin. Une autre, toute aussi pertinente et en relation avec l’objet du livre de Michel Coquet, serait que l’ensemble du kanji « bu » serait un dérivé d’un autre idéogramme homophone désignant la « danse », en particulier dans sa dimension religieuse, ce qui souligne la place de la spiritualité dans les arts martiaux depuis leur origine. 


La « Voie » (道) est un terme polysémantique signifiant prosaïquement « point de passage », « voie », « distance », un terme qui se réfère aussi à des concepts philosophico-religieux, comme une manière d’agir, un domaine de la connaissance, une discipline, un état, une essence, un secret... Dans la Chine antique, et en particulier le taoïsme, il était employé en référence aux grands principes de l’univers. Dans son acception contemporaine, « dô » insiste sur l’importance spirituelle, et non uniquement sportive ou physique, de l’individu. La « Voie » est un moyen de développement et d’accomplissement personnels. Le kyûdô est celle de l’arc, un chemin comme tant autre susceptible de conduire à l’éveil (au sens bouddhique du terme).


Après l’invention du propulseur, l’arc est la première machine issue de l’imagination humaine, une machine autonome permettant de dépasser les limites de l’anatomie, une machine permettant de tuer aussi bien pour se nourrir que pour assurer la défense du groupe. Elle était l’arme de prédilection des communautés de chasseurs-cueilleurs, et pour tous ces motifs cette arme faisait l’objet de vénération (lire Michel Otte, À l’aube spirituelle de l’humanité, Odile Jacob, 2012). Dans son ouvrage, Michel Coquet se concentre sur l’aire culturelle asiatique, et en particulier l’antiquité du sous-continent indien, la Chine et le Japon. L’arc tient une place importante dans les mythologies et les traditions asiatiques (et indo-européennes, il suffit de se rappeler les épreuves infligées par Pénélope à ses prétendants...): l’auteur consacre un beau chapitre à la lecture et à la compréhension du « joyau spirituel » qu’est la Bhagavad Gîtâ", mythe mettant en scène l’archer Arjuna, engagé dans une bataille plus spirituelle que militaire, la bataille pour la réalisation de soi. 


D’un point de vue historique et technique, les premières écoles d’archerie nippones seraient, selon la tradition, apparues au tournant des VIe et VIIe siècles au moment de l’introduction du bouddhisme dans l’archipel nippon. L’arc était utilisé monté et il était primordial pour un guerrier de savoir tirer à cheval, et diverses formes d’entraînement ont été mises au point : le tir sur un cheval lancé au galop, une chasse à courre ayant pour cible des chiens, ou bien encore le tir à longue distance à l’aide d’un arc spécifique, le tôya. L’arc était la pierre-angulaire des stratégies développées sur le champ de bataille, et les archers les plus habiles, capturés par l’ennemi, étaient parfois mutilés pour les empêcher de reprendre du service (pendant la Guerre de Cent Ans en Europe, on amputait un ou plusieurs doigts des archers faits prisonniers (souvent l’index et-ou- le majeur, pratique à l’origine du doigt d’honneur).

L’introduction des armes à feu par des marins portugais, en 1543, changera la donne, comme en Europe l’archerie est alors condamnée : d’habiles forgerons parvinrent à imiter et à améliorer les prototypes originaux et bon nombre de fusils de fabrication japonaise seront exportés de par l’Asie. Toutefois, le fusil restera une arme sans valeur spirituelle, car dans le fond, les Japonais appréciaient les duels ou les moyens de mettre en valeur leur habileté et leur courage, ce qui était le cas des tireurs à l’arc monté et des fantassins combattant à l’arme blanche. Lors de son séjour au Japon (1969-1973), Michel Coquet s’initia au kyûdô, et son dernier livre revient sur cette expérience, car dans les arts martiaux, la seule réalité c’est l’Expérience. Les katas que l’on répète inlassablement et avec sincérité pour maîtriser une technique martiale font partie de l’enseignement traditionnel, comme jadis l’apprentissage par la répétition et les moyens mnémotechniques ( il suffit de relire l’Odyssée ou l’Illiade pour s’en rendre compte). La posture du corps, la manière de marcher, la respiration, participent à cette quête de la « non-pensée » ou du « temps éclaté » (le terme est de Kenji Tokitsu), toutes ces petites choses « oubliées », broyées par la conscience (et la modernité) et pourtant fondamentale et caractéristiques de notre espèce. À l’exception de quelques erreurs historiques mineures (concernant surtout la protohistoire), qui tiennent à mon avis à la difficulté d’accès à une documentation récente, le livre de Michel Coquet pose les bases de la philosophie et de la pratique de l’arc traditionnel japonais ; même si ce livre complète (et est sur bien des points plus accessible) le livre de Eugen Herrigel, « le zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc », rien ne vaut, comme le souligne Michel Coquet, la pratique avec un bon « sensei »... Une pratique sans esprit de compétition ou de recherche de résultat : au kendô deux adversaires qui se frappent en même temps marquent des points, dans la réalité brute, ils seraient morts... Ici, l’ennemi s’est surtout soi-même...


La pratique des arts martiaux contient intrinsèquement un rapport avec la mort, et cette relation aide au détachement et à mieux vivre... Le kyûdô répond à ce besoin d’union avec le réel, ce paradis perdu, peut-être le « Sacré éladien » tapi au fond de chacun d’entre-nous. Cette quête du paradis perdu, que d’aucuns compensent, une bière à la main, en regardant Games of the Trone, c’est aussi un phénomène de société : le grand malheur de l’Occident est d’avoir « oublié », d’avoir dénigré notre culture et nos valeurs martiales et spirituelles : il y a quelque chose à puiser dans l’esprit de la chevalerie et les valeurs martiales, sans pour autant y voir l’ombre du fascisme. Les arts martiaux traditionnels créent du sens et sont vraiment un moyen de réenchanter le monde. 


