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vendredi, 27 avril 2012

L'Italia secondo Oswald Spengler

L'Italia secondo Oswald Spengler

Andrea Virga

Ex: http://andreavirga.blogspot.com/

Questo articolo che porta avanti una breve analisi della storia italiana in un'ottica spengleriana, è uscito ad aprile 2012 sul numero 2 della rivista Antarés, edita da Bietti e gratuitamente diffusa su web e su carta.

spengleroswald.gifIl titolo dell’articolo potrebbe apparire fuorviante: cosa c’entra con l’Italia il profeta germanico del Tramonto dell’Occidente, il teorico del socialismo prussiano, bollato come precursore del nazionalsocialismo, ma letto avidamente anche da Kissinger e Malcolm X?
A dire il vero, negli scritti di Oswald Spengler, manca un vero e proprio pensiero unitario, riguardo all’Italia, dal momento che altre erano le sue priorità, e tuttavia è possibile ricavare dalla sua opera non solo un giudizio coerente sulla storia italiana, ma anche chiavi di lettura che ci permettono di integrare quanto Spengler dice, sempre alla luce della sua Weltanschauung. Chiaramente, il giudizio spengleriano è problematico e richiede di essere discusso, ma nondimeno si rivela essere per certi versi molto acuto.
Ci si potrebbe inoltre chiedere se non si tratti di un mero esercizio filologico, quello di ricostruire questo giudizio.  Sembrerebbe vano chiedere ad un autore tedesco morto 75 anni fa considerazioni interessanti per noi italiani di oggi. Non è così: Oswald Spengler, così come altri autori che militarono in quell’area di pensiero denominata “rivoluzione conservatrice” – basti citare menti del calibro di Martin Heidegger, Carl Schmitt, Ernst Jünger, Karl Haushofer –, ha ancora molto da dire alle generazioni successive, purché si sappia considerare il suo pensiero nella giusta cornice storico-filosofica.
Sarebbe ora fin troppo lungo citare i vari estimatori di Spengler nel corso del XX secolo, per cui mi limiterò a far risaltare la recente ondata di traduzioni in Russia, o lo pseudonimo di “Spengler”, assunto dall’economista ebreo David Goldman per la sua decennale (2000 – 2009) rubrica su Asia Times Online. Per l’Italia, cito il giudizio del medievista Franco Cardini, secondo il quale «una rimeditazione delle vecchie pagine di Spengler s’impone come insospettabilmen­te attuale e fruttuosa» (1).
I popoli faustiani
Il testo spengleriano più interessante ai nostri fini è sicuramente “Prussianità e socialismo” (1919), in cui riprende la storia della Kultur faustiana (cioè occidentale) e del suo decadere a Zivilisation – già esposta dettagliatamente nella sua opera più famosa e importante, “Il tramonto dell’Occidente” –, individuando al suo interno lo sviluppo storico di cinque popoli principali, che si sono susseguiti nell’egemonia culturale e politica, dunque anche spirituale, all’interno della Kultur occidentale. Si tratta, nell’ordine, di Italiani, Spagnoli, Francesi, Inglesi, Prussiani, ciascuno dei quali ha avuto una sua fase di predominio, prima di esaurirsi. A loro volta, ognuno di questi aderisce ad una o all’altra del contrasto interno alla Kultur faustiana, ovvero popoli anarchici e popoli socialistici, discordanti a livello d’istinto sociale e politico.
Per inciso, va sottolineato che Spengler non intende il termine “popolo” (Volk) in senso etnonazionalista, come molti suoi contemporanei, ma come unità culturale e spirituale, originata da un processo storico e divenuta essa stessa agente la Storia. Per questo, le popolazioni “marginali” (come possono essere Irlandesi, Olandesi, Portoghesi)  non hanno sufficiente rilievo da costituire un popolo, in senso spengleriano, mentre viceversa all’interno di una medesima etnia possono sussistere componenti diversi.
Infatti, ai tempi in cui scriveva, secondo Spengler, non rimanevano ormai che due soli popoli, irrimediabilmente contrapposti tra loro in senso politico, sociale ed economico: Prussiani e Inglesi. All’animo prussiano corrisponderebbe il “socialismo prussiano”, vale a dire un capitalismo gerarchico, produttivo, nazionale, con una comunità d’intenti tra lavoratori e imprenditori (in altre parole il cosiddetto modello “renano”), mentre all’animo inglese corrisponderebbe il “capitalismo” propriamente detto (che sarebbe poi per Spengler la forma inglese di “socialismo”), ovvero finanziario, internazionale, concorrenziale. Si tratterebbe non solo quindi d’interessi contrastanti ma di una vera e propria divergenza d’istinti.
Con l’avvenuto passaggio dell’Occidente alla fase di Zivilisation, i popoli vanno per così dire dissolvendosi, lasciando posto a masse sradicate, per cui anche le varie anime italiana, spagnola, francese perdono d’importanza e di vigore, davanti al contrasto ultimo tra spirito prussiano e spirito inglese, a loro volta incarnati in veri e propri partiti politici ed economici. Come afferma Spengler: «La questione non può essere decisa tra due popoli. Oggi è penetrata all’interno di qualsiasi popolo […]. Oggi in ogni Paese ci sono un partito economico inglese ed uno prussiano.» (2). Questo è il quadro in cui si troverebbero le nazioni occidentali, secondo il filosofo tedesco.
La nascita degli Italiani
Il popolo italiano, d’istinto anarchico, è il primo ad emergere tra i popoli faustiani. Il suo sviluppo avviene in un periodo di transizione tra due fasi della Kultur occidentale: ovvero quella giovanile (il tardo Medioevo) e quella matura (il primo evo moderno), tra XV e XVI secolo. In questa fase è ancora problematico parlare di nazioni e popoli, assenti nel periodo gotico, e più autenticamente faustiano. Il Rinascimento italiano e poi il Rococò francese, dopo l’interruzione del Barocco spagnolo, segnano invece la sconfitta dell’universalismo “socialista” gotico da parte del particolarismo anarchico delle nazioni mediterranee (Francia e Italia), le più vicine, per eredità e paesaggio, al mondo classico, interpretato da Spengler come essenzialmente atomistico, particolaristico, corporeo, compiuto.
La città fulcro e simbolo del popolo italiano è, perciò, non Roma, ma Firenze, laddove c’era già un forte sostrato etrusco. Nei suoi frammenti sulla preistoria (3), Spengler individua, infatti, già nella cultura etrusca, la base anarchica e particolaristica del popolo italiano. Questi istinti, questi caratteri sono fisiognomicamente legati al paesaggio. Nella geofilosofia spengleriana, le ampie distese marine o selvose del Nord Europa gotico e faustiano si contrappongono così alle conchiuse isole e valli del Mediterraneo classico e anarchico. L’umanesimo poi, come ripresa di stilemi e forme classiche, si spiega con l’affinità d’istinto tra l’antichità classica e la modernità italiana.
Le repubbliche e i comuni mercantili italiani, con la loro politica legata ad interessi limitati e particolari, costituiscono e rappresentano quindi una vera e propria rivolta particolaristica contro lo spirito gotico e faustiano incarnato dalle pretese universalistiche di dominio cavalleresco o sacerdotale dell’Impero e della Chiesa. Per dirla con Spengler: «Nel XV secolo l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […] con la sua immane tendenza verso l’illimitato […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento, è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano.» (4).
Si potrebbe obiettare come già le Repubbliche Marinare di Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, Ragusa, oppure le casane astigiane o ancora le avventure delle dinastie italiane, come gli Aleramici o gli Altavilla, alle Crociate, avessero anticipato queste tendenze. Tuttavia, secondo Spengler, il momento decisivo per la nascita della nazione italiana e il passaggio alla fase matura della Kultur occidentale non giunge prima del Quattrocento, quando tutti gli elementi – il passaggio generale dal Comune alla Signoria, la riscoperta della classicità, la ricchezza mercantile, il tramonto dei progetti universali guelfi o ghibellini – si fondono nel Rinascimento fiorentino. Dante Alighieri, con la sua polemica contro le fazioni e gli intrighi fiorentini e italiani, ha ancora, per Spengler, un’anima profondamente gotica.
L’Italia moderna
Le osservazioni di Spengler su questo carattere anarchico e particolaristico del popolo italiano non riescono affatto nuove peraltro a chiunque conosca la storia italiana. Fino all’Ottocento, si trattò della storia di singoli Stati dinastici più o meno soggetti a potenze straniere o indipendenti, in lotta tra loro, ma senza tendenze unitarie. Con il Sacco di Roma del 1527, infatti, termina il periodo “italiano”, in favore di quello spagnolo, cui si deve attribuire il possente movimento religioso e politico della Controriforma – l’ultramontanismo clericale come “socialismo” spagnolo.  Ora possiamo andare avanti in questa analisi, lasciandoci alle spalle la lettera di Spengler, e applicando invece il suo metodo.
L’Italia è terreno di lotta tra Spagna e Francia – cui poi si aggiungeranno l’Austria asburgica (dunque spagnola) e l’Inghilterra (allo spirito inglese si deve attribuire, secondo Spengler, la stessa epopea napoleonica) –, condotta anche attraverso la preminenza dell’uno o dell’altro partito negli Stati italiani. Basti pensare all’esempio del Piemonte sabaudo, passato da una politica “francese” durante il regime madamista ad una politica “spagnola” influenzata dal feldmaresciallo imperiale Eugenio di Savoia, o ancora alla politica “inglese” rivelata a fine ‘700 dall’influenza dell’illuminismo giuridico nel Granducato di Toscana o dalla flotta britannica in appoggio ai Borbone di Napoli.
L’Unità d’Italia non ha però mutato questa situazione. La stessa unificazione nazionale è stata condotta, infatti, in nome d’interessi parziali e con resistenze interne piuttosto significative. Al particolarismo tutto italiano dei Savoia, intenzionati più ad espandere i propri domini che non a realizzare una vera integrazione nazionale, si sovrappongono gli interessi dei vari partiti stranieri, corrispondenti non più ad entità politiche, quanto a tendenze ideologiche: l’ultramontanismo “spagnolo” della Roma papale e della Vienna imperiale, il radicalismo democratico “francese” di Garibaldi e Mazzini, il liberalismo “inglese” di Napoleone III e Cavour.
Questo particolarismo e queste ristrettezze di vedute, sono restate una costante della politica estera dell’Italia unita e sovrana. Ancora, nella Prima Guerra Mondiale, emerge con chiarezza la differenza tra gli obiettivi di egemonia globale perseguiti da nazioni socialistiche come l’Inghilterra e la Germania prussiana, e invece gli interessi assai più limitati dell’Italia, frutto di uno spirito anarchico, concernenti sostanzialmente l’annessione di territori irredenti confinanti (Trento e Trieste, oppure Nizza e Savoia). Esattamente lo stesso vale per la Seconda: da una parte, il Lebensraum, dall’altra il «pugno di morti» per sedersi «al tavolo delle trattative».
L’Italia fascista
Tornando ora al giudizio espresso da Spengler, occorre vedere come egli vede invece l’Italia fascista, a sé contemporanea. A questo fine, dobbiamo rileggere un’altra importante opera del filosofo tedesco: “Anni della decisione” (5), e fare innanzitutto alcune precisazioni. Secondo Spengler, nell’epoca di Zivilisation in cui ormai ci troviamo, i partiti politici, rappresentanza ideologica e sociale d’interessi economici, tipica dell’epoca di transizione tra Kultur e Zivilisation, sono destinati ad essere superati e sostituiti da nuove figure di potere cesaristiche in lotta tra di loro per il potere su interi Stati. Il cesarismo riconduce così la politica a dominare l’economia, così come avvenuto già per l’Impero romano al termine della classicità.
Il fascismo italiano è però considerato da Spengler un fenomeno spurio, ancora legato a quest’epoca di transizione, lontano da quello che è il vero cesarismo: «Come nell’età dei Gracchi, anche nel fascismo si afferma il fenomeno dei due fronti – la sinistra della massa inorganica di città, e la destra della Nazione articolata in nessi organici, dai ceti rurali sino ai ceti dirigenti della società –, ma questa situazione risulta dominata dall’energia napoleonica di un individuo. Il contrasto non è né può essere risolto […]. Anche il fascismo rappresenta un momento di transizione. Si è sviluppato dalla massa di città come partito di massa, con chiassosa agitazione e discorsi di massa […]. E fino a quando nutre ambizioni di riconoscimenti “sociali”, e afferma di esistere per volontà del “lavoratore”, facendo proseliti in piazza e rendendosi “popolare”, una dittatura rimane una forma intermedia e provvisoria. Il Cesarismo dell’avvenire combatte solo per la potenza, per un Reich e contro qualsiasi genere del partito.» (6).
Inoltre, aggiunge (in nota) che «in un Paese meridionale, caratterizzato da un tipo di vita semitropicale e da una “razza” conforme – nonché da una industria debole, quindi da un proletariato non sviluppato –, il contrasto risulta privo di quell’asprezza che lo distingue invece nei Paesi settentrionali.» Vale a dire che la soluzione temporanea di questo contrasto tramite il fascismo è stata possibile per via delle circostanze culturali e sociali dell’Italia, e, in generale, (potremmo aggiungere) degli altri Paesi dell’Europa orientale e meridionale dove regimi parafascisti, o comunque autoritari, si sono affermati.
Oltre all’implicita polemica contro il nazionalsocialismo appena salito al potere, in questo passo si rivela una presa di posizione di Spengler, nei confronti del fascismo, decisamente reazionaria (al punto da accusare poco più avanti il fascismo di avere «la tendenza a rispettare poco la proprietà altrui»). Tuttavia, egli coglie subito, nel regime fascista, il contrasto tra frange di sinistra intellettuali, popolari e movimentistiche – che avversa – e frange di destra monarchiche, militari, clericali e borghesi, che esploderà nei momenti di crisi, come appunto hanno mostrato gli eventi del 25 luglio 1943, nonché la lunga storia del neofascismo dal 1945 ad oggi. Di fatto, il fascismo non ha saputo risolvere questo contrasto rilevato dal filosofo tedesco.
Viceversa, il punto di forza del fascismo italiano, ovvero quello che anticipa già il futuro, è la figura del suo capo. Contrariamente al disprezzo riservato ad Adolf Hitler e ai suoi seguaci, Spengler nutrì sempre una forte ammirazione per Benito Mussolini, tra l’altro ricambiata dall’interesse con cui il capo di governo fascista seguì e fece diffondere le proprie opere, contro il parere contrario di ampia parte del mondo intellettuale italiano, in primis Croce, al punto da fargli affermare che «Non si può pretendere che l’Italia di Farinacci possa apprezzare la cultura di Spengler» (7). Altrettanto lusinghiero è il giudizio del filosofo tedesco, che considera il Duce una figura cesaristica, al pari di Lenin e di Cecil Rhodes, dotata di un carattere prettamente italiano, ma al tempo stesso più affine al “partito” prussiano che a quello “inglese”:
«L’elemento che anticipa il futuro non è la realtà effettuale del fascismo in quanto partito, ma unicamente la figura del suo autore. Mussolini non è un leader di partito – anche se è stato leader di lavoratori –, ma il signore del proprio Paese […]. Mussolini è prima di tutto uno statista: freddo, scettico, realistico, diplomatico. In realtà, egli governa da solo. Vede tutto – la capacità più rara in un dominatore assoluto […]. Mussolini è uomo di carattere autoritario, come i condottieri del Rinascimento: in sé ha la scaltrezza meridionale della sua razza,  e perciò sa combinare nel modo più adeguato il teatro delle sue azioni  con il carattere dell’Italia – la patria dell’Opera – senza che ciò determini in lui da cui nemmeno Napoleone fu esente del tutto,  e che per esempio mandò in rovina Rienzi. Mussolini aveva ragione di richiamarsi al modello prussiano: egli è più vicino a Federico il Grande, e perfino al padre di questi, che non Napoleone, per tacere di esempi minori.» (8).
Ora, questo giudizio parrebbe ingeneroso nei confronti del fascismo italiano, la cui importanza e incisività egli riduce alla sola figura di Mussolini, tuttavia anche qui l’occhio di Spengler si rivela acuto. Non si può negare, infatti, che il fascismo abbia avuto un ruolo politico in Italia, soprattutto grazie al suo Duce, il quale si era imposto come figura carismatica sia nei confronti del suo partito, temperandone i contrasti, sia nei confronti della popolazione italiana, suscitandone gli entusiasmi. Anche presso altri osservatori esteri, poi, da Hitler a Churchill, è stato Mussolini a riscuotere la maggioranza dell’interesse e della stima nutrita verso il regime fascista. Infine, ancora oggi, tra la maggior parte dei nostalgici del fascismo, non sono tanto i programmi ideologici e politici, quanto la figura del Duce, elevata a livelli semi-mitici, a destare la maggior ammirazione. Basta pensare al gran numero di “pellegrini” che si reca tuttora a Predappio, caso del tutto unico tra i politici italiani contemporanei, oppure ai tanti italiani, non fascisti, pronti a sostenere che l’unico errore di Mussolini sia stata l’alleanza con Hitler e la guerra.
Si può quindi concordare in questo senso col giudizio spengleriano, vale a dire che il carattere “socialistico” del fascismo italiano – ovvero il suo costituire un partito “prussiano”, di contro al partito “inglese” degli ambienti antifascisti o della corte sabauda – sia stato tuttavia superficiale, e non sia riuscito a penetrare effettivamente la popolazione italiana, né in quelle che Spengler definisce “masse”, né in quelli che designa come “ceti organici”. Il consenso al regime, per quanto coinvolgente la stragrande maggioranza della popolazione, si è rivelato perciò meramente condizionale a uno stato di benessere ed efficienza, ma difficilmente sentito nell’intimo dagli italiani, come poi è stato mostrato dalla sua repentina caduta.
L’Italia contemporanea
La storia recente del nostro Paese, dalla caduta del fascismo ad oggi, parrebbe confermare ancora di più il giudizio di Spengler sull’istinto anarchico del popolo italiano, esemplificato dal celebre motto popolare “O Franza o Spagna, purché se magna”. A livello politico, il predominio di vari partiti, ciascuno espressione di precisi interessi e clientele, riflette chiaramente il particolarismo e l’egoismo degli italiani. Inoltre, terminata con Mussolini ogni tendenza “prussiana”, è rimasto padrone del campo, al di là della tendenza di fondo anarchica italiana, il partito “inglese”. Possiamo quindi sostenere che, in questa fase proto-cesaristica, ancora scossa dagli scontri tra fazioni e partiti politici, dell’Occidente, la storia italiana possa essere letta – stando alle chiavi di lettura spengleriane – come lo scontro tra queste due tendenze: la prima autoctona, anarchica e particolaristica (“italiana”), la seconda internazionale, socialistica e liberale (“inglese”), ma entrambe, a mio parere, negative.
La prima tendenza si è espressa non solo nel clientelismo democristiano e poi craxiano, con un gattopardesco conservatorismo in politica interna unito ad un minimo d’autonomia (ma forse sarebbe meglio dire: egoismo) in politica estera, ma anche nel populismo e nel sindacalismo della sinistra comunista e socialista, asserragliati in difesa di uno Stato sociale, spesso degenerato in assistenzialismo o parassitismo. Riemerge nei cortei della scuola e negli scioperi di categoria, tanto quanto nel localismo di sindaci e imprenditori leghisti; nelle proteste ecologiste delle comunità locali contro le “Grandi Opere”, così come nei favoritismi al proprio collegio elettorale da parte di deputati neoeletti o nell’evasione fiscale e nell’assistenzialismo alle imprese. In tutti questi casi, si palesa un’attenzione radicalmente volta al proprio interesse personale, e ai propri privilegi o comodità, prima ancora che al bene o all’interesse comune.
Dall’altra parte, la seconda tendenza si è espressa nell’ideologia liberalsocialista dell’azionismo, molto più influente a livello culturale che non a livello immediatamente politico, ma anche nel marxismo del PCI, specie a partire da Berlinguer – si ricordi che per Spengler, il marxismo altro non è che «il capitalismo della classe operaia» (9). È sempre questa tendenza che si manifesta in quei progetti politici e ideologici ad ampio respiro che guardano verso l’estero: l’europeismo, dal Manifesto di Ventotene fino all’imposizione parlamentare dei Trattati di Maastricht e Lisbona; il sovietismo di Togliatti e Longo e il maoismo dei giovani contestatori; fino all’atlantismo delle destre, divenuto patrimonio dopo il 1991 delle stesse sinistre. È sempre il partito “inglese”, infine, che è alla base degli sciagurati interventi militari in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, sulla base dell’ideologia universalista e liberale dei diritti umani.
In questi anni più recenti, risulta evidente come l'istinto anarchico italiano abbia trovato felicemente espressione nel nuovo pseudo-cesarismo berlusconiano. Silvio Berlusconi, a compenso della propria grave inferiorità politica e umana rispetto a Mussolini, può contare però su un istinto politico, del tutto in linea con il particolarismo italiano. Milioni d'italiani, di fatto, farebbero anch'essi le leggi ad personam e i festini privati. Questo spiega perché, nonostante la propria mediocrità individuale e una forte campagna mediatica nei suoi confronti da parte del mondo intellettuale e culturale, per tacere degli attacchi giudiziari, Berlusconi abbia goduto in questo ventennio di un consenso sconosciuto ai suoi colleghi e avversari politici.
D'altra parte, i suoi avversari, nella parabola PCI-PDS-DS-PD, agli occhi di Spengler, rappresentano indubbiamente l'istinto politico inglese, sia dal punto di vista ideologico, avendo fuso post-comunismo e liberalismo, sia dal punto di vista geopolitico, data la loro saldatura con le oligarchie finanziarie e politiche euroatlantiche ancora più stretta che non nel centrodestra. Ciò si era già visto, con la fine della Prima Repubblica, quando ai vecchi partiti, auspice un vero e proprio golpe giudiziario eterodiretto, erano subentrati nuovi governi tecnici, che avevano avviato un programma di privatizzazioni e liberalizzazioni, del tutto contrarie agli interessi nazionali. In questo stesso senso, l'attuale governo Monti, ispirato a logiche del tutto tecnocratiche e capitalistiche, realizzante un vero e proprio “socialismo delle banche”, costituisce il culmine del partito “inglese” in Italia.
Come si è visto, le chiavi di lettura e gli strumenti che ci suggerisce il filosofo della storia tedesco ci possono venire utili per capire, anche solo parzialmente, non solo la storia, ma anche l'attualità del nostro Paese. Se sarebbe superficiale prendere per oro colato questo tipo d'analisi, tuttavia non può essere neanche trascurata a cuor leggero, il che conferma ancora una volta la grandezza del pensiero di Spengler, e come rimanga anch'esso del tutto attuale.
NOTE
(1) F. Cardini, Spengler, Profeta del XXI secolo, in “Avvenire”, 1 settembre 2008.
(2) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1994, p. 41.
(3) O. Spengler, Albori della storia mondiale, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1996–, 3 voll.
(4) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 68.
(5) O. Spengler, Anni della decisione, a cura di C. Sandrelli, trad. di F. Freda, Ar, Padova 1994.
(6) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., p. 158.
(7) Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, introduzione di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1990, p. 594.
(8) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., pp. 159-160.

(9) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 93.

L’empire du capitalisme criminel

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L'Empire du mal a étendu ses tentacules jusqu'aux Etats même. La maffia impériale domine l'Occident capitaliste et tient solidement sous sa coupe les institutions communautaires.

L’empire du capitalisme criminel

Sergueï Gouk

Ex: http://mbm.hautetfort.com/               

L’ONU s’intéresse enfin au problème des revenus de la criminalité. Rien qu’en 2009, le chiffre d’affaire du crime aurait atteint dans le monde 2,1 trillions de dollars, une somme comparable au PIB de la Grande-Bretagne. Le commentateur de la Voix de la Russie, Serguei Gouk, poursuit sur ce thème.


Les origines des revenus de la criminalité sont connues de tous : drogues, armes, trafic d’êtres humains, rackets, vols, etc. Selon les données de Youri Fédotov, qui est à la tête du bureau de l’ONU de lutte contre les délits économiques, le seul trafic d’esclaves rapporte annuellement 32 milliards de dollars aux barons du crime. La population subit aussi un vol d’un autre genre, plus secret. Selon l’ONU, la corruption coûte aux habitants des seuls pays riches le tribut annuel de 40 milliards de dollars. L’ONU se limite au rôle de chroniqueur des évènements. Le député Boris Reznik, membre de la commission pour la sécurité et la lutte contre la corruption donne son point de vue :


« Je pense qu’il n’y a presque pas de mécanismes de lobby au sein de l’ONU. Ce sont les Etats qui doivent lutter contre la corruption, ils possèdent les instruments pour lutter contre la corruption sous toutes ses formes. Malheureusement, dans notre patrie nous ne faisons souvent qu’imiter la lutte contre la corruption ».


« Souvent les schémas de corruption impliquent plusieurs pays. Ces états doivent coordonner leurs efforts pour lutter contre la corruption, mais ils le font très mal. Tout le monde sait qu’il existe des clans entiers corrompus. Ils sont en Italie, en Espagne, en Russie, aux Amériques. Mais je ne sais pas si ces mafieux seront traduits en justice », continue Boris Reznik. Les pourris représentent une menace toute particulière. Ce n’est pas un secret qu’il existe tout un tas de filous qui sont des mandataires des structures d’Etat. Certaines personnes craignent que les criminels commencent à parler devant le juge et dévoilent quelques affaires sensibles.


Les criminels essaient d’investir leurs butins le plus loin et le plus sûrement du lieu du crime. Les dictateurs qui spolient leur population agissent aussi ainsi. La différence entre les premiers et les seconds n’est pas très grande. La Suisse est la planque de toutes les personnes louches. Ses banquiers ont volontiers accepté l’argent et les bijoux des Nazis. Ils ne dédaignent pas aujourd’hui les milliards des criminels. Les bandits sont aussi acceptés par les banquiers luxembourgeois, américains, saoudiens et même allemands. L’argent sale se déplace d’un compte à l’autre, avant de s’évanouir définitivement dans la nature.

Panorama Geopolítico: Tensiones y conflictos en un mundo convulsionado.

Panorama Geopolítico: Tensiones y conflictos en un mundo convulsionado.

Ex: http://disenso.org/

 

En esta ocasión entrevistamos al geopolitólogo argentino Carlos Pereyra Mele. Analista Político y especialista en Geopolítica Suramericana, el Prof. Pereyra Mele ha sido también Coautor del “Diccionario de Seguridad y Geopolítica latinoamericana” y de "Tropas Norteamericanas y la Geografía del saqueo". Su nombre figura ligado a numerosas instituciones y comités científicos tanto americanos como europeos. Desde www.dossiergeopolitico.com sigue el pulso de los acontecimientos con artículos e informaciones de notable relevancia geopolítica. Desde ya agradecemos al Prof. Pereyra Mele su colaboración.

ENTREVISTA

DISENSO: En las últimas semanas se han multiplicado los encuentros y las declaraciones entre los gobiernos de Israel y Estados Unidos en relación al programa nuclear iraní. Si bien es cierto que desde el año 1995 el Estado iraní puso en agenda la necesidad de consolidar la generación de energía nuclear, no fue hasta la victoria de Mahmud Ahmadineyad en el año 2005 que se sucedieron con cierta temeridad y periodicidad las amenazas de guerra por parte de Estados Unidos e Israel además de un buen número de sanciones promovidas por aquellos en el Consejo de Seguridad de las Naciones Unidas. Ante este escenario ¿por qué cree Ud. que un Irán nuclear irrita los ánimos de Estados Unidos, Israel y sus socios, y en qué sentido Irán representa una amenaza para ellos? Por otra parte, ¿Porqué teniendo suficiente poder de fuego, tecnología y recursos financieros se ven impedidos de ejecutar finalmente un ataque militar?

PEREYRA MELE: En el Caso Irán, lo que ocurre es que su poder regional va en aumento. En Occidente es poco conocida la realidad política y económica de esta potencia mediana. ¿Cuál es el rol de Irán que les preocupa? es su influencia en Irak (mayoría chiíta en la zona más rica en petróleo y el Líbano). Geopolíticamente además Irán controla el estrecho de Ormuz por donde pasa el 40% del crudo consumido por el mundo, y también es clave en la región conflictiva con la zona del Cáucaso, ya que allí se encuentran varios países de la ex URSS productores de Petróleo y Gas. Esa triangulación del Golfo Pérsico, Mar Caspio y el Mar Negro representa el 65% de las reservas mundiales.

Ante ello, y luego de observar que la Revolución Islámica de Jomeini no se derrumbó a pesar de la guerra con el Irak de Saddam Hussein, (donde gracias a la asistencia de las potencias occidentales el ex-dictador iraqui pudo atacar con gases venenosos a un Irán que sobrevivió, lección a ser tenida en cuenta para los nuevos agresores) Estados Unidos hace años que planifica atentados contra Irán. En este sentido resulta revelador el reciente informe de “Democracy Now” sobre como se preparan “fedayines” en EE.UU. para hacer asesinatos selectivos de especialistas nucleares iraníes. También se juega a la desestabilización de Irán a través de pseudo-revoluciones que se inician en las redes sociales como Facebook o twitter, pero que el gobierno iraní pudo sofocar.

El permanente discurso mediático occidental de la posibilidad de que Irán acceda a la creación de un dispositivo nuclear con fines bélicos, argumento que es negado hasta el hartazgo por Irán y por los propios organismos de inteligencia de occidente, es parte del discurso para atacar a Irán sostenido por los “halcones” de EE.UU. y de Israel, como también por las monarquías petroleras de la península arábiga para impedir que Irán tome el control geopolítico de la región y desestabilice así a sus corruptos regímenes que cuentan con la alianza estratégica de Londres y Washington.

En cuanto a lo que Ud. bien dice, la superioridad militar y tecnológica de EE.UU., la OTAN e Israel en la zona es formidable y, en principio dejaría el camino libre para la intervención militar, sin embargo la mejor explicación de porque no han atacado aún la expuso el ex jefe del Mossad: “Un ataque a Irán sin explorar todas las opciones disponibles no es la manera correcta de hacer las cosas”. […] “Bombardear a Irán es la cosa mas estúpida que había escuchado”. Ésta es la evaluación del ex jefe del Mossad, Meir Dagan, director de inteligencia de Israel, un equivalente al Jefe de la CIA. Hay que entender lo que dice Dagan en el sentido de que lo primero que se desestabilizaría bajo la hipótesis de guerra es el Golfo Pérsico y las tiránicas y corruptas monarquías petroleras que sostiene USA. Además, como no se contempla la ocupación del territorio iraní, esta nación herida en su orgullo sí buscaría obtener el arma nuclear por ahora no deseada por el régimen, por lo que el supuesto ataque solo serviría para atrasar el desarrollo nuclear pero, al mismo tiempo, Irán buscaría consolidar alianzas más profundas con Rusia y China, y allí Occidente perdería definitivamente el control del Centro de Eurasia, espacio clave para el control del Nuevo Orden Mundial.

DISENSO: El papel de China en la política internacional se ha visto incrementado en el último decenio. Su participación en diversos foros y polos de poder desconciertan a más de un observador. Se suele hacer referencia a China desde diversas focalizaciones tales como: “Chimérica” y BRICs sin olvidar su participación en el Consejo de Seguridad, en la OMC, su papel como garante de la seguridad de Corea del Norte, su reciente encuentro diplomático con Rusia – país con el que comparte la frontera más extensa del mapa y teniendo ambos situaciones demográficas asimétricas - y sus relaciones con Irán, así como su relación comercial y financiera con Estados Unidos y Europa. ¿Puede aventurarse hoy cuál es la posición geopolítica de China? ¿Tiene China en el tablero geopolítico mundial definidos a sus amigos y a sus enemigos o está ganando tiempo mientras desarrolla su propio sistema nacional y estabiliza su frente interno, aún hoy frágil y fragmentado? Finalmente, ¿Qué opinión le merece la intención de Henry Kissinger de crear una “Comunidad del Pacífico”, al mejor estilo OTAN, para involucrar los intereses regionales de China con los de Estados Unidos?

