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samedi, 11 octobre 2014

Ernst Jünger – verdichtet

Ernst Jünger – verdichtet

von Benjamin Jahn Zschocke

Ex: http://www.blauenarzisse.de  

Ernst Jünger – verdichtet

Der Literaturwissenschaftler Matthias Schöning hat zusammen mit zahlreichen Jünger-​Kennern ein ambitioniertes Handbuch zum Gesamtwerk des Meisters herausgegeben, von A wie „Arbeiter“ bis Z wie „Zwille“.

Zunächst zu den Daten: 56 Autoren, darunter zehn Frauen, stellen auf rund 450 Seiten Exposés zu allen Werken Ernst Jüngers (18951998) zusammen. Unter den Autoren finden sich Namen wie Ulrich Fröschle, Helmuth Kiesel, Steffen Martus und Ingo Stöckmann, die typischerweise für eine literaturwissenschaftliche und eben keine vordergründig politisch-​moralische Auseinandersetzung mit dem Werk Ernst Jüngers bekannt sind.

Jünger in der BRD

Auf den Herausgeber Matthias Schöning sei ein kurzes Schlaglicht geworfen: Sein Themenspektrum reicht von Aufsätzen über die Literatur in der Romantik, im Ersten Weltkrieg, in der Weimarer Republik bis hin zur DDR, aber auch zu Betrachtungen herausgehobener Autoren wie Louis-​Ferdinand Céline, Gottfried Benn und Thomas Mann.

Seine umfangreichste Arbeit leistete Schöning aber bislang zu Ernst Jünger. Bereits 2001 gab er zusammen mit Ingo Stöckmann das Werk Ernst Jünger und die Bundesrepublik: Ästhetik, Politik, Zeitgeschichte heraus und versuchte so, den zumeist einseitigen Schriften zu Jüngers politischen Werken vor 1945 ein juenger brdernstzunehmendes Gegengewicht entgegenzustellen, nicht zuletzt in der unübersehbaren Hoffnung, den Fokus der fortwährenden Debatte um Jünger auf einen bislang stiefmütterlich behandelten Schaffensabschnitt des Autors zu lenken.

Jüngers fortwährende Metamorphosen

Zwei Verwerfungslinien im Werk Jüngers werden bei der Lektüre des Handbuches offengelegt: Einerseits sein zeitlebens betriebenes Umdichten, Umdeuten und Relativieren seiner politisch gefärbten Frühwerke, das ihm von seinem Sekretär Armin Mohler kompromißlos und unnachgiebig vorgeworfen wurde und letztlich zum Bruch zwischen den Denkern führte.

Andererseits, und das ist deutlich interessanter, die Veränderungen in Jüngers Werk nach 1945. Hier sind Schöning und Stöckmann wieder in ihrem Element, denn dort beginnt die „Debatte“ um Jünger. Für beide liegt der Gedanke nahe, daß die Debatte vor allem als Symbolbildungsort für die Prozesse sozialer Integration diente und heute noch dient. Anhand der Person Jünger wird diskutiert, was man sagen darf und was nicht, was und wie erinnert werden soll, wem man die Frage nach der „deutschen Schuld“ stellt und welche Aufgabe der Intellektuelle in der BRD haben soll.

Zäsur 1945

Die Zeitenwende nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges ist auch in Ernst Jüngers Werken überdeutlich abzulesen. Diese Zäsur besteht jedoch nicht darin, daß er auf einmal vom Tagebuch oder Essay zum erzählenden Text findet. Das hat er schon 1939 mit den Marmorklippen getan.

In den zwanziger und dreißiger Jahren stehen Jüngers Texte in einem unmittelbar zeitdiagnostischen Zusammenhang. Der Autor ist in alle wesentlichen Ereignisse dieser Zeit denkend involviert. Mit dem Ende des Krieges ändert sich das: Jünger geht zum Zeitgeschehen und zu den Hauptdiskursen der BRD auf Distanz.

Das äußert sich darin, daß er zu keinem der Gründungsmythen, die für die BRD etabliert wurden, einen Beitrag leistete. Er bedient sich weder der Auffassung der „Stunde Null“, noch jener der „Restauration“. Er blieb bis ans Ende seines Lebens auf elitärstem Niveau außen vor.

Dem heutigen Leser, dem diese Debatten vielleicht nicht einmal mehr dem Namen nach bekannt sind, ist mit dem Handbuch ein grundsolides Werk in die Hand gegeben, das zum ersten Entdecken ebenso einlädt wie zum Vertiefen der Erkenntnisse des Fortgeschrittenen.

Matthias Schöning (Hrsg.): Ernst Jünger-​Handbuch. Leben – Werk – Wirkung. 439 Seiten, J. B. Metzler Verlag 2014. 69,95 Euro.

LA RUSSIA PONTE TRA EUROPA E ASIA

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“RUSSIAN EURASIATISM”

LA RUSSIA PONTE TRA EUROPA E ASIA

Luca Siniscalco

Ex: http://news.russia.it

Una analisi del nostro collaboratore Luca Siniscalco del complesso fenomeno culturale dell'Eurasiatismo, una delle correnti che ha attraversato la storia recente della Russia superando le barriere crono-ideologiche poste dal 1917 e dal 1989 

Per comprendere la Russia contemporanea è necessario affrontare le componenti principali del dibattito culturale, politico e ideologico che attraversa il Paese, senza trascurare le correnti minoritarie sotto un profilo esclusivamente elettorale. E questo non soltanto in virtù di una consapevolezza critica del dato  delle urne, ma soprattutto considerando le potenzialità di influenza effettiva che alcuni circoli intellettuali possono esercitare sugli organismi governativi

 Lo mostra efficacemente un saggio di Marlène Laruelle, Russian Eurasianism: an ideology of empire, pubblicato per i tipi della Woodrow Wilson Center Press, “emanazione” editoriale del Woodrow Wilson International Center for Scholars, prestigioso centro di ricerca statunitense. Il testo, scritto fra il 2005 e il 2006, non è pubblicato in lingua italiana, tuttavia Laruelle viene citata nel volume di recente pubblicazione Eurasia. Vladimir Putin e la Grande Politica (Controcorrente, Napoli 2014) come una delle principali studiose dell'Eurasiatismo.

Il valore del saggio conferma l'indicazione di De Benoist: si tratta indubbiamente di uno degli studi più approfonditi sull'argomento. Laruelle ricostruisce con precisione scientifica un percorso ideologico lungo, stratificato e proteiforme, avvalendosi di una lettura puntuale delle fonti originali e insieme delineando un'ermeneutica del fenomeno, che viene inserito in uno studio di storia delle idee. Russian Eurasianism diviene quindi un utile strumento di demistificazione intellettuale, in quanto chiarisce il nucleo ideologico, il contesto culturale e le diverse – talvolta persino antitetiche – evoluzioni di un concetto, quello di Eurasia, spesso abusato o mal compreso dalla pubblicistica estera. L'autrice cerca di offrire un punto di vista critico ma il più possibile oggettivo, rilevando nell'Eurasiatismo contraddizioni e pericoli teorici, senza tuttavia esprimere preferenze politiche o giudizi morali. Il parere critico di Laruelle traspare inevitabilmente tra le righe del testo, il cui merito maggiore è tuttavia a nostro avviso riposto nella presentazione di una preziosissima e ingente quantità di dati perlopiù obliati al lettore non russo, nonché di un'ottima sintesi del pensiero e delle opere dei principali teorici eurasiatisti.

Il saggio prende le mosse da una descrizione delle radici del pensiero eurasiatista, di cui una versione ante litteram è parzialmente rappresentata dalla corrente slavofila, per passare a considerare l'Eurasiatismo degli anni '20/'30 del secolo scorso. Peculiarità teorica essenziale del movimento è la visione della Russia come centro di un vasto spazio politico e culturale, un ponte fra l'Europa e l'Asia proiettato come comunità di destino verso l'Est, la cui stimata superiorità è fondata su un terzomondismo avant la lettre. La speculazione eurasiatista, sorta in un contesto di esilio durante il periodo bolscevico e di fede nella natura di “grande potenza” (derzhava) della Russia, risulta in palese contrasto rispetto alla profonda influenza della speculazione occidentale –  nelle espressioni del Neoplatonismo, del Romanticismo tedesco, della Naturphilosophie, della filosofia della storia hegeliana, della Rivoluzione Conservatrice, della filosofia politica moderna, insieme pragmatica e utopista – esercitata sul loro stesso pensiero. Tale aporia risulta paradossalmente l'elemento più interessante del primo Eurasiatismo, la cui indubbia levatura culturale pone questo movimento nel novero delle avanguardie intellettuali dell'epoca. Savitsky, Trubetzkoy, Jakobson e Vernadsky sono solo alcuni dei principali esponenti di un movimento vitale, attivo con numerose pubblicazioni, indirizzato verso la creazione di un'ideologia totale, capace di abbracciare geografia, economia, etnografia, linguistica, filosofia, storia, religione e studi orientali. Ambiguità verso il regime comunista dell'Urrs, “culturalismo” quale unione mistica fra territorio e cultura, attenzione per il mondo slavo e turanico, culto del nomadismo e dell'Impero Mongolo di Gengis Khan, adesione al cristianesimo ortodosso, tensione fra idealismo e realismo: queste le principali caratteristiche di un movimento articolato e plurale, pertanto destinato a sfaldarsi di fronte alla radicalizzazione dello scontro politico degli anni '30.

Il saggio prosegue presentando la figura e il pensiero di Lev Gumilëv, studioso di etnologia celeberrimo nella Russia contemporanea, prossimo all'Eurasiatismo più per l'interesse nutrito verso la storiografia delle steppe che per una integrale adesione ideologica al movimento. I testi principali di Gumilëv, pubblicati negli anni '70 ed ispirati a un radicale determinismo etnico, in sintonia con il meccanicismo sovietico, costituiscono la cerniera – peraltro dubbia e controversa – fra il primo Eurasiatismo e la sua rinascita negli anni '90, in seguito al crollo dell'Urss.

Marlène Laruelle dedica quindi due capitoli del proprio saggio ai principali teorici contemporanei del Neoeurasiatismo: Aleksandr Panarin – ingiustamente sconosciuto in Europa, e a cui ci ripromettiamo di dare spazio in un successivo articolo – e Aleksandr Dugin, che, successivamente alla morte di Panarin, è diventato il leader senza rivali del movimento. Laruelle ricostruisce attentamente la speculazione dei due teorici, non limitandosi soltanto al pensiero strettamente geopolitico, bensì approfondendo la loro Weltanschauung con riferimenti puntuali alla totalità delle loro pubblicazioni. Un grande merito, questo, se si considera che in Italia Dugin è notissimo per i suoi interventi in ambito geopolitico, ma è pressoché sconosciuto quale studioso di filosofia ed esoterismo, campi nei quali ha svolto riflessioni di grande interesse, soprattutto, a nostro avviso, per quanto concerne il tentativo di superare la modernità conciliando tradizionalismo e postmodernismo.

Chiudono il volume due sezioni dedicate all'Eurasiatismo non russo, specialmente in relazione alla tradizione islamica e alle esperienze politiche governative – in Kazakhistan – e movimentistiche – in Turchia. Il rapporto contrastato fra Islam, Ortodossia e governo diventa centrale nel dispiegarsi dell'Eurasiatismo contemporaneo.

Dalla genealogia del concetto si passa quindi all'attualità di un'idea capace di influenzare radicalmente la cultura di massa e l'immaginario russi, al di là dell'effettiva adesione all'Eurasiatismo quale movimento: un segno concreto che l'unipolarismo, prim'ancora che politicamente, ha fallito culturalmente. Le civiltà rinascono, la ricerca spirituale si staglia innanzi all'annuncio della morte di Dio e il “culturalismo” emerge fra i rami secchi dell'internazionalismo marxista e del mondialismo capitalista: in Russia si prospetta così un nazionalismo nuovo, pluralista, comunitarista e organicista, “illuminato” per dirla con Dugin. L'ideologia eurasiatista non coincide con le politiche di governo, più moderate su multi punti e molto attive nel contesto europeo, ma costituisce un'utopia – talora molto profonda, talora più ingenua – adeguata a offrire un orizzonte “altro”, aperto a contaminazioni teoriche e spirituali che arricchiscono l'edificazione dell'autocoscienza russa.

 

Luca Siniscalco

Le traité de libre-échange transatlantique TTIP s’enlise

Le traité de libre-échange transatlantique TTIP s’enlise

Ex: http://fortune.fdesouche.com

A partir de lundi 29 septembre, des centaines d’experts de la Commission européenne et de l’administration américaine devraient s’enfermer pour une semaine entière dans des bureaux près de Washington, afin de plancher sur le traité de libre-échange entre les Etats-Unis et l’Europe, le désormais fameux TTIP. Pour ce septième « round » d’une négociation qui a démarré à l’été 2013 et qui est de plus en plus contestée et sérieusement menacée d’enlisement.

Quels sont les enjeux ?

Le TTIP a l’ambition d’annuler les barrières douanières à l’exportation entre les Etats-Unis et l’Union européenne, mais aussi de faire sauter tous les freins non tarifaires pour les services et l’industrie, c’est-à-dire de faire s’entendre les deux parties sur un alignement de leurs réglementations dans l’alimentation, l’environnement, l’agriculture, etc. Bruxelles assure que l’économie européenne pourrait en tirer près d’un demi-point de croissance de son produit intérieur brut (PIB) en plus par an.

Mais la société civile européenne, notamment très mobilisée en Allemagne, s’inquiète d’un risque de nivellement par le bas des normes environnementales, sociales, etc., du Vieux Continent.

Aux Etats-Unis, ce traité commercial suscite aussi beaucoup de réserves : certains s’inquiètent par exemple d’une baisse des réglementations actuellement en cours à Wall Street, ou d’une trop grande ouverture des marchés publics américains.

Que faut-il attendre de la semaine qui s’ouvre ?

« Il ne va quasiment rien se passer pendant cette semaine de discussions aux Etats-Unis, assure toutefois une source bruxelloise. Les spécialistes vont se contenter – mais c’est un travail énorme ! – de comparer les procédures, pour tel et tel secteur de l’industrie et des services. On n’ira pas au-delà, les discussions sont gelées. »

Côté américain, le traité n’est plus vraiment à l’agenda d’un gouvernement concentré sur l’enjeu des élections de mi-mandat, en novembre.

En Europe, la Commission, qui a reçu un mandat des Etats membres pour négocier, est sur le point d’être renouvelée, avec l’arrivée, prévue début novembre, d’une équipe emmenée par le Luxembourgeois Jean-Claude Juncker.

Le commissaire chargé du dossier « TTIP », le Belge Karel de Gucht, s’apprête à céder son fauteuil (d’ici à novembre), à la Suédoise Cécilia Malmström. « Pas question, tant que cette dernière n’est pas en poste, de prendre des décisions engageantes pour les mois qui viennent », décrypte une source européenne.

Mme Malmström a pour l’instant fait preuve de beaucoup de prudence sur le dossier. Elle doit être auditionnée par le Parlement européen, lundi 29 septembre.

Quels sont les points de blocage ?

Mme Malmström, si elle est confirmée à son poste à l’issue de cet examen devant les eurodéputés, et si elle souhaite relancer la « machine » à négocier côté européen, devra rassurer, à court terme, les Etats membres et les eurodéputés sur au moins deux points.

Il y a d’abord l’abcès de crispation autour du mandat de négociation du TTIP, aujourd’hui secret. En clair : quels biens et services sont vraiment concernés par l’accord ? Les « anti-TTIP » du Vieux Continent réclament depuis des mois qu’il soit publié. La Commission européenne a fini par demander aux Etats membres d’accepter – c’est en effet à eux de prendre la décision. Et ce d’autant plus qu’un tas de versions du mandat ont déjà fuité sur Internet.

« Mais certains, comme les Britanniques, sont très réticents. Ils ont peur de créer un précédent, pour d’autres négociations. Et les Américains ne veulent pas en entendre parler », précise une source européenne.

Le Français Matthias Fekl, tout nouveau secrétaire d’Etat au commerce extérieur français, s’est récemment prononcé pour, comme les Italiens quelques semaines plus tôt. « J’espère qu’on aura un accord entre les 28 Etats membres en octobre », avance une source bruxelloise.

Le dispositif des tribunaux d’arbitrage, réclamé par les Américains dans le traité, est aussi l’autre très gros point bloquant en Europe. Il s’agit d’instances indépendantes vers lesquelles les entreprises pourraient se retourner si elles estiment qu’un pays menace leurs investissements. Pour leurs détracteurs, ces tribunaux d’arbitrage donnent le pouvoir aux multinationales au détriment des Etats.

Pour tenter de calmer les esprits, la Commission a lancé une consultation publique au printemps à laquelle auraient répondu plus de 150 000 personnes, un record. Mais elle n’a toujours pas fait de compte rendu. Les eurodéputés l’espèrent pour le mois de novembre.

Le Monde

Tour d’Europe à pied - Deux jeunes femmes racontent

Tour d’Europe à pied
Deux jeunes femmes racontent

 

02/10/2014 – 07H00 Marseille (Breizh-info.com) – Fanny et Mathilde sont deux jeunes femmes qui s’étaient lancées un défi fou : effectuer un tour d’Europe à pied durant une année. Missions réussie il y a quelques années de cela ; elles ont d’ailleurs, sur le retour, traversé la Bretagne, en provenance d’Irlande.
Revenues à leurs études, puis désormais plongées dans la vie professionnelle, les deux jeunes femmes publient aujourd’hui un ouvrage qui raconte leur périple. Un ouvrage qui donnera sans aucun doute envie à d’autres jeunes Européens de partir, à l’aventure, sur les traces de notre longue mémoire.

Entretien.

Breizh-info.com : Pouvez-vous vous présenter toutes les deux ?
Mathilde et Fanny : Nous sommes deux copines comme on en trouve partout, sauf que nos liens d’amitié ont été forgés à l’école de la vie : celle du scoutisme qui fabrique des liens impérissables, créés dans l’effort et la réelle solidarité. Mathilde venait de dépasser la vingtaine d’années et finissait une licence d’histoire, tandis que Fanny de deux ans son aînée achevait son diplôme d’architecture lors du départ. Aujourd’hui, Mathilde est journaliste à Marseille, et Fanny architecte à Paris.

Breizh-info.com : Quelle est la genèse de votre tour d’Europe à pied ?
Mathilde et Fanny : un samedi matin, nous sommes parties pour une marche sauvage, nous avions tellement besoin de nous ressourcer après une semaine chargée d’examens. Nous nous sentions tellement bien que nous avons lancé l’idée, un peu comme un pari : « Et si nous vivions cela pendant un an?».  Et comme nous sommes un peu têtues toutes les deux, nous l’avons fait !

Breizh-info.com : Pourriez-vous en dresser un bilan rapide ? (pays visités, km parcourus, ) ?
Mathilde et Fanny : Ce « pari » s’est transformé en 10 mois et demi de marche sauvage avec 6 000 kilomètres à pied parcouru (plus 2 000 en train), 5 peuples constitutifs de l’Europe côtoyés (les Latins, les Grecs, les Germains, les Slaves et Les Celtes), soit 12 pays traversés.

Breizh-info.com : Des anecdotes particulières ?
Mathilde et Fanny :« Anecdotes » … vous voulez dire « ces choses amusantes, mais qui donnent à réfléchir »?

Commençons par la moins marrante :
Nous étions parties sur les traces des légendes européennes afin de capter les caractères essentiels des Européens et surtout de comprendre ce qui faisait l’unité de l’Europe malgré ses différences. Nous nous sommes rendu compte que la tradition orale s’était perdue, et, avec elle, tout un pan de notre identité. Certains réflexes subsistent, mais on ne sait plus très bien pourquoi … même dans les coins les plus reculés et « préservés », il reste peu de choses et il faut se souvent se rendre dans les bibliothèques pour aujourd’hui trouver des contes populaires. Nous avons un peu réfléchi à pourquoi tout cela a été oublié, si vous lisez l’avant-propos de notre livre, vous le saurez !

Maintenant le côté « amusant » et puis comprenne qui pourra ! (ou qui a marché!)

  • La réaction des gens lorsqu’on leur dit qu’on a parcouru 50 km à pied aujourd’hui : « Ah, d’accord, mais vous n’avez pas froid en short? »
  • La réaction des gens lorsqu’on leur dit qu’on a dormi dehors cette nuit : « Ah … » (bras ballants)
  • La réaction des gens lorsqu’on leur demande une épicerie la plus proche possible pour se ravitailler : « Ah, vous n’en avez que pour un quart d’heure, c’est à peine à 20 kilomètres ».

Breizh-info.com : Sur la fin de votre périple, vous avez traversé la Bretagne, quel souvenir en gardez-vous ?
Mathilde et Fanny : Notre arrivée en Bretagne par l’extrême Ouest rimait avec « retour chez nous ! » : nous avions quitté la France depuis huit mois lorsque nous avons posé le pied sur l’île d’Ouessant ! Nous avons commencé par embrasser le sol français puis nous sommes allés manger un croissant. Et nous avons éclaté de rire, tellement le son des cloches de l’église nous rendait heureuses !

Nous avions également été très bien reçues par la presse locale, notamment Ouest-France, notre aventure était bien avancée, on commençait à nous accorder du crédit! Nous avions également fait un passage à la maison bretonne (Ti-breizh), où nous avions été merveilleusement reçues !

Breizh-info.com : Vous sortez un livre quelques années après. Pourquoi avoir attendu tout ce temps ? Qu’est-ce que le lecteur y trouvera ?
Mathilde et Fanny : Ah ah ! C’est vrai, déjà cinq ans que nous sommes parties ! À notre retour, nous avons passé plusieurs mois à la rédaction … ce n’était pas évident, sans plume particulière et lorsque c’est le premier essai en son genre ! Nous nous étions entendues avec un éditeur à qui nous faisions confiance, mais les choses ont traîné, tellement traînées qu’elles se sont enlisées.