Michel Coquet, «Le KYÛDÔ - Art sacré de l’éveil» aux éditions Chariot d'Or, Format : 15,5 x 24, pages : 320, 25 €

lundi, 28 septembre 2015

Smoke & Surrealism: Don Salvadore Dalí, the Original Mad Man

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Smoke & Surrealism:
Don Salvadore Dalí, the Original Mad Man

By James J. O'Meara

Dalisbook-188x300.jpgCarlos Lozano and Clifford Thurlow
Sex, Surrealism, Dali and Me: The Memoirs of Carlos Lozano [2]
2nd ed.
YellowBay.co.uk, 2011

“In the next century, when children ask ‘Who was Franco? They will answer: he was a dictator in the time of Dalí.” — Don Salvador Dalí

“The only difference between Dalí and a mad man is that Dalí is not mad.” — Don Salvador Dalí 

Having just published a book[1] that makes extensive use of the “paranoiac-critical method [3]” of Don Salvatore Dalí,[2] I was pleased as Punch[3] when this item appeared on my Kindle radar.

Surely the only contribution made by that insufferable poseur, André Breton, with his “surrealist” movement[4] was as what we used to call in grad school a “reliable anti-authority;” anyone deemed by this self-proclaimed Pope of Surrealism as traitor and purged was, ipso facto, worthy of interest — most notably, Artaud[5] and Dalí.[6]

Our memoirist is in some ways a typical child of the ’60s, at least the way the ’60s are supposed to have been; hitchhiking around like Kerouac, reading Hermann Hesse. Born in Colombia, the family moves to America, he loses his father (of course) and eventually makes his way to San Francisco. After a plentiful course of drugs, he’s taken up by the Living Theatre — and in particular an older woman calling herself Gypsy — and brought to Europe, where he is abandoned by the troop. A reading of the Tarot (a legacy of Gypsy) leaves him “resolved to shed all fears and doubts and be myself.” He “had been left, not to starve, I realized, not to fail, not to fall beneath the wheel,[7] but to flow with the turning of the wheel.”[8]

San Francisco was fading from my memory. America was an alien planet floating in the void of wild uncharted waters.

Europe was different. Europeans seemed to have been born with a feeling for art and literature, poetry and beauty. Old men in bars read Camus.[9]

Salvador Dali with a painting of Jose Antonio Primo de Rivera [4]

Salvador Dalí with a portrait of José Antonio Primo de Rivera

As we have often pointed out before, one needs to carefully distinguish the wheel, or circle, from the spiral; the former is the pattern of futile repetition (such as the Wheel of Fortuna or the Wheel of Rebirth) while the latter is the pattern of escape from the wheel and rising to a higher level (the Turn of the Screw). Carlos does not return to America, or Colombia, nor does he merely take up residence in Europe, like so many “artistic” Americans. Rather, he undergoes a metamorphosis, an archeofuturistic return of the Pagan to modern day Europe.

My earliest desire as a young adult had been to work as a teacher, to be a pillar of society. But LSD had allowed me to decode my DNA and, through its foggy mysterious influence, I had reprogrammed myself.

I had arrived home. Five days in Paris and the pagan darkness of the New World[10] was melting from my genes.

It comes as no surprise that Carlos is a dancer, “Isadora Duncan relived.”[11] As such, he understands and responds as he “moved in the spiraling patterns of savage nature.”

But to be complete, more than just drugs are needed.[12]

But then, the inexplicable happens, and he meets, and is taken up by Salvatore Dalí. The relationship is formally pederastic, of course, but that shouldn’t put you off, as Dalí is old enough to be more interested in pedagogy, so little here would shock, say, Jerry Falwell.[13] Besides,

Dalí, I would learn, was only a voyeur, the great masturbator, but his inclination was decidedly pederast. He liked inexperienced boys, androgynes particularly, transsexuals explicitly.[14] He bathed in the bizarre, the unnatural, the surreal; he had orgasms over the outrageous, the lascivious and lewd. He was enthralled by Le Pétomane, the French music hall performer whose act consisted of nothing but farting and he loved farting himself. “The French live to eat. I eat to fart.”

The reader, of course, is less interested in Carlos’s schooling than in Dali’s antics. Dali sits at a café casually twisting tin foil and wax into sculptures he will sell for thousands; “I was a sheet of tinfoil ready to be turned and twisted. Soft wax in the hands of the perverter.”[15]

It was a continuous show. You were with an unconventional, singular personality. A star. Anything could happen. And it always did. I never tired of being with Dalí. Even when he was nasty I still adored him. He was like a lobster: masses of shell, tough on the outside, hard on the inside, and just a morsel of soft sweet meat.[16]

Dali’s acts and words seem illogical, absurd, unmotivated, only because we, unlike Dali, cannot follow the subliminal, sublime, surrealistic chord that unites them all.

“We spend one third of our lives on an oneiric treasure island. You must build bridges to the mainland and follow me through the invisible passages that join the waking and dream states and lead to the realm where all contradictions reach a hyper-lucidity of irrationality.”

What we said was forgettably brilliant, all nonsense and all so meaningful I knew intuitively it was far better talking foolishly with a genius than talking seriously with a fool.

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A good example of Dali’s paranoiac mode of living and discoursing (to the extent that they can be distinguished) occurs when Carlos debuts in the Paris production of Hair. Dali of course arrives to congratulate him, and immediately the discourse becomes pagan:

“Hermes is the God of riches and good fortune. He is the messenger, a dancer, a trickster and the Patron Saint of Thieves, something Jesus the Fish acknowledged on the Cross. He was the son of Zeus, you know.”