PEREYRA MELE: Lo primero que debemos analizar es la cultura milenaria China que no mide el tiempo en siglos sino en milenios, por lo cual las interpretaciones de los occidentales sobre China están siempre erradas por “fallas” culturales. El rol de potenciación económica dirigista de China y sus grandes logros, mas tarde o mas temprano chocaran con los intereses occidentales. En este sentido hay expertos económicos que especulan que para el 2010 China será la primera economía mundial. Ahora bien, como señalan los estrategas de estadounidenses, China no actuará como una potencia agresora sino que por la necesidad de cubrir sus necesidades básicas de recurso y materias primas chocará con los poderes establecidos que ya hoy están viviendo un período de decadencia. Para su geopolítica lo importante es asegurarse su “Continentalismo”, de allí el “Tratado de Shangai”, que le permitió materializar un bloque que pasó rápidamente de lo económico a lo militar, además de los recientes tratados estratégicos con Rusia, sin perder de vista su presencia en África y América del Sur que, en conjunto, busca impedir el “cerco geopolítico” de la “nueva doctrina militar” que en Enero de 2012 planteó el presidente Barak Obama, con el asesoramiento de Henry Kissinger, con la intención de concentrarse en Asia. Pero reitero, China no es Occidente, donde todo lo mide con la idea de consumo; allí la tríada occidental (EE.UU., U.E. Y Japón) tienen otro talón de Aquiles, pues el despertar del dragón revierte años de humillaciones occidentales y japonesas difíciles de olvidar.

DISENSO: Desde hace más de un año asistimos a una serie de conflictos que los medios han denominado “Primavera árabe”. Si bien por momentos gran parte de los reclamos parecen justos o razonables, no puede dejarse de vislumbrar el aspecto confuso y sospechoso que tiñe el proceso en cuestión al verse a todo tipo de “rebeldes” actuando en diversas formaciones “revolucionarias” en sintonía con los discursos e intereses que a diario salen a difundir el Departamento de Estado de los Estados Unidos, la Troika europea, la ONU, la OTAN y el Consejo de Cooperación para los Estados Árabes del Golfo. En este contexto nos interesa saber qué opina de la denominada primavera árabe así como de los acontecimientos que se están desarrollando en Siria.

PEREYRA MELE: La denominada “Primavera árabe” no es sino una nueva experimentación de manipulación política y social de masas que durante años han estado subyugadas por regímenes políticos dictatoriales cuasi-feudales. Éste modelo de manipulación había funcionado hasta cierto punto “eficazmente” con las denominadas “revoluciones de colores” que se aplicó a las naciones que en su momento formaron parte de la URSS. Con el paso del tiempo podemos concluir que esos movimientos políticos pseudo-revolucionarios manejados por la híperpotencia vencedora de 1991 fue solo la herramienta para imponer en esos pueblos el Nuevo Orden Mundial o, mejor dicho, el Neoliberalismo. El esquema se reitera en el Magreb: a la “sorpresa” de la reacción popular contra el tirano Ali en Túnez le siguió la revuelta de los jóvenes egipcios, todos manipulados por las grandes cadenas mass mediáticas que hoy ya han demostrado ser el brazo más importante de la denominada “Guerra de Baja Intensidad” iniciada por Occidente. Al día de hoy ya se puede ver las consecuencias de esas dos “revoluciones”: los militares siguen en el poder y las represiones a los pueblos que querían el cambio están igual como al principio de las revueltas, pero ahora ya sin cobertura mediática. Otros dos casos distintos de manipulación mediática son el de Libia primero y el Siria por estos días. El primero fue una clara intervención extranjera con mercenarios, entre los que hay que contar a Al Qaeda, como brazo armado islámico de la CIA, y las fuerzas especiales de la OTAN y del CCEAG (Consejo de Cooperación para los Estados Árabes del Golfo), en especial Qatar y Arabia Saudita, que destrozaron al país con mejor nivel de vida de toda África y lo han trasformado en un territorio donde bandas armadas negocian en forma independiente del CNT (Consejo Nacional de Transición) sus “arreglos” económicos con los países de la OTAN. Sintetizando, se siguen cometiendo masacres a diarios pero ahora hay un muro de silencio informático que impide conocer esta situación. Con Siria se ha intentado utilizar el mismo libreto: Pseudos opositores armados en Qatar, Turquía y Jordania que ingresan equipados por la OTAN para cometer crímenes de lesa humanidad contra la población civil, pero en este caso encontraron un ejercito más sólido y no tribal como el Libio pero, fundamentalmente, el Veto de Rusia y China en el Consejo de Seguridad de la ONU que por ahora desespera a los “amigos de la Siria libre” pues no permitieron la invasión militar ni los "quirúrgicos” ataques aéreos de la OTAN que no son otra cosa que sembrar el pánico entre civiles desarmados para abrir el camino a los invasores como pudo comprobarse en el caso Libio. Rusia y China saben que el ataque a Siria es el paso previo al ataque a Irán y que si se impide esta operación el ataque a la nación persa se complica más para Occidente.

DISENSO: Al analizar el desarrollo de los diversos conflictos que planteó la “Primavera árabe” no puede dejarse de atender el hecho de la multiplicación de conflictos que se configuran como guerras asimétricas y cómo fueron contemplados éste tipo de conflictos por la Doctrina Bush, el Patriot Act - extendida por el actual Presidente Obama - así como por el Estado de Israel, en especial desde la Guerra del Líbano. Más allá de justificaciones humanitarias, ¿El actual marco jurídico de las potencias involucradas no está hecho a la medida de los conflictos que vemos desarrollarse?

PEREYRA MELE: Occidente, o sea la Tríada ya comentada, ha establecido como nueva forma de las relaciones internacionales la utilización de la herramienta militar como el non plus ultra de la misma. La diplomacia se subordinó a los poderes militares y éstos a los complejos tecnológico-militares-financieros que son, por ahora, el único sector de la economía de USA y de la OTAN que funciona, pues lo demás huelga hacer comentarios al ver los planes de ajustes en Portugal, España, Italia, Francia o Grecia. El ultimo argumento impuesto es el del supuesto “derecho de proteger” que se arrogan unilateralmente las potencias occidentales, remozando el viejo concepto eurocéntrico de llevar la civilización a los pueblos colonizados. Para ello utilizan el expediente militar como la herramienta de “protección a los pueblos oprimidos”. Por supuesto que ese derecho a “proteger” de la OTAN solo se ejerce contra los países con recursos estratégicos de gran importancia geopolítica para la tríada.

DISENSO: Todos los días los medio de comunicación masiva bombardean con noticias acerca de la “crisis económica” europea. Por momentos parece haber dos interpretaciones de los hechos. Una que se concentra en la crisis fiscal, clamando ajustes para generar “confianza” en los mercados, y otra que acusa a los bancos, a diversas instituciones financieras, a la clase dirigente de ciertos estados europeos y a la “Troika” de llevar a cabo un “golpe de Estado financiero”. Nos interesa conocer su opinión al respecto así como también saber porqué cree Ud. que se ha naturalizado hablar de crisis europea y no más bien de crisis japonesa, habida cuenta del Tsunami que hace un año sufrió la tercera economía del mundo, mucho más relevante para las finanzas y el comercio mundial que la economía griega, española o portuguesa.

PEREYRA MELE: Esto que Ud. afirma es la realidad y demuestra como un sistema mediático hiperconcentrado, manejado por 5 agencias mundiales, administra la información que debemos conocer y, con ello, la manipulación mediática casi total que se lleva a cabo en el llamado Occidente. ¿Porqué no se habla del caso de Islandia, donde la población reaccionó más que con un cacerolazo contra el régimen político-financiero neoliberal, destituyendo a los responsables, impidiéndoles huir del País y sometiéndolos a juicio y, lo más destacable, es que Islandia desconoció los dictados de la Troika (FMI - Banco Central Europeo - Consejo de la Unión Europea-), llegando al día de hoy a una recuperación de los principales indicadores económicos. Es evidente que el accionar de las grandes cadenas informativas fue distinto para los otros países periféricos europeos. En los PIGS (Portugal, Italia, Grecia y España o “cerdos” como prefieren llamarlos peyorativamente los medios anglosajones) se está cambiando la cúpula gubernamental instaurando hombres por medio de “Golpes de Mercados”, disolviendo a los gobiernos elegidos por sus pueblos y sustituyéndolos por empleados del sistema financiero mundial o “tecnócratas”, como se les suele llamar, como lo son Mario Monti (Italia), Lucas Papademos (Grecia) o Mario Draghi (BCE).En todos los casos elegidos sin el voto popular, pero sí con el voto de los bancos y de los organismos financieros internacionales que hoy están aplicando los dictados económicos más ortodoxos para la salvar el sector.

DISENSO: Hace pocas semanas Vladimir Putin ganó con más del 60% las presidenciales en Rusia. Todos los medios de comunicación, así como diversas ONGs financiadas por potencias adversarias al partido Rusia Unida, cerraron filas junto con los partidos opositores – Comunistas y liberales a la cabeza – y las sedes diplomáticas de Estados Unidos, Gran Bretaña y la Unión Europea para desestimar dicha victoria en razón de un supuesto fraude. Es sabido que Putin significó un punto de inflexión en la historia de la Rusia Postsoviética. Hace pocos meses, antes de iniciarse la campaña presidencial y aún cumpliendo el rol de Primer Ministro, Vladimir Putin anunció formalmente su proyecto de conformar una “Unión Euroasiática” que devuelva a Rusia una posición de relevancia en el tablero geopolítico mundial. ¿Qué papel le asigna Ud. a Rusia y a su actual gobierno en los acontecimientos geopolíticos de los próximos años? ¿Tiene viabilidad una Unión Euroasiática?

PEREYRA MELE: Lo que Ud. me plantea acerca del funcionamiento del sistema de desacreditación y confusión sobre las elecciones en Rusia está relacionado con lo que venimos hablando sobre cómo, a través de los medios masivos, hoy en día la clave no es la información veraz sino la manipulación al servicios de los intereses económicos que componen sus paquete accionario, ya que todos los medios son sociedades anónimas y además concentrados (Diarios, Revistas, TV, Cable, telefonía celular e Internet), y donde está en juego el poder de sus empresas, realizan una tarea primero de confusión y luego de manipulación intentando cambiar descaradamente los resultados que no le son afectos a ellos.

Creo que la nueva etapa que inicia la presidencia de Vladimir Putin es la de la consolidación del nuevo rol de potencia, ya no regional, sino global nuevamente. Sus recientes declaraciones de establecer un gigantesco presupuesto militar para poner a Rusia al frente en todas las esferas que tiene que enfrentar demuestra la proyección geopolítica del nuevo rol ruso en Eurasia. También los acuerdo estratégicos con China de transferencia de tecnología aeroespacial y militar van en ese sentido; parafraseando a Henry Kissinger podemos decir: “hacia donde se inclinen China y Rusia en los próximos años se inclinara Asia” y ello determinará un nuevo escenario internacional multipolar con un Nuevo Orden, pero, hay que decirlo, aquí también esta el peligro la paz mundial, pues la trilateral – EE.UU., U.E. y Japón-, seguramente reaccionarán para impedir este Nuevo Orden que representa su declinación después de 500 años de dominio planetario. Por ello el siglo XXI no será pacifico.

DISENSO: Los caminos de la integración regional son tortuosos. Año tras año infinidad de declaraciones, anuncios, reuniones y cumbres, parecen delinear definitivamente la necesaria integración entre los pueblos hermanos, sin embargo faltan los estadistas con el suficiente compromiso para plantear una agenda genuina que termine en hechos y no en palabras. La UNASUR parece ser el camino más idóneo, sin embargo no aparecen con claridad Políticas de Estado que trasciendan gobiernos de turno con proyectos y compromisos políticos de largo aliento. ¿Qué hace falta para concretar la unidad regional? ¿Es productiva la proliferación de diversos foros de integración que operan al mismo tiempo tales como el de la CELAC – Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños - ?

PEREYRA MELE: Lo primero que tenemos que comprender es que la actual situación mundial es inédita si la pensamos a 10 años vista. En el 2001 parecía que el poder de superioridad absoluta de EE.UU. era imposible de revertir, que era el “fin de la historia” tal como lo anunciaban sus publicistas. Luego, en apenas 12 años podemos afirmar que esa idea “del siglo americano” que habían planteado los think tanks norteamericanos desde los 80´ y 90´, con el eje puesto en la unípolaridad, es hoy imposible de ser sostenida por sus creadores. En apenas 12 años se pasó a un mundo multipolar donde las potencias emergentes, el BRICS (Brasil, Rusia, India, China y Sudáfrica) rompieron con esa hegemonía y empezaron a establecer la idea de los nuevos bloques continentales, que son la etapas superiores a los estados nación, teniendo a estos como la base del sistema. En ese marco podemos entender lo que pasa hoy en día en Suramérica en particular; una sola vez anteriormente vivimos una situación similar y fue al fin de la II Guerra Mundial cuando América del Sur intentó establecer acuerdos de integración basados en el ABC (Argentina, brasil y Chile) durante los gobiernos de Perón, Vargas e Ibáñez del Campo, impedido por el accionar de Estados Unidos. Hoy la historia nos vuelve a dar otra oportunidad para romper con la “balcanización” que impuso el modelo neocolonial inglés primero, y luego Estados Unidos con su idea de “patio trasero”. El surgimiento de una potencia emergente como Brasil, que hoy es la locomotora económica de la región además de ser la 6° economía mundial, y que desde el Mercosur, con toda las dificultades del caso intenta crear un espacio regional ampliado que se consolida en la UNASUR, permite junto a la aparición de nuevos socios comerciales importantes en la región como lo son China, India y Rusia, el desplazamiento de la relación de dependencia económica y, por lo tanto política, con los EE.UU. Nos lleva a pensar que estamos ante un nuevo periodo de integración real y de potenciación del subcontinente más allá de los mismos dirigentes y de las corrientes ideológicas que tengan los mismos.

Los foros surgen o se anulan según el momento histórico. Estamos en la puerta de una nueva “Cumbre de las Américas”, que seguramente no tendrá la trascendencia que tenía antaño, y la presencia de EE.UU. y sus aliados será cuestionada, situación que parecía imposible hace apenas unos años atrás por mas lenguaje diplomático que se use. Otro Foro que tiende a languidecer es el de las “Cumbres Iberoamericanas”, pues ya no son útiles a la tríada el rol que tenia España y Portugal, que eran el puente de acceso y captura de las empresas públicas privatizadas por el neoliberalismo en Suramérica, al estar éstos países en crisis financieras gravísimas y, por lo tanto, no tienen nada para ofrecer a los países iberoamericanos.

El Foro de la UNASUR en cambio viene desarrollándose positivamente para los intereses regionales, pues ha logrado no poca cosa: evitar la disgregación de Bolivia, con el separatismo camba, y evitó un conflicto entre Ecuador, Colombia y Venezuela, en aquel momento en el cual Colombia bombardeó territorio ecuatoriano en el que se encontraban miembros de las FARC. Por otra parte, se profundiza el sistema de integración vial de toda América del Sur, uniendo regiones antes separadas y permitiendo realizar nuevos pasos bioceánico con los cuales se puede llegar a los mercados de Asia, donde está la nueva economía del mundo. También se está desarrollando un sistema de defensa regional para evitar los conflictos regionales con el “Consejo de Defensa Suramericano”, todo ello sin la injerencia ni la censura de los Estados Unidos. Estamos en un cambio realmente superador, que de consolidarse definitivamente, en especial por el eje Argentina, Brasil como el núcleo duro del mismo, viviremos una nueva historia iberoamericana.

DISENSO: Finalmente, con la intención de cerrar una entrevista de la que estamos muy agradecidos y creemos que servirá de mucho a nuestros lectores, queremos saber su opinión en torno al debate que surgió en las últimas semanas en nuestro país en torno a la cuestión Malvinas. ¿Cuál cree Ud. que es el valor simbólico y estratégico de las Islas para ser objeto de disputa entre el Reino Unido y la Argentina, y cuales deberían ser los argumentos para actualizar el rechazo a un enclave colonial como lo son actualmente las “Falkland Islands” teniendo en cuanta la vocación de ciertos grupos de reconocer a los kelpers como sujetos de derecho y no como colonos de una potencia enemiga?

PEREYRA MELE: El conflicto de las Islas Malvinas ya no es un litigio bilateral entre Argentina y Reino Unido, pues un enclave colonial con base militar de la OTAN pone en riesgo la seguridad del Continente Suramericano al controlar el paso bioceánico entre el Pacifico Sur y el Atlántico Sur y viceversa. Además afecta la proyección hacia la Antártida del nuestro país y de Suramérica en su conjunto. Si a eso le sumamos que el heredero de la corona inglesa, símbolo del Estado anglosajón, esta realizando ejercicios militares en el archipiélago malvinense, es una clara demostración del interés británico en la zona, pues a lo estratégico debemos sumarle la importancia económica (alimentos, minerales, etc.)

Otro tema no menor es que tenemos el diferendo más grande en la actualidad de posesión territorial, pues no solo esta el tema Malvinas sino todos los archipiélagos del Atlántico Sur (Georgias y Sándwich del Sur) más las Orcadas, que por la CONVEMAR (Convención de las Naciones Unidas sobre el Derecho de Mar) tenemos un litigo con Gran Bretaña por mas de 3.000.000 de Km2 de mar (La Pampa sumergida como bien se la denominó). Gran Bretaña unilateralmente separó el tema Malvinas de los otros archipiélagos, pues en Georgias y Sándwich no hay población sino bases militares y científicas de la potencia colonial, y allí el pseudo argumento de la autodeterminación de la población es inexistente, lo cual me lleva a decir algo acerca esto. En primer lugar no existen generaciones de pobladores ingleses que puedan considerarse como originarios, sino sólo como colonos traídos por la corona británica a un territorio usurpado por la fuerza, ya que no se les reconoció como ciudadanos británicos durante 150 años que van desde 1833 a 1983. Recién en ese año se les reconoce la ciudadanía inglesa a algunos habitantes de los llamados Kelpers, que si descontamos las fuerzas militares rotativas y los trabajadores temporarios en las islas, la población reconocida como británica es de 1 a 3 con la que habitan el territorio insular, por lo tanto la preocupación de algunos autollamados intelectuales argentinos por los derechos de esa población es realmente carente de todo sustento lógico. 

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Krantenkoppen - April 2012 (4)

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April 2012 (4)

GENKSE POLITIE GAAT 'DRONE' GEBRUIKEN.
"Haarscherpe beelden vanuit de lucht, zelfs 's nachts en dat zonder zelfs maar één agent te laten uitrukken. In Genk begint de politie er begin mei mee. Het korps neemt als eerste een 'drone' in gebruik, een onbemand helikoptertje waarop (...) camera's zijn gemonteerd. (...) De helikopter wordt niet ingezet om in de achtertuin van de inwoners te filmen, verzekert de burgemeester van Genk, Wim Dries. 'Wel om bij evenementen, files en rampen in te zetten'. (...) Het toestel kost (...) 36.000 euro in totaal."
http://www.hln.be/hln/nl/957/Belgie/article/detail/1426221/2012/04/20/Genkse-politie-gaat-drone-gebruiken.dhtml
 
 
WAT WEET TWITTER ALLEMAAL?
Doctoraatsstudente en media-onderzoekster Anne Helmond vroeg enkele weken geleden al haar persoonlijke gegevens op bij sociaalnetwerksite Twitter. Daar heeft ze immers volgens de Europese Privacyrichtlijn recht op. Een lijvig bestand van bijna 50 MB was het antwoord. Blijkbaar was Twitter in het bezit van veel meer dan enkel haar tweets. Ook heel wat logins, direct messages, meer dan 1000 e-mailadressen en 150 telefoonnummers stonden in het document. Die verzamelde Twitter toen ze op 'find friends' had geklikt. Dat bevestigde wat men al een paar maanden wist: Twitter doet meer dan je adresboek doorzoeken, het uploadt de gegevens ook naar servers. Dat veroorzaakte enkele maanden geleden al ophef, waarna Twitter 'verbetering' beloofde, maar de praktijken zelf veranderden niet."
http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=DMF20120419_027
 
 
BISSCHOPPEN VS: 'STOP EMBARGO CUBA'.
"De Amerikaanse bisschoppen sluiten zich aan bij de oproep van de paus voor de beëindiging van het Amerikaanse handelsembargo tegen Cuba. In een brief aan minister Hillary Clinton van Buitenlandse Zaken vraagt bisschop Richard Pates, namen...s de nationale bisschoppelijke Commissie Rechtvaardigheid en Vrede, aan de Amerikaanse regering om de beperkingen op te heffen. De regering moet tevens een versterkte dialoog en diplomatieke relaties tussen beide landen nastreven."
 http://www.rorate.com/nieuws/nws.php?id=70981
 
 
LE QATAR, L'ARABIE SAOUDITE, LES USA ET LES FRERES MUSUSLMANS DETERMINES A FAIRE CHUTER L'ALGERIE.
"Anna Marie Lisa, présidente honoraire du Sénat belge, accuse (...) ouvertement l'Arabie Saoudite «d’œuvrer à déstabiliser volontairement les frontières sud de l'Algérie à travers, notamment, le financement des salafistes et djihadistes. L'Algérie (...) paye pour avoir combattu le terrorisme durant les années 1990» (...). «Ceci, au moment où de l'argent, provenant de paiements de rançons, et autres, arrive, de la façon la plus illégale qui soit, aux terroristes sévissant dans la région» (...). «C'est une œuvre de déstabilisation qui cible l'Algérie, entretenue par des bailleurs de fonds saoudiens» (...).
Eric Denussy, directeur du Centre français de recherches sur le terrorisme, et ancien officier des services secrets, tire la sonnette d'alarme : «La situation est très grave. L'Algérie est considérée par le Qatar et l'Arabie Saoudite, et par l'alliance entre les USA et les Frères musulmans, comme le domino qui n'est pas tombé et qui doit tomber, coûte que coûte.» Il accuse l'Otan d'avoir reconfiguré le terrorisme dans la région du Sahel, avec l'intervention militaire engagée dans ce pays: «Certains pays ont même largué des armes, profitant, du coup aux terroristes du GIA, devenu GSPC puis AQMI, après que les terroristes eurent été défaits en Algérie et fui vers le Sud» (...). «Ils ne comprennent pas comment l'Algérie n'a pas chuté avec le printemps arabe et veulent déstabiliser ce pays coûte que coûte». (...)  Richard Labévière, journaliste, essayiste, spécialisé dans le terrorisme, abonde dans le même sens, accusant d'autres parties de tenter de déstabiliser l'Algérie et toute la région du Sahel."
http://www.letempsdz.com//content/view/73155/177/
 
 
FORMATION OF AL QAIDA: US-ISRAEL COLLABORATION.
"Wayne Madsen has pored through the CIA files and a complicated picture emerges of America’s and Israel’s top intelligence agencies, in cahoots with Saudi Arabia, establishing financial links and carve out intelligence programs to provide manpower and financial support to Bin Laden and his allies in Afghanistan. (…) These very elements later created the so-called ‘Al Qaeda’, which the late British Foreign Secretary Robin Cook described as nothing more than a ‘database’ of CIA front organizations, financial supporters and field operatives. (…)
Thanks largely to the CIA station chief in Riyadh in 1986-87, millions of dollars from the Saudi government (…) and wealthy Saudi businessmen were funneled to the most radical leader of the Afghan rebels, Abdul Rasul Sayyaf, for whom militant southern Philippines Muslim rebels named their organization, the Abu Sayyaf group. Accounting for only 2% of the mujahidin guerrillas in (…) Afghanistan, Sayyaf’s group began receiving hundreds of millions of dollars and thousands of recruits from other countries, more than other 6 major mujahidin groups fighting the Soviets. The tilt to Sayyaf was a result of the intercession of Pakistan’s Inter-Services Intelligence, Saudi intelligence, the CIA and Mossad. Another key Saudi intermediary was Saudi Prince Bandar bin Sultan, who the Bush family has dubbed ‘Bandar Bush’ because of his close links to the Bushes, and who was the Saudi ambassador to the U.S. on 9/11. (…) Eventually, with the urging of Salem Bin Laden and his older brother Osama, the CIA gave the green light for Sayyaf to bring into Afghanistan a dedicated group of Arab fighters. (…)
Although the roles of Oliver North, National Security Adviser Robert McFarlane, Iranian Jewish interlocutor and con-artist Manucher Ghorbanifar in using the Israelis as a pass-through for weapons transfers to the Iranians are well-known, not much has been reported on Israel’s role in providing financial and military assistance to Bin Laden’s and Sayyaf’s mujahidin forces (…) in Afghanistan during the war with the Soviets."
http://theintelhub.com/2010/07/31/formation-of-al-qaida-us-israel-collaboration/

jeudi, 26 avril 2012

Jonathan Bowden, RIP

Jonathan Bowden, RIP


Ex: http://www.alternativeright.com/

This morning, I was devastated to learn of the death of Jonathan Bowden, the orator, artist, novelist, and writer.  Life on this earth is fleeting, and I am grateful for the fact that over the past three months, I collaborated with Jonathan on a series of podcasts that covered many of his intellectual passions, from  Nietzsche to the New Right to Spengler to Marx.

Around three weeks ago, we were planning an additional one on Ernst Jünger, when I suddenly lost touch with Jonathan.  Knowing he had suffered a breakdown in the past, I felt a definite angst as I would ring his number and receive no answer... In the end, my worst fears were realized.  According to a person close to him, who relayed the news to me, Jonathan succumbed to a cardiac arrest while at his home in Berkshire.

I first encountered Jonathan in 2009 at a conference at which he was the keynote speaker. We met over lunch on the day before he was to talk, and my impression at the time was of a man who was soft-spoken,  professorial, reserved, and a maybe a bit queer. He wore a necklace with a Life Rune etched into a wooden medallion, which gave hints of what was to come...

When Jonathan’s turn at the podium came the next evening, he strode confidently to the stage and announced, in a resonate and booming Heldentenor, that he would not be needing a microphone. Immediately, everyone in the room was on the edge of his seat. What followed was not a talk on a particular topic or issue, but instead a expression of a worldview—or perhaps a channelling of the life-force or the evoking of a demonic spirit.  As Louis Andrews noted afterwards, Jonathan Bowden’s doesn’t give talks or speeches; he gives orations. Perhaps a better descriptor would be performances.

In our age of CGI, virtual reality, and YouTube, it’s easy to forget the power of presence—of experiencing a great performer in person. Experiencing Bowden in 2009 has, for everyone who was there, been much like experiencing Maria Callas singing a Verdi heroine or an address by Mussolini from a Roman balcony. 

And while the first oration I heard was on nothing less than everything—the spiritual, geopolitical, and social condition of Western man in the 21st century—Jonathan could also speak on philosophic and historical topics with a scholar’s discernment and breadth of knowledge, as evidenced by our podcasts.  Indeed, I know of no other person who could combine Bowden’s gifts as a performer with a familiarity with the Western canon one would expect only in a monk.

When I eventually read Jonathan’s novels, I found them to be on the level of Finnegan’s Wake in terms of esoteric, cryptic complexity. On the other hand, in his public engagements, Jonathan could boil down to an essence the thought of difficult thinkers, such as Heidegger and Evola, and present their ideas in ways that were useful to nationalists.  

Though the two of us would have personal conversations, I never felt that I actually knew Jonathan, owing, no doubt, to his distant nature and the fact that I was always intimidated by the fire-breather I had encountered some two years earlier. Nevertheless, Jonathan deeply affected my thinking and I treasure our friendship, as short-lived and limited as it was.

I hope it is not an insult to Jonathan Bowden’s memory to say that he always lived on the edge of madness. This was the source of his power, and it seems to have predestinated that he would have all-too short a life.

Jonathan cannot be replaced, and his words will continue to inspire us. But as we weep, Valhalla rejoices.

 
Richard Spencer

Richard Spencer

A former assistant editor at The American Conservative and executive editor at Taki's Magazine (takimag.com), Richard B. Spencer is the founder and co-editor of AlternativeRight.com

Remembering Jonathan Bowden

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Remembering Jonathan Bowden

By Greg Johnson

http://www.counter-currents.com/

The word on the web is that Jonathan Bowden, the formidable British right-wing orator, modernist painter, and surrealist novelist, is dead of a heart attack at age 49.

I hope instead that Jonathan is just the victim of a terrible online prank. (Lies have been spread about him before.) Or maybe he is playing a prank of his own. If anybody I know could fake his own death, it is Jonathan. I hope he is reading his obituaries right now . . . and roaring with laughter.

I first met Jonathan in Atlanta in October of 2009 while I was the Editor of The Occidental Quarterly. I was organizing a private gathering for TOQ writers and supporters, and I wanted Michael Walker to give the keynote address.

Unfortunately, the final decision fell to somebody who had been completely upstaged by Walker at the 2008 American Renaissance Conference. So, perhaps on the assumption that one Englishman should be as good as another, I was informed that the speaker would be Jonathan Bowden, someone I had never even heard of, much less heard speak. But I was assured that he had an excellent reputation as an orator.

I looked at Bowden’s website and had a good chuckle, imagining how his Nietzscheanism, paganism, and aggressive aesthetic modernism would play in the Bible Belt.

I liked Jonathan’s paintings enough to end up buying two of them and commissioning two more. But I thought his works of fiction were unreadable. The essays he had online, moreover, seemed half-baked. (He was later to write much better ones for Counter-Currents, but it was never his forte.) At the time, I had not seen his YouTube videos, and I foolishly inferred from his writings that he could not be much of a speaker — which, I suspected, was the real reason he had been invited.

The afternoon before the meeting, I received a panicked call from Jonathan. He was at the Atlanta Airport. The individual who was supposed to pick him up was more than 40 minutes late. Jonathan’s mobile phone did not work in the US, and the tardy party was not answering his, so he had no idea what to do. I gave Jonathan my address and told him to jump in a cab.

About 40 minutes later, Jonathan arrived in good cheer. He was wearing a rumpled black suit and tie. Around his neck was a wooden pendant inscribed with an Odal rune. He asked me how I thought it would go over in Atlanta. I suggested that if anyone asks, he simply declare it to be the sign of the fish.

He wore thick spectacles, but when he wanted to read something, he would study it under a magnifying glass he drew from his pocket.

[2]

Jonathan Bowden, "Adolf and Leni"

When he spoke, he gestured dramatically with a long, thin cardboard box labeled “Samurai Sword – Made in Taiwan.” I joked that it must have been a hit at airport security. Then he opened it up, and, with a flourish, unrolled two watercolors that I had purchased from him, “Adolf and Leni” and “Savitri Diva.”

“This is going to be interesting,” I thought.

What impressed me most about Jonathan was not his diverting eccentricity, but his intelligence, vast reading, and devastating wit.

On his own, he could be quiet and pensive. His face would take on an impassive mask-like quality, enlivened only by a penetrating, sometimes unsettling gaze. But when Jonathan had the right kind of audience, he would come alive. He had an endless supply of interesting stories, often told with hilarious impressions. He was one of the funniest, most brilliant, and most intellectually stimulating people I have ever known.

When the night of Jonathan’s speech came, I asked him what he was going to talk about. He said that he had no idea. My stomach tightened. “This is going to be really interesting,” I thought.

Mike Polignano has already told the story of how when Jonathan took the stage, he swept aside the shrieky, malfunctioning microphone and filled a ballroom with his unamplified voice, speaking extemporaneously and fluently for two hours. Jonathan’s speech that night was quite simply the greatest speech I had ever heard. He upstaged all of creation that day.

Naturally, he was not invited back. (He was invited to speak at American Renaissance and the National Policy Institute, although he cancelled both times.)

When Mike Polignano and I started Counter-Currents in June of 2010, Jonathan was very supportive. He wrote 27 original articles and reviews [3] for Counter-Currents. (He also wrote eight more pieces for Counter-Currents under a pseudonym.) He told me that he wrote most of these pieces from memory. He would go to a local public library where he could use a computer for an hour at a time, and he would write an essay as if it were a timed university examination. We discussed publishing a collection of essays on fascistic themes in popular literature to be entitled Pulp Fascism.

