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dimanche, 20 juin 2010

Londres, avril 2008

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Londres, avril 2008: belle journée, excursion d'un jour. Dans les nouveaux quartiers, les Docksides, animation inconnue des vieux visiteurs de la capitale anglaise. Un nouveau Londres, après celui de Jesus-Christ Superstar des années 70 de nos premières visites... C'est le Londres d'après Thatcher, le Londres de Blair et d'une espèce de "Troisième Voie" (qui n'est pas la nôtre...), avec cet animateur dans une rue couverte, tout de peinture argentée... Extraordinaire déguisement...

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L'occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov'ev

L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.
Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev. Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.
In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà - aveva detto - magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.
Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.
Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.
Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.
Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:

«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […]  Iniziato con  la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»

Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…
Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.
Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.
Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173):

«I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre.  Essi hanno sviluppato al loro interno  forze e capacità dio conquista  e di dominio sugli altri popoli.  E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità  di sfruttare il proprio vantaggio.  Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale.  I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo  circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale.  L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure.  Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa  col tempo, ma si è rafforzata.  Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile  per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente. La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo  malvagio, rapace e stupido spinga  l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità  è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.
Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco,  di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti,  che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza  e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente  al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi,  è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose.  L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale  rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale. Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura.  Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili.  Noi siamo liberi, ricchi e felici - dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare - e vogliamo aiutarvi  a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.
Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto - è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé. Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.
L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è  qualcosa di molto più profondo e importante per esso.  È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere  quanto abbiamo detto prima.
L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza. A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta  a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad  esempio,  è successo in Iran e in Vietnam.
L’intera attività di liberazione e di  civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi  e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo.  Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso.  Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però  non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici  gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto. Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi.  L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra  che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.
Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale.  Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via  delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali.  Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli  come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.
L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.
La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi  colonizzati, in virtù  delle condizioni  interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico.  È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta  dai metodi del colonialismo. Inoltre,  il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo  i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.
Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti   mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari.  Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente.  Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali,  nonché imprese  esclusivamente occidentali o miste. Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche  sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.
Al paese vengono imposti attributi esteriori  del sistema politico occidentale: multipartitismo,  parlamento, libere elezioni,  presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura  di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente  avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.
Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.
La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma  di libertinaggio, una blanda sorveglianza  da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»

Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.
Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.
La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?
C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.
Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.
Questa, però, è una grossolana semplificazione. Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.
L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte - con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento - non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.
Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.
Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.
Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.
Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.
Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.


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Octobre 1993: les événements tragiques de Moscou

moscou93.jpgSYNERGIES EUROPÉENNES

VOULOIR

OCTOBRE 1993

Les événements tragiques de Moscou

 

Communiqué de presse du comité de rédaction de VOULOIR

 

Le comité de rédaction de la revue VOULOIR déplore les événements tragiques qui viennent de se dérouler à Moscou. Il estime:

- que, dans la querelle qui oppose le Parlement à la Présidence, il n'a pas été suffisamment tenu compte des conseils modérateurs du Dr. ZORKINE, Président du Tribunal Constitutionnel russe, qui prône un équilibre entre l'exécutif et le législatif.

- que les appels du Patriarche Alexis ll, qui s'était naguère insurgé contre l'américanisation des mœurs en Russie, sont dignes d'être écoutés et devraient davantage susciter l'intérêt de nos médias.

- que la position de Gorbatchev, peu suspect de soutenir les nationalistes ou les communistes du Parlement, est aux antipodes du manichéisme de nos médias; en effet, Gorbatchev déplore, comme nous, le recours à la force et la dissolution du Parlement proclamée récemment par l'exécutif. Cette position commune de Gorbatchev, de certains parlementaires russes et de notre groupe, montre qu'on ne peut construire une démocratie ex nihilo, et que toute démocratie russe doit reposer sur les structures déjà existantes, quitte à les réformer progressivement.

 - que les événements tragiques de ces deux derniers jours sont le résultat d'une déplorable précipitation et que la libéralisation de l'économie russe aurait dû s'effectuer sur le mode chinois, comme l'ont mentionné conjointement dans un débat à Moscou, le 1 er avril 1992, Alain de BENOIST (chef de file de la "Nouvelle Droite" française), Robert STEUCKERS (Directeur de Vouloir), Edouard VOLODINE (idéologue du FSN) et Guennadi ZOUGANOV (Président du nouveau "Parti Communiste Russe"). La Chine a procédé graduellement à une libéralisation de son économie, zone après zone. C'est ce modèle que préconise le FSN, à juste titre, nous semble-t-il.

- que les responsabilités de l'immense gâchis russe incombent principalement aux protagonistes de l'idéologie libérale pure, injectée dans la société russe lors de la libéralisation des prix de janvier 1992 par l'équipe de Mr. GAlDAR. Cette libéralisation a jeté de larges strates de la population moscovite dans la plus extrême précarité.

- que la position d'ELTSlNE a été fragilisée par les événements des 2 et 3 octobre 1993, du fait que sa police n'a pas pu tenir la rue, contrairement à ce qui avait été promis solennellement, et que sa démocratie s'impose en pilonnant le Parlement, alors que ce bâtiment aurait dû demeurer inviolable envers et contre tout, servir ultérieurement d'instrument à une démocratie réformée, partant de la base, des "Conseils" élargis à tous les éléments dynamiques de la population.

- Enfin, notre comité de rédaction déplore que le sang russe ait coulé, présente ses hommages et ses respects à toutes les victimes de cette tragédie, quel que soit leur camp. Par aileurs, nous signalons que Michel SCHNEIDER, qui avait accepté d'être l'un de nos correspondants à Moscou, a été blessé à l'épaule à proximité des bâtiments de la télévision dimanche soir. Et que Mme Larissa GOGOLEVA, qui était son interprète, a été très grièvement blessée par balle au même endroit. Notre comité rend hommage au courage de cette jeune femme, tombée dans l'exercice de sa profession et rappelle qu'elle avait traduit en russe plus d'un texte émanant de nos publications.  

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samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

Israele impietantata in Iraq

Israele impiantata in Iraq

di Gilles Munier

Fonte: eurasia [scheda fonte]


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Israele impiantata in Iraq

Israele ha capito subito che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra in Iraq, e che i progetti di stabilire relazioni diplomatiche e la promessa della riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa fatte da Ahmed Chalabi, erano illusori. Ariel Sharon ha deciso, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, di rafforzare la presenza israeliana nel Kurdistan iracheno affinché il Mossad stabilisca reti che si estendono per tutto il resto del paese e tra i curdi dei paesi vicini, a prescindere dal risultato del conflitto.
Programma di assassinii

La partecipazione di Israele alla coalizione occidentale che ha invaso l’Iraq è tutt’altro che trascurabile, ma rimane quasi un segreto. Gli Stati Uniti non tengono conto a ciò di cui i media parlano, per paura di interferire con i loro alleati arabi e di dare credibilità a loro avversari che denunciano il “complotto sionista-americano” in Medio Oriente.

Gli israeliani non sono presenti solo con l’uniforme degli Stati Uniti con cui, sotto la copertura della doppia cittadinanza, intervengono dal 2003 come specialisti nella guerra urbana a Fort Bragg, Carolina del Nord; il centro delle Forze Speciali. Qui è stata istituita la famosa task force 121 che, con i peshmerga del PUK (Talabani), catturò il presidente Saddam Hussein. Il suo leader, il generale Boykin, si vedeva un crociato contro l’Islam, “religione satanica”. Fu allora che Benjamin Netanyahu incontrò al King David Hotel di Gerusalemme, i fanatici cristiano-sionisti per dichiarare l’Iraq “Terra di Missione” … Nel dicembre 2003, un ufficiale dell’intelligence statunitense, citato da The Guardian temeva che la “cooperazione su vasta scala” con Israele deragliasse, in particolare con il “programma di omicidi in via di concettualizzazione“, cioè la formazione di squadroni della morte. Non bisognò neppure attendere molto perché il primo scandalo scoppiasse. Nel marzo 2004, si diffuse la voce che gli israeliani torturavano i prigionieri di Abu Graib, anche mettendo in pratica l’esperienza acquisita per piegare la resistenza in Palestina. Sulla BBC, il generale Janis Karpinski, la dimessa direttrice del carcere tagliò corto con le smentite ufficiali, confermando la loro presenza nella prigione.

La cooperazione israelo-statunitense non si sviluppò solo sul terreno della liquidazione extragiudiziale di 310 scienziati iracheni, tra aprile 2003 e ottobre 2004, ma anche in Israele, imparando dalle battaglie di Falluja, il Corpo dei genieri dell’Esercito USA costruì, nel Negev, un centro di addestramento per i marines diretti in Iraq e in Afghanistan. Il campo, chiamato Baladia City, è situato vicino alla base segreta di Tze’elim, che è la replica a grandezza naturale di una città mediorientale, con i soldati israeliani di lingua araba che giocano il ruolo di civili e combattenti nemici. … Secondo il Marines Corps Time, assomiglia a Beit Jbeil, il centro della resistenza di Hezbollah all’esercito israeliano, nel 2006…
Gli “uomini d’affari” del Mossad

Nell’agosto 2003, l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv una conferenza per consigliare agli imprenditori d’agire come subappaltatori di imprese giordane o turche, ottenendo l’approvazione del Consiglio di governo iracheno. Molto rapidamente emersero in Iraq dei prodotti sotto false etichette. L’attacco da parte di Ansar al-Islam, nel marzo 2004, alla società di import-export Al-Rafidayn, copertura del Mossad a Kirkuk, ha convinto gli “imprenditori” israeliani che era meglio reclutare nuovi agenti senza allontanarsi dal Kurdistan, ma ciò non ha impedito il progredire degli scambi economici israelo-iracheni. Nel giugno 2004, il quotidiano economico israeliano Globes stimava in due milioni di dollari le esportazioni in Iraq, per quell’anno. Nel 2008, il sito web Roads to Iraq contava 210 imprese israeliane che partecipavano, occultate, al mercato iracheno. Il loro numero è aumentato nel 2009, dopo la soppressione, da parte del governo di Nouri al-Maliki, del documento di boicottaggio d’Israele, richiesto dalle aziende straniere che operano in Iraq, una vera manna per gli agenti reclutatori del Mossad.

Fonte: Afrique Asie Giugno 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

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The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.

Equilibri multipolari

Equilibri Multipolari

di Lorenzo Salimbeni

Fonte: cpeurasia

Resoconto della tavola rotonda

Fuoco Edizioni ha scelto coraggiosamente di specializzarsi in un genere di nicchia come quello dell’analisi geopolitica, concedendosi pure qualche sconfinamento in ambito storico. L’editore Luca Donadei ha quindi organizzato assieme ad Eurasia. Rivista di studi geopolitici il 10 giugno la serata Equilibri multipolari. Politiche e strategie per il nuovo secolo per presentare alcune delle sue ultime opere ed i loro autori presso la Biblioteca Comunale Enzo Tortora di Roma, grazie alla collaborazione del dott. Emanuele Merlino.

Donadei ha ben evidenziato come, finita la contrapposizione della Guerra Fredda e con l’inizio della crisi del consequenziale unipolarismo statunitense, oggi lo scenario internazionale si in continuo sussulto, con potenze emergenti come quelle del BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina) che chiedono maggiore capacità decisionale, laddove la potenza statunitense accusa colpi a vuoto in ambito militare, economico e diplomatico. In questa situazione è preziosa la guida rappresentata da La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, opera prima di Daniele Scalea, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, con prefazione del Generale Fabio Mini. Apre quest’agile volumetto una disamina sulle principali scuole e dottrine geopolitiche, comun denominatore delle quali è la strategia per il controllo del cosiddetto Heartland, zona nevralgica del globo per la sua posizione e per le sue risorse energetiche che grosso modo corrisponde all’attuale Russia, per cui gran parte di guerre e contrasti erano dovuti proprio al possesso ovvero alla possibilità di influenzare quest’area. Venendo all’attualità, vengono approcciate le principali tematiche d’attualità, a partire dal risveglio dell’orso russo: smaltita la botta della dissoluzione dell’URSS (“l’evento geopolitico più importante della nostra epoca” l’ha definita Vladimir Putin), il Cremlino oggi attraverso alleanze, sistemi di mercato comune e consorzi energetici, sta riallacciando le fila con quei Paesi che ricadono nel suo “estero vicino” (sostanzialmente le ex repubbliche sovietiche), i quali però sono pure al centro dell’interesse statunitense, che, a suon di rivoluzioni colorate e di avveniristici progetti di scudo spaziale, va stringendo sempre più la morsa attorno alla rinascente Federazione russa. Nella massa eurasiatica si trovano anche altre due potenze emergenti a spron battuto, vale a dire la Cina e l’India, entrambe con problemi ancora irrisolti in termini di approvvigionamento energetico, di unificazione nazionale (Formosa e altre isole del Mar Cinese per Pechino, Pakistan e Bangladesh per Nuova Delhi) e di separatismi interni ai quali rispondono in maniera diametralmente opposta. Rispetto al federalismo indiano, ben più efficace sembra l’accentramento cinese, grazie al quale “il Drago” può affrontare le sfide poste dallo sfruttamento delle risorse africane e cimentarsi quasi alla pari con gli USA nella contesa per le rotte del petrolio che dal Medio Oriente deve irrorare il colosso cinese. Offre chiavi di lettura preziosissime per interpretare le notizie di maggiore attualità il capitolo dedicato alla contrapposizione fra Iran e Israele, con quest’ultimo Paese che è rimasto l’ultimo bastione sicuro della politica statunitense in Medio Oriente, anche se, come hanno ben documentato Wall e Mearsheimer, gran parte dell’agenda di politica estera di Washington è in effetti dettata da Tel Aviv. Sintomo più evidente della crisi statunitense è per giunta la perdita di controllo del “cortile di casa”, vale a dire quell’America “indiolatina” (così definita dalla redazione di Eurasia per evidenziare il ruolo fondamentale svolto dai vessilliferi degli abitanti originari nelle più recenti svolte politiche) che sull’onda dei successi elettorali dei movimenti neobolivariani ha posto (forse) finalmente fine all’epoca dei colpi di stato e delle ingerenze a stelle e strisce.

 

Ingerenze a stelle e strisce che sono invece ancora vive e vegete in Italia, come ha ben argomentato Fabrizio Di Ernesto, giornalista professionista e autore di Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, basti pensare a come il movimento No Dal Molin venga ostacolato in tutti i modi nella sua battaglia civile finalizzata a scongiurare l’allargamento della base americana sita a Vicenza, ovvero alla strage del Cermis rimasta di fatto impunita in base ad un codicillo sottoscritto dal governo di Roma e che garantisce la non processabilità all’estero per quei soldati statunitensi che commettano reati in Italia. In giorni in cui in Giappone il governo Atoyama dà le dimissioni perché non è stato capace di far chiudere la base di Okinawa, in Italia non possiamo neppure dire quante siano con precisione le installazioni a disposizione in un modo o nell’altro degli Stati Uniti (in ogni caso, un centinaio almeno). Risulta, infatti, che Gaeta e La Maddalena non facciano più parte del novero, eppure vi sono ancora soldati americani di presidio… Tant’è, queste basi, la cui collocazione geografica è oltremodo significativa (a nord-est in prospettiva balcanici, in Sardegna per surrogare l’ondivago appoggio francese, in Sicilia per proiettarsi verso l’Africa ed in Puglia per agire verso il Vicino e Medio Oriente), sono una garanzia per gli USA di poter proseguire l’asservimento della colonia italiana conseguente agli esiti della Seconda Guerra Mondiale: quei politici come Mattei, Moro e Craxi, i quali hanno cercato di riconquistare fette di sovranità, sappiamo tutti come sono “casualmente” finiti.

In questo scenario un Paese cardine per l’accesso ai Balcani è la Romania, facente parte di quella “Nuova Europa” che, sfuggita al controllo moscovita, ora si presta a garantire appoggio diplomatico e non solo all’avventurismo della politica estera atlantista. Antonio Grego, collaboratore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, nel suo Figlie della stessa lupa ha ripercorso la politica diplomatica intercorsa fra Roma e Bucarest fra le due guerre mondiali. A prescindere dalla ricostruzione storica che spiega i tentennamenti rumeni fra l’allineamento alle potenze democratiche occidentali, cui miravano i governi liberalnazionali e conservatori dell’epoca, ed il richiamo delle comuni radici culturali e linguistiche che esercitava l’Italia fascista, si tratta di un testo importante per approfondire la conoscenza di questo Paese. Oggi si parla dei romeni soprattutto con riferimento ad incresciosi fatti di cronaca, però deve essere ben chiaro che etimologicamente “Romania” non ha niente a che fare con il ceppo “rom” degli zingari, altresì è la testimonianza più lampante di come l’antica Dacia si senta legata a quella Roma imperiale che la conquistò e vi lasciò la sua impronta.

Ha tirato le somme della tavola rotonda il prof. Antonio Caracciolo, docente all’Università la Sapienza di Roma, il quale, da buon filosofo del diritto e fresco di un corso monografico su Carl Schmitt, un giusfilosofo col pallino per la geopolitica appunto, ha evidenziato come gli USA oggi abbiano ben presente la lezione hobbesiana che nel bellum omnium contra omnes che intercorre fra Stati sovrani una delle prime armi è quella di creare disordine in casa del nemico e inoltre non rispettino il diritto internazionale, salvo poi in certe circostanze pretendere che certi Paesi lo facciano, per cui viene a cadere l’universalità della norma. Se questi sono gli effetti dell’unipolarismo in prospettiva dell’utopistico Stato unico che dovrebbe affratellarci tutti, ben venga un mondo multipolare in cui le varie potenze regionali avranno modo di mettere in atto un sistema di scambi e compensazioni che sicuramente peggiore di quanto oggi abbiamo non potrà essere.


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La "Mère Volga" se meurt...

volga%5B1%5D.jpgLa "Mère Volga" se meurt...

Article de La Libre Belgique (15/06/2010)

Le plus grand fleuve de Russie est une catastrophe écologique. En cause, l’activité humaine et l’indolence des pouvoirs publics.

Boris Toumanov

Correspondant à Moscou

La Volga, le plus grand fleuve du continent européen (3 530 kilomètres) et un des symboles mondialement connus de la Russie, continue de s’éteindre sous le poids insupportable de la pollution due à l’activité et à la négligence humaine. Selon l’Institut écologique du bassin de la Volga, les ressources hydriques du fleuve subissent actuellement une charge huit fois plus grande par rapport à celle subie en moyenne par l’ensemble des autres ressources hydriques de la Russie.

Ce chiffre ne donne pourtant qu’une très faible idée de la vraie dimension du désastre. Selon les statistiques officielles, 45 % de la production industrielle et 50 % de la production agricole de la Russie sont concentrés dans le bassin de la Volga. C’est dans cet espace également que se trouvent 60 villes qui figurent sur la liste des 100 agglomérations urbaines les plus polluées du pays. Le volume des écoulements pollués déversés dans les eaux de la région constitue 38 % du chiffre général pour toute la Russie.

A cause de ça, les petits affluents de la Volga se trouvent dans un état critique. Selon les activistes du mouvement écologique local "Aidons les fleuves", les douze rivières de Nijni Novgorod, un des plus grands centres industriels du bassin de la Volga, sont d’ores et déjà "mortes". Précisons également que sur toute la longueur de la partie navigable du fleuve, on dénombre quelque deux milles et demi de bateaux abandonnés ou coulés avec leur chargement qui contaminent les eaux par le reste de combustibles ou par les produits chimiques.

Cette situation est aggravée par le fait que la cascade de barrages des huit centrales hydro-électriques ont transformé la Volga en un chapelet de lacs stagnants que sont devenus les réservoirs d’eau. C’est aussi une des raisons pour lesquelles l’eau du fleuve qui était potable aux années 50 du siècle dernier, ne l’est plus, ayant perdu sa capacité naturelle d’auto-purification.

Ajoutons que, selon les chercheurs de l’Université California Santa Barbara, le delta de la Volga se trouve dans la dizaine de zones côtières les plus polluées du monde. Cela ne surprend guère quand on sait que les berges cultivées - pour ne parler que de cette source de pollution - déversent dans le fleuve des tonnes et des tonnes d’engrais chimiques.

Inutile de dire que l’ensemble de ces facteurs a gravement déséquilibré le milieu biologique du fleuve, ce qui a fait de lui une puissante source de pollution. Des centaines de millions de poissons déchiquetés par les huit barrages contribuent à la destruction du milieu naturel de la Volga en catalysant la profusion des algues bleu-vert qui couvrent de 20 à 30 % de la surface des réservoirs d’eau. Elles dégagent 300 espèces de substances organiques toxiques dont 200 restent inconnues à cause de l’absence du biomonitoring expliquée par le manque de moyens financiers. Cette masse à acidification élevée est capable d’autoreproduction, ce qui rend irréversible le cercle vicieux de la pollution. Résultat : dans certains secteurs de la Volga, la part des poissons mutants a atteint en 2007 90 % !

Les efforts sporadiques entrepris par les autorités locales et les écologistes pour remédier à cette situation restent manifestement insuffisants face à l’indolence traditionnelle de la population et des chefs d’entreprises industrielles et agricoles. En attendant la Volga va vers une catastrophe écologique.

