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mardi, 27 mars 2012

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999

Per non dimenticare il 24 Marzo 1999, inizio dei "bombardamenti democratici" sulla Jugoslavia

di Andrea Salomoni

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

http://sites.etleboro.com/thumbnails/news/18433_NATO_bombs_hit_downtown_Belgrade_1999.jpg

Il 24 Marzo del 1999, iniziarono i bombardamenti "democratici" sulla Jugoslavia e la criminale aggressione contro il suo popolo; mentre il 10 giugno venivano stipulati gli accordi di pace a Kumanovo, e dopo 13 anni ecco che la verità faticosamente si fa largo anche a livello ufficiale:...Altro che “genocidi e fosse comuni mai trovate”, “diritti umani negati” e “pulizie etniche” mai avvenute, se non dopo l’occupazione della NATO, e compiuta dalle bande criminali dell’UCK nei confronti dei serbi e di tutte le minoranze non albanesi, oltre che contro gli albanesi jugoslavisti. A dodici anni dalla fine dell’aggressione la verità lentamente emerge, altro che “ingerenza umanitaria”, ecco a cosa miravano i criminali bombardamenti “terapeutici” sulla Jugoslavia. Erano semplicemente mire imperialiste, soltanto che ora non lo diciamo più noi "complottisti" come facciamo dal 1999, adesso ci sono le prove e le dimostrazioni. Sotto trovate una cartina della Serbia Montenegro, con indicati gli obiettivi e gli interessi che la NATO ha richiesto al nuovo governo, docile vassallo dell’occidente, come condizione per entrare nella lista d’attesa per la Partnership per l’organizzazione atlantica e per poter aspirare ad entrare un giorno, nell'Europa dei padroni. La cartina vale forse più che tutte le analisi, ipotesi, disquisizioni teoriche fin qui fatte, nella sua fredda sinteticità è come l’esibizione dell’arma del delitto, tutte le menzogne, le falsità, gli alibi degli aggressori, crollano come un castello di carte. La cartina è su ciò che si discusse tra i vertici NATO e il nuovo governo serbo montenegrino; rappresenta gli obiettivi e gli interessi ritenuti “necessari” dall’Alleanza atlantica e dagli USA: porti, aeroporti, caserme, siti logistici per installazioni radar, zone considerate strategiche per basi, ecc. ecc. Nella regione balcanica, ora che sono state portate la libertà e la democrazia…occidentali, ovviamente, la situazione di agibilità e sovranità, per i popoli e stati è sinteticamente questa:

in Ungheria l’ex base sovietica di Tasar è ora la principale base militare americana fino alla Russia; 

in Albania sono state posizionate le basi navali più grandi, oltre all’aeroporto vicino a Tirana;  

in Macedonia sono state occupate dalle truppe Nato le due più grandi caserme del paese a Tetovo e a Kumanovo, oltre all’aeroporto di Petrovac, Skoplije e al poligono militare di Krivolak; 

la Bosnia Erzegovina è stata adibita per l’aviazione: l’aeroporto di Dubrovac, Tuzla è diventato base aerea Nato, così come a Brcko e Bratulac, sono state messe due basi terrestri; 

i maggiori porti della Croazia sono stati adibiti per le unità navali, mentre all’aeroporto vicino Pula c’è ora una base dell’Alleanza oltre al poligono di Slunj vicino Djakova.

 

Dalla Romania è stata presa la base navale di Costanza, l’aeroporto militare vicino a Bucarest, le basi terrestri vicino Timisoara, a Costanza, Kluza e Vlaskoj, ma ne sono richieste altre tre per ultimare il dislocamento delle truppe nella regione. 

 In Bulgaria è stata collocata una base navale a Varna e una terrestre a Sarafovo Infine in Kosovo vi è Camp Bondstel a Urosevac e un'altra base a Gnjlane. Da questo scenario geo-militare dei Balcani una cosa salta immediatamente all’occhio, in quest’elenco manca solamente un paese, che ancora non risulta “occupato” da basi straniere, ed è la Serbia Montenegro, ex Repubblica Federale Jugoslava; ecco svelato l’arcano dei mille contorcimenti mass mediatici, inventati per giustificare l’aggressione e lo smantellamento di quell’ultmo pezzo di Jugoslavia, che aveva una gravissima colpa per questi tempi: quella di pretendere e difendere la propria indipendenza e sovranità e quella di non volere truppe straniere a casa propria. E questo nel ventunesimo secolo è una colpa gravissima, perché si diventa un ostacolo “de facto” ai piano geo-strategici dell’imperialismo americano, e non può essere ammesso. O si accetta o si viene spazzati via, certo le motivazioni pro forma vengono trovate e pianificate attraverso la disinformazione strategica, c’è sempre un buono e sacro motivo democratico per aggredire un popolo o un paese “ non asservibile” con pressioni o dollari.  Qui come in Iraq, come in Palestina, Libia, Libano, Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Bielorussia ecc. ecc perché la lista è continuamente suscettibile di cambiamenti o aggiornamenti, a seconda degli eventi che accadono. E così si può tranquillamente capire come, nelle trattative tra un nuovo governo serbo montenegrino, creato, sponsorizzato e finanziato per arrivare al potere, scalzando un governo di unità nazionale che impediva questi scenari in terra serba, la discussione è come fosse una riunione amministrativa di riscossione di quanto dovuto. Ai “Quisling” locali il governo amministrativo, alla NATO ed agli USA il potere di decidere e comandare, a casa di altri. Il ministro della difesa, nei colloqui di Londra per poter entrare nella Partnership Nato ha ricevuto le seguenti richieste, ritenute necessarie per “armonizzare” le relazioni tra la nuova Serbia e l’occidente:

la stazione radar di Kopaonik, la più avanzata tecnologicamente dell’esercito serbo ed anche strategica per qualsiasi minima concezione difensiva del paese e quella di Pesterska;

basi aeree a Batajnica vicino Belgrado, Zlatibor, Kraljevo, Nis e Visoravan:basi terrestri a Novi Sad, Pancevo, e Nis;

le basi navali di Herceg Novi e Bar sulla costa montenegrina.

Oltre alla richiesta di una consistente riduzione degli effettivi dell’esercito federale, a cui l’ossequiente nuovo governo “libero” ha risposto con una proposta  di passare da 70.000 militari a circa 35.000. Quindi trasformare quello che era  l’esercito più forte e organizzato di tutti i Balcani, in una poco più di milizia territoriale, debole e quindi sottomessa e ubbidiente. Già, perché una delle clausole presupponeva anche la presenza di “esperti militari” statunitensi nei vertici degli Stati Maggiori serbo montenegrini. 

E qualcuno osa chiamare tutto questo…libertà?

Queste trattative e richieste sono la dimostrazione che le aggressioni ai popoli e paesi “renitenti o resistenti”, non cessano con il rumore dei bombardamenti “intelligenti”, ma proseguono con la distruzione degli stati sociali, delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione, con le politiche di privatizzazioni e svendite delle ricchezze nazionali, nell’immiserimento che investe la stragrande maggioranza della società, ed infine con l’asservimento militare, ultimo passaggio per annientare completamente qualsiasi inversione di tendenza politica, essendo coscienti che il malessere e il disagio sociali, prima o poi si trasformeranno in lotte e conflittualità. 

Così saranno garanti della pace sociale e degli interessi di coloro, che nel frattempo parallelamente, si sono  formati ed arricchiti : le borghesie “compradore” locali, veri e propri pirati e banditi in doppiopetto, ma legati a doppio filo con gli interessi del capitale straniero; che sono altro da quella borghesia nazionale che perlomeno, aveva trovato un alleanza con le forze patriottiche e popolari, per resistere all’invasione e asservimento economico, politico e sociale del paese, in un ottica di interesse nazionale.

Questi gli obiettivi e le richieste fatte dalla NATO, al governo della Serbia Montenegro, per diventare uno Stato “democratico, libero ed europeo”. 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

R. Steuckers: Spreekbeurt - Antwerpen - 2011

 

Spreekbeurt - Antwerpen - 2011

lundi, 26 mars 2012

Le plan Vigipirate écarlate après Toulouse. Cui prodest ?

Le plan Vigipirate écarlate après Toulouse. Cui prodest ?

par Gustave LEFRANÇAIS

« Les bombes-fusées qui tombaient chaque jour sur Londres étaient probablement lancées par le gouvernement de l’Océania lui-même, juste pour maintenir les gens dans la peur ”. »

George Orwell, 1984

Dans le monde du spectacle de la marchandise où les intérêts agissants de la dictature démocratique des Mafia de l’argent sont à la fois si bien et si mal cachés, il convient toujours pour saisir les mystères du terrorisme d’aller au-delà des rumeurs médiatiques policières puisque le protègement des secrets de la domination opère continûment par fausses attaques et véridiques impostures.

Le leurre commande le monde du fétichisme de la marchandise et aujourd’hui d’abord en tant que leurre d’une domination qui ne parvient plus à vraiment s’imposer au moment où l’économie historique de la crise manifeste explosivement la crise historique de l’économie elle-même.

Du meurtre d’Aldo Moro par les Brigades rouges étatiques aux attentats pentagonistes du 11 septembre et en passant évidemment par les tueries calculées de Toulouse et de Montauban, la société du spectacle de l’indistinction marchande ne cesse de s’éminemment montrer comme le monde de l’inversion universelle où le vrai est toujours réécrit comme un simple moment nécessaire de la célébration du faux. Derrière les figurants, les obscurs tirages de ficelles et les drapeaux factices, les vrais commanditaires sont adroitement camouflés puisqu’ils résident invariablement dans ces lieux impénétrables et énigmatiques, inaccessibles à tout regard, mais qui du même coup les désignent par cette ruse de la raison qui rend précisément percevable ce qui se voulait justement in-soupçonnable.

Le masquage généralisé se tient derrière le spectacle qui donne ainsi à infiniment contempler quelque chose en tant que complément décisif et stratégique de ce qu’il doit empêcher simultanément que l’on voit et, si l’on va au fond des choses, c’est bien là son opération la plus importante; obliger à sans cesse observer ceci pour surtout ne point laisser appréhender cela.