Après cette première déception et cet anniversaire qui arrivait, nous avons décidé de relancer le projet. Bon, c’est sûr, c’est avec nos moyens, mais le voilà enfin,au format informatique… on n’est jamais mieux servi que par soi-même!
Le lecteur y trouvera notre carnet d’aventure. Notre effort aura été, après toutes ces années, de ne pas en modifier le contenu : il est brut. C’est exactement ce que nous avons vécu, ce que nous écrivions  tous les soirs, la lampe rivée sur le front, allongées dans la tente, chacune plongée dans notre carnet. Ce livre sent l’aventure, la sueur et le feu de bois.

Livre à commander en version numérique pour le moment, sur http://tourdeurope.over-blog.com/2014/09/notre-livre-enfin-disponible.html

Northern Opposition to Lincoln’s War

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Debunking the Myth of “National Unity”: Northern Opposition to Lincoln’s War

Of course, there is never “national unity” about anything, especially war, democratic politics being what it is.  When is the last time you heard of a unanimous vote expressing national unity in the U.S. Congress about anything?  Even the vote to declare war on Japan after Pearl Harbor was not unanimous.

The myth of national unity during the “Civil War” was invented and cultivated by the history profession, the Republican Party, and the New England clergy in the post-war era to “justify” the killing of hundreds of thousands of fellow citizens in the Southern states; the plundering of the South during “Reconstruction;” the destruction of the voluntary union of the states and the system of federalism that was created by the founding fathers; and the adoption of Hamiltonian mercantilism as America’s new economic system.

Any serious student of the “Civil War” knows that this is all absurd nonsense.  In addition to myriad draft riots, there were massive desertions from the Union Army from the very beginning of the war (see Ella Lonn, Desertion During the Civil War); Lincoln did shut down hundreds of opposition newspapers and imprison thousands of Northern political dissenters without due process.  He did deport the most outspoken Democratic Party critic in Congress, Clement L. Vallandigham of Dayton, Ohio.  He did rig elections by having soldiers intimidate Democratic Party voters.  And he did send some 15,000 federal troops to murder the New York City draft rioters by the hundreds in July of 1863. All of this has been discussed for decades in “mainstream” history scholarship such as Constitutional Problems Under Lincoln by James Randall and Freedom Under Lincoln by Dean Sprague.  The history profession has, however, done a meticulous job in seeing to it that such facts rarely, if ever, make it into the textbooks that are used in the public schools.

But times are changing in the era of the internet and of independent scholarship on the subject by scholars associated with such organizations as the Abbeville Institute.  The Institute’s latest publication is entitled Northern Opposition to Mr. Lincoln’s War, edited by D. Jonathan White.  It includes essays by White, Brion McClanahan, Marshall DeRosa, Arthur Trask, Joe Stromberg, Richard Valentine, Richard Gamble, John Chodes, and Allen Mendenhall.  These nine scholarly essays destroy the nationalist myth of “national unity” in the North during the War to Prevent Southern Independence.

Marshall DeRosa’s opening essay on “President Franklin Pierce and the War for Southern Independence” goes a long way in explaining why the nationalists in American politics believed that it was imperative to invent the myth of national unity.  President Franklin Pierce of New Hampshire was a Democrat who opposed the invasion of the Southern states.   He was a Jeffersonian, states-rights president, which is why he was mercilessly smeared by Lincoln’s hatchet man, William Seward, who accused him of treason (re-defined by the Lincoln administration as any criticism of it and its policies).  The real objects of Seward and Lincoln’s wrath towards Pierce, DeRosa explains, were the ideas that President Pierce stood for and was elected president on, as illustrated in the Democratic Party Platform of 1852.

The main ideas of this platform, upon which Pierce ran for president were: a federal government of limited powers, delegated to it by the states; opposition to the form of corporate welfare known as “internal improvements”; free trade and open immigration; gradual extinction of the national debt; opposition to a national bank; and realizing that the Constitution would have to be amended as a means of peacefully ending slavery.  This latter position was the position of the famous nineteenth-century libertarian abolitionist, Lysander Spooner, author of The Unconstitutionality of Slavery.

It was because of these ideas that Pierce was libeled and smeared by the Republican Party of his day, with subsequent generations of historians merely repeating the smears disguised as “scholarship.”  Lincoln’s claim to fame, on the other hand, writes DeRosa, “is not that he adhered to the rule of law [as Pierce did], but that he had the audacity to disregard it.”  Thanks to the history profession, moreover, “Americans continue to pay homage to the villains that laid the tracks to our present sorry state of affairs.”

D. Jonathan White surveys the Northern opponents of Lincoln’s war that were slandered by the administration and its media mouthpieces as “copperheads” (snakes in the grass).  Among the “copperheads” were many prominent citizens of the North who, like President Pierce, were passionate defenders of the rule of law and constitutionally-limited government.  Their main complaints were against Lincoln’s suspension of the writ of Habeas Corpus and the mass arrest of Northern political opponents without due process; the draft law, which they considered to be a form of slavery; the income tax imposed by the Lincoln administration – the first in American history; and protectionist tariffs (the cornerstone of the Republican Party platform of 1860).  Because of these beliefs, hundreds, if not thousands of “copperheads” were imprisoned without due process by the Lincoln administration.

Allen Mendenhall contributes a very interesting article about how the famous U.S. Supreme Court Justice Oliver Wendell Holmes, who was wounded three times in the war, became a sharp critic of Lincoln, his “mystical” union, and the war during the rest of his life.  Brion McClanahan’s essay describes in scholarly detail the Jeffersonian Democrats in the state of Delaware who opposed the war (the state gave its three electoral votes and 46 percent of the popular vote to Southern Democrat John Breckenridge in the 1860 election).  R.T. Valentine does essentially the same thing in his chapter on opposition to Lincoln’s policies in Westchester County, New York and the greater Hudson Valley.  He describes in detail how the residents of these areas, many of whom had family history in the area going back to the time of the founding, deeply resented the pushy, imperialistic, arrogant “Yankees” who were the base of Lincoln’s support and who had been moving into New York state from New England in droves.

Arthur Trask demonstrates that there was also a great deal of opposition to Lincoln’s war in Philadelphia, where many residents had long-lasting business and personal relationships with Southerners, while John Chodes writes of the horrible wartime governor of Indiana, Oliver P. Morton, who apparently fancied himself as a mini-Lincoln with his imprisonment of dissenters and other dictatorial acts.

Joe Stromberg and Richard Gamble contribute chapters that explain the role of the Northern clergy in instigating the war.  Stromberg writes of the impulse of many Northern clergymen to use the coercive powers of the state to try to create some version of heaven on earth.  Worse yet,  “[T]he war of 1861-1865, as preached by the clergy surveyed here, became a permanent template for subsequent American crusades, whatever their origins.  From the Free Soil argument of the 1850s, through two World Wars, Cold War, and down to Iraq and beyond.  American leaders insist that their latest enemy [ISIS?] is both inherently expansionist and committed to some form of slavery.  It is therefore the duty of the new enemy to surrender ‘unconditionally’ and undergo reconstruction and reeducation for the good of all mankind . . .”

Richard Gamble traces the transformation of “Old School Presbyterianism” to where it embraced “political preaching.”  For example, upon Lincoln’s election a national assembly meeting in Philadelphia issued a proclamation that was “a turning point in the history of American Presbyterianism”:  “That in the judgment of this Assembly, it is the duty of the ministry and churches under its care to do all in their power to promote and perpetuate the integrity of the Unite States [government], and to strengthen, uphold, and encourage the Federal Government.”  The Old School Presbyterians, writes Gamble, “enlisted their church on the Union side,” which is to say, the side that would soon be invading, murdering, raping, and plundering its way through the Southern states.  This, Gamble argues, is how war and imperialism became the keystone of America’s “civil religion.”  This bogus “religion” is illustrated a thousand times over in the Laurence Vance archives on LewRockwell.com.

The Abbeville Institute is to be congratulated for publishing this latest correction of the historical record regarding Lincoln’s war.  Northern Opposition to Mr. Lincoln’s War should be a part of the library of every American who resents having been lied to by his teachers, professors, film makers, and authors, and who seeks the truth about his own country’s history.

The Best of Thomas DiLorenzo 

vendredi, 10 octobre 2014

Strasbourg en rouge et blanc pour l’« Alsatian Pride »

Strasbourg en rouge et blanc pour l’« Alsatian Pride »

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Le 10 octobre 2014
 
Strasbourg sera ce samedi en rouge et blanc, les couleurs d’une Alsace qui entend descendre dans la rue pour affirmer sa volonté de ne pas être absorbée par la Lorraine et la Champagne-Ardenne.
 
 

Strasbourg sera ce samedi en rouge et blanc, les couleurs d’une Alsace qui entend descendre dans la rue pour affirmer sa volonté de ne pas être absorbée par la Lorraine et la Champagne-Ardenne. La manifestation alsacienne aura-t-elle le même succès que celle de Nantes pour la réunification de la Bretagne ? Le président du conseil régional d’Alsace y croit en tout cas, n’hésitant pas à proposer un tarif – TER exceptionnel à 5 € – pour permettre à tous les Alsaciens qui le souhaitent de se joindre à ce mouvement de protestation.

L’opposition socialiste – l’Alsace est de droite depuis toujours – crie bien évidemment au loup et dénonce « l’utilisation indue de fonds publics pour financer une manifestation partisane ». C’est oublier un peu vite qu’une vente flash de 12.000 billets Lyon-Paris à 5 euros a eu lieu l’année dernière par la SNCF, cinq jours avant la manifestation pro-mariage pour tous. Et cette offre était bel et bien disponible 5 jours avant la manif des partisans du « mariage » homosexuel et valable uniquement, comme par hasard, jusqu’au 27 janvier 2013, date de la manifestation des partisans du projet de loi. Sur le Net, la SNCF encourageait ses « amis lyonnais » à profiter de cette « opportunité incroyable » en envisageant une « petite séance shopping dans le Marais », le « quartier gay-friendly de la capitale »,  comme l’avait relevé alors fort opportunément Valeurs actuelles.

Malgré son maire gay-friendly, l’offre alsacienne n’est pas aussi alléchante, mais la manifestation de samedi sera le point d’orgue d’une campagne de sensibilisation de l’Alsatian Pride, la « fierté alsacienne » que mène depuis quelques mois un tout jeune parti régionaliste Unser Land (Notre pays) qui a remis au goût du jour les couleurs alsaciennes Rot un Wiss (rouge et blanc). De nombreux jeunes – et c’est encourageant – ont rejoint les rangs d’Unser Land et n’hésitent pas, à l’image des activistes de Greenpeace, à se lancer dans des démonstrations spectaculaires, drapeau Rot un Wiss en tête. Ces jeunes militants ne sont pas effarouchés par la notion d’autonomisme et n’hésitent pas à l’expliquer aux badauds qui les encouragent dans leurs actions d’éclat. « N’ayez pas peur, même soyez fiers de votre histoire. Nous devons à ceux qui nous ont précédés, qui se sont battus pour préserver notre droit local, notre culture, notre langue, d’être ce que nous sommes ».

Unser Land milite enfin pour que le drapeau alsacien retrouve droit de cité. « Un vrai drapeau, reconnu, comme celui des Corses, des Bretons ou des Basques. Qui a sa place sur le fronton de nos mairies, entre le drapeau national et le drapeau européen […] Mir welle bliewe, wàs mir sin ! Nous ne voulons pas disparaître dans un mariage forcé contre-nature. Nous voulons rester ce que nous sommes et nous le faisons savoir. »

Contre toute forme de dissolution ou « d’incorporation forcée » de l’Alsace dans des ensembles interrégionaux artificiels : ils seront nombreux à le faire savoir samedi à Strasbourg, où l’on pourra se rendre compte, comme disait la grand-mère de l’un de mes amis, que mine de rien « les Alsaciens sont tous français, dommage que les Français ne soient pas tous alsaciens, on ne serait pas dans la m… »

Prof. B. de Cordier: Doegin en het projekt "Groot-Eurazië"

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A quel jeu la Turquie se livre-t-elle?

A quel jeu la Turquie se livre-t-elle?

par Jean-Paul Baquiast
 
Nous avions précédemment souligné les rapprochements de plus en plus fréquents entre le gouvernement « islamique modéré » du gouvernement turc, sous l'égide de Recip Tayb Erdogan, et des pays et groupes islamiques beaucoup moins modérés. Ceci peut se constater aujourd'hui avec la non-intervention de l'armée turque confrontée à la prise et à la destruction possible de la ville kurde syrienne de Kobané.

Une semaine après le début des bombardements américains en Syrie, l'Etat islamique (EI) ne donne aucun signe d'affaiblissement. Alors qu'en Irak, l'entrée en action de l'aviation américaine a permis aux forces kurdes de regagner du terrain face aux djihadistes, en Syrie, ceux-ci poursuivent leur marche en avant. Durant le week-end, ils ont resserré leur étau sur Kobané, appelée Aïn Al-Arab en arabe, la troisième ville kurde du pays, à la frontière avec la Turquie, qu'ils assiègent depuis deux semaines. Ce dernier week end, ils sont arrivés dans les banlieues de la ville, qu'ils bombardent de roquettes. Les djihadistes disposent d'armements lourds pris aux Irakiens et Libyens, notamment des tanks. Face à eux, les kurdes syriens et irakiens, dont les désormais célèbres peshmergas, n'ont que des armes légères, bientôt à court de munitions. Les renforts en matériel promis par la coalition, dont la France, n'arrivent pratiquement pas, faute de moyens de transport

On aurait pu penser que l'armée turque, fortement armée et dont l'intervention vient d'être autorisée par le Parlement , aurait pu passer la frontière et se porter au secours de Kobané, vu l'urgence et les engagement pris par la Turquie, sous les pressions d'Obama, en faveur de la coalition. Mais elle ne le fait pas. Elle interdit par ailleurs le passage de volontaires kurdes turcs désireux de soutenir leurs homologues syriens et irakiens.

La bienveillance de la Turquie à l'égard de l'EI ne s'arrête pas là. Elle vient de libérer environ 70 djihadistes, dont un certain nombre provenant de pays européens, dont la France, arrêtés au moment où ils tentaient de rejoindre la Syrie. Ceci en échange de la libération par les islamistes d'une cinquantaine d'otages turcs précédemment enlevés par l'EI. Comme quoi il ne faut jamais négocier avec les terroristes, sauf quand.

Nous avons vu dans des articles précédents que l'ambivalence de la Turquie dans le conflit actuel pouvait s'expliquer par sa crainte de voir se constituer un grand Kurdistan, englobant les trois provinces actuelles, turque, syrienne et irakienne. Mais ce jeu sera de courte portée. Ou bien l'Etat islamique réussira dans son entreprise visant à édifier un puissant califat à la frontière de la Turquie. L'existence en deviendra, non seulement une concurrence sérieuse pour la Turquie dans le monde (y compris en Europe). Ou bien l'EI n'y réussira pas, principalement sous l'influence des troupes au sol fournies par les Kurdes. Dans ce cas, la pression du PKK, parti autonomiste turco-kurde, ne pourra plus être contenue, sans une guerre civile généralisée.

Entre ces deux menaces, il vaudrait mieux choisir la moindre, en acceptant une relation très négociable, sur le modèle de l'Union Européenne, entre la Turquie et un éventuel Grand Kurdistan à former. Mais l' « islamisme modéré » du gouvernement turc l'a peut-être déjà convaincu de préférer la première perspective. D'autant plus que la diplomatie européenne, plus muette que jamais, n'intervient pratiquement pas

Post-Scriptum. Ajoutons qu'en fait la Turquie cherche aussi à abattre, indirectement,  Haffez al Aassad, soutenu par l'Iran et la Russie. Scandaleux que la France et l'Europe continuent à armer l'ASL (sic) et de la sorte menacer Damas par djihadistes interposés.

Concernant les relations entre la France et Hafez al Assad, le Journal Le Monde daté du 7 octobre confirme que ce dernier avait fait des propositions à la France en vue d'une alliance contre les djihadistes, commençant par des échanges de renseignements, mais qu'elles ont été refuses par l'Elysée et Laurent Fabius, sur les pressions d'Israël. No comment.

Néo fachos et gauchos réacs...

Néo fachos et gauchos réacs...

par Jean-Paul Brighelli

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Vous pouvez découvrir ci-dessous un texte offensif de Jean-Paul Brighelli, qui sur son site de Bonnet d'âne, intervient dans la polémique sur la gauche réac...

Professeur en classes préparatoires, défenseur de l'élitisme républicain, Jean-Paul Brighelli est l'auteur, notamment, de nombreux essais sur le système éducatif, comme La fabrique du crétin : la mort programmée de l'école (Jean-Claude Gawsewitch, 2005) et dernièrement Tableau noir (Hugo et Cie, 2014). Il est également l'auteur de La société pornographique (Bourin, 2012).

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Néo fachos et gauchos réacs

« Michel Onfray, fils naturel de Jean-Paul Brighelli et de Farida Belghoul ? » se demande Sandrine Chesnel dans l’Express
Primo, démentons : Onfray a ses propres parents, qui lui suffisent — et justement, tout est parti de là, depuis trois semaines que l’auteur du Traité d’athéologie est vilipendé par la gauche bien-pensante (pléonasme !).
Il n’est pas le seul : Véronique Soulé, dans Libé, dresse une première liste de proscription : « Qu’y a-t-il de commun entre Alain Bentolila (linguiste), Jean-Paul Brighelli (professeur) et Michel Onfray (philosophe) ? Réponse: ils trouvent que l’école française n’est plus ce qu’elle était, qu’au lieu d’apprendre à lire et à écrire, elle enseigne des choses ridicules aux élèves – du genre «théorie du genre» – et que tout ça est dû à Mai 1968. Pour ceux qui n’ont déjà pas le moral, mieux vaut s’abstenir. Pour ceux qui chercheraient un débat d’idées, idem. » Mais déjà le 20 septembre [2012] Renaud Dély, dans l’Obs, dressait la liste des « Nouveaux fachos » et de leurs amis : Elisabeth Lévy, Alain Finkielkraut, Eric Zemmour et Richard Millet, mis en contiguïté intellectuelle de Patrick Buisson et de Robert Ménard, sans oublier Marc-Edouard Nabe, Alain Soral et Renaud Camus — « une amicale brune », dit finement le journaliste, qui m’a rappelé ces temps déjà lointain où l’ineffable Frakowiack me reprochait de « penser brun ». Et le 3 octobre, dans le Figaro, Alexandre Devecchio en proposait une autre : « Onfray, Guilluy, Michéa : la gauche réac ? demandait-il. Comment ? ET Natacha Polony ? Laurence de Cock, qui gère Aggiornamento, le site d’Histoire-Géographie où se con/gratule la bien-pensance, a bien voulu la mettre dans le même sac que moi. Qu’elle en soit remerciée, j’en rêvais, effectivement.
De l’ouvrage de Bentolila, j’ai déjà tout dit sur le Point.fr — et de l’excellent petit livre de géographie pratique de Guilluy, aussi. Sur Finkielkraut, j’avais exprimé ici-même tout ce que m’inspirait la campagne répugnante des belles âmes au moment de son élection à l’Académie française.


Et pour ce qui est d’Onfray, tout est parti d’un tweet ravageur et d’une interview non moins enlevée sur France Inter à propos de son dernier livre où il feint de s’apercevoir que le Divin marquis malmenait les demoiselles (et s’en faisait malmener : voir son escapade à Marseille en juin 1772). Qu’a-t-il dit de si choquant ce jour-là ? « On apprenait à lire, à écrire, à compter et à penser, dans l’école républicaine. Ce n’est plus le cas. Le gamin d’aujourd’hui qui est fils d’ouvrier agricole et de femme de ménage, il ne s’en sortira pas avec l’école telle qu’elle fonctionne, parce que c’est une école qui a décidé qu’il était réactionnaire d’apprendre à lire, à écrire, à compter, etc. »


Et cela a suffi à en faire mon fils naturel (j’ai commencé tôt, visiblement, Onfray n’a jamais que six ans de moins que moi). Pourtant, comme le dit avec un soupçon de franchise Véronique Soulé à la fin de son article, « il n’a pas vraiment tort » d’affirmer que « les enfants de pauvres font les frais de l’effondrement du système d’instruction et d’éducation français. Pour les autres, les parents se substituent à l’école défaillante ».

Je suis très honoré d’être associé parfois à de grands noms de la pensée contemporaine par les tenants de l’orthodoxie hollandiste (ça existe donc) qui à force d’exclure à droite et à gauche vont se retrouver très seuls. Il fut un temps où, de Zola à Sartre en passant par Bernanos ou Camus, une certaine idée de la contestation pouvait être revendiquée par la Gauche. Mais la Gauche de Jaurès et de Blum, le Parti communiste d’Aragon, ont-ils encore quelque chose à voir avec les néo-libéraux qui s’agitent à l’Elysée, à Libé, au Monde et au Nouvel Obs ? L’idée que Jean Zay se faisait de l’Ecole a-t-elle quelque chose à voir avec celle de Philippe Meirieu ou de Najat Vallaud-Belkacem ?


Il faut le dire et le redire : les socialistes de salon, de hasard et de bazar, les bobos du Marais et d’ailleurs, les pédagos du SGEN, du SE-UNSA et d’EELV, les antiracistes de profession, qui refusent de voir que la stratégie de Terra Nova en 2012 pour récupérer le vote des enfants d’immigrés impliquait le déni de ce qui se passe effectivement à Marseille ou à Saint-Denis, tous sont les fourriers du FN, les idiots utiles de Marine Le Pen. Parce que c’est prioritairement le peuple qui souffre qui pâtit de leur bonne conscience. Les enfants les plus démunis, comme le dit bien Onfray (« On apprenait à lire, à écrire, à compter et à penser, dans l’école républicaine. Ce n’est plus le cas. Le gamin d’aujourd’hui qui est fils d’ouvrier agricole et de femme de ménage, il ne s’en sortira pas avec l’école telle qu’elle fonctionne, parce que c’est une école qui a décidé qu’il était réactionnaire d’apprendre à lire, à écrire, à compter, etc. ») n’ont plus d’autre espoir que de confirmer les prédictions de Bourdieu : il est venu enfin, le temps des héritiers ! Grâce aux sociologues de gauche (autre pléonasme) qui n’ont eu de cesse, en dénonçant le sort fait aux plus pauvres, d’inventer des dispositifs qui enfermaient dans des ghettos scolaires les victimes des ghettos sociaux. Vous leur laissez l’espoir de s’inscrire en ZEP, pendant que vos propres enfants s’épanouissent à Henri-IV ? Eh bien, ils vont se venger et vous le faire savoir — dans la rue peut-être, dans les urnes certainement. Sur les 35% de ceux qui votent et qui voteront pour Marine, et qui constitueront 52% du second tour en 2017, combien le font et le feront par désespoir de voir leurs enfants confinés dans des réserves, au sens indien du terme ? Oui, Meirieu et ses amis — et il lui en reste, la démence pédagogique étant fort bien partagée dans l’Education nationale — sont directement responsables du glissement à l’extrême-droite de tous ceux — des millions — qui ont cru à l’ascenseur social et n’ont même plus d’escalier.