Minorités et peuples autochtones

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Minorités et peuples autochtones

N. Rouland, S. Pierre-Caps et J. Poumarède sont les auteurs d'un remarquable Droit des minorités et des peuples autochtones  aux PUF. Citons un passage de l'introduction: «Aujourd'hui, les droits de l'Homme font figure de nouvel universalisme: certains droits se retrouvent en tout homme, ce qui fonde partout l'obligation des Etats à les respecter et permettre leur épanouissement. Cette auto-limitation de la puissance souveraine caractériserait particulièrement les Etats de droit. Nourrie par la tradition française, cette aspiration se heurte à plusieurs obstacles. Tout d'abord le constat d'une autre universalité: celle du mal que l'homme peut infliger à ses semblables. Longtemps on voulut tout expliquer par la démesure de l'Occident et les méfaits du colonialisme. Mais en notre siècle, nous savons depuis les génocides du Cambodge et du Rwanda que l'horreur (au Rwanda, on crucifia des enfants) est possible partout, en dépit des religions et philosophies basées sur l'amour du prochain (le Rwanda est majoritairement chrétien) et la compassion (le Cambodge est bouddhiste). Ensuite, cette idéologie universaliste n'est pas universelle. Passe encore que dictatures et régimes autoritaires invoquent la différence “culturelle” pour tenir à distance les droits de leurs peuples: cette fausse monnaie intellectuelle pèse peu de poids. Mais il y a plus sérieux. Comme l'écrit C. Lévi-Strauss: “Les grandes déclarations des droits de l'homme ont, elles aussi, cette force et cette faiblesse d'annoncer un idéal trop souvent oublieux du fait que l'homme ne réalise pas sa nature dans une humanité abstraite, mais dans des cultures traditionnelles où les changements les plus révolutionnaires laissent subsister des pans entiers et s'expliquent eux-mêmes en fonction d'une situation strictement définie dans le temps et l'espace”. L'unité de l'homme, en laquelle croira volontiers tout anthropologue, s'il est fidèle à la qualification de sa discipline (anthropologie signifie discours sur l'Homme dans sa généralité), ne peut apparaître qu'au prix d'une navigation difficile entre deux écueils. Celui de l'uniformité: reconnaître que tous les hommes sont égaux ne postule pas qu'ils soient partout identiques; l'assimilation peut provoquer les fermetures identitaires qu'elle cherche à éviter (nous verrons que l'Etat-nation est une matrice de minorités). Celui de l'hétérogénéité: l'autonomie reconnue aux spécificités culturelles ne peut-être que relative, surtout dans un monde vibrant des flux migratoires. Exacerbée, elle conduit aux conflits, et réintroduit l'inégalité et l'oppression sous le masque du droit à la différence. Le monde n'est pas devenu le village global cher à Mac Luhan. A sa place apparaît un archipel planétaire: qui veut y naviguer doit en suivre les détroits. Le présent ouvrage convie à ce voyage».

 

Pierre MONTHÉLIE.

 

N. ROULAND, S. PIERRÉ-CAPS, J. POUMAREDE, Droit des minorités et des peuples autochtones, PUF, 1996, 584 p., 198 FF.

 

vendredi, 18 juin 2010

Douteuse provocation ou scandaleuse récupération, qu'importe!

saupinard.jpgDOUTEUSE PROVOCATION OU SCANDALEUSE RÉCUPÉRATION, QU'IMPORTE !

Chronique hebdomadaire de Philippe Randa

Si le but des organisateurs de l’Apéro “Saucisson et Pinard à la Goutte-d’or”, ce quartier parisien au taux de population immigrée largement – euphémisme ! – au-dessus de la moyenne nationale, était de faire du “buzz” comme on dit désormais, c’est gagné. Depuis quelques jours et à l’approche du fatidique rendez-vous, les medias, effrayés par l’ampleur annoncée du nombre des participants, s’en sont fait l’écho quotidiennement. Quant à son interdiction par la Préfecture de police, c’est à l’évidence le point d’orgue de ce “coup” incontestablement réussit.

Certains jugeaient qu’une telle initiative est du plus parfait mauvais gout, au niveau des provocations de militants homosexuels venant sur les parvis des églises s’embrasser goûlument tout en se tripotant ce qui ne leur sert généralement guère pour se reproduire…

D’autres s’indignaient de son insupportable récupération partisane.

Ainsi du ban et de l’arrière-ban de la gauche extrême et militante – Parti de Gauche au PCF, en passant par les Verts-Europe Écologie, le NPA, RESF, la LDH, Alternative libertaire, La Maison Verte, la Gauche unitaire, Action antifasciste – bref de tous les habituels brailleurs contre la supposée resurgence d’une “lueur immense et rouge” qui fascina voilà plus de quatre-vingt ans l’écrivain Robert Brasillach et continue depuis lors de hanter leurs existences tout autant que celle de leurs grands-parents.

Ainsi de la Nouvelle droite Populaire qui s’est fendue d’un long communiqué rageur pour dénoncer au contraire “cette initiative (plutôt sympathique, mais) récupérée par toutes sortes d’organisations post socialistes qui découvrent aujourd’hui, après avoir craché pendant plus de vingt ans sur le mouvement nationaliste, que l’immigration est un problème pour notre pays. Certes, il n’est jamais trop tard pour ouvrir les yeux et se rendre compte que l’eau est mouillée et chacun a bien sûr droit à l’erreur. Mais ce qui est insupportable, c’est lorsque ces gens se permettent de nous donner des leçons (…) il est logique que les forces du Système tentent de récupérer cette légitime et salvatrice réaction de notre peuple.”

Quoi qu’il en soit, personne n’aura plus besoin de se déplacer – au risque d’incidents probables avec des “autochtones” locaux – pour que la France entière soit interpellée quant aux réalités ethnico-religieuses de certains lieux de son territoire national, si tant est qu’il puisse encore y avoir une citoyenne ou un citoyen distrait qui ne l’aurait pas remarqué… Entre autre la réquisition illégale par des musulmans de la voie publique pour organiser la prière du vendredi, comme dénoncée à juste titre par Marine Le Pen, vice-présidente exécutive du Front National, qui n’a pas manqué de condamner l’interdiction de cet Apéro “saucisson-pinard” à Paris auquel son mouvement ne s’était toutefois pas associé.

Certes, cet Apéro “saucisson-pinard”, officiellement à la seule initiative d’une habitante exaspérée du XVIIIe arrondissement parisien, fut néanmoins quasi-simutanément soutenu par plusieurs mouvements d’une droite identitaire habituellement qualifiée d’extrême.

Mais elle le fut également, et quasi-immédiatement, par d’autres associations qui ne le sont pas, voire pas du tout, tel Riposte laïque… qui se présente comme un groupe de gauche antireligieux dont le combat laïque est une telle priorité qu’il ne cherche “donc pas à la cloisonner dans le seul camp de la gauche”…

Et un des collaborateurs de son journal en ligne (www.ripostelaique.com) Maxime Lépante, se présentant comme “spécialiste de l’islamisation de La Goutte d’or”, a accordé un long entretien à l’hebdomadaire Minute (n°2464, 9 juin 2010) parce que celui-ci, précise-t-il, est “le troisième media à (s’)intéresser au scandale des prières musulmanes illégales dans les rues de Paris et ailleurs et qu’aucun des principaux medias français ne se préoccupe de cette affaire.”

Nul doute que ce ne soit plus le cas à l’avenir, puisque “sur Facebook, le projet d’Apéro “pinard-saucisson” fait des petits à Toulouse, Lyon, Bruxelles ou Londres. Plusieurs centaines de membres s’y sont déjà agrégés”, indiquait hier le quotidien Libération.

Alors, au-delà de l’opinion que l’on peut avoir de l’opportunité d’une telle initiative, force est de constater qu’elle a permis de fissurer l’insupportable ligne de fraction droite/gauche de la politique française.

Les sévères garde-chiourmes d’une démocratie de plus en plus totalitaire parviendront-ils à colmater cette fissure, riche d’espoirs politiques ? N’est-il déjà pas trop tard ?

En attendant, buvons-un coup ! Et même deux ! Ce qui est pris ne sera plus à prendre.

Le saucisson est-il anticonstitutionnel?

saucisson.jpg

Le saucisson est-il anticonstitutionnel ?

La provocation à la Goutte d’Or, c’est tous les vendredis

Elisabeth LEVY

Ex: http://www.causeur.fr/

Je ne connais pas les groupes qui ont appelé vendredi à un “apéro saucisson et pinard” dans le quartier de la Goutte d’or, et je ne doute pas que parmi eux se trouvent des gens avec qui je n’ai aucune envie de festoyer parce qu’ils ont de la France une vision étroitement ethnique, voire raciale. Mais je suis sûr que pas mal d’autres gens, en particulier des habitants du quartier, seraient tentés par ces festivités si on ne nous rabâchait pas depuis quelques jours qu’il s’agit d’une provocation islamophobe d’extrême droite. Cette manifestation qui susciterait l’enthousiasme si elle s’appelait “fête des voisins” et se déroulait à Boboland peut en effet séduire pour des raisons honorables qui n’ont rien à voir avec le racisme et tout avec le souci de neutralité de l’espace public, ce qui est l’exacte définition de la laïcité.

L’alcool, c’est le racisme, sa prohibition la tolérance

Dans les médias, on nous explique avec gourmandise qu’un groupe s’est créé sur Facebook pour appeler à un “apéro géant halal et thé à la menthe”. Voilà en apparence une magnifique réponse du berger à la bergère. Sauf qu’à l’exception de quelques cinglés, personne ne s’offusque parce que quelqu’un ne boit pas d’alcool ou ne mange pas de porc, alors que pratiquer ces deux activités, traditionnelles sinon anodines pour un grand nombre de nos concitoyens, est considéré comme insultant par une autre partie de nos concitoyens. À ma connaissance, aucun élève ne s’est fait casser la figure parce qu’il jeunait pendant le Ramadan. Il faut en conclure que manger du porc est un signe d’intolérance quand ne pas en manger et s’offusquer parce que d’autres en mangent prouve à quel point on aime toutes les cultures. Ou encore que boire est un acte raciste et qu’interdire aux autres de le faire est une manifestation de tolérance.

Oublions, par charité républicaine, l’ânerie proférée par Jean-Luc Mélenchon qui a repéré dans l’affiche appelant au saucissonnage un rappel de l’insigne de la SS : soit l’estimable Jean-Luc avait bu des breuvages que l’islam réprouve, soit il a peur de s’aliéner le vote de musulmans s’estimant stigmatisés par le rejet de cet islam ostentatoire qu’ils affirment pourtant rejeter. Comme j’aime bien Jean-Luc Mélenchon et que je le tiens pour un authentique républicain, je préfère penser qu’il avait, exceptionnellement, forcé un peu sur la bouteille – ou que sa vue baisse. Quant à Bertrand Delanoë, il a vertement condamné les saucissonneurs, rappelant que “l’expression du racisme et de l’intolérance n’avait pas sa place à Paris”. Ceux qui prient dans la rue, empêchant ceux qui ne prient pas de circuler et de picoler, sont évidemment les apôtres de la tolérance et de l’antiracisme. Pour le maire de Paris, le fait que cet apéro-saucisson coïncide avec la date du match Algérie-Angleterre est une circonstance aggravante : peut-être conviendrait-il de mettre en berne tous les drapeaux tricolores qui pourraient apparaître comme autant de provocations si l’Algérie perdait. De ce point de vue, nous devrions être rassurés : si j’en crois mes amis initiés, il y a de fortes chances pour que l’Algérie et la France soient éliminées en même temps. Reste à savoir quels drapeaux nous brûlerons tous ensemble pour manifester notre amour du sport et de la fraternité.

Qui sont les provocateurs ?

À en croire Le Point.fr, “cette manifestation centrée sur la consommation de viande de porc et l’alcool, exclut de fait les participants de confession juive ou musulmane”. J’ignorais que la charia et la halakha étaient devenues des lois de la Républiques et que les Français musulmans et juifs étaient désormais obligés de se conformer aux préceptes de leur religion. On attend avec impatience que la HALDE exige que les bars cessent de servir de l’alcool afin de n’exclure personne – à part les alcooliques, bien sûr.

Ce qui donne envie de hurler dans la présentation de cette affaire d’apéro, c’est que personne ne dit que si provocation il y a – et il y a -, elle répond à une provocation plus grande encore, persistante depuis des mois mais, il est vrai, dûment autorisée par la Préfecture de police : l’organisation de la prière musulmane du vendredi à ciel ouvert, des milliers de fidèles occupant plusieurs rues du quartier. Qu’ils bloquent la circulation est certes fâcheux mais en vérité véniel à côté de l’insulte faite aux mœurs de notre République – et ce serait aussi scandaleux s’il s’agissait d’une autre religion. Il faut d’ailleurs saluer le recteur Dalil Boubakeur qui a appelé les fidèles à venir prier à la Mosquée de Paris – monument éminemment parisien au demeurant et qui témoigne de la présence d’un islam respectueux de la laïcité qui a toute sa place en France.

Apéro interdit, prière autorisée ?

Il ne s’agit pas d’être candide. Les saucissonneurs associés ont certainement des arrière-pensées politiques, et pas des plus ragoûtantes. Mais ce n’est pas en recouvrant le réel d’un voile de bons sentiments qu’on le fera disparaître. Que ces prières publiques soient dénoncées par des gens peu sympathiques voire infréquentables, ne change rien au fait qu’elles sont inacceptables. La France qui a connu une quasi-guerre civile pour sortir le christianisme de l’espace public devrait maintenant accepter que l’islam s’y déploie ? La Préfecture de Police, qui a reçu les organisateurs de cet apéro du 18 juin et ceux du contre-apéro hallal annoncé, a décidé, certainement avec d’excellentes raisons d’ordre public, de tout interdire. Tout sauf, semble-t-il, la prière (à moins que pour calmer le jeu, on ne demande aux prieurs de se faire oublier pour une semaine).

En vrai, peu me chaut que l’on interdise cet apéro auquel je n’irai pas parce qu’on ne boit pas des coups avec n’importe qui. En revanche, j’aimerais savoir ce qu’on attend pour interdire ces prières sur la voie publique. Il faudra surtout expliquer aux Français de tous bords et de toutes origines qu’inquiète l’affirmation d’un islam militant et identitaire, que dans leur pays, on a le droit de prier en public, mais pas de manger du porc. La bonne nouvelle, c’est qu’on pourra jouer à l’antifascisme quand l’extrême droite raflera la mise parce qu’une fois de plus, on lui aura laissé, selon l’expression d’Alain Finkielkraut, le monopole du réel.

Gutmenschen-Propaganda

meolzer340x.jpgGutmenschen-Propaganda

Die EU-„Grundrechte-Agentur“ diffamiert die Europäer

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Vergangene Woche wurde der neue Jahresbericht der EU-„Grundrechte-Agentur“ vorgestellt. In dem 174seitigen Bericht erfährt der Leser, daß Europa ein Hort von Rassismus und Fremdenfeindlichkeit sei und Zuwanderer sowie Randgruppen wie Homosexuelle systematisch diskriminiert würden. Offen bleibt freilich die Frage, warum jährlich Abertausende aus der Dritten Welt nach Europa strömen, wo hier doch die Gäste aus aller Herren Länder angeblich so schlecht behandelt werden.

So werden etwa Beispiele wie Stellenanzeigen, mit denen Bewerber mit „deutscher Muttersprache“ gesucht werden, als Beispiele für „Diskriminierung“ angeführt. Oder Deutschland wird an den Pranger gestellt, weil acht Bundesländer moslemischen Lehrerinnen verbieten, während des Unterrichts ihr Kopftuch zu tragen. Dadurch würden sie gezwungen, so die Behauptung, zwischen ihrer Anstellung und ihren religiösen Überzeugungen wählen zu müssen. Aber auch die Lage illegaler Zuwanderer, die hier zum Zwecke der Rückkehr in ihre Heimatländer festgehalten werden, treibt den am Wiener Schwarzenbergplatz residierenden Gutmenschen die Sorgenfalten ins Gesicht.

Keine Beachtung schenkt die „Grundrechte-Agentur“ der Entstehung von Parallelgesellschaften in unzähligen europäischen Großstädten sowie dem immer ärger werdenden Problem der Ausländergewalt. Kein Wunder, schließlich passen diese durch die ungezügelte Massenzuwanderung hervorgerufenen Mißstände nicht ins Bild einer multikulturellen Idylle, die nur durch die bösen Einheimischen, die an ihrer angestammten nationalen Identität festhalten wollen, gestört wird. Da wird schon lieber ein Loblied auf das Ausländerwahlrecht auf kommunaler Ebene gesungen und die Bevorzugung von Zuwanderern im öffentlichen Dienst als „beispielhaft“ angepriesen.

Somit steht fest, daß es nicht die Aufgabe der „Grundrechte-Agentur“ ist, etwa die in Europa von den Dogmen der politischen Korrektheit bedrohte Meinungs- und Pressefreiheit zu verteidigen. Ganz im Gegenteil, diese für die Bürger vollkommen unnütze EU-Einrichtung ist selbst eine Speerspitze linkslinker Moral- und Tugendwächter und soll dem Aufgehen der europäischen Völker in einer multikulturellen Gesellschaft propagandistisch den Boden bereiten. Um nicht noch mehr Schaden anzurichten, ist die „Grundrechte-Agentur“ daher zu schließen. Immerhin würden sich die europäischen Steuerzahler dadurch allein in den beiden Folgejahren 42 Millionen Euro ersparen.

[24/10;14]

Jean-Pierre Le Goff et l'ultraviolence

barbarie-douce1.jpgJean-Pierre Le Goff et l'ultraviolence

Ex: http://www.lesmanantsduroi.com/

Encore un effort...

Pour remonter aux causes! Mais, c'est un bon début... Autruches de « gauche » ou « matamores  néocons » sans s'étendre sur les adeptes de la vie en « Vert », tous ânonnent d'impossibles réponses face à la violence, joliment appelée « ultraviolence »... L'enfant version « Rousseau » ou l'enfant-cible consommateur direct ou indirect, est devenu un parfait tyran. Si les causes profondes ne sont pas encore abordées, Jean-Pierre Le Goff, sociologue, entrouvre la porte... C'est un bon début...

Nous ne manquerons pas de poursuivre...

Mais notre société est amnésique en toute chose.

Ultraviolence? Il serait plus juste de dire barbarie. Et face à la barbarie les réponses ne sont pas de la même nature que face à la violence...

Portemont, le 15 juin 2010

Jean-Pierre_Le_Goff.jpg

J.P. Legoff : « l'ultraviolence est stimulée par l'angélisme éducatif »

Cette semaine Marianne consacre un dossier sur l'ultraviolence. Pour Jean-Pierre Le Goff, sociologue, le discours gentillet des élites éducatives sur la jeunesse favorise l'émergence d'enfants persuadés de leur toute puissance. Conjuguée avec la précarité accélérée par la crise et l'effondrement de la cellule familiale ce phénomène joue un rôle dans la montée des actes de barbarie et d'ultra-violence.

Marianne : Comment expliquez-vous cette multiplication, notamment chez les adolescents, d’actes ultraviolents sans motifs crapuleux ?

Jean-Pierre Le Goff : La stupeur de certains commentateurs m’étonne. Depuis des années, une partie de nos élites s’est enfermée dans une « bulle » qui se rêve pacifiée et hygiéniste, un mixte d’angélisme et de cécité niant ces phénomènes avec un discours gentillet sur la jeunesse, nourri par l’idée que tout est affaire de conditions économiques et sociales… Il faut rompre avec cette illusion d’une extériorité du mal à la personne humaine, comme si toute pulsion d’agressivité n’était qu’un pur produit des conditions sociales et d’institutions défectueuses et qu’il suffirait donc de les changer pour que s’institue le « meilleur des mondes ». Un gauchisme post-soixante-huitard a triomphé par étapes dans la gauche française, conduisant une bonne partie de celle-ci à rompre avec l’anthropologie républicaine traditionnelle — mais aussi juive et chrétienne — marquée par une vision beaucoup plus réaliste de l’homme.

Au profit de quelle vision ?

J.-P. Le G. : Un refus, d’abord, de tout jugement qui, de près ou de loin, rappellerait la morale. L’euphémisme et la victimisation se sont tellement répandus que les agresseurs eux-mêmes sont avant tout considérés comme des victimes. Jean-Pierre Chevènement avait suscité un tollé en évoquant les « sauvageons », formule plutôt empreinte de mansuétude – en jardinage un sauvageon est une plante qui a grandi sans tuteur —, mais qui heurtait cette gauche bien-pensante pour qui l’autorité reste synonyme de domination et qui se refuse à assumer les fonctions répressives nécessaires à toute vie collective.

Vous suggérez donc que l’ultraviolence revient d’autant plus sur le devant de la scène que sa possibilité a été obstinément niée dans l’éducation ?

J.-P. Le G. : L’enfance et la jeunesse ont été érigées en de purs moments d’innocence et idéalisées au nom d’un épanouissement individuel qu’il ne faut pas contrarier. Les nouvelles couches moyennes ont promu l’idée d’une créativité enfantine qu’il faut laisser s’exprimer en libérant les enfants des carcans contraignants du passé. Ce modèle éducatif prohibant toute expression d’agressivité favorise le sentiment de toute—puissance chez les enfants. Parce qu’on refuse de reconnaître cette part sauvage, on décrète qu’elle n’existe pas ou que de gentils pédagogues et psychologues peuvent la faire disparaître en douceur grâce à leurs boîtes à outils. En n’assumant plus leur rôle d’autorité, des adultes et des institutions ont placé certains jeunes dans des situations paradoxales des plus déstabilisantes.

Cette « lame de fond » culturelle nous empêcherait ainsi de comprendre ces phénomènes d’ultraviolence ?

J.-P. Le G. : En donnant une idée déformée de l’humain, elle empêche de bien saisir l’ampleur et l’intensité de la déstructuration identitaire qui s’est amorcée depuis les années 1970. S’il est vrai que les crimes et les passages à l’acte violents ont existé de tout temps, le caractère inédit des actuelles montées aux extrêmes, accompagnées d’une sauvagerie qu’on croyait révolue, devrait nous faire réfléchir. Car deux phénomènes inquiétants n’ont cessé d’additionner leurs effets : d’une part le chômage de masse et le développement de la précarité, d’autre part la dislocation de la structure familiale, gentiment rebaptisée « famille recomposée ». Là aussi, une -gauche moderniste a le plus grand mal à affronter, par peur de ringardise, le rôle essentiel de structuration joué par la famille. -Combinés l’une avec l’autre, la précarité socioéconomique et l’effondrement de la cellule familiale produisent des effets puissants de déstructuration anthropologique qui rendent possibles ces actes de violence non maîtrisés.

Le travail, pour vous comme pour Freud, c’est le principe de réalité…

J.-P. Le G. : Il permet, en effet, la confrontation avec la limite du possible et il est une condition essentielle de l’estime de soi par le fait de se sentir utile 
à la -collectivité et de pouvoir être autonome en gagnant sa vie. L’exclusion du travail de catégories sociales de plus en plus massives au nom d’une compétitivité mondialisée est tout à la fois un problème social et anthropologique qui lamine l’ethos commun. Cette dimension est quasi absente de la plupart des discours politiques alors qu’elle est essentielle pour notre vie collective.

Mais pourquoi cette violence s’exprime-t-elle si facilement ?

J.-P. Le G. : Dans les anciens villages et les bourgs, les quartiers, les cités -ouvrières, tout le monde connaissait tout le monde. Les relations sociales étaient souvent marquées par une grande âpreté des relations, mais prévalaient une solidarité et une régulation sociale minimales par les habitants eux-mêmes. Des drames survenaient, mais les débordements de violence étaient maintes fois jugulés par la collectivité imprégnée d’une morale commune : « Il y a des choses qui ne se font pas »…

Dans le passé, les bagarres n’étaient pourtant pas rares ?