Par delà chaque tueur fou opportunément manipulé dans les eaux troubles du djihadisme téléguidé, existe, en premier lieu, l’incontournable réalité du gouvernement du spectacle de la marchandise lequel dorénavant possède tous les moyens techniques et tous les pouvoirs gestionnaires d’altérer et de contre-faire l’ensemble de la production sociale de toute la perception humaine mise sous contrôle. Despote absolu des écritures du passé et tyran sans limite de toutes les combinaisons qui arrangent le futur, Big Brother pose et impose seul et partout les jugements sommaires de l’absolutisme démocratique des nécessités du marché de l’inhumain.

On commet une très lourde erreur lorsque l’on s’exerce à vouloir expliquer quelque attentat en opposant la terreur à l’État puisqu’ils ne sont jamais en rivalité. Bien au contraire, la théorie critique vérifie avec aisance ce que toutes les rumeurs de la vie pratique avaient si facilement rapporté lors des très enténébrées disparitions de Robert Boulin et de Pierre Berégovoy. L’assassinat n’est pas étranger au monde policé des hommes cultivés de l’État de droit car cette technique de mise en scène y est parfaitement chez elle en tant qu’elle en est désormais l’articulation de l’un des plus grands quartiers d’affaires de la civilisation moderne.

Au moment arrivé de la tyrannie spectaculaire de la crise du capitalisme drogué, le crime règne en fait comme le paradigme le plus parfait de toutes les entreprises commerciales et industrielles dont l’État est le centre étant donné qu’il se confirme là finalement comme le sommet des bas-fonds et le grand argentier des trafics illégaux, des disparitions obscures et des protections cabalistiques.

Plus que jamais, il est temps d’en finir avec toutes les mystifications et tous les malheurs historiques de l’aliénation gouvernementaliste afin de commencer à pressentir la possibilité de situations humaines authentiques.

Des êtres humains sans étiquette.

Gustave Lefrançais

N.D.L.R. : Après les événements de Toulouse, le Système veut renforcer la surveillance d’Internet en pénalisant la consultation régulière de sites « terroristes ». Nul doute que bientôt consulter Europe Maxima sera un crime… La Résistance anti-sécuritaire commence !


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=2467

MÄNNERBUND

MÄNNERBUND

 

 

 

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Domineert Qatar straks de gehele Arabische ruimte?

Ex: Nieuwsbrief Deltastichting Nr. 57 - Maart 2012
 
Het lijkt onwaarschijnlijk dat het kleine Arabische emiraat Qatar, gelegen aan de Perzische Golf, het schiereiland dat grenst aan Saoedi-Arabië, de ganse Arabische ruimte politiek zou kunnen domineren. En toch, toch zijn er bepaalde elementen die wijzen op het stijgende politieke belang van het kleine Qatar.
 
Qatar maakte, net als zovele andere Arabische gebieden, deel uit van het Ottomaanse Rijk. De Turkse overheersing kende een einde aan het begin van de Eerste Wereldoorlog, en Qatar werd een protectoraat van het Verenigd Koninkrijk, waarvan het onafhankelijk werd in 1971. Enige tijd was er sprake van dat het deel zou uitmaken van de emiraten, die momenteel de Verenigde Arabische Emiraten uitmaken, maar die vlieger ging uiteindelijk niet op.
 
Qua bevolking is het land in enkele decennia volledig gewijzigd. Door de vondst van aardolie kwam een sterke immigratie op gang. In 2005 bijvoorbeeld is de grote meerderheid van het land afkomstig uit andere landen, andere Arabische staten, maar ook uit landen als Indonesië, India, Pakistan, Iran, en zelfs het Verenigd Koninkrijk.  In 2003 werd een nieuwe grondwet ingevoerd, die de godsdienstvrijheid, de vrije meningsuiting en het recht op vergaderen en vereniging vastlegde, maar ook het verbod voor moslims om zich tot een andere godsdienst te bekeren. 20% van de bevolking van Qatar, die van, 47.000 in 1950 steeg tot 1,7 miljoen, zou nog autochtoon Qatari zijn.
 
Dat Qatar internationaal wel degelijk een rol speelt, kan men onder andere hiervan aflezen dat het wereldkampioenschap voetbal er in 2022 doorgang zal vinden.
 
Waar moet het belang van deze kleine oliestaat worden gezocht? En waarom zou het politiek zo’n belangrijke rol kunnen spelen? Natuurlijk speelt de olierijkdom een belangrijke rol. Maar ook met de vaststelling dat Qatar door de oprichting van het satellietkanaal Al Jazeera in 1996 zowat het belangrijkste informatienetwerk van de Arabische wereld is geworden.

In de verschillende vormen van Arabische revolte die in de afgelopen maanden aan ons televisiescherm voorbij trokken, speelden Facebook, Twitter en andere sociale netwerken een belangrijke rol, maar ook Al Jazeera, eigendom van de emir van Qatar, sjeik Hamad Bin Khalifa Al-Thani.  Maar Qatar is ook de verblijfplaats van sjeik Yoessoef al Qaradawi, de geestelijke leider van de Moslimbroeders, die na hun verkiezingsoverwinning in Egypte zowat de belangrijkste pionnen zijn geworden op het schaakbord van de Arabische sjeik Hamad Bin Khalifa Al-ThaniLente en van de Egyptische politiek. Ook al Qaradawi heeft heel wat aan Al Jazeera te danken en aan de media-aandacht die hij erdoor kreeg. Wekelijks was hij te zien en te horen in een uitzending “de sjaria en het leven”, waar hij vragen beantwoordde van toehoorders uit de ganse islamitische wereld.

Qatar is inderdaad zowat een veilige haven voor opinievluchtelingen van alle soort. De voormalige buitenlandminister van Saddam Hoessein bijvoorbeeld, Nadschi Sabri, vond er onderdak, maar ook Hamas-functionarissen, socialistische politici uit Zuid-Jemen, of moslimbroeders uit Egypte.  Er zijn geen politieke gevangenen in Qatar, er bestaat tolerantie en een bepaalde mate van vrijheid.

Maar er is meer. Op het moment dat de grote staten Egypte en Syrië in de maalstroom van volksopstanden terecht kwamen, was het het kleine Qatar dat als het ware een soort bemiddelaar en onderhandelaar werd van de Arabische Liga. Dit werd duidelijk in Libië, waar Qatar het enige Arabische land was dat actief de interventies van de NAVO ondersteunde. In het geval van Syrië werd de rol nog duidelijker.  Want welk Arabisch land zou durven optreden tegen de hevigste tegenstander tegen Israël, de hevigste en meest fundamentele verzetshaard? Toch is het opnieuw Qatar dat de leiding neemt. Vooral de minister van Buitenlandse Zaken, Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al-Thani verkondigde al luid dat hij met Arabische troepen wil tussenkomen. Hij heeft het zover gekregen dat de Arabische Liga hierin meegaat. Gedeeltelijk toch.

De invloed van Qatar stijgt dus. Zo zou Qatar momenteel ook bij het bestuur van de radikaal-islamitische Palestijnse Hamas aan het onderhandelen zijn om haar leider Chaled Maschaal van Damascus naar Jordanië over te brengen, en begin januari ontving de Jordaanse koning Abdoellah II de leider van Hamas in zijn land. Er zou zelfs sprake zijn om de Hamas-leider naar Qatar over te brengen, waarmee Syrië zijn laatste medestander in de soennitische islam kwijtgespeeld is.

Chaled MaschaalNeen, daarmee houdt het niet op, want ook in het conflict in Aghanistan is Qatar actief. Eerste zichtbare resultaat hiervan: de radikaal-islamitische Taliban opende in januari een officiële vertegenwoordiging in het emiraat. Via dit kantoor zouden vredesgesprekken op gang komen. En in die vredesgesprekken zouden ook de VSA en de EU kunnen worden betrokken. Kaboel houdt de boot voorlopig af en heeft aangedrongen op bilaterale gesprekken …met Qatar.
 
Qatar heeft ook in het verleden al nieuwe paden betreden. Als enig land op het Arabisch schiereiland – waar in Saoedi-Arabië joden niet worden toegelaten – heeft Qatar een joodse handelsmissie op zijn grondgebied geopend. Sinds 2008 is er zelfs een ambassade, maar het begin van de Gaza-oorlog in 2009 drukte zelfs Qatar eventjes met de neus op de werkelijkheid: de ambassade werd gesloten.
 
Vermeldenswaard is tenslotte de vraag van Midden-Oosten-expert Guido Sternberg (geciteerd in het Duitse conservatieve tijdschrift Junge Freiheit) of het conflict met Syrië de vijandschap van Teheran tegen Qatar zal verscherpen.  “In het licht van de krachtverhoudingen tussen de beide landen is dit een zeer riskante politiek”, aldus de expert. Qatar geldt als het meest vrije islamitische land in het Midden-Oosten, maar het kan niemand ontgaan dat ook hier de islam staatsgodsdienst en de sjaria staatsrecht is. Het blijft afwachten welke dominante rol dit emiraat in de Arabische wereld, waar de kaarten politiek en geopolitiek volledig door elkaar worden geschud, zal spelen.
 
Peter Logghe
 

dimanche, 25 mars 2012

Terrorisme en France: Stigmates d’une opération psychologique

Terrorisme en France: Stigmates d’une opération psychologique des services de renseignement et d’actions fausses-bannières

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

Le dénouement prévisible de l’affaire de Toulouse avec la mort du forcené retranché Merah fait poser une question immédiate suite aux déclarations multiples des autorités et du ministre de l’intérieur ces dernières heures disant “qu’ils voulaient Merah vivant pour l’amener devant la justice”… 

Néanmoins, ils décident de donner l’ordre de prendre l’appartement d’assaut, sachant depuis la veille au soir à 22h45 que le forcené refusera de se rendre. Pourquoi donc ne pas attendre ?.. Il n’y a pas de situation d’otages… Rien ne presse plus vraiment; Merah doit dormir à un moment ou un autre. Sauf suicide, il était quasi assuré de le cueillir plus tard.

Question: pourquoi ne pas avoir attendu ?… Ce qui amène une autre question: les autorités voulaient-elles Merah vraiment vivant ?.. Maintenant, il ne parlera plus… Avait-il des choses à dire ? On ne le sera jamais. C’est peut-être mieux pour certains…

Affaire classée, qui ne rendra malheureusement pas la vie aux victimes. (Resistance71)

Prison de Bagram

Mohamed Merah, le suspect dans les meurtres de sept personnes dont celles d’une école juive de Toulouse, France, correspond au profil d’un membre d’Al Qaïda manipulé par les services de renseignement. D’après la BBC, il était sur le radar des autorités françaises à cause de ses visites en Afghanistan et dans le “nid à militants” de la province du Waziristan au Pakistan. De manière plus spécifique, Merah était contrôlé par la DCRI française “depuis des années”, d’après les dires de Claude Guéant, ministre de l’intérieur français.