Par for the course, just some mythological fluff for flattering his protégé, right? Later, at dinner, a guest makes the mistake of asking Carlos “his sign,” and Dalí is set off:

“What is the sign of Jesus?’ he roared. Dado shrugged like a good Italian. “Capricorn,” he said. “The early Christians changed the birthdate of Jesus to comply with the mid-winter celebrations they discovered among the savages of northern Europe. The Christian era and the Age of Pisces are contemporaneous. The very name, Jesus, transliterates as the word fish in Aramaic, his own tongue. As man or myth, he chose fishermen as disciples. Not goats.”

I sat there amazed by his theme [dancing, Hermes, thief, Jesus], amazed that it had begun before our arrival at Maxims’s.[17]

“He was a fisher of men,” he continued. “He performed miracles on the sea and with the fishes. The Gnostics sketched a fish in the dust, not a cross, to identify themselves. Jesus possessed all the qualities of Pisces, the last sign of the Zodiac and its completion of all human potentials. He was humble, emotional, unworldly and vague, unlike those who arrive in December under the sign of Capricorn, with their money worries and dreams of ruling the world. Jesus was born in the spring, a Pisces for the Age of Pisces. Violetera [Carlos] is a Scorpion, the same as Amanda [Lear, Dali’s transsexual favorite]. They will both sting me in the balls . . .” He paused.

Paused, indeed.

Dali’s main teaching is to inculcate the traditional, and Traditional, virtues of patience and repetition: “Dalí was dedicating his life to the battle against unrelenting time and decay.” The company of Hair gets an earful:

“All success comes from hard work. Hard work and patience and more hard work,” he roared, menacing the company with his walking stick. “Never trust in inspiration. You must work every day, every day, every day. Inspiration arrives through your work. It arrives through your involvement. I am a worker. A peasant. I work seventeen hours a day.”

As does Carlos:

“A Hindu once told me you find God by digging in the same hole. He was mad.[18] The substance of success is scandal and patience. Are you patient, Carlitos?”

“It is the obsession of repetition the Gods take note of.”[19]

dali ballerina.JPGDespite his “far-out” art and aberrant — but very public — lifestyle, Dalí, like most of the Great Artists of the 20th century, was at least temperamentally a man of the Right.[20] Thus, even if you have no interest, or an active dislike, of “modern art”[21] or weirdoes, you will likely enjoy this tour through this little-known world of post-War anti-Leftists, a sort of avant-garde version of the circles of the Windsors or Mosleys.[22]

Take this chap, “The Spanish Ambassador to France, a famous fascist,” who

was one of the richest men in Spain, . . . had helped to finance Franco’s uprising in the Spanish Civil War, El Caudillo had rewarded him with a diplomatic post, [and] was setting up a meeting between Don Salvador and the Conde de Barcelona, Spain’s exiled monarch and father of King Juan Carlos.

The famous fascist is confused by Carlos’ waist-length hair and patchouli scent:

[He] kissed my hand as he left the gathering. “Au revoir, Mademoiselle,” he said with a bow and Dalí was delighted. “Angels are androgynes,” he explained. “I will inspect your back. You will have scars where they cut off your wings. You have the most glorious navel. It is the privilege of princes to show their navel. I will decorate it with a ruby . . .”

Dali, of course, is dangerous to know, as the Ambassador discovers:

“They will think I’m a pederast . . .” he had said in confidence and Dalí had announced these noble doubts to the ears of the world . . .

And You-Know-Who is a distinct presence; as Dalí accepts some French literary award,

He threw out his chest, gripped his hands behind his back and only those who had sat watching old newsreels of Hitler knew who had inspired his act.

Even the waiters are fascistically suggestive:

[A] waiter . . . bore a distinct resemblance to Hitler. He had one of those awful moustaches and a wave of hair plastered to his forehead. “C’est colossal,” Dalí said. “I will put him in a film. I will show him as a kind man, a music lover, a marvelous painter. Hitler had the most wonderful sense of humour.”[23]

Parisian students, searching for a Third Way, recognize an ally:

The previous year during the Paris riots, Dalí had been driven to the Sorbonne to give a lecture on the relationship between DNA and the spiral stalks in vegetables in a Cadillac filled to the roof with cauliflowers. The students had been overturning expensive cars but when they saw Dalí they cheered.

It’s also a chance to revisit that Mad Men era of free smoking:[24]

The smoke had become thicker, hanging like dense clouds around the chandeliers.

He lit a Gauloise and the smell mingled with the street smells and Paris was everything I had imagined it was going to be.

Can you imagine the smell inside a French police station? All those Gauloises.[25]

Is it any surprise that Sterling Cooper’s art director is a closeted homosexual named . . . Salvatore?[26]

It’s unfortunate that Dalí is here well into his ’60s, so there’s no opportunity to really see genius at work. On the plus side, the book benefits from being written not by the memoirist nor by some art “expert” but by what would seem to be an old school journalist, one Clifford Thurlow, (not, fortunately, Clifford Irving[27]) who gives us a colorful and straightforward text that is a pleasure to read and, when combined with the paranoiac-surrealist acts and utterances of Dalí, produces a unique mixture, a kind of Magical New Journalist style.[28]

Highly recommended for anyone interested in that most fascinating and (deliberately) obscure area, the post-War avant-garde Right, though tolerance for a certain amount of nonsense is required.