J.-P. Le G. : Non, mais il s’agissait d’une tolérance vis-à-vis d’une violence qui elle-même flirtait avec la limite, surtout quand elle venait des jeunes générations qu’on ne considérait pas alors comme des adultes avant l’heure : « Il faut bien que jeunesse se passe. » Cette brutalité était ritualisée et pouvait être canalisée par les jeux, le sport et le service militaire qui, avec le travail, constituait une étape clé du passage à l’âge adulte pour les garçons, contraints à renoncer à leurs fantasmes de toute-puissance infantile. Aujourd’hui, toutes les manifestations d’agressivité sont vues comme le signe d’une montée aux extrêmes -pathologique qu’il faut soumettre au tamis de l’expertise psychoclinique, tandis que des « cellules psychologiques » servent tant bien que mal de palliatifs aux victimes des agressions. Misère d’une époque où l’on répond par l’éthique du « care » à la désintégration des liens sociaux élémentaires !

Récemment, une étudiante qui avait fait une queue-de-poisson en voiture fut pourchassée et violée par sa « victime ». Que révèle ce type de comportement ?

J.-P. Le G. : Des actes involontaires ou anodins peuvent aujourd’hui être interprétés comme le signe d’un « irrespect », d’une insulte ou d’une agression insupportable, provoquant un déchaînement de violence sans pareil. Au-delà de cet exemple, que je me garderai de commenter, ces criminels me semblent être sous l’empire de leurs affects et de leurs pulsions : la moindre remarque, le -moindre geste mettent le feu aux poudres et font basculer leur destin. Ils deviennent meurtriers, si l’on peut dire, par « inadvertance », incapables de mesurer la gravité de leurs actes, quitte à dire qu’ils ne l’ont « pas fait exprès ». Le moindre regard peut provoquer une montée aux extrêmes parce qu’il ravive des blessures et des humiliations passées, des fragilités internes insupportables, inassimilables. L’image dévalorisée de soi-même, la haine de soi, se décharge sur l’autre, avant parfois de se retourner contre soi. Ils ont « la haine ». Et n’oublions pas non plus le sentiment de toute-puissance que peut procurer la domination ou la destruction de l’autre. Certains peuvent y prendre goût.

Que faire alors face à cette ultraviolence ? S’occuper des parents ?

J.-P. Le G. : Je suis tenté de reprendre la remarque sceptique d’un psychiatre, qui travaille sur ces cas extrêmes et explique qu’on a aujourd’hui souvent affaire à « des bébés qui font des bébés », avec des déstructurations familiales que les psychiatres ont le plus grand mal à traiter. Je ne crois pas plus aux discours éducatifs et normatifs parce que, dans bien des cas, ceux-ci ne peuvent tout simplement pas être compris et encore moins assimilés.

Qu’est-ce qui distingue votre analyse pessimiste des discours de la droite ultrasécuritaire ?

J.-P. Le G. : Une différence élémentaire : ce « tout sécuritaire » de droite n’est que le symétrique inversé de l’angélisme d’une certaine gauche. Toutes deux ne savent plus comment s’attaquer aux conditions sociales qui rendent possibles ces violences. Et l’opposition entre répression et prévention est le type même du faux débat : le maintien nécessaire de la sécurité publique ne peut remplacer une réflexion de fond sur les causes de ces phénomènes. Si la reconstruction problématique d’un éthos commun ne se décrète pas, il devrait être envisagé dans une optique dépassant les clivages idéologiques et partisans, dans la mesure où il engage notre responsabilité -collective.

Mardi 1 Juin 2010 Frédéric Ploquin et Alexis Lacroix - M arianne
Source : http://www.marianne2.fr

 

38 ans après, la vérité sur "Bloody Sunday"

afficheBS.jpg38 ans après, la vérité sur "Bloody Sunday"

Source Le Point

via Yann Redekker

 

AFP. L'enquête publique sur "Bloody Sunday", qui désigne la mort de 14 catholiques tués le dimanche 30 janvier 1972 par l'armée britannique à Londonderry, rend mardi ses conclusions, forcément sujettes à controverse dans une Irlande du Nord encore traumatisée par son passé. 

 

Le Premier ministre britannique David Cameron présentera à 16h 30 (heure de Paris) devant le Parlement les principaux enseignements de la commission Saville sur l'un des événements les plus marquants des trente années de conflit inter-communautaire dans la province. Le secret absolu a été gardé sur le rapport qui risque de déchaîner les passions en Irlande du Nord, où les violences entre protestants unionistes et catholiques indépendantistes ont pris fin en 1998 avec l'accord de paix dit du Vendredi Saint, et où un gouvernement biconfessionnel est au pouvoir.

 

Cette enquête, confiée en 1998 au juge Mark Saville par le Premier ministre de l'époque Tony Blair, est présentée par la presse comme la plus importante de l'histoire judiciaire britannique. Son coût (230 millions d'euros) a défrayé la chronique. Lord Saville et ses assesseurs, le Canadien William Hoyt et l'Australien John Toohey, rendront un rapport épais de 5.000 pages, après avoir étudié plus de 2.500 témoignages, dont 922 exprimés oralement devant eux. Ils ont entendu l'ex-Premier ministre britannique Edward Heath, l'ancien chef d'état-major britannique Mike Jackson, ou l'actuel vice-Premier ministre nord-irlandais Martin McGuinness. Lequel a confirmé lors de son audition qu'il appartenait en 1972 à l'Armée républicaine irlandaise (IRA).

 

Le dernier témoignage a été produit en 2005, année où le rapport devait être publié. Mais le délai s'est allongé, sans qu'aucune raison ne soit vraiment donnée. Il n'est pas exclu que cet avis débouche sur des poursuites judiciaires à l'encontre de cadres de l'armée. Personne, toutefois, ne pourra être incriminé par son propre témoignage devant les juges.

 

Pas de complot politique large selon un historien      

 

Le jour du "Bloody Sunday" ("dimanche sanglant"), quatorze hommes sans armes manifestant pour la défense des droits civiques des catholiques tombent sous les balles de parachutistes britanniques. Une enquête menée sitôt les faits par un juge britannique, Lord Widgery, exonère l'armée et accrédite sa thèse selon laquelle les soldats n'ont fait que riposter à des tirs de manifestants, même si aucune arme n'a été retrouvée et aucun militaire blessé. Entré dans la culture populaire avec la chanson du groupe irlandais U2 puis le film du cinéaste britannique Paul Greengrass, le "Bloody Sunday" symbolise aux yeux des nationalistes irlandais l'arbitraire de l'ennemi britannique.

 

Quelles qu'elles soient, les conclusions de Lord Saville promettent d'être polémiques, dans une société encore divisée malgré les progrès accomplis. Elles fourniront aussi un test de la stabilité du gouvernement d'union entre protestants et catholiques. Selon l'historien Paul Bew, qui a été consultant pour l'enquête, le rapport devrait affirmer l'innocence des victimes, reconnue en 1992 par le Premier ministre britannique d'alors John Major, et établir que l'armée est en tort mais n'avait rien prémédité. "L'innocence d'une très grande majorité des tués, sinon de tous, fera partie des conclusions", prévoit-il.

 

"Il y aura aussi acceptation par l'armée britannique de son échec à maintenir la discipline ce jour-là. Au-delà de ça, (il n'apparaîtra) pas de complot politique plus large. Plus personne n'y croit." Quant aux répercussions, Paul Bew les escompte plutôt modérées. "Tout le monde continuera de croire au sujet de ces événements ce qu'il avait l'habitude de croire", considère-t-il. "Ca n'aura pas d'impact politique majeur."

Cù Chulainn in the GPO: The Mythic Imagination of Patrick Pearse

cuchulainn.jpgCù Chulainn in the GPO:
The Mythic Imagination of Patrick Pearse

Michael O'MEARA

Ex: http://www.counter-currents.com/

padraic_pearse.jpgOn Easter Monday, April 24, 1916, while all Europe was mobilized for the first of its terrible civil wars, Patrick Pearse, James Connolly, and several hundred “militia men” from the Irish Citizen Army and the Nationalist Volunteers commandeered the General Post Office on Dublin’s O’Connell (then Sackville) Street.

Once a defensive parameter was established around the stately, neo-classical symbol of British rule, the tall, lanky 37-year-old Pearse, titular head of the self-proclaimed “provisional government of the Irish Republic,” appeared on the GPO’s steps to read out to a small crowd of bewildered and skeptical by-standers a proclamation.

“Irishmen and Irishwomen: In the name of God and the dead generations from which she receives her old tradition of nationhood, Ireland, through us, summons her children to her flag and strikes for her freedom.”

This line — the entire proclamation, even — is a work of art.

Some say the Uprising itself was a work of art.

***

As the GPO was being fortified on the 24th, 700 or 800 lightly-armed rebels, most with shotguns and home-made bombs, some with rifles secretly obtained from Germany — (the same “gallant ally in Europe” who allied with the IRA in the next European civil war) — spread out across Dublin, occupying other public buildings and sites associated with the Crown.

The Uprising was not a direct military assault on British authority per se (the rebels lacked the fire power).  It was nevertheless an armed assertion of Irish authority — an authority however poorly armed that was nevertheless imbued with a powerful idea — the idea that does not tire or break and that imparts “its mantle of strength upon those in its service” — the idea of destiny (Francis Parker Yockey).

***

The English garrison in Ireland, larger than the garrison that held India, was caught entirely off-guard by the insurrection.

There was good reason for this.

In 1914 the Irish Parliamentary Party had not only pledged to support the British government, as Germany challenged its supremacy on the killing fields of Flanders and Northern France, the party called on its paramilitary wing, the 170,000 strong Irish Volunteers, to enlist in the British army.  (The ten to twenty thousand Volunteers who refused to follow the IPP’s lead, those rechristened “the Nationalist Volunteers,” were to be the Uprising’s principal military arm, though their mobilization, for reasons too complicated to explain here, was countermanded at the last moment).

The Irish people, one of the most dispossessed and economically distressful of Europe’s peoples, were enjoying a brief spell of good times, as employment and agriculture flourished in the wake of the British war effort.

Westminster had also promised to implement Home Rule, once the war ended.

Ireland never seemed more securely in English hands.

***

The rebellion was greeted with surprise and rage — by both the British government and the Irish population.

This would change, as the government turned the rebels into martyrs, “snatching political defeat from the jaws of military victory.”

In the view of much of the world, especially among the popular classes of nationalist-minded Irish-America, the forces of the crown were seen as reacting with characteristic English brutality, as their powerful naval guns pounded Britain’s second most important city, destroying the GPO and much of the city’s heart, as well as wounding or killing a thousand civilians

James Connolly, that most Aryan of Marxists, had thought the British forces, beholden to English capital, would never turn their guns on their own commercial property: Little did he know — and little did he realize that his sophisticated understanding of urban warfare would crumble before this fact.

Ground troops, supported by field artillery, then suppressed the lingering rebellion on the streets — though not before Pearse ordered a general surrender, once it was clear civilians were the main victim of Britain’s crushing counter-attack.

***

Like most of the six armed rebellions the Irish had raised in the previous 200 years, there was a good deal of futility and desperation in the Easter Uprising — begun on Monday and extinguished, at least so everyone thought, by the following Saturday.

Pearse, Connolly, and much of the Irish Republican Brotherhood responsible for the insurrection had, in fact, no illusion that they would succeed or even survive the Uprising.

Once rounded up, the fifteen nationalist leaders of the revolt were court martialed and shot.

“Dear, dirty Dublin” came, then, to resemble the war-ravaged towns and cities along the Franco-German front, as the cause of Irish freedom seemed to suffer another damning setback.

Yet five years later, Ireland was a nation once again.

***

Like much of the Uprising’s revolutionary nationalist leadership, Pearse sought a path that led away not just from British rule, but from British modernity — which, like its larger civilizational expression, seemed to suffocate everything heroic and great in life.

Against the empire’s cold mechanical forces, he arrayed the powerful mythic pulse of the ancient Gaels.

As Carl Schmitt might have described it: “Against the mercantilist image of balance there appears another vision, the warlike image of a bloody, definitive, destructive, decisive battle.”

Pearse was not alone in thinking myth superior to matter.

Indeed, his Ireland was Europe in microcosm — the Europe struggling against the forces of the coming anti-Europe.

In Germany, no less than in Ireland, powerful cultural movements based on “peasant” mythology and traditional culture had arisen to repulse the modern world — movements which did much to revive the spirit of Western Civilization (before it was again struck down by the ethnocidal Pax Americana).

In Germany this movement frontally challenged the continental status quo, in Ireland it challenged the British Empire.

Lacking a political alternative, the frustrated national unity of 19th-century “Germany” had looked to increase its cultural cohesion and self-consciousness.

Like its German counterpart, Ireland’s Celtic Twilight was part of a larger European movement — of a romantic and romanticizing nationalism — to revive the ancient Volk culture in its struggle against the anti-national forces of money and modernity.

Though the Famine had delayed the movement’s advent in Ireland, it came.

The cultural phase of Irish nationalism formally began with Parnell’s fall in 1889.  Turning away from the personal and political tragedy of their uncrowned king, nationalists started re-thinking their destiny in other than political terms.

If the Germans, in the cultural assertion of their nationalism, had to free themselves from the overwhelming hegemony of French culture, the Irish had to turn away from the English, who considered them barbarians.

In rejected liberal modernity, these barbarians sought to recapture something of the archaic, Aryan spirit still evident in the Táin Bó Cuailnge and in Wagner’s Ring des Nibelingen — the spirit distilled today in Guillaume Faye’s “archeofuturism.”

***

Before Parnell, Irish resistance to English subjugation (with the exception of O’Connell’s movement) had taken the form of numerous, rather badly planned military defeats.

But the Irish had little recourse, especially in law.  (Indeed, the only justice for the Irishman in Ireland came from his shillelagh, whenever it took precedent over the judge’s gravel).

Centuries of Irish violence and resistance had convinced the English of Irish lawlessness and of their incapacity for self-rule.

Savage English repression begot savage Irish resistance, which, in turn, begot savage repression and so on: The long, unfortunate, blood-soaked dialectic of Anglo-Irish relations.

The empire’s violence was legitimated in the name of cultural superiority.  Throughout British society, which thought itself the height of Western civilization, it was held that Ireland before the Norman Conquest had lacked any form of civilization or High Culture — even the learned David Hume held this view.  Indeed, the Irish were seen as yet fully civilized.

In British eyes this “race” was a lesser breed, somewhat like a nonwhite one, like wild Indians, and imperial conflict with it was something like conflict with a savage tribe — it was not the relationship Paris had to her provinces, it was not even what the German Hapsburgs had to their Slavic nations.

The Catholic Irish are famous in 19th-century English periodicals for their simian features.

The lawless Celts (the very word comes from the Greek for “fighter”), so obviously inferior to the civilized “Saxons,” brought upon themselves thus the rent racking, the enclosures, and the garrison state that came with the English occupation (the so-called “Union”).

***

William Butler Yeats, Lady Gregory, John Millington Synge, and other gifted members of the Anglo-Irish Ascendancy had no love for the world’s workshop, longing, as they did, for “the integral community of the old manorial days.”

The Irish Literary Renaissance was launched, following Parnell’s fall, with “The Wanderings of Oisin,” in which Yeats called for “a new literature, a new philosophy, and a new nationalism.”

Irish folklore for Yeats was not simply Irish, but the conservator of “an ancient, sacred worldview overwhelmed by the abstract, highly differentiated,” and generally ignoble forms of modern bourgeois life (forms, as we Americans have learned, that have, among other negative things, imbued money-changing aliens with great power over us).

For Ireland’s cultural nationalists, the past was a realm of meaning — prefiguring a future to rebuke the present.  And a great past, which the culturalist nationalists soon enough discovered, beckoned, as William Irwin Thompson surmised, “a future fit for an exalted heritage.”

The romanticized “peasant,” along with the medieval knight and the gentleman cavalier, were celebrated in Yeats’ poetic rebellion against the modern world.

This “nationalization” of the people’s heritage appealed to nationalists disgusted with things English; its moralistic rejection of decadence and empire also appealed to the emerging Irish Catholic lower-middle class; at the highest, most important, level, its mythic vision organically merged with “a culture that renews itself by reference to its mythology.”

By the early 20th century, a new ideology gripped Ireland, Germany, and many European nations, an ideology which defined the nation in racialist, romantic, and anti-modernist terms centered on certain cultural polarities: viz., anti-liberal versus liberal, past v. present, agricultural community v. industrial society, small moral nation v. decadent world empire, myth v. reason, quality v. quantity, Gaelic v. English, German v. French, Ireland v. England, Europeans v. Anglo-Americans, etc.

***

The hard men of the Irish Republican Brotherhood — (the Fenians, the progenitors of the many factions making up today’s IRA, were very unlike the genteel Anglo-Irish artists who made Dublin a cultural capital of the Anglophone world) — but they too were part of the general revolt against liberal civilization — against the devirilizing tenets of positivist thought, against the primacy of monetary values, against the spirit-killing effects of mechanization, massification, and deracination, and, above all, against the empire’s imposition on everything native to Irish identity.

In France, Italy, and Spain rebels opposing liberalism’s realm of “consummate meaninglessness” threw bombs, in Ireland, where the cult of violence was ancient, they made up an army of bomb-throwers — for it was the nation seeking to be born, “ourselves alone,” not the solitary resister, who filled the rebel ranks.

Violence and self-sacrifice, as such, needed no justification in Catholic Ireland (though they seemed totally alien and barbaric to England’s liberal Protestants).

***

Ireland’s brave rebels are best seen against a European backdrop.

At its center was the Sorelian myth of violence, imagining the overthrow of Cromwell’s cursed regime.

This myth of violence was no ideology, but a Nietzschean assertion of will.

Its dreamscape was the apocalyptic catastrophe in which all things became possible.

Its promised violence wasn’t aimless or nihilistic, like that of a Negro hoodlum, but soteriological, seeking the salvation of man’s soul in a world made especially evil by the efficacy of science and reason.

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Violence here — in the mythic context of Pearse’s imagination and in the social-political world of late 19th-century, early 20th-century Europe — became “a path to a new faith” — a path that ran over the ruins of modernity, as it endeavored to redeem it.

The Irish cosmological view, in Patrick O’Farrell’s study, perceived England as a secular, unethical, money-grubbing power that had “violated” Caithlin Ni Houlihan — the Old Woman of Beare, Roisin Dubb, Shan Van Vocht, Deidre of the Sorrows, Queen Sive, and all the feminine symbols personifying Ireland’s perennial spirit.

In such a cosmology, national liberation was eschatological, millennarian, and, above all, mythic.

For here myth seizes the mind of the faithful as it prepares them to act.  Its idea is “apocalyptic, looking toward a future that can come about only through a violent destruction of what already exists.”

Pearse’s myth was of a noble Ireland won by violent, resolute, virile action — nothing less would merit his blood sacrifice.

Fusing the unique synergy of millennarian Catholicism (with its martyrs), ancient pagan myth (with its heroes), and a spirit of redemptive violence (couched in every recess of Irish culture) — his myth has since become the ideological justification for the physical force tradition of Irish republicanism — a tradition which holds that no nation can gain its freedom except through force of arms — that is, by taking it — by forthrightly asserting it in the Heideggerian sense of realizing the truth of its being.

Pearse’s allegiance to armed struggle came with his disgust with parliamentary politics.  He thought Parnell’s party “had sat too long at the English table” — that it had come to regard Irish nationality “as a negotiable rather than a spiritual thing.”

All states, he considered, rested on force.  If Ireland should be “freed” through Home Rule, that is, under British auspices, it would make the Irish smug and loyal — and British.

With the advent of the Great War of 1914 and the Burgfrieden negotiated between the parliamentary nationalists of the IPP and the British government, the flame of Ireland’s national spirit began to dim.

The violent break with Britain, which Pearse and other revolutionary nationalists sought, was inspired by the conviction that every compromise weakened Ireland’s soul and strength — that the flame had always to burn heroically — that the spirit had to be pure — otherwise the sacramental lustre of the Republican cause would be lost.

***

The tradition of armed resistance of which Pearse became the leading Irish symbol was not unique to Ireland, but part the same European tradition that inspired the Slavic Communist storming of the Winter Palace, the same that guided the anti-liberal, fascist, and national socialist opposition to liberalism’s interwar regimes — the same that appears still on the hard streets of Northern Ireland and in the minds of a small number of exceptional Europeans.

For Pearse, the Uprising was more than a blow struck for Irish freedom, it was “a revolt against the materialistic, rationalistic, and all-too-modern world” of the British Empire.

Pearse was not unlike Charles Péguy, who too conceived of a national myth “to stand against the modernist tide.”

Péguy: “Nothing is as murderous as weakness and cowardice / Nothing is as humane as firmness.”

This was Pearse’s thought, exactly.

***

Such a mythic conviction came, though, at a high cost, for it required a willful self-immolation and the promise of death, however heroic.

***

Pearse’s conviction sprang from Ireland’s long history of resistance and the Aryo-European spirit it reflected, but it also came from the old sagas, from the stories and legends of the ancient Gaels, that celebrated the values and traditions of Ireland’s heroic age.

Prior to the modern age Ireland’s Gaelic vernacular literature was the largest of any European peoples, except that of the Greeks and Romans.

The Irish loved to tell stories, a great many of which their monks wrote down a thousand years ago.

Like other Gaelic-speaking nationalists, Pearse was especially affected by the Ulster Cycle of legends and myths associated with Cù Chulainn — the symbol of Ireland — the symbol of one powerful man standing alone against a terrible, overwhelming force — the Irish Achilles — whose heroic temper was a rebuke to the corruptions and weaknesses of the modern age.

***

In August 1915, a year into the European civil war, and three-quarters of a year before the Easter Uprising, the IRB staged a ceremonial burial for one of its own — in a country where ceremonial burials have often given birth to new forms of life.

In his funeral oration at the grave side of the dead Fenian, O’Donovan Rossa, the Cù Chulainn (who would soon fight his epic battle in the GPO) augured that: “Life springs from death and from the graves of patriot men and women spring nations. . . .  They [the English] think that they have pacified Ireland.  They think that they have pacified half of us and intimidated the other half.  They think that they have provided against everything: but the fools, the fools, the fools! — they have left us our Fenian dead, and while Ireland holds these graves, Ireland unfree shall never be at peace.”