There were periods when Jonathan wrote for us weekly, but then he would turn his attention to literary projects. Many of these were available as free E-books on his website, which is no longer online. If anybody has copies of these E-books, we will be glad to make them available from Counter-Currents.

The last thing Jonathan wrote for us, just three days before his reported death on March 29, was a blurb for Kerry Bolton’s Artists of the Right.

The last time I saw Jonathan was in February of this year. We flew him out to San Francisco to speak at a gathering of Counter-Currents writers and friends. Jonathan was in high spirits during his visit to the Bay Area. He was bursting with ideas, plans, and funny stories. His speech, “Western Civilization Bites Back,” is available here [4] in recorded and transcribed form. I also recorded a two hour interview with him about art and culture, which I will make available if it can be recovered from a damaged flash drive.

[5]

Jonathan Bowden, "Medusa Now Ventrix"

He brought me a third painting, “Medusa Now Ventrix,” and accepted a commission to do a fourth (to be entitled “Meat in the Walls”). (He charged me mere tokens — “friend prices.”)

Jonathan Bowden was an enormous asset to our cause, and we at Counter-Currents did everything we could to encourage and aid him in making the most of his talents. The same donor who made possible the trip also allowed us to buy Jonathan a new laptop to make it easier for him to write, and Mike Polignano tutored him on how to use it. We also gave him a podcasting kit, hoping that he would start doing weekly shows.

But his time ran out.

Forty-nine years is not enough time. But we can take some solace in the fact that Jonathan spent his time well: he lived, created, and spoke in the light of the truth as he saw it. That is a fuller, richer life than 99 years of lies, compromise, cowardice, and conventionality.

When I heard that Jonathan had died, I remarked to a friend, “If it is true, we all have to work harder.” But another friend pointed out that this presupposed that we could take Jonathan’s place, and we can’t. He is an irreplaceable talent. All we can do is rejoice in the time he spent with us, and make the most of the time we have remaining. Forty-nine isn’t that far off for a lot of us. We have a world to win. Let’s make every moment count.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2012/04/bowden7.jpg

[2] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2011/01/adolf_and_leni.jpg

[3] 27 original articles and reviews: http://www.counter-currents.com/author/jbowden//

[4] here: http://www.counter-currents.com/2012/03/jonathan-bowdens-western-civilization-bites-back/

[5] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2010/08/bowden4.jpg

Le gouvernement de Bagdad se rapproche de l’Iran

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Ferdinando CALDA:

Le gouvernement de Bagdad se rapproche de l’Iran

 

Le pouvoir exécutif irakien d’Al-Maliki s’éloigne de plus en plus des Pays du Golfe, notamment dans la question syrienne

 

Les derniers événements qui agitent le Proche Orient, surtout la question syrienne et le nucléaire iranien, mettent en lumière un fait nouveau: l’éloignement graduel entre l’Irak et les Pays arabes du Golfe, concomitant d’un rapprochement Irak/Iran. Cette tendance, observable, a pour conséquence visible la violence accrue marquant le conflit opposant Chiites et Sunnites (plus les Kurdes) à l’intérieur même de l’Irak et dans toute la région. Dans cette optique, il est bien naturel que le premier ministre irakien Nouri Al-Maliki (qui est Chiite) se rapproche de la République Islamique d’Iran, qui, elle aussi, est chiite et ennemie des Arabes sunnites du Golfe, surtout de l’Arabie Saoudite.

 

Pourtant, une alliance hypothétique entre Bagdad et Téhéran, dans une optique anti-saoudienne, apparaît à plus d’un observateur comme a-typique, surtout si l’on tient compte de l’histoire récente. Beaucoup de citoyens, dans les deux pays, se souviennent de la guerre sanguinaire qui a opposé l’Irak de Saddam Hussein (où les membres du parti Baath au pouvoir étaient généralement sunnites) à l’Iran islamiste-chiite dans les années 80 du 20ème siècle. Saddam Hussein, dans ce conflit, avait bénéficié de l’appui des Pays arabes-sunnites du Golfe. Dans le “nouvel” Irak, toutefois, les Chiites ont acquis un poids politique considérable, notamment suite à la “dé-baathisation” imposée par les Américains.

 

Depuis, la distance entre Bagdad et Téhéran s’est réduite. On l’a vu lors de la réunion de la Ligue Arabe qui s’est tenue fin mars 2012 à Bagdad. A cette occasion, Al-Maliki a répété qu’il n’était pas d’accord avec les formes d’ingérence dans les affaires intérieures de la Syrie, blâmant du même coup la décision des Pays du Golfe d’appuyer les milices armées hostiles à Al-Assad. Cette position d’Al-Maliki est partagée par les Iraniens.

 

Ce n’est pas un hasard non plus si ce sommet de Bagdad a été boycotté par de nombreux pays arabes. Des vingt-deux membres de l’organisation, seuls huit étaient présents à Bagdad: le Soudan, la Tunisie, la Palestine, les Comores, la Libye, le Liban et le Koweit. Le Qatar et l’Arabie Saoudite avaient envoyé des émissaires. Le premier ministre du Qatar, le Cheikh Hamad Bin Yassem Al Thani a justifié le profil bas adopté par son pays lors de ce sommet en le qualifiant de protestation contre la marginalisation des Sunnites d’Irak, perpétrée par le nouveau régime de Bagdad.

 

Un autre fait a contribué à augmenter la tension entre l’Irak et le Qatar: la visite, ces jours-ci, du vice-président sunnite Tarek Al-Hashemi à Doha, capitale qatarie. Al-Hashemi est recherché pour terrorisme par le gouvernement de Bagdad et s’est réfugié dans le Kurdistan irakien. Non seulement le gouvernement du Qatar a refusé catégoriquement de répondre à la requête des Irakiens d’extrader le vice-président fugitif mais ce dernier a cru bon, après sa visite à Doha, de prendre l’avion pour Riad, rendant Al-Maliki encore plus furieux. Le gouvernement de Bagdad est donc à couteaux tirés avec ses voisins arabes-sunnites du Golfe et tend de plus en plus à prendre l’Iran comme interlocuteur privilégié.

 

Ce glissement vers l’Iran est aussi prouvé par la disponibilité des Irakiens à accueillir les négociations entre la République islamique d’Iran et le groupe “5 + 1” (Etats-Unis, Grande-Bretagne, France, Russie, Chine et Allemagne) qui doivent porter sur le nucléaire iranien. En devenant le médiateur de référence entre Téhéran et l’Occident dans une question aussi délicate, l’Irak pourrait accroître son influence dans la région, ce qui permettrait au gouvernement d’Al-Maliki de mieux gérer les “frondes” intérieures qui déchirent son pays: celles des Sunnites et des Kurdes.

 

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu )

Article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 avril 2012 – http://rinascita.eu/ .

La Turquie a perdu la confiance de l’Iran

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Ferdinando CALDA:

La Turquie a perdu la confiance de l’Iran

 

Les dernières démarches d’Ankara à l’encontre de la Syrie et sur le pétrole ont fait qu’Istanbul n’a pas été choisie comme siège des pourparlers “5 + 1”

 

“La date et le lieu des prochains pourparlers peuvent certes être importants mais le contenu de ces négociations sera encore plus significatif”. Cette phrase, que l’on pourrait prendre pour une lapalissade, a été prononcée par le ministre des affaires étrangères iranien, Ali Akbar Salehi, mais n’est vraie que pour partie. La preuve? Elle nous est fournie par la délicate question de fixer le prochain siège des pouparlers entre l’Iran et le groupe “5 + 1” (Etats-Unis, Grande-Bretagne, France, Russie, Chine, Allemagne), qui devait se tenir les 13 et 14 avril 2012.

 

Là, nous avons encore un mystère. Au départ, on semblait avoir désigné Istanbul pour site de ces nouveaux pourparlers, surtout après la visite, début avril, du premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan à Téhéran. La grande ville turque avait accueilli la rencontre précédente, au début de l’année 2011. Le gouvernement turc était tout prêt à accueillir le nouveau sommet et Salehi lui-même avait indiqué Istanbul comme “le meilleur lieu pour la reprise des négociations”.

 

Quelques jours plus tard, la secrétaire d’Etat Hillary Clinton avait annoncé publiquement que les pourparlers se tiendraient à Istanbul. Très vite, les démentis se sont succédé. De Moscou, de Bruxelles et de Téhéran sont arrivées les notes diplomatiques signalant que le siège des pourparlers n’avait pas encore été fixé. Des sources iraniennes et irakiennes ont suggéré Bagdad comme alternative possible à Istanbul. Le ministre des affaires étrangères irakien, Hoshiyar Zebari a déclaré début avril 2012 avoir reçu une requête en ce sens, provenant d’une délégation iranienne. Il s’est dit “prêt à accueillir ce sommet”. D’autres sources ont émis l’hypothèse que la Syrie pourrait être le pays-hôte.

 

De toutes les façons, Istanbul semble avoir été écartée définitivement. “La Turquie est désormais exclue des intentions du Parlement et du gouvernement (iraniens)”, a déclaré, pour sa part, le chef de la commission des affaires étrangères du Majlis (le Parlement iranien), Allaeddine Bouroujerdi à la télévision iranienne en langue arabe, Al-Alam, confirmant du même coup la proposition faite aux Irakiens.

 

Tout cela s’est passé après la visite d’Erdogan en Iran —où le premier ministre turc avait défendu bec et ongles le droit des Iraniens à développer un nucléaire civil. Qu’est-ce qui a fait qu’Istanbul, aux yeux des Iraniens, est passé du statut de siège privilégié à celui d’éventualité à éviter?

 

A coup sûr, les divergences sur la question syrienne ont joué. Téhéran défend la légitimité du régime d’Al-Assad tandis qu’Ankara cherche à exercer un contrôle sur les Kurdes de Syrie et s’est rangé sans nuance du côté des rebelles. Dans la première décade d’avril, les soi-disant “Amis de la Syrie” se sont réunis à Istanbul. Au cours de cette réunion, les “amis”, avec, en tête, les Etats-Unis, l’Arabie saoudite et le Qatar, ont décidé de fournir de l’argent et des équipements aux miliciens de l’opposition syrienne qui combattent l’armée légale de Damas. Cette initiative ne fait nullement l’unanimité: la Russie, la Chine, l’Irak et bien sûr l’Iran, ne partagent pas ce point de vue. Et aucun de ces pays n’a participé à cette réunion.

 

Mais les tiraillements entre la Turquie et la République Islamique d’Iran ne se limitent pas à cela. Quelques heures à peine après le départ d’Erdogan de Téhéran, où il n’avait rencontré que très brièvement le président Ahmadinedjad et l’ayatollah Ali Khamenei, la TUPRAS, soit la plus importante société turque de raffinement du pétrole, a annoncé une réduction de 20% dans ses importations d’hydrocarbures iraniens. Cette option est d’autant plus étonnante quand on se rappelle que la Turquie s’était vantée d’entretenir des échanges commerciaux importants avec l’Iran, dans la mesure où elle dépendait pour un bon tiers de ses besoins énergétiques du brut iranien. C’est là une décision que les Iraniens, non sans raison, ont interprété comme une soumission inacceptable aux diktats de Washington qui, depuis longtemps déjà, fait pression sur ses alliés pour qu’ils diminuent leurs importations de pétrole en provenance de l’Iran. “La Turquie est l’esclave des Etats-Unis et d’Israël et le gouvernement turc finira très bientôt par être haï par ses propres citoyens, s’il continue sur cette voie”, a dit un ancien membre de la Commission des affaires étrangères du Parlement iranien, Esmaeel Kosari.

 

En fin de compte, en prenant cette initiative de réduire ses importations de brut iranien, la Turquie risque de perdre la confiance de l’Iran qui avait pourtant été jusqu’à faire sembler d’ignorer l’appartenance turque à l’OTAN et l’affaire du bouclier anti-missiles; la Turquie perd ainsi la possibilité, qu’elle avait fait entrevoir, de devenir la puissance médiatrice entre l’Iran et les Etats-Unis, notamment dans la question fort délicate du nucléaire. Dans un passé très récent, cette position d’éventuelle médiatrice avait donné au gouvernement turc un prestige discret dans la région et au-delà. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas de voir l’Irak tenter de prendre la place de la Turquie comme puissance médiatrice entre l’Iran et l’Occident.

 

Ferdinando CALDA.

( f.calda@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 avril 2012; http://www.rinascita.eu ).

Platon, encore et toujours

Platon, encore et toujours

par Claude BOURRINET

Est-il une époque dans laquelle la possibilité d’une prise de distance ait été si malaisée, presque iplatocooperativeindividualismorg.jpgmpossible, et pour beaucoup improbable ? Pourtant, les monuments écrits laissent entrevoir des situations que l’on pourrait nommer, au risque de l’anachronisme, « totalitaires », où non seulement l’on était sommé de prendre position, mais aussi de participer, de manifester son adhésion passivement ou activement.

L’Athènes antique, l’Empire byzantin, l’Europe médiévale, l’Empire omeyyade, et pour tout dire la plupart des systèmes socio-politiques, de la Chine à la pointe de l’Eurasie, et sans doute aussi dans l’Amérique précolombienne ou sur les îles étroites du Pacifique, les hommes se sont définis par rapport à un tout qui les englobait, et auquel ils devaient s’aliéner, c’est-à-dire abandonner une part plus ou moins grande de leur liberté.

S’il n’est pas facile de définir ce qu’est cette dernière, il l’est beaucoup plus de désigner les forces d’enrégimentement, pour peu justement qu’on en soit assez délivré pour pouvoir les percevoir. C’est d’ailleurs peut-être justement là un début de définition de ce que serait la « liberté », qui est avant tout une possibilité de voir, et donc de s’extraire un minimum pour acquérir le champ nécessaire de la perception.

Si nous survolons les siècles, nous constatons que la plupart des hommes sont « jetés » dans une situation, qu’ils n’ont certes pas choisie, parce que la naissance même les y a mis. Le fait brut des premières empreintes de la petite enfance, le visage maternel, les sons qui nous pénètrent, la structuration mentale induite par les stimuli, les expériences sensorielles, l’apprentissage de la langue, laquelle porte le legs d’une longue mémoire et découpe implicitement, et même formellement, par le verbe, le mot, les fonctions, le réel, l’éducation et le système de valeurs de l’entourage immédiat, tout cela s’impose comme le mode d’être naturel de l’individu, et produit une grande partie de son identité.

L’accent mis sur l’individu s’appelle individualisme. Notons au passage que cette entité sur laquelle semble reposer les possibilités d’existence est mise en doute par sa prétention à être indivisible. L’éclatement du moi, depuis la « mort de Dieu », du fondement métaphysique de sa pérennité, de sa légitimité, accentué par les coups de boutoir des philosophies du « soupçon », comme le marxisme, le nietzschéisme, la psychanalyse, le structuralisme, a invalidé tout régime s’en prévalant, quand bien même le temps semble faire triompher la démocratie, les droits de l’homme, qui supposent l’autonomie et l’intégrité de l’individu en tant que tel.

Les visions du monde ancien supposaient l’existence, dans l’homme, d’une instance solide de jugement et de décision. Les philosophies antiques, le stoïcisme, par exemple, qui a tant influencé le christianisme, mais aussi les religions, quelles qu’elles soient, païennes ou issues du judaïsme, ne mettent pas en doute l’existence du moi, à charge de le définir. Cependant, contrairement au monde moderne, qui a conçu le sujet, un ego détaché du monde, soit à partir de Hobbes dans le domaine politique, ou de Descartes dans celui des sciences, ce « moi » ne prend sa véritable plénitude que dans l’engagement. Aristote a défini l’homme comme animal politique, et, d’une certaine façon, la société chrétienne est une république où tout adepte du Christ est un citoyen.

On sait que Platon, dégoûté par la démagogie athénienne, critique obstiné de la sophistique, avait trouvé sa voie dans la quête transcendante des Idées, la vraie réalité. La mort de Socrate avait été pour lui la révélation de l’aporie démocratique, d’un système fondé sur la toute puissance de la doxa, de l’opinion. Nul n’en a dévoilé et explicité autant la fausseté et l’inanité. Cela n’empêcha pas d’ailleurs le philosophe de se mêler, à ses dépens, du côté de la Grande Grèce, à la chose politique, mais il était dès lors convenu que si l’on s’échappait vraiment de l’emprise sociétale, quitte à y revenir avec une conscience supérieure, c’était par le haut. La fuite « horizontale », par un recours, pour ainsi dire, aux forêts, si elle a dû exister, était dans les faits inimaginables, si l’on se souvient de la gravité d’une peine telle que l’ostracisme. Être rejeté de la communauté s’avérait pire que la mort. Les Robinsons volontaires n’ont pas été répertoriés par l’écriture des faits mémorables. Au fond, la seule possibilité pensable de rupture socio-politique, à l’époque, était la tentation du transfuge. On prenait parti, par les pieds, pour l’ennemi héréditaire.

Depuis Platon, donc, on sait que le retrait véritable, celui de l’âme, à savoir de cet œil spirituel qui demeure lorsque l’accessoire a été jugé selon sa nature, est à la portée de l’être qui éprouve une impossibilité radicale à trouver une justification à la médiocrité du monde. L’ironie voulut que le platonisme fût le fondement idéologique d’un empire à vocation totalitaire. La métaphysique, en se sécularisant, peut se transformer en idéologie. Toutefois, le platonisme est l’horizon indépassable, dans notre civilisation (le bouddhisme en étant un autre, ailleurs) de la possibilité dans un même temps du refus du monde, et de son acceptation à un niveau supérieur.

Du reste, il ne faudrait pas croire que la doctrine de Platon soit réservée au royaume des nuées et des vapeurs intellectuelles détachées du sol rugueux de la réalité empirique. Qui n’éprouve pas l’écœurement profond qui assaille celui qui se frotte quelque peu à la réalité prosaïque actuelle ne sait pas ce que sont le bon goût et la pureté, même à l’état de semblant. Il est des mises en situation qui s’apparentent au mal de mer et à l’éventualité du naufrage.

Toutefois, du moment que notre âge, qui est né vers la fin de ce que l’on nomme abusivement le « Moyen Âge », a vu s’éloigner dans le ciel lointain, puis disparaître dans un rêve impuissant, l’ombre lumineuse de Messer Dieu, l’emprise de l’opinion, ennoblie par les vocables démocratique et par l’invocation déclamatoire du peuple comme alternative à l’omniscience divine, s’est accrue, jusqu’à tenir tout le champ du pensable. Les Guerres de religion du XVIe siècle ont précipité cette évolution, et nous en sommes les légataires universels.

Les périodes électorales, nombreuses, car l’onction du ciel, comme disent les Chinois, doit être, dans le système actuel de validation du politique, désacralisé et sans cesse en voie de délitement, assez fréquent pour offrir une légitimité minimale, offrent l’intérêt de mettre en demeure la vérité du monde dans lequel nous tentons de vivre. À ce compte, ce que disait Platon n’a pas pris une ride. Car l’inauthenticité, le mensonge, la sidération, la manipulation, qui sont le lot quotidien d’un type social fondé sur la marchandise, c’est-à-dire la séduction matérialiste, la réclame, c’est-à-dire la persuasion et le jeu des pulsions, le culte des instincts, c’est-à-dire l’abaissement aux Diktat du corps, l’ignorance, c’est-à-dire le rejet haineux de l’excellence et du savoir profond, plongent ce qui nous reste de pureté et d’aspiration à la beauté dans la pire des souffrances. Comment vivre, s’exprimer, espérer dans un univers pareil ? Le retrait par le haut a été décrédibilisé, le monde en soi paraissant ne pas exister, et le mysticisme n’étant plus que lubie et sublimation sexuelle, voire difformité mentale. Le défoulement électoraliste, joué par de mauvais acteurs, de piètres comédiens dirigés par de bons metteurs en scène, et captivant des spectateurs bon public, niais comme une Margot un peu niaise ficelée par une sentimentalité à courte vue, nous met en présence, journellement pour peu qu’on s’avise imprudemment de se connecter aux médias, avec ce que l’humain comporte de pire, de plus sale, intellectuellement et émotionnellement. On n’en sort pas indemne. Tout n’est que réduction, connotation, farce, mystification, mensonge, trompe-l’œil, appel aux bas instincts, complaisance et faiblesse calculée. Les démocraties antiques, qui, pourtant, étaient si discutables, n’étaient pas aussi avilies, car elles gardaient encore, dans les faits et leur perception, un principe aristocratique, qui faisait du citoyen athénien ou romain le membre d’une caste supérieure, et, à ce titre, tenu à des devoirs impérieux de vertu et de sacrifice. L’hédonisme contemporain et l’égalitarisme consubstantiel au totalitarisme véritable, interdisent l’écart conceptuel indispensable pour voir à moyen ou long terme, et pour juger ce qui est bon pour ne pas sombrer dans l’esclavage, quel qu’il soit. Du reste, l’existence de ce dernier, ce me semble, relevait, dans les temps anciens, autant de nécessités éthiques que de besoins économiques. Car c’est en voyant cette condition pitoyable que l’homme libre sentait la valeur de sa liberté. Pour éduquer le jeune Spartiate, par exemple, on le mettait en présence d’un ilote ivre. Chaque jour, nous assistons à ce genre d’abaissement, sans réaction idoine. La perte du sentiment aristocratique a vidé de son sens l’idée démocratique. Cette intuition existentielle et politique existait encore dans la Révolution française, et jusqu’à la Commune. Puis, la force des choses, l’avènement de la consommation de masse, l’a remisée au rayon des souvenirs désuets.

Claude Bourrinet


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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Bakounine visionnaire ?

Bakounine visionnaire ?

portrait-de-bakounine-gd.jpgL'« État a toujours été le patrimoine d'une certaine classe privilégiée : « une classe sacerdotale, une classe aristocratique, une classe bourgeoise. En définitive, lorsque toutes les autres classes se seront épuisées, l'État deviendra le patrimoine de la classe bureaucratique pour finalement tomber — ou, si vous préférez, atteindra la position d'une machine. » Mikhail Bakounine

Fervent de la liberté

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« Je suis un amant fanatique de la liberté, la considérant comme l'unique milieu au sein duquel puissent se développer et grandir l'intelligence, la dignité et le bonheur des hommes ; non de cette liberté toute formelle, octroyée, mesurée et réglementée par l'État. » Mikhail Bakounine

La patrie

1004914-Bakounine.jpg« L’État n’est pas la patrie. C’est l’abstraction, la fiction métaphysique, mystique, politique, juridique de la patrie. Les masses populaires de tous les pays aiment profondément leur patrie ; mais c’est un amour réel, naturel. Pas une idée : un fait... Et c’est pour cela que je me sens franchement et toujours le patriote de toutes les patries opprimées. » Mikhail Bakounine

Ex: http://antoinechimel.hautetfort.com/

mercredi, 25 avril 2012

Al-Djazeera: la chaîne “arabe” au service des Américains?

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Richard MELISCH:

Al-Djazeera: la chaîne “arabe” au service des Américains?

 

Quand a éclaté le “Printemps arabe”, ce fut la panique, une panique inouïe mais parfaitement compréhensible, chez les potentats immensément riches des “Etats-Farniente” arabes-sunnites. Pourquoi parler d’”Etats-Farniente”? Parce que les paresseux qui gouvernent en Arabie saoudite et dans les émirats pétroliers ne constituent que 8 à 40% de la population, tandis que les 40 à 92 autres pourcents sont constitués de crève-la-faim importés, de sans droits, sunnites ou chiites, venus du Pakistan, du Yémen, d’Iran, des Philippines, etc. Ces immigrés forment la majorité de la population et font tous les sales travaux.

 

Les bonzes et leurs courtisans, nourris grassement à coup de pétrodollars, craignent par dessus tout que l’étincelle révolutionnaire, partie de Tunis et de la Place Tahrir au Caire, ne mette le feu aux poudres dans les bidonvilles où s’entassent les exploités à Riad, Koweit City et Dubai; que des manifestants se jettent dans les rues et exigent les droits que leur garantit le Coran. Comment les nomenklatura et les cheikhs du pétrole, qui dominent la région, vont-ils se protéger contre cette armée de millions de déshérités potentiellement révolutionnaires, contre les dangers d’un islam socialiste qui se profile à l’horizon, contre l’émergence possible de partis séculiers qui, comme en Syrie, protègent toutes les minorités et toutes les communautés religieuses? C’est très simple: en faisant appel aux Américains, qui débarquent dans leur pays, en étant tout prêts à protéger militairement les champs pétroliers de leurs pantins.

 

Prenons l’exemple du Qatar: ce pays n’est pas plus grand que la petite province autrichienne du Burgenland et compte 2,2 millions d’habitants. Seul un dixième de la population du Qatar est composé d’autochtones arabes et sunnites: le reste est un conglomérat d’Arabes venus d’ailleurs, de Pakistanais, d’Iraniens chiites, d’Hindous de l’Asie du Sud-Est et de Chrétiens. Depuis 200 ans, c’est la tribu des Al-Thani qui gouverne là-bas. En 1940, la société “British Petroleum” découvre du pétrole au Qatar. En 1971, on découvre à proximité des côtes un des plus formidables gisements de gaz naturel de la planète, tant et si bien que le Cheikh Ahmed Al-Thani se donne tout de suite le titre d’”Emir”, tout en devenant l’un des hommes les plus riches de la Terre. En 1995, Hamad Al-Thani arrive au pouvoir à la suite d’un putsch, un peu aidé par les Américains. Un pur hasard bien sûr, même si l’on constate qu’il leur cède dans la foulée un morceau de désert près d’Al-Udaïd. Sur ce terrain, les Américains vont aussitôt construire leur plus grosse base du Proche Orient, dépensant dans l’opération plus d’un milliard de dollars. Au départ de cette base, l’US Air Force peut surveiller étroitement le Golfe Persique et tous les “Etats-voyous” d’Asie et d’Afrique du Nord qui n’ont pas encore trouvé la voie vers “la liberté, la paix et la démocratie”. Il y a douze ans, Hamad Al-Thani a fondé la chaîne de télévision Al-Djazeera. C’était indubitablement une chaîne respectable, animée par des journalistes professionnels et connue pour ses reportages dépourvus d’esprit partisan. Mais l’an passé, l’Emir, devenu totalement pro-américain, a transformé d’autorité cette chaîne en un porte-voix de la propagande américaine. La direction a été congédiée et remplacée par des Arabes pro-américains exilés et par des journalistes de la BBC. Elle est devenue une nouvelle “Voice of America”, costumée à la mode arabe. Elle diffuse désormais les dépêches mensongères habituelles qui stigmatisent les “scélérats” de la propagande américaine comme feu Kadhafi, Ahmadinedjad et Al-Assad, avec un zèle qui laisse pantois. Al-Djazeera est devenue la chaîne qui a inventé les images floues et vacillantes qui, par leur imprécision et leur “invérifiabilité” sont propices à toutes les formes d’agitprop.

 

Richard MELISCH.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°16/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

La Turquie sur la ligne de front !

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Andreas MÖLZER:

La Turquie sur la ligne de front!

 

D’après certaines rumeurs sérieuses, la Turquie s’apprêterait à se tailler, par des moyens militaires, une zone-tampon sur le sol syrien. Par une telle action, prétendent les justifications officielles, la Turquie éviterait les violations de ses frontières par l’armée syrienne et protègerait mieux les réfugiés. Mais une autre question se pose: celle de savoir si la Turquie n’envisage pas simultanément de mettre sur le dos de l’Europe le problème des réfugiés syriens. Les masses d’illégaux qui franchissent la frontière gréco-turque pour entrer sur le territoire de l’Union Européenne et la mauvaise volonté affichée par les Turcs, qui ne veulent apparemment pas coopérer avec l’UE dans cette question importante, ne nous permettent pas d’augurer du bon...

 

Les Turcs prétendent donc qu’ils raisonnent en termes purement militaires et défensifs voire en termes humanitaires quand ils concoctent leurs plans de “zone-tampon” mais on peut en douter. Car depuis des années Ankara oeuvre à se créer au Proche-Orient une sphère d’influence, dont les limites s’inspirent des frontières de l’ancien Empire ottoman. Elle cherche également à se positionner comme une puissance génératrice d’ordre dont on ne pourrait plus se passer. Ankara semble désormais s’impliquer directement dans la guerre civile qui afflige la Syrie, menace d’intervenir dans le Nord: elle devient, par ce fait même, un pays de la ligne de front au Proche Orient. Elle a des frontières communes avec la Syrie, l’Iran et l’Irak; elle court donc en permanence le danger d’être entraînée dans le tourbillon des innombrables conflits de cette région en crise. Quelle que soit l’issue de la crise syrienne, qu’Al-Assad soit renversé ou non, la paix ne reviendra pas si vite dans cette région.

 

Tout cela ne serait peut-être pas si grave pour nous Européens si la Turquie n’était pas depuis de longues années candidate à l’adhésion à l’UE et si des forces politiques influentes en Europe même ne plaidaient pas sans discontinuité pour l’inclusion rapide de ce pays dans les structures de l’UE. Si Ankara devient membre à part entière de cette UE, celle-ci alors serait à son tour sur la ligne de front. A coup sûr, ce n’est pas dans l’intérêt de l’Europe: voilà pourquoi il faut rompre immédiatement toutes les négociations visant l’adhésion turque.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°16/2012; http://www.zurzeit.at/ ).

Washington nous mène dans un monde hors-la-loi

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Washington nous mène dans un monde hors-la-loi

ex: http://infonatio.unblog.fr/

Par Paul Craig Roberts

Le gouvernement des Etats-Unis prétend vivre sous les auspices de la loi, le respect des droits de l’Homme, et d’apporter liberté et démocratie à ses citoyens. La prétention de Washington et la dure réalité sont diamétralement opposées.

Les officiels du gouvernement américain critiquent de manière routinière les autres gouvernements pour ne pas être démocratiques et pour violer les droits de l’Homme. Toujours est-il qu’aucun autre pays au monde mis à part Israël bombarde, tire des missiles et envoie des drones dans des nations souveraines pour tuer des populations civiles. Les prisons de la torture d’Abu Graïb, de Guantanamo et le programme de transfert secret de prisonniers de la CIA dans ses prisons tout aussi secrètes, sont les contributions des régimes Bush / Obama aux droits de l’Homme.

Washington viole les droits de ses propres citoyens. Washington a suspendu les droits et libertés civils pourtant garantis par la constitution et a déclaré ses intentions de détenir les citoyens américains indéfiniment sans autre forme de procès. Le président Obama a annoncé qu’à sa discrétion, il peut faire assassiner des citoyens américains qu’il voit comme une menace pour les Etats-Unis.

Le congrès n’a pas répondu à ces annonces extraordinaires avec une procédure de destitution. Il n’y a pas eu de levée de boucliers de la part des cours fédérales, des facs de droit et des associations du barreau. Glenn Greenwald rapporte que le département de la Sécurité de la Patrie (NdT: la “fameuse “ DHS, qui est la stasi / securitate du pays du goulag levant) harcèle les journalistes qui refusent de devenir des “pressetitués” et nous avons vu des vidéos de la répression brutale par la police des manifestations pacifiques du mouvement Occupy Wall Street. Chris Floyd décrit les pervers de la torture qui règnent sur les Etats-Unis.

Maintenant, Washington force du mieux qu’elle peut le reste du monde à se débarrasser des traités internationaux et de la loi internationale. Washington a déclaré que sa parole seule est la loi internationale. Tous les pays, sauf ceux qui ont reçus une dispense de Washington, qui s’engagent dans le commerce avec l’Iran ou achète du pétrole iranien seront sanctionnés par les Etats-Unis. Ces pays seront coupés du marché américain et leur système bancaire ne pourra plus utilisé les banques pour procéder aux réglements internationaux. En d’autres termes,, les sanctions de Washington envers l’Iran s’appliquent non seulement à l’Iran mais aussi aux pays qui défient Washington et utilisent le pétrole iranien pour subvenir à leur demande énergétique.