Merah, un citoyen français d’origine algérienne, a été arrêté le 19 Décembre 2007 et condamné à trois ans de prison pour avoir posé des bombes dans la province du sud Afghanistan de Kandahar. En Avril 2011, les Etats-Unis ont admis avoir opéré des prisons militaires secrètes en Afghanistan où des suspects de terrorisme étaient détenus et interrogés sans avoir été inculpés de quoi que ce soit.

Le tristement célèbre centre de détention de la base aérienne de Bagram est géré par le Joint Special Operation Command et le Defense Counterintelligence and Human Intelligence Center (DCHC). Celui-ci “est responsable de développer une capacité d’opérations offensives de contre-espionage pour le ministère de la défense, qui pourrait comprendre des efforts pour pénétrer, corrompre et mettre hors d’état de nuire, des activités du renseignement des forces étrangères, dirigées contre les Etats-Unis”, rapporta Secrecy News en 2008 après que le gouvernement ait annoncé la création du DCHC.

Le pentagone et la CIA se spécialisent dans la création de terroristes cela faisant partie d’une doctrine de soi-disant guerre masquée et non conventionnelle, datant de la fin de la seconde guerre mondiale (voir Michael McClintock’s Instruments of Statecraft: U.S. Guerilla Warfare, Counterinsurgency, and Counterterrorism, 1940-1990 pour plus de détails).

Bien que virtuellement ignoré par la presse de masse, c’est un fait établi que la CIA et les services de renseignement pakistanais ont créé ce qui est connu sous le nom d’Al Qaïda de ce qu’il restait des moudjahidines afghans après la fin de la guerre secrète à 3 milliards de dollars de la CIA contre l’URSS en Afghanistan.

Ce fut le soi-disant Safari Club, organisé sous le contrôle de la CIA et avec la participation des services de renseignement de la France, d’Egypte, d’Arabie Saoudite, du Maroc et d’Iran (alors sous le régime du Shah), qui ont poussés pour faire croire à une menace tirée par les cheveux du terrorisme international avant et durant la guerre fabriquée par la CIA en Afghanistan (voir Peter Dale Scott, Launching the U.S. Terror War: the CIA, 9/11, Afghanistan, and Central Asia).

Les agences de renseignement se sont spécialisées dans la création secrète et pas si secrète de terroristes qui sont ensuite utilisés pour donner une raison d’être (en français dans le texte) cynique au lancement d’interventions militaires dans le monde ainsi qu’à fournir un prétexte pour construire une état policier en perpétuel expansion. Un cas d’école de cette stratégie est le fiasco du terroriste au slip piégé de Noël 2009, qui fut par la suite exposé comme étant une action fausse bannière, faite pour pousser à l’acceptation des chambres de sécurité scanners dans les aéroports américains, scanners qui émettent de dangereuses radiations et permettent la prise de photo nue des passagers qui y sont soumis.

Le fait que Mohamed Merah fut détenu par le Joint Special Operations Command en Afghanistan ainsi que son évasion supposée de la prison de Sarposa orchestrée par les Talibans (également une créaton de la CIA et des services pakistanais de l’ISI), pose certaines questions sur les attaques ayant eu lieu en France, où une élection nationale doit bientôt avoir lieu.

Le Telegraph de Grande-Bretagne rapporte que les attaques menées par Merah, soi-disant connecté avec Al Qaïda, joueront en la faveur de la candidate du Front National Marine Lepen, qui n’a que très peu de chances de devenir un jour présidente de la France.

Cela a en outre donné un prétexte à Nicolas Sarkozy de mettre le sud de la France en alerte maximum et d’annuler les réunions des candidats à la présidentielle dans cette région. Sarkozy gagnera de ces attaques terroristes et joue le rôle d’un leader fort dans une crise nationale.

A court terme, il est plus que certain que cela bénéficiera au président Sarkozy. “Il a pris l’affaire en compte très vite. Il s’est hâté sur les lieux. Il a suspendu sa campagne électorale. Il a parlé en tant que président de la république”, écrit Gavin Hewett pour la BBC.

Article original en anglais : French Terror Attack: All the Hallmarks of an Intelligence Psy-op and False Flag

Traduction par Résistance 71

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Pourquoi le protectionnisme progresse dans le monde

Alors que le protectionnisme revient au cœur des discours politiques en France depuis l’entrée en campagne des candidats à la présidentielle, l’Organisation mondiale du commerce (OMC) s’est inquiétée, lors de sa dernière conférence interministérielle à la mi-décembre, de la montée des barrières douanières depuis le début de la crise financière en 2008.

Nos élites font du ski... (caricature anglaise, 2009)

Selon l’OMC, le nombre de mesures protectionnistes initiées en 2011 s’élève à 340, contre 220 en 2010.

De son côté, l’organisme suisse Global trade alert (GTA) – qui recense l’ensemble des mesures commerciales dans le monde – avertissait, dans un rapport publié en novembre 2011, que trois mesures protectionnistes sont prises pour une mesure libéralisante depuis juillet 2011, et que les tensions commerciales ont atteint leur plus haut niveau depuis le « pic » de 2009.

UNE PERTE POTENTIELLE DE 800 MILLIARDS DE DOLLARS

Il n’en fallait pas plus pour que le directeur général de l’OMC, Pascal Lamy, appelle les membres de l’organisation à « restaurer un climat de confiance », qui est selon lui « une partie de la solution à la crise actuelle ». Reprenant l’inusable métaphore de la tempête protectionniste, il prévenait que si d’« importantes mesures protectionnistes » étaient mises en place, elles pourraient coûter 800 milliards de dollars à l’économie mondiale.

Il s’agit pour l’OMC d’éviter une redite de la Grande Dépression des années 1930, qui avait vu le commerce mondial se contracter dangereusement sous l’effet des barrières douanières, jusqu’à dissoudre les liens économiques entre des pays repliés sur eux-mêmes. Or cette dissolution n’est pas étrangère à l’entrée en guerre de 1939.

D’où l’idée, en 1947, de négocier un accord international sur les tarifs douaniers et le commerce (General agreement on tariffs and trade, GATT), qui a abouti en 1995 à la création de l’OMC, dont le rôle est d’arbitrer les relations commerciales tout en limitant le protectionnisme. Mais la libéralisation des échanges est loin d’être un processus linéaire, et quand un pays se trouve en difficulté économique, les acquis sont la plupart du temps remis en cause.  

L’ARGENTINE, GRANDE CHAMPIONNE

Les pays émergents sont, de loin, les plus friands de dispositifs protectionnistes. L’Argentine se taille la part du lion, avec 192 mesures, selon GTA. Si celles-ci ont fleuri après la crise qu’a traversé le pays en 2002, elles se font plus nombreuses encore depuis le début de la crise financière de 2008.

Dans le viseur de la présidente, Cristina Kirchner : le contrôle des importations. Sa dernière victime ? Le Royaume-Uni, qui a vu, à l’occasion du 30e anniversaire du conflit des Malouines, en février, ses exportations limitées.

Critiquées par les autres pays du Mercosur (Paraguay, Brésil et Uruguay) – qui représentent 25% des exportations et 31% des importations argentines -, ces mesures s’inscrivent pourtant dans un mouvement initié fin 2011 par l’alliance sud-américaine elle-même, qui a décidé en décembre d’augmenter temporairement ses taxes d’importation pour les produits provenant de l’extérieur du bloc. De son côté, le Brésil – qui compte 81 mesures protectionnistes – a augmenté sa taxation sur les véhicules importés, surtout ceux qui viennent de pays extérieurs au Mercosur.

Au nom de l’intérêt national, les autres pays émergents cherchent également à se protéger : la Russie (172 mesures recensées) se concentre elle aussi sur son industrie automobile, puisqu’un tiers des véhicules devront être équipés d’un moteur ou d’une transmission fabriqués localement jusqu’en 2020.

La Chine (95 mesures recensées) annonçait quant à elle en décembre la mise en place, pour deux ans, de nouvelles taxes douanières sur certains véhicules américains. D’ailleurs, l’OMC dénonçait en décembre la prolifération des aides « régionales » en faveur de l’automobile, qui atteignent désormais 48 milliards de dollars en cumulé, soit 37 milliards d’euros.

L’Inde (101 mesures recensées) n’est pas en reste puisque, sous la pression populaire, elle a pour le moment renoncé à ouvrir le secteur de la distribution. Début mars, elle a décrété un embargo sur ses exportations de coton, avant de revenir sur sa décision en raison de l’envolée des cours.

DE LA NÉGOCIATION AU CHANTAGE

Si le protectionnisme reprend de la vigueur avec la crise, les différends commerciaux ont de leur côté diminué… depuis 2008, et ce, contrairement aux précédentes périodes de ralentissement économique. Pascal Lamy indiquait fin février que le nombre d’enquêtes sur les cas de dumping s’est établi à 153 en 2011, contre 213 en 2008.

Tout un symbole, après plus de vingt ans, la « guerre des hormones » entre les Etats-Unis et l’Union européenne vient de prendre fin. Une autre s’apprête toutefois à prendre le relais autour des « terres rares », métaux précieux sur lesquels la Chine a le quasi-monopole, puisqu’elle possède un tiers des réserves accessibles, et plus de 95% du marché. Les États-Unis, l’Union européenne et le Japon ont d’ores et déjà porté plainte auprès de l’OMC.

Moins nombreux donc, les contentieux n’en sont pas moins durs, et ils frôlent parfois le chantage, comme quand la Chine décide de conditionner son aide à l’Union européenne à l’abandon de deux enquêtes anti-dumping et anti-subventions lancées par cette dernière. Ou prend d’importantes mesures de rétorsion en gelant la commande de 45 Airbus en riposte à la taxe carbone, mise en place par l’Union européenne – et ce, même si celle-ci est bien conforme aux règles édictées par l’OMC.