Man, in Pearse’s mythic imagination, doesn’t act on the chance of being successful, but for the sake of doing what needs to be done.  The nationalist movement, united in hatred of the English ruling class, was full of such men.

Their doing, their sacrifice — like that of Jesus on the cross or the tragic Cù Chulainn burying his son in the indifferent sea tide — was of utmost importance.

For everything, the rebels knew, would follow from it — the slaughtered sheep brightening the sacramental flame of their spirit.

***

Some historians claim Pearse’s “suicidal” insurrection bequeathed “a sense of moral conviction to revolutionaries all over the world.”

From a military perspective, the Uprising, of course, was a categorical failure.  But morally, it became something of a world-changing force — which wasn’t surprising in a country like Ireland, whose mythology had long favored ennobling failures.

As Pearse told the military tribunal that condemned him to death: “We seem to have lost.  We have not lost.  To refuse to fight would have been to lose.  We have kept faith with the past, and handed down a tradition to the future.”

***

In the course of the extraordinary events following The Proclamation (as the rebels kept faith with their past), mind, imagination, and myth fused into a synergetic force of unprecedented brilliance and power — the terrible beauty being born.

***

Patrick Pearse fell before the English guns soon after Easter, but the ennobling image of him standing upright in the burning GPO lives on in the heritage he willed not just to Irishmen but to all white men.

For of the insurgents, at least fifty of them, including Pearse himself, were of mixed Irish-English parentage.

They fought the cruel empire not just for Ireland’s sake, but for the sake of redeeming, in themselves, something of the old Aryo-Gaelic ways.

April 24, 2010

Sources:

Thomas M. Coffey, Agony at Easter: The 1916 Irish Uprising (Baltimore: Penguin, 1971).

Ruth Dudley Edwards, Patrick Pearse: The Triumph of Failure (New York: Taplinger, 1978).

Sean Farrell Moran, Patrick Pearse and the Politics of Redemption (Washington: Catholic University Press of America, 1994).

Joseph O’Brien, Dear, Dirty Dublin: 18991916 (Berkeley: University of California Press, 1982).

Patrick O’Farrell, Ireland’s English Question (New York: Schocken, 1971).

Dáithí Ó hÓgáin, The Lore of Ireland (Cork: Boydell, 2006).

William Irwin Thompson, The Imagination of an Insurrection: Dublin, Easter 1916 (New York: Harper, 1967).

La menace culturelle américaine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Robert Steuckers:

La menace culturelle américaine

Discours prononcé à l'Université de Louvain, le 16 janvier 1990

 

Lorsque nous examinons l'histoire de ces deux derniers siècles, nous devons bien constater qu'il y a, malgré les discours apai­sants et lénifiants, une opposition radicale, portant sur les principes fondamentaux du politique, entre l'Europe et l'Amérique. Dès le début de l'histoire américaine, de l'histoire des Etats-Unis en tant qu'Etat in­dépendant, il y a eu confrontation avec le vieux continent. Quand les treize colonies nord-américaines ont voulu se détacher de l'Angleterre, elles ont voulu simultané­ment se détacher de l'Europe, rompre avec le passé, la mé­moire, la source matricielle que celle-ci représente pour tous les peuples de souche européenne. Mais cette vo­lonté de rupture était déjà inscrite dans la société coloniale américaine de 1776, dont la culture était marquée pro­fondément par la pensée utopique. Les pélerins du Mayflower, pères fondateurs de la nation américaine, étaient des dissidents religieux anglais, des groupes humains qui voulaient réaliser l'utopie sur terre en faisant table rase des institutions nées du passé. S'opposant aux diverses strates de l'établissement britannique ainsi qu'aux modes de vie ancestraux des peuples germaniques et celtiques des Iles Britanniques (la «merry old England»), les «dissidents» (Levellers, Diggers, Fifth Monarchists, Seekers, Ranters, Baptists, Quakers, Muggletonians, etc.) n'eurent plus d'autre solu­tion que d'émigrer en Amérique, de s'installer sur des terres vierges où ils pouvaient créer de toutes pièces la société idéale de leurs vœux (Cfr. Christopher Hill, The World Turned Upside Down. Radical Ideas during the English Revolution,  Penguin, Harmondsworth, 1975-76). Ces expérimentations socio-poli­tiques de nature religieuse et sectaire ont fait de l'Amérique l'espace de la nouveauté pour la nouveauté, de l'éternel nouveau, l'espace où se réaliserait concrètement la fin de l'histoire, où la marche de l'histoire arrive à son termi­nus, où les hommes poussent un grand ouf de soulagement parce qu'ils ne devront plus combattre un destin sour­nois, toujours acharné, qui ne leur laisse aucun repos, parce qu'ils ne devront plus admettre de compromissions conciliantes et mâtiner ainsi la pureté utopique de leurs rêves religieux. Bref, l'Amérique, c'est le paradis des in­satisfaits de l'Europe.

 

En 1823, Monroe proclame sa célèbre doctrine («L'Amérique aux Américains»), derrière laquelle se dissimule, à peine voilée, la volonté déjà ancienne de rompre définitivement avec le Vieux Continent. Dans l'optique des Américains de l'époque de Monroe, le Nouveau Monde est le réceptacle de la liberté, tandis que le Vieux Monde, qui venait de sortir de la tourmente na­poléonienne et se débattait dans le carcan de la Restauration, est le foyer de tous les obscurantismes. Ce clivage, qu'induit la Doctrine de Monroe, constitue en fait une déclaration de guerre éternelle à l'Europe, à l'histoire en tant que tissu de vicissi­tudes tragiques incontournables, à la mémoire en tant qu'arsenal de stratégies pour faire front à ces vicissitudes, à tout ce qui n'est pas utopique-américain, soit produit d'une déclaration de principes désincarnés et d'une spontanéité sentimentale sans racines ni passé.

 

Devant cette arrogance utopique-américaine, il y a eu peu de réaction en Europe. Les vieilles nations de notre continent n'ont pas relevé le défi de cette nation coloniale endettée, éloignée, que personne ne prenait fort au sé­rieux à l'époque. Un diplo­mate a toutefois réagi d'une manière étonnamment moderne; c'était Johann Georg Hülsemann, un Hannovrien au service de l'Autriche. A la Doctrine de Monroe, il entendait opposer un principe de même nature, soit «l'Europe aux Européens». Dans son esprit, cela signifiait qu'Américains, d'une part, Européens, d'autre part, devaient forger et appliquer des principes de droit et d'organisation économique dis­tincts, assis sur des bases philosophiques et factuelles différentes, hermétiques les unes par rapport aux autres. La réalité américaine, soit l'installation de personnes déracinées sur un territoire vierge (comme tous les Européens de l'époque, Hülsemann ne tenait absolument pas compte du facteur qu'est l'autochtonité amérin­dienne), permettait l'éclosion plus aisée d'un libéralisme utopique et pur, tandis que la réalité européenne, tissu hypercomplexe légué par une his­toire mouvementée, qui a laissé derrière elle un enchevêtrement multiple de strates socio-démographiques souvent antago­nistes, doit élaborer une stratégie d'organisation conservante, conciliante, faite de compromis multiples et rétive à toute schématisation sectaire.

 

Quand éclate la Guerre civile américaine, qui s'étendra de 1861 à 1865, l'Europe rate sa dernière chance de briser définitive­ment l'unité territoriale et étatique des Etats-Unis, avant que ceux-ci ne deviennent une grande puis­sance, riche en ressources diverses, capable de concurrencer dangereusement toutes les puissances européennes réunies. La France et l'Angleterre sou­tiennent le Sud; la Prusse et la Russie soutiennent le Nord: on constate donc qu'il n'y a pas eu de cohésion européenne. Il au­rait fallu soutenir le plus faible contre le plus fort, exactement comme l'Angleterre avait soutenu les Etats les plus faibles d'Europe contre Napoléon. Le territoire actuel des Etats-Unis aurait sans doute été divisé en trois ou quatre Etats (un au Nord, un au Sud, un à l'Ouest et un Alaska demeuré russe) plus ou moins antagonistes et le Canada ainsi que le Mexique auraient ac­quis plus de poids. Le continent nord-américain aurait été «balkanisé» et n'aurait pas pu intervenir avec autant de poids dans les guerres européennes du XXième siècle.

 

Cette dernière chance, l'Europe ne l'a pas saisie au vol et, deux ans après la guerre de Sécession, les Etats-Unis, définitive­ment unifiés, amorcent leur processus d'expansion: en 1867, la Russie tsariste vend l'Alaska pour fi­nancer ses guerres en Asie Centrale. En 1898, avec la guerre hispano-américaine, les Etats-Unis vainqueurs ac­quièrent non seulement les îles des Caraïbes (Cuba, Puerto-Rico) mais aussi Guam, les Hawaï et les Philippines, soit autant de tremplins pacifiques vers les im­mensités asiatiques. 1898 marque véritablement le début de l'«impérialisme américain».

 

Quand éclate la première guerre mondiale, les Etats-Unis restent d'abord neutres et optent pour une position at­tentiste. D'aucuns prétendront qu'agit là le poids des éléments démographiques germano- et irlando-américains, hostiles à toute al­liance anglaise. Mais cet isolationisme, conforme aux interprétations pacifistes de la Doctrine de Monroe, va s'avérer pure chimère quand l'Angleterre jouera son meilleur atout et pratiquera sa straté­gie du blocus. Celle-ci a un effet immédiat: seuls les belligérants riverains de l'Atlantique peuvent encore com­mercer avec les Etats-Unis, soit la France et la Grande-Bretagne. Devant la puissance continentale allemande, ces deux puissances occidentales puiseront à pleines mains dans l'arsenal améri­cain. Elles s'y ruineront et dila­pideront leurs réserves monétaires et leurs réserves d'or pour acheter vivres, matériels de toutes sortes, tissus, etc. aux marchands d'Outre-Atlantique. Avant le conflit, les Etats-Unis étaient débiteurs partout en Eu­rope. En 1918, ses créanciers deviennent ses débiteurs. L'Allemagne, pour sa part, perd la guerre mais n'a pratiquement pas de dettes à l'égard des Etats-Unis. La République de Weimar s'endettera auprès des banques américaines pour pouvoir payer ses dettes de guerre à la France, qui tente de la sorte de se reconstituer un trésor. Mais la IIIième République n'agira pas sagement: elle n'investira pas dans l'industrie métropolitaine, financera des projets grandioses dans ses colonies et investira dans les nouveaux pays d'Europe de l'Est afin de consolider un hypo­thétique «cordon sanitaire» contre l'Allemagne et la Russie. Toutes politiques qui connaîtront la faillite. Quelques exemples que nous rappelle Anton Zischka dans son livre consacré à l'Europe de l'Est (C'est aussi l'Europe,  Laffont, Paris, 1962): le Plan Tardieu d'une confédération danubienne sous l'égide de la France, couplé à l'alliance polonaise, conduisit à un déséquilibre inimaginable des budgets nationaux polonais et roumain, avec, respectivement, 37% et 25% de ceux-ci consacrés aux dépenses militaires, destinées à contrer l'Allemagne et la Russie. En 1938, ce déséquilibre est encore accentué: 51% en Roumanie, 44% en Tchécoslovaquie, 63% en Pologne! La France elle-même subit la saignée: la majeure partie de ses capitaux passaient dans la consolidation de ce cordon sanitaire, au détriment des investissements dans l'agriculture et l'industrie françaises. La Roumanie, acculée, n'eut plus d'autre choix que de conclure des traités commerciaux avec l'Allemagne, comme venaient de le faire la Hongrie, la Yougoslavie et la Bulgarie. Sans or et sans devises, mais armée d'un système de troc très avantageux pour ses clients et fournisseurs, l'Allemagne exsangue battait la France sur le plan économique dans les Balkans et encerclait, par le Sud, les deux derniers alliés de Paris: la Pologne et la Tchécoslovaquie, petites puissances affaiblies par le poids excessif de leurs budgets militaires.

 

La période de 1919 à 1939, soit l'entre-deux-guerres, est aussi l'époque où l'Europe, déséquilibrée par les prin­cipes fumeux de Clémenceau et de Wilson, subit le premier assaut de la sous-culture américaine. Modes, spec­tacles, mentalités, musiques, films concourent à américaniser lentement mais sûrement quelques strates sociales en Europe, notamment des éléments aisés, désœuvrés et urbanisés. Cette intrusion de la sous-culture américaine, sans racines et sans mémoire, suscite quelques réactions parmi l'intelligentsia européenne; en Allemagne, le philosophe Keyserling et l'essayiste Adolf Halfeld mettent l'accent sur la «primitivité» américaine. Qu'entendent-ils par là? D'abord, il s'agit d'un mélange de spontanéité, de sentimentalité, de goût pour les slo­gans simplistes, d'émotivité creuse qui réagit avec une immédiateté naïve à tout ce qui se passe. Ce cocktail est ra­rement sympathique, comme on tente de nous le faire accroire, et trop souvent lassant, ennuyeux et inconsis­tant. Ensuite, cette spontanéité permet toutes les formes de manipulation, prête le flanc à l'action délétère de toutes les propagandes. Plus aucune profondeur de pensée n'est possible dans une civilisation qui se place sous cette enseigne. L'intelligentsia y devient soit purement pragmatique et quantitativiste soit ridiculement morali­sante et, en même temps, manipulatrice et histrionique. Enfin, dans un tel contexte, il s'avère progressivement impossible de replacer les événements dans une perspective histo­rique, d'en connaître les tenants et aboutis­sants ultimes et de soumettre nos spontanéités au jugement correcteur d'un relati­visme historique sainement compris.

 

En relisant Keyserling et Halfeld aujourd'hui, nous constatons que l'américanisation des années 20 constitue bel et bien la source de la manipulation médiatique contemporaine. Nos radios et télévisions reflètent l'absence d'historicité et la senti­mentalité manipulatoire de leurs consœurs américaines, même si, apparemment, c'est dans une moindre mesure. Dans la presse écrite et dans l'édition, la déliquescence américanomorphe s'observe égale­ment; avant guerre, quand on évoquait des faits historiques en Belgique, on mentionnait une quantité de source; aujourd'hui, les histoires du royaume proposées au grand public, surtout dans la partie francophone du pays, sont pauvres en sources. Ces lacunes au niveau des sources permettent aux gros poncifs idéologiques, astucieusement rabotés par la soft-idéologie ambiante, de s'insinuer plus aisément dans les têtes.

 

En France, les réactions à l'américanisation des mœurs et des esprits s'est moins exprimée dans le domaine de la philosophie que dans celui de la littérature. Paul Morand, par exemple, nous décrit la ville de New York comme un réceptacle de force, mais d'une force qui dévore toutes les énergies positives qui jaillissent et germent dans l'espace de la ville et finit par toutes les dé­truire. La beauté sculpturale des femmes du cinéma américain, l'allure sportive des acteurs et des soldats, sont solipsistiques: elles ne reflètent aucune richesse intérieure. Duhamel ob­serve, quant à lui, la ville de Chicago qui s'étale comme un cancer, comme une tache d'huile et grignote inéxora­blement la campagne environnante. L'urbanisation outrancière, qu'il compare à un cancer, suscite également la nécessité d'organiser la vitesse, la systématisation, le productivisme de plein rendement: l'exemple concret que choisit Duhamel pour dénoncer cet état de choses délétère, ce sont les abattoirs de Chicago, qui débitent un bœuf en quelques dizaines de secondes, vision que Hergé croquera dans Tintin en Amérique.  Qu'on me permette une pe­tite digression: l'aspect cancéromorphe de l'expansion urbaine, quand elle est anarchique et désordonnée, si­gnale précisément qu'un pays (ou une région) souffre dangereusement, que les sources vives de son identité se sont taries, que sa culture propre­ment tellurique a cédé le pas devant les chimères idéologiques fumeuses du cos­mopolitisme sans humus. C'est précisément une involution dramatique de ce type que l'on observe à Bruxelles depuis un siècle. Un cancer utilitariste a miné, grignoté, dissous le tissu urbain naturel, si bien que le jargon pro­fessionnel des architectes a forgé le terme de «bruxelliser» pour désigner l'éradication d'une ville au nom du pro­fit, travesti et camouflé derrière les discours déracinants et universalistes. Ceaucescu envisageait de raser les vil­lages roumains et, à la suite d'un tremblement de terre, il avait parachevé le travail du séisme dans les vieux quar­tiers de Bucarest. Le monde lui en a tenu rigueur. Mais pourquoi ne tient-il pas rigueur aux édiles bruxelloises responsables du trou béant du quartier nord, responsables des milliers de crimes de lèse-esthétique qui défigurent notre ville? Je vous laisse méditer cette comparaison entre le Chicago décrit par Duhamel, les projets de Ceaucescu et la bruxellisation de Bruxelles... Et je reviens à mon sujet. Pour citer une phrase de Claudel, écrite pendant l'entre-deux-guerres: «Que l'Asie est ra­fraichissante quand on arrive de New York! Quel bain d'humanité intacte!». Cette citation parle pour elle-même.

 

Bien sûr, l'écrasement de l'Amérique sous la logique du profit, de la publicité, du commerce et du productivisme outrancier, a suscité des réactions aux Etats-Unis aussi. Je me bornerai à vous rappeler ici l'œuvre d'un Ezra Pound ou d'un T.S. Eliot, qui n'ont jamais cessé de lutter contre l'usure et les résultats catastrophiques qu'elle provoquait au sein des sociétés. N'oublions pas non plus Sinclair Lewis qui caricaturera avec férocité l'arrivisme petit-bourgeois des Américains dans son roman de 1922, Babbitt,  avant de recevoir, en tant que premier Américain, le Prix Nobel de Littérature en 1930. Chez un Hemingway, derrière les poses et les exagérations, nous percevons néanmoins une irrésistible attraction pour l'Europe et en particulier pour l'Espagne, ses diffé­rences, ses archaïsmes et ses combats de taureaux, lesquels avaient aussi fasciné Roy D. Campbell, Sud-Africain anglophone. Sur un plan directement politique, saluons au passage les isolationnistes américains qui ont dé­ployé tant d'énergies pour que leur pays reste en dehors de la guerre, pour qu'il respecte vraiment la Doctrine de Monroe («L'A­mérique aux Américains») et qu'il invente à son usage un système socio-économique propre au continent nord-américain, im­possible à exporter car trop ancré dans son «contexte». C'était là une position ra­dicalement contraire à celle des messianistes interven­tionnistes, regroupés autour de Roosevelt et qui croyaient pouvoir donner au monde entier un unique système, calqué sur le modèle américain ou, plus exactement, sur le modèle hypergaspilleur de la High Society  des beaux quartiers de New York.

 

Pour Monroe en 1823, le Vieux Monde et le Nouveau Monde devaient, chacun pour eux-mêmes, se donner des principes de fonctionnement, des constitutions, des modèles sociaux propres et non transférables dans d'autres continents. Les Euro­péens, soucieux de préserver à tous niveaux un sens de la continuité historique, ne pou­vaient qu'acquiescer. Hülsemann, que j'ai évoqué au début de mon exposé, était d'ailleurs d'accord avec cette vo­lonté de promouvoir un développement séparé des deux continents. Son souci, c'était que les principes du Nouveau Monde ne soient pas instrumentalisés au bénéfice d'une poli­tique de subversion radicale en Europe. La manie de faire de tout passé table rase, observable chez les dissidents britan­niques fondateurs de la nation améri­caine et en particulier chez les Levellers, aurait disloqué tout les tissus sociaux d'Europe et pro­voquer une guerre civile interminable. Mais avec Wilson et l'intervention des troupes du Général Pershing en 1917 sur le front oc­cidental, avec Roosevelt et son mondialisme américanocentré, les principes éradicateurs de l'idéologie des Levellers, que craignait tant un Hülsemann, font brusquement irruption en Europe. Vers le milieu des années 40, Carl Schmitt et quelques autres mettent clairement en exergue l'intention des Etats-Unis et de l'Administration Roosevelt: forcer le monde entier, et surtout l'Europe et le Japon, à adopter une politique de «portes ouvertes» sur tous les marchés du monde, c'est-à-dire à renon­cer à toutes les politiques d'auto-centrage économique et à tous les «marchés protégés» coloniaux (l'Angleterre sera la princi­pale victime de cette volonté rooseveltienne). Cette ouverture globale devait valoir non seulement pour toutes les marchan­dises de la machine industrielle amé­ricaine, qui, avec les deux guerres mondiales, avait reçu une solide injection de conjonc­ture, mais aussi et surtout pour tous les produits culturels américains, notamment ceux de l'industrie cinématographique.

 

Carl Schmitt nous démontre que l'Empire britannique a été un «retardateur de l'histoire», en empêchant les conti­nents, les uni­tés civilisationnelles, de s'unir et de se fédérer en des grands espaces cohérents, au sein desquels au­rait régné une paix ci­vile. L'Angleterre, en effet, a protégé les «hommes ma­lades», comme la Turquie ottomane à la fin du XIXième siècle. Cette politique a été poursuivie après 1918 et après 1945, quand la Grande-Bretagne et les Etats-Unis, qui, en ce domaine, prenaient le relais de Londres, remirent en selle et protégèrent des régimes caducs, sclérosés, obsolètes, inutiles, pesants, ridicules, corrompus. C'est non seulement vrai en Amérique la­tine et en Asie (le régime sud-vietnamien est l'exemple d'école) mais aussi en Europe où les clowneries de la po­litique belge ont pu se poursuivre, de même que les corruptions insensées de l'Italie, les bouffonneries de la IVième République en France, etc. La politique «retardatrice» anglo-américaine interdit aux nouvelles formes de socialité de s'exprimer, de se déployer et puis de s'asseoir dans les tissus sociaux. Plus d'alternatives, de nou­velles expériences visant à rendre les sociétés plus justes, plus conformes à la circulation réelle des élites, ne sont possibles dans un tel monde. Interdits aussi les nouveaux regroupements d'Etats dans le monde: panafrica­nisme, paneuropéisme, panara­bisme nassérien...