D’après le Christian Science Monitor, Washington a jusqu’ici donné une dérogation au Japon et à 10 pays européens pour continuer à acheter le pétrole iranien. Demandant à des pays de fermer leurs économies afin de donner libre-court à la vendetta de Washington contre l’Iran; une vendetta qui existe depuis que les Iraniens ont renversé la marionnette installée par les Etats-Unis, le Shah d’Iran, il y a plus de trente ans. Ceci fut plus que Washington ne pouvait supporter. Washington a permis au Japon de continuer à importer entre 78 et 85% de ses importations normales de pétrole avec l’Iran.

Les dispenses de Washington quoi qu’il en soit, sont tout à fait arbitraires. Des dispenses n’ont pas été données à la Chine, à l’Inde, à la Turquie et à la Corée du Sud. L’Inde et la Chine sont les plus gros importateurs de pétrole iranien et la Turquie et la Corée du Sud sont dans le top 10 des importateurs. Avant que de regarder aux conséquences imprévues de la vendetta de Washington contre l’Iran, voyons quel est le problème de Washingron avec ce pays ?

Franchement, Washington n’a rien à faire valoir. Nous sommes, une fois de plus, revenus à la supercherie “des armes de destruction massives”. L’Iran, à l’inverse d’Israël, est signataire du traité de non prolifération nucléaire. Tout pays signataire à le droit à l’énergie nucléaire. Washington affirme que l’Iran viole le traité en développant un programme nucléaire militaire. Il n’y a absolument aucune preuve des accusations de Washington. Washington possède 16 agences de renseignement et toutes sont unanimes pour dire que l’Iran n’a pas de programme nucléaire militaire pour faire des armes nucléaires depuis au moins 2003. De plus les inspecteurs de l’AIEA sont en Iran et ont rapporté de manière constante qu’il n’y a pas de diversion de matériel nucléaire de son programme énergétique vers un programme d’armement.

Les quelques rares fois où on rappelle à Washington ces faits, elle rend l’affaire dfférente. Washington déclare alors les droits de l’Iran sous les conditions du traité de non prolifération invalides, que l’Iran ne peut pas avoir un programme nuclèaire énergétique, parce que l’Iran apprendrait alors à faire des armes nucléaires dans le futur et ainsi d’obtenir la bombe. La première nation hégémonique mondiale a décidé unilatéralement que la possibilité que l’Iran puisse un jour décider de construire une bombe atomique, est un trop grand risque à courir. C’est mieux, dit Washington, de faire monter les prix du pétrole, de perturber l’économie mondiale, de violer la loi internationale et de risquer une guerre majeure, que d’avoir à se soucier qu’un gouvernement iranien futur fasse une arme nucléaire. Ceci est l’approche tyrannique de la loi de Jeremy Bentham, qui fut répudiée par le système légal anglo-saxon.

Il est difficile de caractériser la position de washington  comme étant une position de bon jugement. De plus, Washingron n’a jamais expliqué quel risque elle voit dans la possibilité de la possession de l’arme nucléaire par l’Iran. Pourquoi ce risque serait-il plus grand que le risque associé avec l’armement nucléaire soviétique à l’époque, ou avec l’armement  nucléaire des Etats-Unis, de la Russie, de la Chine, d’Israël, du Pakistan, de l’Inde et de la Corée du Nord aujourd’hui? L’Iran est un pays relativement petit. Elle n’a pas l’ambition hégémonique de Washington. Contrairement à Washington, l’Iran n’est pas en guerre avec une demie-douzaine de pays. Pourquoi Washington détruit-elle la réputation des Etats-Unis comme un pays qui respecte la loi et risque une guerre majeure et une dislocation économique à propos de quelques développements futurs, dont la probabilité est totalement inconnue ?

Il n’y a pas de bonne réponse à cette question. Manquant de preuve dans le cas contre l’Iran, Washington et Israël y ont substitué la diabolisation. Le mensonge a été établi comme vérité comme quoi le président actuel de l’Iran a l’intention de rayer Israël de la surface de la terre.

Le mensonge a eu le succès escompté comme propagande alors même que de nombreux experts en langues ont prouvé que l’intention attribuée au président iranien par la machine propagandiste américano-israélienne est un énorme contre-sens dans la traduction de ce que le président iranien a dit. Une fois de plus, pour Washington et ses presstitués, les faits ne comptent pas. Seul l’agenda est ce qui compte. N’importe quel mensonge sera utilisé pour faire avancer cet agenda.

Les sanctions de Washington pourraient bien finir par mordre Washington plus fort qu’elles ne mordent l’Iran.

Que fera Washington si l’Inde, la Chine, la Turquie et la Corée du Sud ne succombent pas à ses menaces ?

D’après des rapports récents, l’Inde et la Chine ne sont pas favorables à se désavantager elles-mêmes et à nuire à leur développement économique afin de supporter Washington dans sa vendetta contre l’Iran. Ayant observé la montée rapide de la Chine et l’immunité de la Corée du Nord contre une attaque américaine, la Corée du Sud peut légitimement se demander combien de temps encore elle restera un état marionnette des Etats-Unis. La Turquie, où le gouvernement civil et quelque peu islamiste a réussi à devenir indépendant de l’armée turque contrôlée par les Etats-Unis, apparaît réaliser peu à peu que Washington et l’OTAN ont cantonné la Turquie dans un “rôle de serviteur” dans lequel la Turquie est l’agent de Washington contre ses pairs. Le gouvernement turc semble réévaluer les bénéfices d’être un pion de Washington.

Ce que la Turquie et la Corée du Sud ont à décider est en fait de prendre la décision pour que ces pays soient des pays indépendants ou assimilés dans l’empire de Washington.

Le succès de l’assaut américano-israélien sur l’indépendance de l’Iran dépend de l’Inde et de la Chine.

Si l’Inde et la Chine montrent leur majeur a Washington, que peut-elle faire ? Absolument rien. Que se passera t’il si Washington, noyée dans ses délires gigantesques, venait à annoncer des sanctions contre l’Inde et la Chine ?

Les rayons de Wal-Mart resteront vides et le plus gros distributeur des Etats-Unis viendrait marteler la porte de la Maison Blanche.

Apple et bon nombre de grosses corporations influentes américaines, qui ont délocalisées leur production pour le marché américain en Chine, verraient leurs profits s’évaporer. Ensemble, avec leurs alliés de Wall Street, ces entreprises très puissantes viendraient prendre d’assaut le fou de la Maison blanche avec bien plus de force que l’Armée Rouge. Le surplus commercial chinois arrêterait de venir renflouer la dette de la trésorerie américaine. Les opérations bancaires délocalisées en sous-traitance en Inde, les compagnies de cartes de crédit et les départements de services et d’utilités à travers les Etats-Unis cesseraient de fonctionner.

Ce serait le domaine du chaos aux Etats-Unis. Telles sont les récompenses pour l’empire de la mondialisation que ce même empire a enfanté.

L’imbécile de la Maison Blanche et les va t’en guerre néoconservateurs et israéliens qui le pressent de faire encore plus de guerres, ne comprennent pas que les Etats-Unis ne sont plus un pays indépendant. Les Etats-Unis ont un propriétaire: les corporations offshore et les pays étrangers dans lesquels ces corporations ont localisé leur production pour les marchés américains. Des sanctions sur l’Inde, la Chine (et la Corée du Sud) veut simplement dire des sanctions sur les entreprises américaines, des sanctions sur la Turquie veulent dire des sanctions sur un allié de l’OTAN.

La Chine, l’Inde, la Corée du Sud, la Turquie réalisent-elles qu’elles ont en leur possession la donne gagnante ? Comprennent-elles qu’elles peuvent montrer leur majeur à l’empire américain et l’amener à l’effondrement, ou sont-elles conditionnées comme l’Europe et le reste du monde au fait qu’il est vain de résister aux Américains tous puissants ?

La Chine et l’Inde exerceront-elles leur puissance sur les Etats-Unis ou ces deux pays vont-ils tempérer l’affaire et adopter une pose qui sauvera la face de Washington tout en continuant à acheter le pétrole iranien ?

La réponse à cette question est: Combien les Etats-Unis vont-Ils payer secrètement en concessions multiples, comme par exemple la sortie des Etats-Unis de la Mer de Chine du Sud, pour que la Chine et l’Inde prétendent à la reconnaissance de la puissance américaine sur le reste du monde ?

Sans concessions à la Chine et à l’Inde, Washington se verra très sûrement ignorée et contemplera sa puissance s’évaporer. Un pays qui ne peut pas produire industriellement et produire des biens de consommation, mais ne peut qu’imprimer des instruments d’endettement et de la monnaie n’est pas un pays puissant. Il n’est qu’un petit caïd de cour de récréation qui peut continuer à rouler des mécaniques jusquà ce que le garçon proverbial dise: “L’empereur est nu”.

Paul Craig Roberts  http://www.mondialisation.ca/

Article original en anglais :

Washington nous mène dans un monde hors-la-loi dans géopolitique 30273 Washington Leads The World Into Lawlessness
- by Dr. Paul Craig Roberts – 2012-04-12

Traduction : Résistance 71, http://resistance71.wordpress.com/

Le blog de Paul Craig Roberts : http://www.paulcraigroberts.org/

Julien Freund. Del Realismo Político al Maquiavelismo

Julien Freund. Del Realismo Político al Maquiavelismo

Ex: http://disenso.org

Por Jerónimo Molina Cano*

Memoria de un hombre de acción escritor político

freund11.jpgEl pasado día diez de septiembre del 2003 se cumplió el décimo aniversario de la desaparición del filósofo político y polemólogo francés Julián Freund. Había nacido en 1921 en un pueblecito lorenés de poco más de seiscientos habitantes (Henridorff), criándose, hijo de un peón ferroviario, en el ambiente de una familia muy humilde de clase obrera. Desde principios de los años ochenta Freund vivía en su retiro de Villé (Alsacia), su San Casciano, apartado de la burocratizada vida universitaria. En 1993 su muerte no trascendió del círculo de sus adictos, discípulos y amigos. Unas pocas necrológicas, la edición póstuma de un magnífico libro sobre La esencia de lo económico, en el que laboró tenazmente los últimos meses de su vida para dejar constancia «de [mi] lucha permanente y obstinada contra la enfermedad», y la promesa —hasta el día de hoy, por desgracia, frustrada— de una pronta publicación de sus Cartas desde el valle (Lettres de la vallée), cifra de un realismo que denuncia las ensoñaciones políticas del prescriptor de los intelectuales del siglo XX, Rousseau, autor de las Cartas escritas desde la montaña (Lettres écrites de la montagne): esta escueta relación, a la que se pueden añadir algunos estudios predoctorales, sentidas necrológicas y unos cuantos artículos agota la reacción de la inteligencia europea e hispanoamericana ante la muerte de uno de los más brillantes escritores políticos franceses de la segunda mitad del siglo veinte, cuya obra raya sin duda en lo excepcional.

No han cambiado mucho las cosas en este año 2003, aunque merecen todo nuestro reconocimiento diversas iniciativas editoriales en Argentina, Italia y España, ya concretadas o en proyecto. No parece pues que la injusticia que se ha cometido con Freund vaya a enderezarse, ni siquiera a corto plazo. Arbitrariedad que, ciertamente, no es de estos últimos años, sino que viene de muy atrás, cuando recién terminada la guerra su rectitud personal e independencia de espíritu le apartaron de la politiquería de quienes, por entonces, se ufanaban por la restauración de las libertades francesas. Freund, comprometido desde el otoño de 1944 con la guerrilla de los «Francotiradores y partisanos franceses», de rígida observancia marxista-leninista, tomó parte en numerosas acciones de sabotaje, incluido el atentado contra el Ministro de sanidad del gobierno petainista de Pierre Laval. Recompensado, como miles de jóvenes socialistas, con un puesto secundario en el departamento del Mosela y la dirección de un periódico regional El porvenir lorenés (L’avenir lorraine), la descarnada lucha de las izquierdas por el poder y la cruel depuración política del nuevo régimen le asquearon. Esa conmovedora experiencia vital le determinó a estudiar lo político como en realidad es: no según las representaciones abstractas y desinhibidas de los doctrinarios, sino como una de las esencias fundadoras de lo humano, mediadora entre la metafísica y la historia. La esencia de lo político fue el fruto de un trabajo que se prolongó durante quince años (1950-1965), hasta su defensa como tesis doctoral en la Sorbona, ante una sala abarrotada de público.

Se recuerda de aquella ocasión la intervención de Raymond Aron, quien, como director de una tesis de la que no quiso hacerse cargo Jean Hyppolite por sus escrúpulos pacifistas —«yo soy pacifista y socialista; no puedo patrocinar una tesis en la que se declara que sólo existe política donde hay un enemigo»—, señaló el valor de aquella obra y el coraje de su autor. Pero trascendió particularmente la discusión entre Freund e Hyppolite, miembro este último de la comisión juzgadora. Si Freund tenía razón con respecto a la categoría del enemigo, elevada a presupuesto fenomenológico de la politicidad, entendía Hyppolite que sólo le quedaba ya dedicarse a su jardín. Freund le reprochó la ingenuidad irresponsable de su argumentación, pues la pureza de intención ni conjura las amenazas ni suprime al enemigo. Más bien es éste quien nos elige u hostiliza. Si así lo decide debemos afrontar políticamente su enemistad, pues puede impedir que nos ocupemos de nuestros asuntos particulares, incluso de1 cultivo del jardín. La salida de Hyppolite, sorprendentemente, apelaba al suicidio: aniquilarse antes que reconocer la realidad.

El pensamiento de Freund, profundo pero al mismo tiempo claro en la exposición formal, no se agota en la concienzuda y sistemática exploración de lo político —la insociable sociabilidad humana como antecedente metafísico (natura naturata); mando y obediencia, público y privado, amigo y enemigo como presupuestos formales (in re) de lo político; el bien común y la fuerza como finalidad y medio específicos de lo político 2—, sino que se proyecta sobre todas las esencias u órdenes imperativos primarios —lo político, lo económico, lo religioso, lo ético, lo científico y lo estético— y sobre algunas de las dialécticas antitéticas u órdenes imperativos secundarios —lo jurídico, lo social, lo pedagógico, lo cultural, lo técnico—. Freund, que en último análisis se consideraba un metafísico —«ha sido mi ambición ser un teórico» solía decir—, fue un pensador del orden y las formas, pues en estas y en aquel se deja traslucir la multiplicidad del ser. La ambición de su sistema de pensamiento sorprende en una época como la actual, cuyo afán de novedades académicas, incompatible con la vocación, imposibilita o al menos dificulta la necesaria articulación de las ideas. Muy pocos comprendieron en su día la subordinación filosófica del problema que representa cada esencia singular (y sus tratos respectivos) en la distensión temporal (historia) a lo verdaderamente decisivo según el polemólogo francés: la «significación » o, dicho de otra manera, la «jerarquía» de las esencias. Esta temática constituye el cierre metafísico de su fenomenología de las actividades humanas —incoativamente sistematizada en sus conferencias de Lovaina la Nueva de 1981 3—. De todo ello hubiese querido dar razón en un libro apenas imaginado: La jerarquía.

La obra freundeana tiene tres vías de acceso, íntimamente relacionadas por su común raíz metafísica y determinadas cada una de ellas por su ubicación en diversos planos de una teoría científica englobante: metafísica, filosofía política y polemología, en este preciso orden. En cuanto al pensamiento metafísico de Freund, más desatendido si cabe que el resto de su obra, aparece en forma en el libro Filosofía filosófica 4. El último ontólogo de la política caracterizaba en esas páginas a la genuina filosofía por la «libertad de presupuestos», afirmando, después de examinar cómo la trayectoria de la filosofía moderna se agota en la «razón racionalista», que la filosofía filosófica, como saber gratuito e irrefutable, es un «pensamiento segundo que se da por objeto el examen especulativo de las diversas actividades primeras». Al margen de esta consideración necesaria, su pensamiento transita, muy a la manera de Weber, de la epistemología implícita en su teoría de las esencias a la sociología del conflicto o polemología 5, intermediando su densa filosofía de lo político.

Un reaccionario de izquierdas en el mundo hispánico

Freund, cuyo temperamento se opuso polarmente a la actitud complaciente con la degradación de la política, no gozó, como puede suponerse, del favor de los que a si mismos se llamaron «humanistas», «intelectuales» o «progresistas». Esta terminología, sagazmente explotada por el internacionalsocialismo, le parecía vacía, pero sobre todo inapropiada, pues presumía maniqueamente que los adversarios eran, sin más, «reaccionarios». Desde el punto de vista de la esencia de lo político, estas categorías y otras similares —sobre todo «derecha» e «izquierda»—, propias de la que el autor llamó política ideologizada6, apenas si servían para incoar una sociología del conocimiento. ¿Era Freund un hombre de derechas o de izquierdas, conservador o progresista? «Este asunto, escribió en su bella autobiografía intelectual, siempre me pareció ridículo, pues desde el fin de la Guerra había asistido a la polémica entre comunistas y socialistas, quienes se excluían recíprocamente llamándose derechistas»7. Así pues, en escritor político puro, nunca se dejó seducir por esas dicotomías, a la postre fórmulas complementarias de hemiplejía moral e instrumentos del peor maquiavelismo —el antimaquiavelista—. Por eso, a quienes pretendían zaherirle adjudicándole no pocas veces el sello de la Nueva Derecha 8, les respondía irreverente que él era, ante todo, un «reaccionario de izquierdas». En esta paradójica terminología se denuncia en realidad el particularismo de la gavilla de categorías políticas con las que ha operado la mentalidad político-ideológica europea continental (rectius socialdemócrata). En contra de lo que se pretende, nada dice de un gobierno, ni a favor ni en contra, el que se defina como liberal o socialista, monárquico o republicano, igualitario, democrático, solidario, pacifista, etcétera, pues la piedra de toque de cualquier acción de gobierno es el bien común, no la realización de una doctrina. La política es definida al final de La esencia de lo político como la «actividad social que se propone asegurar por la fuerza, generalmente fundada en el derecho, la seguridad exterior y la concordia interior de una unidad política particular, garantizando el orden en medio de las luchas propias de la diversidad y la divergencia de opiniones e intereses» 9. Nada que ver pues con la salvación del hombre o su manumisión histórica.

No era fácil mantener este tipo de actitudes intelectuales durante los años del s i n i s t r i s m o, mentalidad indulgente con los crímenes cometidos en nombre de las buenas intenciones, según Aron, en la que se sigue viendo todavía un pozo emotivo de nobleza. El mundo hispánico, como se sabe, no fue ajeno a los avatares de la política ideológica y a los estragos que han causado sus tres grandes mitos, el de la Revolución, el del Proletariado y el de la Izquierda. Ello dificultó, hasta hacerla casi imposible, la divulgación y recepción del pensamiento freundeano. Aún así, hubo episodios singulares que no pueden ocultarse. Aunque Freund no se ocupó nunca de la política hispánica —salvo alguna mención a la jefatura militar de Franco y a sus tropas «blancas», adelantando, por cierto, la reciente polémica sobre el revisionismo histórico de la Guerra de España1 0, a la dictadura chilena del General Pinochet 11 o a la Guerra de las Malvinas y del Atlántico Sur1 2— , ni se encuentran en su obra más referencias al pensamiento hispánico que Unamuno y Ortega y Gasset 13, no se dejó llevar por los tópicos izquierdistas que, particularmente durante los años setenta, llegaron a constituir el repertorio de un verdadero Kulturkampf contra España.

Tiene aquí algún interés recordar la presencia editorial y personal de Freund en el mundo hispánico, circunscrita a España, Argentina y Chile, países gobernados entonces por dictaduras de estabilización14. En cuanto a la primera, desde finales de los años sesenta y durante una década se registró el primer intento de divulgar su pensamiento en los ambientes jurídico políticos y de la sociología académica, bien a través de las versiones o traducciones de libros como Sociología de Max Weber15, La esencia de lo político 16 o Las teorías de las ciencias humanas 17, bien a la publicación de algún artículo de temática jusinternacionalista, «La paz inencontrable» 18, su breve prefacio a la obra de Francis Rosenstiel El principio de supranacionalidad19 y dos textos aparecidos en la revista de Vintila Horia Futuro presente 2 0. Se produjeron entretanto sendos viajes del profesor estrasburgués a Barcelona (mayo de 1973) y Madrid (septiembre de 1973). En Barcelona impartió una conferencia sobre «Naturaleza e historia » en el Instituto de Estudios Superiores de la Empresa (IESE), dependiente de la Universidad de Navarra, concediendo también una entrevista para la edición barcelonesa del diario Te l e - E x p r e ss 2 1. AMadrid, en cambio, le llevó una invitación al Congreso de la Asociación Mundial de Filosofía del Derecho, celebrado en la Facultad de Derecho complutense2 2. La década de los 90 ha comprendido la segunda etapa de la difusión del pensamiento de Freund, que propició la traducción de Sociologie du conflit2 3, alcanzando hasta la publicación del primer estudio sistemático sobre su pensamiento político 2 4. De Freund se ocuparon entonces las tres revistas más importantes del pensamiento liberal y conservador español finisecular: Hespérides, Razón Española y Ve i n t i u no 2 5.

Se diría que Argentina y Chile hubiesen tomado el relevo, durante la década de los 80 26, de la difusión en el orbe hispánico del realismo político freundeano. En las prensas australes se imprimieron, sucesivamente, El fin del Renacimiento 27 La crisis del Estado y otros estudios 28 y Sociología del conflicto 29. En el invierno de 1982 Freund, que ya vivía retirado de la Universidad en su San Casciano de los Vosgos, viaja Santiago y Buenos Aires, ciudades en las que leyó varias conferencias. El Instituto de Ciencia Política de la Universidad de Chile y la Fundación del Pacífico le habían invitado a participar en un seminario sobre «Cuestiones fundamentales de la política contemporánea», celebrado en la institución universitaria durante la semana del 21 al 28 de junio. Tres fueron sus disertaciones: «La crisis del Estado», «La crisis de valores en Occidente» y «Capitalismo y socialismo», recogidas ese mismo año en un libro 30. El día 4 de julio apareció publicada en El Mercurio la extensa entrevista que le hizo Jaime Antúnez Aldunate 31, aunque para entonces ya se había trasladado a Buenos Aires, ciudad en la que al menos impartió dos conferencias: una sobre «La esencia de lo político» en la Universidad del Salvador y otra sobre el estudio científico de lo político y su metodología en la Facultad de Derecho de la Universidad de Buenos Aires 32. También en la prensa porteña quedó constancia de su visita, pues La Nación dio el breve ensayo referido más arriba: «El conflicto de las Malvinas a la luz de la polemología». El autor se refería en él al papel de tercero mediador desempeñado por los Estados Unidos, así como a la alianza de éstos con Gran Bretaña, lo que determinó el curso de la Guerra de las Malvinas y del Atlántico sur. Consecuencia directa de aquel viaje hispanoamericano fue la relación de Freund con los hermanos Massot, editores de uno de los diarios decanos de la prensa argentina, La nueva provincia, en cuyo suplemento cultural Ideas Imágenes aparecieron «Una interpretación de George S o r e l» 3 3, «Carl Schmitt. Una existencia hecha de contrastes» 34 y «Presupuestos antropológicos para una teoría de la política en Thomas Hobbes»3 5.

Después de algunos años de cierta indiferencia, mas sólo aparente, pues Freund seguía siendo leído por numerosos intelectuales vinculados generalmente a las Universidades católicas o a los círculos militares argentinos y chilenos 36, los últimos años 90 han conocido una progresiva actualización del interés por la obra política y jurídica del escritor francés. No poco de esta Freund-Renaissance en Argentina se ha debido,men primera instancia, a la labor divulgadora del jurista político bahiense Néstor Luis Montezanti, de la Universidad Nacional del Sur, traductor de ¿Qué es la política? 37, El derecho actual 38 y Política y moral 39. A estas ediciones le han seguido, en fechas recientes, el opúsculo Vista de conjunto sobre la obra de Carl Schmitt 40 y ¿Qué es la política? 41, ambos textos al cuidado de Juan Carlos Corbetta, de la Universidad Nacional de La Plata 42. Tal vez en los próximos años, particularmente en Argentina, asistamos a la recepción académica integral del modo de pensar político de Freund, por encima de toda leyenda ideológica.

El "maquiavelianismo" político

Si hubiésemos de condensar en términos simples la obra y el pensamiento de Freund optaríamos, sin dudarlo, por la fórmula del «maquiavelianismo» o «realismo político». A pesar de los equívocos que suscita y de la mala prensa de todo escritor realista o relacionado con el Secretario florentino 43. Renunciaremos ahora a exponer con detalle qué debe entenderse genéricamente por realismo, pues ello excede del objeto de esta semblanza intelectual, orientada a poner en claro algunos supuestos del pensamiento del profesor de sociología de Estrasburgo 44. Apartaremos la disputa clásica sobre el realismo político como una con- secuencia del «método» —«el primado de la observación sobre la ética» 45—, tesis divulgada por Aron pero que acaso sólo tenga alguna utilidad dentro del horizonte de preocupaciones metodológicas propias de los profesores de ciencia política 46. El realismo político se asimila en realidad al «punto de vista político», perífrasis que, a pesar de su carácter puramente descriptivo, casi puede considerarse como una de esas banalidades superiores, pues ¿quién dudará cabalmente de que lo político tiene un medio propio de acceso que no resulta intercambiable con el propio de la moral —moralismo político—, la economía —economicismo— o la religión —teocratismo—? A esta actitud espiritual le dan gracia y carácter (a) la centralidad o primado histórico de lo político; (b) la convicción de que los medios políticos no siempre se presentan bajo la especie de lo agible, pues en ocasiones no hay elección posible; (c) el agnosticismo en cuanto a la forma de gobierno, pues no existe una organización óptima de la convivencia política; (d) la distinción entre lo político (das Politisch) y el Estado (der Staat) y entre lo político (le politique) y la política (la politique) o, por último, (e) la determinación del pensamiento jurídico-político por la configuración de la forma política.

La querella sobre el realismo es consecuencia, según Freund, de las dificultades inherentes al paso de la teoría a la acción. En rigor, sólo tiene sentido predicar el realismo de una cierta forma de proceder el político, inspirada en la evaluación de la relación de fuerzas, más allá de todo ardid político, propaganda o ideología, pues todo cálculo del poder debe orientarse al beneficio de la comunidad. «No sólo se trata, puntualiza el autor, de sopesar correctamente las fuerzas de los adversarios, sino de no engañarse sobre las propias. La relación de fuerzas indica un límite que una colectividad política no debe sobrepasar, so riesgo de poner su existencia en peligro» 47. Aún así, Freund se mostró reticente a utilizar la expresión «realismo político» en el desarrollo de su fenomenología. Sucede a veces, en efecto, que el realismo puede llegar a convertirse en una versión del maquiavelismo, es decir, en una ideología del poder. Pero, ¿qué sucede entonces con la dignidad teórica del «realismo»? ¿Es el realismo político el método que, en opinión de uno de sus estudiosos contemporáneos, «hace suya, poniéndola al día críticamente, una cierta tradición del pensamiento político europeo, cuya primaria ambición ha sido la comprensión de la política y sus manifestaciones históricas en términos científicos, es decir, avalorativos y puramente descriptivos» 48? Freund, en realidad, prefirió no entrar en los pormenores de una polémica que, en gran medida, consideraba estéril. Pues, «no se trata de ser realista o idealista —palabras recubiertas, por lo demás, de una pátina ética asaz turbia— sino de captar la política en su realidad de esencia humana» 49. Ésta es la actitud del maquiaveliano, no la del realista. Fue, pues, el propio autor quien rechazó definirse intelectualmente como realista político.

Estas observaciones clarifican la actitud de Freund ante las vías de acceso a lo político, si bien todavía de una manera imprecisa. Hasta cierto punto, su posición es atípica en el panorama actual de las ideas. Por lo pronto, se trata de un filósofo reacio a aceptar como verdades intangibles los prejuicios de la política ideológica. Su repertorio no se agotó en las nociones más ideologizadas, pues también analizó críticamente algunas categorías o postulados aparentemente sanos: pensar la política políticamente también incluye la reflexión sobre la tradición heredada. Mas detrás de esta temática, dispersa en apariencia, se encuentra una gran divisoria intelectual de la comprensión de lo político. De un lado, el estilo «idealista, utópico e ideológico», del otro, el «realista, científico, polemológico» 50. El realismo científico y polemológico se corresponde con el punto de vista maquiaveliano.

La primera dificultad que hay que sortear es la confusión terminológica, puesto que el autor distingue netamente entre maquiavelismo y maquiavelianismo. «Ser maquiaveliano» consiste, prima facie, en adoptar un estilo teórico sin concesiones al moralismo. No se trata, sin embargo, de que el sabio devenga inmoral, ni siquiera amoral. El pensador maquiaveliano se limita a reclamar la dignidad de la política, su derecho a ser pensada políticamente. Por eso rechaza las interpretaciones del maquiavelista, cuya óptica es la del moralista. El maquiavelismo, solía decir Freund, es el cinismo de los amantes de la justicia abstracta. En cualquier caso, maquiavelismo y antimaquiavelismo le parecían dos especies del mismo moralismo político. Al elegir ser maquiaveliano, Freund optó por estudiar la actividad política como tal. Su visión no es limitada o reduccionista como la del pensador maquiavelista: trátase de «examinar lo político en sus relaciones con la naturaleza humana y la sociedad para mostrar que no se justifica en sí mismo, sino que sirve para justificar casi todos los actos decisivos del hombre en la sociedad» 51.

El maquiavelianismo es concebido epistemológica y metodológicamente según la fórmula que Freund denomina demostrativa. A pesar de las dificultades cognoscitivas que se presentan en el campo pragmático de la política, o de la constatación de la dimensión polémica de la política, que impregna la adscripción del científico a una u otra escuela, el método demostrativo «se libera de la fascinación de lo político mostrando su presencia ineluctable y su potencia constituyente de las relaciones sociales» 52. El contraejemplo del método demostrativo es el método justificativo. Si el primero aspira a ver más allá de la contingencia de los regímenes, buscando los mecanismos o los elementos comunes a todos ellos, el segundo, «centrado en los fines, renuncia a los presupuestos del análisis y de la investigación positivos». Sus aspiraciones se orientan hacia el estudio de los regímenes, los partidos y las instituciones a la luz de una supuesta ética. Pero no le corresponde al maquiaveliano justificar una especie de poder o de régimen, prefiriendo unos a otros. Cuando el filósofo o el politicólogo traspasan este umbral convierten su saber, como decía Aron, en un «sistema para justificar» 53. Abandonado entonces el punto de vista polemológico, su posición deviene abiertamente polemógena.

* Sociedad de Estudios Políticos de la Región de Murcia. Universidad de Murcia (España)

NOTAS

1 Véase J. Freund, L’essence du politique. Epílogo de Pierre-André Taguieff. París, Dalloz, 2003.

2 Véase J. Freund, L’essence du politique. París, Sirey, 1990, passim. Una exposición sistemática del pensamiento político freundeano en J. Molina, Julien Freund, lo político y la política. Madrid, Sequitur, 2000.

3 J. Freund, Philosophie et sociologie. Lovaina La Nueva, Cabay, 1984.

4 J. Freund, Philosophie philosophique. París, La Découverte, 1990

5 La polemología freundeana, como elaborado corpus teórico, es una «sociología del conflicto» en sentido estricto, y no sólo, según la interpretación de Gastón Bouthoul, una «sociología de las guerras». Cfr. J. Feund, Sociologie du conflit. París, P. U. F., 1983. G. Bouthoul, Traité de polémologie. Sociologie des guerres. París, Payot, 1991.

6 J. Freund, Qu’est-ce que la politique idéologique?, en Revue européenne des sciences sociales, vol. XVII, nº 46, 1979.

7 J. Freund, «Ébauche d’une autobiographie intellectuel», en Revue européenne des sciences sociaes, vol. XIX, nº 45-46, 1981, pág. 33.