LES ÉMERGENTS EN LIGNE DE MIRE

Pour autant, malgré la pression nouvelle que les pays émergents mettent sur les pays développés, « le problème du protectionnisme n’est pas uniquement lié à ces pays. C’est particulièrement vrai dans le cas de l’Europe, puisque l’essentiel des échanges commerciaux des pays membres se font au sein de l’Union européenne », explique Mathieu Plane, économiste à l’OFCE.

« Avec la division internationale du travail, nous ne produisons pratiquement plus dans les secteurs à faible valeur ajoutée, comme le textile, qui demande beaucoup de main-d’œuvre à bas coûts. Nous n’avons donc pas intérêt à prendre des mesures protectionnistes contre la Chine dans le secteur textile, puisque tout ce qu’on y gagnerait, c’est l’augmentation des prix des produits importés que nous n’avons pas intérêt à produire », argumente-t-il.

Avant de relativiser la menace du géant asiatique. « La Chine ne représente que 8% des importations françaises. De fait, les principaux concurrents et partenaires de la France, ce sont les autres pays de l’UE, qui représentent environ 60% de nos échanges commerciaux – Allemagne en tête, avec 17%. »

C’est pourquoi, pour M. Plane, « plutôt que d’envisager des barrières douanières aux frontières de l’UE » – comme propose de le faire notamment Nicolas Sarkozy avec un « Buy European Act » calqué sur le modèle américain -, « il serait préférable d’éviter les comportements non-coopératifs existant au sein de l’UE, comme la mise en place de la TVA sociale en France ou la compression des coûts salariaux en Allemagne, mesures qui ont pour objectif de gagner des parts de marché au détriment de ses voisins européens ».

Le Monde

Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Les USA vont rétablir leur économie et finances grâce à l'or noir US qu'ils ont décidé d'exploiter. Ainsi l'Arabie Saoudite perdra de son importance géostratégique et pourra, à son tour, subir les affres de la déstabilisation pour le remodelage régional.

Assis sur un tas d’or (noir) : Les États-Unis sont-ils la nouvelle Arabie Saoudite ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Pas plus tard que fin 2013, les Etats-Unis pourraient être devenus le plus important producteur mondial d'énergie, estiment les économistes de Citi. 

 
Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles.

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles. Crédit Reuters

Les Etats-Unis sont voués à devenir, à court terme, le plus grand producteur mondial d'énergies fossiles, s'accordent à dire les observateurs. Le seul point sur lequel ils divergent est la question du "quand". 2017 pour Goldman Sachs, fin 2013 pour Citi. La réalité est probablement quelque part entre les deux.

En tout cas, même les plus raisonnables s'accordent sur ce point : dans les huit années à venir, grâce à des progrès technologiques considérables, la production de pétrole et gaz naturel va exploser en Amérique du Nord. Aux Etats-Unis plus particulièrement, mais aussi au Canada et au Mexique. A tel point que Citi en vient à appeler la région "le nouveau Moyen-Orient".

Les principaux gisements nord-américains.

Dans le même temps, l'Arabie Saoudite et de la Russie, qui sont actuellement les deux plus gros producteurs mondiaux, vont voir leur production se tasser, à mesure que se rapproche l'épuisement de leurs réserves, comme l'indique le graphique ci-dessous, présenté par Citi.

Ci-dessus, les perspectives de croissance des principaux producteurs énergétiques évaluées par Citi.

Cette petite révolution pour le marché mondial de l'énergie, qui pourrait bien faire enfin baisser le prix du pétrole, devrait aussi profondément bouleverser la physionomie de l'économie américaine. "Pour le mieux", assure Citi.

Dans le "meilleur des cas", estiment les analystes du groupe, le PIB américain devrait augmenter de 2 à 3,3% - c'est à dire de 370 à 624 milliards de dollars. A l'horizon 2020, le boom de l'énergie devrait avoir contribué à la création de 3,6 millions d'emplois, 600 000 directement dans le secteur de l'extraction du gaz naturel et du pétrole et 1,1 million dans l'industrie. C'est 1,1% de chômeurs en moins, note Citi. L'export d'énergies fossiles devrait permettre au pays de réduire de 80 à 90% son déficit commercial, à 0,6% du PIB en 2020 contre 3% aujourd'hui. De ce simple fait, la valeur du dollar pourrait augmenter de 1,6 à 5,4 %.

"Si notre analyse est bonne", écrivent les analystes de Citi, "alors dans à peine huit ans, l'état de l'économie américaine pourrait être à l'exact opposé de ce qu'elle est aujourd'hui". Cela pourrait même bénéficier à l'économie mondiale dans son ensemble. En effet, la domination américaine dans la production énergétique pourrait provoquer, à elle seule, la baisse de 14% du prix du pétrole. Le cours de l'or noir pourrait également baisser de 2,5% supplémentaires grâce à la réduction de la consommation d'énergie.

L'augmentation régulière des prix du baril de pétrole au cours de la dernière décennie et la dépendance accrue de l'économie occidentale face aux ressources des pays du Moyen-Orient semblent avoir malgré tout profité aux Etats-Unis. La recherche américaine s'est concentrée de manière agressive sur l'amélioration des méthodes de détection et de forage des nappes de pétrole, en réservant leur application à l'Amérique du Nord. L'administration américaine n'a jamais été dupe sur le potentiel énergétique du pays, et l'exploitation relativement limitée de ses ressources en énergies fossiles ressemble aujourd'hui, et de plus en plus, à une sage gestion. L'utilisation des nouvelles techniques de prospection au Texas, notamment, démontrent actuellement toute leur finesse.

Selon le New York Times, les cinq dernières années ont permis de perfectionner considérablement le forage horizontal et la fracturation hydraulique, utilisés depuis des décennies par l'industrie pétrolière. Et ils sont désormais assistés d'instruments électroniques et informatiques de pointe, capable de simuler la structure et le potentiel des puits avant même leur excavation. La fibre optique joue un rôle majeur dans le travail des ingénieurs, qui peuvent déterminer, grâce à elle, l'orientation des couronnes, des tricônes et autres trilames, ainsi que de déterminer où, quand, et avec quelle pression injecter l'eau de forage. Les instruments de mesure sismique utilisés durant le travail de creusage permettent de déterminer la fragilité et la porosité des sous-sols, afin de ne pas endommager les puits en cours d'exploitation, et d'éviter de provoquer des failles et des infiltrations dans les autres nappes attenantes. Fini les puits noyés sous le sable, les roches l'eau. Le forage par étapes permet de consolider les puits et de creuser avec plus de précision, pour une exploitation plus durable et, paradoxalement, plus rapide.

Les roches dures du Bassin Permien du Texas de l'ouest, actuellement creusées par Apache Corporation, étaient jugées trop résistantes pour les lames diamantées des outils de forage il y a encore quelques années. Leur viabilité économique était même remise en question. Aujourd'hui, les 40 000 hectares du champ de pétrole de Deadwood, encore presque inexploités en 2010, font figure de mine d'or, grâce aux nouveaux adhésifs et alliages, qui renforcent l'efficacité du diamant des outils. Les moteurs souterrains, plus puissants, peuvent ainsi permettre un creusage plus rapide. Un puits creusé en 30 jours peut à présent être foré en moins de 10 jours, avec des économie de 500 000 dollars. Le vice-président d'Apache, en charge de l'exploitation du bassin Permien, ne se cache pas des opportunités offertes par ces nouveaux procédés. "En épargnant cet argent, explique-t-il, nous pouvons passer plus de temps sur le forage et améliorer notre productivité."

Le champ de Deadwood, symbole de ces innovations et des nouvelles méthodes d'exploitation pétrolière à l'Américaine, a permis à Apache de creuser 213 puits et de produire 9 000 barils par jour. Avec 13 derricks en action, la société espère forer plus de 1 000 puits sur le secteur, et atteindre un chiffre de 20 000 barils par jour. Au minimum.

 

NOTA BENE :

Je vous avais déjà posté en mars/avril 2011, tout juste un an, les affirmations de Lindsay Williams qui avait prédit le "printemps arabe", fondées sur des informations divulguées par des sources éminemment placées dans l'industrie pétrolière. Au vu de l'information d'aujourd'hui sur Atlantico, il semble que ces informations s'avèreraient exactes. Je vous relivre, en cette date anniversaire, ce document PDF.