 

Dans l'optique de ses protagonistes, cette politique retardatrice-réactionnaire doit être consolidée par un impé­rialisme culturel en mesure de contrôler les peuples dans la douceur. L'Union Soviétique, elle, a contrôlé l'Europe centrale et orientale par le biais de ses armées, de son idéologie marxiste-léniniste, du COMECON, etc., tous instruments grossiers qui n'ont donné que de très piètres résultats ou ont connu carrément l'échec. Les événe­ments récents ont prouvé que les méthodes soviétiques de contrôle n'ont pas réussi à éradiquer les sentiments d'appartenance collective ni les consciences nationales ou religieuses pré-sovié­tiques. A l'Ouest, en revanche, la stratégie de contrôle américaine s'est montré plus efficace et plus subtile. Le ci­néma de va­riété américain a tué les âmes des peuples plus sûrement que les obus de char de l'armée rouge ou les ukases des ap­paratchniks commu­nistes. En disant cela, je ne dis pas qu'il n'y a pas de bons films américains, que les cinéastes d'Outre-At­lantique n'ont pas réalisé de chefs-d'œuvre. Indubitablement, dans ce flot de productions, il y a des œuvres géniales que nous reverrons sans doute avec plaisir et admiration dans quelques décennies. Mais, indépendamment du carac­tère génial de telle ou telle œuvre, la politique de l'impérialisme culturel a été de greffer sur le corps fortement historicisé de l'Europe l'idéologie du nivellement des Founding Fathers,  avec son cortège grimaçant de phéno­mènes connexes: la sentimentalité débridée, le ma­nichéisme simplet et hystérique, le novisme pathologique haineux à l'égard de tout recours aux racines, la haine camouflée derrière le carton-pâte des bons sentiments, etc. Bref, un cortège qui aurait suscité la verve d'un Jérôme Bosch. Car l'invasion de ces affects mépri­sables a pour conséquence de diluer toutes les cohésions identitaires.

 

Aujourd'hui même, ce 16 janvier 1990, Dimitri Balachoff a déclaré au micro de la RTBF que les films américains sont univer­sels. Caractéristique qu'il trouve éminemment positive. Mais pourquoi universels? Parce que, ex­plique Balachoff, les Etats-Unis sont un melting pot  et qu'en conséquence, tout produit culturel doit être compris par des Irlandais et des Anglais, des Es­pagnols et des Hispanics,  des Noirs et des Indiens, des Italiens, des Juifs et des Français... Comment le film américain s'est-il débrouillé pour devenir cette sorte de koiné  moderne de l'image? Balachoff nous donne sa réponse: par une simplification des dialogues, du contenu intellectuel et de l'intrigue. Mais comment peut-on mesurer concrètement cette simplification? Eh bien, parce que, dixit Balachoff, un film américain reste parfaitement compréhensible sans son pendant quinze minutes. Au con­traire, un film italien, privé de son, ne se comprendra que pendant trois minutes. Un film tchèque, dans la ligne des Kafka, Kundera et Havel, ne serait sans doute compréhensible que pendant trente secondes, si on coupe le son.

 

La tendance générale de l'impérialisme culturel américain est donc d'abaisser le niveau d'une production cinéma­tographique en-deçà même du niveau linguistique le plus élémentaire, parce toute langue est l'expression d'une identité, donc d'une manière d'être, d'une spécificité parfois difficile à comprendre mais d'autant plus intéressante et enrichissante. C'est cette volonté d'abaisser, de simplifier, que nous critiquons dans l'américanisme culturel contemporain. Cet appauvrissement de la langue et de l'intrigue, voilà ce que Claude Autant-Lara a voulu crier haut et fort dans l'hémicycle strasbourgeois. Il s'est heurté à l'incompréhension que l'on sait. Il a causé le scan­dale. Non pas tant à cause de quelques dérapages antisémites mais précisé­ment parce qu'il critiquait cette simpli­fication américaine si dangereuse pour nos créations artistiques. Des témoins oculaires, membres d'aucun parti, ont pu voir, après le départ théâtral des socialistes et des communistes, les visages consternés, inter­rogateurs et béotiens des députés conservateurs, libéraux et démocrates-chrétiens. L'un d'eux a même chuchoté: «Mais il est fou, il attaque l'Amérique!». Ce pauvre homme n'a rien compris... Ce pauvre homme n'a manifestement pas de lettres, pas de sens de l'esthétique, ce malheureux n'a pas saisi le sens de son siècle que l'on a pourtant nommé le «siècle américain».

 

Mais, à ce stade final de mon exposé, il me paraît utile de brosser un historique de l'américanisation culturelle de l'Europe de­puis 1918. Après la Grande Guerre, les Etats-Unis détiennent un quasi monopole de l'industrie ciné­matographique. Quelques chiffres: de 1918 à 1927, 98% des films projetés en Grande-Bretagne sont américains! En 1928, une réaction survient à Westminster et une décision gouvernementale tombe: 15% au moins des films projetés dans les salles du Royaume-Uni doi­vent être britanniques. En Allemagne, en 1945, les autorités alliées imposent, sur pression américaine, l'interdiction de tout Kartell.  Dès que la zone occidentale récupère des bribes de souveraineté avec la proclamation de la RFA, le parlement, encore étroitement contrôlé par les autorités d'occupation, vote le 30 juillet 1950 une loi interdisant toute concentration dans l'industrie cinématographique allemande. Mais le cas français est de loin le plus intéressant et le plus instructif. En 1928, Herriot fait voter une loi pour protéger l'industrie française du cinéma, afin, dit-il, «de protéger les mœurs de la nation contre l'influence étrangère». En 1936, sous le Front Populaire, la France baisse la garde: sur 188 films projetés, 150 sont améri­cains. En 1945, 3000 films américains inondent l'Europe qui ne les avait jamais encore vus. André Bazin dira que, dans cette masse, il y a cent films intéressants et cinq à six chefs-d'œuvre. En 1946, Léon Blum, figure issue de ce Front Populaire qui avait déjà baissé la garde, accepte, devant la pression américaine, le défer­lement. En quoi cette pression américaine consis­tait-elle? En un ultimatum à la France ruinée: les Etats-Unis ne donneraient aucun crédit dans le cadre du Plan Marshall si les Français refusaient d'ouvrir leurs frontières aux productions cinématographiques américaines!! La France a capitulé et, quelques décennies plus tard, le linguiste et angliciste Henri Gobard en tirait les justes conclusions: la France, minée par une idéologie laïque de la table rase, débilitée par son modèle universaliste de pensée politique, devait tout logiquement aboutir à cette capitula­tion inconditionnelle. Elle avait arasé les cultures régionales patoisantes; elle tombe victime d'un universa­lisme araseur plus puissant, biblique cette fois.

 

Dans les années 50, la situation est catastrophique dans toute l'Europe: le pourcentage des films américains dans l'ensemble des films projetés en salle est écrasant. 85% en Irlande; 80% en Suisse; 75% en Belgique et au Danemark; 70% aux Pays-Bas, en Finlande, en Grande-Bretagne et en Grèce; 65% en Italie; 60% en Suède. Les choses ont certainement changé mais le poids de l'industrie cinématographique américaine reste lourd, y com­pris dans le monde de la télévision; il étouffe la créativité de milliers de petits cinéastes ou d'amateurs géniaux qui ne peuvent plus vendre leur travail devant la concurrence des gros consortiums et devant les onéreuses cam­pagnes publicitaires que ces derniers peuvent financer. De surcroît, il répend toujours l'idéologie délétère améri­caine sans racines donc sans responsabilité. Les lois anglaises de 1928 doivent donc être à nouveau soumises à discussion. L'esprit qui a présidé à leur élaboration devrait nous servir de source vive, de jurisprudence, pour lé­gi­fé­rer une nouvelle fois dans le même sens.

 

Quelle est la signification de cette politique? Quels en sont les objectifs? Résumons-les en trois catégories. 1: Les peuples d'Europe et d'ailleurs doivent être amenés à percevoir leurs propres cultures comme inférieures, pro­vinciales, obscurantistes, «ringardes», non éclairées. 2: Les peuples européens, africains, arabes et asiatiques doivent dès lors accepter les critères amé­ricains, seuls critères modernes, éclairés et moraux. Il faut qu'ils lais­sent pénétrer goutte à goutte dans leur âme les prin­cipes de cet américanisme jusqu'à ce qu'ils ne puissent plus réagir de manière spécifique et indépendante. 3: L'Etat ou le sys­tème qui deviennent maîtres de la culture ou, pour être plus précis, de la culture des loisirs, deviennent maîtres des réflexes so­ciaux. Une application subtile de la théorie pavlovienne... Cette politique, sciemment menée depuis 1945, recèle bien des dangers pour l'humanité: si elle parvient à pousser sa logique jusqu'au bout, plus aucune forme de pluralité ne pourra subsister, le kaléido­scope que constituent les peuples de la planète sera transformé en une panade insipide d'«humain trop humain», sans possibilité de choisir entre diverses alternatives, sans pouvoir expérimenter des possibles multiples, sans pouvoir lais­ser germer, dans des âmes et des espaces différents, des virtualités alternatives. Bref, nous aurions là un monde gris, con­damné au sur place, sans diversité de réflexes politiques. Pour le chanteur breton Alan Stivell, chaque culture exprime une facette spéci­fique de la réalité. Effacer une culture, la houspiller, c'est voiler une part du réel, c'est s'interdire de découvrir la clef qui donne accès à cette part du réel. Dans cette perspective, l'universalisme est une volonté d'ignorance qui rate pré­cisément ce qu'il prétend attendre, soit l'universel.

 

L'exemple des Pays Baltes est bien intéressant. Les peuples baltes regroupent cinq à six millions de personnes, très cons­cientes de leur identité, des ressorts de leur histoire, de leurs droits et de l'importance de leur langue. Après avoir croupi pendant quarante ans sous la férule soviétique, cette conscience populaire est restée vivante. A l'Ouest, il n'y a rien de sem­blable. L'expérience des écoles bretonnes doit se saborder. Au Pays Basque, la bas­quisation de certaines chaînes de télévision a fait que l'on a traduit en basque les épisodes du feuilleton Dallas!

 

Que convient-il alors de faire pour redresser la barre, dresser un barrage contre cet américanisme qui constitue, pour parler en un langage moins polémique et plus philosophique, une volonté d'extirper toutes identités et ra­cines, de biffer tous contextes pour laisser le champ libre à une et une seule expérimentation et pour interdire à jamais à d'autres virtualités de passer de la puissance à l'acte? Il faut engager un Kulturkampf  radical dans tous les domaines de l'esprit et de la société et pas seulement dans le cinéma. Nous devons nous rendre pleinement indé­pendants de Washington tant dans le domaine alimentaire (nous importons trop de blé et de soja; avant l'entrée de l'Espagne et du Portugal dans la CEE, nous dependions à 100% des Etats-Unis pour notre consommation de soja, produit de base dans l'alimentation du bétail) que dans les domaines militaire et tech­nologique. Partout il nous faudra entreprendre une quête de nos valeurs profondes: en théologie et en philosophie, en littéra­ture et en art, en sociologie et en politologie, en économie, etc. Le Kulturkampf  que nous envisageons oppose la plura­lité ka­léidoscopique des contextes et des identités à la grise panade du mélange que l'on nous propose, où le monde se réduira à un misérable collage de brics et de brocs coupés de leur humus.

 

Le Kulturkampf  demande des efforts, de la participation, de l'intiative: publiez, traduisez, écrivez, parlez, orga­nisez confé­rences et fêtes, faites usage de vos caméras vidéo, lisez sans trêve. La fin de l'histoire qu'annoncent les triomphalistes du camp d'en face n'aura pas lieu. De la confrontation des différences, de la joie des fraternités et du tragique des conflits naissent synthèses et nou­veautés. Il faut que ce jaillissement ne cesse jamais.

 

Robert STEUCKERS.

Bruxelles et Louvain, 15 et 16 janvier 1990.

jeudi, 17 juin 2010

La Chine achète de la dette américaine

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La Chine achète de la dette américaine

L’article ci-dessous est tiré du site Boursorama. A lui seul, il confirme que les agences de notation US dégradent la note de certains pays européens dans le seul but de favoriser la vente des obligations US aux Chinois… Si la note de certains pays européens est dégradée, la fiabilité de ces Etats est considérée comme moindre. Cela renforce la crédibilité des USA et facilite l’écoulement de sa dette. Vous constaterez que la crise de l’euro est survenue au moment même où les chinois réduisaient leurs achats de dettes US… (Lionel Franc, T&P-Wallonie).

La Chine a renforcé sa participation à la dette des Etats-Unis pour le deuxième mois consécutif en avril en la portant à un total de 900,2 milliards de dollars (732,7 milliards d'euros), avec l'achat de 5 milliards de dollars (44,1 milliards d'euros) supplémentaires de bons du Trésor, a annoncé mardi le gouvernement américain.

Le département du Trésor précise que la participation étrangère dans sa dette est passée de 72,8 à 3.960 milliards de dollars (de 59,3 à 3.223 milliards d'euros).

L'achat des titres par la Chine devrait lever certaines inquiétudes concernant l'éventualité d'une hausse du coût du crédit pour les Etats-Unis faute d'investissement étranger suffisant dans la dette. C'est une bonne nouvelle pour le pays, qui a enregistré un déficit fédéral historique de 1.400 milliards de dollars l'an dernier, chiffre qui devrait rester supérieur à 1.000 milliards en 2010 et 2011.

Les doutes des marchés financiers quant à la solvabilité de pays européens comme la Grèce, renforcés lundi par la dégradation par l'agence Moody's de la note de la dette d'Athènes en catégorie spéculative, incitent les investisseurs à se reporter sur les titres du Trésor américain.

La Chine est le premier détenteur étranger de titres du Trésor américain. Ses investissements de mars et avril succèdent à six mois de réduction ou de stabilité de la participation chinoise.

Le Japon, créancier N°2, a également investi dans des titres du Trésor en avril, de même que la Grande-Bretagne et des pays producteurs de pétrole. AP

st/v390

    

Sarrazin: Deutschland wird dümmer

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Sarrazin: Deutschland wird dümmer

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

BERLIN. Das Bildungsniveau in Deutschland wird wegen der Einwanderung sinken. Dies prognostizierte Bundesbank-Vorstand Thilo Sarrazin am Donnerstag auf einer Veranstaltung der südhessischen Unternehmerverbände.

„Wir werden auf natürlichem Wege durchschnittlich dümmer“, sagte Sarrazin mit Blick auf in Deutschland lebende Zuwanderer mit geringerer Bildung vor allem aus der Türkei, dem Nahen und Mittleren Osten sowie Afrika.

Da Intelligenz maßgeblich von Eltern an die Kinder verebt werde und diese Einwanderergruppen durchschnittlich mehr Nachwuchs bekämen, sei die Entwicklung nach unten absehbar, so Sarrazin.

Scharfe Kritik von Claudia Roth

In seinem Vortrag kritisierte der ehemalige Berliner Finanzsenator auch das niedrige Niveau deutscher Grundschulen. Viele Kinder lernten nicht mehr richtig schreiben oder rechnen, wobei auch da gelte: „Was Hänschen nicht lernt, lernt Hans nimmermehr.“

Grünen-Chefin Claudia Roth kritisierte Sarrazins Äußerungen scharf und forderte Konsequenzen.

„Ich frage mich, wie lange die Bundesbank einen solchen Brandstifter und Rechtspopulisten noch an ihrer Spitze dulden will. Auch die SPD muß sich fragen lassen, ob und wie lange sie Thilo Sarrazin noch in den eigenen Reihen akzeptiert”, sagte Roth der Leipziger Volkszeitung.

„Mit seinen unsäglichen rassistischen Äußerungen hat Thilo Sarrazin einen neuen Tiefpunkt erreicht. Für die Bundesbank als eine der wichtigsten öffentlichen Institutionen in diesem Land ist ein Führungsmitglied mit dieser Geisteshaltung untragbar.” (vo)

Christen als Freiwild

padovese.jpgChristen als Freiwild

Der EU ist die Lage der Christen in der Türkei gleichgültig

Von Andreas Mölzer

Ex: http://zurzeit.at/

Vergangene Woche wurde der Vorsitzende der türkischen Bischofskonferenz, der aus Italien stammende Erzbischof Luigi Padovese, brutal ermordet. Diese Untat als Einzelfall abzutun, wäre vollkommen verfehlt. So wurde beispielsweise 2006 ein katholischer Priester in der Stadt Trabzon an der Schwarzmeerküste auf offener Straße umgebracht, und ein Jahr später wurden in Mittelanatolien drei Mitglieder einer evangelikalen Freikirche Opfer eines grauenhaften Verbrechens. Anscheinend besteht in breiten Teilen der türkischen Bevölkerung ein Haß gegen Christen, der sich jederzeit in einem Mord entladen kann

Überhaupt müssen in der Türkei Christen ein Leben als Bürger zweiter Klasse führen. Die Religionsausübung in diesem nach außen hin laizistischen Staat wird ihnen so schwer wie möglich gemacht, das Priesterseminar der orthodoxen Kirche ist bereits seit Jahrzehnten geschlossen, und Kirchenbesitz wird – sofern er überhaupt noch vorhanden ist – von den türkischen Behörden mit fadenscheinigen juristischen Argumenten zu enteignen versucht.

Genauso skandalös wie die Diskriminierung der Christen ist freilich die Tatsache, daß die Europäische Union zu den Vorgängen in dem kleinasiatischen Land schweigt. Somit stellt sich die Frage, wieviele Christen noch ihr Leben lassen müssen, damit Brüssel endlich erkennt, daß die Türkei kein europäisches Land ist und es offenbar auch nicht sein will. Und ebenso stellt sich die Frage, warum die sogenannte EU-Wertegemeinschaft, die sich sonst so um die angebliche Diskriminierung von Moslems in Europa sorgt, die Beitrittsverhandlungen mit Ankara nicht schon längst abgebrochen hat.

Die Antwort ist einfach: Dem EU-Polit-Establishment ist das Schicksal der Anhänger Jesu Christi in der Türkei schlichtweg egal. Bekanntlich will die Europäische Union kein „Christenklub“ sein, und das geistige Fundament Europas, welches das christliche Abendland ist, soll durch einen aus Wirtschaftsinteressen und Gutmenschlichkeit bestehenden Unterbau ersetzt werden. In dieses Konzept paßt nur allzugut, daß die Türkei trotz ihrer kulturhistorischen Verankerung im Morgenland um jeden Preis in die EU aufgenommen werden soll. Daß Europa und seinen historisch gewachsenen Völkern damit ein denkbar schlechter Dienst erwiesen wird, liegt auf der Hand: Denn Europa soll seiner Identität, seiner Unverwechselbarkeit und Einzigartigkeit und damit auch seiner Zukunft beraubt werden.

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La Turchia progetta un mercato comune con Siria, Libano e Giordania

La Turchia progetta un mercato comune con Siria, Libano e Giordania

di Carlo M. Miele

Fonte: osservatorioiraq [scheda fonte]



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Con la prospettiva di una membership europea che si va allontanando sempre di più, la Turchia inizia a pensare concretamente a un’alternativa nel mondo arabo.


Si spiega anche così il progetto di un mercato comune nella regione, annunciato ieri a Istanbul nel corso del meeting arabo-turco.

Da parte turca il progetto – preannunciato qualche mese fa – punta a rilanciare il volume dei commerci con il mondo arabo, fermo a circa 25 miliardi di euro per anno.

Nonostante lo sviluppo registrato dall’economia della repubblica kemalista negli ultimi anni, infatti, i commerci con la regione rappresentano solo una piccola parte degli scambi che avvengono invece con l’Europa, che resta il principale partner commerciale della Turchia.

Il problema dovrebbe essere superato con la zona di libero scambio, che inizialmente dovrebbe comprendere la Siria, il Libano e la Giordania, oltre alla stessa Turchia.

Tra i quattro paesi dovrebbero essere stabilite delle facilitazioni anche in materia di visti.

Leadership turca     


Col nuovo progetto la Turchia intende rilanciare anche il proprio ruolo economico nella regione, dopo essere riuscita a rilanciare quello diplomatico.

Del resto, come hanno sottolineato diversi analisti citati dalla Bbc, il connubio tra politica estera ed economia sta diventando una caratteristica della gestione del governo guidato da Recep Tayyip Erdogan, che nei sue frequenti viaggi ufficiali all’estero si fa sempre accompagnare da un una importante delegazione di imprenditori.

In passato il governo guidato dal Partito di giustizia e sviluppo (Akp, di ispirazione islamica) ha sostenuto con forza il processo di adesione della Turchia alla Ue, che – ribadisce Erdogan – resta tuttora la priorità nell’agenda politica turca.

Tuttavia, poco è stato fatto dall’ottobre 2005 (quando sono stati avviati i negoziati tra le due parti) a oggi. I rapporti tra Ankara e Bruxelles si sono anzi raffreddati, a causa della volontà turca di non riconoscere Cipro e in seguito agli ostacoli posti da alcuni membri chiave dell’Unione, come Francia e Germania.

In questo lasso di tempo, la Turchia ha cominciato a guardare con sempre più insistenza a Oriente e al mondo arabo e musulmano. E l’idea di creare una zona di libero scambio con i vicini regionali assomiglia tanto alla ricerca di un’alternativa.

Le FMI attaque l'Europe

Le FMI attaque l’Europe

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Le FMI ne tarit pas de critiques envers l’Europe. Laxiste, dépensière, il est temps de la « réformer. » Entendez par là baisser les prestations sociales, privatiser les services publics, démanteler le droit du travail. Les États-Unis qui pilotent le FMI et le milieu des affaires qui est aux commandes de l’économie pressent l’Europe de se dépouiller au plus vite de ses protections sociales. Que signifie l’arrivée du FMI sur la scène européenne ? Quel sont ses résultats passés ? Quel rôle jouent les États-Unis dans ce processus ? Éléments de réponse.

Le FMI qui a un bilan totalement désastreux dans les pays pauvres (voir les documentaires présentés ici) étend en ce moment sa politique à l’Europe. Depuis la fin des accords de Bretton Woods, cette institution pilotée par les États-Unis (majoritaires en voix) a systématiquement prôné la privatisation et la suppression des politiques sociales (fin des remboursements des frais de santé, fin des services publics etc.)

Si les peuples ne se défendent pas de façon concertée, il est probable que l’irruption du FMI sur la scène européenne ne signe le début d’un processus de tiers-mondisation du continent.

Il n’a jamais été présenté un éventail de remèdes disponibles à chaque pays selon sa situation propre, comme cela se pratiquait à la Banque Mondiale avant 1973. Ce sont toujours les mêmes recettes qui sont appliquées sans distinction et présentées comme une panacée par le FMI.