8 Alain Bhir, «Julien Freund: de la résistence à la collaboration», en Histoire et Anthropologie, nº 7, abril y junio de 1994. Las opiniones de este artículo, parte de una miserable campaña de difamación intelectual, fueron refutadas por Jean-Paul Sorg, «Julien Freund, ou de la difficulté de penser la politique!», Histoire et Anthropologie, nº 8, julio y agosto de 1994.

9 J. Freund, L’essence du politique, p. 751.

10 Franco, que como gobernante «estatificó» la forma política española tradicional y «nacionalizó» la dinastía borbónica, se puso en 1936 al frente de un «contra-terror que combate un régimen de terror», el «terror blanco» de la polemología de Julien Freund. El terror blanco se genera espontáneamente en situaciones atravesadas por graves y violentos conflictos, bien en pleno periodo revolucionario, bien una vez que un gobierno despótico ha sido derrocado. Clásicamente se citan como ejemplos la resistencia de los campesinos vendeanos frente a la Revolución francesa y la de los Ejércitos blancos frente al Ejército rojo de Trotsky. Esta violencia defensiva casi nunca tiene éxito, aunque según Freund, entre las rarísimas excepciones se halla la victoria del bando nacional en la Guerra de España: «Las concepciones de Franco no fueron las de un fascista, sino las de un adepto del terror blanco». J. Freund, Utopie et violence. París, Marcel Rivière, 1978, pág. 191. Otras precisiones en J. Molina, «Raymond Aron y el Régimen de Franco», en Razón Española, nº 121, septiembre-octubre de 2003, espec. Págs. 206-10.

11 Merece la pena, a este respecto, reproducir la opinión del autor sobre el desplome del imperio soviético, forma ecclesiae del marxismo-leninismo: «En Alemania la repercusión fue grande, pues el asunto le afectaba directamente. En Francia, España e Italia la noticia se recibió con júbilo. Pero en el resto del mundo la onda de choque fue muy débil. En Mozambique, Etiopía o Nicaragua la información estuvo teledirigida, llegando como un rumor lejano. Por último, la ONU no se movió. No dijo ni una palabra, lo que muestra a las claras cuál es la orientación de los representantes de los Estados. Si todo eso hubiese sucedido en Chile, no me cabe duda que la ONU se habría hecho oír». J. Freund, L’aventure du politique. París, Criterion, 1991, pág. 169.

12 J. Freund, «El conflicto de las Malvinas a la luz de la polemología», en La Nación, junio de 1982.

13 En su libro sobre la decadencia se encuentra también la elogiosa referencia a un notable libro hispánico: Horacio Cagni y Vicente Massot, S p e n g l e r, pensador de la decadencia. Buenos Aires, Grupo Editor Hispanoamericano, 1993 (19781ª) Véase J. Freund, La décadence. París, Sirey, 1984, pág. 214, nota 63.

14 Ello le valió, lo mismo que a otros intelectuales liberales o conservadores, el desdén sordo del sinistrismo, pues como decía Jean-Paul Sorg en su defensa del maestro, «los prejuicios son tenaces y las reputaciones indelebles». Véase J.-P. Sorg, «Julien Freund, ou de la difficulté de penser la politique», en loc. cit., pág. 129. Mas, en último análisis, recordando lo que el mismo Freund decía de Schmitt, ilustre visitante de la España franquista, el polemólogo lorenés no fue el único intelectual que profesó conferencias en países gobernados por dictadores. El caso de Schmitt sigue siendo paradigmático, pues difícilmente se puede exagerar su identificación con España, nación por la que sentía gran admiración. En la correspondencia del viejo de Plettenberg con su amigo, discípulo y traductor español Javier Conde se encuentra este fantástico párrafo: «Mi siempre querido amigo… todo concurre en las circunstancias actuales para sacarnos a la palestra tanto a mis amigos y a mi como, visto del otro lado, a mis asediadores. Comprenderá que en un momento como este le tenga a usted tan presente. No olvide nunca que los enemigos de España han sido siempre también mis propios enemigos. Es esta una coincidencia que afecta a mi posición particular en la esfera del espíritu objetivo». Carta de C. Schmitt a J. Conde de 15 de abril de 1950. Nordrhein-Westfälisches Hauptstaatsarchiv de Düsseldorf: RW 265-12874.

15 Barcelona, Península, 1967.

16 Madrid, Editora Nacional, 1968.

17 Barcelona, Península, 1975.

18 En Revista de política internacional, nº 69, 1963.

19 Madrid, Instituto de Estudios Políticos, 1967.

20 «Futurología y escatología», en Futuro presente, nº 39, 1977; «Vilfredo Pareto y el poder», en Futuro presente, nº 41, 1978. Se cierra esta primera etapa con «Trabajo y religión según Max Weber», en Concilium. Revista internacional de teología, nº 151, 1980.

21 «La ONU no está sensibilizada sobre la alternativa progreso-contaminación », en Tele-Express, 24 de mayo de 1973.

22 La ponencia de Freund, patrocinada por Michel Villey, exponía una teoría polemológica del derecho, cuyo contenido recogería «Le droit comme motiv et solution de conflits», en Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, nº 8, 1973.

23 Sociología del conflicto. Madrid, Ediciones Ejército, 1995.

24 Véase J. Molina, Julien Freund, lo político y la política.

25 En H e s p é r i d e s, dirigida por José Javier Esparza, apareció un artículo de Freund: «Algunas ideas sobre lo político» (nº 4-5, 1994). Véanse también en esta serie los artículos de J. Molina «La esencia de lo económico. Acerca de las relaciones entre la economía, la política y la política social en Julien Freund» (nº 18, 1998) y «La teoría de las formas de gobierno en Julien Freund: el problema de la democracia moral» (nº 20, 2000). En Razón Española, empresa intelectual animada por Gonzalo Fernández de la Mora, se dio a conocer «El liberalismo europeo» (nº 115, 2002). La revista Ve i n t i u n o, dirigida por Francisco Sanabria Martín, publicó «Socialismo, liberalismo, conservadurismo. Un ejemplo de confusión entre la economía y la política» (nº 33, 1997), además de sendas reseñas sobre tres libros de Freund. La Fundación Cánovas del Castillo, editora de Ve i n t i u n o, incluyó en su colección «Cuadernos Veintiuno de formación. Serie azul» el opúsculo de J. Molina sobre «La filosofía de la economía de Julien Freund ante la economía moderna». Madrid, F. C. C., 1997. Véase también J. Freund, «La cuestión social», en Cuadernos de Trabajo social, nº 11, 2000. El doctorando Juan Carlos Valderrama defenderá próximamente su tesis doctoral, que versa sobre la «Esencia y significación polemológica de lo jurídico». Del mismo puede verse una magnífica investigación predoctoral inédita: Julien Freund, estudio bio-bibliográfico (2002). La revista Empresas políticas dedicará su número 5 (2º semestre de 2004) al pensamiento del polemólogo francés.

26 No obstante: J. Freund, «Observaciones sobre dos categorías de la dinámica polemógena. De la crisis al conflicto», en Randolph Starn (ed.), El concepto de crisis. Buenos Aires, Megalópolis, 1979. Y del mismo, «La fe y la política», en Criterio, vol. 52, nº 1825-26, 1979. El último texto de este periodo es «La sociología alemana en la época de Max Weber», en Tom Bottomore y Robert Nisbet (eds.), Historia del análisis sociológico. Buenos Aires, Amorrortu, 1986.

27 Buenos Aires, Belgrano, 1981.

28 Santiago, Universidad de Chile, 1982

29 Buenos Aires, C. E. R. I. E. N., 1987. Se trata de una traducción distinta a la editada en España en 1995 y amparada por el Centro de Estudios de Relaciones Internacionales y Estrategia Nacional.

30 La crisis del Estado y otros escritos. Santiago, Universidad de Chile, 1982. El texto de «La crisis del Estado» apareció también en Revista política, nº 1, 1982.

31 «Freund: del estatismo al igualitarismo». Recogido en J. Antúnez Aldunate, C r ó n i c a de las ideas. Para comprender un fin de siglo. Santiago, Andrés Bello, 1988.

32 Debo esta información al jurista Luis María Bandieri, en esa época profesor de la Universidad del Salvador. Véase J. Freund, «La esencia de lo político», en Signos Universitarios, nº 12, 1984.

33 Nº 139, 3 de abril de 1983.

34 Nº 294, 23 de marzo de 1986.

35 Nº 435, 1º de diciembre de 1988. Reproducido más tarde en N. L. Montezanti (ed.), Estudios sobre política. Bahía Blanca, Universidad Nacional del Sur, 2001, pp. 5-20. Conste aquí mi reconocimiento al profesor Montezanti por sus precisiones, recabadas en las jornadas inolvidables que transcurrieron en Carmen de Patagones, Bahía Blanca y Mar del Plata en octubre de 2003.

36 Véanse, para el caso de la Armada chilena: Capitán de Navío y Oficial de Estado Mayor Fernando Thauby García, «Guerra y globalización», en Revista de marina, nº 2, 1998; Vicealmirante y Jefe del Estado Mayor General de la Armada Hernán Couyoumdjian Bergamali, «Paz, seguridad y estabilidad. Piedras angulares para la prosperidad», en Revista de marina, nº 5, 1998.

37 Bahía Blanca, Universidad Nacional del Sur, 19961ª, 19982ª. La segunda edición incluye «Política y moral», editado simultáneamente como folleto independiente.

38 Bahía Blanca, Universidad Nacional del Sur, 1998.

39 Bahía Blanca, Universidad Nacional del Sur, 1998.

40 Buenos Aires, Struhart y cía, 2002.

41 Buenos Aires, Struhart y cía, 2003. Se trata de la versión de Sofía Noël (1968) corregida.

42 En México se ha interesado por Freund el escritor y periodista José Luis Ontiveros. Véanse sus artículos «Freund y el mito economicista», en Página uno, suplemento semanal del diario Uno más uno, nº 828, 17 de agosto de 1997; «Realismo político», en Página uno, suplemento semanal del diario Uno más uno, nº 843, 30 de noviembre de 1997; «Revalorización de lo político », en Página uno, suplemento semanal del diario Uno más uno, nº 969, 30 de abril de 2000; y «Reivindicación de la política», en Página uno, suplemento semanal del diario Uno más uno, nº 1003, 24 de diciembre de 2000. En otros países hispanoamericanos apenas si se recogen unas cuantas referencias dispersas a algunos libros freundeanos. Así en Colombia: véase Jorge Giraldo Ramírez, «Los otros que no son el enemigo. Situación polémica y terceros en Schmitt, Freund y Bobbio», en Estudios políticos, nº 14, enero-junio de 1999. También de inspiración freundeana es, del mismo, El rastro de Caín. Una aproximación filosófica a los conceptos de guerra, paz y guerra civil. Bogotá, Foro Nacional por Colombia, 2001.

43 La renovada tradición del realismo político contemporáneo cuenta con referencias de nota en diversos países europeos y americanos: Francia, A l e m a n i a , Italia, España y Argentina. En Madrid brilló el elenco de profesores de la Escuela española de Derecho político [1935-1969]: de Javier Conde y Carlos Ollero a Jesús Fueyo y Rodrigo Fernández-Carvajal y, formando constelación con su magisterio, Gonzalo Fernández de la Mora, Álvaro d’Ors y Dalmacio Negro. En Argentina resulta insoslayable el Neomaquiavelismo hispanizado de Ernesto Palacio, del que debe verse su Teoría del Estado. Buenos Aires, Eudeba, 1973. Tampoco hay que descuidar el realismo chileno, encabezado por el jurista político Jaime Guzmán Errázuriz, schmittiano liberal; véase su Derecho político. Apuntes de las clases del profesor Jaime Guzmán Errázuriz. Santiago de Chile, Universidad Católica de Chile, 1996.

44 La inserción de Freund en la tradición del realismo político puede hacerse atendiendo al magisterio ex auditu y ex lectione de sus autores predilectos. Mientras que su m a q u i a v e l i a n i s m o le emparenta con Maquiavelo, su l i b e r alismo político le compromete con la crítica sui generis de Schmitt al demoliberalismo. En cuanto al primado de lo político, temática incoada por Aron, en Freund se presentó, en parte, como categoría mediadora fundamental en su teoría del orden. En una perspectiva distinta, acaso más epistemológica, no pueden ignorarse ni su realismo filosófico, que en Freund fue de inspiración aristotélica, ni su a n t i i n t e l e c t u a l i s m o, no en el sentido sociológico del descrédito de los intelectuales, sino como uno de los supuestos de la filosofía de We b e r, relacionado por una parte con la neutralidad axiológica (We r f r e i h e i t) y por otra con el «desencantamiento del mundo» y sus consecuencias en el orden de las diversas actividades humanas (intelectualización de la vida, i d e o l o g i z a c i ó n, etc.) Tampoco carecen de interés, desde un punto de vista sociológico, la teoría paretiana del poder, supuesto que gravita sobre la concepción freundeana de cada una de las «actividades sociales» y sus consecuencias en términos de potencia, o su teoría del conflicto, cuya configuración fenomenológica es deudora de la sociología f o r m i s t a de Simmel.

45 Véase R. Aron, Machiavel et les tyrannies modernes. París, Éditions de Fallois, 1993, pág. 63.

46 Aron ha sido un autor fundamental para el realismo político contemporáneo, sin embargo, sus diatribas de los años de la Segunda Guerra Mundial contra el maquiavelismo de Maquiavelo y Pareto han sugerido a sus exégetas, a veces, un camino equivocado, poco partidarios de aceptar en un liberal la actitud vigilante del «maquiavelista moderado». Cfr. Rémy Freymond, «Présentation» a R. Aron, op. ult. cit. Decía Aron que «el llamado método del realismo científico o racional, también denominado experiencia sistematizada les condujo [a Maquiavelo y Pareto] al amoralismo». Su visión del problema, no obstante, resulta ser más amplia que la de algunos de sus comentaristas. A nuestro juicio, el realismo como una consecuencia del método abarca una mínima parte del problema de lo que, en rigor, constituye una actitud espiritual que busca el esclarecimiento de las «ultimidades sociales». R. Aron, op. ult. cit., pág. 109. Decía el jurista político español R. Fernández-Carvajal que la ciencia política es «virtus intellectualis circa postrema socialia»; difícilmente se hallará en la literatura europea una definición más bella y precisa del realismo político. Puede verse en su libro El lugar de la ciencia política. Murcia, Universidad de Murcia, 1981, pág. 340.

47 J. Freund, L’essence du politique, pág. 748

48 A. Campi, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo. Florencia, Akropolis, 1996, pág. 10.

49 L’essence du politique, págs. 22-3.

50 J. Freund, «L'éternelle politique», en Paysans, nº 120, 1976, pág. 53.

51 L’essence du politique, pág. 23

52 J. Freund, L’essence du politique, pág. 9.

53 R. Aron, Dix-huit leçons sur la société industrielle. París, Gallimard, 1970, pág. 23.

mardi, 24 avril 2012

Le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

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Pourquoi le règne du dollar en tant que monnaie internationale touche à sa fin

Ex: http://www.latribune.fr/

 

latribune.fr (The Economic Collapse)

Le blog "The Economic Collapse" a recensé les dix principales raisons qui laissent présager la fin prochaine du dollar en tant que monnaie internationale de premier plan.

Depuis la fin de la Seconde Guerrre mondiale et les accords de Bretton Woods, les Etats-Unis ont bénéficié du rôle de réserve internationale du dollar sur le plan politique mais aussi et bien sûr économique. Cependant, le règne du dollar sur l'économie mondiale touchera bientôt à sa fin. C'est en tout cas l'avis du site "The Economic Collapse" qui évoque dans un article les dix principaux signaux annonciateurs d'un nouveau système, dans lequel le billet vert perdrait son statut. Les médias grand public américains sont, au passage, critiqués pour éluder complètement les accords bilatéraux entre des pays qui abandonnent le dollar pour leurs échanges.


1. La Chine et le Japon se passent du dollar pour leur commerce bilatéral

Il y a quelques mois, la deuxième économie du monde (la Chine) et la troisième (le Japon) ont conclu un accord qui va promouvoir l'utilisation des monnaies nationales (yuan et yen ndlr) dans le commerce bilatéral entre les deux pays.

2. Les BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine, Afrique du Sud) envisagent d'utiliser leurs propres monnaies pour leurs échanges bilatéraux

3. L'accord monétaire entre la Russie et la Chine

4. L'utilisation croissante de la monnaie chinoise en Afrique
En 2009, la Chine est devenue le premier partenaire commercial de l'Afrique àchercher et promouvoir l'utilisation du yuan par ce continent.

5. Vers la fin des pétrodollars ?
La Chine et les Emirats arabes unis ont convenu d'abandonner le dollar pour leurs transactions pétrolières. Bien que les montants sont pour le moment limités, si d'autres pays du Moyen-Orient venaient à prendre pareille initiative, cela marquerait le début de la fin pour les pétrodollars.

6. L'Iran
Compte tenu des tensions avec les Etats-Unis, la monnaie de l'Oncle Sam n'est pas la bienvenue en Iran. En exigeant de certains pays qu'ils règlent leurs achats de pétrole en or plutôt qu'en dollar, Téhéran contribue à l'affaiblissement du billet vert sur la scène internationale.

7. Les relations entre la Chine et l'Arabie Saoudite
Qui est aujourd'hui le plus gros importateur de pétrole saoudien ? La Chine bien sûr... Les deux pays se sont d'ailleurs regroupés pour financer la construction d'une raffinerie géante dans le port de Yanbu sur les côtes de la mer rouge. Combien de temps le dollar sera-t-il conservé comme monnaie d'échange avec Riyad alors que l'ex-empire du Milieu est devenu son principal client ?

8. Les Nations Unies poussent à l'adoption d'une nouvelle monnaie de réserve
Des rapports des Nations Unies appellent ouvertement à mettre fin à la domination du dollar en tant que monnaie de réserve internationale.

9. Le FMI redonne un coup de jeune au « Bancor »
Le Fonds monétaire internationale (FMI) a également abordé dans certains rapports la nécessité de réformer le système monétaire international. Est évoqué en particulier la mise en place d'une monnaie supranationale, le « Bancor », à laquelle les autres monnaies seraient rattachées. Ce système a été proposé par John Maynard Keynes lors du sommet de Bretton Woods en 1944 mais fut finalement abandonné au profit du dollar.

10. La plupart des autres pays que ceux précédemment évoqués... détestent les Etats-Unis
En quelques décennies, la cote de popularité des Etats-Unis a connu une chute vertigineuse. Même en Europe, les touristes américains sont contraints à se faire passer pour des Canadiens pour ne pas subir les critiques incessantes des populations locales. Ce ressentiment à l'encontre des Etats-Unis incite les pays à réfléchir à l'abandon du dollar en tant que monnaie internationale.

Robert Steuckers over geopolitieke vraagstukken

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Robert Steuckers over geopolitieke vraagstukken

Hier de Nederlandse vertaling door A. Vierling van ‘Robert Steuckers s’explique sur le plan geopolitique’ ook hier op de website gepubliceerd. Bijdrage tijdens ronde Tafel maart 2012

Antwoorden van Robert Steuckers aan de Ronde Tafel, inzake de toekomst van de Europese volken, tijdens het colloquium in het kasteel Coloma, maart 2012.

(vertaling van Frans naar Nederlands door Alfred Vierling)

Vraag: Welke positieve reacties ontwaart U thans onder de Europese volkeren?

RS: Daar merk ik weinig van. Twee ervan ,, weliswaar geopolitiek gezien van weinig waarde, maar wel betekenisvol en mutatis mutandis (indien aangepast aan andere omstandigheden) navolgingswaardig houd ik gedachtig: het volksverzet in IJsland en de volkswoede in Griekenland. Eerst dus die IJslandse reactie, die van een klein eilandvolkje van 350.000 inwoners, dat reeds vanaf het prille begin van zijn geschiedenis een waarachtige democratische vertegenwoordiging heeft bedacht en de eerste hedendaagse en wereldlijke (niet-religieuze) literatuur van ons continent vorm heeft gegeven. In dat landje zijn de verantwoordelijken voor de crisis van 2008, de vuige banksters die zo verwerpelijk hebben zitten speculeren, voor de rechter gesleept, evenals eerste minister Haarde, die hun smerige streken had afgedekt, terwijl in Belgie de Dexia-commissie er maar oppervlakkig overheen fietst en men hier nog niet zo gauw de toch echt wel verdiende opsluiting van Dehaene zal meemaken. In IJsland zitten dus hun walgelijke evenknieën achter slot en grendel of althans voor de rechter. Deze gezonde reactie ging gepaard met de weigering van de IJslanders om de buitenlandse banken, welke hadden meegedaan aan het ruïneren van hun land. Ze hebben een grondwetswijziging doorgevoerd waarblijkens speculeren uitdrukkelijk wordt gestipuleerd als misdrijf en overdracht van soevereiniteit voortaan worden veroordeeld of bijgeval aan een referendum worden onderworpen. De IJslanders hebben blijk gegeven van een politieke wilskracht: ze leverden het bewijs, dat in het Westen, waar de economie op subtieler wijze alles bepaalt, het primaat van de politiek kan terugkeren. Met als resultaat dat IJsland thans weer een in het oog lopende economische opbloei beleeft.

De rest van Europa is in diepe apathie weggezonken.

In Griekenland echter zijn we getuige van nog gewelddadiger rellen dan die die Athene vorig jaar op zijn grondvesten deden schudden. Het volk weigert het dictaat van banken, het IMF en de Eurocratie. Belgische massamedia hebben op straat mensen lukraak ondervraagd, van wie er drie fel lucht gaven aan hun waarschuwing: zo meteen zijn jullie aan de beurt! (hodie mihi, cras tibi). Dat is nog eens een realistische, vooruitziende blik. In feite zijn de slappe, lafhartige en slijmerige politici, die de oplichters en bankiers niet bij dageraad door de politie durven laten oppakken onder het oog van de media om ze zo aan de schandpaal te zetten (name and blame), verantwoordelijk voor de enig mogelijke uitkomst op middellange termijn: de totale teloorgang van de staat en de vergriekenlanding (lees: verpaupering van onze samenleving). Maar ondanks deze woede-uitbarsting in de straten van Athene hebben de Grieken en de Italianen ook trouwens, dus in tegenstelling tot de IJslanders, een regering moeten slikken die wordt gevormd door economen, bankiers en technocraten, die niets gemeen hebben met de bevolking en dus gespeend zijn van enige democratische legitimatie. De dictatuur is dus weer terug op het Europese toneel, niet als massaal toegewuifde macht of als een duveltje voortgekomen uit de stembussen zoals we die nog onlangs op ons continent hebben gezien, maar als een heerschappij zonder toejuichingen, zonder legitimatie door verkiezingsuitslagen, die klaar staat om hele Griekse en Italiaanse gezinnen naar de sodemieter te helpen. Waar zijn toch die anti-autoritaire provo's gebleven en de actievoerders zoals tegen Franco of het Griekse kolonelsregime?

In Frankrijk zijn de belangrijke lessen van het gaullisme uit de jaren '60 vergeten. Geen enkele gezonde reactie kan men van het neoliberale "sarkozisme" verwachten. In Spanje verdient de beweging van verontwaardigde burgers wel sympathie, maar wat levert het op? Jean David vertelt dat Spanje thans 4 miljoen werklozen kent, maar ook een liberale regering die het IMF-beleid uitvoert en onpopulaire maatregelen voorstaat, zoals ook bij ons al in een veel te vroeg stadium mensen als een De Croo (aardje naar zijn vaardje) of een Reynders (hooggeplaatste van BNP in Parijs) namen.

Die Spaanse actiebereidheid van verontwaardigden toont nu juist aan dat elk jeugdprotest voortaan wordt gesmoord in wat de betreurde Phillippe Muray placht te noemen: festivisme (langlevedelollogie). Een demonstratie voor wat echt op het spel staat verwordt tot een Woodstock-happening, waar de bankiers noch hun neoliberale werktuigen van onderste boven liggen. Het gevaar van links komt helemaal niet van zijn tegendraadse natuur en verzet tegen de autoriteiten, maar van zijn neiging de pot te verteren in feestgedruis. Deze alles doordrengende lang-leve-de-lol-levenshouding die op emoties en verlangens bouwt, doodt feitelijk alle politieke reflexen voortkomend uit ernstige, wezenlijke bestaansdreigingen en doodstrijd (Ernst Juenger, Armin Mohler) en uit het zich rekenschap geven van een pessimistische, maar vooruitziende risico-inschatting van het allerergste (Clement Rosset). Voorbeelden te over die het afglijden van de schijnbaar revolutionaire ideeën uit 1968 naar een feestelijke klucht aangeven: de loopbaan van Daniel Cohn-Bendit bewijst het ruimschoots, die nep-revolutionair uit Nanterre 1968, die pseudo-marxistische taal met seksuele obsessies doorspekte en nu een bondgenoot van de neoliberale Thatcher-adept Guy Verhofstadt is als het erom gaat om binnen de muren van het Europarlement elke van het volk uitgaande natuurlijke politieke reflex te verguizen, of als het welk initiatief dan ook betreft door een of andere opportunist (zoals Sarkozy) om de natuurlijke reactie van de bevolking te misbruiken voor welk beleid dan ook om er alleen politiek munt uit te slaan, maar welk beleid, mits echt tenuitvoergelegd, toereikend de belangenbehartiging van de banksters zou ontwapenen.

De Nederlandse politicoloog Luuk van Middelaar maakte gewag van een cultuur onder Franse filosofen van ‘politicide’, het om zeep brengen van het politieke strijdtoneel, dat gepaard ging met de ontwikkeling van een onwrikbare staatsleer, welke de republiek gestaag heeft getracht te doen zegevieren op eigen grondgebied. Of je nu denkt aan Sartre in zijn toespraken gericht aan de demonstranten uit 1968, Michel Foucault of de neo-Nietzscheanen die de vreugdevolle bevrijding eisten van de ‘wensmachines’, de nog eens hernieuwde neo-Kantiaanse post-marxistische moralisten, die niet terug hadden van de door hen plotseling ontdekte gruwelijkheden van de ‘Goelag’ bij hun oude bondgenoten, de ‘Sovjets’ in de jaren 70, dan wel aan de hysterische supermoralisten van de heersende media of de door die laatste massaal aangeprezen ‘meelevende republiek’, de Franse intellectuelen hebben bij voortduring een moordaanslag op de politiek gepleegd, die alleen maar naar een doodlopende weg kon voeren. Een impasse waarin we ons nu bevinden, aldus Luuk van Middelaar in zijn Politicide - De moord op de politiek in de Franse filosofie (van Gennep, Amsterdam 1999).

Dus moeten we een metapolitieke strijd voeren om ons radicaal los te maken uit de moorddadige greep van de ‘lang-leve-de-lol’-mentaliteit en ons te weren tegen de allesvernietigende en uitwissende werking van de apathie, waarin het merendeel van onze medeburgers behaaglijk voortdommelt.

Vraag: Aan welke gevaren zal een weer ‘populistisch’ (in de goede zin des woords) geworden Europa worden blootgesteld?

RS: Om nu een hele lijst gevaren die ons bedreigen op te stellen is onbegonnen werk. Neem nu die speculatie tegen de Euro als symbool van ontbrekende soevereiniteit en politieke machtsvorming binnen de Europese bureaucratie, dan zien we toch dat die vijandige aanvallen allemaal van de andere kant van de Atlantische Oceaan komen, precieser gezegd vanuit de speculatieve sector van de Amerikaanse bankwereld. Ik kan alleen maar concluderen dat die speculatie tegen staten en hun valuta, waar Azië al in 19997 mee te maken kreeg, een betrekkelijk nieuwe wijze van indirecte oorlogvoering is. Saddam Hoessein wilde zijn olie in euro's verhandelen en ook Ahmadinedjad wilde dat gaan doen met Iraanse olie- en gasvoorraden. Maar daar hebben de BRIC-landen (Brazilië, Rusland, India en China) vooralsnog een stokje voor gestoken. De euro betekende dus het grootste gevaar op korte en middellange termijn voor de VS, want die stond op het punt Koning Dollar van de kroon te stoten. Europa, die beschaafde en vreedzame macht (Zaki Laïdi) zou dus zonder blikken of blozen de Koning schaakmat hebben gezet en dus moest erop los geslagen worden, op dat instrument van Europese soevereiniteit en wel in haar zachte mediterrane onderbuik. Die mediterrane landen de PIGS (Portugal, Italië, Griekenland, Spanje) zijn echt wel de kwetsbaarste en gemakkelijk uit hun evenwicht te brengen met als gevolg een mogelijk domino-effect om zodoende tevens de economisch sterkste landen van de oude Duitse mark-zone te verzwakken. {Ja, België wordt bedreigd, Oostenrijk heeft een ‘A’ verloren en Nederland is ongerust in zijn zwak te worden getroffen, want die kennen hun achilleshiel wel}. Duitsland rooit het nog wel gelet op zijn gas-overeenkomsten met Rusland en de markten die het op grote schaal creëert in China. Het blijft ook sterker doordat het beter is verbonden met de BRIC-landen, het mikt heimelijk op het uitspelen van een Euro-Aziatische kaart zonder met veel ophef zijn officiële Atlantische optie te ontkennen. Oud-kanseliers Schmidt en Schroeder hebben zich verheven tot een spilpositie in de garantstellingen die met de energie-as Berlijn-Moskou gepaard gaan, de huidige belichaming van de akkoorden tussen Rathenau en Tsjitsjerin (gesloten in 1922).

Om nog even terug te komen op Griekenland, dat nu aan diggelen ligt, daar hebben ze het dan vaak over de zorgeloosheid van de Griekse politici met hun demagogische beleid waar de welvaartsstaat bijzonder vrijgevig was en weinig toekeek (honderden blinden hadden een rijbewijs) en over het financiële gat geslagen door de organisatie van de Olympische Spelen in 2004, maar men laat merkwaardig genoeg de enorme kosten achterwege die de grote bosbranden die twee jaar lang achter elkaar land en opstal in het hele land teisterden, met zich meebrachten. Het vuur heeft op het land tot in de voorsteden huisgehouden op een ongekende schaal. Zo verging het ook het Rusland van Poetin, weerspannig tegen de dictaten van de ‘nieuwe wereldorde’, dat ook al op zijn grondgebied branden onderging van een in de geschiedenis ongekende omvang.

Zijn die branden wel toe te schrijven aan de grillen van de natuur, of zijn ze een beetje al te snel op het conto van de veronderstelde ‘opwarming van het klimaat’ geschreven? Of hebben we hier te maken met de uitlopers van nog weer eens een andere vorm van ‘indirecte oorlogvoering’? Dat mag je je toch werkelijk afvragen.

Zo wordt er ook gesproken van het project HAARP, van de mogelijkheid kunstmatig seismische en andere rampen uit te lokken. De tsunami heeft wel vorig jaar Japan van zijn atoom-opwekking beroofd, hetgeen op korte termijn leidt tot de gehele ontmanteling van zijn nucleaire sector en te denken valt ook aan de buitengewoon hevige stormen die Frankrijk enige jaren geleden onderging, onmiddellijk na het aldaar gerezen enthousiasme over een mogelijke as Parijs/Berlijn/Moskou. Zijn het allemaal toevalligheden? Dat zijn toch vragen die nauwe bestudering verdienen, zoals de uitgever ‘Kopp-Verlag’ doet.

Het wapen van wilde stakingen is tegen Chirac ingezet in 1995, na zijn kernproeven bij het Mururoa-atol. Sommige Franse vakbonden, geïnfiltreerd door trotskistische of lambertistische elementen (socio-economische tegenhangers van de ‘nieuwe filosofen’ die in de openbare ruimte ageren) worden naar bekend ondersteund door de CIA (of in het verledeb de ex-OSS om de oude communisten te neutraliseren). Frankrijk leeft voortdurend onder het zwaard van Damocles, een volledige lamlegging door bijvoorbeeld vrachtwagenchauffeurs die zijn (toegangs)wegen kunnen afsluiten. Zo heb je niet eens een 'oranje revolutie' nodig in Frankrijk.