Lindsey Williams avait prédit les Révolutions Arabes en 1980.pdf

samedi, 24 mars 2012

NOTRE EPOQUE, UN CUL DE SAC CIVILISATIONNEL

NOTRE EPOQUE, UN CUL DE SAC CIVILISATIONNEL

Par Jure Georges Vujic

http://www.juregeorgesvujic.com/

 Et si nous vivions dans un cul de sac civilisationnel ? la question quelque peu prémonitoire pourrait très bien être posée par Arthur Koestler qui déjà dans « les Somnanbules » avait détecté les impasses d’une rationalité  technoscientiste qui continue de jouer á l’apprenti sorcier au mépris de toutes règles morales et éthiques. Le cul de sac est prosaiquement apparenté á une voie sans issue, une impasse dans laquelle on ne peut ni avancer ni reculer. Oui, notre civilisation technicienne, matérialiste et americanocentrée prend l’allure d’un cul de sac généralisé, une impasse á la fois sociale, existentielle, culturelle, et spirituelle. Le degré d’autonomisation et les dommages collatéraux d’une technoscience livrée á elle-même, d’une société oú règne l’anomie généralisée , d’une économie financialiste et virtuelle déconnéctée de la réalité sociale et du monde du travail, d’une politique lilliputienne et poltrone inféodée aux intérêts de l’oligarchie financière, d’une culture mielleuse  et narcissique révèlent ce manque de point d’ancrage structurant et articulant, cet absence de pivot téléologique vertèbrant, qui permet l’envol et la projection dans le monde d’une civilisation qui n’est qu’après tout qu’une vision du monde singulière. Et ce cul de sac est précisément une impasse sur la possibilité d’une « présence au monde » spécifique, car il devient de plus en plus difficile de pratiquer l’ »être-lá « Heideggerien, confiné dans  l’espace cathodique d’un cul de sac qui n’offre aucune ouverture. Si comme les 68-huitards l’aiment á dire que « la société de jadis était bloquée », alors l’on pourrait surenchérir et dire que la société contemporaine elle est enkystée par excès de (non) sens. Mais plutôt que de parler de voie sans issue qui peut être ouvre l’unique possibilité nihiliste de rentrer dans le mur, notre civilisation ressemble plus á un cul de sac sous forme de gyroscope, ce curieux appareil qui tourne sur lui-même, un axe qui regarde sa propre rotation, un axe qui n’a aucune vertu axiologique si ce n’est lui-même.  Ce cul de cas gyroscopal  reproduit ad vitam aeternam un conformisme de pensée et de mouvement qui paralyse toute potentialité de synthèse-dépassement, de sublimation voir de transcendance. Plus cette machine civilisationnelle gyroscopale croit matériellement et techniquement, plus son degré de spiritualité décroit. Le cul de sac mental est cet impossibilité de penser « l’inédit » car l’impensable est déjà pensé et contenu dans l’hyper-évènementiel alors que l’innommable se dissout dans l’inflation de signes. En effet, cette mégamachine ne peut se reproduire et perdurer, comme toute structure totalitaire, sans la complicité  passive et le conformisme de ses composantes. Le poète polonais Czeslaw Milozc parlait avec raison dans son livre «  la pensée captive », du règne de l’ »homme gyroscopal » cet individu générique issu d’un cocktail de mimétisme généralisé, le prototype d’un personnage qui s’accommode de toutes les régimes politiques, le type même d’opportuniste qui retourne sa veste á  bon escient. Nombreuses sont les figures littéraires et philosophiques de ce type d’individu interchangeable très en vogue dans les démocraties parlementaires contemporaines: du Ketman de Czeslaw Milozs, l’homme caméléon, « le dernier homme » Nietzchéen, de l’équilibriste social sociologue David Riesman, de l’homme du mensonge de Scott Peck jusqu’à la figure humouristique du Zelig de Woody Allen et l’opportuniste de Dutronc. Et ce n’est pas par hasard  que L’effet gyroscopique est également observable dans un powerball et dans  le jeu de yo-yos. Car comment  ne pas comparer les successives politiques néolibérales et monétaristes visant á  assainir la crise financière au jeu sournois d’un  yo-yo, qui pour guérir les maux de la dérégulation et de la libéralisation du marché, préconisent les mêmes  remèdes empoisonnées monétaristes du Consensus de Washington., de rigueur budgétaire, de hausse des impôts,  et de l’illusion déflationniste, qui servent les grandes fortunes. Tout le monde fait semblant de ne pas savoir alors que tout le monde sait très bien qu’il s’agit du bis repetita cynique d’un mensonge bien rôdé. Personne n’est dupe mais tout le monde consent á la duperie.  Il n’est point nécessaire que le yoyo néolibéral ne résoudra rien et qu’il finira par revenir toujours á la case de départ. Et si la globalisation était l’axe même de ce gyroscope sociétal ?, qui par le levier de l’uniformisation et du consumérisme du marché  n’en finit pas de démultiplier les culs de sac culturels, mentales, linguistiques et ethniques, ou l’histoire, les traditions, « l’excellence », la valeur et les différences sont réductibles á la forme capital et á la consommation ostentatoire. En effet que l’on parte du point A en Alaska ou a New Delhi jusqu’á l’extrême du point C en Australie en passant par le point B á Paris ou Moscou, on finit toujours par retrouver au bout de ce cul sac occidentiste une seule et même boite á conserve de Coca cola, dans laquelle il ne nous reste plus qu’á shooter.  Quoi de plus déprimant et claustrophobe que de demeurer dans une société ou tout est jetable, recyclable et monnayable. Notre cul de sac est indéniablement cette impossibilité de se dépayser, de s’isoler dans le silence dans ce que Jean Raspail aimait á nommer ces « isolats », les quelques ilots  de liberté et de résistance qui nous restent . Et peut être de dire en toute liberté « mort aux vaches » et « merde aux cons », tout en sachant qu’il s’agit encore lá d’un  façon quelque peu  misérable de réenchanter le monde…

Géopolitique de la France

 
Géopolitique de la France
Géopolitique de la France
Pascal Gauchon
Puf

2012
 
Auteur, il y a quelques années, d'un remarquable Modèle français devenu aujourd'hui un classique, Pascal Gauchon - qui enseigne l'économie en classe préparatoire et a déjà publié un Dictionnaire de géopolitique et de géoéconomie lance une nouvelle collection consacrée à la géopolitique dont le premier volume a pour sujet la France et il a tenu à traiter lui-même d'un domaine qui n'a rien d'évident, nombre d'observateurs et de commentateurs ayant admis une fois pour toutes que la France, intégrée à l'Europe et plongée dans la mondialisation, n'avait plus vocation à demeurer une puissance autonome, ce qui constitue une condition nécessaire pour constituer un sujet géopolitique. Le sous-titre de l'ouvrage - Plaidoyer pour la puissance - peut donc faire figure de provocation mais la solidité de la documentation utilisée et la qualité d'un argumentaire fondé sur une réflexion originale et sur un regard qui va bien au delà des limites généralement fixées à la seule analyse économique permettent à l'auteur d'affirmer son propos et de délivrer un message qui, sans tomber dans les excès et les simplifications d'un manifeste n'en ouvre pas moins des perspectives plus optimistes que celles attribuées à la « France qui tombe » décrite par certains. L'historien revient tout d'abord sur la construction de l'espace national, sur la genèse d'un hexagone dont Fernand Braudel a montré dans son Identité de la France qu'il s'inscrit dans les paysages et dans les conditions qui furent celles de l'installation humaine dans la très longue durée. Celle qui explique les quinze milliards de tombes chères à Pierre Chaunu et, sur un mode plus littéraire à Maurice Barrès attaché « à la terre et aux morts ». Mais la « doulce France » s'est également construite à partir du travail de ses habitants et des transformations qu'ils ont imposées à une nature certes généreuse mais qu'il a cependant fallu maîtriser. Le survol de l'Histoire pointe justement les moments où la France des rois, de la Grande Nation révolutionnaire ou de Napoléon est apparue en mesure de dominer l'Europe, et les séquences marquées par la défaite ou le déclin, enrayés à plusieurs reprises par des sursauts venus de loin et combinant la vitalité réveillée d'u peuple rebelle et l'imaginaire d'un destin collectif porté un temps par la foi chrétienne, avant que le messianisme révolutionnaire et les valeurs de la liberté n'ouvrent sur des temps nouveaux sur le point aujourd'hui d'être révolus. Le poids de l'Etat, l'attachement au modèle politique et social laborieusement défini au cours des deux derniers siècles, la crise identitaire née de l'ouverture sur l'Europe et le monde et de la renaissance des régions font l'objet d'analyses claires et pertinentes qui fournissent une riche matière à réflexion, particulièrement bien venue dans les temps d'incertitude que nous connaissons aujourd'hui. La tradition centralisatrice, la crise de l'Etat-nation et celle de l'aménagement du territoire, la faillite des « élites » attachées avant tout à leur reproduction contrastent avec la richesse des atouts disponibles. Pascal Gauchon recense ainsi tous les aspects de la puissance française, des performances agricoles à l'autonomie nucléaire, des incontestables succès industriels aux réussites des entreprises de services, sans dissimuler les difficultés nées d'une mondialisation qui s'opère souvent au détriment de pans entiers de l'activité nationale. Il confronte les faiblesses françaises sur le terrain de la compétitivité aux atouts qui font l'attractivité incontestable d'un territoire doté depuis longtemps d'excellentes infrastructures. Il conclut son « plaidoyer pour la puissance » en dénonçant les « géopolitiques du nirvana » oublieuses du réel et des rapports de forces, fondées sur la seule idéologie et la seule bien-pensance, des références dont ne peuvent que se gausser les autres puissances. Mais, sur ce terrain, la France n'est pas plus mal lotie que l'Europe et certains acteurs ont encore la volonté de lui conserver un rang de « moyenne grande puissance », résultante de la combinaison de ce qui lui reste de hard power avec les capacités d'influence que lui procure le tout nouveau soft power. Familier du temps long des historiens, Pascal Gauchon parie sur le retour du réel, qui peut être aussi le retour du tragique dans un monde aveuglé par les illusions de la mondialisation, heureuse : « Laissons faire le temps, qui ramènera au monde réel du rapport des forces et du conflit. Si la France ne va pas à ses ennemis, ses ennemis viendront à elle. Alors les conditions d'une autre géopolitique que celle du nirvana seront posées... ».

vendredi, 23 mars 2012

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Pigra è la storiografia italiana, malata di retorica e paralizzata dal conformismo; pigra e intollerabilmente cortigiana è, da sempre, la cultura italiana, nata all’ombra delle signorie del Rinascimento e che non ha mai smentito, neppure oggi, all’ombra dei poteri forti economici e finanziari, l’antico vizio della piaggeria e della servile adulazione.

 


Si continua a dire ed a ripetere che la svolta di Mussolini, direttore dell’«Avanti!», nell’ottobre del 1914, dal neutralismo all’interventismo, svolta che gli costò la direzione del giornale e l’espulsione dal Partito Socialista Italiano, fu un inqualificabile esempio di opportunismo, di camaleontismo, di doppiogiochismo; che nacque da spregevoli motivazioni di ambizione personale e che venne poi sostenuta, passato egli alla direzione del suo nuovo giornale «Il popolo d’Italia», da inconfessabili finanziamenti da parte di oscure forze interessate a trascinare l’Italia in guerra e di potenze straniere aventi il medesimo obiettivo.

Non solo: si continua a dire ed a ripetere che quella svolta, venendo da un uomo che, ancora nel 1911-12, in occasione della guerra di Libia, si era schierato per il più intransigente militarismo, e che ancora durante la Settimana rossa del 1914, in qualità di consigliere comunale a Milano, si era pronunciato per la rivoluzione e contro lo Stato borghese, era la dimostrazione della sua doppiezza, del suo cinismo, del suo disprezzo assoluto per gli ideali che aveva fino ad allora professato; con essa, finalmente, egli aveva gettato la maschera, mostrando il suo vero volto di traditore, di spergiuro, di aspirante dittatore e nemico del popolo.

Quante falsità, quante sciocchezze, quanta ipocrisia.

Tutte quelle cose sono state dette e ripetute da scrittori, giornalisti, professori e anche dalla maggioranza dei signori storici di professione, non per altra ragione che per un abietto conformismo verso il Pensiero Unico dominante dopo la cosiddetta Liberazione: debitamente progressista, “democratico” e antifascista; un Pensiero Unico che pretende di dividere il Bene e il Male, nella storia, con un taglio netto, ponendo, guarda caso, gli sconfitti della guerra civile del 1943-45 dalla parte del secondo ed i vincitori, guarda caso, dalla parte del primo: questi ultimi tutti onesti, intemerati, idealisti, laddove i loro avversari erano spregevoli mercenari di Hitler, senza dignità, senza onore, senza patria.