Notes

1. End of an Era: Mad Men and the Ordeal of Civility (San Francisco: Counter-Currents, 2015). An Amazon reviewer of the text under discussion here notes that “like the keenest FaceBook digital networkers of today, [Dalí] knew how to promote himself, an innate skill practised long before the Mad Men of Madison Avenue.”

2. “The paranoiac critical method of Dalí is an attempt to systematize irrational thought. . . . When asked why the centaurs in his painting, Marsupial Centaurs [5], were riddled with holes, he replied, ‘The holes are like parachutes, only safer.’ This response is often used as an example of Dalí being Dalí, purposefully obscure, self-absorbed, and downright snotty. The reader might interpret this comment as a nose thumbing, coupled with an ‘If you don’t know why the holes are there, you Philistine, I will never tell you.’ The fact is, however, that Dalí is simply stating the reason for the holes, which upon examination, becomes unmistakable, true to its Paranoiac Critical ancestry.” “THE PARANOIAC CRITICAL METHOD” by Josh Sonnier, here [6]. As an example of the transition from irrational to inevitable, consider my discussion of Clifton Webb’s Mr. Belvedere as an incarnation of Krishna in “The Babysitting Bachelor as Aryan Avatar: Clifton Webb in Sitting Pretty,” here [7]. For more on parachutes, holes, and safety, see The Skydivers by Bad Filmmaker and accidental Traditionalist Coleman Francis, as discussed in my upcoming essay “Flag on the Moon — How’d IT Get There?” Both essays will appear in the forthcoming collection Passing the Buck: A Traditionalist Goes to The Movies (San Francisco: Counter-Currents, 2016).

3. See Jonathan Bowden, “The Real Meaning of Punch and Judy,” here [8]. For another view, see Count Eric Stenbock, The Myth of Punch, edited by David Tibet (London: Durtro Press, 1999).

4. “Surrealism is not a movement. It is a latent state of mind perceivable through the powers of dream and nightmare. It is a human predisposition. People ask me: What is the difference between the irrational and the surreal and I tell them: the Divine Dalí.” — Dalí.

5. See Stephen Barber, Antoine Artuad: Blows and Bombs (London: Faber, 1993) and Jeremy Reed, Chasing Black Rainbows: A Novel About Antonin Artaud (London: Peter Owen, 1994).

6. See Dalí by J. G. Ballard, with an Introduction by Dalí (New York: Ballantine, 1974), and Diary of a Genius by Dalí, with an Introduction by J. G. Ballard (London: Solar Books, 2007). Ballard discusses surrealism on YouTube here [9].

7. A reference to Hesse’s novel of schoolboys, their crushes, and their being crushed by the System, Beneath the Wheel. The ’60s figure of Hesse crops up from time to time; Carlos meets a actor (not Max von Sydow) who will supposedly star in a (I guess never produced) film of Steppenwolf, and will talk of making a “journey to the east.”

8. Not impressed? Neither was Dalí. As for astrology: “People are no different from wine. We are born at a given moment, in a given place. There are good years and bad, from good valleys and inauspicious ones. Some bottles are shaken and the sediment fouls the taste. Some are dropped and smash into a thousand million pieces. That is astrology. Never, never speak of it again. . . . God despises astrology and prefers a well told lie to a tedious truth.”

9. Of course, some are more European than others. “I once knew an Englishman I also liked.” “Never trust the English.”

10. Unlike the repetitive circle, in the spiral things reverse, and America is “dark” and “pagan.” Burroughs also perceived the so-called “New World” as old and evil, “groveling worship of the food source” (Naked Lunch).

11. Like Krishna, or Mr. Belvedere, or indeed Clifton Webb himself; see note 2 above.

12. “He never touched drugs and barely took more than a sip of wine. ‘I am already in that place where you all want to be. Satori is in here,’ he bragged, rubbing his temples.” Elsewhere, Dali’s coterie “hopped around the room like devotees in a heathen temple.”

13. “‘Is it Hermes or Aphrodite? Is Dalí a pederast or a dirty old man? Let their tongues wag, Violetera [Carlos].”

14. As for women, “He liked the form not the touch. But there were exceptions.” Dalí would have been revolted by today’s negroid fashion in femininity: “Big breasts are the base element of the bovine principle. Women with small breasts are for pleasure. Women with big breasts are cows and cows are bred to eat and procreate.” Dalí’s inclinations seem to recall the Persian Sufi method of inducing poetic inspiration or mystical reverie by the contemplation (only) of the Beautiful Boy; see Peter Lamborn Wilson’s Scandal: Studies in Islamic Heresy (Brooklyn: Autonomedia, 1988). Need I cite Plato’s Symposium?

15. As Alan Watts pointed out, to be perverse means to move by poetry.

16. Frederic Rolfe (“Baron Corvo”) liked to compare himself to a crab. See his roman a clef Nicolas Crabbe.

17. Using Dalí’s methods, we can see that the embezzling little weasel Pryce (thief!) is really Wotan, and the Irish Catholic ad men of McCann Erikson are revealed as Judaic interlopers by their shirtsleeves; see End of an Era, op. cit.

18. Dalí has no reverence for the non-European: “It was divine wisdom to place them [Virgin and Mother] in one being. We do not need a pantheon like the Hindus and Aztecs.”

19. “If one does what God does enough times, one becomes as God is.” — Dr. Hannibal Lecter. On the other hand, Dalí is not himself insane (“I am not mad”). On his second trip to New York he smashes out of a window display, raining shards on startled Fifth Avenue passersby, just as Will Graham stops the Tooth Fairy by smashing into his kitchen via a plate glass window. Dalí is let go only when he promises “to never do it again.”