Alors, persistez à vilipender les uns, parce qu’ils seraient néo-fachos, et à vous moquer des autres, parce qu’ils seraient gaucho-réacs. Quand vous ferez le tri, vous verrez qu’il ne reste personne, rien que vous et vos amis — les misérables 12% qui ont encore un intérêt à voter pour Hollande en 2017, et qui n’auront plus que leurs yeux pour pleurer, après le second tour — juste avant que l’on vous demande des comptes. Vous récusez l’intelligence, et vous avez raison : vu ce que vous êtes, elle est la suprême insulte.

Jean-Paul Brighelli (Bonnet d'âne, 4 octobre 2014)

Obama is Out of Control

Obama is Out of Control

Barack-Obama-Celebrity-Fan-Art-Funny-Caricature.jpgThe United States is wagging its finger at Zimbabwe, threatening to ratchet up sanctions over a plan to develop a platinum mine involving Russian and Zimbabwean companies. Obama is attempting to impose his own rule of law over the entire world – my way or highway. He has no such constitutional authority and this guy who misses most of his daily briefings as Fox News reported, and countless others.

I am not kidding. This is precisely how Athens fells. It dictated to all its allies and one by one they turned against Athens and joined Sparta. Sparta was a virtual communist state and Athens was a state in a battle swinging back and forth between oligarchs and democracy.

Russia is rising and Obama is the direct cause of handing power to Russia in the EXACT same manner as we saw the fall of Athens. Piss-off all your allies and they then turn against you and joining your enemy. Your enemy is my friend – as the saying goes. Putin is way smarter than Obama. He has adopted the words of Abraham Lincoln, you destroy and enemy by making him your friend. Since he cannot do that with Obama, he is doing it with everyone around him. Putin is a master chess player – Obama may not even be capable of checkers.

Joe Biden is great for saying things he shouldn’t. Now Biden in a boast admitted publicly that the Americans have for the first time have forced the EU and Merkel against their will to sanction Russia. Joe Biden said that Obama has insisted that the EU take into account economic damage to punish the Russians. The Biden’s remarks make clear that Angela Merkel and her EU colleagues have followed the instructions of Obama against the self-interests of their own people. In Germany, this is having a serious impact for Merkel’s words of the free self-determination sound more like just political bullshit.

No in the parliamentary elections that took place in Latvia, the Pro-Russian party Harmony won with 23.3% –  the most votes of any party. Nevertheless, a change of government is, however, unlikely. Russia can thank Obama’s sanctions for more and more countries and regions are turning to Russia.

Previously ruling center-right coalition in Latvia of Prime Minister Laimdota Strsujuma coming together to almost 58 percent of the vote so there will be no real change. Nonetheless, we are seeing the rising trend in support of Russia around the globe.

Iran has rejected sending exports of energy to Europe. President Rouhani said Iran did not have enough gas to allow it to export to the EU. Tehran has since been living with sanctions of the West and therefore seeking an alliance with Moscow. Another great failure of sanctions.

Putin is gaining support in China, Middle East, and even making friends in South America. All Obama can do is sanction people trying to run the world like managing children, but Putin refuses to go to his room. So now what comes next – a spanking? Obama will never back off of sanction because then he has to admit he has been wrong. Nevertheless, domestic confidence in Obama is at record lows. The Republican pray he comes to their state to try to support the local democrat. The association with Obama is becoming disaster.

Reprinted from Armstrong Economics.

 

Copyright © 2014 Armstrong Economics

Bhagavad-Gîtâ - Le Chant du Bienheureux

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Bhagavad-Gîtâ: le Chant du Bienheureux

108 pages. Traduit du sanskrit par Emile Burnouf et présenté par le Pr. Jean Haudry.

Elément central du Mahâbhârata, connu pour être la plus grande épopée de la mythologie hindoue, la Bhagavad-Gîtâ (« Chant du Bienheureux ») est un des écrits fondamentaux de l’Hindouisme qui s’inscrit dans la tradition héroïque indo-européenne.

Il s’agit d’un dialogue dans lequel le Seigneur Krishna, 8e avatar de Vishnou, tend à dissiper le doute chez le kshatriya Arjuna au moment d’une bataille qui risque de faire nombre de morts parmi ceux que ce dernier aime.

Composé de 18 chapitres et vraisemblablement rédigé entre les Ve et IIe siècles av. J.-C., l’intérêt capital de ce texte sacré tient du fait qu’il invite à dépasser le brahmanisme sans le répudier pour autant.

Au-delà de toutes les sensibilités spirituelles, la Bhagavad-Gîtâ nous enseigne avant tout la dévotion et le détachement pour lesquels le verset II.38 semble parfaitement convenir : « Tiens pour égaux plaisir et peine, gain et perte, et sois tout entier à la bataille : ainsi tu éviteras le péché . »

Pour commander auprès des Editions du Lore: http://www.ladiffusiondulore.fr/antiquite/379-bhagavad-gita-le-chant-du-bienheureux.html

jeudi, 09 octobre 2014

Montmédy: Orages d'acier

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Insérer une imageMONTMEDY & MARVILLE & plus... :
Orages d'acier - commémoration théatrale 14-18
 
  FRANCE Début : Samedi 11 Octobre 2014, 16:00
Fin : Dimanche 12 Octobre 2014, 16:00

 

L'association Transversales vous donne rendez-vous le samedi 11 octobre à 16h00 à la citadelle de Montmédy, ainsi que le dimanche 12 octobre à 16h00 dans les caves de Marville. Vous assisterez alors à un témoignage des plus saisissants de la 1ère guerre mondiale:
TRANSVERSALES propose de faire entendre les mots d'Ernst Jünger dans des lieux réels de la Première Guerre mondiale, afin que la langue de Jünger y rencontre l’épaisseur de ces pierres.


Ernst Jünger, soldat allemand, se retrouve après quelques semaines de formation dans le chaos et la folie de cette guerre si meurtrière. Pour garder conscience, il écrit un journal.
Il y décrit jour après jour le quotidien du soldat mais également la violence et l’absurdité des tranchées. Il reprendra ce journal après l’armistice. Il regroupera ces notes afin de les synthétiser et surtout afin d’en faire littérature, d’en faire « de l’art ». Seul l’Art peut faire comprendre et ressentir l’expérience des tranchées…

Un siècle après le début de cette guerre, nous nous proposons de faire entendre les mots de Jünger. Dans des caves, des forts, des lieux réels de la première guerre mondiale. Afin que la langue de Jünger y rencontre l’épaisseur de ces pierres.
Office de tourisme transfrontalier du Pays de Montmédy
Citadelle - Ville haute / 2, rue de l'hôtel de ville
F-55600 MONTMÉDY
Tél. +33 (0)3 29 80 19 52
/Lucienne0210

 

La dédollarisation. L'euro va-t-il entrer dans le jeu?

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La dédollarisation. L'euro va-t-il entrer dans le jeu?

par Jean-Paul Baquiast
 
Nous avons plusieurs fois souligné que les projets de dédollarisation envisagés au sein des pays du Brics ne prendrait tout leur sens que si les pays de l'eurogroupe, c'est-à-dire les pays utilisateurs de l'euro, s'y joignaient. Ainsi pourrait s'édifier la première phase d'un euroBrics dont la constitution, au sens strict, changerait la face du monde. La domination du dollar, sous-tendant celle des Etats-Unis, pourrait commencer à perdre de son influence.


Or selon un article de Blomberg, groupe financier américain spécialisé dans les services aux professionnels des marchés financiers et dans l'information économique et financière, l'euro devrait rejoindre prochainement le groupe des monnaies directement échangeables en yuan ( monnaie chinoise) à Shanghai, après les dollars américain, australien et new-zélandais, la livre et le yen. Le yuan est la 7e monnaie en importance utilisée pour les échanges financiers internationaux. L'arrivée de l'euro marquera un grand pas dans l'internationalisation du yuan, en diminuant sensiblement les coûts de transaction. L'euro et le yuan devraient en bénéficier conjointement, ainsi que leurs échanges avec le reste du monde.

En quoi, dira-t-on, s'agira-t-il, d'un nouveau pas dans la dédollarisation? Simplement parce que les opérateurs ayant recours à l'euro-yuan dans leurs échanges, par exemple pour les ventes d'Airbus en Chine, n'utiliseront plus le dollar. Echapperaient-ils ainsi aux fluctuations de cette monnaie, découlant en partie des stratégies politiques ou économiques de Washington? Certes, dans la mesure où le yuan a une parité quasi-fixe avec le dollar, on ne voit pas en quoi le fait de libeller les transactions commerciales en yuan changera quoi que ce soit sur l' exposition des opérateurs aux fluctuations du dollar. Mais l'effet médiatique consistant à remplacer le dollar par le yuan ou l'euro sera considérable. Quoiqu'il en soit, nous n'avons pas ce jour à notre niveau confirmation par une autorité européenne de l'exactitude des propos de Blomberg. Il serait douteux cependant qu'il s'agisse d'un simple bruit destiné à provoquer des mouvements spéculatifs sur les cours. Affaire à suivre donc.

Selon Blomberg, les relations commerciales entre la Chine et les pays européens ont cru de 12% l'année dernière, jusqu'à atteindre $404 milliards pour les 8 premiers mois de 2014, chiffre à comparer aux $354 millions pour les échanges américano-européens dans la même période. Les sociétés françaises et allemandes tiennent la tête des opérateurs utilisant le yuan.

Les accords euro-yuan ne marqueront pas une dédollarisation complète des échanges entre l'Europe, la Chine et plus largement l'Asie, mais il s'agira d'un début prometteur. On comprend dans cette perspective pourquoi les Etats-Unis font de telles pressions sur l'Europe pour lui faire accepter un Traité de libre-échange transatlantique. Dans le cadre de ce traité, les entreprises européennes pourraient s'engager – librement, of course – à n'utiliser que le dollar, comme le fit à ses dépends la BNP.

* Voir Blomberg news, daté du 29 septembre Yuan to Start Direct Trading With Euro as China Pushes Usage
http://www.bloomberg.com/news/2014-09-29/yuan-euro-direct-trading-begins-tomorrow-as-china-promotes-usage.html

* Voir aussi une confirmation par l'agence russe RIA. Elle y voit un renforcement du poids de la Chine en Europe.
http://fr.ria.ru/discussion/20141002/202592940.html

 

Hong Kong: la tentation de la "Maidaïnocratie"

 

Hong Kong: la tentation de la "Maidaïnocratie"

Auteur : Karine Bechet-Golovko

Ces deux dernières semaines ont été marquées par la montée du mouvement Occupy Central à Hong Kong. En effet, des étudiants très prévoyants et citoyens sont montés à l'assaut du pouvoir de Pékin pour demander dans la ville des élections libres et démocratiques ... en 2017. Oui, en 2017. Et ce juste avant les fêtes nationales du 1er octobre, conduisant les pouvoirs locaux à annuler les différentes cérémonies. Et cela juste quand les Etats Unis, par la voix du vice-ministre de la défense, annoncent s'inquiéter de la tentative par la Chine d'une remise en cause de l'ordre mondial, c'est-à-dire d'un monde américano-centré. Alors on retrouve des mouvements "pacifistes" qui occupent des espaces publiques. On les voit apporter à manger. On les voit jeunes, très jeunes. Car la jeunesse est l'avenir. Elle détient la vérité, de manière innée, car elle est jeune. Elle peut donc être coupée de tout, notamment de ses racines, qui ne sont qu'une illusion d'optique. Dépassé. La génération Iphone est l'avenir de l'humanité post-moderne, la "Maidaïnocratie" l'avenir de la démocratie.

Les mêmes causes entraînent à peu près les mêmes effets. Une population jeune, mise en avant contre un pouvoir oppresseur, sur fond de crise socio-économique, avec le slogan de la Démocratie comme justification totale et absolue. Comme la démocratie, qui ne peut être que totale et absolue, donc appartenir au peuple, à tout le peuple. Mais dans les "vraies" démocraties, laissons toutefois le pouvoir à ses représentants, c'est plus sûr. Et toute cette jeunesse, spontanément, se rend dans le centre de Hongkong, spontanément prend des parapluies, spontanément allume en même temps les Iphones etc etc etc. Et l'on retrouve les mêmes appels publics filmés de jeunes filles parlant en anglais et demandant le soutien à la démocratie, devoir diffuser sur les réseaux sociaux pour que les gens qui eux, vivent en démocratie, puissent les aider à accéder à la démocratie. Même numéo qu'en Ukraine. Jeune fille stéréotypée, Message aussi. Avec une répétition excessive du mot "démocratie".

Les mouvements de Pékin entraînent comme toujours une réaction des Etats Unis qui exigent des autorités chinoises de respecter la contestation - après Ferguson. Réponse des autorités chisoises, c'est une affaire intérieure, aucune intervention d'aucune sorte ne sera tolérée. Exigence lors de la deuxième semaine de démonter les barricades "pacifiques mais au cas où"et d'évacuer les rues. Globalement, il semblerait que le mouvement s'étouffe. La Chine n'est pas l'Ukraine et la fermeté peut éviter une révolution, voire une guerre civile.

Et le traitement de l'information toujours le même. Les médias français, comme Le Figaro, s'épanchent, presque une larme à l'oeil, sur le grand combat mené par ces jeunes étudiants. "Joshua Wong, l'idole de la rue, n'a que 17 ans, et les dirigeants historiques d'Occupy Central, comme le professeur Benny Tai, représentent la vieille garde, bousculée par la fougue de la jeunesse.". Car c'est bien là le ressort du mécanisme. Des jeunes. Qu'il est plus facile de manipuler et de déraciner. La révolution comme un jeu. On joue à se faire peur, et on finit par avoir peur. La démocratie, un slogan absolu, parfait à 17 ans, même si on ne le comprend pas. Il voudrait dire : le peuple a le pouvoir, nous sommes le peuple, nous avons le pouvoir. Mais ça reste très vague. Et la veille garde de 40 ans dépassée, car il n'y a pas de temps pour raisonner, ça ne rentre pas dans un tweet. Et finalement on joue à la démocratie.

Et cette forme de "démocratie" tant saluée dans la presse. Même si, pour cela, il faut oublier ce que sont devenus les grandes révolutions en couleurs. Où en est la démocratie en Irak ? En Egypte ? En Lybie ? Combien de civils meurent chaque jour lors de la non-guerre d'Ukraine ? Ce Maïdan idéal ?

Toutefois, The Washington Post, laisse la parole au doute, à la dissidence dans la parole. Et de rappeler que finalement, Hong Kong n'a jamais eu autant de liberté politique que sous la gouvernance chinoise, car sous la domination anglaise, les gouverneurs étaient directement nommés par Londres. Et de rappeler que si, au début, la majorité de la population était favorable au mouvement, maintenant l'opposition est majoritaire. Et de se dire que l'avenir de l'Ukraine n'est pas enviable. Que Hong Kong a des potentialités qu'il serait dommage de détruire. Qu'il s'agit surtout d'une crise socio-économique qui n'a pas grand chose à voir avec Péfin, en fait. Hong Kong s'est rapidement et largement recentrée autour de la finance, portant atteinte à la production locale et créant un fossé entre les personnes en fonction de leur domaine d'activité professionnelle, fossé accentué par une hausse du coût de la vie. Bref, la faute à la mondialisation. Utilisée ici pour la cause, enfin pour une autre cause.

Et l'évolution du rôle de la Chine, sa tendance à remettre en cause, discrètement mais efficacement, la suprématie des Etats Unis et l'ordre mondial centré autour de l'obéissance à cette suprématie inquiète largement Washington. Dont le travail se voit à Hong Kong. Surtout que Taïwan arrive sur le même modèle. Cette crise aura permis, en tout cas, d'accéler le rapprochement entre la Russie et la Chine, de relancer la coopération sur tous les fronts, de remettre en cause le dollar dans leurs échanges et de faire front dans le renseignement, notamment en ce qui concerne les "tentatives de révolution".

Au moment où il aurait fallu totalement isoler la Russie, dans la logique de la politique américaine, l'activation de Hong Kong semble être une erreur, puisque non seulement le conflit ukrainien ne prend pas fin, mais il s'enlise dans le sang. Ce qui pousse la Chine dans les bras de la Russie et permet de consolider la création d'un pôle asiatique, voire de radicalement déplacer le centre de "l'ordre mondial" hors de portée d'un occident à bout de souffle. Ce qui, en fait, serait également regrettable, car entraînerait un nouveau déséquilibre. C'est ici que l'Europe pourrait prendre sa place et redevenir un acteur sur la scène internationale. Mais pas une Europe américanisée, une Europe européenne. Celle qui est attendue, par ailleurs.

Le bilan africain de Nicolas Sarkozy

Bernard Lugan:

Le bilan africain de Nicolas Sarkozy

Ex: http://www.bernard-lugan.com

 
sarkozy-3-7115c.gifGeorge Bush désintégra l'Irak et Nicolas Sarkozy la Libye, deux pays qui étaient des remparts contre l'islamisme. La Libye du colonel Kadhafi était, de plus, devenue un partenaire essentiel dans la lutte contre la déferlante migratoire venue de la mer, phénomène si bien annoncé par Jean Raspail dans son prophétique Camp des Saints.
Si George Bush n'a plus d'avenir politique, Nicolas Sarkozy ambitionne quant à lui de revenir aux Affaires. Le bilan africain de son premier mandat doit donc être fait. Il est catastrophique et tient en sept points :
 
1) Le plus grave par ses conséquences régionales fut la guerre incompréhensible qu'il déclara au colonel Kadhafi après qu'il l'eut pourtant reçu avec tous les honneurs. Nicolas Sarkozy devra répondre à trois questions :
- Pourquoi outrepassa-t-il le mandat international prévoyant une zone d'exclusion aérienne dans le seul secteur de Benghazi pour le transformer en une guerre totale ?
- Pourquoi refusa-t-il toutes les options de sortie de crise proposées par les chefs d'Etat africains, exigeant au contraire d'une manière obstinée la destruction pure et simple du régime libyen ?
- Pourquoi, alors que le colonel Kadhafi venait de réussir à se sortir du piège de Syrte, fit-il tronçonner son convoi par l'aviation, le livrant ainsi aux islamo-gangsters de Misrata qui le mirent ignominieusement à mort ?
 
2) Le plus irresponsable pour l'avenir de la France est d'avoir, par petit calcul électoral, et sans consultation préalable du peuple français, transformé Mayotte en département. Dans ce Lampedusa d’outre-mer qui vit des prestations versées par les impôts des métropolitains, la maternité de Mamoudzou met au monde chaque année 7000 jeunes compatriotes, dont 80% nés de mères immigrées originaires de toute l’Afrique orientale et jusqu’à la cuvette du Congo. Juridiquement, il n’existe plus aucun moyen de revenir au statut antérieur qui permettait de maintenir cette île de l’océan indien dans l’ensemble français sans avoir à subir les conséquences dramatiques de la départementalisation.
 
3) Le plus indécent fut la façon dont, en Côte d'Ivoire, il intervint directement dans la guerre civile en hissant au pouvoir son ami et celui de la Banque mondiale, le très mal élu Alassane Ouattara, prolongeant ainsi toutes les conditions des futures crises.
 
sarkozy-et-ses-caniches-af_4e5a9049d3234.jpg4) Le plus insolite fut son « discours de Dakar », dans lequel il osa déclarer que si l'Afrique n'est, selon lui, pas entrée dans l'histoire, c'est parce qu'elle ne s'est pas soumise au dogme démocratique...
 
5) Le plus scandaleux fut sa gestion du dossier rwandais quand, influencé par son ministre Bernard Kouchner, il ne conditionna pas le rapprochement diplomatique entre Paris et Kigali au préalable de l'abandon des accusations fabriquées par Paul Kagamé contre l'armée française.
 
6) Le plus symptomatique fut son alignement sur les Etats-Unis, politique illustrée par un vaste désengagement, de Djibouti à Dakar, avec pour résultat de laisser le Sahel à Washington. Il aura fallu un président socialiste pour que la France fasse son grand retour dans la région...
 
7) Le plus incompréhensible, conséquence du point précédent, fut son refus d'intervention au Mali. Pourquoi laissa t-il les islamistes se renforcer puis coiffer les Touareg du MNLA alors que nos intérêts nationaux, notamment en ce qui concerne l'uranium du Niger, étaient directement engagés dans la région ?
 

Corneliu Zelea Codreanu and the Legion of the Archangel Michael

 

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Corneliu Zelea Codreanu and the Legion of the Archangel Michael

 

by Christophe Dolbeau

 

 

                                               The legionary will rather judge man by his soul…

 

                                                                                              C. Z. Codreanu

 

             A few decades ago, Paris most influential daily, Le Monde, gave some reverberation to a statement from the local antiracist league (LICA) which protested against the coming meeting of « former Romanian fascists » around Archbishop Valerian Trifa who was one of their (alleged) leaders in America. Later on, in 1984, the same Valerian Trifa was back on the front pages as the media gave notice of his deportation from the US to Portugal (he was to die in Estoril in 1987). An American citizen since 1957, the prelate had chosen to forfeit his nationality in 1982 after the notorious Office of Special Investigation had taken proceedings against him, with much encouragement from the pro-communist orthodox patriarchate of Bucharest. In Horizons Rouges (1), general Ion Pacepa, the former head of Romanian intelligence, has since related in detail how the case was made up with fake photographs and manufactured evidence… In 1988, the famous historian and philosopher Mircea Eliade (1907-1986) became in turn an object for sorrowful remarks when his posthumous memoirs made it clear that he had also had « reprehensible sympathies » in his youth… (2).