La verità è che, nei mesi cruciali fra il luglio del 1914 e il maggio del 1915, Mussolini non fu affatto il solo a compiere quella svolta; la compirono molti, moltissimi altri esponenti della sinistra democratica, molti socialisti, molti sindacalisti rivoluzionari, perfino un certo numero di anarchici; così come l’avevano compiuta, prima di loro - e anche questo viene passato sotto silenzio, o non viene ricordato a sufficienza - la grande maggioranza dei loro “compagni” francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi (ovviamente sui rispettivi fronti contrapposti degli Imperi Centrali e della Triplice Intesa).

Mussolini non fu affatto l’eccezione, la pecora nera, il traditore dell’ultima ora; le sue esitazioni, i suoi dubbi tormentosi, la sua sofferta decisione di abbandonare il neutralismo per l’interventismo furono, invece, il risultato di un percorso che fu condiviso da una schiera di uomini di specchiata fede socialista, o sindacalista-rivoluzionaria, o anarchica; uomini che non amavano la monarchia dei Savoia, che non amavano lo Stato liberale, che non amavano l’esercito, il militarismo, il colonialismo; che erano sempre stati dalla parte degli ultimi, dei contadini, degli operai, dei disoccupati; che si erano battuti da leoni sulle barricate durante gli scioperi e le sommosse, che avevano fatto la galera e il confino, che erano fuggiti all’estero, quando la reazione poliziesca infuriava contro le Camere del lavoro e contro le Leghe operaie; uomini dei quali tutto si può dire o pensare, tranne che fossero dei venduti, degli opportunisti o dei voltagabbana.

L’elenco sarebbe così lungo che potrebbe riempire pagine e pagine; ma chi ha una conoscenza anche superficiale della storia del movimento sindacale italiano, sa bene che le cose stanno così; e dunque gli storici di professione, che lo sanno per forza, allorché si ostinano a presentare il “caso” Mussolini come l’eccezione che conferma la regola (del neutralismo socialista), mentono sapendo di mentite: spudoratamente, senza ombra di vergogna.

Prendiamo il caso dell’esponente forse più famoso e certo, allora, il più popolare, del sindacalismo rivoluzionario - insieme a Filippo Corridoni, come lui divento interventista e andato volontario, fra i primissimi, a morire nelle trincee del Carso -: quello di Alceste De Ambris.

Prestigioso segretario della Camera del lavoro di Savona nel 1903; di quella della Lunigiana nel 1907; espatriato a Lugano nel 1908, dopo che cavalleria e carabinieri ebbero preso d‘assalto la roccaforte “rossa” dell’Oltretorrente parmigiano; poi esule in Brasile per due anni; di nuovo a Lugano, per battersi contro la guerra di Libia, era stato nel 1912 tra i fondatori dell’Unione Sindacale Italiana, nata dalla scissione con la componente socialista riformista; e solo nel 1913 aveva potuto rientrare in Italia, portato in trionfo dai lavoratori di Parma, essendo stato eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: questo era l’uomo, limpido e trasparente nella sua fede rivoluzionaria, senza orpelli e senza maschere.

Ebbene, De Ambris fin dall’agosto del 1914 maturò la convinzione che la parola d’ordine dei neutralisti fosse ormai sterile e sorpassata dagli avvenimenti; ben prima di Mussolini, dunque, che attese l’ottobre, ebbe il coraggio di dire a voce alta, in articoli e pubbliche manifestazioni, quel che altri vecchi dirigente socialisti e sindacali sentivano e pensavano, ma non osavano: a costo di rendersi impopolare, a costo di essere accusato di voltafaccia, a costo di attirarsi l’ira e il disprezzo di quei lavoratori che lo avevamo osannato e che di lui si erano sempre fidati, per istinto, sentendolo sinceramente dalla loro parte, con assoluta chiarezza e coerenza.

Il suo ragionamento può apparire lineare o no, può essere condiviso o no, ma non nasceva da alcun torbido e inconfessabile tornaconto privato. Egli partiva dalla pura e semplice constatazione che l’Internazionale aveva clamorosamente fallito: che non solo non aveva saputo impedire la guerra mediante uno sciopero generale, ma che ogni partito socialista aveva sposato in pieno la causa della “guerra patriottica” sostenuta dalle rispettive borghesie nazionali. Inoltre, dopo l’invasione del Belgio e della Francia settentrionale da pare delle armate tedesche, alla metà di agosto del 1914 si andava delineando una rapida e schiacciante vittoria degli Imperi Centrali: non c’era ancora stata la battaglia della Marna e, giudicando la situazione da sinistra, la sconfitta della Triplice Intesa non poteva non apparire come un disastro per la causa della rivoluzione sociale, mentre la sua vittoria sarebbe stata vista come il male minore.

Ora, compiendo un errore di sopravvalutazione del “peso” militare che l’Italia allora possedeva (un errore, peraltro, condiviso dagli Alleati, che corteggiarono fino alla stipulazione del Patto di Londra questo futuro «alleato di prima classe», come lo definì un uomo politico inglese), De Ambris pensava che, intervenendo al fianco dell’Intesa, essa avrebbe potuto spostare i rapporti di forza a favore di quest’ultima e scongiurare, così, la temuta vittoria delle Potenze Centrali.

Questo, come obiettivo immediato di un intervento italiano nella guerra mondiale; come obiettivo a medio termine, invece, egli pensava che tale intervento avrebbe rimesso in movimento le forze sociali antiborghesi e avrebbe preparato il terreno a uno sviluppo della situazione in senso rivoluzionario, secondo la vecchia formula internazionalista di trasformare la guerra imperialista della borghesia in una guerra rivoluzionaria del proletariato per la propria emancipazione.

Il 18 agosto De Ambris avrebbe dovuto parlare ad un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana sul tema del sindacalismo rivoluzionario di fronte alla guerra; pienamente consapevole della gravità di quanto si accingeva a fare, e cioè ad abbattere la formula “sacra” dell’opposizione alla guerra imperialista, dirà poi di aver trascorso una vigilia travagliata, ma di aver sentito il dovere di dire quello che tutti gli altri ormai pensavano, compreso suo fratello Amilcare.

Così, dunque, si espresse Alceste De Ambris nel suo discorso, poi pubblicato in un articolo intitolato «I sindacalisti e la guerra», apparso su «L’Internazionale» del 22 Agosto 1914 (cit. in: Renzo de Felice, «Mussolini il rivoluzionario», Torino, Einaudi, 1965, 1995, pp. 235-36):

«Compagni, io non vi ripeterò… le ragioni di principio che ci rendono irriducibilmente contrari ad ogni guerra fra le nazioni…Ma se possiamo e dobbiamo insistere su questa base essenziale del sindacalismo, non è detto però che si possa e si debba di conseguenza chiudere gli occhi davanti alla realtà, contentandoci di una negazione dogmaticamente assoluta… Io credo del resto che il fatto prodigioso al quale abbiamo la sventura o la sfortuna  di assister avrà tali conseguenze da costringere tutti i partiti e tutte le filosofie ad una revisione, spezzando ogni abitudine mentale  a qualunque principio s’ispiri; come ha fatto - e forse in misura anche più larga - la rivoluzione francese dell’ottantanove… I fatti si sono incaricati di far giustizia di tutte queste illusioni e di tutti questi sofismi. Oggi la guerra è una tremenda realtà. Il pacifismo borghese e l’internazionalismo socialista hanno fatto contemporaneamente bancarotta… È tempo di finirla cl comodo sistema di addossare tutte le responsabilità dei fatti storici ai gruppi dirigenti. Il popolo ha pure la sua parte di responsabilità, almeno fino a che non abbia fatto sentire il suo dissenso in maniera evidente e vigorosa. Anche il tacere - di fronte a certi delitti - significa complicità… La vittoria ella Germania e dell’Austria ci porterebbe forse a ripetere le triste parole di Herzen il quale, dopo le giornate del giugno 1848, affermava che l’Europa occidentale era ormai morta e che per il rinnovamento e la continuazione della storia non restavano più che due  sorgenti: l’America da un lato e la barbarie orientale dall’altra… Se dovessero prevalere il kaiserismo e il pangermanismo degli imperi centrali, non vi sarebbe alcuna forza atta a controbilanciarli… La vittoria antitedesca, al contrario, ci lascia sperare una serie di benefizi di carattere economico, politico e morale che permetterebbero un rigoglioso sviluppo di tutte le forze di progresso dell’umanità…; forse la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati… il socialismo sollevato dall’ossessione pan germanica e divenuto veramente internazionale; il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario… Certo, essa non è ancora la NOSTRA rivoluzione; ma è forse necessaria, per liberare il mondo dai detriti ingombranti del sopravvissuto medioevo. Ad ogni modo, poiché non è più nelle nostre forze di evitarla, bisogna prepararci a fare coraggiosamente il nostro dovere in suo confronto… Il fatto che l’Italia… si trova oggi fuori del conflitto, non deve bastare per indurci ad un’indifferenza ignava. Siamo e saremo sempre contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, poiché tutto ciò è per lo meno estraneo asl nostro interesse... Ma non è egualmente estraneo al nostro interessere il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire… Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale militarista, pan germanica, potremo noi rifiutarlo? O pure non sentiremo risuonare nei nostri cuori, come furiosi colpi di campane a martello l’epica invocazione lanciata da Blanqui nel 1870, quando i tedeschi valicarono le frontiere di Francia?... Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la civiltà occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco e solo il nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!»

Questo discorso ebbe un clamore fortissimo e suscitò un vero e proprio terremoto. Per un momento sembrò che tutti si sarebbero scagliati contro l’oratore; poi, invece, inattesa, ma decisiva, giunse l’approvazione di Filippo Corridoni, che in quel momento si trovava in carcere e che, dal carcere, aveva maturato la stessa evoluzione di pensiero vissuta da De Ambris.

Il tabù era stato infranto, il dado era tratto: il 3 novembre, a Parma, nel cuore del sindacalismo rosso, Alceste De Ambris presentò commosso alla folla un comizio di Cesare Battisti, che perorava, da socialista, la causa della liberazione della sua Trento (e di Trieste) dal dominio austriaco.