20. See Kerry Bolton’s Artists of the Right (San Francisco: Counter-Currents, 2012). Dalí shares with Dada-ist painter Julius Evola a grand contempt for the bourgeoisie: when Dalí’s favorite hotel replaces the wooden toilet seat he believes was used by King Alphonso with modern, plastic seat, he goes ballistic and forces them to find and re-install the original. Even this inspires an epic rant: “We are surrounded by moralists, hygienists and philistines. I have no confidence in my class. You can trust the aristocracy to be charming. You can trust the peasants to be vulgar. You can trust the true artist to be a madman. The bourgeois you can trust to steal the toilet from under you . . .’” This is the toilet set, over the admiration of which Dalí and Carlos bond.

21. “All art is political,” Dalí instructs his ward. “Once it is understood, it loses its power and becomes aesthetic, decorative, pedagogic.”

22. One can’t help but recall Hunter S. Thompson’s description of the Circus Circus hotel as “What the whole ‘hep’ world would be doing if the Nazis had won the war” (Fear and Loathing in Las Vegas [New York: Random House, 1972]).

23. Again, one recalls or the subtitle of Franz Liebkind’s manuscript for Springtime for Hitler: “A Gay Romp with Adolf and Eva.”

24. I discuss the Right’s obsession with tobacco in “Mad Manspreading?” here [10] and reprinted in End of An Era, op. cit.

25. The police station crops up when Carlos’ female companion doffs her blouse as they walk along a Paris street and are promptly arrested. The police, however, are easily bought off with offers of free tickets to Hair. One can’t help but think of how this genial corruption contrasts with the Nanny State howls of New York’s de Blasio and Cuomo over the “scandal” of topless women in Times Square (yes, even Times Square! Is nothing sacred?)

26. I discuss the “gay liberationist” fantasy that art directors on Madison Avenue were unknown or closeted in End of an Era, which Margo Metroland picked up on in her excellent review, here [11]. On the contrary, ad agency art departments were exactly where young men from the provinces would flock to; for example, Andy Warhol, whose career seems a kind of Americanized (i.e., trivialized) version of Dalí’s art-as-commodity.

27. Howard Hughes’ faux-biographer apparently lived among a similar colony of Spanish artists, divas and oddballs; see his contributions to Orson Welles’ F is For Fake (1975; Criterion, 2014)

28. There are a lot of odd spellings throughout, some perhaps British, some Colombian, some misprints; I have let Microsoft silently “correct” them in my quotations here.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/09/smoke-and-surrealism/

URLs in this post:

[1] Image: https://secure.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/09/Dalisbook.jpg

[2] Sex, Surrealism, Dali and Me: The Memoirs of Carlos Lozano: http://www.amazon.com/gp/product/1491038209/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=1491038209&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=X3NV2UTHBVZGHMJ7

[3] paranoiac-critical method: https://en.wikipedia.org/wiki/Paranoiac-critical_method

[4] Image: https://secure.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/04/dali_joseantonio.jpg

[5] Marsupial Centaurs: http://brain-meat.com/josh/dali/11.jpg

[6] here: http://brain-meat.com/josh/dali/dali5.htm

[7] here: http://www.counter-currents.com/2013/02/the-babysitting-bachelor-as-aryan-avatarclifton-webb-in-sitting-pretty-part-2/

[8] here: http://www.counter-currents.com/2013/03/the-real-meaning-of-punch-and-judy/

[9] here: https://www.youtube.com/watch?v=uhNE5xd_0wE

[10] here: http://www.counter-currents.com/2015/06/mad-manspreading/

[11] here: http://www.counter-currents.com/2015/09/the-ordeal-of-superficiality/

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Le Camp des saints en Croatie

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Le Camp des saints en Croatie

par Tomislav Sunic

Ex: http://www.polemia.com

Tomislav Sunić est un écrivain et traducteur américano-croate, ancien professeur aux Etat-Unis en science politique et ancien diplomate.

♦ A quelque chose malheur est bon. C’est grâce à la poigne communiste que l’Europe de l’Est, y compris la Croatie encadrée en ex-Yougoslavie, a su préserver son visage blanc et sa mémoire historique. Pendant les Trente Glorieuses les immigrés africains, levantins et maghrébins surent fort bien que leurs hôtes en France et en Allemagne seront plus samaritains que le commissaire de l’Est dont les lendemains refusèrent obstinément de chanter.

Il fut prévisible que, suite à l’actuel choc migratoire en provenance du Moyen Orient et de l’Afrique, le peuple croate crachera sa colère envers l’UE ou les immigrés – ou tous les deux à la fois.

Ayant jadis fort bien appris la pensée unique communiste, la présente vulgate multiculturelle imposée par Bruxelles compte fort peu de disciples au sein du peuple croate. Les paroles acerbes à l’encontre des immigrés, qui seraient sujets aux dispositions de la loi Fabius-Gayssot en France ou sévèrement réprimés en Allemagne en vertu du paragraphe 130 du Code pénal, sont librement proférées en Croatie par beaucoup de ses citoyens. Contrairement à la France et à l’Allemagne, les vocables « racisme », « xénophobie » ou « convivialité multiculturelle » portent en Croatie un signifié dérisoire, digne de la langue de bois communiste. Se dire blanc et catholique à haute voix est souvent considéré comme un signe d’honneur croate.

Mais il ne faut pas s’y tromper pour autant.