 

            From these anecdotes, it results that both the clergyman’s and the scholar’s indelible mistake was simply that several decades ago they belonged to the Iron Guard. A great popular movement that overthrew the political scene in Romania, the Iron Guard constituted a peculiar and most controversial phenomenon which keeps a place apart in the history of fascism and still attracts the attention.

 

« Romanian awake ! » (3)

 

            The story began 87 years ago, on Friday June 24, 1927, when together with four   friends (Ion Moţa, Ilia Gârneaţă, Corneliu Georgescu and Radu Mironovici), Corneliu Zelea Codreanu, a young doctor of law from Moldavia, laid the foundation of the Legion of the Archangel Michael (Legiunea Arhanghelului Mihail). At that time, Codreanu, aged 28, was already a popular public figure in his country : according to Odette Arnaud (4), « physically he has all the features and traits of the local peasants : he is slim and muscular, sparing of words and gestures, and his bearing is stately. There is no doubt : he commands respect and attention ». Very similar is the description drawn by Jérôme and Jean Tharaud (5) : « In front of me », they write, « a man who is still young ; he is dressed in a rough homespun, his hair are wavy, he has got a high forehead, a blue and cold eyesight, classic features and his gestures are quiet and measured ». To this portrait, Bertrand de Jouvenel (6) adds a few details : « Never did I meet a character », he says, « who introduces himself with so little ostentation and makes such a strong impression. Imagine a very tall and lean man whose face would be a pattern of classical beauty if it were not for deep sockets where a pair of piercing eyes glint ».

 

            Born September 13, 1899, Corneliu Zelea Codreanu attended the Manastirea Dealului military school where he acquired his first patriotic convictions. Galvanized by his father’s red hot patriotism and even though he hadn’t finished school, he did not dither and volunteered to the front during the war (1916). Soon after registering as a law student at Jassy University, he joined the Guard of the National Conscience (1919) ; in May 1922, he founded the Christian Students Association and in March 1923, he joined a fiercely anti-Jewish party called the Christian National Defence League (Liga Aparirii Nationale Crestine)-(7). Eventually, in May 1925, he was prosecuted for the murder of a police commissioner (Constantin Manciu) and triumphantly acquitted (8). His action seemed so justifiable (self-defence)-(9) that 19.300 attorneys had volunteered to plead his cause and the day after he was acquitted, thousands of Romanians cheered at the train which brought the young man back to Jassy. A former French lecturer in this town, Emmanuel Beau de Loménie, throws an interesting light on the case : « Those who speak about the death of the commissioner neglect to say that the man in question was ruling by a system of oriental terror. Whenever he arrested some young anti-Jewish demonstrators, one of his favourite games consisted in hanging them head downwards and whipping their feet with a bullwhip until they fainted » (10).

 

            At that time and for most of his followers, Codreanu was already « a rock among the waves, a road opener, a sword drawn between two worlds » ; he was also the embodiment of new virtues : « thought, fortitude, action, bravery and life » (11).

 

A religious inspiration

 

            codreanu.jpgBased on the belief in God, the faith in a mission, mutual love and a fraternal sharing of emotion through choir-singing, the Legion of the Archangel was very different from a political party as we usually conceive it nowadays. « It is not a political movement », says V. P. Garcineanu, « but a spiritual revolution » (12). In Défense de l’Occident (13), Paul Guiraud shares a common sentiment : « This movement », he writes, « has got something unique : it aims at the spiritual and moral recovery of man, at the creation of a new man. This man won’t have anything in common with his democratic predecessor who was both individualistic and weak-minded ». This spiritual reference catches also the attention of Robert Brasillach (14) in Notre Avant-Guerre where he mentions the Legion : « To his legionaries », the young columnist writes, « Corneliu Codreanu directed a rough and variegated poetry ; he appealed to sacrifice, honour, discipline and called for that sort of collective impulse which people usually experience through religion and which he called national ecumenicity » (15). For C. Papanace and W. Hagen (W. Höttl), it was these high moral standards that distinguished the Legion from all other nationalist movements in Europe. According to C. Papanace, « fascism cares about the attire (i.e. the state organization), national-socialism about the body (i.e. racial eugenics) while the Legion attends to the soul (which means its strengthening through the practice of Christian virtues and its preparation with a view to its final salvation) » (16). For W. Hagen, the Legion « had nothing in common with the various copies of fascism and national-socialism that existed in other countries. The difference laid in its Christian religiosity and its mysticism » (17). An intense nationalism combined to a passionate faith made of the Legion an unusual phenomenon which some legionaries saw as the early beginnings of a vast spiritual awakening of the world : « With legionarism », Garcineanu says, « Romanians have created a unique phenomenon in Europe : a movement which possesses a religious structure associated to an ideological corpus that proceeds from Christian theology (…) This is a central fact because in the collective quest for God, it means that all other nations will have to follow us » (18).

 

Anti-Semitism

 

            For the leader of the Legion, Romania’s troubles were primarily due to the Jews. Almost a century later and in view of the wave of anti-Semitic crimes which occured during WWII, this extreme judeophobia seems altogether inadmissible. One should of course replace it in the context of the thirties and remember some enlightening statistics : according to a census of that time, which we borrow from F. Duprat (19), Jews were 10,8% in Bucovina, 7,2% in Bessarabia (and almost 60% of Chisinau’s inhabitants), 6,5% in Moldavia (with a total population of 102.000, Jassy was housing 65.000 Jews) and no less than 140.000 of them lived in the capital-city (which had a total population of 700.000). According to professor Ernst Nolte (20), « between the boyards and the serves, the Jews had formed an intermediate stratum. In some universities and several academic professions and although they did not make up more than 5% of the total population, they outnumbered Romanians. Seventy percent of the journalists and eighty percent of the textile engineers were of Jewish stock. In 1934, almost 50% of the students were non-Romanians (…) Unlike their coreligionists from Austria-Hungary, local Jews did not feel disposed to being assimilated, especially as the prorogation of their former community-status allowed them to secure considerable business advantages ».

 

            In Romania as everywhere else in Europe, Jews aroused the hostility of nationalist circles. It was not exactly a novelty : already in 1866 a bloody riot had broken out in Bucharest when French MP Adolphe Crémieux (21) had offered Romania a loan of 25 million francs in return for the emancipation of Jews. In a stormy atmosphere, members of Parliament had hence been forced to turn down the offer. Considering this past record, the anti-Semitism of the Legion was not so exceptional : after all Iorga’s and Cuza’s National Democratic Party, Marshal Averescu’s People’s Party and Octavian Goga’s National Christian Party (22) had taken the same stand… Besides one should notice that contrary to widely spread clichés, Codreanu never refered to any biological or religious anti-Semitism to justify his anti-Jewish trend. As in the days when Romania was fighting against Turks, Phanariots or Russians, the Legion only confined to an exclusive conception of Romanian national identity. There again one must look back on the crisis of 1866 and remember the words of geographer Ernest Desjardins who wrote : « I can affirm that no religious prejudice ever plaid any part in the government’s decisions nor in the hostility which natives display towards the Jews » (23). Former legionary Faust Bradesco says approximately the same : « Just as it was in the 19th century », he writes, « Legion’s anti-Semitism is nothing but national self-defence (…) Never did the Legion cause any physical harm to the Jews ; it took no notice of race and never damaged any synagogue » (24). Incidentally it appears that Codreanu’s official aims were rather peaceful : wasn’t his major ambition to free Romanians from their inferiority complex and compete with the Jews on their own ground ? An intention he quickly materialized by creating a « legionary trading battalion », cooperative stores, communal canteens, sewing shops, a « legionary market » and a « legionary workers’ corps ».

 

A noble ideal

 

            To bring national decline to an end and restore the ancient Dacian, the Legion was supposed to be « a school and an army more than a political party » (25). This essential interest for man, as opposed to the corruptible and cosmopolitan politico, was the cornerstone of the movement : « …A new man will rise », Codreanu foretold, « with the qualities of a hero. The Legion will be the cradle of the very best offspring our race can beget : our legionary school will nurture the proudest, noblest, frankest, wisest, purest, bravest and most industrious sons Romania ever had, the noblest souls she ever dreamt up » (26). In this slow process of national revival, woman – mother, daughter, sister or partner – was not forgotten : « In this fight for the better and for the renewal of the Romanian soul », Ion Banea writes (27), « a strong, beautiful and great role is allotted to women (…) We are today in a period of change and struggle. From this battle of honour the woman of our time cannot be absent. We want the woman of our age to be a fighter ; we want her to be a comrade. The times demand it ».

 

            Both in his writings and public speeches, Codreanu harked back again and again to these themes, tirelessly claiming for the restoration of moral requirements which were so stern and austere that F. Bradesco called them « anti-machiavellian » : « All talents », said Codreanu, « brains, education and breeding, are useless to a man who is committed to infamy. Teach your children not to use it either against a friend or even against their worst ennemy (…) In their fight against traitors of all sorts, tell them not to resort to the same disgraceful means. Should they eventually win, they would just exchange roles with their foes. Infamy would stay unchallenged (…) Basically il would carry on ruling the world. Only the light, which flashes out from the hero’s noble and loyal soul, will dispel the shades with which infamy darkened the world » (28).

 

Stringent ethics

 

            To ponder and practice these principles, legionaries were incorporated into a rather elaborate structure. In addition to the headquarters (the Green House or Casa Verde) it included the « brotherhoods of the Cross » (for children and teenagers), the « citadels » (for women and girls) and above all the « nests » where men could find « a moral milieu propitious to the birth and development of the hero ». In this frame, legionaries could complete their moulding by facing three kinds of ordeals : at first came small personal sacrifices (of time, money and energies), then missions that required heart (to cope with injustice, legal pettifogging and police brutality) and finally situations that necessitated an absolute faith so as to master misgiving, impatience and disillusion. « Only means to contend with human cowardice, hyper-materialism and an unquenchable craving for domination », Faust Bradesco says, « these ordeals allow man to fulfill himself as a person and to grow better as a member of the society » (29). All along that spiritual path, the legionary could be awarded congratulations, mentions, diplomas, ranks (e.g. instructor, vice-commander or commander) and medals (the White Cross for bravery and the Green Cross for deeds of valour). The movement possessed a few special units but globally it was based on a pyramidal organization (with a corresponding hierarchy) : above the « nest », there were the garrison, the district, the department (county) and the region. At the top and next to the Captain, the movement was headed by the Legion Senate (an assembly of wise men, older than 50) and the Council of Commanders (30).

 

            As an echo to the « collective state of mind » and the « national ecumenicity » which Codreanu often refered to and also as a symbol of unity, the Legion wore a uniform (a green shirt). Concurrently the Captain had set forth a series of eight points – moral purity, unselfishness, enthusiasm, faith, the stimulation of the moral forces of the Nation, justice, vitality and New Romania as a final goal – to which every new member personally adhered by taking an oath and solemnly receiving a small bag of Romanian earth. So as to ensure an harmonious development to the movement, this creed was of course associated to the consentaneous principles of order and discipline (31) without which no political action could ever suceed.

 

            Soon the Capitanul (a traditional title of Captain given to great defenders of the Nation) started to lead imposing rides through the country, with hundreds of horsemen wearing white tunics stamped with a Cross. He also opened large working-sites (« The work-camp », Garcineanu writes, « possesses the same beneficial influences upon the Romanian soul as the nest. Only it realizes them in larger proportions. The spiritual effort is deeper, the accomplished results greater, the legionaries in larger numbers. The work-camp, by its scope, is the place and the only modality of anticipating the great legionary life of tmorrow »). Everywhere in Romania, the ascendancy of the Captain grew bigger and bigger (32) : « I have been able to verify », says Odette Arnaud, « that in both Bucharest and Jassy, 80% of the students learn the Cărticica (the breviary of the Legion) by heart (…) I witnessed a pilgrimage of highlanders. They came to kiss the Captain’s hands after walking nearly a hundred leagues, barefoot, with a stick in one hand » (33). Apparently insensible to this new popularity, the leader of the Legion kept cool and collected : according to Beau de Loménie, « he kept perfectly unaffected, good-tempered and genuinely unassuming » (34).

 

            In June 1930, the Legion of the Archangel St Michael became the Iron Guard (Garda de Fier), a name which it was to keep in spite of several bans (June 11, 1931 ; March 1932 ; December 10, 1933). As an emblem it took a square of iron bars (or gard in Romanian language).

 

codreanu-oliver-ritter1a-n.jpgThe Iron Guard

 

            Faithful to the mission assigned to the Legion, Codreanu provided the Iron Guard with a consistent political doctrine which he set out in his book Pentru Legionari (For the Legionaries). He first advocated a ruthless fight against communism which had been successfully implanted by Jewish immigrants from Poland and Russia (between 1914 and 1938, the Jewish population of Romania had grown from 300.000 to 790.000). As a matter of fact, the Captain did not beat around the bush : « When I speak of anti-communist action », he wrote, « I do not mean anti-worker action : when I speak of communists I mean the Jews » (35).

 

            Although King Carol and his suite never ceased making trouble for him, he then stated that he remained a faithful monarchist and rejected any form of republican government. Quite as clearly he condemned democracy as a system which jeopardizes national unity, changes thousands of foreigners into Romanian citizens and proves together erratic, timorous and invariably compliant to great capitalism (36).

 

            Thoroughly scrutinizing the life of the Nation, the chief of the Iron Guard singled out « natural principles of death » and « natural laws of life ». Persuaded that the masses never had any spontaneous intuition of the latter, he suggested that in the future the people should be guided by an elite, that’s to say by « a type of native individuals who possess some special skills ». How will this elite be recruited ? Neither by the ballot-box nor by heredity but by the natural laws of « social selection ». As to the qualities required, the Captain mentioned pureness, working capacity, valour, a strong will to overcome, an ascetic life, faith in God and love. « One should remember », Codreanu said (November 11, 1937), « that the idea of an elite is intrinsically linked to the ideas of sacrifice, poverty and severe life. Whenever the idea of sacrifice is given up, the elite vanishes ».

 

            From a legionary point of view (as expressed by Codreanu himself), the individual is « subordinated to the national community over which the Nation predominates » (37). The Nation includes « all living Romanians as well as the souls of our dead, the graves of our ancestors and all those who will be born Romanian » (38). The Nation owns a physical and a biological patrimony, a material heritage and – as it is also for the Spaniard José Antonio Primo de Rivera (39) – a spiritual legacy which embraces « the way the Nation conceives God, life and the world, as well as the honour and the civilization of the Nation » (40). For the Captain, « the spiritual legacy is the most important » (41). As for the final goal of the Nation, it is the Resurrection (according to the Apocalypse which legionaries often refered to) : « The Nation is a community that will live in the hereafter. Nations are spiritual realities : they not only live here below but also in the reign of God » (42).

 

The Guard into action

 

            Concurrently to the great strides it organized inside Romania, the Iron Guard began looking forward to an international recognition : in December 1934, Ion Moţa (Codreanu’s brother in law) attended the international fascist meeting of Montreux (Switzlerland), showing thence that the Guard felt more attracted to Rome than Berlin. A couple of years later, when the Spanish War broke out, Codreanu stood up for the nationalists and sent them a symbolic deputation of seven volunteers (Ion Moţa, Father Ion Dumitrescu-Borşa, Prince Alecu Cantacuzeno, Bănică Dobre, Gheorghe Clime, Nicolae Totu and Vasile Marin) led by former general Gheorghe Cantacuzino-Grănicerul. These men left Bucharest on November 26, 1936, they met Francisco Franco and general Moscardo, and joined the Tercio (43). All of them being reserve officers, they were quickly posted (as simple rank and file) to the VIth Bandera and immediately took part in the battle at Las Rozas, Pozuelo and Majadahonda where Ion Mota and Vasile Marin got prematurely killed by an ennemy shell on January 13, 1937 (44).

 

            Within Romania, the conflict with the oligarchy became all the more relentless as the Guard grew more and more representative (from 5 MPs in July 1932, the movement, momentarily renamed Totul Pentru Ţară or Everything for the Country, won up to 60 seats at the elections of December 1937). Persecuted by a regime which went so far as to resort to gangs of thugs and set up a state of emergency in some areas, the Guard will suffer 5.000 deaths between 1927 and 1941. Yet it did not plunge the country into a civil war as it could have done it… It seems therefore particularly undue to picture the Guard as an essentially terrorist organization (which implies that it systematically resorted to violence as a legitimate mean to assume power). Actually when it was involved in violence, it nearly always took the form of limited and targetted actions, conceived as « punishments », whose perpetrators spontaneously surrendered to Justice.

 

            Three of these actions aroused a world wide interest : the execution of Prime Minister Ion Gheorghe Duca by the Nicadorii (at Sinaïa on December 29, 1933), that of Mihai Stelescu by the Decemvirii (on July 16, 1936) and that of Prime Minister Armand Călinescu by the Rasbunatorii (at Cotroceni on September 21, 1939). In the first case, the aim was to punish the man who had quashed the electoral campaign of the Guard and who was responsible for 11.000 arrests, 300 wounded and 6 dead… In the second case, the legionaries wanted to punish a former commander, one of the most brilliant, who had conspired against the Captain’s life, betrayed his oath and become the darling of the Jewish press. Happening at the right moment, this betrayal had had an appalling impact. According to F. Bradesco, « an uneasy feeling was growing among legionaries and a sense of shame was hanging over the Commanders’ Corps » (45). It was therefore decided to strike a spectacular blow (especially cruel, this action proved durably prejudicial. As a matter of fact, Stelescu was killed inside Brancobenesc Hospital where he had just been operated. According to the Tharaud brothers, the murderers shot 38 bullets at him and finished him off with an axe ; writer Virgil Gheorghiu says that they fired 200 bullets and then chopped the body with hatchets !). In the third case, the aim was to avenge the Captain by striking the main promoter of what legionaries usually called Prigoana cea mare or « the Great Persecution ».

 

            As far as terrorism is concerned, one should pay special attention to the case of that Călinescu who prided himself with being the fiercest ennemy of the Iron Guard. Totally subservient to King Carol and the business circles of Bucharest (especially to the king’s mistress Magda Wolf-Lupescu)-(46), he had been displaying a constant hate for the Guard since 1932. Appointed to the governement in December 1937, under foreign pressure and on the eve of new elections, he engaged at once in muzzling the Guard with the most radical means : people were arrested, the police closed some country-roads, meetings were banned, activists placed under forced residence, some of them assaulted, and several areas quarantined. Unfair as they might be, these measures did not prevent the Guard to come third at the poll with 16,09% of the votes. Then, at king’s palace and among power-holders, some disreputable people imagined to get rid of the Guard and its leader for good. Owing to his ferocious zeal, Călinescu was chosen to be the main tool of the plot. At first and after making sure that Patriarch Miron Cristea agreed, the king set up a dictature (February 12, 1938), suspended the Constitution, put off the elections, banned all political parties and declared a state of emergency. Suspecting a snare, Codreanu did not do anything to resist the coup : on his own initiative he dissolved his organization, freed the legionaries from their obligations and advised everyone to keep quiet and patient. When a referendum was called (February 28, 1938) to approve the new Constitution, he deliberately did not ask to vote against it so as not to offer any excuse to further repression. The main result of these tactics was of course to infuriate Călinescu whose provocations redoubled : more legal proceedings poured in, thousands of legionary civil servants were dismissed and all premises and companies of the Iron Guard were arbitrarily closed down. To the minister’s great disappointment this strong pressure proved unavailing as it did not meet the slightest sign of rebellion…

 

            In the end and as the Guard offered no resistance whatever, Călinescu was compelled to find a trivial pretext to engage in the second phase of his anti-legionary operation. On account of a private letter Codreanu had sent to professor Nicolae Iorga, king’s councellor, the latter was encouraged to lodge a complaint for outrage (March 30, 1938) and the Captain was immediately indicted. Arrested on April 17 together with several thousands legionaries (whose possible reaction made the government feel much anxious), Codreanu appeared before a military court (April 19) which sentenced him to a 6 month imprisonment (a maximal punishment for such an alleged offence) ! Incarcerated in Jilava, the leader of the Guard was henceforward at the mercy of his worst enemies. Isolated and seriously ill (from TB), his spirits were low : « Once again my mother is alone », he wrote, « Her son-in-law has died in Spain, leaving a widow and a couple of orphans. I am in jail. Four other children are already in prison or on the verge of being arrested. One of them has also got four children who stay without a crust of bread to eat. Before the holidays, my father went to Bucharest to draw his pension and he never returned. He was arrested, led to an unknown place and no one knows about his fate » (47).

 

            At this stage, it seemed that the government had reached its objective : the Iron Guard was paralyzed, its most active supporters were disqualified and its leader in gaol. Still Călinescu wanted to complete his work. With this aim in view, he initiated new proceedings (May 8, 1938) against Codreanu in order to have him sentenced for treason and armed rebellion. Appearing before Bucharest military court (May 23) after a quick investigation and whereas his lawyers had only had three days to prepare the plea, the Captain miraculously escaped the death penalty (just established on May 24…) but he however got ten years of hard labour (May 27, 1938) !

 

            The denial of justice was enormous, the masquerade patent, yet Călinescu’s employers were not satisfied. Neither the king nor his hidden abettors felt reassured as they perfectly knew that many legionary groups were still secretly at work (in 1937 there were 34.000 « nests »), that some commanders had escaped police raids and that their chief was still alive. Once more the Home Secretary set to work, more than ever determined to do in the Captain and his men. Throughout summer, the police went on arresting people so as to weaken the Guard a little more ; precautions were even taken in the army to prevent any outburst of temper from sympathizers. Eventually, in November, everything was ready and Călinescu gave the green light. In the night from November 29 to November 30, 1938, Codreanu and 13 other legionaries (the Nicadorii and the Decemvirii) were taken out from Râmnicu-Sarat jail and handed over to major Dinulescu and a company of gendarmes. The police vans took the road to Bucharest, they stopped on the edge of Tâncăbeşti Forest and there, the 14 prisoners were coldly strangled by their custodians who also riddled them with bullets to simulate an escape bid. Afterwards, the corpses were brought to Jilava, sprayed with sulfuric acid and burried in several tons of concrete (48) ; then, general Ioan Bengliu gave each killer a bonus of 20.000 lei.