Blijft dus nog het werkelijke gevaar van een ‘gekleurde revolutie’ over, naar het voorbeeld van wat gelukt is in Georgië in 2003 en die Saakasjvili aan de macht bracht. Maar men doorziet de truc nu en het werkt dus niet meer zo optimaal, ondanks een zeer goed opgeleide beroepsbevolking die al bij het begin van de Servische beweging OTPOR werd gerekruteerd. Zo wordt korte metten gemaakt met de uitwas van de ‘oranje revolutie’ in de Oekraïne van 2004, namelijk een toenadering van het land tot de Atlantische en eurocratische verdragsorganisaties onder druk van de geopolitieke werkelijkheid. De Oekraïense ruimte wordt bepaald door de grote rivieren (Dnjestr, Dnjepr, Don) en de Zwarte Zee. Het staat ook in verbinding met de Russische laagvlakte in het noorden. De laatste poging van een ‘oranje revolutie’ om Poetin te laten vallen liep uit op een faliekante mislukking: De peilingen wezen op 66% van de voorgenomen stemmen voor de Russische eerste minister. Maar wat nog erger is voor de westerse handlangers: de absolute meerderheid gaat niet naar de beweging van Poetin, maar ook voor een derde naar communisten en nationalisten (Zjoeganov en Zjirinovski) en dus niet naar de voorvechters van een heroriëntering op het westen van Rusland, met zijn oligarchen en verdorven zwakbegaafde politiekelingen.

De ‘Arabische Lentes’ zijn weer een andere manier om de massa’s in beweging te zetten teneinde potentiële markten open te breken, wat de Arabisch-islamitische staten eigenlijk zijn. Traditionele staatkundige verbanden en stamgebonden corrupte structuren hebben slechts in Tunesië en deels in Egypte gefunctioneerd. Maar in Syrië lukt het niet en dus is men bezig Syrië een soort Libanese toekomst te bereiden….

De Europese landen worden tenslotte gerekend tot de landen met de zwakste politieke identiteit. Afgezien van die speculatie tegen de euro. Welk ander instrument heeft men nog op de plank om Europa te doen vermurwen mocht het bij de lurven worden genomen? De Amerikaanse ambassadeur Charles Rivkin praatte zijn mond voorbij door openlijk over het gereedschap te spreken dat zal worden gebruikt om de West-Europese samenlevingen te destabiliseren, mochten die zich te koppig gaan verzetten. Dan werpen we hun het uitschot uit de probleemwijken voor de voeten. Charles Rivkin wijst hier onomwonden op de mogelijkheid de massa-immigratie uit de probleemwijken te mobiliseren om zo een tegenstribbelende regering te laten vallen of uit het zadel te werpen. Sarkozy moet als geen ander weten dat hij aan de macht kwam als gevolg van de rellen in de Franse voorsteden in november 2005. ((AV: In Frankrijk zijn dat de etnische probleemwijken)). Die rellen hebben al gediend om Chirac weg te vagen, de voorstander van de as Parijs/Berlijn/Moskou. Ze kunnen dus ook voor zijn val worden gebruikt zodra hij niet wijselijk in het vaarwater van de Amerikaanse alleenheerschappij blijft varen en het Groot-Brittannië van Cameron als bevoorrechte bondgenoot aanhoudt.

Guillaume Faye heeft al voorspeld, dat Frankrijk niet voor eeuwig met die rellen in de voorstadswijken kan wegkomen, zeker niet als die tegelijkertijd in verschillende agglomeraties uitbreken, dus niet alleen in het beruchte 93ste departement bij Parijs, maar ook in Lyon, Marseille et Rijsel. Zowel de salafistische netwerken als de lambertisten staan klaar om de Amerikaanse troef uit te spelen ten koste van hun gastlanden, voorop Saoedi-Arabië, de geldschieter van de wahabieten uit de salafistische bewegingen, als onvoorwaardelijk bondgenoot van de Verenigde Staten.

Vraag: Wie zijn de vijanden der Europese volken van binnenuit en van buitenaf in het huidige speelveld?

RS: Laten we beginnen met die van buiten, want die vanbinnen zijn slechts hun handlangers. De buitenlandse vijand is de genoemde alleenheerser die ons niet op gelijke voet duldt zoals je logisch doet met al je trouwe bondgenoten, al sinds de Romeinen. Men gooit ons dus steeds terug in de onderwerping door elke keer weer, maar nu met de subtielere middelen eigen aan de indirecte oorlogsvoeringswijzen elke nieuwe economische of politieke opleving van Europa te breken. Die alleenheerser is een zeemacht, die heerst over niemandsland: de oceanen en de ruimte en legt ons daarbij allerlei internationale regels op die van dag tot dag verschillen en altijd te zijnen gunste worden uitgelegd. Ik duid hier met luide toon op de Verenigde Staten zoals beschreven door zo iemand als Carl Schmitt, al is het hier niet de plaats om zijn diepzinnige en rake reflexen in herinnering te brengen omtrent de willekeurige en perfide wijze waarop kneedbare en manke internationale rechtsregels tot stand komen, schatplichtig als ze zijn aan het ‘ Wilsoniaanse denken’ en gericht op het laten oprukken van de pionnen van het Amerikaans imperialisme in de wereld of op het alles wegvagende proces van een soort ebola-virusachtige verwording van diplomatieke zekerheden en tradities tot een vormloze brei, welke door die trouweloze regels wordt uitgebraakt. Toegankelijker zijn de richtlijnen van de Amerikaanse strateeg Nicholas J. Spykman, samengebracht in een vademecum als aanhangsel bij zijn werk uit 1942: America’s Strategy in World Politics.

Voor hem had Europa in zijn tijd nog 10 troeven in handen die het superieur aan Amerika maakte, die ik elders heb opgesomd (Zie 'Theoretisch panorama van de geopolitiek’, in: Orientations, nr. 12, zomer 1990-91). Hij putte inspiratie bij een Duits geo-politicoloog uit de school van Haushofer, een zekere Robert Strauss-Hupe die naar de VS uitweek na de machtsgreep door de nazi's wegens zijn ietwat joodse afkomst. Maar goed, laat ik eens drie van die troeven noemen die volgens deze mensen nodig zijn voor het kaliber van een supermacht zoals nu de VS: een uitmuntend school- en universitair onderwijssysteem, etnische saamhorigheid en een min of meer zichzelf onderhoudende economie (of althans, zoals later de Fransen François Perroux en Andre Grjebine stelden, gericht op de opkomst en de consolidatie van een economisch blok met de VS dat de markten van Azië, Afrika en Latijns-Amerika kan veroveren en op lange termijn zijn posities daar kan bestendigen).

Om nu dit goede onderwijssyteem te slopen was er mei 1968 met zijn stoet aan nieuwe lulkoek-opvoeders en navenante lamawaaien-mentaliteit, gevolgd door een aan ‘rechts’ toegeschreven neoliberaal offensief dat opvoedkunde louter in dienst stelde van gemakkelijk te verwerven louter praktische vaardigheden ten koste van de humaniora, de klassieke menswetenschappen die totaal werden verbrijzeld. Ook hier weer liep het met het 1968 sausje overgoten linkse lang-leve-de-lol hedonisme hand in hand met de op de praktijk gerichte neoliberale doctrine om zo gezamenlijk de verworvenheden van onze beschaving teniet te doen en slechts door hun verbeelde verzet, dat in de media breed werd uitgemeten om de indruk te wekken dat er democratische alternatieven denkbaar zijn, de massa’s aan zich wisten te binden. Om de etnische saamhorigheid te breken heeft men Europa eerst van zijn reservoir aan aanvullende arbeidskrachten, Oost-Europa, afgesneden en voorts de integratie- en assimilatieprocessen gedwarsboomd met hulp van de wahabitisch/salafistische netwerken die aan Saoedi-Arabië ondergeschikt zijn, dat goedkope olie aanbood als Europa zijn grenzen openstelde aan de hele moslim-invasie); daarnaast bereidt men zich voor om met ambassadeur Rivkin te spreken op de ophitsing van de ontwortelde nieuwe bewoners die in probleemwijken met allerlei kleuren en religies door elkaar zijn gehutseld, teneinde het staatsapparaat en de samenleving als geheel buiten functie te stellen door het in gang zetten van etnische burgeroorlogjes in de grote stedelijke gebieden. In Duitsland dreigen Erdogan en Davutoglu ermee ten koste van de Duitse staat de parallelle Turkse gemeenschappen zo’n rol te laten spelen, waarbij je moet bedenken, dat het neoliberalisme uiteindelijk alle ‘economieën-in-de-diaspora’ voortrekt en doet opbloeien, dus ook die Turkse netwerken, die aanvankelijk sterk geënt waren op de heroïnehandel. Tenslotte zal de voortdurende afgedwongen ‘politicide’, vooral in Frankrijk, geen enkel herstel toelaten van het politieke besluitvormingsproces inzake onze existentiële keuzes, in de zin van Julien Freund. Zonder dergelijk herstel riskeren we de totale en definitieve ondergang.

Kijk, we zien duidelijk dat de alleenheerser die onze oplevingen wil afremmen voor het moment alom opportunistisch bondgenoten om zich heen verzamelt, die niet de voornaamste vijand zijn, maar wel straks zijn handlanger. Het verzet in Turkije, dat door de media sterk werd benadrukt na de botsing van Erdogan met zijn Israëlische tegenhanger te Davos en die zaak van Turkse schepen met medicamenten voor de Palestijnen in Gaza, is maar een show om de Arabisch-islamitische volksmassa’s te vermurwen. De Turkse buitenlandse politiek is er nauwelijks door veranderd, ook niet door de neo-ottomaanse toespraak van Davutoglu, die gewag maakte van ‘geen problemen met de buren’ en moslim-solidariteit. Kijk, in Syrië stond al sinds augustus 2011 Turkije pal achter de Amerikaanse alleenheerser: Erdogan, Guel en Davotoglu hebben geprobeerd al-Assad te laten buigen door de ‘moslimbroeders’ in zijn regering toe te laten en op te houden de alawieten, dat zijn aanhangers van een meer sjiitische islam, te bevoorrechten en af te zien van de scheiding kerk en staat, dus af te zien van het beginsel van geen staatsbemoeienis met geloofszaken, zoals door de seculiere ideologie van de Baath-partij altijd is voorgestaan en elke discriminatie tussen soennieten, sjiieten, alawieten en druzen verbiedt, alsmede op te houden met de bevoorrechting van Arabische en Armeense christenen. De Baath-partij was ten aanzien van de religieuze neutraliteit veel soepeler dan het Turkse kemalisme voordat het door Erdogan en zijn AKP van de troon werd geschopt, gelet op de ontstentenis aan institutioneel geweld tegen de bestaande religieuze Syrische volksdelen. Thans komen de wapens voor de opstandelingen in Syrië, de zogenaamde Afghaanse of Libische huursoldaten binnen via Turkije en dan door Irak of Jordanië, die de strijd aangaan met het Syrische leger. Trouwens, je moet bedenken dat de Turkse geopolitiek niet verenigbaar is met een samenhangend Europees geopolitiek beleid. De onderliggende doeleinden van Turkije gaan helemaal niet dezelfde kant op als die van de Europese, mochten die ooit eens samenhangend worden en voor heel Europa gaan gelden: Turkije wil bijvoorbeeld indirect weer voet op de Balkan zetten, terwijl dat eigenlijk voor Europa slechts een springplank moet zijn naar de Levant en de verdere Oost-mediterrane kuststreek en het Suezkanaal. Het huidige Turkse grondgebied is echter al een doorvoerzone voor immigratie uit het Nabije Oosten, het Midden-Oosten en Azië naar Europa, met name om binnen te dringen in het Schengen-gebied. Turkije sluit zijn grenzen niet en laat ondanks enorme subsidies van de Europese Commissie doodleuk honderdduizenden toekomstige illegalen door op weg naar de Europese Unie. De politie en douane van Griekenland zijn dus overbelast. De Griekse financiën zijn door deze Sisyphus-arbeid geheel uit het lood geslagen en dus ook door die bosbranden op enorme grote schaal, en niet zozeer zoals de neoliberale media ons op de mouw spelden door financieel wanbeheer bij de Olympische Spelen van 2004 en door enige duizenden arme Grieken die hun sociale dienst hebben pootje gelicht.

Om dat enorme aanzwellen van economische vluchtelingen te stuiten, die dus niet in verhouding staat tot wat zich in Lampedusa bij Sicilië of Feuerteventura op de Canarische eilanden aandient, geeft de Europese Commissie maar een miezerig klein bedrag vrij om slechts 200 armzalige politie-agenten uit te sturen die dan een grens moeten bewaken die vanaf de Thracische landengten eerst naar de Egeïsche eilanden en Rhodos helemaal doorloopt naar de Dodekanesos (12 eilanden).
Het agentschap Frontex, dat in theorie alle buitengrenzen van het Schengen-gebied moet afsluiten en zo de onevenwichtigheden die een ongebreidelde immigratie met zich meebrengt moet voorkomen, ontvangt in werkelijkheid maar een schijntje aan financiën en blijkt een lege dop te zijn.

Men weet dat al wat die salafisten en wahabieten uitvreten uiteindelijk op afstand wordt aangestuurd door de Amerikaans-Saoedische tandem en zich uitstekend leent om operaties van indirecte oorlogsvoering te plegen, die ook wel ‘low intensity war’ en ‘false flag operations’ heten. Pim Fortuyn werd niet zozeer als ‘ islamofoob’ vermoord als wel omdat hij de Nederlandse deelname aan de operaties in Afghanistan wou stopzetten. ((AV: Zie mijn eigen artikel: Ook wegens zijn wil niet deel te nemen aan het Joint Strike Fighter-project en de afschaffing van het Nederlandse leger behoudens de marine)). Men rekruteert een moordenaar uit de Marokkaanse gemeenschap van Molenbeek om commandant Massoud om te brengen en hem niet de macht te laten grijpen na de val van de Taliban, zoals gepland door het Pentagon. Men stuurt een Jordaanse fundamentalist op weg om de leiding te nemen van het Tsjetsjeense verzet op het traject van een oliepijpleiding die de Russische en Kazakse grondstof zou brengen naar de Zwarte Zee en ga zo maar door. Rusland, de belangrijkste leverancier van brandstoffen aan West-Europa wordt in de Noord-Kaukasus verzwakt door fundamentalistische Tsjetsjenen en Daghestani, maar ook en vooral, zoals ons de Duitse waarnemer Peter Scholl-Latour meldt, door een potentieel wahabitische (en dus indirect Amerikaanse) interventie in zijn twee moslimrepublieken Tatarstan en Basjkirostan. Als die twee republieken door burgeroorlog ten onder gaan of de fundamentalisten aan de macht komen wordt het grondgebied van de Russische Federatie letterlijk in tweeën geknipt ter hoogte van de Oeral, alleen het hoge noorden buiten beschouwing gelaten (dus boven de toendra-grens).
Europa wordt alsdan dus teruggebracht tot wat het was aan het begin van de zestiende eeuw: dus voor het geraas van de troepen van Ivan de Verschrikkelijke en Fjodor I die vanuit de Moskouse regio heel de loop van de Wolga tot en met Astrachan (1556) veroverden. Kazan, de latere hoofdstad van de Tartaren viel in 1552. Peter Scholl-Latour wijst erop, dat de Tartaren zelden warm lopen voor het wahabisme uit Arabië of voor de Egyptische Moslimbroeders van Hanna al-Banna en Sayyid Qutb en een moderne islam voorstaan die met het Europese en Russische modernisme verenigbaar is, men noemt het ‘jadidisme’ of de ‘Tartaarse weg’, waarvan de huidige bedenker Rafael Chakimov is. Die verzette zich tegen de wahabitische eis Arabische zeden en gebruiken uit de 7de en 8ste eeuw over te nemen. Aanhangers van Chakimov hebben thans dan wel nog de meerderheid in Tatarstan, maar ze moesten toch wel optreden tegen de praktijken van de moskee ‘Yoldiz Madrassa’ in de industriestad Naberezjnye Tsjelny, die werd opgehitst door onderwijskrachten uit Saoedi-Arabië. Ze werden verjaagd omdat enige van hun leerlingen zich bij de Tsjetsjeense rebelen hadden aangesloten. De toekomst ligt nog open voor deze oevers van de Karna, zijrivier van de Wolga die ver in het Noorden ontspringt bij de toendras, maar de alleenheerser kan met zijn Arabische bondgenoten er rotzooi gaan trappen en tegen het Tartaarse ‘jadidisme’ ten strijde trekken of er een soort panturkisme nieuwe leven in blazen (zie L’islam de Russie - Conscience communautaire et autonome politique chez les Tartars de la Volga et de l’Oural depuis le XVIIIe siecle, Stephane A. Dudoignon, Daemir Is’haqov en Raefyq Moehaemmaetshin, ed. Maisonneuve & Larose, Paris 1997; Peter Scholl-Latour, Russland im Zangengriff - Putin’s Imperium zwischen NATO, China und Islam, Propylaeen Verlag, Berlin, 2006).

Laten we nog iets zeggen over de vijanden onder ons. Ik zal er drie noemen. Eerst het volkomen parasitaire banksysteem dat een ware plutocratie (een woord dat door Pierre-André Taguieff en Jean-Francois Kahn in Parijs opnieuw wordt gebruikt) in het zadel heeft geholpen en niets en dan ook helemaal niets met democratie heeft te maken. Daar hangen dan systemen als de supermarkten aan die op voedselprijzen speculeren en verantwoordelijk zijn voor de hogere duurte in België dan de in omringende landen, veel noodzakelijke levensmiddelen zijn hier dubbel zo duur als in de Duitse schappen. En ook de de ermee verbonden energiesector, die extreem hoge gas- en electriciteitsprijzen afperst van de consument. De onevenwichtigheden die door de enorme omvang van deze geprivatiseerde of semi-geprivatiseerde para-statelijke structuren worden veroorzaakt moeten weer in het gelid gebracht worden, willen we niet dat de meest intieme bouwstenen van onze maatschappij erdoor worden vergruisd. Ten tweede noem ik de neoliberale ideologie en zijn vertakkingen met vooraan ex-premier Guy Verhofstadt die het ‘ regenboogkabinet’ leidde, een verbond tussen het neoliberalisme en het linkse feestgedruis. Want die ideologie smoort onder het masker van zijn goede bedoelingen elke echt opbouwend verzet. En dan hebben we dus als derde die zeer manipuleerbare diaspora, let wel ze zijn het bij monde van ambassadeur Rivkin en van het tendem Erdogan/Davutoglu.

Doel moet dus zijn de exponentiele ontwikkeling van de parasitaire plutocratie te beteugelen, ze grenzen en controles opleggen en ze onderwerpen aan een rechtvaardige belastingbijdrage, het Romeinse mulcto of multo en tevens moet er gewerkt worden aan een stevige etnische basis zonder telkens weer automatisch te worden bestraft als geldt het een strafbaar feit. Het neoliberalisme en zijn afgeleide denkconstructies zijn een ideologie van ‘politicide’, een moordaanslag op het politiek uiten van een gemeenschap en dus staatsgevaarlijk, ook op Europees niveau. Die etnische uitzaaiingen bij ons, de manipuleerbare diaspora, kunnen als vijfde colonnes gaan dienen, omdat ze vooral onder dreiging van Erdogan/Davutoglu recht kunnen krijgen op hun eigen rechtsstelsels, soevereiniteit in eigen kring. Onze beschaving kan niet gered worden zonder drastische maatregelen.

NVDR: De vertaling blijkt soms iets vrijer dan het origineel, waardoor sommige betekenissen verloren zijn gegaan. Ze is ook door ons nog eens herlezen en bewerkt. Voor het origineel verwijzen we naar: Euro-Synergies.

Je Suis Partout - Anthologie (1932-1944)

Vient de paraître : Je Suis Partout - Anthologie (1932-1944)

 
Ex: http://lepetitcelinien.com/

La dernière production des éditions Auda Isarn s'intéresse à Je Suis Partout en proposant une anthologie de cet hebdomadaire paru entre 1932 et 1944.
 
Comme le rappelle Philippe d'Hugues, auteur de la préface de cet ouvrage de près de 700 pages, le journal fasciste, antisémite et antidémocratique a réussi à connaître un large succès, le tirage s'élevant à "70 000 exemplaires à la veille de la guerre, plus de 300 000 à la veille de la Libération, avec un pic à 350 000 au printemps 1944." Succès qui s'explique en partie par les rubriques littéraires et cinématographiques : "Il faut dire qu'il y avait matière à satisfaire les plus exigeants : romans et nouvelles de Marcel Aymé, André Fraigneau, La Varende, René Barjavel, Pierre Véry, Jacques Decrest, Pirandello, Moravia, Malaparte, Jean de Baroncelli, Albert Paraz, Gaston Derycke (futur Claude Elsen), pièces de Jean Anouilh ou de Drieu La Rochelle, chroniques d'Emile Villermoz, André Thérive, Michel Mohrt, François Charles Bauer (futur François Chalais), reportages de Lucien Rebatet [...] et n'oublions pas une attraction de poids : la chronique cinématographique de François Vinneuil alias Rebatet."

De Louis-Ferdinand Céline, il y est question à plusieurs reprises dans ces archives : de la simple citation dans l'article de Ralph Soupault du 21 janvier 1944, à la publication d'un extrait d'une lettre de Céline adressée au journal et publiée le 9 juillet 1943 pour accuser la bourgeoisie française du désastre de 1940, c'est Lucien Rebatet qui laisse le plus de place au Céline pamphlétaire : d'abord en 1938 où il évoque les différentes réactions d'hostilité à la publication de Bagatelles pour un massacre, puis en 1939 dans un article intitulé "L'antisémitisme d'aujourd'hui et de demain", dans lequel il se flatte du grand succès de librairie de Bagatelles ; Enfin, dans un long article de mars 1944, le "prodigieux Céline" à la "verve géniale de visionnaire" est mis en avant dans un passage sur la recension des talents français. Toujours attachés aux écrits politiques de Céline,  Pierre Drieu La Rochelle, Pierre-Antoine Cousteau prennent la défense de Céline dans deux articles de 1938 et 1943. Une compilation qui intéressera les lecteurs souhaitant faire une plongée, du côté des vaincus, dans cette période mouvementée et trouble...

M.G.
Le Petit Célinien, 15 avril 2012.
 
Je Suis Partout, Anthologie 1932-1944, Editions Auda Isarn, 2012. ISBN 978-2-917295-35-9.
Commande auprès de l'éditeur (30 €, port gratuit) : Auda Isarn, BP 90825, 31008 Toulouse cedex 6. Chèque à l'ordre d'Auda Isarn.

Mesianismo tecnológico. Ilusiones y desencanto.

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Mesianismo tecnológico. Ilusiones y desencanto.

Por Horacio Cagni*

Ex: http://disenso.org

Las contradicciones del progreso, y particularmente la tremenda experiencia de las guerras del S. XX, pusieron sobre el tapete los alcances de la ciencia y la técnica, obligando a pensadores de todo origen y procedencia a interrogarse angustiosamente sobre el destino de nuestra civilización.

Al analizar aspectos emblemáticos como los gulags soviéticos, el genocidio armenio por los otomanos, o el Holocausto –el exterminio de judíos por el nazismo en la Segunda Guerra Mundial– así como las consecuencias del eufemísticamente llamado bombardeo estratégico angloamericano –que, tanto en dicho conflicto como en otros posteriores, era simple terrorismo aéreo–, se puede concluir que estas masacres en serie son consecuencia de la planificación y organización propias de las industrias de gran escala. La muerte industrial, la objetivación de un grupo social o de un colectivo a destruir, resulta obvio para los estudiosos del Holocausto y del aniquilamiento racial, como para aquellos que se dedicaron a la revisión del aniquilamiento social que realizaron los comunistas con burgueses, reaccionarios o “desviacionistas”.

En dichos casos, la presencia del confinamiento en campos de concentración y de exterminio, los lager y los gulags , resultan imágenes por demás familiares. Menos asiduas son aquellas que corresponden a la destrucción de ciudades y la muerte masiva de población civil, aduciendo tácticas y estrategias de ataque de industrias y centros neurálgicos económicos, administrativos y políticos del enemigo. Si bien nadie duda de la indefensión de los concentrados en los campos de exterminio, sean armenios, judíos o kulacs , resulta cada vez más difícil sostener que las poblaciones de Alemania, Japón, Vietnam, Serbia, Afganistán o Irak sean considerados objetivos militares válidos.

En todos los casos, la distancia que la tecnología pone entre victimarios y víctima asegura la despersonalización de esta última, convertida en simple material a exterminar; los que están hacinados esperando el fin en un campo de concentración ante el administrador de su muerte, como los trasegados civiles que están bajo la mira del bombardero, no son más que simples números sin rostro. La responsabilidad del genocidio se diluye en la inmensa estructura tecnoburocrática, lo que Hanna Arendt llamaba “la banalidad del mal”.

Es útil recordar que, a lo largo de todo el siglo pasado, numerosas voces se alzaron, lúcidamente, para denunciar los límites de la técnica y los peligros del mesianismo tecnológico. La técnica, clave de la modernidad, se constituyó en una religión del progreso, y la máquina resultó igualmente venerada y ensalzada por liberales, comunistas, nazifascistas, reaccionarios y progresistas.

Guerra y técnica. La crítica de Ernst Jünger

Escritor, naturalista, soldado, muerto más que centenario poco antes del 2000, Ernst Jünger ha sido el testigo lúcido y el crítico agudo de una de las épocas más intensas y cataclísmicas de la historia, de ese siglo tan breve, que Eric Hobsbawm sitúa entre el fin de la belle époque en 1914, y la caída del Muro de Berlín y de la utopía comunista, en 1991.

Nunca se insistirá lo suficiente que, para entender a Jünger y las corrientes espirituales de su tiempo, que también es el nuestro, la clave, una vez más, es la Gran Guerra. El primer conflicto mundial fue la gran partera de las revoluciones de este siglo, no sólo en el plano ideológico y político sino en el de las ideas, la ciencia y la técnica. Por primera vez todas las instancias de la vida humana se subsumían y subordinaban al aspecto bélico. Era la consecuencia lógica de la Revolución Industrial, el orgullo de Europa, pero además necesitó de la conjunción con un nuevo fenómeno sociopolítico, que George Mosse definiera con acierto “la nacionalización de las masas”. En todos los países beligerantes, pero sobre todo en Italia y Alemania, culminaba el proceso de coagulación nacional y de exaltación de la comunidad. Países que habían advenido tarde, merced a las vicisitudes históricas, al logro de una unidad interior –como los señalados–, habían encontrado finalmente esa unidad en el frente. En las trincheras se dejaba de lado los dialectos, para mandar y obedecer en la lengua nacional; en el barro y bajo el alud de fuego se vivía y se moría de forma absolutamente igualitaria.

Abrumados ante tamaño desastre, esos hombres “civilizados” se encontraron con que su única arma y esperanza era la voluntad, y su único mundo los camaradas del frente. Atrás habían quedado los orgullosos ideales de la Ilustración. El juego de la vida en buenas formas y la retórica folletinesca-parisina quedaban enterrados en el lodo de Verdún y de Galizia, en las rocas del Carso y las frías aguas del Mar del Norte.

La catástrofe no sólo significó el hundimiento del positivismo sino que demostró hasta qué punto había avanzado la técnica en su desmesurado desarrollo, y hasta qué grado el ser humano estaba sometido a ella. Soldados y máquinas de guerra eran una misma cosa, juntamente con sus Estados Mayores y la cadena de producción bélica. Ya no existía frente y retaguardia, pues la movilización total se había apoderado del alma del pueblo. Jünger, oficial del ejército del Káiser, llamó Mate - rialschlacht –batalla de material– a esta novedosa especie de combate. En las operaciones bélicas, todo devenía material, incluso el individuo, quien no podía escapar de la operación conjunta de hombres y máquinas que nunca llegaba a entender.

Cuando se leen las obras de Jünger sobre la Gran Guerra –editadas por Tusquets–, como Tempestades de Acero o El bosquecillo 125, el relato de las acciones bélicas se vuelve monótono y abrumador, como debe haber sido la vida cotidiana en el frente, suspendida en el riesgo, que insensibiliza a fuerza de mortificación. En La guerra como experiencia interna, Jünger acepta la guerra como un hecho inevitable de la existencia, pues existe en todas las facetas del quehacer humano: la humanidad nunca hizo otra cosa que combatir. La única diferencia estriba en la presencia omnímoda y despersonalizante de la técnica, pero siempre somos más fuertes o más débiles.

La literatura creada por la Gran Guerra es numerosa, y a veces magnífica. A partir de El Fuego de Henri Barbusse, que fue la primera, una serie de obras contaron el dolor y el sacrificio, como la satírica El Lodo de Flandes, de Max Deauville, Guerra y Postguerra de Ludwig Renn, Camino del Sacrificio de Fritz von Unruh, y las reconocidas Sin Novedad en el Frente, de Erich Remarque y Cuatro de Infantería, de Ernst Johannsen, que dieron lugar a sendos filmes. En todas estas obras –traducidas al español en su momento y editadas por Claridad– campea la sensación de impotencia del hombre frente a la técnica desencadenada. Pero, más allá de su excelencia literaria, todas se agotan en la crítica de la guerra y el sentido deseo de que nunca vuelva a repetirse la tragedia.

Jünger fue mucho más lejos; comprendió que este conflicto había destruido las barreras burguesas que enseñaban la existencia como búsqueda del éxito material y observación de la moral social. A h o r a afloraban las fuerzas más profundas de la vida y la realidad, lo que él denominaba “elementales”, fuerzas que a través de la movilización total se convertían en parte activa de la nueva sociedad, formada por hombres duros y jóvenes, una generación abismalmente diferente de la anterior.

El nuevo hombre se basaba en un “ideal nuevo”; su estilo era la totalidad y su libertad la de subsumirse, de acuerdo a la categoría de la función, en una comunidad en la cual mandar y obedecer, trabajar y combatir. El individuo se subsume y tiene sentido en un Estado total. Individuo y totalidad se conjugan sin trauma alguno merced a la técnica, y su arquetipo será el trabajador, símbolo donde el elemental vive y, a la vez, es fuerza movilizadora. Si bien el ejemplo es el obrero industrial, todos son trabajadores por encima de diferencias de clase. El tipo humano es el trabajador, sea ingeniero, capataz, obrero, ya se encuentre en la fábrica, la oficina, el café o el estadio.

Opuesto al “hombre económico” –alma del capitalismo y del marxismo por igual–, surgía el “hombre heroico”, permanentemente movilizado, ya en la producción, ya en la guerra. Esta distinción entre hombre económico y hombre heroico la había esbozado tempranamente el joven Peter Drucker en su libro The end of the economic man, d e 1939, haciendo alusión al fascismo y al nacionalsocialismo, que irrumpían en la historia de la mano de “artistas de la política”, que habían vislumbrado la misión redentora y salvífica de unidad nacional en las trincheras donde habían combatido.

El trabajador es “persona absoluta”, con una misión propia. Consecuencia de la era tecnomaquinista, es pertenencia e identidad con el trabajo y la comunidad orgánica a la cual pertenece y sirve, señala Jünger en su libro Der Arbeiter, uno de sus mayores ensayos, escrito en 1931. Lo más importante de esta obra es la consideración del trabajador como superación de la burguesía y del marxismo: Marx entendió parcialmente al trabajador, pues el trabajo no se somete a la economía. Si Marx creía que el trabajador debía convertirse en artista, Jünger sostiene que el artista se metamorfosea en trabajador, pues toda voluntad de poder se expresa en el trabajo, cuya figura es dicho trabajador.