La classe dirigeante croate, à l’instar des autres pays est-européens, est composée dans sa grande majorité de rejetons des anciens apparatchiks yougo-communistes dont le but suprême consiste à montrer à Bruxelles que la Croatie se comporte plus catholiquement que le Pape, à savoir qu’elle est plus européiste que la Commission européenne. Le côté mimétique des dirigeants croates n’a rien de neuf, ayant été hérité du passé yougoslave où les anciens communistes croates devaient se montrer davantage comme de bons Yougoslaves et de meilleurs titistes que leurs homologues serbes. Une peur bleue d’être dénoncés aujourd’hui par Bruxelles ou Washington comme des dérives « fascistes », « racistes » ou « oustachis », fait que Zagreb ne bouge pas sans l’assentiment de Washington ou de Bruxelles. Cela est souvent le cas au gré des circonstances : quand Washington misait dans les années 1990 sur la carte albanaise et antiserbe, les nationalistes croates s’étaient vu la porte grande ouverte ; quand, en revanche, la vulgate multiculturelle devient la règle, la Croatie est censée devenir un pays dépotoir pour les nouveaux migrants.

On peut tracer un parallèle avec l’Allemagne qui doit, elle aussi, jouer à la surenchère humanitaire envers les immigrés, s’imaginant que son passé, qui refuse de passer, sera ainsi mieux neutralisé. Soumise, après la Deuxième Guerre mondiale, à une rééducation exemplaire, il n’est pas étonnant que Mme Merkel et ses amis fassent des discours ultra-humanitaristes et antifascistes. Hélas, les paroles délirantes des Allemands sur leur « Willkommenskultur » (culture d’accueil) résonnent bien différemment aux oreilles des migrants venus de l’Afrique et de l’Asie.

Le grand avantage du flux migratoire en Europe de l’Est est qu’il se déroule de façon désordonnée et imprévue, ce qui ne motive guère ni les Croates ni les Serbes ni les Hongrois à accueillir les nouveaux venus à bras ouverts. Contrairement à la tactique bolchevique du salami, à laquelle les Occidentaux s’étaient déjà bel et bien habitués, le soudain drame migratoire en Europe de l’Est semble annoncer le nouveau printemps pour tous les Européens. Notre avant-guerre a commencé !

Tomislav Sunic
24/09/2015

www.tomsunic.com

Correspondance Polémia – 26/09/2015

Migrants – La fin de l’Europe des Nations

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Migrants – La fin de l’Europe des Nations

Michel Garroté
Politologue, blogueur
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

On se demandait comment les « migrants » étaient aussi bien renseignés sur la façon d’arriver en Europe. Voici la réponse : W2Eu (Welcome to Europe, Bienvenue en Europe), un réseau de sites Internet en anglais, français, arabe ainsi que des manuels gratuits généreusement distribués donnant toutes les astuces, adresses, numéros de tél., etc. Un de ces manuels a été découvert sur une plage de l’île grecque de Lesbos par des reporters de la chaîne TV Sky News. Ces informations ont été confirmées tout récemment par Christine Tasin, Présidente de Résistance républicaine, sur le site Internet français Riposte laïque (voir le premier lien et le deuxième lien en bas de page). Rappelons tout de même que ce qui se déroule actuellement a été planifié il y a quarante ans, comme l’a démontré à maintes reprises l’historienne Bat Ye’Or (http://ripostelaique.com/linvasion-de-leurope-a-ete-methodiquement-preparee-il-y-a-quarante-ans.html).

De son côté, l’analyste Alexandre Latsa vient de publier une étude détaillée sur ces réseaux qui organisent le flux migratoire islamique massif vers l’Europe (extraits adaptés ; voir le troisième lien en bas de page) : Au cours du mois d’août 2015, alors que la crise des migrants s’est mise à faire la une de la majorité du flux médiatique global, une bien étonnante nouvelle est apparue entre les milliers de lignes d’actualité. Selon le magazine autrichien Direkt, auquel un membre des services de renseignements militaires autrichiens se serait confié, « les services secrets autrichiens disposeraient d’informations démontrant l’implication d’organisations ayant créé un système destiné à favoriser la dynamique migratoire que l’Europe subit ».

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Reprise uniquement sur différents médias non-alignés, cette information avait jusqu’alors paru fantaisiste et surtout relever d’une tendance complotiste américanophobe. Pourtant, peu à peu, Internet a fait son travail et la marée montante d’informations a permis aux commentateurs attentifs ici et là de commencer à récupérer et mettre en lien des informations plus que surprenantes et pour le moins inattendues. Il y a tout d’abord eu l’apparition publique de cette galaxie d’ONG d’extrême gauche à l’ADN majoritairement allemand, ONG qui ont déployé une énergie considérable à faire absorber de force ce flux humain dont plus personne ne connaît réellement aujourd’hui la réelle dimension, mais dont tout le monde peut constater à quel point il est de densité suffisante pour avoir mis à mal la vie sans frontières des vieilles Nations européennes.

Les Allemands ne sont cependant pas les seuls coupables de cette collaboration envers des migrants dont on comprend bien qu’il sera difficile de les inciter à repartir en Libye, Irak ou Somalie après avoir eu un aperçu même sommaire et brutal de la vie en Scandinavie, en France ou en Allemagne.

De nombreux projets croisés et transnationaux ont commencé à voir le jour, comme par exemple l’association franco-allemande SOSMEDITERRANNEE qui bénéficie notamment de subventions de BNP Paribas afin de « sauver des migrants et les accompagner vers les dispositifs d’information et d’assistance aux migrants sur le territoire européen » (Source).Ne faudrait-il pas plutôt commencer par prévenir le suicide chez nos agriculteurs ou nos petits artisans, aider nos jeunes femmes dans le besoin (les futures mères européennes), parfois contraintes de se prostituer pour payer leurs études, ou tout simplement s’occuper des dizaines de milliers de SDF qui jalonnent les rues des villes européennes ?