 

            Călinescu had but a short while to jubilize. As expected he was not long to pay for his crime with his life (49) : on September 21, 1939, a group of avengers shot him dead in Cotroceni. As for the tragic death of Codreanu, at the age of 39, it highlights the message which the Captain used to address to his young supporters : « Fight but never be vile. Leave to others the ways of infamy. Better fall with honour than win uncreditably » (50).

 

War, Resistance and Exile

 

            The punishment inflicted to Călinescu (51) led to a stinging counterstroke : the executioners were immediately shot on the spot without any trial. Whereupon general Argeşanu gave the order to kill all legionary officers who happened to be incarcerated at the moment as well as five ordinary legionaries in each county (that is to say between 300 to 400 dead in 24 hours !)-(52). In spite of these repeated blows, the Iron Guard survived ; under the leadership of a new chief, Horia Sima (1907-1993), it even entered the governement in September 1940 (Horia Sima, Prince Sturdza, prof. Brăileanu, legionaries Nicolau and Iasinschi were appointed ministers). Thenceforth the settling of accounts began : on November 27, 1940, former minister Victor Iamandi, generals Gheorghe Argeşanu, Ioan Bengliu and Gabriel Marinescu were summarily executed in Jilava together with senior police officers Moruzov and Stefanescu (53) ; on the same day Nicolae Iorga, the man who had told the king to get rid of Codreanu, was assassinated in Strejnicu (54). On the other hand and contrary to the usual stereotypes, the legionary movement did not start any pogrom. According to the Black Book (Cartea Neagra) which Matatias Carp published in 1946 with a foreword by Chief Rabbi Alexandru Safran, « during the legionary government (from September 6, 1940, to January 24, 1941) casualties were as follows : 4 Jews killed in Bucharest in November ; 11 Jews killed in Ploeşti in the night of November 27 ; 1 Jew killed in Hârşova (Constanta) on January 17, 1941, and 120 Jews killed between January 21 and January 24, 1941, during the rebellion » (volume 1, p. 25). No doubt this balance of 136 victims is terrible (55) but as a comparison one should remember that up to 265.000 Jews died under Marshal Antonescu’s anti-legionary regime… [Is it necessary to add that the Legion took absolutely no part in the alleged pogroms of Jassy (June 27, 1941), Edinets (July 6, 1941), Cernăuţi (July 9, 1941), Chisinau (August 1, 1941) and Odessa (October 1941-January 1942) ? As explained below, the movement was dissolved and prohibited in January 1941. The pogroms if they ever happened were the sole responsability of Antonescu and his acolytes].

 

            The Iron Guard did not stay at the head of the state for long. On January 21, 1941 and by means of a large police operation backed by German Wehrmacht (general E. O. Hansen), Marshal Ion Antonescu tried to extirpate the legionaries for good (at least 800 of them were killed and 8000 arrested). Under German protection, the surviving commanders had no alternative but to flee to Germany where Himmler had them confined in Buchenwald, Dachau, Berkenbruck and Sachsenhausen (56). According to Walter Hagen (57), « the crushing of the legionary movement deprived the regime of any popular support. It became a “dead system“, very similar to the dictatorial government of Carol II. When danger came, nobody lifted a finger to defend it ». Arrested (August 23, 1944) and handed over to the Soviets by order of King Michael and Iuliu Maniu, the Conducător (Antonescu) ended his life facing a communist firing squad.

 

            Released on August 24, 1944, the day after Romania’s volte-face, the legionaries from Germany set up (December 10, 1944) a « Romanian National Government » (with Horia Sima, Prince Sturdza, general Chirnoagă) which settled in Vienna and later in Bad Gastein and Altaussee. They also formed a small anti-communist army which went to fight along river Oder. This Romanian unit was made of two Waffen-SS regiments (5.000 men) whose commanding officer was general Platon Chirnoagă (1894-1974). « In the circumstances », Horia Sima says (58), « the Iron Guard had no choice but to carry on the fight (…) Therefore I issued a proclamation to the country which was immediately broadcast. Then I began organizing the resistance with the scanty means we still had at our disposal ».

 

            As in most East European countries, the resistance began with a very poor equipment, in a territory which the Red Army had just ravaged and where all sorts of communist gangs were wreaking havoc (from March 6, 1945, these thugs became the senior executives of the new political police)-(59). At that time no support was to be expected from either the king or his friends (540.000 Romanian soldiers were now fighting against Germany together with the Soviets). Though he had just been awarded the Order of the Victory, King Michael (born 1921) was no more than a mere hostage in the hands of Vichinsky, P. Groza, Gheorghiu-Dej, V. Luca, Ana Pauker or Emil Bodnăraş, and he had no choice but to drain the cup to its dregs. On December 30, 1947 he nevertheless resolved to abdicate and leave the country. In spite of draconian measures of repression (arrests, mass deportations, shootings), guerillas sprang up in Oltenia, Banat, Transylvania and along the Carpathian Mountains ; led by former legionaries, these groups went on fighting until 1955-1956 almost without any help from abroad (60). Beyond their own ideas, this hard-line attitude was a question of life and death for the former members of the Iron Guard. Actually under a new law passed in May 1948, they were irrevocably destined for the hardest punishments, which meant that they would end up in some infamous death camps (such as Black Sea Canal, Cavnic, Peninsula, Aiud) and suffer the « unmaskings » or brainwashings to which all intellectuals were submitted at Piteşti, Gherla and Jilava special prisons (61).

 

         Codr1149611347.jpg   For the expatriates the fight went on as well (62) but in a less hostile environment. Well established in the Romanian emigration (in Germany, France, Spain, Brazil and the USA) they launched several publications, did their best to inform the Western public (63) and took an active part in various assemblies of captive nations. According to the declaration they issued in 1977 (50th aniversary of the Legion) their positions ensued from their former commitments. The Iron Guard in exile demanded that international communism should be eradicated, it rejected the UNO and the Helsinki Agreement, proposed to build a united Europe with a common spiritual denominator and to support East European resistance movements ; it also rejected any idea of « world government » and flatly repelled the concept of « spheres of influence ». Vis-à-vis the inner situation of Romania, it denied Ceauşescu any legitimacy, reaffirmed Romanian rights on Bucovina, Bessarabia and the Hertza region (annexed by the USSR), rejected collectivism and demanded religious freedom.

 

            As Corneliu Zelea Codreanu had predicted : « Legionaries do not die. Standing upright, steadfast and immortal, they victoriously gaze at the seething of ineffectual hates » (64). In 1989, after 45 years of communist rule, the survivors of the Guard had not changed : they were still faithful to their oath and sticked to their creed (social fraternity, distributive justice, inner perfection and creative revolution). After the fall of Ceauşescu, those who lived in Romania (mostly octogenarians) kept cautious and contented themselves with supporting the traditional right-wing parties. For them, the country was not yet fully safe : the late dictator’s henchmen were still powerful and the new democracy unsteady. Wasn’t it amazing to see the Romanians, totally messed up, cheer up King Michael (in February 1997), the very man who had abandoned them to Stalin and given up a good third of the country ? Writing about the ethnic quarrels which broke out in Transylvania, some journalists suggested that a new Iron Guard stood behind the nationalist movement Vatra Românească and the Association for a United Romania (65). Probably meant for the omnipotent western antifascist lobby, the allegation was immediately taken up by Petre Roman (March 21, 1990) ; it came at the right moment for a most controversial regime whose repressive policy it greatly contributed to justify. Obviously this was grossly overstated and at any rate much premature. Today, Romania is very different from what it used to be in the thirties or the fourties (66) and the Iron Guard is not a simple political party which disappears and reappears according to circumstances. It has a metaphysical dimension which cannot be so easily restored in a country that has been submitted for nearly 50 years to atheism, materialism and utilitarianism. If the legionary movement is ever to revive, it will be under the spur of a new elite (as Codreanu meant it)-(67) and it will need years to develop !

 

 

                                                                                                          Christophe Dolbeau

 

 

Notes

 

(1) Horizons Rouges, Paris, Presses de la Cité, 1988, pp. 217-221.

 

(2) For the same reason, criticisms were also directed at philosopher and poet Émile Cioran (1911-1995). In a letter dated March 4, 1975, the Romanian-French academician Eugène Ionesco (1909-1994) writes : « Towards the end of the inter-war years, most Romanians, especially young people and intellectuals, were members or sympathizers of the Romanian fascist party called the Iron Guard » – quoted by J. Miloe in La Riposte, Paris, Compagnie Française d’Impression, 1976, p. 309.

 

(3) Title of a famous poem by the Transylvanian Andreiu Muresianu (1816-1863).

 

(4) La Revue Hebdomadaire, March 2, 1935.

 

(5) L’Envoyé de l’Archange, Paris, Plon, 1939, p. 2. Both Jérôme (1874-1953) and Jean (1877-1952) Tharaud were novelists who belonged to the French Academy.

 

(6) The son of a Jewish mother, Bertrand de Jouvenel (1903-1987) was a famous fascist journalist who later became a much respected economist.

 

(7) The banner of the League was black and there was a white circle with a swastika in the middle. The League was presided over by professor Alexandru C. Cuza (1857-1947).

 

(8) According to Codreanu, « All the gentlemen of the jury wore a tricolour cockade with a swastika » – in La Garde de Fer, Grenoble, Omul Nou, 1972, p. 231. See https://archive.org/details/ForMyLegionariesTheIronGuard

 

(9) On October 25, 1924 C. Z. Codreanu was defending a young student at the tribunal of Jassy. All of a sudden and during the hearing, commissioner Manciu and a dozen policemen burst into the court room and rushed to Codreanu who seized his gun and fired to protect himself – See La Garde de Fer, p. 210.

 

(10) La Revue Hebdomadaire, December 17, 1938, vol. XII, p. 346.

 

(11) Ion Banea, Lines for our Generation, Madrid, Libertatea, 1987, p. 13-14.

 

(12) V. Puiu Gârcineanu, From the Legionary World, Madrid, Libertatea, 1987, p. 1.

 

(13) N° 81 (April-May 1969), p. 9-10.

 

(14) Born in 1909 in the South of France, Robert Brasillach was a promising poet but also a bestselling novelist and a brilliant journalist ; sentenced to death in January 1945 for « collaboration with the nazis », he was executed on February 6, 1945.

 

(15) Notre Avant-Guerre, Paris, Plon, 1973, p. 304.

 

(16) Introduction to the Livret du Chef de Nid (Handbook of the Nest Leader), Pământul Strămoşesc, 1978, s.l., p. VI.

 

(17) Le Front Secret, Paris, Les Iles d’Or, 1952, p. 234.

 

(18) V. Puiu Gârcineanu, op. cit., p. 14. The Christian inspiration of the movement attracted a great number of clergymen ; approximately 3.000 priests (out of 10.000) belonged to the Legion. In 1945, out of 12 bishops in the Synod, 7 were former legionaries.

 

(19) Revue d’Histoire du Fascisme, N° 2 (September-October 1972), p. 132.

 

(20) Les Mouvements Fascistes, Paris, Calmann-Lévy, 1991, p. 237.

 

(21) Adolphe Crémieux (1796-1880) was a Jew and a freemason ; from 1863 to 1880, he was the president of the Alliance Israélite Universelle (World Jewish Alliance).

 

(22) The symbol of the National Christian Party was the swastika.

 

(23) See Les Juifs de Moldavie, Paris, Dentu, 1867.

 

(24) Les Trois Épreuves Légionnaires, Prométhée, 1973, s. l., p. 69. This opinion is shared by Prince Mihail Sturdza who states that Codreanu « would have immediately expelled from the Movement any fool who had so much as broken a window in a Jewish-owned shop » (The Suicide of Europe, p. 233) and by Father Vasile Boldeanu who assures that « there was no room for anti-Semitism in the legionary programme » (quoted in La Riposte, p. 194).These opinions are perhaps a bit too « optimistic » and in any case they seem to be contradicted by the long series of outrages which the Jewish community suffered at that time (taking into consideration that all the attacks were not always due to legionaries and that they often occured as retaliatons to previous assaults by Jewish thugs as in Oradea, December 1927).

 

(25) La Garde de Fer, p. 283.

 

(26) Ibid, p. 283.

 

(27) Ion Banea, op. cit., p. 10-11.

 

(28) La Garde de Fer, p. 277.

 

(29) Les Trois Épreuves Légionnaires, p. 158.

 

(30) See F. Bradesco, Le Nid – Unité de Base du Mouvement Légionnaire, Madrid, Carpatii, 1973.

 

(31) See C. Z. Codreanu, Le Livret du Chef de Nid, Pamântul Stramosesc, 1978, and F. Bradesco, Le Nid, pp. 111-135.

 

(32) The Legion-Iron Guard had grown from an obscure little group into a large movement whose membership included generals (Gheorghe Cantacuzeno, Ion Macridescu, Ion Tarnoschi), scholars (Traian Brăileanu, Ion Găvănescul, Eugen Chirnoagă, Corneliu Şumuleanu, Dragoş Protopopescu), distinguished philosophers (Nichifor Crainic, Nae Ionescu) and brilliant poets (Radu Gyr, Virgil Carianopol). The masses were also enthusiastic : when Codreanu got married (June 13, 1925), a crowd of 80.000 to 100.000 flooded to Focşani and at the funerals of Moţa and Marin (February 13, 1937), the cortège (with a hundred priests) stretched out over 6 miles. In 1937 and according to S. G. Payne, the Iron Guard had a membership of 272.000 (i.e. 1,5% of the Romanian population).

 

(33) La Revue Hebdomadaire, March 2, 1935.

 

(34) La Revue Hebdomadaire, December 17, 1938, p. 348.

 

(35) La Garde de Fer, p. 353. Before WWII there were approximately 300.000 factory workers in Romania and the local Communist Party had no more than 1000 members. Indubitably most communist leaders – Dr Litman Ghelerter, Ilie Moscovici, Marcel and Ana Pauker (Hannah Rabinsohn), Avram Bunaciu (Abraham Gutman), Walter Roman (Ernö Neuländer), Teohari Georgescu (Burah Techkovich), Gheorghe Apostol (Aaron Gerschwin), Miron Constantinescu (Mehr Kohn), Leonte Răutu (Lev Oigenstein), Remus Kofler, Simion Bughici (David), Iosif Chişinevschi (Iacob Roitman), Gheorghe Stoica (Moscu Cohn), Stefan Voicu (Aurel Rotenberg), etc – were Jews.

See : http://en.metapedia.org/wiki/List_of_communist_Jews_in_Romania

 

(36) Ibid, pp. 386-388.

 

(37) Ibid, p. 396.

 

(38) Ibid, p. 398.

 

(39) See Horia Sima, Dos Movimientos Nacionales, José antonio Primo de Rivera y Corneliu Codreanu, Madrid, Ediciones Europa, 1960.

 

(40) La Garde de Fer, p. 398.

 

(41) Ibid, p. 398.

 

(42) Ibid, p. 399.

 

(43) The Tercio is the Spanish Foreign Legion.

 

(44) José Luis de Mesa, Los otros internacionales, Madrid, Barbarroja, 1998, pp. 165-172, and Los legionarios rumanos Motza y marin caidos por Dios y España, Barcelona, Bausp, 1978. The mortal remnants of the two legionaries were repatriated by train and the funerals took place in Bucharest on February 13, 1937. Legionaries Clime, Cantacuzeno, Dobre and Totu came back safe and sound but they were assassinated by the Romanian secret police in September 1939 ; Father Dumitrescu (1899-1981) received a 16-year sentence in 1948.

 

(45) F. Bradesco, La Garde de Fer et le Terrorisme, Madrid, Carpatii, 1979, p. 97.

 

(46) Born in a Jewish family from Jassy, Helen Wolf (1895-1977) became the king’s mistress in 1925 ; she later married Carol II (the marriage took place in 1947 in Rio de Janeiro) and from then onwards she was called Helen of Hohenzollern…

 

(47) C. Z. Codreanu, Journal de Prison (Prison Diary), Puiseaux, Pardès, 1986, p. 18-19.

 

(48) On December 6, 1940, they were transfered to the Green House in the presence of 120.000 legionaries.

 

(49) Unanimously decided by the Legionary High Command in Berlin, the operation was carried out by a group of nine volunteers led by young attorney Miti Dumitrescu.

 

(50) C. Z. Codreanu, Le Livret du Chef de Nid, p. 7 (Basic rule N° 6 of the « nest »).

 

(51) In a circular-letter (N° 145) dated February 11, 1928, C. Z. Codreanu had explicitly asked his friends to avenge him in case of a murder – See F. Bradesco, La Garde de Fer et le Terrorisme, p. 190.

 

(52) The sinister balance of these reprisals is far from acurate : according to V. Gheorghiu, 242 legionaries were killed whereas Father Boldeanu speaks of 1300 victims. Be it as it may, in absence of legal proceedings this massacre was mere state-terrorism.

 

(53) In a letter dated April 5, 1936, C. Z. Codreanu gave his legionaries the following advice : « Don’t confuse justice and Christian forgiveness with the right and the duty of a people to punish those who betrayed and those who dared opposing the Nation’s destiny. Don’t forget that you have girded on the sword of the Nation. You carry it in the name of the Nation. And in the name of the Nation you shall punish, mercilessly and without any pardon » – La Garde de Fer, p. 443.

 

(54) The authors of this merciless retribution were executed in their turn on December 4, 1940 and July 28, 1941.

 

(55) Once more the balance is uncertain : regarding the events of January 1941, F. Bertin speaks of 400 victims, F. Duprat of 680 and Father Boldeanu goes up to 1352 (122 Jews, 430 legionaries and 800 undetermined). For their part, some representatives of the Jewish community (different from M. Carp and Rabbi Safran) put forward a total of 5.000 to 6.000.

 

(56) Treated as Ehrenhäftlinge or honorary prisoners, many legionaries were apparently not interned with the other inmates but granted better conditions. At Buchenwald for instance several of them stayed in Fichtenheim barracks which housed the camp garrison.

 

(57) W. Hagen, op. cit. , p. 244.

 

(58) Interview by G. Gondinet in Totalité N° 18-19 (summer 1984), p. 20.

 

(59) See Reuben H. Markham, La Roumanie sous le joug soviétique (Rumania under the Soviet yoke), Paris, Calmann-Lévy, 1949.

 

(60) However a few parachute landings were organized by political emigrants and foreign secret services : for instance 13 young paratroopers of the Resistance (Ion Buda, Aurel Corlan, Ion Cosma, Gheorghe Dincă, Ion Golea, Ion Iuhasz, Gavrilă Pop, Mircea Popovici, Ion Samoilă, Alexandru Tănase, Erich Tartler, Ion Tolan and Mihai Vasile Vlad) were sentenced to death and executed in October 1953. All former legionaries did not choose to resist and a minority prefered to adapt and collaborate : such was the case of Father Constantin Burducea who became minister of religious affairs (from March 6, 1945 to April 1946) and Nicolae Petrescu (the last general-secretary of the Iron Guard) who reappeared on the political scene between 1945 and 1948.

 

(61) See D. Bacu, The Anti-Humans, Englewood, Soldiers of the Cross, 1971 and G. Dumitresco, L’Holocauste des Âmes, Paris, Librairie Roumaine Antitotalitaire, 1998.

 

(62) In 1947, the Instructing Commission of the International Tribunal of Nuremberg exculpated the Legion, the Romanian National Government and the Romanian National Army ; yet the Iron Guard decided to dissolve in 1948.

 

(63) Sometimes more spectacular actions were organized as in Bern where, between February 14 and February 16, 1955, the Romanian embassy was raided by political emigrants Stan Codrescu, Dumitru Ochiu, Ion Chirilă and Puiu Beldeanu who killed colonel Aurel Setu, head of the Romanian secret service in Switzlerland.

 

(64) La Garde de Fer, p. 4.

 

(65) See for instance the scholar magazine Hérodote, N° 58-59, p. 300.

 

(66) Today Romania belongs to the EEC, it is a much secular country where communism is only a bad memory and where the Jewish community is reduced to barely 20.000 persons (for a global population of 21,5 million).

 

(67) In 1996 a small group of neo-legionaries from Timisoara began to publish a magazine called Gazeta de Vest. On January 15, 2000 the French daily Le Monde reported that on November 8, 1999 a religious service had been celebrated in Jassy, in memory of the Moldavian dead legionaries ; according to the Paris newspaper this service marked the official rebirth of the Legion. In 2014, the Noua Dreaptă (New Right) claims that it carries on the legacy of the Legion ; it is not a political party but a philosophical movement which does not stand for elections (see http://nouadreapta.org).

 

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        La Revue Hebdomadaire, March 2, 1935 and December 17, 1938.

 

        Nuova Antologia, February 1, 1938 (« Codreanu e il Legionarismo Romeno »)

 

        Défense de l’Occident, N° 81 (April-May 1969)

 

        Revue d’Histoire du Fascisme, N° 2 (September-October 1972).

 

        Totalité, N° 18-19 (Summer 1984).

 

        Le Choc du Mois, N° 28 (March 1990).

 

        Hérodote, N° 58-59 (1990).

 

        Quaderni di Testi Evoliani, N° 29.

 

French speaking readers will find a very complete set of texts about the ideology of the Iron Guard at http://vouloir.hautetfort.com/archive/2010/05/19/codreanu.html

                               

 

La insurrección escocesa de 1820

La insurrección escocesa de 1820, de Peter Berresford Ellis y Seumas Mac A’Ghobhainn

capture-20140908-1012551ª edición, Tarragona, 2014.