En cuanto al meollo del pensamiento burgués, éste reniega de toda desmesura, intentando explicar todo fenómeno de la realidad desde un punto de vista lógico y racional. Este culto racionalista desprecia lo elemental como irracional, terminando por pretender un vaciamiento de

sentido de la existencia misma, erigiendo una religión del progreso, donde el objetivo es consumir, asegurándose una sociedad pacífica y sin sobresaltos. Para Jünger esto conduce al más venenoso y angustiante aburrimiento existencial, un estado espiritual de asfixia y muerte progresiva. Sólo un “corazón aventurado”, capaz de dominar la técnica asumiéndola plenamente y dándole un sentido heroico, puede tomar la vida por asalto y, de este modo, asegurar al ser humano no simplemente existir sino ser realmente .

Otros críticos del tecnomaquinismo

A principios de los años treinta, aparecieron en Europa, sobre todo en Alemania, una serie de escritores cuyas obras se referían a la relación del hombre con la técnica, donde la voluntad como eje de la vida resulta una constante. Así ocurre en El Hombre y la Técnica, de Oswald Spengler (Austral) –quien sigue las premisas nietzscheanas de la “voluntad de poder”–, La filosofía de la Técnica de Hans Freyer, Perfección y fracaso de la técnica de Friedrich Georg Jünger –hermano de Ernst– y los seminarios del filósofo Martín Heidegger, todos contemporáneos del mencionado El Trabajador. (El libro de su hermano Friedrich fue editado inmediatamente después de la 2° Guerra, pero había sido escrito muchos años antes y por las vicisitudes del conflicto no había podido salir a luz; existe versión castellana de Sur). Pero estos interrogantes no eran privativos del mundo germánico, pues no debemos olvidar a los futuristas italianos liderados por Filippo Marinetti, ni al Luigi Pirandello de Manivelas, a los escritos del francés Pierrre Drieu La Rochelle –como La Comédie de Charleroi– y a la película Tiempos Modernos, de Charles Chaplin.

El autor de El Principito, el notable escritor y aviador francés Antoine de Saint Exupéry, también hace diversas reflexiones sobre la técnica. En su libro Piloto de Guerra (Emecé) hay una página significativa, cuando señala que, en plena batalla de Francia en 1940, en una granja solariega, un anciano árbol “bajo cuya sombra se sucedieron amores, romances y tertulias de generaciones sucesivas” obstaculiza el campo de tiro “de un teniente artillero alemán de veintiséis años”, quien termina por suprimirlo. Reacio a emplear su avión como máquina asesina, St. Ex, como le llamaban, desapareció en vuelo de reconocimiento en 1944, sin que se hayan encontrado sus restos. Su última carta decía: “si regreso ¿qué le puedo decir a los hombres?”

También el destacado jurista y politólogo Carl Schmitt se planteó la cuestión de la técnica. Tempranamente, en su clásico ensayo El concepto de lo político –de múltiples ediciones–, afirma que la técnica no esuna fuerza para neutralizar conflictos sino un aspecto imprescindible de la guerra y del dominio. “La difusión de la técnica –señala– es indetenible”, y “el espíritu del tecnicismo es quizás maligno y diabólico, pero no para ser quitado de en medio como mecanicista, es la fe en el poder y el dominio ilimitado del hombre sobre la naturaleza”. La realidad, precisamente, demostraba los efectos del mesianismo tecnológico, tanto en la explotación de la naturaleza, como en el conflicto entre los hombres. En un corolario a la obra antedicha, Schmitt define como p roceso de neutralización de la cultura a esta suerte de religión del tecnicismo, capaz de creer que, gracias a la técnica, se conseguirá la neutralidad absoluta, la tan deseada paz universal. “Pero la técnica es ciega en términos culturales, sirve por igual a la libertad y al despotismo... puede aumentar la paz o la guerra, está dispuesta a ambas cosas en igual medida”.

Lo que ocurre, según Schmitt, es que la nueva situación creada por la Gran Guerra ha dejado paso a un culto de la acción viril y la voluntad absolutamente contraria al romanticismo del ochocientos, que había creado, con su apoliticismo y pasividad, un parlamentarismo deliberativo y retórico, arquetipo de una sociedad carente de formas estéticas. Es innegable la influencia de los escritos de posguerra de Jünger –la guerra forjadora de una “estética del horror”– en la enjundiosa mente de Schmitt. Pero a esa desesperada búsqueda de una comunidad de voluntad y belleza, capaz de conjurar al Golem tecnológico mediante una barbarie heroica, no escapaba prácticamente nadie en aquellos tiempos. Hoy es fácil mirar hacia atrás y señalar a tantos pensadores de calidad como “enterradores de la democracia de Weimar” y “preparadores del camino del nazismo”. Esta mirada superficial sobre un período histórico tan intenso y complejo se impuso al calor de las pasiones, apenas terminada la Segunda Guerra Mundial y, luego, más aún desde que el periodismo se apoderó progresivamente de la historia y la ciencia política. La realidad es siempre más profunda.

En aquellos años de Weimar, los alemanes en su mayoría sentían la frustración de 1918 y las consecuencias de Versalles; los jóvenes buscaban con ahínco encarnar una generación distinta, edificar una sociedad nueva que reconstruyera la patria que amaban con desesperación. Fue una época de increíble florecimiento en la literatura, las artes y las ciencias, y obviamente, esto se trasladó al campo político. Por entonces, Moeller van der Bruck, Spengler y Jünger –malgrado sus diferencias– se transformaron en educadores de esa juventud, a través de escritos y conferencias. La estética völkisch, popular, que era anterior al nacionalsocialismo, teñía todos los aspectos de la vida cotidiana. La mayoría de los pensadores abjuraban del débil parlamentarismo de la República surgida de la derrota, y en el corazón del pueblo, la Constitución de Weimar estaba condenada. ¿Acaso no había sido un éxito editorial El estilo prusiano, de Moeller van der Bruck, que proponía una educación por la belleza? ¿Y Heidegger? En su alocución del solsticio de 1933 dirá: “los días declinan/nuestro ánimo crece/llama, brilla/corazones, enciéndanse”

Lo interesante es que todos coincidían. El católico Schmitt, cuando en su análisis Caída del Segundo Imperio sostenía que la principal razón estribaba en la victoria del burgués sobre el soldado; neoconservadores como August Winning, que distinguía entre comunidad de trabajo y proletariado, y como Spengler con su “prusianismo socialista”; el erudito Werner Sombart y su oposición entre “héroes y mercaderes”, y, además, los denominados nacionalbolcheviques. El más conspicuo de los intelectuales nacionalbolcheviques, Ernst Niekisch, había conocido a Jünger en 1927; a partir de allí elaborará también una reflexión sobre la técnica. Su breve ensayo La técnica, devoradora de hombre s es uno de los análisis más lúcidos del mesianismo tecnológico, y una de las mayores críticas de la incapacidad del marxismo para comprender que la técnica era una cuestión que escapaba al determinismo economicista y a las diferencias de clase. También es de Niekisch uno de los mejores comentarios de El Trabajador de Jünger, obra de la cual tenía un gran concepto. Todos ellos intentaron dotar a la técnica de un rostro brutal, pero aún humano, demasiado humano, único hallazgo del mundo, como sostuvo Nietzsche.

Por supuesto, todas estas energías fueron aprovechadas por los políticos, que no pensaban ni escribían tanto, pero podían franquear las barreras que los intelectuales no se atrevían a traspasar. Estos nuevos políticos poseían esa nueva filosofía: ya no procedían de cuadros ni

eran profesionales de la política sino “artistas del poder”, como decía Drucker. Lenin abrió el camino, pero hombres como Mussolini y Hitler, y muchos de sus secuaces, eran arquetipos de esta nueva clase. Provenían de las trincheras del frente, eran conductores de un movimiento de

jóvenes, tenían una gran ambición, despreciaban al burgués, si bien confundían sus ideas de salvación nacional con el lastre ochocentista de diversos prejuicios.

El fin de una ilusión

Schmitt coincidía con Jünger en su desprecio del mundo burgués. En la concepción jüngeriana, tan importante era el amigo como el enemigo: ambos son referentes de la propia existencia y le otorgan sentido. El postulado significativo de la teorética schmittiana será la específica distinción de lo político: la distinción entre amigo y enemigo. El concepto de enemigo no es aquí metafórico sino existencial y concreto, pues el único enemigo es el enemigo público, el hostis. Preocupado de la ausencia de unidad interior de su país luego de la debacle de 1918, vislumbrando en política interior el costo de la debilidad del Estado liberal burgués, y en política exterior las falencias del sistema internacional de posguerra, Schmitt, al principio, se comprometió profundamente con el nacionalsocialismo. Llegó a ser uno de los principales juristas del régimen. Creía encontrar en él la posibilidad de realización del decisionismo, la encarnación de una acción política independiente de postulados normativos.

Jünger, atento a lo que denominaba “la segunda conciencia más lúcida y fría” –la posibilidad de verse a sí mismo actuando en situaciones específicas– fue más cuidadoso, y se distanció progresivamente de los nacionalsocialistas. Sin duda, su costado conservador había vislumbrado los excesos del plebeyismo nazifascista y su fuerza niveladora. También Schmitt comenzó a ver cómo elementos mediocres e indeseables se entroncaban en el régimen y adquirían cada vez más poder. Heidegger, al principio tan entusiasta, se había alejado del régimen al poco tiempo. Spengler murió en 1936, pero los había criticado desde el inicio.

No obstante, había diferencias de fondo. Spengler, Schmitt y Jünger creían que un Estado fuerte necesitaba de una técnica poderosa, pues el primado de la política podía reconciliar técnica y sociedad, soldando el antagonismo creado por las lacras de la revolución industrial y tecnomaquinista. Eran antimarxistas, antiliberales y antiburgueses, pero no antitecnológicos, como sí lo era Heidegger; éste se había retirado al bosque a rumiar su reflexión sobre la técnica como obstáculo al “desocultamiento del ser”, que tan magistralmente explicitara mucho después.

Otro aspecto en el cual coincidían Jünger, Schmitt, y también Niekisch, era en su consideración cómo la Rusia stalinista se alineaba con la tendencia tecnológica imperante en el mundo. Al finalizar los treinta, dos naciones aparentaban sobresalir como ejemplo de una voluntad de poder orientada y subsumida en una comunidad de trabajadores, malogrado sus principios y sistemas políticos diferentes: el III Reich y la URSS stalinista (en menor medida también la Italia fascista). Pero, obviamente, sus clases dirigentes no eran permeables a las consideraciones jüngerianas o schmittianas, pues la carcaza ideológica no podía admitir actitudes críticas. AJünger y a Schmitt les ocurrió lo mismo: no fueron considerados suficientemente nacionalsocialistas y comenzaron a ser criticados y atacados. Schmitt se refugió en la teorización –brillante, sin duda– sobre política internacional.

En cuanto a Jünger, su concepción del “trabajador” fue rechazada por los marxistas, acusándola de cortina de humo para tapar la irreductible oposición entre burguesía y proletariado –es decir “fascista”– tanto como por los nazis, quienes no encontraban en ella ni rastros de problemática racial. En su exilio interior, Jünger escribió una de sus novelas más importantes. Los acantilados de mármol; constituye una reflexión profunda, enclave simbólica, sobre la concentración del poder y el mundo de sencadenado de los “elementales”. Mediante una prosa hiperbólica y metafórica, denuncia la falacia de la unión de principios guerreros e idealistas cuando falta una metafísica de base. Por supuesto que esta obra, editada en vísperas de la Segunda Guerra Mundial, fue considerada, no sin razón, una crítica del totalitarismo hitleriano, pero no se agota allí. El escritor va más lejos, pues se refiere al mundo moderno donde ninguna revolución, por más restauradora que se precise, puede evitar la caída del hombre y sus dones de tradición, sabiduría y grandeza.

Jünger siempre ha sido un escéptico. En La Movilización Total hay un párrafo esclarecedor: “Sin discontinuidad, la abstracción y la crudeza se acentúan en todas las relaciones humanas. El fascismo, el comunismo, el americanismo, el sionismo, los movimientos de emancipación de pueblos de color, son todos saltos en pos del progreso, hasta ayer impensables. El progreso se desnaturaliza para proseguir su propio movimiento elemental, en una espiral hecha de una dialéctica artificial”. Contemporáneamente, Schmitt señalaba: “Bajo la inmensa sugestión de inventos y realizaciones, siempre nuevos y sorprendentes, nace una religión del progreso técnico, que resuelve todos los problemas. La religión de la fe en los milagros se convierte enseguida en religión de los milagros técnicos. Así se presenta el S. XX, como siglo no sólo de la técnica sino de la creencia religiosa en ella”.

Si ambos pensadores creían en un intento de ruptura del ciclo cósmico desencadenado, rápidamente habrán perdido sus esperanzas. Los propios desafiantes del fenómeno mundial de homogeneización –cuyo motor era la técnica originada en el mundo anglosajón de la revolución industrial–, como el nacionalsocialismo y el sovietismo, mal podían llevar adelante este proceso de ruptura cuando constituían parte importante, y en muchos casos la vanguardia, del progreso tecnológico. No hay escapatoria posible para el hombre actual y el principio totalitario, frío, cínico e inevitable que Jünger vislumbró desde sus primeras obras, y que siguió desarrollando hasta su final, será la característica esencial de la sociedad mundialista.

El desenlace de la Segunda Guerra Mundial, con su horror desencadenado, liquidó la posibilidad de entronización del tan mentado “hombre heroico” y consagró el “hombre económico” o “consumista” como arquetipo. Este evidente triunfo de la sociedad fukuyamiana se debió no sólo a la prodigiosa expansión de la economía sino esencialmente, al auge tecnológico y a la democratización de la técnica. Ello no implica, no obstante, que el hombre sea más libre; se cree libre en tanto participa de democracias cuatrimestrales, habitante del shopping y esclavo del televisor y de la computadora, productor y consumidor en una sociedad que ha obrado el milagro de crear el ansia de lo innecesario, la aparente calma en la que vive esconde aspectos ominosos.

La tecnología ha despersonalizado totalmente al ser humano, lo cual se evidencia en la macroeconomía virtual, que esconde una espantosa explotación, desigualdad y miseria, así como en las guerras humanitarias,eufemismo que subsume la tragedia de las guerras interétnicas y seudorreligiosas, vestimenta de la desembozada explotación de los recursos naturales por parte de los poderes mundiales. Desde el FMI hasta la invasión de Irak, el “filisteo moderno del progreso” –Spengler dixit– es, bajo sus múltiples manifestaciones, genio y figura.

En sus últimos tiempos, Jünger estaba harto. Su consejo para el rebelde era hurtarse a la civilización, la urbe y la técnica, refugiándose en la naturaleza. El actual silencio de los jóvenes –sostenía en La Emboscadura , mejor traducida como Tratado del Rebelde– es más significativo aún que el arte. Al derrumbe del Estado-Nación le ha seguido “la presencia de la nada a secas y sin afeites. Pero de este silencio pueden s u rgir nuevas formas”. Siempre el hombre querrá ser diferente, querrá algo distinto. Y, como la calma que precede a la tormenta, todo estado de quietud y todo silencio es engañoso.

* Politólogo especializado en Relaciones Internacionales. Ensayista.

lundi, 23 avril 2012

Ce qui doit être dit, par Günter Grass

Ce qui doit être dit, par Günter Grass (Traduction)

Ex: http://antoinechimel.hautetfort.com/

1680503_3_994e_l-ecrivain-allemand-gunter-grass-le-21-mars_c1781620595e36eb6d6c8a601d03a1b5.jpgPourquoi je ne dis pas
pourquoi ai-je tu pendant trop longtemps
ce qui est pourtant évident
et a fait l’objet de tant de simulations
dans lesquelles nous, les survivants,
sommes au mieux des notes de bas de page.

On évoque le droit à une frappe préventive,
l’éradication du peuple iranien soumis,
tenu à une liesse sans joie par un fort en gueule,
sous prétexte que ce potentat construirait une bombe atomique.

Mais alors, pourquoi m’interdis-je
de nommer cet autre pays
qui dispose depuis des années,
certes dans le plus grand secret,
d’un potentiel nucléaire croissant
et échappant à tout contrôle,
puisque aucun contrôle n’est permis ?

Le silence général autour de ce fait établi,
ce silence auquel j’ai moi-même souscrit,
je le ressens comme un mensonge pesant,
une règle que l’on ne peut rompre
qu’au risque d’une peine lourde et infâmante :
le verdict d’antisémitisme est assez courant.

Mais aujourd’hui, alors que mon pays
coupable de crimes sans commune mesure,
pour lesquels il doit rendre des comptes encore et encore,
mon pays donc, dans un geste purement commercial,
certains parlent un peu vite de réparation,
s’en va livrer un nouveau sous-marin à Israël,
un engin dont la spécialité est d’envoyer
des ogives capables de détruire toute vie
là où l’existence de ne serait-ce qu’une seule
bombe nucléaire n’est pas prouvée,
mais où le soupçon tient lieu de preuve,
je dis ce qui doit être dit.

Pourquoi me suis-je tu aussi longtemps ?
Parce que je croyais que mes origines,
entachées par des crimes à jamais impardonnables,
m’interdisaient d’exprimer cette vérité,
d’oser reprocher ce fait à Israël,
un pays dont je suis et veux rester l’ami.

Pourquoi ne dis-je que maintenant,
vieux, dans un ultime soupir de mon stylo,
que la puissance nucléaire d’Israël
menace la paix mondiale déjà fragile ?
Parce qu’il faut dire maintenant
ce qui pourrait être trop tard demain,
et parce que nous, Allemands, avec le poids de notre passé,
pourrions devenir les complices d’une crime,
prévisible et donc impossible
à justifier avec les excuses habituelles.
Pourquoi je ne dis pas
pourquoi ai-je tu pendant trop longtemps
ce qui est pourtant évident
et a fait l’objet de tant de simulations
dans lesquelles nous, les survivants,
sommes au mieux des notes de bas de page.

On évoque le droit à une frappe préventive,
l’éradication du peuple iranien soumis,
tenu à une liesse sans joie par un fort en gueule,
sous prétexte que ce potentat construirait une bombe atomique.

Mais alors, pourquoi m’interdis-je
de nommer cet autre pays
qui dispose depuis des années,
certes dans le plus grand secret,
d’un potentiel nucléaire croissant
et échappant à tout contrôle,
puisque aucun contrôle n’est permis ?

Le silence général autour de ce fait établi,
ce silence auquel j’ai moi-même souscrit,
je le ressens comme un mensonge pesant,
une règle que l’on ne peut rompre
qu’au risque d’une peine lourde et infâmante :
le verdict d’antisémitisme est assez courant.

Mais aujourd’hui, alors que mon pays
coupable de crimes sans commune mesure,
pour lesquels il doit rendre des comptes encore et encore,
mon pays donc, dans un geste purement commercial,
certains parlent un peu vite de réparation,
s’en va livrer un nouveau sous-marin à Israël,
un engin dont la spécialité est d’envoyer
des ogives capables de détruire toute vie
là où l’existence de ne serait-ce qu’une seule
bombe nucléaire n’est pas prouvée,
mais où le soupçon tient lieu de preuve,
je dis ce qui doit être dit.

Pourquoi me suis-je tu aussi longtemps ?
Parce que je croyais que mes origines,
entachées par des crimes à jamais impardonnables,
m’interdisaient d’exprimer cette vérité,
d’oser reprocher ce fait à Israël,
un pays dont je suis et veux rester l’ami.

Pourquoi ne dis-je que maintenant,
vieux, dans un ultime soupir de mon stylo,
que la puissance nucléaire d’Israël
menace la paix mondiale déjà fragile ?
Parce qu’il faut dire maintenant
ce qui pourrait être trop tard demain,
et parce que nous, Allemands, avec le poids de notre passé,
pourrions devenir les complices d’une crime,
prévisible et donc impossible
à justifier avec les excuses habituelles.

Je dois l’admettre aussi, je ne me tairai plus
parce que j’en ai assez de l’hypocrisie de l’Occident
et j’espère que nombreux seront ceux
prêts à se libérer des chaînes du silence,
pour appeler l’auteur d’une menace évidente
à renoncer à la violence tout en exigeant
un contrôle permanent et sans entraves
du potentiel atomique israélien
et des installations nucléaires iraniennes
par une instance internationale
acceptée par les deux gouvernements.

Ce n’est qu’ainsi que pourrons aider
les Israéliens et les Palestiniens,
mieux encore, tous les peuples,
frères ennemis vivant côte à côte
dans cette région guettée par la folie meurtrière,
et en fin de compte nous-mêmes.

Je dois l’admettre aussi, je ne me tairai plus
parce que j’en ai assez de l’hypocrisie de l’Occident
et j’espère que nombreux seront ceux
prêts à se libérer des chaînes du silence,
pour appeler l’auteur d’une menace évidente
à renoncer à la violence tout en exigeant
un contrôle permanent et sans entraves
du potentiel atomique israélien
et des installations nucléaires iraniennes
par une instance internationale
acceptée par les deux gouvernements.

Ce n’est qu’ainsi que pourrons aider
les Israéliens et les Palestiniens,
mieux encore, tous les peuples,
frères ennemis vivant côte à côte
dans cette région guettée par la folie meurtrière,
et en fin de compte nous-mêmes.

Günter Grass - Ce qui doit être dit

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revue, argentine, théorie politique, sciences politiques, politologie, philosophie, métapolitique, amérique latine, amérique du sud, géopolitique, Sección "Metapolítica": Mesianismo tecnológico. Ilusiones y desencanto. Por Horacio Cagni.   

Sección "Geopolítica"¿Por qué Geopolítica?. Por Alberto Methol Ferré.  

Sección "Geopolítica"La Federación Rusa en la prueba del Multipolarismo. Por Tiberio Graziani.

Sección "Pensamiento Nacional": Sampay como pensador nacional, popular y católico. Por Alberto Buela.  

Sección "Pensamiento Nacional": Historia de una literatura trágica. Por Vintila Horia.  

Sección "Pensamiento Nacional": Breve historia del movimiento obrero argentino. Por Cecilia González Espul.

Sección "Pensamiento Político": Julien freund: Del realismo Político al Maquiavelismo. Por Jerónimo Molina Cano.

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Sección "Filosofía": Conciencia y Método en Edmund Husserl. Por Alberto Buela.

Sección "Entrevistas": Eurasia: la visión geopolítica de Alexander Dugin. Extractos de la entrevista realizada por VOXNR.

Sección "Biblioteca": Geocultura del Hombre Americano de Rodolfo Kusch - Irán como Pivote geopolítico. Centro Superior de Estudios de la Defensa Nacional. Ministerio de Defensa Español - ABC de Pedro Godoy  

Sección "Biblioteca" especial Nimio de Anquín: Ente y Ser - De las dos inhabitaciones en el Hombre - La Ontología sin Ser de Nicolai Hartmann - El problema de la desmitologización - Las cuatro instancias filosóficas del Hombre actual - Cuadernos. Leopoldo Lugones

SE RUEGA DIFUSIÓN.

Hasta la próxima!  

www.disenso.org - info@disenso.org - Dirección Postal: Casilla 3198 (1000) Bs.As - Argentina

Zuerst - März 2012

 

Aktuelle Ausgabe

Aus dem Inhalt
(Ausgabe März 2012):

Titelgeschichte:
Die neue Lust am Krieg
Deutschlands große Medienhäuser fiebern dem Kampf gegen den Iran und gegen Syrien entgegen: Es wird geschlampt, manipuliert und gelogen – genauso wie 1999 im Krieg gegen Jugoslawien

„Kreatives Chaos“
Der US-Enthüllungsjournalist Dr. Webster Tarpley über die Hintergründe der aktuellen Kriegspropaganda

Deutschland:
„Stadt der Täter“
In Dresden war auch in diesem Jahr kein würdiges Gedenken für die zivilen Opfer der Bombennächte 1945 möglich

Schuld ist ihr Hobby
„Nazi-Jägerin“ und Bundespräsidenten-Kandidatin Beate Klarsfeld und ihr Drang, ständig im Mittelpunkt zu stehen

Sensibles fahrendes Volk
In München verweigern Zigeuner den Schulbesuch. Schuld daran sei die Traumatisierung während der NS-Zeit. Dafür beziehen sie staatliche Transferleistungen

Österreich:
„Unheilige Allianz“
In Österreich wollen Arbeitgeber- und Arbeitnehmer­verband die Familienleistungen komplett neu ­organisieren. Familien mit mehreren Kindern würden künftig benachteiligt werden.

International:
Klezmer in Brüssel
Israels Außenminister Avigdor Lieberman wünscht sich eine EU-Mitgliedschaft Israels

Last Man Standing
Vorwahlen in den USA: Während sich die Republikaner zerfleischen, reibt sich Obama die Hände

Wirtschaft:
Die Herren der Eurozone
Wie die Drehtürenkapitalisten der Wallstreet-Bank Goldman Sachs in Europa die Macht übernehmen

Diversity, bis der Arzt kommt
Neue Geschäftszweige kümmern sich darum, daß in großen Unternehmen möglichst verschiedenartige Beschäftigte arbeiten

Geschichte:
Zehn Minuten Wahnsinn
Vor zehn Jahren fand in Erfurt der erste Amoklauf an einer deutschen Schule statt. 16 Menschen mußten dabei ihr Leben lassen

Reise:
Natur und Wein
Radeln im Elsaß: Urlauber genießen Landschaft, Frühlingswetter und Kultur

Technik:
Mit Vollgas nach unten
Die neue Mercedes-Benz A-Klasse

Gesellschaft:
Bitte adoptiert mich!
Dokumentarfilmer haben ein schräges Projekt begleitet: Eine Rentnerin, ein Schauspieler und eine Studentin ziehen auf der Suche nach familiärer Wärme nach Ghana

Der Eisbrecher
Der russische Architekturhistoriker und Publizist Dr. Dmitrij Chmelnizki nimmt es mit der ganzen deutschen Historikerzunft auf

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The Rise of the Prison Industrial Complex

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Jailing Americans for Profit: The Rise of the Prison Industrial Complex

By John W. Whitehead

Ex: http://www.blacklistednews.com/

“Mass incarceration on a scale almost unexampled in human history is a fundamental fact of our country today—perhaps the fundamental fact, as slavery was the fundamental fact of 1850. In truth, there are more black men in the grip of the criminal-justice system—in prison, on probation, or on parole—than were in slavery then. Over all, there are now more people under ‘correctional supervision’ in America—more than six million—than were in the Gulag Archipelago under Stalin at its height.”—Adam Gopnik, “The Caging of America”In an age when freedom is fast becoming the exception rather than the rule, imprisoning Americans in private prisons run by mega-corporations has turned into a cash cow for big business. At one time, the American penal system operated under the idea that dangerous criminals needed to be put under lock and key in order to protect society. Today, as states attempt to save money by outsourcing prisons to private corporations, the flawed yet retributive American “system of justice” is being replaced by an even more flawed and insidious form of mass punishment based upon profit and expediency.

As author Adam Gopnik reports for the New Yorker:

[A] growing number of American prisons are now contracted out as for-profit businesses to for-profit companies. The companies are paid by the state, and their profit depends on spending as little as possible on the prisoners and the prisons. It’s hard to imagine any greater disconnect between public good and private profit: the interest of private prisons lies not in the obvious social good of having the minimum necessary number of inmates but in having as many as possible, housed as cheaply as possible.

Consider this: despite the fact that violent crime in America has been on the decline, the nation’s incarceration rate has tripled since 1980. Approximately 13 million people are introduced to American jails in any given year. Incredibly, more than six million people are under “correctional supervision” in America, meaning that one in fifty Americans are working their way through the prison system, either as inmates, or while on parole or probation. According to the Federal Bureau of Prisons, the majority of those being held in federal prisons are convicted of drug offenses—namely, marijuana. Presently, one out of every 100 Americans is serving time behind bars.

Little wonder, then, that public prisons are overcrowded. Yet while providing security, housing, food, medical care, etc., for six million Americans is a hardship for cash-strapped states, to profit-hungry corporations such as Corrections Corp of America (CCA) and GEO Group, the leaders in the partnership corrections industry, it’s a $70 billion gold mine. Thus, with an eye toward increasing its bottom line, CCA has floated a proposal to prison officials in 48 states offering to buy and manage public prisons at a substantial cost savings to the states. In exchange, and here’s the kicker, the prisons would have to contain at least 1,000 beds and states would have agree to maintain a 90% occupancy rate in the privately run prisons for at least 20 years.

The problem with this scenario, as Roger Werholtz, former Kansas secretary of corrections, recognizes is that while states may be tempted by the quick infusion of cash, they “would be obligated to maintain these (occupancy) rates and subtle pressure would be applied to make sentencing laws more severe with a clear intent to drive up the population.” Unfortunately, that’s exactly what has happened. Among the laws aimed at increasing the prison population and growing the profit margins of special interest corporations like CCA are three-strike laws (mandating sentences of 25 years to life for multiple felony convictions) and “truth-in-sentencing” legislation (mandating that those sentenced to prison serve most or all of their time).

And yes, in case you were wondering, part of the investment pitch for CCA and its cohort GEO Group include the profits to be made in building “kindler, gentler” minimum-security facilities designed for detaining illegal immigrants, especially low-risk detainees like women and children. With immigration a persistent problem in the southwestern states, especially, and more than 250 such detention centers going up across the country, there is indeed money to be made. For example, GEO’s new facility in Karnes County, Texas, boasts a “608-bed facility still smelling of fresh paint and new carpet stretch[ing] across a 29-acre swath of farmland in rural South Texas. Rather than prison cells, jumpsuits, and barbed wire fencing, detainees here will sleep in eight-bed dormitory-style quarters, wearing more cozy attire like jeans and T-shirts. The facility's high walls enclose lush green courtyards with volleyball courts, an AstroTurfed soccer field, and basketball hoops, where detainees are free to roam throughout the day.” All of this, of course, comes at taxpayer expense.

“And this is where it gets creepy,” observes reporter Joe Weisenthal for Business Insider, “because as an investor you’re pulling for scenarios where more people are put in jail.” In making its pitch to potential investors, CCA points out that private prisons comprise a unique, recession-resistant investment opportunity, with more than 90% of the market up for grabs, little competition, high recidivism among prisoners, and the potential for “accelerated growth in inmate populations following the recession.” In other words, caging humans for profit is a sure bet, because the U.S. population is growing dramatically and the prison population will grow proportionally as well, and more prisoners equal more profits.

In this way, under the pretext of being tough on crime, state governments can fatten their coffers and fill the jail cells of their corporate benefactors. However, while a flourishing privatized prison system is a financial windfall for corporate investors, it bodes ill for any measures aimed at reforming prisoners and reducing crime. CCA understands this. As it has warned investors, efforts to decriminalize certain activities, such as drug use (principally possession of marijuana), could cut into their profits. So too would measures aimed at reducing the prison system’s disproportionately racist impact on minorities, given that the incarceration rate for blacks is seven times that of whites. Immigrants are also heavily impacted, with roughly 2.5 million people having been through the immigration detention system since 2003. As private prisons begin to dominate, the many troubling characteristics of our so-called criminal justice system today—racism, economic inequality, inadequate access to legal representation, lack of due process, etc.—will only become more acute.

Doubtless, a system already riddled by corruption will inevitably become more corrupt, as well. For example, consider the “kids for cash” scandal which rocked Luzerne County, Penn., in 2009. For ten years, the Mid Atlantic Youth Service Corporation, which specializes in private prisons for juvenile offenders, paid two judges to jail youths and send them to private prison facilities. The judges, who made over $2.6 million in the scam, had more than 5,000 kids come through their courtrooms and sent many of them to prison for petty crimes such as stealing DVDs from Wal-Mart and trespassing in vacant buildings. When the scheme finally came to light, one judge was sentenced to 17.5 years in prison and the other received 28 years, but not before thousands of young lives had been ruined.

In this way, minor criminals, from drug users to petty thieves, are being handed over to corporations for lengthy prison sentences which do nothing to protect society or prevent recidivism. This is the culmination of an inverted justice system which has come to characterize the United States, a justice system based upon increasing the power and wealth of the corporate-state.