Cette affaire européenne n’en est peut-être pas une .Il y a d’abord cette surprenante nouvelle qui tombe à point nommé, à savoir la naissance en Grande-Bretagne d’un nouveau type d’établissement financier destiné aux étrangers et aux migrants et leur permettant d’ouvrir un compte en ligne en s’épargnant les habituelles tracasseries administratives. Il y a ensuite cette analyse minutieuse faite par Vladimir Shapak. Vladimir Shapak est le créateur d’une application du nom de Scai4Twi  permettant l’analyse de l’ADN d’un Tweet, à savoir son contenu et son origine territoriale. L’analyse de plus de 19.000 tweets liés à la thématique des « migrants » a ainsi permis de tirer des conclusions bien étonnantes. Tout d’abord, 93% des tweets émis contenaient des informations positives sur l’Allemagne et l’Autriche et 76%  contenaient des hashtags #RefugeesWelcome+Germany, alors que seuls 6% de ces messages étaient émis d’Allemagne, 36% de sources géo-localisées en Angleterre et en Amérique, parmi lesquelles de nombreux éminents médias américains ou responsables d’ONG américaines dont le trafic de tweets a été particulièrement important, comme on peut le constater  ici.

Plus étonnant encore, les liens forts discrets mais surprenants qui entourent la puissante association allemande Fluchthelfer. Fluchthelfer est un site militant appelant les citoyens européens à devenir des « agents d’évasions » en covoiturant des migrants de façon citoyenne et discrète lors de leur déplacements en Europe ou de leur retour de vacances en zones frontalières, telles l’Italie ou la Grèce. En clair, à devenir des passeurs et des trafiquants d’êtres humains et en violant la loi, comme le démontre leur  vidéo de promo  dans laquelle on  peut voir de bons vieux Allemands transporter un jeune homme visiblement originaire d’Afrique en lui faisant traverser les inexistantes frontières du dispositif Schengen.

Au cours du mois d’août 2015, des blogueurs se sont intéressés à Fluchthelfer pour découvrir que le nom de l’association avait été déposé, sur Internet, par une puissante structure américaine : l’institut  Ayn-Rand, ultra libertaire sur le plan sociétal et dont le conseil d’administration est composé autant d’anciens membres de Goldman Sachs que de membres du Cato Institute, ce dernier prônant également « les libertés individuelles, un gouvernement réduit, les libertés économiques et la paix ». Depuis ces « fuites », en juillet et août, le nom de domaine Fluchthelfer a été déposé, le 1er septembre, par un hypothétique Escape Institute dont  le titulaire, s’affichant sous le nom de « Paul Ribbeck », utilise un  anonymiseur internet  au logo rouge et noir. Ce même Paul Ribbeck prétend fournir « des outils de communication informatique pour les personnes et les groupes qui militent en faveur d’un changement social libérateur ».

Fluchthelfer a été  initié  en Allemagne par le  collectif PENG  qui, parallèlement à son activisme Internet et sociétal, coopère avec des groupes libertaires  tels que, par exemple,  les Pussy Riot ou encore Voïna. Les lecteurs souhaitant en savoir plus sur ces associations et leurs activités peuvent consulter  cet article  qui recense leurs faits les plus glorieux. Les liens entre les réseaux américains et européens afin de favoriser, aider et même soutenir cette poussée migratoire sont de moins en moins secrets et c’est l’Open Society de Georges Soros qui affirme sur son site  soutenir « les associations œuvrant à apporter des solutions relatives à la sécurité et au bien entre migrants légaux et illégaux ».

Bref, une destruction des Etats européens et des identités assistée des forces les plus destructrices de la planète, car pendant que les activistes européens travaillent à leur autodestruction ainsi qu’à celle des leurs, l’Etat islamique, lui, infiltre  les colonnes de faux réfugiés. Dans le même temps, cette grande démocratie qu’est le Qatar et qui soutient le terrorisme en Syrie vient d’acheter et d’imposer des places pour migrants à La Sorbonne, complétant sur le plan financier une invasion imposée à l’Europe et aux Européens qui devrait finir par amener la Guerre globale sur le continent européen. Voilà donc un scénario imposé par des réseaux globaux, qu’ils soient libertaires capitalistes, gaucho-libertaires ou islamiques radicaux, et dont l’objectif, de la Californie à Berlin en passant par Paris, Bruxelles, Raqqa ou Doha, reste le même : la destruction des Etats européens, conclut Alexandre Latsa (fin des extraits adaptés ; voir le troisième lien en bas de page).

Michel Garroté, 25 septembre 2015

http://ripostelaique.com/comment-ils-organisent-linvasion-de-leurope.html

http://w2eu.info/map.fr.html

http://alexandrelatsa.ru/2015/09/vague-de-migrants-en-europe-vers-la-piste-americaine/#more-8956

Julien Freund: les ravages de l'impolitique

DES IDÉES ET DES HOMMES: SUIVRE LA PENSÉE DE JULIEN FREUND

Les ravages de l'impolitique

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr
 

julien-freund.jpgCet article est le premier d'une série animée par des enseignants, collaborateurs de MÉTAMAG, consacrée à nos  "grands hommes" et aux idées qui mènent le monde. Nous y accueillerons d'ailleurs tous les articles de nos lecteurs qui souhaiteront y participer. Un onglet supplémentaire  "Des idées et des hommes"  sera consacré à cette série lors du très prochain changement de maquette du site. Jean Piérinot.