21×15 cms., 460 págs.
Cubierta a todo color, con solapas y plastificada brillo.
PVP: 25 euros  
 
Índice
 
Prólogo a la edición española  / 11
Prefacio a la edición de 2.001 /  21
Prefacio a la edición de 1.989 /  25
Prólogo de Hugh Mac Diarmid /  41
La insurrección /  47
La Unión /  67
El republicanismo escocés /  85
Los Escoceses Unidos /  111
El auge del radicalismo / 129
Mi espía Richmond / 145
Los disturbios de Paissley / 163
Planes para el levantamiento / 185
Libertad o muerte / 201
La batalla de Bonnymuir /  225
El levantamiento de Strathaven / 241
Los sucesos de Greenock / 255
La tranquilidad perfecta / 271
Audiencia e Instrucción  / 295
Los juicios / 313
Esta farsa de proceso / 331
¡Asesinato! ¡Asesinato! ¡Asesinato! / 350
¿Tiranía o Revolución? / 367
Apéndice I: Cartas de Baird y Hardie
desde la celda de la muerte / 391
Apéndice 2: Supuesta declaración de
James Wilkinson en la celda de la muerte / 435
Canciones de la sublevación de 1.820 / 439
Bibliografía seleccionada / 451
 
Orientaciones  
 
Este libro sobre LA INSURRECCIÓN ESCOCESA DE 1.820  tiene gran valor en su exposición del uso de espías y agentes provocadores y de la desenfrenada carencia de escrúpulos de las clases dirigentes y su prontitud para manipular la ley, insistiendo en la ley inglesa y enviando a la policía y a otros agentes sin hacer caso de los derechos legales escoceses y con la aprobación hipócrita de la magistratura, la clase terrateniente, la Iglesia y los demás pi­lares del status quo.
 
[del prefacio de Hugh MacDiarmid]  
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Giovanni Gentile, filosofo del combate

mercredi, 08 octobre 2014

Robert Steuckers:De quelques questions géopolitiques inhabituelles

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Robert Steuckers:

De quelques questions géopolitiques inhabituelles

 

Entretien accordé à J. P. Zúquete, dans le cadre d’un mémoire universitaire

 

Acceptez-vous l’étiquette de “nouvelle droite”?

 

Personne dans la “nouvelle droite” ou en marge de celle-ci n’a jamais accepté l’étiquette, inventée par les journalistes dénonciateurs du Nouvel Observateur de Paris en 1979. Seul peut-être Jean-Claude Valla, aujourd’hui décédé, a-t-il profité de ce label pour ancrer son équipe dans le paysage journalistique français, à une époque où elle investissait le Figaro Magazine. Dans le cadre de ce nouvel hebdomadaire à succès, dirigé par Louis Pauwels, cette étiquette pouvait séduire. Aujourd’hui, il convient de dire tranquillement qu’elle n’est plus de mise, qu’elle est une sorte de vocable-reliquat, de joujou idéologique pour faire mousser les dinosaures d’une gauche hystérique et groupusculaire, généralement utilisée par les services pour perpétrer des “coups tordus”. L’évolution ultérieure de quasi tous les animateurs du “Groupe de Recherche et d’Etudes pour la Civilisation Européenne” (ou GRECE) et, même, du “Club de l’Horloge” (qui en était distinct à partir de la fin des années 70), a amené leurs réflexions bien au-delà de l’ensemble circonscrit des droites françaises, sans pour autant nier certaines bases théoriques qui sont soit conservatrices au sens le plus général du terme, soit nationalistes-révolutionnaires, au sens proudhonien du terme ou au sens du non-conformisme des années 30. Alain de Benoist, qui aime qu’on écrive de lui qu’il est une “figure de proue” de ce mouvement dont il récuse pourtant l’étiquette, ne peut plus, aujourd’hui, être considéré comme appartenant au champ des droites françaises, vu qu’il s’est très nettement démarqué de l’actuelle idéologie dominante, le néo-libéralisme, flanqué de son cortège d’idéologèmes boiteux et de nuisances idéologiques que l’on appelle le “politiquement correct”.

 

Les animateurs de la “nouvelle droite” (selon l’étiquette forgée par le Nouvel Observateur) n’ont donc pas adopté les schèmes du néo-libéralisme, toutes variantes confondues, et n’ont jamais embrayé sur la vague néo-atlantiste que l’on observe en France depuis l’arrivée de Mitterrand au pouvoir en 1981, vague qui s’est renforcée et a submergé les ultimes redoutes du gaullisme de tierce voie. En critiquant le néo-libéralisme, comme nouvelle idéologie nuisible et posée par ses thuriféraires comme universaliste, et en refusant la logique atlantiste, ces animateurs dits “néo-droitistes” ont forcément emprunté des formes critiques auparavant ancrées à gauche de l’échiquier idéologique français et abandonné l’anti-gaullisme des vieilles droites françaises pour opter en faveur d’une sorte de néo-gaullisme, hostile aux politiques suggérées par l’hegemon américain depuis Carter et Reagan. La critique du néo-libéralisme (toutefois assez insuffisante au sein de l’actuelle “post-nouvelle-droite” quant au nombre de textes fondateurs) et le rejet de l’atlantisme des post-gaullistes et des socialistes font que les avatars actuels de la “nouvelle droite” —fustigée par les journalistes du Nouvel Observateur en 1979— sont l’expression d’une fusion originale d’éléments auparavant (et apparemment) hétérogènes. Par rapport à ce qu’elle a pu être éventuellement dans sa préhistoire (années 60 et première moitié des années 70) ou à ce qu’elle était quand une partie de ses animateurs investissait avec Jean-Claude Valla le Figaro Magazine de Louis Pauwels, le mouvement pluriel (à têtes multiples) que l’on appelle toujours par convention et par paresse intellectuelle la “nouvelle droite” constitue aujourd’hui une synthèse nouvelle, qui opère des convergences, mais toujours partiellement, avec des mouvements issus de milieux complètement différents, ancrés ailleurs avant 1979 ou nés de circonstances nouvelles, propre aux années 90 du 20ème siècle ou aux quinze premières années du 21ème.

 

Reste aussi à signaler que les rangs de la génération fondatrice se sont éclaircis, par la force des choses, et que les réflexes politiques et les sentiments de ces anciens ne sont plus nécessairement partagés par des générations nouvelles (moins nombreuses toutefois) qui, sociologiquement parlant, ont eu d’autres jeux, d’autres distractions, vécu au sein d’un système scolaire différent (et surtout déliquescent), se sont plongées dans l’univers de l’informatique puis du multimédia, n’ont plus que de vagues souvenirs des réalités si pesantes, si déterminantes, d’avant 1989 (guerre d’Algérie, décolonisation, Rideau de Fer, bloc soviétique, etc.).

 

J’appartiens évidemment à une fournée tardive qui s’est forgé dès la prime adolescence une vision du monde alternative, disons, à partir de l’année 1970, où j’avais quatorze ans. La période de maturation première et confuse s’est déroulée jusqu’en 1974, année où j’achève mes secondaires et où je rentre à l’université. Dès 1974, ma vision philosophique et politique se précise grâce à des amis comme Bernard Garcet, Frédéric Beerens, Alain Derriks, etc. Ces citoyens belges ne sont évidemment pas marqués par les événements d’Algérie, comme leurs contemporains français, et ne raisonnent jamais selon les clivages habituels du monde politique français, en dépit de la très forte influence de la presse et des médias français sur la partie francophone de la Belgique (j’étais le seul qui lisait en néerlandais et en allemand, vu que j’étudiais les langues). Garcet s’intéressait surtout à l’école italienne (Mosca, Pareto), Beerens aux sciences de la vie (Konrad Lorenz, Robert Ardrey), Derriks, journaliste de formation, aux idéologies politiques, à l’actualité la plus brûlante. C’est dans nos échanges hebdomadaires, ou au cours de voyages, où nous commentions nos lectures et l’actualité, que mes options personnelles se sont consolidées entre 1974 et 1980, années où, justement, la géopolitique revient à l’avant-plan, surtout parce que depuis le coup de Kissinger, qui parvient en 1972 à s’allier à la Chine maoïste, on s’aperçoit, d’abord timidement, que les critères géopolitiques pèsent plus lourd que les positions idéologiques. Derriks et moi potasserons —suite à un article de la revue évolienne et “traditionaliste-révolutionnaire” Totalité, animée par Georges Gondinet, Philippe Baillet et Daniel Cologne— le travail du général italien Guido Giannettini (Dientre la Granda Muraglie) qui fut quasiment le premier à préconiser un renversement d’alliance pour l’Europe: si les Etats-Unis, sous l’impulsion de Kissinger et de Nixon, s’alliaient à la Chine pour faire pression sur l’Union Soviétique et pour se maintenir par la même occasion en Europe occidentale, il fallait, sans adopter nécessairement le système économique communiste, s’allier à Moscou pour fédérer les peuples de souche européenne dans la partie septentrionale de l’Eurasie. Jean Parvulesco et Jean Thiriart emboîteront le pas. Par ailleurs, Alexander Yanov, un dissident libéral soviétique exilé en Californie, hostile au néo-slavisme officiel en plein développement dans l’URSS d’alors, démontrait que la néoslavophilie du régime et de la dissidence enracinée s’opposait à un occidentalisme russe présent dans la dissidence (Sakarov) et dans le PCUS au pouvoir. Notre position face à cette première définition par le libéral-occidentaliste Yanov de la “Russian New Right” (1): soutenir la néo-slavophilie dans le régime et dans la dissidence, chez Valentin Raspoutine, primé en URSS, et chez Soljénitsyne, exilé dans le Vermont. Position implicitement partagée par de Benoist (qui recense l’ouvrage de Yanov dans les colonnes du Figaro Magazine) et par l’observateur du monde slave dans la presse non conformiste allemande de l’époque, Wolfgang Strauss, ancien déporté du Goulag de Vorkhuta, qui n’a cessé de plaider pour une alliance de tous les slavophiles.

 

Les travaux géopolitiques de Jean Thiriart ont-ils influencé vos thèses sur l’Europe?

 

robert steuckers, entretien, géopolitique, politique internationale, nouvelle droite, synergies européennes, jean thiriart, ayméric chauprade, front national, eurasisme, eurasie, brics, Jean Thiriart n’a pas, à proprement parlé, rédigé de travaux spécifiquement géopolitiques. Dans les années 60, à l’apogée de son engagement politique sur la petite scène belge (assurément trop étroite pour lui!), il a cependant montré qu’il avait du flair en la matière. Dans l’espace de plus en plus réduit de ceux qui déploraient la défaite européenne (et non pas seulement allemande) de 1945, Thiriart, qui avait horreur des nostalgies qu’il considérait comme des anachronismes incapacitants, voulait réconcilier les volontés, de gauche comme de droite, rejetées dans les marges de nos mondes politiques au moment où se déployait la société de consommation, celle “du frigidaire et du Coca-Cola de Tokyo à San Francisco”. On peut évidemment affirmer que Thiriart opte pour cette position —celle de réconcilier les volontés apparemment hétérogènes sur le plan idéologique— afin d’adopter un discours de “libération continentale”, de dégager l’Europe de l’Ouest et l’Europe de l’Est de la bipolarité instaurée à Yalta en 1945, parce qu’il est lucide et rationnel et sent bien que cette césure au beau milieu du continent entraîne, sur le long terme, la déchéance de notre espace civilisationnel. De fait, Thiriart vouait aux gémonies les irrationalismes politiques, ce qu’il appelait les “romantismes incapacitants”, les délires du “zoo politique” et du “racisme des sexuellement impuissants” relevant, selon lui, psychanalyste amateur à ses heures, de la psycho-pathologie et non de la “politique politique”, selon l’expression de Julien Freund, autre pourfendeur des “impolitismes”. Thiriart ne mâchait jamais ses mots, il avait la parole dure, il nous engueulait copieusement et c’est surtout pour cela que je me souviens de lui avec grande tendresse, notamment en circulant dans le quartier que nous habitions tous deux et où je le vois encore promener son chien noir ou embarquer dans son mobile-home, monté sur 4X4 Toyota. Cependant —et nous ne le devinions que vaguement— Thiriart était tributaire d’un contexte idéologique d’avant-guerre, aujourd’hui exploré pour la première fois scientifiquement, et de manière exhaustive.

 

robert steuckers, entretien, géopolitique, politique internationale, nouvelle droite, synergies européennes, jean thiriart, ayméric chauprade, front national, eurasisme, eurasie, brics, En effet, il existait un “européisme” belge avant 1940, qui avait pris son envol au lendemain de la première guerre mondiale. Docteur en histoire à l’Université catholique de Louvain, Geneviève Duchenne a systématiquement cartographié ces “esquisses d’une Europe nouvelle” (2), où les adversaires de toute réédition de la Grande Guerre évoquaient les possibilités de transcender les inimitiés létales qui avait fait déchoir l’Europe face, notamment, aux Etats-Unis montants ou face, déjà, à une URSS qui se targuait de forger un modèle de société indépassable, annonçant au forceps “la fin heureuse de l’histoire”. Parmi ces mouvements européistes, ou paneuropéens (Coudenhove-Kalergi), il y eut le “Bloc d’Action européenne”, qui a émergé dans les milieux d’une gauche très non conformiste, sympathique et anarchisante, “Le Rouge et le Noir”, où officiait Pierre Fontaine qui, après 1945, évoluera vers une “droite” représentée par l’hebdomadaire Europe magazine (première mouture); ensuite, ce “Bloc d’Action”, qui a oeuvré de 1931 à 1933, fut suivi d’un “Front européen” (1932-1933), animé par des diamantaires juifs d’Anvers et par des Flamands francophones, plutôt catholiques, actifs dans la biscuiterie, se réclamant de l’idéologie briandiste, fustigée par les nationalistes d’Action française. De 1932 à 1940, se crée l’”Union Jeune Europe” (UJE), dont l’inspiration initiale sera “helvétisante” —on veut une Europe démocratique selon le modèle suisse—, comme l’attestent ses premiers bulletins Agir puis Jeune Europe. L’UJE plaide pour un recentrage continental européen, jugé plus efficace que la fédération universelle qu’entendait incarner la SdN. Le mouvement cherchera, sous la bannière du briandisme, à parfaire une réconciliation belgo-allemande, à purger les discours politiques de toutes les scories de germanophobie, en vigueur depuis le viol de la neutralité belge en août 1914. Il finira germanophile au nom d’un pacifisme intereuropéen. Il est difficile de dire, aujourd’hui, quels sont les ingrédients de ces discours briandistes et paneuropéens, plus ou moins germanophiles, qui ont influencé le jeune Thiriart entre, disons, 1937 et 1940. Il est toutefois évident que les strates pensantes de la société belge d’avant-guerre, à gauche comme à droite de l’échiquier politique, optent pour une carte européiste, qui pourra éventuellement déboucher sur une forme ou une autre de collaboration pendant la seconde guerre mondiale. Après 1945, les factions non collaboratrices reprendront les aspects les plus “démocratiques” de ce briando-européisme et l’appliqueront au processus de construction européenne, comme le démontre l’historienne flamande Els Witte (VUB) (3), qui constate aussi, par ailleurs, que les historiens qui ont plaidé pour ces formes “démocratiques” (néo-briandistes, sociales-démocrates et maritainistes/démocrates-chrétiennes), entendaient se débarrasser de “tout finalisme belgiciste”, c’est-à-dire de tout finalisme “petit-nationaliste”, comme le dira Thiriart, en fustigeant les éléments nationalistes et “belgicistes” de droite, présents dans son propre mouvement “Jeune Europe” au début des années 60.

 

Je ne pense pas que l’on puisse encore penser l’originalité marginale du mouvement “Jeune Europe” de Thiriart sans prendre en compte le contexte fort vaste de l’européisme belge de l’entre-deux-guerres, cartographié par Geneviève Duchenne. En résumé, pour Thiriart, avatar tardif et résilient de cet européisme d’avant 1940, il faut faire l’Europe en réconciliant les Européens, en créant les conditions pour qu’ils ne se fassent plus la guerre, et mettre un terme à toutes les formes non impériales de petit nationalisme diviseur. Vers 1968-69, Thiriart constate, avec grande amertume, que ce projet européiste, qu’il a cultivé, en lisant Pareto, Freund, Machiavel, Hobbes, etc., ne peut pas se concrétiser au départ d’une petite structure militante, en marge du monde politique officiel, parce que de telles structures n’attirent que des marginaux, des délirants ou des frustrés (“Je ne veux plus voir tous ces tocards...”, me dira-t-il à bord de son voilier, un jour très froid de printemps, au large de Nieuport). Il abandonne la politique et ne reviendra sur scène qu’à la fin de l’année 1981, où, comme Giannettini et Parvulesco, il opte pour un projet “euro-soviétique”, affirmant par la même occasion que l’Europe ne peut se libérer du joug américain —de plus en plus pesant au fur et à mesure que l’URSS déclinait— qu’en regroupant ses forces contestatrices du statu quo autour d’une structure comparable au PCUS et à un avatar réactualisé du “Komintern”. Thiriart, bien qu’assez libéral sur le plan économico-social, opte pour une logique néo-totalitaire, pour un communisme rénové et mâtiné de nietzschéisme. Quand s’effondre l’Union Soviétique et que la Russie tombe dans la déchéance eltsinienne, il fait connaissance avec Alexandre Douguine, lui rend visite à Moscou et espère que les forces patriotiques et néo-communistes russes vont renverser Eltsine, transformer la nouvelle Russie en un “Piémont” capable d’unir l’Europe et l’Eurasie sous l’égide d’une idéologie néo-communiste nietzschéanisée (Thiriart lisait le seul exégète soviétique de Nietzsche, un certain Odouev). Deux mois après être revenu de sa tournée moscovite, dont il était très heureux, Thiriart meurt d’un malaise cardiaque dans son chalet ardennais, en novembre 1992.

 

J’ai été tributaire de l’européisme de Thiriart parce que j’avais découvert un exemplaire de son ouvrage 400 millions d’Européens chez un bouquiniste, plusieurs années avant de le rencontrer personnellement dans son magasin d’optique, avenue Louise à Bruxelles. Nous avons échangé de nombreuses impressions, par lettres et de vive voix, entre 1981 et sa mort, en novembre 1992.

 

Croyez-vous possible un front commun eurasiatique contre le “nouvel ordre mondial” américain?

 

Ce front commun existe déjà, dans le chef du Groupe dit de Shanghaï et dans le BRICS, qui s’étend à l’Amérique latine, avec le Brésil et, partiellement, l’Argentine, et à l’Afrique avec la République sud-africaine. Ce groupe vise la “dé-dollarisation”, qui ne prendra pas effet tout de suite mais érodera lentement la domination de la monnaie américaine dans le domaine des échanges commerciaux internationaux. Ensuite, le centre de la masse continentale eurasiatique sera unifié par le réseau des gazoducs et oléoducs qui amèneront les hydrocarbures vers l’Ouest, c’est-à-dire la Russie (et éventuellement l’Europe si elle s’abstient de maintenir les sanctions exigées par les Etats-Unis), et vers l’Est, c’est-à-dire la Chine et l’Inde. Ce réseau est dans l’espace-noyau eurasien, celui qui était à l’abri des canons des “dreadnoughts” britanniques, et qui ne peut être conquis au départ du “rimland” littoral, seulement bouleversé par des guerres de basse intensité, menée par des fondamentalistes fous. Par ailleurs, la Chine a déjà, fin des années 90, exigé que l’interprétation des “droits de l’homme” par le Président américain Carter et ses successeurs soit contre-balancée par des éléments éthiques issus d’autres civilisations que l’occidentale, notamment des éléments bouddhistes, taoïstes et confucéens, et que ces “droits de l’homme” ne puissent jamais plus servir de prétexte pour s’immiscer dans les affaires intérieures d’un pays ou y générer du désordre. Le front uni eurasiatique, s’il veut exister un jour comme facteur incontournable sur l’échiquier planétaire, doit donc agir sur trois fronts: celui de la dé-dollarisation, celui de l’aménagement du réseau des oléoducs et gazoducs sur la masse continentale eurasiatique, celui du principe sino-confucéen de la non-immixtion, assorti d’une diversification éthique et philosophique de l’interprétation des “droits de l’homme”.

 

Quelles sont les différences pour vous entre Eurosibérie et Eurasie?

 

Le terme d’Eurosibérie a été forgé dans les milieux “post-néo-droitistes” par Guillaume Faye, sans doute la figure historique de la dite “nouvelle droite” qui était la plus proche, par la pensée, de Jean Thiriart: même intérêt pour les questions géopolitiques, même aversion pour les fanatismes religieux, même engouement pour la pensée politique pure (Hobbes, Machiavel, Pareto, Freund, Schmitt, etc.). Historiquement, le concept d’Eurosibérie nous vient de Youri Semionov (Juri Semjonow), un Russe blanc de l’entre-deux-guerres, qui deviendra professeur de géographie à Stockholm en Suède. Dans son Sibirien – Schatzkammer des Ostens, dont la dernière version allemande date de 1975, Semionov démontre que l’Europe a perdu, avec la guerre de 1914 et la révolution bolchevique qui s’ensuivit, ses principales réserves de minerais et de matières premières, dont elle bénéficiait entre la Sainte-Alliance de 1815 et la première guerre mondiale. Semionov pariait, comme Faye et Thiriart, pour une rentabilisation de la Sibérie par le truchement d’un nouveau Transsibérien, le BAM, réactualisation des projets de Witte dans la première décennie du 20ème siècle. Le concept d’Eurosibérie est avant tout un projet économique et technique, comme le souligne Semionov. Thiriart a dû glaner des éléments de la démonstration de Semionov via des travaux analogues d’Anton Zischka, un auteur allemand qu’il appréciait grandement et qui était beaucoup plus lu en traduction française ou néerlandaise en Belgique qu’en France.