Fu un errore, un miraggio, una illusione? Può darsi: ma furono in molti a crederci, in quei giorni, all’estrema sinistra; Mussolini non fu il solo, e le sue ragioni non furono spregevoli, né meschine.


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jeudi, 22 mars 2012

DÍA DE SAN PATRICIO. IRLANDA, DE LA PAZ AL CONFLICTO MIGRATORIO.

DÍA DE SAN PATRICIO. IRLANDA,  DE LA PAZ AL CONFLICTO MIGRATORIO.

 
 
Enrique RAVELLO

Ex: http://enricravello.blogspot.com/

Hoy 17 de marzo los irlandeses celebran el día de su identidad.  Es el día de San Patricio, el monje que cristianizó la Isla Esmeralda. En San Patricio se une lo celta con lo cristiano, una simbiosis que dio nacimiento a esa peculiar y ancestral religiosidad que caracteriza a los irlandeses.  Esa simbiosis que dio lugar a la edad de oro de la cultura irlandesa en la transición de la Antigüedad a la Edad Media. Nacido en Escocia pero patrón de Irlanda, San Patricio simboliza también la profunda relación entre los pueblos celtas de las islas británicas, apuntemos que Escocia (Scot-land) debe su nombre a los escotos una tribu proveniente de Irlanda.  
La celebración anual de esta festividad por parte de los irlandeses de todo el mundo confirma la permanencia de la identidad como una referencia de identificación de los pueblos frente al universalismo despersonalizador.  Mañana correrán ríos de cerveza negra por todos los centros irlandeses de Europa, América y Oceanía, ríos que se convertirán en mares si Irlanda gana a Inglaterra en el partido de rugby que le enfrenta en el mítico estadio londinense de Twickenham . Hay que señalar que Irlanda e Irlanda del Norte juegan bajo una sola selección, la de la camiseta verde y el trébol de cuatro hojas.
Este año Irlanda recordará a San Patricio en paz, hace años que dejaron de oírse el ruido de las balas y de las bombas. El largo conflicto que terminó con dos finales diferidos. El primero en 1921 con la firma del Tratado anglo-irlandés y el reconocimiento del Estado Libre de Irlanda al año siguiente, que ponen fin a siglos de injusta colonización británica de la isla; dicho Tratado deja fuera del Estado irlandés  a 6 condados del norte de la isla, habitados por una mayoría protestante que quisieron permanecer bajo la Corona británica. El segundo en 1998 cuando se pone fin al conflicto que en esos 6 condados de Irlanda del Norte había enfrentado a la minoría católica partidaria de unirse a la República de Irlanda, con la mayoría protestante escocesa leal al Reino Unido. En otro artículo abordaremos el proceso de paz y la situación actual de Irlanda del Norte, pero con sus difíciles equilibrios y sus heridas aún sin cicatrizar, irlandeses y escoceses conviven y gobiernan conjuntamente en el norte de la Isla Esmeralda.
Hoy es otro el problema que afecta a todos los irlandeses (del norte y del sur), a su identidad europea y a su futuro: la inmigración masiva. Inmigración que se inició a finales de los años 70, recordamos cuando visitamos por primera vez la Isla Esmeralda, en 1984, cuando en España no habíamos oído hablar de la inmigración, la presencia de paquistaníes empezaba a ser intensa.
En la década del 2000 la República de Irlanda experimentó un “boom” económico, asistimos al “despertar del tigre celta”, y con él la llegada masiva de inmigrantes, fue entonces cuando la población extranjera llegó hasta el 12%. Si bien con la crisis que afectó de lleno a la economía irlandesa, los inmigrantes de origen polaco y lituano están volviendo a sus países de origen, no ocurre lo mismo con los inmigrantes de origen extraeuropeo que pretenden instalarse permanentemente en Irlanda, causando los mismos problemas que en el resto de países de Europa occidental.
La situación en Irlanda del Norte es aún más conflictiva. Con el cese de las armas y le llegada de la Paz, Irlanda del Norte se convirtió en el destino de muchos inmigrantes que buscaban vivir de los subsidios gubernamentales.  En su mayoría eran gitanos rumanos. Sus continuos actos de pillaje, robos y amenazas, no fueron recibidos precisamente con “tolerancia” por las comunidades católicas y protestante norirlandeses, acostumbradas a defender su territorio y su identidad de forma contundente.  Especialmente los trabajadores protestantes reaccionaron con determinación ante los atropellos de los gitanos rumanos, de tal modo que una gran parte de éstos se vieron obligados a abandonar Belfast,  ciudad en la que se habían concentrado. En 2006 se contabilizaron unos 900 incidentes entre norirlandeses y gitanos, en los que los norirlandeses fueron la parte vencedora.
Confiamos en que esa Irlanda, católica y protestante, celta y anglosajona, nacionalista y unionista, indomable y orgullosa de su pasado, siga celebrando su San Patricio por muchos años siendo lo que siempre ha sido: una tierra europea.
 
Enric Ravello
Secretario Relaciones Nacionales e Internacionales de Plataforma per Catalunya.
 

mercredi, 21 mars 2012

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

 

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre - Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

La Libye évolue comme on pouvait s'y attendre

Nouvelle guerre civile et exportation du terrorisme islamiste

Jean Bonnevey
Ex: http://www.metamag.fr/
 
Les apprentis sorciers de l’exportation démocratique dans le monde arabo-musulman par la subversion technologique ou la guerre sont en train de récolter les fruits de leur irresponsabilité libyenne. Comme annoncé, ici et ailleurs, par tous les esprits critiques non sclérosés par un sectarisme idéologique, la Libye, sans Kadhafi, se dirige vers tout, sauf vers la démocratie.
 
Elle se dirige vers une nouvelle guerre civile, alors même que les islamistes les plus durs prêtent main forte à leurs compagnons de route syriens, sous les yeux attendris d'Alain Juppé. Bengazi. La capitale cyrénaïque s'est doté d'un conseil autonome, étape vers l’indépendance souhaitée. A Tripoli, le CNT menace donc d'utiliser la force pour empêcher l'Est du pays de se soustraire à son influence. L'Est du pays veut profiter de son pétrole et se débarrasser de cet Ouest et ce Sud coûteux et suspects au regard des premiers révolutionnaires.
 

La Cyrénaïque a proclamé son autonomie
 
Promise par Alain Juppé et d’autres à un avenir stable, fondé sur des bases démocratiques, la Libye post-Kadhafi va de fait de mal en pis. Jusque-là, c'est en grande partie la situation sécuritaire qui était la plus préoccupante. C’était la loi des milices et des tribus dans le chaos.
 
 
Le Conseil national de transition, qui fait déjà face à une situation plus que délicate, se voit confronté aux aspirations séparatistes, ou officiellement autonomistes, des chefs de tribus et de milices de l'Est libyen à Benghazi, d'où est partie la révolte. Les «autonomistes» revendiquent un système fédéral. Dans un communiqué conjoint, ils avaient fait état de l'élection d'Ahmed Zoubaïr el-Senoussi à la tête de la Cyrénaïque.
 
La Cyrénaïque autonome : une forte odeur de pétrole
 
La région s’estime marginalisée durant les 42 années de règne du colonel. Des milliers de personnes ont assisté à la cérémonie, au cours de laquelle a également été nommé un Conseil chargé de gérer les affaires de cette région, qui fut longtemps indépendant de la Tripolitaine. Ce Conseil reconnaît toutefois le Conseil national de transition, qualifié de «symbole de l'unité du pays et représentant légitime aux sommets internationaux».
 
A cette prétention d’éloignement, le président du Conseil national de transition, Moustapha Abdeljalil, a répondu «Nous ne sommes pas préparés à une division de la Libye», dans des propos diffusés par la télévision, appelant ses frères de cette région baptisée «Cyrénaïque» au dialogue. Il les a ainsi mis en garde contre les «restes» de l’ancien pouvoir, en précisant qu'ils devraient savoir que des «infiltrés» et des restes du régime déchu tentaient de les utiliser. «Nous sommes prêts à les en dissuader, même par la force», a averti Abdeljalil.
 
Soutien officialisé des Islamistes libyens au rebelles syriens
 
Ce n’est pas tout. Les Islamistes, bien présents comme l’avait dit le défunt colonel, sont actifs déjà en dehors des frontières. L'ambassadeur russe à l'ONU a accusé le gouvernement libyen d'abriter un camp d'entraînement pour des rebelles syriens qui ont mené des actions contre le régime de Damas.
 
"Nous avons reçu des informations selon lesquelles il existe en Libye, avec le plein soutien des autorités, un centre d'entraînement spécial pour des rebelles syriens; ces personnes sont ensuite envoyées en Syrie pour attaquer le gouvernement en place", a lancé Vitali Tchourkine, lors d'une réunion du Conseil de sécurité dédiée à la Libye, en présence du Premier ministre par intérim, Abdel Rahim al-Kib. "Cette situation est totalement inacceptable sur le plan légal et de telles activités sapent la stabilité au Moyen-Orient", a renchéri l'ambassadeur, provoquant la fureur du responsable libyen.
 
Le diplomate a, par ailleurs, souligné que son pays était certain que l'organisation extrémiste, Al-Qaïda, est présente en Syrie. D'où cette question à présent: est-ce que l'exportation de la rébellion démocratique libyenne va se transformer en une exportation du terrorisme dans le moyen orient? Question accessoire, BLH et Juppé sont-ils toujours aussi contents d’eux ?

Céline, profeta de la decadencia

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Céline, profeta de la decadencia

GISELLE DEXTER Y ROBERTO BARDINI

Ex: http://www.elmanifiesto.com/


"Rencorosos, dóciles, violados, robados, con las tripas fuera y siempre jodidos. (...) Hemos nacidos fieles y así morimos". El autor de esta frase es un médico, físico y viajero francés a quien nadie conoce por su verdadero apellido: Destouches.

En cambio, los ambientes literarios y culturales de todo el mundo reconocen su talento magistral como escritor bajo el nombre que eligió para entrar –sin saberlo, entonces– por la puerta grande de la literatura: Louis Ferdinand Céline (1884-1961). La frase citada pertenece, precisamente, a la obra que lo consagró internacionalmente: Viaje al fin de la noche.