La victoire actuelle de l’oligarchie des criminels en col blanc est corrélative d’un effacement de la pensée politique en Europe, phénomène qui s’appuie sur la nomination de petits fonctionnaires dans les instances du pouvoir. L’impolitique permanente accompagne la chute de la République dans le néant. En suivant la pensée de Julien Freund, on soulignera trois aspects fondamentaux de cette crasse intellectuelle qui recouvre les cerveaux des collabos de l'Europe actuelle. 


L’État et l’anti-éducation


On sait que l’on doit aux socialistes et aux libéraux les décisions en faveur de l’éducation étatique. Au XIXème siècle, chacun a réclamé, au nom de l’égalité, l’éducation confiée à l’État. La pédagogie qui a fait couler beaucoup d’encre depuis les Grecs demeure néanmoins un mystère puisqu’il s’agit de la naissance d’un esprit. Comment transférer quelque chose d’une vie unique, celle de l’enseignant, vers une autre vie tout aussi spécifique, celle de l’élève? Nous ne sommes ni dans l’univers des liquides ni dans le domaine des solides. La pensée n'est pas liée seulement à celui qui la porte. Elle s’inscrit dans un paysage mental préexistant. Or, les dirigeants des États Européens veulent désormais que la vérité soit une bible que l’on récite. Le professeur, quant à lui, serait un complément du seul rapport au monde qui trouve grâce chez les tyrans modernes, le braiement systématisé dans les centrales multimédias. Il est évidemment impossible que réapparaissent des hommes de la trempe de Socrate ou Marsile Ficin (1433-1499) dans un univers où règnent l’esprit d’orthodoxie et l’obscurantisme contre ceux qui pensent. 


Le savoir dépend aussi des structures institutionnelles qui le favorisent ou l’assèchent. Les recteurs deviennent des assassins de la pensée et leurs maîtres jouent le spectacle que Régis Debray a décrit sous le titre “histoire française de l'infamie : 1919-1978”, le faux clivage "culture versus barbarie". Toujours, il y a eu urgence. Les affreux, les méchants sont à la porte. Il est urgent de manifester l'attachement à la cause de l'homme, de la démocratie, de la vraie science. Aujourd'hui, on ne saurait voir émerger une relation Maître-disciple, liée à une orientation commune vers la culture. A ne plus vouloir produire que des bien-pensants, l’Etat fabrique des monstres.


La double morale, preuve d’une mentalité primitive et sectaire


JFpol.jpgDepuis l’origine de l’humanité, les petits groupes d’humains ont toujours pratiqué la double morale: la loi du groupe impose d’agir dans le sens de la puissance collective, par exemple ne pas tuer ni voler son semblable, alors que les règles s’inversent dans les relations avec les autres. De plus, les anthropologues ont prouvé que pour la quasi totalité des tribus primitives, le nom de la tribu et celui d’homme se confondent. L’humanité s’incarne dans la tribu. A notre époque, les religions monothéistes qui se réfèrent à l’ancien testament ont gardé cet aspect primitif, le transformant en un racisme théologique. On ne peut être surpris en conséquence de la manière dont ont évolué les relations sociales, ni de la transformation des relations internationales. Le pouvoir économique globalitaire pratique cette double morale de manière permanente. Le mensonge notamment est systématique. L'axe de l’inhumanité (Washington, Londres, Bruxelles, Tel Aviv, Riad, Doha) ne tient pas ses promesses à l’égard de quiconque est situé hors de son axe. Il n’y a là non plus aucune politique, mais de l’impolitique et du néant.


La promotion des nuls 


L’éthologie enseigne que les petits groupes de primates et de sapiens connaissent l’agressivité intra-spécifique qui détermine la soumission hiérarchique. Cette hiérarchie permet de faire fonctionner le commandement selon un critère de valeur. Les petits groupes dans lesquels les humains se connaissent déterminent facilement qui est l’alpha, le dominant face auquel chacun se prosterne. Dans les sociétés de multitudes, il est plus difficile d’organiser la soumission, c’est-à-dire de mettre en place une hiérarchie admise. L’occident actuel impose la hiérarchie riches - pauvres. Les riches sont la race supérieure, les élus d’un dieu qu’ils inventent pour justifier l’inhumanité. Il convient de faire accepter ces horreurs aux pauvres car les responsables politiques savent bien que la paix n’est possible pour eux que si chacun applaudit au spectacle qu’ils présentent ou financent. Dès lors, ils recrutent des affidés selon trois critères: reconnaître que les riches sont la race supérieure permanente et qu’ils doivent régner pour des siècles; adopter comme vérité révélée le cours d’économie tel que peut l’enseigner l’institut d’études politiques, car il a été traduit de manuels anglo-saxons, lesquels sont l’équivalent de l’ancien testament.; montrer sa capacité à appliquer la double morale, éradiquant le vivier d’où sont sortis régulièrement les grands hommes et de grandes œuvres. 


Julien Freund termine son introduction sur l’impolitique en rappelant un principe général. On s’attaque aux faibles, c’est-à-dire ceux chez lesquels on soupçonne la carence dans la détermination et l’absence de courage et de fierté. De Juncker à Hollande, en passant par Merkel et autres pitres du théâtre européen, il en est exactement ainsi. La “World Al Capone Corporation” est lucide sur ses enjeux spirituels et matériels. Elle organise les conflits car elle sait qu’aujourd’hui les européens vont succomber définitivement. Les hommes et femmes placés à la tête des États vont se rendre sans honneur car ils sont lâches et las. Personne ne respecte les pleutres. Aucun discours niais sur l’humanité, sorti de l'antre de la bête biblique ne saurait modifier cet état de chose. La fin de l’Europe est désormais évidente et, partant, irréversible.


Julien FREUND : "Politique et impolitique" , Collection Philosophie politique, Éditions Sirey, 1987, 426 pages.