 

Le concept d’Eurasie vient tout droit de la littérature russe: avant 1914, la Russie se voulait européenne et craignait, par la voix de bon nombre de ses écrivains, l’“enchinoisement” des âmes, soit l’endormissement des énergies vitales propres à la civilisation grecque et européenne au bénéfice d’une massification prêtée, par les idées de l’époque, à la civilisation chinoise, alors en plein déclin. Avec la révolution bolchevique, certains intellectuels soviétisés adoptent des positions eurasistes, en se réclamant des Scythes, peuple cavalier et nomade, des steppes d’Ukraine au Kazakhstan et au plateau iranien, puis d’une idéologie russo-touranienne, rêvant d’une fusion nouvelle des peuples turco-mongols et slaves, capable de balayer un Occident vermoulu. L’eurasisme actuel s’inspire de cette vision fusionniste et quelque peu apocalyptique. Il existe aussi un eurasisme impérial, qui prend forme concrètement dès les conquêtes par les armées d’un Tsar moderne, Alexandre II, qui s’empare, au grand dam des Britanniques de tous les sultanats centre-asiatiques jusqu’aux frontières de la Perse et de l’Afghanistan, menaçant potentiellement les Indes sous souveraineté anglaise. Ici l’eurasisme est l’expression d’un hégémonisme russe sur l’Europe (ou sur la partie d’Europe dévolue à la Russie) et sur l’Asie centrale, coeur du continent, avec projection possible vers le sous-continent indien.

 

Dans un débat amical, qui a eu lieu en Flandre, Pavel Toulaev et Guillaume Faye ont confronté leurs idées quant à l’Eurosibérie et l’Eurorussie. Toulaev estimait, à juste titre —et Faye l’a reconnu— que la Sibérie n’était pas un sujet de l’histoire, ne l’avait jamais été. Le sujet de l’histoire dans l’espace eurasien et eurosibérien a été la Russie, d’Ivan le Terrible à Poutine. C’est la raison pour laquelle on parle davantage d’Eurorussie dans nos régions que d’eurasisme.

 

Finalement, croyez-vous que le Front National français devient russophile?

 

robert steuckers, entretien, géopolitique, politique internationale, nouvelle droite, synergies européennes, jean thiriart, ayméric chauprade, front national, eurasisme, eurasie, brics, Ma réponse ne sera pas très utile, d’abord parce que je ne suis pas français même si j’utilise le plus souvent la langue française. Je n’ai guère d’affinités, comme la plupart de mes compatriotes, avec la pensée politique française, très éloignée de nos modes d’action et de nos préoccupations idéologiques et politiques. Sur l’Europe et sur la Russie, les Français ont toujours eu dans l’histoire des visions totalement différentes des nôtres. On nous enseignait que le modèle indépassable pour l’Europe était la vision lotharingienne de Charles dit le Téméraire (nous devions dire: “Charles ou Karle le Hardi”, le terme “téméraire” étant jugé injurieux et de fabrication française), la Grande Alliance forgée par l’Empereur Maximilien I entre l’héritage des Bourguignons et des Habsbourgs et celui de la Castille-Aragon par le mariage de son fils Philippe et de la princesse Jeanne, l’Empire universel de Charles-Quint, toutes formes politiques respectables que d’affreux personnages, disaient nos instituteurs, comme Louis XI (“l’Universelle Aragne”) ou le félon François I avaient délibérément saboté en s’alliant aux Ottomans. Je vous passe les descriptions très négatives que l’on nous donnait de Louis XIV, des sans-culottes et des jacobins ou encore de Napoléon III. Ce dernier a notamment participé à la première guerre, fomentée par les Britanniques, contre la Russie tsariste, la Guerre de Crimée, une fois de plus avec le concours des Ottomans, tandis que la Belgique, à l’époque, était plutôt pro-russe, à l’instar de Bismarck. Le communisme a connu des succès retentissants en France, en s’alliant avec le vieux fonds criminel jacobin, tandis qu’en Belgique le communisme a toujours été très marginal, n’a pas connu des figures avides de sang comme en URSS ou en France.

 

Je ne peux pas me représenter ce que ressentirait un adepte du nouveau FN de Marine Le Pen face à la Russie actuelle. Je pense que l’électorat français de base —du FN ou de tout autre parti— ne sait guère ce que représente la Russie sur le plan géopolitique. Il est donc inutile pour un parti, quel qu’il soit, de faire de la géopolitique, pro-russe ou anti-russe, pro-américaine ou anti-américaine, pro-arabe ou anti-arabe, pro-israélienne ou anti-israélienne, etc. Ce n’est pas sa tâche et, s’il en fait sa tâche, il finira par commettre des bêtises, comme le constatait d’ailleurs une figure tragique de la première moitié du 20ème siècle, l’officier, diplomate et explorateur allemand von Niedermeyer, face aux interventions insuffisantes et ineptes des partis politiques de la République de Weimar en matières de politique étrangère. Les interventions des sociaux-démocrates pour contrer les politiques de coopération avec la jeune URSS étaient l’objet des colères de von Niedermeyer. Le personnel politique de base est généralement trop inculte pour aborder raisonnablement ces questions.

 

Ceci dit, le FN, qu’on le veuille ou non, que l’on l’accepte ou que l’on ne l’accepte pas, remplit deux vides dans la politique française: il a recueilli énormément de voix communistes, celles d’un populisme de gauche, russophile parce qu’anciennement soviétophile, et, par voie de conséquence, des sentiments favorables à la Russie, dont son arithmétique électorale prospective doit dorénavant tenir compte; ensuite, deuxième vide, dû aux politiques successives de l’atlantiste Sarközy et du social-démocrate filandreux Hollande; tous deux ont effacé de l’horizon politique français les dernières traces du gaullisme non-aligné et, en vertu de ce non-alignement, hostile à toute prépondérance de l’hegemon américain. Le FN recueille donc, actuellement (provisoirement? définitivement?), en son sein, les résidus de russophilie communiste et les résidus du gaullisme assassiné une bonne fois pour toutes par Sarközy.

 

Les orientations apparemment pro-russes du nouveau FN de Marine Le Pen sont également un résultat de la fameuse affaire Chauprade. Le professeur Ayméric Chauprade, qui enseignait il y a quelques brèves années à l’école de guerre de Paris, développait une vision nationale-française et para-gaullienne dans des ouvrages de référence absolument incontournables pour tous ceux qui s’intéressent à la géopolitique comme science et comme pratique. Pour Chauprade, la France avait sur la scène internationale et en vertu de son droit de veto à l’ONU une mission anti-impériale à parfaire, en se distanciant autant que possible des projets imposés par Washington. Bref, Chauprade était une sorte de maurassien moderne, gaullien en sus. Position intéressante sauf qu’elle était justifiée par une revalorisation scandaleuse de la figure de François I, ennemi de Charles-Quint, position absolument inacceptable pour vous, Espagnol, et pour moi, Impérial. Son précis de géopolitique est toutefois indispensable pour son interprétation originale et gaullienne des stratégies anglo-saxonnes dérivées de la géopolitique de Sir Halford John Mackinder et de ses disciples. Encore plus intéressant a été le livre de Chauprade sur le choc des civilisations, où ne transparaissait heureusement plus cette apologie indécente du stato-nationalisme avant la lettre de François I (le “petit-nationalisme” fustigé par Thiriart!). Inutile de vous dire que ces deux ouvrages trônent en bonne place dans ma bibliothèque, à côté de ceux d’autres géopolitologues français: ceux de l’homme de gauche Yves Lacoste et ceux du directeur des collections “Major” des “Presses Universitaires de France”, Pascal Gauchon, qui vient de fonder la revue “Conflits” ainsi que ceux du très regretté Hervé Couteau-Bégarie, prématurément décédé. Sarközy a commis l’indicible infâmie de casser la carrière de Chauprade à l’école de guerre, sous prétexte que ce géopolitologue hors pair ne développait pas des thèses atlantistes, pareilles sans doute à celles, fumeuses et hystériques, de l’insupportable sycophante Bernard-Henry Lévy, dont les délires ont conduit à l’anéantissement de la Libye et à l’horrible guerre civile et fratricide qui n’est pas encore terminée là-bas.

 

robert steuckers, entretien, géopolitique, politique internationale, nouvelle droite, synergies européennes, jean thiriart, ayméric chauprade, front national, eurasisme, eurasie, brics, A mon très grand étonnement, Chauprade, n’a pas fait front commun avec Gauchon, par exemple, en prenant la plume pour fustiger l’abandon de toutes les positions gaulliennes par les affaires étrangères françaises, en organisant des colloques avec des sceptiques de gauche comme Jacques Julliard ou Jacques Sapir. Au lieu de tout cela, au lieu de toutes ces bonnes actions potentielles, il a adhéré au FN, ce qui n’est pas une bonne idée pour défendre sur le long terme ses positions sans risquer les entraves politiciennes que peut subir, tout d’un coup et le cas échéant, tout intellectuel pointu et pertinent qui s’embarque dans une aventure politique. Car la politique, en toute période triviale de l’histoire comme la nôtre, est un espace irrationnel, flou, imprécis, soumis à toutes les variations possibles et imaginables. Celles-ci, d’ailleurs, ne se sont pas fait attendre: hostile à la géopolitique de l’hegemon américain dans ses excellents ouvrages de référence, Chauprade, par compromis politicien, aligne ses positions de militant FN néophyte sur la nouvelle politique d’Obama face à l’EIIL, alors que ce sont les Etats-Unis, l’Arabie Saoudite et le Qatar qui sont responsables de l’émergence de ce djihadisme virulent et du chaos indescriptible qu’il a provoqué en Syrie, au détriment du régime baathiste et en Irak au détriment de la majorité chiite et de la minorité kurde (dans une moindre mesure). Une position vraiment non alignée, gaullienne, aurait été de dire: “nous refusons de participer au nettoyage du Levant et de l’Irak, réclamé par Obama —les Américains et leurs alliés pétro-monarchistes y ont créé le chaos et les Européens doivent maintenant payer pour réparer les dégâts!— car notre seule politique est de vouloir le retour au statu quo ante dans la région, car ce statu quo ante évitait la présence belligène d’éléments fondamentalistes incontrôlables et créait la paix civile par l’imposition d’un système militaro-politique moderne et syncrétique, seul apte à gérer les diversités et divergences effervescentes de cette zone-clef de la géostratégie internationale; de plus, le prix à payer pour ce travail de nettoyage est trop élevé pour une Europe encore fragilisée par la crise de l’automne 2008: cet argent doit servir exclusivement à nos infrastructures hospitalières, à nos écoles, à nos départements de recherche et développement, au sauvetage de notre sécurité sociale”. Chauprade vient d’ailleurs d’être mis sur la sellette dans les colonnes du mensuel Le Causeur (octobre 2014), où on l’appelle à justifier ses positions actuelles, parfois contradictoires par rapport à ses écrits scientifiques antérieurs.

 

Seules les visites de Chauprade à Moscou, où il plaide en faveur de la politique familiale du Président Poutine, permettent de conclure à une néo-russophilie non communiste au sein du FN, puisque, désormais, le géopolitologue, chassé de sa chaire par Sarközy, en fait partie. Ce soutien à la politique familiale n’est pas exclusivement géopolitique: la France profonde —avec le mouvement “Manif’ pour tous”, téléguidé entre autres par “Civitas”— entend défendre la famille contre les politiques socialistes et sociétalistes (comme on se plait à le souligner maintenant par le biais de ce néologisme) du gouvernement de François Hollande au point que même l’électorat catholique de la France profonde préfère la politique familiale du président russe, en dépit d’une indécrottable russophobie occidentale, qui marquait aussi la France non communiste, et que dénonce avec brio l’éditeur Slobodan Despot, installé sur les rives du Lac Léman.

 

(Forest-Flotzenberg, octobre 2014).

 

Notes:

(1)   Alexander Yanov, Alexander YANOV, “The Russian New Right – Right-Wing Ideologies in the Contemporary USSR”, Institute of International Studies, University of California, Berkley, 1978.

(2)   Geneviève DUCHENNE, Esquisses d’une Europe nouvelle – L’européisme dans la Belgique de l’entre-deux-guerres (1919-1939), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2008.

(3)   Els WITTE, Voor vrede, democratie, wereldburgerschap en Europa – Belgische historici en de naoorlogse politiek-ideologische projecten (1944-1956), Uitgeverij Pelckmans, Antwerpen, 2009.

 

Hezbolá y el Ejército libanés eliminan decenas de terroristas

 Ex: http://www.elespiadigital.com

 

Ayer por la mañana, militantes de Jabhat al-Nusra y el Estado Islámico de Irak y el Levante (ISIS) atacaron Brital, cerca de la frontera con Siria en el este de Líbano, en un intento de asaltar a los combatientes de Hezbolá de la zona. El ataque fue repelido por milicias civiles y combatientes de Hezbolá, con más de 70 militantes eliminados por estos últimos durante los tiroteos en los últimos dos días. Brital está estratégicamente ubicada cerca del distrito de Yabrud, controlado por el Ejército Árabe Sirio en la provincia de Damasco Campo; su proximidad a la ruta de suministro de Arsal es vital para Jabhat al-Nusra.

Según fuentes de la zona, los combates aún están desarrollándose, pero Hezbolá ha evitado con éxito el intento de infiltración de los grupos militantes. La población civil de Brital ha apoyado a los combatientes de Hezbolá brindándoles suministros y acceso a diferentes partes de la ciudad. Hasta hoy, 8 combatientes de Hezbolá han muerto y otras 2 docenas han resultado heridos durante los violentos enfrentamientos de los últimos 2 días.

Una gran cantidad de armas y municiones fueron confiscados por los combatientes de Hezbolá después de la batalla, junto con documentos falsificados y mapas de batalla que se encontraban entre las posesiones de los terroristas eliminados. Jabhat al-Nusra ha intensificado sus ataques en el este de Líbano después de los ataques del ejército libanés dentro de los campos de refugiados sirios hace 2 semanas en Arsal, Trípoli, y Koura.

Dirigentes Militares del ESL/FSA Retornan a las Filas del Ejército Árabe Sirio -

Varios desertores del Ejército Sirio Libre se han entregado recientemente al Ejército sirio y han pedido ser reintegrados en sus unidades.

Varias fuentes sirias señalaron que “esos antiguos desertores, incluyendo al piloto Ahmed Irshaidat, el general de brigada Adnan Kelsa y el coronel Abdul Hamid Rahmun, se entregaron a las autoridades acogiéndose a una amnistía aprobada hace varios meses por el gobierno sirio.

Estas fuentes señalan que muchos miembros del Ejército sirio que habían desertado al inicio de la crisis se están reincorporando al Ejército regular sirio por diversas razones: la baja moral en las filas de los rebeldes, el desprestigio de la oposición siria y sus líderes, que han protagonizado en los últimos meses choques con el liderazgo del ESL, y el auge de los grupos extremistas, que ha llevado a muchos oficiales a considerar que ellos no desean continuar en las filas de la insurgencia al lado de tales organizaciones.

Esta mala noticia para el ESL se une a otras, incluyendo la muerte de varios de sus líderes militares. Uno de ellos, llamado Abu Laith, murió la pasada semana en una emboscada en el campo de Damasco. La emboscada tuvo lugar en un lugar próximo a la capital denominado Halbun.

Otro dirigente militar denominado Abu Ubaida falleció en otro ataque militar en la región de Qalamún, también al oeste de la capital. Un tercero llamado Ahmed Mohammed fue abatido en un choque con el Ejército en Handarat, en Alepo.

El Estado Islámico avanza sobre territorio kurdo

El Estado Islámico Avanza sin control por el Norte de Siria esta vez contra los contra los Kurdos y contra los terroristas de Al-Nusra del cual los militantes del Estado Islámico pertenecieron en el pasado pero renunciaron a el por su "Falta de fe y sinceridad" el cual ahora se disputan el norte de Siria en una gran batalla con una importante ventaja para el Estado Islámico ya que pasó de ser a un grupo de 4.000 terroristas hace 7 meses a ser un poderoso ejército asesino de 40.000 Militantes con una alta formación y moral en combate gracias a que sus victorias los alienta mas y mas!

Por Otra parte el gobierno Turko prometió armas a los kurdos ya que perdieron grandes extensiones de terreno pero esto siempre cuando renuncien a su lealtad a Bashar al-Assad!! ( recuerden que en el pueblo kurdo existen parte separatistas pro-sionistas y tienen vínculos de amistad con la FSA y Al-Nusra lo cual puede ocurrir cualquier cosa...

Ejército libanés mata a decenas de terroristas que atacaron Baalbeck

Un gran ataque llevado a cabo por grupos terroristas takfiris en la frontera del Líbano, en la región de Baalbeck, ha sido rechazado.

El corresponsal de Al Manar señaló que los grupos terroristas trataron de penetrar en el área de Ein Assa, en los páramos de Brital, no lejos de la localidad de Nabi Sbat.

La artillería del Ejército libanés respondió bombardeando a los atacantes y decenas de estos últimos resultaron muertos o heridos.

El periódico local An Nahar afirmó que fuerzas del EI y el Frente al Nusra habían penetrado en el Líbano desde la ciudad siria de Asal al Wared y se habían acercado a la de Arsal, donde han mantenido una presencia desde hace meses.

Según la cadena Al Mayadin, los militantes intentan abrir una vía de comunicación con el Líbano dado que el cierre de la frontera, debido a las ofensivas del Ejército libanés y Hezbolá, les ha causado una fuerte necesidad de armas y municiones. Estos terroristas han lanzado ataques con cohetes contra zonas residenciales de las localidades libanesas cercanas a la frontera.

Lavrov: "Ni el Estado Islámico ni Al Qaeda podrían actuar sin el apoyo del exterior"

"Es evidente que ni el Estado Islámico, ni el Frente Al Nusra ni Al Qaeda podrían hacer lo que hacen sin apoyo del exterior", ha declarado el ministro de Exteriores de Rusia, Serguéi Lavrov.

"Rusia y sus socios en el Consejo de Seguridad de la ONU busca el modo de cortar los canales de financiación de grupos terroristas como el Estado Islámico [EI], Al Qaeda y el Frente Al Nusra", señaló Lavrov en una rueda de prensa tras reunirse con su homólogo finlandés, Erkki Tuomioja. 

Por otra parte Moscú lamentó que EE.UU. hubiera obligado a la Unión Europea a desempeñar un papel importante en las sanciones antirrusas debido a la crisis ucraniana, como reconoció públicamente el vicepresidente de EE.UU. Joe Biden . En este contexto, Lavrov lamentó que Biden "no se disculpara" por esta declaración hecha en su discurso en la Universidad de Harvard.

Al mismo tiempo el canciller ruso dijo que Biden pidió disculpas personalmente a los países a los que había acusado públicamente de tener vínculos con el Estado Islámico y de financiar sus actividades.  

"Calificamos de 'deplorables' todos estos casos porque tanto la lucha contra el terrorismo como la solución a la crisis en Ucrania requieren un diálogo de respeto mutuo sobre la base de un equilibrio de intereses de todos aquellos que están involucrados de alguna manera en estos procesos", enfatizó Lavrov. 

El diplomático ruso añadió que con el reconocimiento de Biden de la presión a la Unión Europea, EE.UU. "casi ha confirmado la posición que se mostró en una conversación telefónica entre Victoria Nuland [la secretaria adjunta de Estado de EE.UU.] en enero de este año con el embajador de EE.UU. en Kiev, Geoffrey Pyatt, cuando se discutió el papel de la Unión Europea en un esfuerzo para promover los intereses de Occidente en Ucrania", dijo.

Catalanismo hispánico

Novedad editorial

Revista Nihil Obstat, Nº 22: Dossier “Catalanismo hispánico”

NIHIL OBSTAT 22Revista de historia, metapolítica y filosofía
Tarragona, primavera/verano 2014
21×15 cms., 180 págs.
Cubierta impresa a todo color, con solapas y plastificada brillo
PVP: 15 euros

Sumario

Editorial: Catalanismo hispánico / José Alsina Calvés

El giro aretáico / Alberto Buela

Cybergeopolítica / Leonid Savin

La experiencia de Ronaldo Ragola: cuando el trabajo era un problema de Estado / Giacomo Ciarcia

La Europa de ayer: a cien años de 1914 / Juan de Pinos

¿Otro discurso social? / Carlos Martínez-Cava Arenas

El “Socialismo alemán”. Análisis de las relaciones entre nacionalismo y socialismo desde 1900 a 1933 en Alemania / Thierry Mudry

DOSSIER: Catalanismo hispánico

Necesidad de un catalanismo hispánico / José Alsina Calvés

Catalanidad e Hispanidad en frente del separatismo y el centralismo:
por una reconstrucción conceptual de la identidad catalana / Javier Barraycoa

El misterio de la Marca Hispánica / Jaume Farrerons

Eugenio d’Ors, el bien plantado / José María García de Tuñón Aza

Apuntes para la defensa de España / Manuel Peón

La relación Nietzsche-Wagner: Arte, Filosofía y Metapolítica / Ángel Fernández Fernández

La tragedia italiana. El recelo de la Casa de Saboya malogró la continuidad de la Revolución fascista / Paul Gentizon

Carl Schmitt, el nuevo Benito Cereno / Alberto Buela

La conquista de América según Todorov / Pedro Gobeo

Pedidos: edicionesfides@yahoo.es

Fuente: Ediciones Fides

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Sortir l’Europe de l’impolitique

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Sortir l’Europe de l’impolitique

par Georges FELTIN-TRACOL

Impolitique est un adjectif de la langue soutenue qui se rapporte à un manque d’habilité dans une situation où des intérêts sont en jeu. Dans un nouvel essai, L’effacement du politique, Pierre Le Vigan ne l’utilise pas et, pourtant, l’actuelle politogenèse (pseudo-)européenne ou « construction euro-atlantiste » à vocation mondialiste et d’ambition oligarchique correspond parfaitement à cette définition. Pis, elle la dépasse en excluant le politique de son champ d’horizon. L’auteur constate en effet que « notre continent est sans existence politique, sans volonté, sans défense. Un embryon de gouvernement européen existe, mais en fait, ce sont des équipes de technocrates. Le pouvoir européen n’a pas de légitimité démocratique. Il n’a pas non plus acquis une légitimité par son efficacité. Il a beaucoup réglementé mais n’a guère construit (pp. 21 – 22) ». A contrario, «  tout vrai projet politique repose sur la vision d’une singularité de civilisation. C’est pourquoi il est absurde de dire que seule la politique extérieure compte. Extérieure à quoi ? De quel intérieur est-elle l’envers ? C’est toujours la question à se poser. Politique intérieure et politique extérieure sont toujours profondément liées (p. 121) ». Mieux encore, « il n’y a pas de politique sans identités collectives (p. 27) ».