No matter what the politicians or corporate heads might say, prison privatization is neither fiscally responsible nor in keeping with principles of justice. It simply encourages incarceration for the sake of profits, while causing millions of Americans, most of them minor, nonviolent criminals, to be handed over to corporations for lengthy prison sentences which do nothing to protect society or prevent recidivism. This perverse notion of how prisons should be run, that they should be full at all times, and full of minor criminals, is evil.

Krantenkoppen April 2012 (3)

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Krantenkoppen
April 2012 (3)

HAMAS: THE SEARCH FOR AN ALTERNATIVE.
 “Despite the signing of an agreement in Doha (...), the last round of negotiations between Fatah and Hamas have completely failed to bridge the gap between the political rivals. Of course, this is not the first time this process has encount...ered such difficulties. Yet, today there are many reasons to rethink these complexities as they come in the prevailing uncertainty of the Middle East following the ‘Arab Spring’. For Hamas, the consequences of the ‘Arab Spring’ are still ambiguous (...). Over the last year, Hamas has become susceptible to 2 contradictory developments, chiefly stemming from the changes in Egypt and Syria.
In Egypt, (…) Mubarak was overthrown (…). From the perspective of Hamas, the deposition of Mubarak was a significant watershed since it has been considered as a security threat in the eyes of Mubarak and his regime. (…) Mubarak’s ouster resulted in holding parliamentary elections in which the Muslim Brotherhood (MB) achieved a remarkable triumph. As a Palestinian branch of the original Egyptian MB group founded in 1928, Hamas is content with this electoral victory and hopes that it can gain from the MB victory. Not surprisingly some of Hamas’ leaders and their families moved to settle in Cairo in light of these developments.
However, in Syria, where the figures of Hamas have been living and leading the political activities of the movement over 2 decades, president Bashar Assad, the chief ally to Hamas, is facing the most dangerous threat to his governance since he ascended to power in 2000. In response to the situation in Syria, Hamas initially released a measured diplomatic press statement in which it confirmed that it is standing with both the Syrian leadership and people. Over the year since the beginning of the Syrian uprising, Hamas has been forced to deny (...) that most of the leaders of the movement have pulled out of Syria. Moussa Abu Marzook, Hamas’s second in command, revealed that the movement still has offices in Syria but that most leaders are not living in the country. Although Ismail Haniyeh, the prime minister of Hamas’s government in Gaza, (…) expressed solidarity with the Syrian people struggling for democracy, the majority of Hamas leaders are trying to toe the line of not intervening in the Syrian internal affairs.
Sooner or later, Hamas should answer the challenging questions raised by the inevitable transformations which profoundly changed the political environment in the Middle East. The remarkable electoral triumph of the MB in Egypt does not mean that a new track is opened for Hamas. (…) The political heir of Mubarak’s regime will not change the foreign policy of Egypt which is based mainly on solid ties with Israel and the US. (...)
After Hamas’ takeover of Gaza in 2007, the movement controlled an extended bureaucratic apparatus including about 45,000 officers whose salaries come mainly from Iran.The numerous internal problems which the MB experienced are enough to make it entirely preoccupied with the complicated details of the Egyptian political landscape. The MB in Egypt shows pragmatic positions regarding the external policy of Egypt, especially related to the treaty with Israel. As a result, Hamas should not expect a lot from its brothers in Egypt.
(...) It is reasonable to assume that Hamas’ ambiguous positions regarding the Syrian regime have caused a disagreement with Iran. (...) The Iranians are not happy with Hamas’ positions on Syria. Such disagreement, consequently, could affect the Iranian financial support for Hamas. Some observers argue that Hamas could secure a new source of funding – Qatar for example – but this would require the movement to make drastic political changes which might be too dangerous an adventure for Hamas right now.
Then there is the ‘internal dilemma’. (…) After signing the reconciliation agreement in Doha, some of Hamas’ leaders in Gaza publicly criticized the accord (…). It is not common for a movement like Hamas which has been characterized by consistent positions among its leaders to witness such disagreements. This could paint a picture of what to be expected of the internal state of Hamas if it faces a debate over its political program in future.”
http://lizzie-phelan.blogspot.com/2012/04/hamas-search-for-alternative.html
 
 
KOFI ANNAN - VREDESGEZANT?
UNO-Arabische Liga gezant Kofi Annan beweert de laatste weken de ‘vredesinspanningen’ in Syrië te steunen om een einde te maken aan het conflict dat nu al meer dan een jaar aanhoudt. In werkelijkheid is zijn functie alleen maar om tijd te k...open voor een instortend militair front en toe te laten dat NATO-bezette ‘veilige havens’ ingestalleerd worden van waaruit verder destabiliserende actie tegen de Syrische regering kan gevoerd worden en de druk opgevoerd.
In het laatste rapport ‘Assessing Options for Regime Change’ van het ‘Brookings Institution’, de denktank die de blueprint heeft ontworpen voor ‘regime-change’ in Lybië, Syrië en Iran, staat: ‘Een alternatief is een diplomatieke inspanning om eerst te focussen op hoe het geweld te stoppen en humanitaire toegang te krijgen zoals ondernomen onder Annan’s leiding. Dit kan leiden tot het creëren van ‘veilige havens’ en hummanitaire corridors die zouden moeten onder controle staan van een beperkte militaire macht. Dit doet natuurlijk afbreuk aan de VS-doelstellingen voor Syrië en zou Assad aan de macht kunnen houden. Maar vanuit deze uitgangspositie is het mogelijk dat een brede coalitie met het nodige internationale mandaat verder de dwingende druk zou kunnen opvoeren.’ http://www.brookings.edu/~/media/Files/rc/papers/2012/0315_syria_saban/0315_syria_saban.pdf
Het kan voor velen een verrassing lijken dat ‘vredesgezant’ Kofi Annan liegt, zowel tegenover Syrië als tegenover de wereld met medeplichtigheid van de UNO en de Arabische Liga. Annan is een vertrouweling van de Wall Street-speculant George Soros en manipulator Zbigniev Brzezinski’s ‘International Crisis Group’(http://www.crisisgroup.org/en/about/board.aspx), samen met neocon Kenneth Adelman en MEK-lobbyist Generaal Wesley Clark. (http://www.wacbelgium.be/nieuws/eu-steun-voor-terreurorganisatie-%E2%80%98mek%E2%80%99)
De ‘International Crisis Group’ mag dan al proberen haar missie-statement van ‘het voorkomen en oplossen van dodelijke conflicten’ hard te maken, de realiteit is dat de conflicten die ze probeert op te lossen in de eerste plaats door haarzelf en haar agenten gecreëerd werden om een reeks op voorhand bepaalde ‘oplossingen’ te rechtvaardigen. (...)
Annan is in feite een directe vertegenwoordiger van de Westerse geopolitieke ambities, meer specifiek deze van Wall Street en de City of London. De International Crisis Group, waarvan Annan lid is, wordt gefinancierd door Carnegie Corporation of New York, Humanity United, Hunt Alternatives Fund, Jewish World Watch, Open Society Institute, Rockefeller Brothers Fund, Sigrid Rausing Trust, British Petroleum (BP), Chevron, Shell, Statoil, Kimberly- Clark Corporation, Morgan Stanley, NPI Capital, Deutsche Bank Group.
Wanneer de Brookings Institution-verklaringen dat Annan’s rol slechts een onderdeel is van de strategie voor regimeverandering in Syrië en de indrukwekkende waaier van multinationals, banken en stichtingen die Brookings vertegenwoordigt, is het duidelijk dat het de financiële belangen zijn die achter de UNO-acties zitten en niet een ‘internationale consensus’. De UNO is slechts een front om legitimiteit te verlenen voor wat anders naakte agressie van militaire verovering zou zijn.
Het moet de Syrische bevolking een riem onder het hart zijn om zich te realiseren dat Annan, met rechtstreekse banden met het neocon-establishment dat reeds lang de destabilisatie van Syrië op het oog heeft, ‘bezorgd’ is om vrede te brengen in een conflict waar Syrische rebellen en buitenlandse milities opduiken met VS- en EU- wapens in hun hand, en te zien dat Annans missie er alleen maar is om tijd te kopen voor de wankelende, door het buitenland-gesponsorde rebellie zodat die zich op volle sterkte kan herstellen in ‘veilige zones’ onder de schijn van een ‘vredesdeal’.
(...) Annan werkt kennelijk in tandem met NATO – met als objectief: verdere destabilisering en de omverwerping van de soevereine regering van Syrië – niet vrede."
http://www.wearechange.be/nieuws/kofi-annan-%E2%80%93-vredesgezant
 
 
TIJD VOOR BEZINNING OMTRENT SYRIË.
"Eerst was er in Bagdad de Arabische top, die sinds het begin van de omwentelingen in de regio niet meer bijeen was geweest. De top sprak zich uit voor een nationale dialoog en eiste niet langer dat Assad de handdoek in de ring gooide. (......)
Daarna verwierpen de Vrienden van Syrië op hun vergadering in Istanbul bijna eensgezind een militaire interventie onder welke vorm ook. Dat was de tweede nederlaag op rij voor Saoedi-Arabië en Qatar, die willen dat de rebellen worden bewapend en een beschermde zone krijgen op Syrisch grondgebied. Als troostprijs mogen beide voortvarende golfstaten de soldij betalen van het Vrij Syrisch Leger en zodoende proberen de grootschalige desertie van regeringstroepen uit te lokken die al een jaar op zich laat wachten.
Intussen zetten de Saoedi's Jordanië onder druk om zijn 350 kilometer lange grens met Syrië open te stellen voor wapensmokkel ten gunste van de opstand. Saoedi-Arabië is geen buurland van Syrië en Qatar evenmin. Beide monarchieën predikten in de woestijn toen ze de Vrienden in Istanbul vroegen om de rebellen te bewapenen. Hillary Clinton had er geen oren naar. Van gastheer Erdogan, net terug van een bezoek aan Teheran, wist ze dat Iran vierkant achter Damascus blijft staan. De Iraanse geestelijke leider Khamenei dreigde er zelfs mee de hervatting af te blazen van de P5+1-onderhandelingen (met de vijf vaste leden van de VN-Veiligheidsraad plus Duitsland) over het nucleaire dossier mocht het tot een militaire interventie komen in Syrië. Dat wil het Witte Huis liever niet, zoals het ook geen nieuwe militaire avonturen wil in dit verkiezingsjaar.
Washington ziet bovendien geen tekenen van een ineenstorting van het Syrische regime, ergert zich blauw aan de verdeeldheid van de oppositie en is bang dat eventuele wapens in foute handen terechtkomen. Waar de nieuwe, behoedzame benadering van de Syrische kwestie op neerkomt, is samengevat door secretaris-generaal Rasmussen van de NAVO. Het bondgenootschap is tegen wapenleveringen, zei hij, en we zijn hoegenaamd niet van plan om tussenbeide te komen. (...)
Het Vrij Syrisch Leger, waarvan de leiders zich veilig in het buitenland bevinden, is een zootje ongeregeld waarbij nogal wat onfrisse figuren rondlopen. Tijdens een bezoek aan Azerbeidzjan zei minister Lavrov van Buitenlandse Zaken woensdag dat de Syrische oppositie, 'al werd ze tot de tanden bewapend', nooit het leger van Assad zou kunnen verslaan. (...) Moskou, beschermer van Assad en dus geen lid van de Vrienden, werpt zich voorzichtig op als bemiddelaar en zoekt daarmee zijn oude belangen in Syrië veilig te stellen. Ultimatums zijn volgens Lavrov van weinig nut en hij wijst terloops op de tegenspraak tussen steun aan het plan-Annan en deelneming aan de Vrienden van Syrië, een groep die de oppositie aanmoedigt elke dialoog te weigeren. (...) Dinsdag waarschuwde onderminister Ryabkov dat de krachtmeting in het Midden-Oosten 'elk ogenblik kan overkoken in militaire actie'. De Perzische Golf wemelt van de oorlogsbodems. Volgens Ryabkov kan 'die pot ontploffen als het diplomatieke ventiel niet wordt geopend'.
Achter de Syrische krachtmeting schuilt immers een breder regionaal conflict tussen sjiieten, onder aanvoering van Iran, en soennieten, onder leiding van Saoedi-Arabië en Qatar. Of, zoals Teheran het formuleert: de Vrienden van Syrië rijden voor de zionisten en willen het verzet tegen Israël breken. (...)
Niet alleen de Golf ligt vol oorlogsbodems. In de oostelijke Middellandse Zee houden de luchtmacht en de marine van Israël, Griekenland en de VS manoeuvres onder de codenaam Noble Dina. In hetzelfde gebied zijn ook de Russen militaire oefeningen begonnen vanuit hun basis in de Syrische haven Tartoes. (...)
Voor het publiek is de Syrische windstilte een kans om de vreemde vruchten van de revoluties te proeven in Jemen of Libië, waar de chaos hand over hand groeit, in Egypte, waar de Moslimbroeders lonken naar de absolute macht, of in het onzekere Azawad, waar de jihadi's onder de zwarte vlag van Ansar Dine en Al Qaida in de Maghreb met de wapens uit de geplunderde arsenalen van Kadhafi hun godstaat stichten."
http://www.demorgen.be/dm/nl/2461/De-Gedachte/article/detail/1420946/2012/04/10/Tijd-voor-bezinning-omtrent-Syrie.dhtml?utm_source=facebook&utm_medium=web#.T4P5LtmMeSI.facebook
 
 
US SEEKS 'NEVER-ENDING CRISIS', NOT WAR WITH IRAN.
‎"The current US activities around Iran should not be understood as preparations for a military stage of the conflict, but as part of a more universal strategy by the US authorities, aiming to destabilize the political situation around newly emerging global power centers. (...) Destabilizing the situation in the Middle East, North Africa and Africa in general seriously hinders access to world energy resources, holding back the development of new industrial nations (...). This, in turn, allows the US to remain the world leader – which is its official ultimate objective."
http://rt.com/politics/russia-holds-iran-extremely-888/
 
 
'MERCHANT OF DEATH' CONNECTED TO U.S. GOVERNMENT AND DICK CHENEY. 
‎"Notorious arms smuggler Viktor Bout (...) has been sentenced to 25 years in prison. (…) The case allowed American companies to avoid exposure of their collusion with the U.S. government and private companies linked to Dick Cheney during the Iraq war, even after United Nations sanctions against him in 2004. (…) We had a number of private security firms. We had Brown & Root, we had Halliburton, th...at were linked to former Vice President Cheney, who were involved at the time with Viktor Bout. (…) These private security firms continued to use Viktor Bout in violation of U.S law, in violation of U.N. sanctions, even American agencies."
http://americanfront.info/2012/04/09/merchant-of-death-connected-to-u-s-govt-dick-cheney/
 
 
SOUTH SUDAN: REALITIES AND FICTIONS.
"The case of South Sudan is an exemplary illustration of the success of Israeli strategy in Africa. Relying on the armed forces of the United States, as in Iraq and Libya, the Hebrew state and its ally have been able to divide the country and thereby eject their most important commercial rival, China, from the part of Sudan richest in resources. (...)
For decades the United States and Israel supported secessionist forces in (...) southern Sudan until 2005, when North and South signed an agreement considered by the Bush Administration to be a significant triumph in its foreign policy. The Obama Administration has since reaped the fruits. On July 9, 2011, South Sudan proclaimed its independence. (...) South Sudan acquired 75% of Sudanese oil reserves.
But it is the North that possesses the oil pipeline through which Southern petroleum passes to the Red Sea for export. This is the source of contention between the 2 governments concerning the sharing of oil revenues, enflamed as well by the issue of control over border zones that are nearly 1000 miles long, a confrontation that is carried on, as well, by armed local groups.
In all of this, the United States continues to play the key role. South Sudan is increasingly embedded in INMET, the International Military and Education Program administered by Africom with funds from the U.S. Department of State which trains 10,000 African 'military and civilian leaders' in 150 military schools each year.
Simultaneously, and also under Washington’s sponsorship, the project for a new energy corridor is about to be completed. The project, consisting of a pipeline, a highway and a rail line, will allow the transport of oil from South Sudan to the Kenyan port of Lamu. The advantages of this to Washington are manifold. On the one hand, in bypassing the North Sudan pipeline, it strikes a grave blow to a country already weakened by the loss of 2/3rds of its oil reserves (...). On the other hand, it also marginalizes Chinese companies which along with several Indian and Malaysian firms, were extracting Sudanese oil. In this way, the bulk of the reserves can be controlled by American and British companies. (...)
A significant fact: South Sudan will open its embassy in Jerusalem, thereby acknowledging it as the capital and Israel will 'train' thousands of South Sudanese refugees before repatriating them. Meanwhile, the government of Juba, among its first acts, chose English and not Arabic as the official language and is demanding entrance into the British Commonwealth. A neo-colonial entity has thus been added to the old ex-colonies of the African continent."
http://www.voltairenet.org/South-Sudan-Realities-and-Fictions
 
 
IJSLAND SCHELDT HYPOTHEEKSCHULDEN VAN ZIJN BURGERS KWIJT.
De regering heeft aangekondigd grote delen van de hypotheekschulden van zijn burgers te zullen kwijtschelden. (...) In februari al (...) had het land hypotheekleningen ter waarde van 13% van het BBP kwijtgescholden, een maatregel waarvan meer dan een kwart van de IJslandse gezinnen heeft kunnen profiteren. (...) Lars Christensen van de Danske Bank A/S in Kopenhagen: ‘IJsland is een voorbeeld van wat in een crisis moet worden gedaan. Elke econoom zal dat bevestigen.’
De IJslandse gezinnen konden profiteren van een overeenkomst tussen de regering en de banken, waarvan nog grote delen in overheidshanden zijn, om alle schuld boven de 110% van de waarde van hun huis kwijt te schelden. Na het instorten van het bankensysteem waren vele IJslanders in de problemen geraakt. In juni 2010 had het IJslandse Hooggerechtshof al beslist dat leningen die in vreemde valuta waren geïndexeerd onwettig waren en dat gezinnen dus niet langer de daaraan gekoppelde verliezen moesten terugbetalen. (...) IJsland weigerde na het instorten van zijn financiële systeem zijn bankschulden af te betalen en liet zijn zwakste banken failliet gaan, dat alles ook nog eens goedgekeurd via een referendum."
http://www.express.be/business/nl/economy/en-nog-een-les-uit-het-noorden-ijsland-scheldt-hypotheekschulden-van-zijn-burgers-kwijt/166162.htm
 
 
POLITIE HEEFT 2 MINUTEN NODIG OM VOLLEDIGE INHOUD VAN JE GSM OF SMARTPHONE TE KOPIËREN.
‎"In minder dan 2 minuten kan de Amerikaanse politie de volledige inhoud van 3.000 verschillende modellen mobiele telefoons kopiëren, waaronder die van de populaire iPhone. (...) Het apparaat kan het paswoord omzeilen en alle bestaande, verborgen en gewiste informatie alsnog oproepen, waaronder je belgeschiedenis, je tekstberichten, contacten, foto’s en geotags. Met andere woorden: alles wordt binnen een paar minuten volledig gekopiëerd."
http://www.express.be/business/nl/technology/politie-heeft-2-minuten-nodig-om-volledige-inhoud-van-je-gsm-of-smartphone-te-kopieren/165708.htm

Les victimes de la république

Les victimes de la république

 

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http://www.actionroyaliste.com/

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dimanche, 22 avril 2012

België, kolonie van Frankrijk

België, kolonie van Frankrijk

door Dirk Barrez

Ex: http://www.uitpers.be/

vlaanderen-een-franse-kolonie.jpgNiet zo lang geleden zie ik hoe een kwade man in hartje Brussel tegen een ober roept: "Vous Belges, vous êtes les esclaves des français." Weinigen die het zo spits zouden formuleren. Maar vooral, we weten al veel langer dat hij gelijk heeft, de rijkdommen van deze kolonie worden op onrechtmatige wijze geplunderd.

Is het wel opportuun om vandaag termen als kolonie of zelfs slavernij boven te halen? Past dat wel in tijden van mondialisering, en van een Europa dat zich moeizaam verenigt? En toch, bij nader toezien is het misschien wel meest accuraat.

Natuurlijk is België formeel een onafhankelijke staat, zelfs met meer dan één regering. Zo bekeken kan dit land hoogstens een vazalstaat of satellietstaat zijn.

Essentiëler echter om te spreken van een kolonie is de vraag of de opbrengsten en rijkdommen van een samenleving of land niet onterecht wegvloeien naar een ander land. En of het ene land over de macht beschikt om zijn wil op te dringen en het andere land een voortdurende aderlating op te leggen… en dus te exploiteren als een kolonie.

Laten we de relatie tussen de Belgische en de Franse samenleving eens van dichterbij bekijken. En laten we dat doen voor sectoren die werkelijk van het meest cruciale belang zijn.

Daar gaat het Belgische geld

Elke samenleving en elke economie moet kunnen steunen op een goed functionerend spaar- en kredietwezen. België is het enige welvarende land dat in de financiële crisis van 2008 zijn grootste bank – Fortis - niet in eigen handen hield maar verkocht aan een ander land, namelijk aan het Franse BNP Paribas. Dat dit gebeurde voor een veel te lage prijs maakt het alleen maar erger; ook erg is dat daarmee een nog grotere en risicovollere bank werd gemaakt; en nog erger dat er sindsdien ontzettend grote netto geldstromen van tientallen miljarden euro op gang zijn gebracht van dochter BNP Paribas Fortis richting Frans moederhuis, 30 miljard euro wist Le Soir eind oktober vorig jaar. BNP probeerde te ontkennen maar op basis van al te oude cijfergegevens.

Bijna 350 miljard euro bedraagt het bruto nationaal product van België, dat is de waarde van alle in één jaar door alle inwoners van dit land voortgebrachte goederen en diensten. Wie dit weet, ziet makkelijk dat het bij de BNP Paribas geldstromen niet om kleingeld draait. De 30 miljard euro die in Frankrijk belandde, is met andere woorden het volledige maandinkomen van alle Belgen.

Het is niet de enige bancaire geldstroom. In de Frans-Belgische financiële constructie Dexia stonden velen verbaasd toe te kijken op de 44 miljard euro Belgisch geld die richting Frankrijk vertrok– een bedrag ter grootte van anderhalf maandinkomen van alle Belgen samen.

Het was bijna zeker die onterecht verworven machtspositie waarmee Frankrijk België kon dwingen om de risico’s bij de instortende Dexia holding af te dekken … voor maar liefst 54 miljard euro. Terwijl die risico’s meest van al aan de Franse Dexia kant zijn opgebouwd, staat Frankrijk maximaal garant voor minder dan 33 miljard euro. Een dergelijk oneerlijk evenwicht kenmerkt een wel heel ongelijke machtsrelatie.

Intussen is, gelukkig maar, Dexia Bank België een Belgische overheidsbank geworden met de nieuwe naam Belfius. Maar daar is wellicht al te veel geld voor betaald, zeker als men de kleine tien miljard euro aan risicovolle obligaties van Griekenland, Portugal, Ierland, Spanje en Italië in acht neemt die alweer in deze deal ‘gesmokkeld’ zitten. Zo draagt de Belgische ‘kolonie’ nog veel meer van de Franse lasten.

Zoveel is wel duidelijk, de Belgen, nochtans heel grote spaarders, zijn geen meester over hun vele geld. Hun geldsysteem dient in grote mate de belangen van een ander land dat de opbrengsten ervan exploiteert. Dat is net wat de relatie tussen een kolonie en haar moederland kenmerkt.

Een gepeperde energierekening

Al even essentieel voor elke samenleving is hoe ze aan haar energie geraakt, en wat ze daarvoor moet betalen. Want zowat alle welvaart die ons land weet voort te brengen, steunt in grote of in heel grote mate op de inzet van energie. Belangrijke vraag dus, wie heeft het voor het zeggen als het om onze energie draait?

De omzet van elektriciteits- en gasbedrijf Electrabel is ongeveer 15 miljard euro per jaar, goed voor ruim vier procent van het nationaal inkomen van dit land. Belangrijker nog is dat dit bedrijf veruit het dominante zwaargewicht is in de Belgische energiesector, zeg maar ronduit een quasi monopolist. Al even belangrijk is dat Belgische politici er ook in dit geval in zijn geslaagd om een zo cruciale activiteit die het energiesysteem van een land is, in de handen van het buitenland te doen belanden… en opnieuw is dat land Frankrijk, in de vorm van het energiebedrijf GDF Suez, dat voor meer dan een derde zelfs rechtstreeks in handen is van de Franse staat.

Het resultaat is dat zowel de Belgische consumenten als de Belgische vooral kleine en middelgrote bedrijven hun energie veel duurder betalen dan in Frankrijk.
Het resultaat is ook dat de Belgische klanten die de kerncentrales van Electrabel hebben afbetaald niets zien van de enorme financiële opbrengsten die de verlengde levensduur oplevert.
Het resultaat is zelfs dat de Belgische staat het amper aandurft om die meerwaarden zelfs maar een beetje te belasten.

Het algemene resultaat is dus dat er elk jaar een netto financiële inkomensstroom ter waarde van zowat 2 miljard euro richting het Franse GDF Suez vloeit, elk jaar opnieuw. Dat is dus een dik half procent van ons BNP - ons gezamenlijke inkomen – dat we structureel verliezen. En de fundamentele reden is dat de controle en exploitatie van ons energiesysteem in handen is van een ander land dat dit alles aanwendt in het eigen belang.

Hoe komt dit toch?

Zeg nu nog dat België geen Franse kolonie is, of dat het er – in een globaliserende wereld - niet zou toe doen waar de beslissingscentra van grote bedrijven en sectoren zouden liggen.

Een politieke elite van een samenleving die een dusdanige afroming van rijkdom organiseert ten nadele van haar eigen burgers, gedraagt zich dus feitelijk als de uitvoerend gouverneur in dienst van het ‘moederland’. België wordt beheerst door een elite die haar eigen belangen najaagt door zich in te schrijven in deze koloniale relatie.

Deze elite bestrijden blijkt aartsmoeilijk. In elk geval organiseert de weerstand zich heel slecht in ons land. Neem werkgevers en werknemers die zeker de jongste jaren maar moeilijk overeenkomen. Maar over Electrabel en de al te dure elektriciteitsprijzen zei Karel Van Eetvelt van Unizo tegen een vakbondsvertegenwoordigster op een recent LinksRechts debat van DeWereldMorgen.be: "Wij vechten daar dezelfde strijd, maar blijkbaar hebben we te weinig te zeggen". Die vaststelling is illustratief voor de onmacht in dit land om werkelijk het eigen lot in handen te kunnen nemen: zelfs de verzamelde KMO-werkgevers en werknemers krijgen niets fundamenteel gedaan.

Het Belgische machtskluwen

Het is interessant om, al was het maar heel even, het machtskluwen dat dit land in zijn greep houdt onder de schijnwerpers te houden.

Dan zou het misschien opvallen dat Sophie Dutordoir niet alleen de CEO is van Electrabel - of juister van de Divisie Energie Benelux-Duitsland van GDF Suez - maar tegelijkertijd ook in de raad van bestuur zit van BNP Paribas Fortis.

Altijd zit er ook wel iemand van Suez-Electrabel in de regentenraad van de Nationale Bank. Tot 30 september 2008 was Pierre Wunsch zowel directeur van Electrabel als regent, om daarna kabinetschef bij toenmalig minister van Financiën Didier Reynders te worden.

Wie gelooft in toeval als zijn opvolger Gérald Frère is, bestuurder van Suez-Tractebel en zoon van Albert Frère, grootste privé aandeelhouder van Suez? Die Albert Frère is de Belg die eigenlijk in de grootste mate de uitverkoop van de Belgische economie heeft georganiseerd, in grote mate aan Franse belangen. Dat was zo met Electrabel en Tractebel, dat was ook zo met Petrofina dat uiteindelijk bij het Franse Total belandde. En ook de uittocht van zowat de volledige staalindustrie en van de BBL bank was zijn werk. Oh ja, verbaast het dat Gérald Frère ook ereconsul is van Frankrijk?

Sinds eind 2008 is de bij Electrabel net uitgewuifde Wunsch – je houdt het niet voor mogelijk – vertegenwoordiger voor de regering in de raad van bestuur van KBC.

Het is deze elite er blijkbaar heel veel aan gelegen om de touwtjes van zowel de financiële als de energiesystemen overal mee in handen te hebben.

En nog eentje, om het niet af te leren, nieuws van deze week. Wie is de nieuwe voorzitter van NMBS Logistics? Dat is Jean-Pierre Hansen, de vroegere baas van Electrabel dat altijd al veel te dure prijzen aanrekende aan NMBS voor elektriciteit.

Je kan er om lachen, om deze aanhoudende Belgenmoppen, maar het is vooral zuur lachen. Want dit machtskluwen verhindert dat onze samenleving van onderop de duurzame economie en de economische democratie uitbouwt die ze morgen nodig heeft.

Veel moeilijker dan elders komt er bijvoorbeeld ruimte voor andere energiebedrijven en sterke energiecoöperaties, vergeet zelfs dat dit land en zijn politici – tegen GDF Suez in - echt zou werken aan een energiebeleid dat komaf maakt met kernenergie en de toekomst kiest van hernieuwbare energie. En ook bijvoorbeeld een initiatief voor een nieuwe coöperatieve bank kan zich al maar best voorbereiden op stevige tegenwind.

Intussen is het deze week zover gekomen dat bij Electrabel alle belangrijke functies ingenomen worden door Fransen. De invloed die de Belgische overheid en samenleving dus niet hebben - namelijk om de Belgische financieel-economische elite te verplichten om de gerechtvaardigde rechten en belangen van haar burgers na te streven - die invloed heeft Suez wel, maar dan om de Belgische dochter volledig naar haar pijpen te laten dansen… en hetzelfde te proberen met de Belgische politiek. Het valt te vrezen dat de kans op slagen groot is.

Pas op voor de valstrik

Opnieuw naar de sterk geïnternationaliseerde wereld die onze economie, samenleving en politiek intussen toch zijn geworden. Dreigt deze analyse niet het risico van een aftands nationalistisch perspectief te hanteren?

Wel, niet echt. Want het is goed en noodzakelijk om Europees en zelfs mondiaal te denken. Natuurlijk moeten we een Europese ruimte nastreven die ons allemaal helpt om onze economische, sociale, culturele en democratische ambities na te streven.

Maar dit veegt de diversiteit van samenlevingen niet weg, noch hun eigen verantwoordelijkheid voor de beste organisatie van hun huishouden. We kunnen er echt niet op rekenen dat de duurzame huizen, scholen, industrie, landbouw, openbaar vervoer en andere voorzieningen die we in de nabije toekomst hard nodig hebben, zomaar uit de lucht zullen vallen.

Nog minder kan het een vrijbrief zijn voor nationalistisch machtsmisbruik dat oude koloniale machtsverhoudingen reproduceert in de 21ste eeuw. Want zo naïef wil niemand toch zijn: dit op koloniale wijze ingepikte geld is allemaal geld dat niet langer ter beschikking is voor de noden van de Belgen en voor de dringende ombouw naar een veel duurzamer economie dan de huidige. Zulke echte sociaalecologische ontwikkeling zal en moet ook morgen in de eerste plaats steunen op de inzet van overheden, bedrijven en organisaties in elke samenleving. En, hoe beter samenlevingen daar in slagen, hoe makkelijker ze ook andere kunnen ondersteunen en de middelen hebben om solidair te kunnen zijn met wie het minder goed gaat.

Autonomie en onafhankelijkheid heroveren

Onze eerste en meest dringende opdracht is dan om opnieuw onze autonomie en onafhankelijkheid te heroveren en niet langer een Franse kolonie te zijn. Want, zeg nu zelf, het kan gebeuren dat landen tegen hun zin tot kolonie worden gemaakt, maar welk land blijft voortdoen met een elite die de belangen van haar burgers voortdurend uitverkoopt en zichzelf tot kolonie maakt?

(Uitpers nr. 141, 13de jg., april 2012)

Bron: dewereldmorgen.be