C’est ce que dénonce Joseph Stiglitz, prix nobel d’économie et ancien économiste en chef à la Banque Mondiale dans La Grande Désillusion. Selon lui, si la Banque Mondiale a conservé une tendance à poser un diagnostic un peu personnalisé sur chaque pays, le FMI se montre fondamentaliste dans l’application des politiques néolibérales, ces dernières étant considérées comme le seul remède possible quel que soit le mal. Un dogme impossible à remettre en question à l’intérieur de l’institution, personne n’accepte d’entrer dans une telle réflexion. A cet égard, il faut bien constater que le néolibéralisme est une idéologie. Certains l’ont nommé TINA, There Is No Alternative, en référence à la maxime de Margaret Tatcher, toujours répétée depuis.

De fait, les populations sont toujours ressorties appauvries de ces cures d’austérité, et cela a parfois été jusqu’à les priver de ressources vitales. Ainsi au Ghana au début des années 2000, la privatisation de la compagnie nationale de distribution de l’eau, suite à un ajustement structurel, a contraint de nombreux villageois à devoir choisir entre boire de l’eau potable et manger. L’entreprise nouvellement en charge de la distribution avait doublé les prix, voire triplé ou quadruplé selon les villes.

A la même époque, la privatisation de l’eau en Bolivie créait des manifestations monstres, forçant le gouvernement à reculer.

Aujourd’hui c’est au Honduras que l’on poursuit le genre de programme, après que les États-Unis et l’élite locale aient renversé illégalement le président Zelaya, trop à gauche selon eux.

Ces quelques exemples se retrouvent dans de nombreux autres pays, et pour toutes sortes de denrées et de secteurs d’activité. Il faut étudier les conséquences de ces politiques sur les populations si l’on veut évaluer correctement l’action du FMI. Systématiquement, l’élite locale s’est enrichie tandis que le peuple s’est appauvri. Cette politique est criminelle lorsqu’elle prive des citoyens de soins, d’eau potable, de nourriture, ou d’éducation.

Le FMI ou la Banque Mondiale ne posent jamais comme condition à leurs prêts : améliorer la redistribution des richesses pour soulager la pauvreté. Il s’agit toujours d’incriminer l’État pour taxer la population au profit d’entreprises derrière lesquelles se trouvent de riches notables locaux ou occidentaux. Le transfert de richesse s’opère des pauvres vers les riches.

La vente des actifs d’un pays (souvent à prix bradé, voir par exemple le cas de l’Argentine sous Carlos Menem) et les coupes budgétaires améliore temporairement l’état des finances publiques. Au lieu d’encourager le pays à se libérer d’une dette souvent asphyxiante (de 20 à 35% du budget de l’État pour dette remboursée plusieurs fois par le jeu des intérêts), les institutions de Bretton Woods conviennent immédiatement d’un nouveau prêt (voir par exemple le cas de l’Ouganda traité ici)… Et l’argent prêté par le FMI doit être utilisé suivant les conditions fixées par l’organisme international « américain«  : constructions de centrales électriques, de routes, de barrages etc… Tout l’argent retourne ainsi aux pays prêteurs du Nord, dans la poche des entreprises qui réalisent ces constructions. Ces projets gonflent les chiffres de l’investissement, du PIB, de la croissance, et profitent à l’élite riche. On parle de succès, les journaux de droite utilisent ces résultats comme argument en faveur de la politique néolibérale du FMI. Mais la population majoritairement pauvre s’est appauvrie comme le montrent tous les indicateurs de pauvreté et de mesure de l’inégalité, qui explosent depuis trente ans. Mieux, le pays concerné se retrouve à nouveau lié par une dette qu’il faudra rembourser et dont il faudra payer les intérêts : les pays donateurs gagnent une seconde fois, et le pays pauvre perd toute indépendance. C’est ce système que l’on nomme parfois « néocolonialisme. »

Comme exemple de cette politique néocoloniale on peut citer par exemple le cas d’Haïti. La dictature des Duvalier coopérait avec les programmes américains, faute de quoi elle aurait été renversée comme l’a été Aristide ou comme ailleurs Allende, Roldos, Torrijos… Ainsi dès 1984, le FMI a obligé Port-au-Prince à supprimer toutes ses barrières douanières et à démanteler les rares et derniers services publics de l’île. Les produits agricoles américains, dont le riz, ont envahi le pays et ont jeté une grande partie de la paysannerie dans la pauvreté.

Ceux-ci sont venus se réfugier dans les villes, où les entreprises américaines ont installé des ateliers textiles à bas coup, les « Sweap Shops. » Les haïtiens y travaillent douze heures par jour pour un salaire dérisoire, même au regard du coup de la vie local (28 cent de l’heure chez Disney par exemple). A cet effet, Clinton a créé au début des années 90 une zone franche permettant aux entreprises américaines de rapatrier leur production sans payer de frais de douane. Techniquement c’est comme si cette zone franche faisait partie du territoire américain, droit du travail et salaires mis à part. Haïti qui produisant 90% de sa nourriture il y a trente ans en importe aujourd’hui 55%. En outre l’argent du FMI, utilisé en fonction des intérêts américains aux conditions dictées par le FMI, devra être remboursé par une population exsangue.

Selon John Perkins, qui a exercé pendant 15 ans le métier de « tueur économique » pour le compte du gouvernement américain et de multinationales, le FMI propose volontairement des prêts impossibles à rembourser de manière à tenir les pays sous le contrôle des États-Unis. C’est une stratégie adoptée et perfectionnée depuis plus de 50 ans pour dominer le monde par l’arme économique. Toujours selon lui, les États-Unis travaillent ainsi consciemment à élargir et maintenir un Empire, à l’image des autres empires déclarés de l’Histoire, comme jadis la France, l’Angleterre, Rome ou la Grèce… Mais ce dernier instille cette nouveauté qu’il parvient à ses fins en ne se saisissant de l’arme militaire qu’en dernier recours, la guerre économique et la corruption des élites nationales apportant d’assez bons résultats.

Selon Noam Chomsky, cette stratégie est née en réponse à la démocratie et aux mouvements sociaux d’après-guerre, qui sont parvenus à faire pression sur les politiques gouvernementales. La populations des États-Unis n’accepterait pas la manière dont se comporte son gouvernement si la question lui était posée ouvertement. Cela a forcé l’élite à opérer de façon détournée, soit par l’entremise d’entreprises privées (voir John Perkins), soit par des opérations militaires clandestines comme l’assassinat de syndicalistes en Amérique du Sud, ou le financement de groupes armés (Exemple des « Contras » au Nicaragua).

Dès les années 20, Edward Bernays théorisa dans son ouvrage Propaganda les techniques de manipulation de l’opinion. Les « relations publiques, » la « communication » et la presse ont servi de relais à une désinformation de masse. Ces nouveaux attributs du pouvoir se sont développées et affinés durant tout le XXème siècle, permettant à l’élite politico-économique de perpétuer sa domination sur le monde occidental et sur le monde entier ; la chute de l’Empire stalinien ayant ouvert l’ère unipolaire que nous connaissont aujourd’hui et au sein de laquelle aucune force n’est encore en mesure de faire contre-poids. Ce que l’on nomme généralement « mondialisation, » à ce titre, n’est pas autre chose que l’expansion de l’Empire américain, le FMI étant une arme parmi d’autres.

A l’heure où le FMI et les États-Unis s’intéressent de près aux affaires internes de l’Europe, il est essentiel de savoir à qui l’on a à faire. Le jeudi 10 juin, le Figaro nous rappelait dans ses pages saumon (p18 et 19) que les ministres des finances des pays européens ont accepté l’obligation de soumettre leur budgets nationaux à un examen préalable devant les instances européennes. L’examen devrait avoir lieu au printemps, ce qui laisserait le temps de faire d’éventuelles corrections. C’est une nouvelle délégation de pouvoir vers les institutions non démocratiques de l’Union. Le FMI, lui, trouve ces mesures trop timorées et il presse l’Europe de créer une autorité commune qui soit chargée de déterminer le niveau de déficit budgétaire admissible pays par pays. Il réclame également que chaque pays membre adopte des règles internes contraignantes qui forcent à limiter le déficit. Ainsi, la stimulation keynésienne de l’économie par l’investissement public est en train de devenir de facto une politique interdite en Europe. La formule « There Is No Alternative » semble avoir de beaux jours devant elle.

Le Figaro nous apprenait encore le 10 juin que la Maison blanche fait pression pour que l’Espagne adopte son plan de rigueur. Les États-Unis, affublés d’un déficit abyssal, à la tête d’une économie à bout de souffle ont urgemment besoin d’énergie pour perpétuer leur non négociable « way of life, » que seul le dollar-référence protège de l’effondrement. L’Europe sera-t-elle l’ultime richesse à venir alimenter la machine américaine ?

Agoravox

Il vizio oscuro dell'Occidente

Massimo Fini     

[28 apr 2003] :

Il vizio oscuro dell’Occidente

Ex: http://www2.unicatt.it/unicatt/

 

onclesam575757.jpgE se l’11 settembre fosse colpa nostra? Non, come farneticato da qualche fanatico in preda a convulsioni anti-americane, che siano stati gli statunitensi ad abbattere le Twin Towers, magari con la complicità degli ebrei, in una riedizione un po’ stantia del complotto dei «Savi di Sion». No, in altro senso. E cioè nel senso che l’11 settembre sarebbe la «conseguenza logica, e prevedibile, della pretesa dell’Occidente di ridurre a sé l’intero esistente».

 

È quello che cerca di dimostrare Massimo Fini nel suo pamphlet «Il vizio oscuro dell’Occidente», dove sferra un attacco violento alla nostra certezza, manifesta, inconscia, o ipocriticamente celata nel politically correct, di appartenere ad una civiltà superiore. L’accusa all’Occidente è di totalitarismo, di reductio ad unum, ossia di voler cancellare tutto ciò che è «altro da sé», fagocitandolo. «All’occupazione dell’intero pianeta», afferma Fini, avevano già aspirato in passato «il cristianesimo, il colonialismo classico, il marxismo-leninismo». Oggi il tentativo sta riuscendo al modello di sviluppo economico e industriale egemone, di cui gli Stati Uniti incarnano l’essenza ed esprimono la potenza.

 

La matrice di questo impulso totalitario è la convinzione, sincera ma nefasta, di vivere nel «migliore dei mondi possibili», e quindi di «credersi il Bene» senza rendersi conto «di operare eternamente il Male». Perché nel mondo della democrazia, delle libertà, del benessere materiale, ossia nel presunto migliore dei mondi possibili, il luccichio è illusorio. Sentiamo, secondo Fini, la frustrazione «di non essere né felici né sereni, ma divorati dall’angoscia, dalla nevrosi, dalla depressione, dall’anonimia, in misura maggiore del più disperato abitante di un tugurio terzomondista». La causa va ricercata in un sistema incardinato sull’insoddisfazione, sulla competizione e l’invidia, in cui l’uomo è costantemente lanciato verso obiettivi, raggiunti i quali se ne daranno di ulteriori, in una corsa senza fine. Solo in questo modo il sistema economico può mantenere quel dinamismo indispensabile alla sua conservazione. «Come al cinodromo i cani levrieri…inseguono la lepre di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere», così l’uomo insegue la felicità, parola senza corrispettivo reale: l’appagamento e l’armonia interiore sono preclusi.

 

All’origine di questo andamento schizofrenico la centralità, nel sistema di valori occidentale, dell’economia rispetto ai legami affettivi, emotivi, esistenziali. Il prodotto di questa civiltà è il «Consumatore», un essere vivente omologato e privato di un’identità autentica, terminale acefalo di tutto quello che il mercato propina, narcotizzato grazie all’induzione di nuovi bisogni.

 

Questa è per Fini la civiltà «made in West» che, in forza della nostra potenza militare ed economica, andiamo esportando nel mondo, nel tentativo di assimilarlo al nostro sistema di valori, al «migliore dei mondi possibili». Con le buone o le cattive, per ragioni che di volta in volta sono economiche o etiche o umanitarie, ma sempre, alla fine, perché non tolleriamo la diversità. E quale arma, si chiede Fini, è opponibile all’assoluta egemonia militare occidentale (o meglio statunitense), ai tribunali speciali, costituiti ad hoc dai vincitori per processare gli sconfitti, ad un «modello economico pervasivo», il sistema capitalista, in continua espansione? «Di fronte ad un blocco di potere di questa portata, inattaccabile direttamente e frontalmente, quale altra risposta se non il terrorismo, per chi voglia combatterlo con le armi?». Perché quando tale modello avrà inglobato il mondo intero, lo scontro si sposterà al suo interno: «fra i fautori della modernità e le folle deluse, frustrate ed esasperate, che avranno smesso di crederci».

 

Bastano poco più di sessanta pagine a Fini per fustigare con gelida lucidità l’Occidente, i suoi valori e il suo attualizzarsi. Illuminante, eccessivo, provocatorio, inquinato da un relativismo livellante, «Il vizio oscuro dell’Occidente», comunque lo si voglia considerare, è un libricino sferzante e acuto che si può condividere o meno, ma che ha il pregio di non lasciare indifferenti e attizzare il dibattito. Stimolando quel «pensiero che pensi la modernità», la cui assenza è per Fini una delle carenze più gravi del nostro tempo.

Paolo Algisi

mercredi, 16 juin 2010

Maurice Allais flingue le néo-libéralisme

Maurice Allais flingue le néo-libéralisme dans une revue financée par Bercy

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Pour fêter ses 99 ans, le seul Nobel français d’économie s’est livré dans la très confidentielle revue de l’École des Mines à une critique féroce du « libre-échangisme« . Il alerte sur la destruction de l’agriculture et de l’industrie, sources profondes du chômage français, et en appelle à des solidarités régionales.

« Le libéralisme ne saurait être un laisser faire, » insiste Maurice Allais, 99 ans depuis mai dernier et seul Français Nobel d’économie (1988). Dans la livraison de mai de Réalités Industrielles, publiée avec le soutien de Bercy, l’économiste ouvre le bal d’un dossier consacré au diagnostic de la crise, avec un petit article décapant sur « Les causes véritables du chômage.« 

Pour Maurice Allais, le chômage n’est pas essentiellement dû à des questions monétaires, même si celles-ci devraient « continuer de jouer un rôle néfaste grandissant, » mais il pointe en premier lieu, les responsabilités d’un système global, celui né de  » la conséquence de la libéralisation inconsidérée du commerce international.« 

La profonde ignorance des économistes

Professeur honoraire à l’École nationale supérieure des Mines de Paris, il rappelle à ses anciens disciples quelques vérités pas très politiquement correctes et s’en prend à l’idéologie mainstream actuelle des économistes. Farouchement anti-échangiste comme il fut exactement le contraire, reaganien invétéré jusqu’en 1994, il estime que « nous avons été conduits à l’abîme par des affirmations économiques constamment répétées, mais non prouvées. Par un matraquage incessant, nous étions mis face à des vérités établies, des tabous indiscutés, des préjugés admis sans discussion. Cette doctrine affirmait comme une vérité scientifique un lien entre l’absence de régulation et une allocation optimale des ressources. Au lieu de vérité il y a eu, au contraire, dans tout ceci, une profonde ignorance et une idéologie simplificatrice.« 

Le doyen des économistes français perçoit dans la crise financière actuelle, un poison majeur : « L’enjeu capital actuel est le risque d’une destruction de l’agriculture et de l’industrie françaises. Ce danger est réel et j’emploie le mot destruction car il est représentatif de la réalité. Un tel risque provient du mouvement incessant des délocalisations, elles-même dues aux différences de salaires entre, d’une part, des pays développés tels que ceux de l’Amérique du Nord ou d’Europe de l’Ouest, et, d’autre part, ceux d’Asie ou d’Europe orientale, par exemple la Roumanie ou la Pologne, » accuse t-il. Démonstration : « Un écart de salaire élevé, aussi extrême qu’un rapport de un à six par exemple, n’est pas supportable sur le long terme par les entreprises des pays où le revenu est plus élevé.« 

Tous victimes

Mais le quasi-centenaire met en garde également ceux qui voudraient attiser les haines xénophobes de cette situation. « Cela ne veut pas dire que j’oppose entre elles ces différentes régions, qui me semblent toutes des victimes actuelles ou à venir du libre-échangisme voulu par l’OMC, le FMI et par Bruxelles en ce qui concerne l’Europe. » En 2005 déjà, le Nobel d’économie estimait que l’abandon de la préférence communautaire, décidé en 1974 par Bruxelles, avait entraîné une réduction du taux de croissance du PIB réel par habitant de chaque pays du traité de Rome de l’ordre de 30 à 50%.

En 2010, Maurice Allais propose une réforme rétablissant les préférences régionales au sein du commerce international. « Un point essentiel tient à la définition de ces espaces régionaux, qui ne devront pas être trop vastes et devront rechercher une homogénéité interne, ce que je définis comme « des ensembles régionaux groupant des pays de développement économique comparable, chaque association régionale se protégeant raisonnablement vis à vis des autres. » Visée : ne pas supprimer la concurrence, mais enrayer les distorsions de concurrence, telles que celles engendrées par ces écarts trop importants de coûts salariaux.

On pourra toujours objecter à l’auguste économiste qu’il cultiva comme un forcené l’idéologie reaganiene, ou que ses théories ont été vampirisées par le Front National, Maurice Allais quant à lui se considère définitivement comme un libéral socialiste : « C’est-à-dire socialiste quant aux objectifs, et libéral quant aux moyens. Les deux ne me semblent, ainsi, plus opposables de manière antagoniste, mais deviennent complémentaires.« 

Annuel-Idées

Repères :

- BIO-EXPRESS. Né le 31 mai 1911. 1947 : Participe avec les économistes libéraux (Hayek, Friedman, Mises) à la création de la Société du Mont-Pelerin (anti-étatisme). 1988 : Nobel d’économie pour sa théorie des marchés et l’utilisation efficace des ressources. 1994 : abandon des théories reaganiennes et combat contre le « libre échangisme« .

- Réalités industrielles, édition de mai, Editions Eska avec le soutien du ministère de l’Économie, de l’Industrie et de l’Emploi, 23 euros.

(Merci à Marbot)

Presseschau - Juni 2010 / 03

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Presseschau

Juni 2010 / 03

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

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Der britische Militärhistoriker Basil Liddell Hart (1895–1970) über das Verhalten deutscher Soldaten im Zweiten Weltkrieg:

(...) Es war eine überraschende Erscheinung des nächsten Krieges, daß sich die deutsche Armee in bezug auf menschliches Verhalten einen besseren Ruf erwarb als 1870 und 1914 (…) Dadurch wurden in den eroberten und besetzten Ländern sogar die grausamen Taten der Gestapo und die Brutalitäten der SS-Verbände ausgeglichen. Reiste man nach dem Krieg durch die befreiten Länder, so hörte man allenthalben das Lob der deutschen Soldaten – und nur zu oft wenig freundliche Betrachtungen über das Verhalten der Befreiertruppen. Es hatte sogar den Anschein, daß der durch die Besatzung bewirkte enge und lange Kontakt eher ein besseres Verständnis zwischen den einfachen Leuten beider Seiten gebracht hatte als Vertiefung von überkommenem Vorurteil und Haß. Die Annäherung zwischen Franzosen und Deutschen ist das bemerkenswerteste Ergebnis davon gewesen.

(Basil Liddell Hart: Lebenserinnerungen, 1. Auflage, Düsseldorf und Wien 1966, S. 143 f.)