La phobie du politique qu’il discerne dans les discours et les actes officiels de la bureaucratie euro-atlantiste provient en droite ligne du refus d’affirmer l’identité propre de l’Europe. « L’Europe actuelle se veut d’abord universaliste. Sa seule identité serait d’être le réceptacle des identités des autres. On y célèbre tout ce qui n’est pas nôtre (p. 22). » Il faut reconnaître, à sa décharge, que « l’Europe a eu comme destin l’Occident, qui a fini par nier l’Europe elle-même. C’est-à-dire que l’Europe a eu comme destin la démesure, l’hubris. […]L’occidentalisation du monde est devenue la déseuropéanisation de l’Europe. L’Europe n’a pas vocation à offrir un modèle au monde (p. 159) ».

Mais comment définir alors l’identité européenne ? « La géographie donne des indications (Bornéo, non, ce n’est décidément pas l’Europe) mais pas de réponses indiscutables à la question des frontières. C’est le politique qui doit trancher (p. 61). » Il examine ensuite d’autres critères comme le fait ethnique. Sur ce point, Pierre Le Vigan dénie l’ancestralité indo-européenne et rejette la thèse du foyer boréen originel circumpolaire qu’il trouve absurde. Il passe ensuite l’Europe au crible de la religion, puis des valeurs sans, finalement, les estimer déterminantes. Aucune définition ne lui convient parfaitement. En fait, l’auteur récuse toute idée essentialiste de l’Europe. Si une délimitation floue demeure concernant les frontières orientales de l’Europe, l’identité fondamentale européenne repose sur un riche patrimoine spirituel commun et une anthropologie évidente d’ordre bio-culturel partagée entre des peuples issus du même terreau auxquels se rattachèrent d’autres peuples européanisés (Finnois, Estoniens, Lapons, Hongrois, Gagaouzes, etc.). Si son présent est certes marqué par l’impuissance et l’affliction mémorielle, son avenir peut être riche en espoir ou… en désespérance.

Cette désespérance semble prendre le pas sur toutes les tentatives, vénielles et partielles, de renaissance continentale. Du fait de la sécularisation, « le pouvoir politique va s’obliger à ne croire en rien d’ultime. Il va se restreindre à une croyance évidente et minimale : que les hommes veulent la liberté et le bonheur. L’État va donc devenir l’État garant des droits de l’homme (p. 43) ». Désormais, « le processus démocratique consiste en une production sans fin de nouveaux droits de l’homme (p. 90) » si bien que « c’est l’homme qui déclare ses propres droits (p. 87) ». Cette lourde tendance fait que « notre société n’est plus régulée que par le Droit et par le Marché (p. 156) » d’autant que « la pensée libérale est du côté du commerce, et des puissances maritimes. Elle privilégie la morale et l’économie par rapport au politique et à l’État (p. 80) ». La conséquence la plus visible est, à part l’hypertrophie du secteur médiatique au point qu’il phagocyte le minable petit personnel politicien, l’exagération du «  pouvoir judiciaire [qui] est une façon de ne pas faire de la politique ou plutôt de la laisser faire par les juges, car il ne suffit pas de nier le politique pour le dissoudre (p. 136) ». Parallèlement, la neutralisation du politique bouleverse la fonction même de l’État. « L’État est fort pour assurer un certain nombre de missions. S’il ne le fait pas, il perd sa légitimité (p. 132). » À croire qu’on arrive au terme d’un cycle     historique !

« Au Moyen Âge, les Européens avaient le choix entre trois formes politiques : la Cité, l’Empire, l’Église. La Cité était trop petite, l’Empire trop grand, l’Église trop universelle. Ils ont choisi une forme nouvelle : la nation (p. 136). » Aujourd’hui, le concept de nation apparaît comme une coquille vide, voire comme le serviteur zélé du mondialisme. L’exemple le plus flagrant de ce détournement n’est pas les États-Unis d’Amérique, cette aire peuplé par des strates successives d’immigration, mais la France pervertie par les sottes idées d’une république mortifère. « Les intellectuels de la pensée dominante pensent, non seulement que tout le monde peut devenir français, mais que tout le monde doit souhaiter le devenir, devenir citoyen du “ pays des droits de l’homme ” donc de la seule patrie qui n’est pas une patrie. Ils ont pour le coup raison puisque, être français au sens actuel du terme, cela veut dire : être membre de “ la patrie de la sortie de toutes les patries ”. C’est le comble de l’hypermodernité (ou archimodernité), et par là même c’est le comble de l’humanité. Pourquoi ? Parce que c’est là le stade suprême du dessaisissement de soi, de la rupture avec tous les attachements. C’est la victoire du présentisme intégral (pp. 99 – 100). »

Pierre Le Vigan concède volontiers que « l’Europe actuelle apparaît […] une prison des peuples, une négation de la souveraineté populaire (p. 160) ». En revanche, il assure que « l’Europe actuelle n’est pas fédérale, c’est là l’équivoque qu’il convient de dissiper. Elle est faussement fédérale (p. 162) ». Par cette mise au point, il exprime son attachement à la vocation d’une d’Europe à la fois unie et diverses, d’une Europe politique, véritable garante des procédures démocratiques authentiques. C’est pour l’heure une gageure, « mais qu’entendent les élites par démocratie ? Moins le gouvernement du peuple par lui-même (les élites globalisées ne comprennent tout simplement pas ce que veut dire la notion de “ peuple ”) que le respect de procédures, et des droits individuels : la démocratie, c’est les droits de l’homme. La démocratie selon les élites devient donc un processus de déliaison par rapport au politique : c’est plus de droits de l’homme et moins de droits des citoyens (pp. 58 – 59) » à un moment crucial où « nous vivons une stasis : à la fois une guerre civile interne, moléculaire, et une dissolution de l’intérieur (p. 23) ».

Au terme de son raisonnement de philosophie politique, il considère que la réponse idoine aux défis du XXIe siècle s’appelle l’Empire. Il ne s’agit pas pour lui de relever les vieux slogans totalitaires du XXe. À la suite du philosophe Philippe Lacoue-Labarthe qui appréhendait le national-socialisme hitlérien comme un humanisme, Pierre Le Vigan, Pierre Le Vigan pense que « le nazisme était essentiellement un vitalisme (p. 124) » et qu’il « était, à sa façon, un progressisme (p. 125) ».

Pourquoi donc l’Empire ? Peut-être parce qu’il « est porteur d’un sacré et d’un universel (p. 51) ». Universel et non universaliste, cela a son importance. Le retour du politique passerait-il nécessairement par un compromis post-moderne entre le holisme d’antan et l’individualisme présent ? Pierre Le Vigan le suppose, lui qui voit en Jean-Jacques Rousseau, le seul penseur apte à dépasser cet antagonisme (cette aporie ?) : « Être libre peut pourtant vouloir dire être libre de s’engager, voire libre d’aliéner sa liberté apparente pour une liberté intérieure plus profonde. Mais la modernité refuse cette forme de liberté. La modernité voit l’engagé convaincu comme un aliéné. Il ne faut que des engagements de circonstances et surtout, des engagements qui n’engagent à rien (p. 94). »

Nul doute que L’effacement du politique de Pierre Le Vigan est un essai qui fera date, au-delà des querelles désuètes et déplacées entre un européisme aveugle et un souverainisme réductionniste.

Georges Feltin-Tracol

• Pierre Le Vigan, L’effacement du politique. La philosophie politique et la genèse de l’impuissance de l’Europe, préface d’Éric Maulin, La Barque d’or (12, rue Léon-Blum, 94600 Choisy-le-Roi), 2014, 163 p., 15 € + 4 € de port.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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L'Europe pharisienne contre les droits des citoyens

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L'Europe pharisienne contre les droits des citoyens

par Yvan Blot

Ex: http://www.zentropaville.tumblr.com

L’oligarchie politique et administrative qui contrôle les institutions européennes à l’heure actuelle, au sens large, (Union européenne mais aussi Conseil de l’Europe et ses prolongements) est animée d’une idéologie typiquement pharisienne.


oligarchie-246x300.jpgLe mot pharisien vient du terme hébreu « péroushim » qui signifie « séparés ». Les pharisiens sont séparés ou veulent se séparer de ceux qui leur semblent « impurs ». En politique actuellement, sont considérés comme « impurs » les « populistes », les « nationalistes » les « identitaires » mais d’une façon générale tous ceux qui sont suspectés défendre leurs intérêts nationaux en menaçant les « droits de l’homme ».

Quand les « droits de l’homme » se retournent contre les libertés

Dans ce sens, les « droits de l’homme » ne sont plus les « libertés fondamentales », ce qu’ils étaient à l’origine et qui se traduisaient politiquement dans des droits concrets accordés aux citoyens. Dans une optique égalitaire considérant les hommes comme des matières premières interchangeables, les « droits de l’homme » deviennent une arme politique et juridique pour empêcher les nations de sauvegarder leur identité propre et les libertés qui y sont liés. Les droits de l’homme dans cet esprit finissent par se retourner contre les libertés.

Les pharisiens politiques sont toujours prêts à jouer les procureurs. Le Conseil de l’Europe notamment s’est donné le ridicule de créer il y a quelques années une commission d’enquête contre le Liechtenstein soupçonné de menacer les « droits de l’homme » parce qu’une réforme constitutionnelle approuvée par référendum populaire renforçait les pouvoirs du Prince (tout en créant une possibilité de le renverser par référendum d’initiative populaire, ce qui est interdit aux citoyens dans les pays « républicains ».

Autre exemple, l’affaire « Lautsi » par laquelle la Cour européenne des droits de l’homme interdit à l’Italie la présence de crucifix dans les classes des écoles publiques. Vingt états européens se sont insurgés contre cette décision de novembre 2009. Le gouvernement lituanien a mis en parallèle cet arrêt avec la persécution religieuse qu’elle a subie sous le régime soviétique où les symboles religieux étaient strictement interdit dans la sphère publique. Il est révélateur que la plupart des anciens pays de l’Est qui ont subi la dictature communiste font partie de la liste des pays qui soutiennent l’Italie aujourd’hui contre le plan de sécularisation forcée des écoles qui inspire la Cour européenne dite des droits de l’homme.Mgr Hilarion du patriarcat orthodoxe de Moscou déclare de façon pertinente : le sécularisme qui prospère aujourd’hui en Europe est lui aussi une pseudo-religion qui a ses dogmes, ses normes, son culte et sa symbolique. A l’instar du communisme russe du XXème siècle, il prétend au monopole et ne supporte aucune concurrence » (1)

La dérive égalitariste et discriminatoire

Evidemment les pharisiens européens donnent des leçons sans regarder leurs propres turpitudes, à savoir le fameux « déficit démocratique » des institutions européennes, Union européenne, conseil de l’Europe et Cour européenne des droits de l’homme confondus.

Tous ces organismes sont de types caricaturalement oligarchiques et violent dans leur manière de se structurer et de fonctionner la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen française de 1789.

Cette déclaration qui fait des droits de l’homme des libertés fondamentales dans son article deux n’a rien à voir avec la dérive égalitariste anti- discriminatoire actuelle qui a pour but de faire des citoyens des sujets passifs interchangeables, matière première du système techno économique dirigé par des managers, lesquels n’ont rien à voir avec les propriétaires de la théorie économique libérale autrichienne.

Son article 16 déclare sans la moindre ambigüité : « Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution. » C’est exactement le cas de l’Union européenne actuelle où le pouvoir législatif et le pouvoir exécutif sont totalement confondus.

La confusion des pouvoirs dans l’Union européenne

Ainsi, c’est la Commission, organe exécutif qui a le monopole, nous disons bien, le monopole de l’initiative des lois. Non seulement l’initiative des lois ne revient pas au parlement européen ou aux parlements nationaux, totalement démunis, mais encore les citoyens en sont totalement exclus à la différence de ce qui se passe en Suisse, démocratie modèle qui devient la tête de Turc des oligarques de Bruxelles.

De plus, le Conseil des ministres et le parlement européen peuvent édicter des lois en codécision : le terme même viole de plein fouet l’article 16 de la déclaration de 1789. Pour les rédacteurs de cette déclaration, l’Union européenne n’aurait pas de constitution assurant la liberté des citoyens faute de séparation des pouvoirs.

Les juges de la Cour européenne des droits de l’homme sont nommés sur des listes de trois noms présentés par chaque exécutif de chaque Etat puis élu par l’assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe : procédure oligarchique de confusion des pouvoirs qui viole aussi l’article 16 de la déclaration de 1789. Cette oligarchie judiciaire est irresponsable devant le peuple faute de procédure de « rappel » telle qu’elle existe aux Etats-Unis pour les juges de cours suprêmes de beaucoup d’Etats fédérés (2)

Liberté, propriété, sûreté et résistance à l’oppression : des droits bafoués

Huit autres articles de la déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789 (qui fait partie de nos textes constitutionnels) sont bafoués d’une manière ou d’une autre par les institutions européennes telles qu’elles sont, c’est-à-dire fort peu démocratique.

L’article 2 dispose : « le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l’homme. Ces droits sont la liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l’oppression ». On notera que les notions d’égalité, d’égalitarisme et de lutte contre les discriminations n’ont pas leur place ici et que ces notions doivent être subordonnées aux droits de l’homme listés de façon limitative à l’article 2. Par exemple, l’égalitarisme ne saurait passer avant la liberté ou le droit de propriété ne saurait être vidé de sa substance au nom de la « lutte contre la discrimination ». L’égalitarisme contenu dans l’interprétation récente des droits de l’homme est en fait la matrice d’un nouveau totalitarisme qui se retourne contre les libertés fondamentales.

La souveraineté de la Nation et des citoyens : d’autres droits bafoués

L’article 3 dispose : « le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la Nation ». Ce principe est bafoué ouvertement par l’idéologie anti nationale qui domine dans les institutions européennes.

L’article 5 dispose : « la loi n’a le droit de défendre que les actions nuisibles à la société ». En quoi des crucifix dans les écoles italiennes sont ils « nuisibles à la société » ? En quoi le renforcement du pouvoir du prince du Liechtenstein sous le contrôle de la démocratie directe est-il nuisible à la société ? En quoi l’interdiction des minarets en Suisse serait-elle « nuisible à la société » ? On voit ici à quel point le Conseil de l’Europe et sa Cour satellite cherchent à acquérir des pouvoirs qui vont bien au-delà des pouvoirs tolérés par la déclaration de 1789.

L’article 6 est bafoué, non seulement par les institutions européennes par la plupart des institutions des Etats membres du Conseil de l’Europe, à l’exception de la Suisse, du Liechtenstein, de l’Italie et de l’Allemagne au niveau de ses Etats fédérés, les Länder.
Il dispose en effet : « la loi est l’expression de la volonté générale. TOUS les citoyens ont droit de concourir PERSONNELLEMENT ou par leurs représentants, à sa formation ». Cet article affirme que la démocratie directe et la démocratie parlementaire doivent se compléter. Or la plupart des Etats européens n’ont toujours pas la démocratie directe qui permet aux citoyens d’être à l’initiative des lois (par pétition) et de pouvoir décider de celles-ci (par référendum). Le Traité de Lisbonne ne tolère que la pétition pour les citoyens de l’Union européenne. Résultat : il est fréquent que des lois sont adoptées pour faire plaisir à des lobbies divers sans égard pour la « volonté générale ». La population n’a alors plus confiance dans les institutions existantes : l’absence de démocratie véritable menace la démocratie elle-même. En France, environ 40% des citoyens ont confiance dans le parlement alors qu’il est élu par le peuple (mais celui-ci ne peut choisir que des candidats choisis par les états majors des partis politiques : là encore oligarchie et non démocratie !) A titre de comparaison le système de santé ou l’armée ont en France un taux de confiance de 90% (mais 38% pour les medias contrôlés par les oligarques et 18% de confiance seulement pour les partis politiques) (3)

L’article 10 de la déclaration de 1789 dispose : « Nul ne doit être inquiété pour ses opinions même religieuses, pourvu que leur manifestation ne trouble pas l’ordre public établi par la loi ». En quoi les crucifix dans les écoles italiennes troublent-ils l’ordre public ? Cet article est violé par les institutions européennes lorsqu’elles cherchent à effacer du paysage européen les manifestations du christianisme.

La libre communication des pensées malmenée

L’article 11 dispose : « la libre communication des pensées et des opinions est un droit des plus précieux de l’homme : tout citoyen peut donc parler, écrire, imprimer librement sauf à répondre à l’abus de cette liberté dans des cas déterminés par la loi ». Cet article est surtout violé par le droit interne de beaucoup de pays européens mais cela ne semble pas gêner le Conseil de l’Europe et son satellite judiciaire. Le prix Nobel d’économie Milton Friedman, juif américain libertarien s’insurgeait à juste titre contre la loi Gayssot française (inspirée par un communiste) qui sous prétexte d’antiracisme limite la liberté d’expression et créée des catégories de citoyens privilégiés alors que la loi doit être la même pour tous. Plus récemment le tribunal constitutionnel fédéral allemand a annulé un jugement de la Cour d’Appel de Munich qui interdisait pour cinq ans une publication « d’extrême droite » : le tribunal suprême jugeait que le qualificatif d’extrême droite appartient à la polémique politique courante (comme extrême gauche d’ailleurs) et n’est pas un critère juridique d’interdiction de publication dans un Etat de droit défendant la liberté d’expression. Cela montre qu’il y a débat sur ce point désormais dans certains Etats d’Europe.

C’est un mécanisme oligarchique qui décide de l’impôt

L’article 14 de la déclaration de 1789 est totalement bafoué : « TOUS les citoyens ont le droit de constater par eux-mêmes ou par leurs représentants la nécessité de la contribution publique, de la consentir librement, d’en suivre l’emploi, et d’en déterminer la quotité, l’assiette et la durée. Seuls les Etats à démocratie directe comme la Suisse, le Liechtenstein ou les 27 états fédérés américains (sur 50) respectent cet article. En général l’impôt est décidé par un mécanisme totalement oligarchique : même le pouvoir des « représentants (députés) est purement formel : c’est l’administration d’Etat qui décide des impôts comme dans l’ancienne Union soviétique.

Enfin l’article 15 n’est guère appliqué en réalité : « la société a le droit de demander compte à tout agent public de son administration ». On a en général organisé l’irresponsabilité à tous les niveaux, administratifs et parlementaires, ce qui explique la gabegie, les déficits, l’endettement monstrueux de la plupart des Etats européens (sauf la Suisse bien entendu, décidément fort gênante).

On a déjà parlé de l’article 16 qui exige la séparation des pouvoirs législatifs, exécutifs et judicaires.

Cette revue montre que l’Europe ne porte pas tous les péchés. Les Etats membres aussi ne respectent guère les véritables droits de l’homme et du citoyen de la déclaration de 1789. Après tout, ces états oligarchiques ont créé une Europe à leur image, ce qui est bien logique mais en aggravant les défauts au détriment des droits des citoyens.

Retrouver les libertés par la démocratie directe

Pour sortir de cette dérive menaçante pour nos libertés que les connaisseurs de l’ancienne dictature communiste comme le président tchèque Vaclav Klaus savent mieux identifier que les Occidentaux inexpérimentés donc inconscients, il faut de toute urgence réformer les constitutions des pays européens pour y introduire la démocratie directe. Il faut revoir les traités fondant l’Union européenne, le Conseil de l’Europe et la Cour européenne des droits de l’homme pour démocratiser ces institutions. Cela n’aura servi à rien de faire tomber le rideau de fer si par une dérive lente, hypocrite mais inexorable, les libertés des européens et de leurs nations sont grignotées par un pouvoir irresponsable. Une nouvelle forme de dictature menacerait ainsi l’Europe au moment même où elle a pu se libérer de l’oppression rustique du communisme. Nos Etats, à la différence des anciens pays de l’Est, respectent encore certaines libertés traditionnelles mais leur processus de décision, de moins en moins démocratiques et de plus en plus favorables à des pouvoirs irresponsables rendent à bon droit inquiets pour notre avenir. Nous risquons de devenir, non pas de libres citoyens, mais des matières premières interchangeables à la merci des managers du public comme du privé.

Yvan Blot

Notes :

  1. Voir l’article de Grégor Puppinck sur l’affaire Lautsi dans La Nouvelle Revue Universelle n°22 de 2010
  2. Le rappel (recall) est une procédure de démocratie directe américaine qui permet à une pétition de citoyens de déclencher un référendum pour démettre un juge d’une Cour Suprême. Ce procédé a pour but d’éviter la confiscation du pouvoir souverain par une oligarchie judiciaire irresponsable.
  3. Voir les travaux notamment de Pierre Bréchon et Jean-François Tchernia in La France à travers ses valeurs 2010

mardi, 07 octobre 2014

Pour un paganisme cosmique

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Pour un paganisme cosmique

140 pages. Papier glacé 130gr/m2

Véritable compendium, cet ouvrage n’a pas pour objectif de décider à la place du lecteur mais a été conçu dans le but de l’orienter vers divers concepts inhérents à l’idée d’un paganisme cosmique, où tout est mouvement, cette impermanence du Devenir.

Construit à partir de citations rigoureusement classées par thèmes et commentées humblement par Amaury Petitloup, ce compendium regroupe autant la sagesse et le savoir des textes sacrés de l’Antiquité que la pensée d’auteurs plus contemporains dont certains n’étaient jusqu’à présent pas accessibles en langue française.

Un livre unique en son genre que le lecteur aura plaisir à consulter tout au long des différentes étapes de son existence.

Voici quelques-uns des thèmes abordés :

Palimpeste - Religions-racines - Ecriture primordiale - Mémoire ancestrale - Lieu sacrés et Omphalos - L’intuition surhumaniste - Réaction anti-dualiste - Panenthéisme - Monisme - Hiérarchie divine - La Grande Synthèse - Rites - Chaos primordial - Principe créateur - Vers un nouveau paganisme : erreurs à éviter...

Pour commander auprès des Editions du Lore:

http://www.ladiffusiondulore.fr/editions-du-lore/572-orientations-pour-un-paganisme-cosmique.html

 

17:16 Publié dans Livre, Livre, Traditions | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : paganisme, livre, traditions | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Giorgio Locchi