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Kommentar
Herr Erdogan, es reicht!
Das Erstaunlichste an der andauernden Gaza-Krise ist die Tatsache, daß die Türkei bisher kaum in die Kritik geraten ist.Dabei ist Ankara maßgeblich an der Entstehung dieser Krise beteiligt und betreibt eine gefährliche Eskalation, die vor allem den Radikalen in die Hände spielt. Der türkische Premier Recep Tayyip Erdogan hatte die umstrittene Flottille mit „Hilfsgütern“ für Gaza ja früh zu einer Art nationalen Mission gemacht.Und das, obwohl die türkische Regierung genau weiß, daß die Hauptorganisatorin, die IHH, unter dem Mantel der Wohltätigkeitsorganisation auch internationale Dschihadisten unterstützte. Das war an sich schon ein unfreundlicher Akt gegenüber einem früheren Verbündeten.
Von Clemens Wergin
http://www.welt.de/die-welt/politik/article7964091/Herr-Erdogan-es-reicht.html
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article7958801/Die-Tuerkei-ueberschreitet-rote-Linien.html

Haßrede
Ahmadinedschad hetzt in Istanbul gegen Israel
Irans Präsident hat Israel beispielloser Verbrechen beschuldigt und den Untergang des Landes prophezeit. Die Zuhörer sollen begeistert gewesen sein.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7952173/Ahmadinedschad-hetzt-in-Istanbul-gegen-Israel.html

Knesset-Abgeordnete Soabi
„Sie haßt unser Land“
Aus Jerusalem berichtet Ulrike Putz
Hunderte fordern ihren Tod, der Innenminister will ihr die Staatsangehörigkeit entziehen: Die israelisch-arabische Knesset-Abgeordnete Hanin Soabi wird daheim angefeindet, weil sie im Hilfskonvoi für Gaza mitgefahren ist. Sie spricht von Hexenjagd – und fürchtet um ihr Leben.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,699223,00.html

Ex-CIA Officer Philip Giraldi:
Jewish lobby has 'absolute control' in US foreign policy
http://presstv.com/detail.aspx?id=128024

Über Giraldi:
http://en.wikipedia.org/wiki/Philip_Giraldi

Recht vernünftig, was Adenauer zu dem Thema zu sagen hatte ...
Konrad Adenauer bei Günter Gaus im deutschen Fernsehen 1965 über „die Macht der Juden ... insbesondere in Amerika“
http://www.youtube.com/watch?v=9CaaQywraXw

Afghanistan
Bundeswehr-Soldat bei Anschlag schwer verletzt
Erneut kam es zu einem Anschlag auf deutsche Soldaten in Afghanistan. Ein US-Rettungshubschrauber flog einen der Männer aus der Unruhezone. Er wurde notoperiert, schwebt aber offenbar nicht in Lebensgefahr.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,700387,00.html

Türkei: Mörder des Bischofs rief „Allah ist groß“
Istanbul – Nach der Ermordung des apostolischen Vikars für Anatolien, Bischof Luigi Padovese, kommen nun erschütternde Details über seine letzten Minuten zutage.Demnach schnitt ihm der Täter von hinten den Hals durch, mit dem Ruf „Allahu Akbar“ (Gott ist groß). Auf Anfrage dieser Zeitung sagte der apostolische Vikar in Istanbul, Bischof Louis Pelatre, man habe keinerlei Hinweis auf einen politischen oder religiösen Hintergrund. [Bemerkenswertes Zitat WELT-Online: „Da er auch später im Gerichtssaal zweimal laut einen muslimischen Gebetsruf herausschrie, kann es sein, daß der Mann unter tiefen psychischen Störungen leidet.“ (!!)]
http://www.welt.de/die-welt/politik/article7916359/Tuerkei-Moerder-des-Bischofs-rief-Allah-ist-gross.html

Christen-Haß? Deshalb wurde Bischof Padovese wirklich ermordet
http://www.bild.de/BILD/news/2010/06/04/christen-hass-in-tuerkei/deshalb-wurde-padovese-wirklich-ermordet.html

Padovese wollte Papst vor möglichem Attentat schützen
http://www.kath.net/detail.php?id=26997

Bischof Padovese wurde fast vollständig geköpft
Neue Details beunruhigen christliche Minderheiten
http://www.zenit.org/rssgerman-20756

Franzosen befürworten Anschluß der Wallonie
PARIS. Die Mehrheit der Franzosen wäre bereit, den frankophonen Teil Belgiens samt Eupen-Malmedy zu übernehmen. Hintergrund ist der drohende Staatszerfall Belgiens.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M533db04c02d.0.html

Südafrika:
Massenpanik in Fußballstadion
http://www.tagesschau.de/multimedia/sendung/ts19820.html


Sparplan
Schwarz-Gelb stutzt den Sozialstaat
80 Milliarden Euro will die Bundesregierung in den kommenden vier Jahren einsparen und so die Wende in der Schuldenkrise schaffen. Soziales, Wirtschaft, Bundeswehr – viele Bereiche sind betroffen. SPIEGEL ONLINE gibt den Überblick über das schwarz-gelbe Kürzkonzept.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,699255,00.html

Direktwahl
CSU: Bürger sollen Bundespräsidenten wählen
In der CSU wird die Direktwahl des Bundespräsidenten erwogen. Er sei zunehmend ein Bürgerpräsident und sollte vom Volk gewählt werden.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7925467/CSU-Buerger-sollen-Bundespraesidenten-waehlen.html

Joachim Gauck
„Freiheit ist anstrengend, denn man muß wählen“
Seine Nominierung sieht Präsidentschaftskandidat Gauck als Signal der Öffnung. Ein Gespräch über Chancen, Diktatur, Demokratie und Esel.
http://www.welt.de/politik/article7922299/Freiheit-ist-anstrengend-denn-man-muss-waehlen.html

Drittklassig
Von Thorsten Hinz
Es war ein Abgang in Unehren, den sich Horst Köhler mit seinem überhasteten und schwach begründeten Ausscheiden aus dem Amt des Bundespräsidenten bereitet hat. Der Vorwurf, er habe einer verfassungswidrigen Kanonenbootpolitik das Wort geredet, war so dumm, daß er ihn leicht hätte widerlegen können: durch eine Präzisierung seiner Interview-Äußerung oder durch Ignorieren.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M58acddc74bc.0.html

Regierungskrise
Merkel ruft Schwarz-Gelb zur Ordnung
Das Vertrauen der Deutschen in Schwarz-Gelb und die Kanzlerin ist erschüttert – angeschlagen versucht Angela Merkel, die Lage unter Kontrolle zu bekommen. Sie ruft die Koalition per Interview zur Ruhe und zum Kampf um die Herzen der Bürger. Doch tatsächlich kündigt sich schon neuer Streit an.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,700385,00.html

Kritik an schwarz-gelbem Kürzungsplan
Käßmann ruft zu Widerstand gegen Sparpaket auf
Opposition und Gewerkschaften machen mobil, Teile der Union rebellieren gegen Merkels Sparpaket – nun droht der Kanzlerin neuer Ärger: Margot Käßmann, früher oberste Protestantin des Landes, fordert die Kirchen zum Widerstand gegen die Streichung des Elterngeldes für Hartz-IV-Empfänger auf.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,699426,00.html

Parlamentswahl
In den Niederlanden zeichnet sich ein Rechtsruck ab
Nach ersten Prognosen zum Wahlausgang liegen Liberale und Sozialdemokraten Kopf an Kopf. Schon jetzt aber gibt es einen Sieger: den Rechtspopulisten Wilders.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7975091/In-den-Niederlanden-zeichnet-sich-ein-Rechtsruck-ab.html

Triumph für Islamkritiker Geert Wilders
DEN HAAG. Der Islamkritiker Geert Wilders ist mit seiner „Partei für die Freiheit” (PVV) als drittstärkste Kraft aus den Parlamentswahlen in den Niederlanden hervorgegangen.
Die PVV erhält mit 24 Sitzen mehr als die bisher regierenden Christdemokraten, die 21 statt wie bisher 41 Abgeordnete stellt. Die Rechtsliberalen haben sich knapp gegen die Sozialdemokraten mit 31 zu 30 Sitzen durchgesetzt.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5998caea81b.0.html

Wenn der westliche Wähler politisch nicht mehr weiter weiß, flüchtet er in die Spaßgesellschaft ...
Island
Komiker der Spaßpartei wird Bürgermeister von Reykjavík
http://www.welt.de/die-welt/politik/article7934344/Komiker-der-Spasspartei-wird-Buergermeister-von-Reykjav-k.html
http://www.focus.de/politik/ausland/island-spasspartei-stellt-buergermeister_aid_515982.html

Island
Ein Narr für Island
Der Komiker Jón Gnarr will Bürgermeister von Reykjavík werden. Seinen Wählern verspricht er offene Korruption
http://www.zeit.de/2010/22/WOS-Island-Spasspartei

Zehnjähriger hält Haß-Predigten für Ku Klux Klan
http://magazine.web.de/de/themen/nachrichten/panorama/10566662-Zehnjaehriger-predigt-fuer-Ku-Klux-Klan.html

„Report Mainz“: Angriffe auf Politiker- und Parteibüros nehmen stark zu
Rechtsextremismus-Forscher: „Beginn einer terroristischen Struktur“
http://www.presseportal.de/pm/75892/1626680/swr_das_erste

Der sogenannte Feminismus
Von Fabian Schmidt-Ahmad
Eine der seltsamsten Erscheinungen der Gegenwart ist die Leugnung des Unterschieds der Geschlechter: Mann und Frau seien von Natur aus gleich, nur durch gesellschaftliche Konvention werde etwas „typisch“ Männliches oder Weibliches herausgebildet, so heißt es.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5f60766ccdf.0.html

Berlin: CDU-Politiker kritisiert Hissen der Regenbogenflagge
BERLIN. Die Anordnung des Berliner Polizeipräsidenten Dieter Glietsch, während des Christopher-Street-Day die Regenbogenflagge am Polizeipräsidium hissen zu lassen, ist bei der CDU auf Kritik gestoßen.
„Wenn der Polizeipräsident keine anderen Sorgen hat, scheint in der Stadt ja alles in Ordnung zu sein“, sagte der innenpolitische Sprecher der CDU im Berliner Abgeordnetenhaus, Robbin Juhnke, der JUNGEN FREIHEIT. Die Anordnung sei einfach nur „albern“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M55cdf5720de.0.html

Explosion bei Sparpaket-Protest
Sprengsatz-Attacke in Berlin schockiert Polizei
Von Julia Jüttner
„Das ist eine neue Qualität“: Bei einer Demonstration gegen das Sparpaket haben Krawallmacher [man könnte sie auch „Linksextremisten“ nennen] in Berlin einen verbotenen, aufgerüsteten Böller auf Polizisten geworfen. Auf einem Video ist die enorme Wucht der Explosion zu sehen – zwei Beamte erlitten schwere Brand- und Fleischverletzungen.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,700392,00.html

Linkspartei: Gauck verharmlost „Hitler-Faschismus“
BERLIN. Die stellvertretende Linkspartei-Chefin Katja Kipping hat die Nominierung Joachim Gaucks für das Amt des Bundespräsidenten scharf kritisiert. „Herr Gauck vertritt in der Öffentlichkeit immer wieder eine Position, die auf eine Gleichstellung von Links und Rechts hinausläuft“, sagte sie sich in einem Gespräch mit der „Frankfurter Allgemeinen Zeitung“. Dies sei eine „Verharmlosung des Hitler-Faschismus“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M58e001f423f.0.html

Angriff
Linke wirft Gauck NS-Verharmlosung vor
Die Linkspartei schießt immer schärfer gegen den Ex-Stasi-Aufklärer Joachim Gauck. Parteivize Katja Kipping bezichtigt ihn, das NS-Regime zu verharmlosen.
http://www.focus.de/politik/deutschland/angriff-linke-wirft-gauck-ns-verharmlosung-vor_aid_517969.html

Linker Patriotismus?
http://www.sezession.de/15560/linker-patriotismus.html

Pathologisch ...
„Ihr habt den Krieg verloren“
Neonazi-Demo in der Wetterau aufgelöst
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/hessen/2738911_Ihr-habt-den-Krieg-verloren-Neonazi-Demo-in-der-Wetterau-aufgeloest.html

„Wer jetzt noch abhaut, wird erschossen“
Vier Ost-Spitzel gegen 25 CIA-Späher: Am 11. Juni 1985 fand in Potsdam der größte Agentenaustausch des Kalten Krieges statt. Eberhard Fätkenheuer war dabei. Auf einestages erzählt er vom Leben als Spion, der Enttarnung durch die Stasi – und den dramatischen Stunden vor der Freilassung.
http://einestages.spiegel.de/static/authoralbumbackground/10221/_wer_jetzt_noch_abhaut_wird_erschossen.html

Babenhausen
Landrat Klaus Peter Schellhaas besucht mit Landespolitikern den jüdischen Friedhof in Babenhausen
„Politisches Bewußtsein schärfen“
http://www.op-online.de/nachrichten/babenhausen/politisches-bewusstsein-schaerfen-800815.html

Hamburg
Radfahrer verprügelt: 42jähriger auf Intensivstation
Betrunkene Jugendliche prügeln einen Mann in einer Harburger Unterführung krankenhausreif. Vieles erinnert an den „20-Cent-Fall“.
Hamburg. Es war reine Willkür. Zwei betrunkene Jugendliche haben gestern einen 42 Jahre alten Mann in einem Harburger Fußgängertunnel vom Rad gestoßen und anschließend mit Schlägen und Tritten schwer verletzt. Mutige Zeugen gingen schließlich dazwischen und verhinderten wahrscheinlich Schlimmeres. Die 17 und 18 Jahre alten Täter kamen nicht weit. Die Polizei nahm sie fest.
Das Duo hatte vor der Tat reichlich getrunken. Bei der späteren Überprüfung wurde festgestellt, daß der 17jährige Mesut S. 1,33 Promille Alkohol im Blut hatte. Bei seinem Komplizen Zana D., 18, wurde ein Wert von 3,18 Promille gemessen. Da die Täter nicht freiwillig in eine Blutprobenentnahme eingewilligt hatten, ordnete ein Richter diese noch in der Nacht an.
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1522157/Radfahrer-verpruegelt-42-Jaehriger-auf-Intensivstation.html

Brutal-Attacke
Brutal zugerichtet, nur weil er half
Thilo B. wollte einer Frau helfen, die von 4 Männern bedrängt wurde – und überlebte nur durch Glück.
Blutergüsse unter den Augen, aufgeplatzte Lippen, Nase gebrochen, Platzwunde am Kopf, zwei abgebrochene Zähne. So übel wurde Thilo B. (24) zugerichtet, weil er einer Frau helfen wollte, die von vier Männern bedrängt wurde. Er ging dazwischen – sie prügelten ihn bewußtlos!
Die brutale Tat erinnert erschreckend an die beiden Münchner S-Bahn-Schläger, die im September vorigen Jahres einen 50jährigen Manager zu Tode prügelten. Auch er wollte nur helfen, als er sah, wie die Täter vier Teenager bedrohten.
Thilo hat zum Glück überlebt. Die brutale Szene wird ihm aber nicht mehr aus dem Kopf gehen. Der Braumeister-Student (2. Semester) aus Wedding war Freitag abend mit ein paar Freunden im Mauerpark, danach wollte er nach Hause. Gegen 4.45 Uhr stand er auf dem U-Bahnsteig Voltastraße. „Vier kräftige Kerle standen um ein Mädel herum, zogen den Kreis enger. Es wirkte ängstlich“, beschreibt der junge Mann den Moment, in dem er sich entschied, einzuschreiten. Was dann geschah, weiß Thilo B. nicht mehr. „Ich bin irgendwann auf dem Boden aufgewacht, hatte schlimme Schmerzen, überall war Blut“, erklärt er.
Thilo schleppte sich die Treppe hinauf zur Brunnenstraße. Dort halfen ihm Passanten, brachten ihn ins Krankenhaus.
„Der erste Schlag muß mich zu Boden gebracht haben“, so Thilo B. Danach hat das Quartett offenbar auf ihn eingetreten. Auf seiner Stirn ist noch ein Schuhabdruck zu sehen. Kommende Woche muß der junge Mann an Nase und Lippe operiert werden.
Die Polizei ermittelt wegen schwerer Körperverletzung, wertet die Aufzeichnungen der Überwachungskameras aus. „Wir suchen dringend Zeugen“, sagt ein Behördensprecher. Die Fahndung nach den Tätern läuft.
Thilo B. bereut seine Zivilcourage nicht: „Das gehört sich doch so. Ich hoffe nur, daß die junge Frau flüchten konnte. Ansonsten war alles umsonst.“ Allerdings: „Beim nächsten Mal rufe ich lieber gleich die Polizei …“
http://www.bz-berlin.de/tatorte/brutal-zugerichtet-nur-weil-er-half-article870204.html

Hamburg
Plastiktüte mit Leichenteilen in Harburg gefunden
Grausiger Fund in der Nähe des Bahnhofes Hamburg-Harburg: Ein Passant hat am Dienstag in einem Gebüsch hinter einem Parkhaus in der Poststraße eine blaue Plastiktüte mit Leichenteilen gefunden. Die Identität des Opfers ist noch unklar, es soll sich um einen Mann handeln. Die Mordkommission ermittelt. Eine Hundertschaft der Polizei suchte die Umgebung ab, außerdem waren Leichenspürhunde im Einsatz. Ergebnisse der kriminaltechnischen Untersuchung sollen frühestens heute nachmittag vorliegen.
Nur wenige Meter von dem Fundort der Leichenteile entfernt war am Dienstagmorgen gegen 5.30 Uhr ein 53jähriger schwer verletzt aufgefunden worden. Mitarbeiter einer Reinigungsfirma endeckten den Mann in einem Gebüsch auf dem Bahnhofsvorplatz an der Hannoverschen Straße. Das Opfer wurde mit Stichverletzungen in Hals und Oberkörper in ein Krankenhaus gebracht und notoperiert. Der 53jährige Türke aus dem niedersächsischen Buchholz, der früher selbst zum Reinigungspersonal des Bahnhofes gehört haben soll, schwebt in Lebensgefahr.
Die Hintergründe der Tat sind noch unklar. „Es gibt keine Hinweise auf den Täter“, sagte ein Polizeisprecher. Die Ermittler stellten am Tatort Videoaufzeichnungen von Überwachungskameras und weiteres Beweismaterial sicher – darunter auch ein Messer. Ob es sich dabei um die Tatwaffe handelt, muß eine Untersuchung klären. Die Beamten riefen Zeugen auf, sich bei der Polizei unter der Telefonnummer 040/4286 56789 zu melden. Derzeit prüft die Polizei, ob es einen Zusammenhang zwischen der Tat und dem Leichenfund gibt. Der 53jährige wohnte mit einem drei Jahre jüngeren Mann zusammen, der seit Ende Mai vermißt wird.
http://www.ndr.de/nachrichten/hamburg/harburg118.html

Mord auf Friedhof: Verdächtiger schweigt beharrlich
Ein unter Mordverdacht stehender alkohol- und drogenabhängiger Obdachloser schweigt zum Vorwurf, am Freitagabend eine Rentnerin in Linsengericht erschlagen zu haben. Die Ermittler werten derzeit die gesicherten Spuren aus.
Nach dem Fund einer nackten Frauenleiche auf einem Friedhof in Linsengericht im Main-Kinzig-Kreis schweigt der in Untersuchungshaft sitzende Tatverdächtige beharrlich. Der 28 Jahre alte Deutsch-Marokkaner habe sich zu den Vorwürfen, eine 67 Jahre alte Rentnerin am Freitagabend ermordet zu haben, noch nicht geäußert, sagte ein Sprecher der Polizei in Offenbach.
http://www.faz.net/s/Rub8D05117E1AC946F5BB438374CCC294CC/Doc~E4864D473D3E7458BBBD7C97EFBEC1907~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Brüssel
Iraner erschoß Richterin und Justizdiener wegen Mietstreits
http://www.tt.com/csp/cms/sites/tt/Nachrichten/800885-2/iraner-erschoss-richterin-und-justizdiener-wegen-mietstreits.csp

Prozeßbeginn um Bluttat in der Krämerstraße
HANAU Eines steht fest: Es war der Ehemann, der die damals 38jährige Homma N. Ende Januar mit 21 Messerstichen in der Wohnung in der Schlüchterner Krämerstraße tötete. Vor dem Hanauer Landgericht wird nun darüber befunden, ob dies vorsätzlich geschah oder nicht.
http://www.fuldaerzeitung.de/newsroom/kinzigtal/Kinzigtal-Prozessbeginn-um-Bluttat-in-der-Kraemerstrasse%3Bart40,301653
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/hanau/2739663_Landgericht-Hanau-Anklage-sieht-Ehrenmord.html

Zum Hintergrund:
Schlüchtern
40jähriger ersticht offenbar seine Ehefrau
http://www.fuldaerzeitung.de/newsroom/kinzigtal/Kinzigtal-40-Jaehriger-ersticht-offenbar-seine-Ehefrau;art40,233803

Offenbach
Trauergäste prügeln sich
Offenbach - Bei einer Trauerfeier mit rund 200 Gästen sind am Sonntagabend in Offenbach die Fäuste geflogen.
Einige Gäste fingen in der Gaststätte in der Goethestraße einen Streit an, der schnell in eine Schlägerei ausartete, berichtete die Polizei am Montag. Ein 37 Jahre alter Mann wurde dabei verletzt. Auch große Teile des Gasthaus- Mobiliars gingen zu Bruch. Warum die Trauergäste sich prügelten und worum es dabei ging, war zunächst völlig unklar. Die Polizei hat Ermittlungen aufgenommen.
[In der Online-Ausgabe ohne jeden Hinweis, in der Printausgabe aber konnte man lesen, daß es sich um Roma handelte und die Polizei mit rund 30 Streifenwagen im Einsatz war. Anzeige hat interessanterweise nicht einmal der Wirt des völlig demolierten Lokals gestellt. Er hat sicherlich Geld heimlich zugesteckt bekommen.]
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/trauergaeste-pruegel-offenbach-794223.html

Wulff will buntere Republik
Der niedersächsische Christian Wulff ist „sehr, sehr zuversichtlich“, daß er als Kandidat von CDU/CSU und FDP bei der Wahl des Bundespräsidenten am 30. Juni im ersten Wahlgang eine breite Mehrheit erhält. Das sagte der CDU-Politiker in der ARD-Sendung „Farbe bekennen“. Sein Motiv, sich zur Wahl zu stellen, erklärte Wulff damit, daß er „nicht diesen unbedingten Willen zur Macht“ habe. Seinen Gegenkandidaten Joachim Gauck bezeichnete er als beeindruckende Persönlichkeit.
Als Bundespräsident wolle er für die Zukunft Anstöße für dieses Land geben, sagte Wulff. Sein Thema sei Zukunft. „Da kommen gewaltige Herausforderungen auf uns zu.“ Wulff nannte die demographische Entwicklung der Gesellschaft und die gemeinsamen Werte. Die Frage, ob die Berufung einer ostdeutschen Ministerin und einer Muslimin in sein Kabinett richtungweisend sei, bejahte Wulff. „Ich weiß, wir werden ein Land werden müssen, das bunter und vielfältiger ist. Gerade vor dem Hintergrund des demographischen Wandels werden wir niemanden mehr links liegenlassen dürfen. Wir brauchen die Integration der Migranten, der ausländisch-stämmigen in unserem Land.“ Die Entstehung von Parallelgesellschaften müsse vermieden werden.
http://www.tagesschau.de/inland/wulff160.html

Grüne: Kein „deutsches Volk“ mehr in Eidesformel
Der taufrisch in den nordrhein-westfälischen Landtag gewählte Grünen-Abgeordnete Arif Ünal (Foto) hat gestern direkt zu Beginn der konstituierenden Sitzung des neu gewählten Landtages die Katze aus dem Sack gelassen. Der seit 30 Jahren in Deutschland lebende Ünal möchte in Zukunft bei der Eidesformel anstatt „Zum Wohle des deutschen Volkes“ lieber „Zum Wohle der Bevölkerung in NRW“ sagen – den zwei Millionen Migranten in NRW zuliebe.
http://www.pi-news.net/2010/06/gruene-kein-deutsches-volk-mehr-in-eidesformel/

NRW: Deutschlandfahnen für Polizisten verboten
Nicht nur das „deutsche Volk“ soll in NRW abgeschafft werden, jetzt werden in NRW Polizisten schon im Vorfeld der Fußball-WM Deutschlandfahnen verboten! In Sachsen-Anhalt hingegen sind sie erlaubt. Man achte auf die Begründung. Wer könnte sich wohl in NRW durch deutsche Fahnen in Deutschland provoziert fühlen?
http://www.pi-news.net/2010/06/nrw-deutschlandfahnen-fuer-polizisten-verboten/

Firma verbietet Mitarbeitern St.-Georgs-Fahne
Nicht nur in Deutschland gibt es für einzelne Berufsgruppen während der Fußball-WM ein Fahnenverbot, sondern auch im stark bereicherten Großbritannien. In Manchester ist es laut einer Meldung von „Daily Mail“ mehr als 1.200 Mitarbeitern einer Wohnungsbaugesellschaft untersagt worden, ihre Autos mit Englandfahnen zu schmücken – aus Angst, es könnte als rassistisch angesehen werden.
http://www.pi-news.net/2010/06/firma-verbietet-mitarbeitern-st-georgs-fahne/

Einwanderer-Schelte
Sarrazin erklärt die Verdummung der Deutschen
Nächster Aufschlag Thilo Sarrazin: „Wir werden auf natürlichem Wege durchschnittlich dümmer“, diagnostiziert der Bundesbank-Vorstand – und liefert die Begründung gleich mit. Schuld sind nach seiner Logik die Einwanderer.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,700031,00.html

Das Merkel über Sarrazin ...
„Dumm und nicht weiterführend“!
Merkel mahnt Pöbel-Sarrazin
Nach den Pöbel-Attacken von Bundesbank-Vorstand Thilo Sarrazin (65) schaltet sich auch Bundeskanzlerin Angela Merkel (55, CDU) ein und nennt seine Äußerungen „dumm“. Sarrazin hatte Migranten vorgeworfen, verantwortlich für eine Verdummung Deutschlands zu sein.
Es sei zwar richtig, „daß die Bildungsabschlüsse von Schülern mit Migrationshintergrund verbessert werden müssen und der wichtigste Schlüssel dabei die Beherrschung der deutschen Sprache ist“, so die Kanzlerin. „Aber wenn wir genau das fördern und fordern, dann haben diejenigen, die zu uns kommen und in unserem Land leben wollen, große Chancen und bereichern uns alle.“
http://www.bild.de/BILD/politik/2010/06/12/thilo-sarrazin-kanzlerin-angela-merkel/mahnt-nach-peobel-attacke-dumm-und-nicht-weiterfuehrend.html

Dadurch, daß man es immer wieder behauptet, wird das Diskriminierungsgerede nicht wahrer ...
Ungerechtes Schulsystem
Nur jedes zehnte Einwandererkind macht Abitur
Abitur und hinterher ein Studium, noch immer gelingt das Einwandererkindern nur selten. Ihre Chancen an Schulen und Unis sind deutlich schlechter als die von Kindern deutscher Eltern. Das sei „Talentverschwendung“, heißt es in einer neuen Studie zur [angeblichen] Benachteiligung von Migranten.
http://www.spiegel.de/schulspiegel/wissen/0,1518,699702,00.html

Berliner Stadtschloß
„Ich kämpfe!“
Martin Klesmann
Wilhelm von Boddien, 68, ist Geschäftsführer des Fördervereins, der seit bald 20 Jahren Spenden für den Wiederaufbau des Stadtschlosses sammelt.
http://www.berlinonline.de/berliner-zeitung/archiv/.bin/dump.fcgi/2010/0608/berlin/0050/index.html

Kommentar zum Stadtschloß
Zu wenig Leidenschaft
Jahrelang wurde um das Ob und Wie beim Wiederaufbau des Berliner Schlosses gerungen, nun ist das Projekt bemerkenswert schnell auf Eis gelegt worden. Die Entscheidung fiel leicht – weil das Stadtschloß die Bevölkerung kaltgelassen hat.
http://www.ksta.de/html/artikel/1273823381579.shtml

Verschobener Schloßaufbau
Unwürdiges Spiel mit Ulbrichts Liegewiese
Milliarden stellt die schwarz-gelbe Regierung zur Rettung von Euro und Banken zur Verfügung, doch ausgerechnet beim Schloß-Neubau in Berlin will die Koalition jetzt sparen. So macht sich eine bürgerliche Regierung zum Erfüllungsgehilfen der früheren DDR-Herrscher.
http://www.spiegel.de/kultur/gesellschaft/0,1518,699112,00.html

Sparpläne
Ramsauer will Schloßbau schon 2013 bauen
http://www.morgenpost.de/berlin-aktuell/article1321717/Ramsauer-will-Schlossbau-schon-2013-bauen.html

Moderne Sehnsucht nach gestern
Wenige Architekten trauen sich, traditionell zu bauen. Dabei ist das derzeit gefragt. Von Verbänden werden sie jedoch ausgegrenzt
http://www.welt.de/die-welt/wirtschaft/article7843658/Moderne-Sehnsucht-nach-gestern-Moderne-Sehnsucht-nach-gestern.html

Offenbach
Vermeintliche Ordnungsbeamte lassen serbische Flagge abhängen ;-)))
Wieviel Fahne ist erlaubt?
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/viel-fahne-erlaubt-800791.html

Das gefährliche Erbe von Saloglu
Nach dem Zerfall der Sowjetunion sprengte die russische Armee bei ihrem Abzug in Aserbaidshan eine riesige Munitionsbasis
Tief im aserbaidshanischen Binnenland liegt die Ortschaft Saloglu. Draußen auf den Feldern, etwas abseits des kleinen Dorfes, lauern bis heute tödliche Gefahren.
http://www.neues-deutschland.de/artikel/172450.das-gefaehrliche-erbe-von-saloglu.html

Mais, Mais, Mais
Die deutsche Landschaft verändert sich rasant. Weil immer mehr Energiepflanzen angebaut werden, gibt es kaum noch Brachland – mit dramatischen Folgen für die Tiere. Nur dem Wildschwein kommt der Wandel zugute.
http://www.welt.de/die-welt/vermischtes/article7964199/Mais-Mais-Mais.html

Schavan wirbt für Gen-Pflanzen gegen Hungersnot
http://www.proplanta.de/Agrar-Nachrichten/Agrarpolitik/Schavan-wirbt-fuer-Gen-Pflanzen-gegen-Hungersnot_article1276065741.html

Die Drohkulisse der Untergangspropheten ist weg
Die Propheten der Klimakatastrophe haben ein Problem: Die Südseeinseln versinken doch nicht. Doch manche haben Angst um die Angst.
http://www.welt.de/debatte/article7920320/Die-Drohkulisse-der-Untergangspropheten-ist-weg.html

Auch Haushalte ohne Fernseher zahlen künftig GEZ-Gebühren
http://www.welt.de/die-welt/wirtschaft/article7981549/Auch-Haushalte-ohne-Fernseher-zahlen-kuenftig-GEZ-Gebuehren.html

Kritik an Rundfunkgebühren-Reform
http://www.welt.de/newsticker/dpa_nt/infoline_nt/boulevard_nt/article7991377/Kritik-an-Rundfunkgebuehren-Reform.html

Medien
Rufe nach Abschaffung der GEZ werden lauter
http://www.focus.de/kultur/kino_tv/medien-rufe-nach-abschaffung-der-gez-werden-lauter_aid_516935.html

Elektronische Tanzmusik für einen Sommerabend ...
Etnica – trip tonite [1996]
http://www.youtube.com/watch?v=7V4H7EMDJUo

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all'Iran

Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iran

di Daniele Scalea

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iràn

1. Mercoledì 9 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha imposto nuove sanzioni all’Iràn per il suo programma nucleare. Molti analisti sono rimasti sorpresi dal voto favorevole di Russia e Cina alle sanzioni, sebbene si tratti della quarta tornata di misure prese contro l’Iràn, e tutte avallate da Mosca e Pechino. A stupire è stato soprattutto che tali sanzioni facessero seguito ad un accordo concluso da Tehrān con la Turchia e il Brasile, per evitare l’arricchimento dell’uranio sul suolo iraniano senza privare il paese persiano della tecnologia atomica. In realtà, proprio quest’accordo ha costituito una delle principali motivazioni per cui Russia e Cina hanno accolto le nuove sanzioni.

2. L’accordo turco-iraniano mediato dal presidente brasiliano Lula prevede che nel corso dell’anno l’Iràn consegni 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (ossia composto per meno del 20% dall’isotopo 235U, che può essere sottoposto a fissione nucleare; nel caso iraniano parliamo di uranio al 3,5%) alla Turchia, ricevendone in cambio 120 kg di combustibile nucleare arricchito al 19,5%; tale combustibile sarebbe destinato al Centro di Ricerca Nucleare di Tehrān, che lavora alla sviluppo d’isotopi a scopo medico. Dall’isotopo 235U, infatti, si può estrarre il molibdeno-99, da cui si ottiene il tecnezio-99m, usato nell’85% dei procedimenti diagnostici di medicina nucleare. Attualmente il 95% della produzione mondiale di molibdeno-99 avviene in sei reattori dislocati rispettivamente in Canada, Belgio, Olanda, Francia, Germania e Sudafrica, i quali utilizzano uranio-235 fornito prevalentemente dagli USA. Gli Stati Uniti d’America, col 4,5% della popolazione mondiale, impiegano il 40% della produzione globale di molibdeno-99, mentre l’Iràn, dove si trovano l’1% degli abitanti della Terra, ne impiega lo 0,25% della produzione totale. Fino al 2007 l’Iràn importava tutto il molibdeno-99 di cui abbisogna: da allora riesce a produrlo autonomamente, ma solo grazie a scorte di combustibile nucleare che risalgono ai primi anni ‘90 (fornite dall’Argentina) e che sono destinate ad esaurirsi nel giro di qualche mese. Gl’Iraniani si sono dichiarati disposti ad acquistare sul mercato internazionale nuovo LEU al 19,5%, ma hanno finora incontrato il veto degli USA, che pretendono in cambio una rinuncia completa al programma nazionale d’arricchimento dell’uranio (che pure è un diritto garantito dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, di cui la Repubblica Islamica è una firmataria). Rimangono perciò poche alternative: una rinuncia iraniana a produrre isotopi medici, tornando ad acquistarli dall’estero (l’opzione più gradita a Washington, ma giudicata inaccettabile da Tehrān); l’arricchimento dell’uranio al 19,5% da parte dell’Iràn (l’eventualità temuta dagli Atlantici, e non ancora tecnicamente sperimentata dai persiani); lo scambio di LEU al 3,5% con combustibile al 19,5%, proprio come previsto dal recente accordo con la Turchia (la soluzione di compromesso che, in teoria, dovrebbe accontentare tutti).

Val la pena notare che: i 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (LEU secondo l’acronimo inglese) che l’Iràn consegnerebbe alla Turchia costituiscono più della metà delle sue scorte totali d’uranio; il LEU iraniano raggiunge al momento il 3,5% d’arricchimento, ancora ben lontano dalla soglia del 20% oltre il quale si realizza l’uranio ad alto arricchimento (HEU); per realizzare armi atomiche minimamente efficienti servono grosse quantità di uranio altamente arricchito (anche 90%).

3. L’accordo Turchia-Brasile-Iràn ricalca una precedente bozza negoziale proposta proprio dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dell’ONU ed avallata dalle grandi potenze, USA compresi. Tale bozza d’accordo prevedeva che l’Iràn consegnasse i 1200 kg di LEU alla Russia: quest’ultima li avrebbe arricchiti al 19,5% e girati alla Francia, la quale li avrebbe incorporati in combustibile nucleare e consegnati all’Iràn. L’accordo era stato accettato con riserva da Tehrān: gl’Iraniani volevano infatti che lo scambio avvenisse simultaneamente e sul territorio iraniano, mentre le grandi potenze pretendevano che lo scambio fosse sequenziale (prima l’uranio iraniano alla Russia, e solo dopo il completamento del processo d’arricchimento il combustibile francese all’Iràn). La diffidenza iraniana derivava da precisi trascorsi negativi avuti con Parigi e Mosca.

Negli anni ‘70 l’Iràn investì circa 1 miliardo di dollari in Eurodif, un consorzio basato in Francia per l’arricchimento dell’uranio. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Parigi non solo si è rifiutata di consegnare l’uranio arricchito a Tehrān, ma per giunta si è tenuta i soldi pagati dagl’Iraniani. Con la Russia è successo qualcosa di simile. Nel dicembre 2005 fu siglato un contratto per la fornitura di missili terra-aria S-300 dalla Russia all’Iràn, ma da allora Mosca ha sempre addotto generiche e poco credibili scuse pur di non onorare l’impegno preso. Da qui il comprensibile timore dell’Iràn che, una volta consegnate le proprie scorte di LEU a Russia e Francia, questi due paesi possano rimangiarsi la parola data e non dare la contropartita pattuita.

Grazie alla mediazione di Lula da Silva, si è raggiunto l’accordo che in linea teorica permetterebbe di superare quest’ostacolo: agl’inaffidabili Russi e Francesi si sostituirebbero i Turchi, che godono della fiducia iraniana.

4. L’accordo a tre Iràn-Turchia-Brasile ha subito suscitato una reazione di difesa nel “concerto” delle grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, ossia quelle dotate di seggio permanente e diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: USA, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina. Questi cinque paesi hanno fin dall’inizio preso in mano la gestione del dossier nucleare iraniano, ammettendo al proprio fianco la sola Germania (il cosiddetto sistema “5+1”). L’iniziativa di Brasile e Turchia è stata immediatamente percepita come un’intrusione di nuove potenze emergenti nell’egemonia diplomatica delle potenze tradizionali. Non a caso, al Consiglio di Sicurezza i “cinque grandi” hanno fatto causa comune, votando all’unisono per sanzioni contro l’Iràn, trovando la scontata opposizione di Brasile e Turchia e l’astensione del piccolo Libano, conteso tra la sfera d’influenza siro-iraniana e quella saudita-nordamericana. La spaccatura dei “cinque grandi” in due fronti (gli Atlantici da una parte, Cina e Russia dall’altra) si è momentaneamente ricomposta per ribadire la propria posizione privilegiata nel panorama diplomatico internazionale. Non a caso Lula e Erdoğan hanno criticato la deliberazione del Consiglio di Sicurezza affermando che ne indebolisce l’autorità. Lo strapotere diplomatico dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale appare ormai anacronistico, ma le nuove grandi potenze emergenti (non solo Brasile e Turchia, ma anche Germania, India e Giappone) non sono ancora abbastanza solide ed unite per abbatterne l’egemonia. Tuttavia, pure i “cinque grandi” da anni lavorano ad una riforma del Consiglio di Sicurezza, palese segnale che loro stessi si sono accorti di come la sistemazione attuale sia insostenibile sul lungo periodo.

5. La Russia, che fino a pochi mesi fa appariva la principale protettrice dell’Iràn, aveva delle motivazioni aggiuntive per votare la nuova tornata di sanzioni. La prima è affermare il proprio ruolo di potenza mediatrice nel Vicino Oriente.

Durante la Guerra Fredda il Vicino Oriente era quella che i geopolitici moderni definiscono una shatterbelt, ossia un teatro regionale in cui le rivalità interne coinvolgono i competitori globali. Nello scontro tra paesi arabi e paesi non arabi (Israele, Turchia e Iràn) s’inserirono le due potenze mondiali, l’URSS coi primi e gli USA coi secondi. La posizione regionale di Mosca, che dovette essere costruita ex novo negli anni ‘50 e ‘60 (prima il Vicino Oriente era un condominio franco-anglosassone), s’indebolì tuttavia molto presto col passaggio dell’Egitto e di altri paesi arabi nel campo atlantico. Il crollo dell’URSS ha portato negli anni ‘90 ad una completa esclusione dei Russi dalla regione, tant’è vero che per oltre un decennio Washington è stata arbitra indiscussa degli equilibri locali.

Negli ultimi anni, tuttavia, il prestigio statunitense nel Vicino Oriente è stato minato da tre fattori: l’eccessiva accondiscendenza verso Israele, che non conferisce credibilità alcuna al preteso ruolo di “mediatore”; la maldestra decisione strategica di liquidare l’Iràq baathista aprendo la via all’influenza iraniana, che ha preoccupato i paesi arabi del Golfo; le difficoltà militari incontrate nel paese mesopotamico.

Il Cremlino cerca d’avvantaggiarsi delle difficoltà di Washington, ma non si sente pronto ad avviare un nuovo bipolarismo regionale, facendosi tutore d’una delle due fazioni che si vanno configurando nel Vicino Oriente (da un lato Iràn, Siria ed alcuni movimenti palestinesi, libanesi ed iracheni; dall’altro Israele ed i restanti paesi arabi, spalleggiati dagli USA). I Russi si sono perciò limitati a dare una discreta assistenza alla Siria e all’Iràn per ristabilire un maggiore equilibrio delle forze in campo, e quindi cercare d’inserirsi come potenza mediatrice neutrale. Ciò richiede però due cose: Mosca non deve apparire troppo schierata (e perciò accondiscendere di tanto in tanto alle richieste d’Israele); nessun’altra potenza deve cercare d’inserirsi nel medesimo ruolo equilibratore. Quest’ultimo fattore crea qualche incomprensione tra Mosca e Ankara, pur in un quadro di marcata distensione ed avvicinamento. Anche la Turchia, infatti, nel momento in cui sostiene Iràn e Siria cerca anche di porsi come protettrice dei paesi arabi, in un’ottica definita spesso “neo-ottomana”. Di fatto, Ankara vorrebbe diventare il polo regionale, che unisca tutti i paesi del Vicino Oriente sulla base dell’esclusione d’uno solo: Israele. Potrebbe trattarsi solo d’un caso, ma lo sgarbo russo alla Turchia rappresentato dalle sanzioni all’Iràn segue di poche settimane il più sanguinoso oltraggio sionista alla dirigenza anatolica, ossia l’attacco alla Freedom Flotilla.

Mosca deve fare attenzione a non discendere lungo una china pericolosa. L’amicizia turca è fondamentale per la geostrategia russa, perché il paese anatolico può, potenzialmente, minarne l’influenza nei Balcani, nel Mar Nero, nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ed anche in Europa se si pone come fulcro energetico alternativo. Al contrario, collaborando con esso Mosca può più facilmente proiettarsi nel Vicino Oriente. Fortunatamente per i Russi, al momento non ci sono segnali che indichino nulla più d’una contingente incomprensione coi Turchi, in un quadro di crescente amicizia e collaborazione.

6. D’altro canto, in Russia c’è sempre stato un acceso dibattito sulle relazioni da instaurare con l’Iràn. Mentre alcuni settori vorrebbero stringere una vera e propria alleanza in funzione anti-statunitense, altri – che per ora hanno il sopravvento – si mostrano più cauti. Per costoro la situazione attuale, di contrasto latente ma non bellico tra l’Iràn e il Patto Atlantico, è la più proficua per la Russia. E non solo perché permette ai Russi di concludere eccellenti contratti col paese persiano sfruttandone il semi-isolamento.

L’Iràn possiede le seconde maggiori riserve di gas naturali al mondo, seconde solo a quelle della Russia. Tuttavia, consuma quasi tutta la produzione per soddisfare il proprio fabbisogno interno, sicché è appena il ventinovesimo esportatore mondiale. Potenzialmente, un Iràn dotato di energia nucleare e non più ai ferri corti con gli Atlantici potrebbe cominciare ad esportare ingenti quantità di gas naturale in Europa, magari tramite il Nabucco (che parte da Erzurum, non molto distante dal confine iraniano), e quindi porsi come competitore della stessa Russia. Ma finché i rapporti tra queste due entità si mantengono tesi, Mosca non rischia nulla, e può invece cercare di convincere l’Iràn a vendere il gas all’India e quest’ultima ad acquistarlo, lasciando così intatta la leva energetica che la Russia possiede nei confronti dell’Europa.

7. Proprio l’energia è uno dei capisaldi della nuova politica estera russa. Mosca vuole mantenere ed anzi rinsaldare il proprio ruolo di perno energetico mondiale, o quanto meno eurasiatico. In tale scenario rientrano proprio gli accordi di cooperazione nucleare con l’India, la Turchia e l’Iràn. Come già riferito, l’accordo mediato da Lula non faceva altro che sostituire la Turchia alla Russia nel medesimo ruolo di fornitore del combustibile nucleare all’Iràn. Mosca non ha gradito e si è messa di traverso, facendo così capire chiaramente che qualsiasi accordo futuro dovrà coinvolgerla in prima persona.

8. Del resto, tra Russia e Iràn non è la fine della relazione. Il loro rapporto di collaborazione proseguirà, anche se – almeno nei prossimi mesi – con maggiore freddezza. I Russi promettono di aprire la centrale di Bushehr in agosto. Col voto favorevole alle sanzioni e col rifiuto di ammettere l’Iràn all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai hanno voluto chiarire a Tehrān di non accettare ruoli da comprimari, ma di voler condurre le danze essi stessi. Mosca vorrebbe instaurare con l’Iràn un rapporto “ineguale”, com’è quello con la Siria: da un lato il tutore, dall’altro il protetto. È comprensibile, ma i Russi non dovrebbero mai dimenticare che l’Iràn è una vera e propria potenza regionale emergente, di ben altra pasta rispetto alla Siria. Le relazioni con Tehrān andranno modulate su basi differenti, oppure finiranno con l’essere conflittuali, a tutto vantaggio di Washington che prenderebbe due piccioni con una fava, mettendo una contro l’altra due potenze rivali.

9. Va infine tenuto conto della probabilità di un “voto di scambio”. Il Cremlino avrà chiesto qualche contropartita alla Casa Bianca in cambio del proprio assenso alle sanzioni, e la più plausibile è un rallentamento del programma di scudo anti-missili balistici portato avanti dagli USA. Evidentemente Mosca non si sente ancora pronta ad ingaggiare una nuova corsa agli armamenti con Washington, e perciò cerca di rimandarla il più possibile con ogni mezzo.

10. La Cina, dal canto suo, aveva molte meno ragioni per avallare la nuova tornata di sanzioni, e proprio per tale motivo è stata l’ultima ad accettarle e, secondo alcune voci, molto più della Russia avrebbe lavorato per ammorbidirle. Probabilmente, Pechino ha voluto evitare l’isolamento e continuare a muoversi in accordo con Mosca sul dossier iraniano: rimanendo sola contro tutti la propria capacità contrattuale nella questione si sarebbe alquanto indebolita.

11. Pechino e Mosca hanno modellato le sanzioni di modo da non compromettere i propri interessi economici in Iràn. Gli USA ed alcuni paesi europei faranno il resto, varando sanzioni unilaterali aggiuntive. In tal modo, il peso economico di Cina e Russia in Iràn andrà rafforzandosi ulteriormente nei prossimi mesi, a maggiore detrimento di quel che resta degli operatori europei.

12. In definitiva, l’assenso russo e cinese alle nuove sanzioni contro l’Iràn s’inserisce nel complesso ed intricato quadro delle interazioni tra le grandi potenze, un gioco diplomatico che prevede ambiguità ed apparenti voltafaccia, soprattutto da parte di quei paesi non abbastanza forti da mostrarsi intransigenti su ogni questione, di grande o piccolo conto (una possibilità oggi appannaggio solo degli USA). Tuttavia, lo scenario di medio e lungo termine non è destinato a mutare. Russia e Cina operano per scalzare l’influenza statunitense anche dal Vicino Oriente, e l’accordo con gli Atlantici verrà meno già nelle prossime settimane, quando questi ultimi cercheranno di varare sanzioni unilaterali che colpiscano anche quelle compagnie di paesi terzi che fanno affari con Tehrān. Perciò Russia e Cina continueranno ad essere per l’Iràn, se non gli amici più sinceri, di sicuro quelli più utili e potenti.


* Daniele Scalea è redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010)


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