Céline sucumbió, junto con un grupo de jóvenes y talentosos intelectuales franceses, a lo que Benito Mussolini llamó "la tentación fascista", en el período que va de la primera a la segunda guerra mundiales. Este "pecado", con variantes, también se dio en Bélgica, Holanda, Noruega, Finlandia, Croacia, Polonia y Hungría. Ninguno de estos países, sin embargo, contó con una congregación de autores tan brillante, trágica y malograda como la de Francia. Entre sus principales exponentes figuran, entre otros, Pierre Drieu la Rochelle y Robert Brasillach. A todos ellos se les aplicó, según los casos, la ley del "encierro, destierro o entierro"; todos ellos recibieron el despectivo apodo de colabos, es decir "colaboracionistas" con el enemigo.

Una intelectual italiana antifascista y feminista, María Antonietta Machiochi, define a Céline como "el más genial de los escritores nazifascistas". A muchos historiadores, literatos y críticos les resulta muy difícil digerir esta doble realidad que incluye el reconocimiento a su genialidad como escritor y su identidad "políticamente incorrecta". Y, por si fuera poco, hay que agregar una faceta más: su rabioso antijudaísmo.

"Uno de los gigantes de nuestra época"

Lo cierto es que no existe polémica acerca de su talento; casi todos los prólogos a sus obras incluyen, junto con el repudio a su elección ideológica, las alabanzas al estilo literario: "escritura hablada", "anárquica expresividad", "grafía desquiciada". Entre las etiquetas también hay que incluir "absoluto cinismo", "pesimismo radical", "nihilismo deslumbrante". Sus admiradores políticos, incluso, lo llaman "el profeta de la decadencia europea"... Y se podría continuar.

Uno de sus adversarios, Jean Paul Sartre, quien antes de convertirse en filósofo existencialista había sido simpatizante comunista, escribe en 1946: "Tal vez Céline sea el único que permanezca de todos nosotros". Etienne Lalou, novelista, cronista de L’Express y productor de radio y televisión, dice: "Céline ha restituido al francés hablado sus títulos de nobleza y, sin él, una parte de la literatura moderna no sería lo que es". Lalou, un creador alejado de cualquier cosa vinculada a Hitler y Mussolini, lo llama "uno de los gigantes de nuestra época".

Céline es voluntario en la Primera Guerra Mundial, de la que regresa con el 75 por ciento de su cuerpo mutilado. Al terminar el conflicto, comienza a estudiar medicina. Egresa en 1924, con una tesis sobre el médico húngaro Felipe Ignacio Semmelweis (1818-1865), a quien un colega contemporáneo definió como "un poeta de la bondad". Esa tesis se convertirá en 1937 en Semmelweis, una bella biografía sobre el investigador que luchó contra la fiebre puerperal hasta el último día de su vida. En la nota preliminar de este libro, el novelista español Juan García Hortelano (1928-1992) escribe:

"La agresividad, componente indispensable de la obra maestra, alcanza en Céline al universo entero y verdadero. En el caos, el asesinato, la injusticia, el terror y la debilidad juegan la partida; el que pueda envidar, gana; sólo perderán los débiles, para quienes la opción se limita a la fuga o la muerte. Céline, en absoluto partidario del suicidio, es el primer escapista que, refractario a la mentira, no huye. Tampoco se apiada (...).Destruye el mundo, minuciosamente (...), con el arma que supo manejar. Céline es un lenguaje nuevo. Del francés hablado, mal hablado, destiló un sistema de ruptura de la lengua, en el que reside toda su gloria".

Novela "irreductible y salvaje"

Céline se alista en la marina. De 1924 a 1928 integra misiones de la Sociedad de Naciones en África y Estados Unidos; por su cuenta, visita la Unión Soviética. Al regreso a Francia, trabaja en una clínica estatal en Clichy, un suburbio al norte de París, donde prácticamente sólo atiende a pobres. En 1940, se presenta nuevamente al ejército como voluntario pero es rechazado por las secuelas de sus heridas anteriores.

Su obra incluye los siguientes títulos: Viaje al fin de la noche (1932), Muerte a crédito (1936), Mea Culpa (publicado luego de su regreso de la Unión Soviética, 1936), Bagatelles pour un massacre (1937), L´école des cadavres (1938), Les Beaux Draps (1941), Guignol´s Band (1943), Casse Pipe (1949), Feerie pour une autre fois (1952), De un castillo a otro (1957), Norte (1960) y Rigodon, publicada después de su muerte.

Con Viaje al fin de la noche gana el premio Renaudout. Ferdinand Bardamu, el protagonista de la novela, es un héroe desilusionado y castigado que vive experiencias extremas, siempre al borde del abismo: herido en la Primera Guerra mundial, enamorado de una prostituta sin futuro, víctima de un trabajo embrutecedor en las colonias francesas en África, perseguidor del "sueño americano" –que no se parece al del publicitado mito– y de nuevo en Francia como médico rural de campesinos miserables.

Las reflexiones de Viaje al fin de la noche sobre la condición humana son amargas. Robert Saladrigas escribe en "Céline, el recluso de Dinamarca" (La Vanguardia, Cataluña, 24 de julio de 2002): "Novela única, irreductible, salvaje; un sólido monumento literario contra el que nada han podido el tiempo, los tifones de la historia ni la aberrante ideología de quien la escribió con un talento que desborda cualquier esquema en el que se pretenda encajarla. Es difícil no pensar en una poderosísima creación de la naturaleza que resulta literalmente abrumadora". En Viaje al fin de la noche se lee:

"Los hombres se aferran a sus cochinos recuerdos, a todas sus desgracias, y no se les puede sacar de ahí. Con eso ocupan el alma. Se vengan de la injusticia de su presente revolviendo en su interior la mierda del porvenir. Justos y cobardes que son todos, en el fondo. Es su naturaleza. (...) Os lo digo, infelices, jodidos de la vida, vencidos, desollados, siempre empapados de sudor; os lo advierto: cuando los grandes de este mundo empiezan a amarlos es porque van a convertirlos en carne de cañón".

Un destino trágico

Después de la caída del régimen de Vichy, la vida de Céline será una sucesión de sufrimientos que parecen copiados de sus propias novelas. Y parece confirmarse que la vida imita al arte hasta en sus aspectos más desgarradores.

Radio Londres, portavoz de la Resistencia Francesa, ofrece una recompensa por su captura, vivo o muerto. En 1944, Céline se retira de Francia junto con las tropas alemanas. Hace una escala en Alemania, donde paradójicamente sus libros están prohibidos. De ahí, busca refugio en la neutral Dinamarca. El Consejo Nacional de los Escritores, vinculado con la Resistencia, divulga una "lista negra" con doce autores colaboracionistas; él, desde luego, es uno de ellos. Entre los escritores denunciantes se encuentran muchos envidiosos del talento del "profeta de la decadencia", que no pueden tolerar el éxito de Viaje al fin de la noche.

En septiembre de 1945, un juez le dicta orden de arresto por "traición a la patria". Poco después, una denuncia anónima informa a la embajada francesa en Copenhague que el fugitivo se encuentra en esa ciudad. El 17 de diciembre de 1945, Céline es encarcelado. El novelista permanecerá en una celda de la severa prisión de Vestre Faengsel durante 16 agónicos meses. Entre otros vejámenes, sus carceleros lo mantienen sin calefacción en pleno invierno danés. Hay que tomar en cuenta que había quedado mutilado después de la Primera Guerra; además, estaba enfermo y se le agravaron sus dolencias hasta límites insoportables: enteritis, pelagra y reumatismo. Céline sale en libertad el 24 de junio de 1947, sin cargos, con 40 kilos menos.

El juicio al escritor "maldito" se lleva a cabo el 21 de febrero de 1950, en París, en ausencia de acusado y de un abogado defensor; lo condenan a un año de prisión, pena inferior a la cumplida con carácter preventivo en Dinamarca. Puede regresar a Francia recién el primero de julio de 1951. A seis años de terminada la guerra, toda su obra ha sido destruida.

Se establece con su mujer y decenas de gatos y perros en Meudon, cerca de París. En 1953 abre un consultorio médico para atender a personas sin recursos. Se hace imprimir tarjetas de presentación en las que se lee: "Louis Ferdinand Céline - Ave del paraíso". Recibe siete u ocho cartas diarias con insultos y amenazas; y otras tantas llenas de admiración y elogios. Unas y otras lo tienen sin cuidado. Escribe: "Anarquista soy, he sido, sigo siendo. ¡Y me traen sin cuidado las opiniones!"

Poco a poco, Céline recupera el prestigio literario que, a pesar de todo, le pertenece. Pero el sistema se lo devuelve a regañadientes, haciendo constar siempre que había sido –y continuaba siendo– un "maldito". En 1953, la editorial Gallimard edita nuevamente sus libros. De la larga lista de sus obras, cuatro continúan prohibidas a casi medio siglo de haber sido escritas: Bagatelles pour un massacre, L´école des cadavres, Les Beaux Draps y Mea Culpa. Y esto en Francia, país que se reconoce a sí mismo como cuna del liberalismo, precursor de la moderna democracia, practicante del lema Igualdad, fraternidad, solidaridad.

El marginado vuelve a escribir. Relata sus experiencias durante el exilio en De un castillo a otro (1957), Norte (1960) y Rigodon, publicada póstumamente. En 2002 se divulgan sus Cartas de la cárcel. Son casi 200 mensajes originalmente escritos en el áspero papel de baño carcelario, recopilados por su biógrafo François Gibault. "Sufro mi destino. No sé de qué crímenes soy culpable. Pero esta incertidumbre puede durar –me temo– años", dice Céline en una de sus cartas. Y en otra: "Es duro tener un mundo entero de odio contra uno".

En el prefacio, Gibault, refiriéndose a los panfletos antisemitas de Céline, explica que éste "sabía lo que había escrito antes de la guerra y por qué lo había escrito". Pero cuando se descubrió el genocidio judío "aquellos panfletos adquirían un cariz trágico que nadie había descubierto ni denunciado en el momento de su publicación, mientras que él mismo aparecía como un asesino". Sus escritos, elaborados para evitar la guerra, "pero con las exageraciones sin las cuales Céline no habría sido el que era y que aparecían a la luz de los acontecimientos como incitaciones a la matanza, servían de pretexto, pese haber sido escritos antes del genocidio, para una partida de caza en la que el objetivo era él".

Carlos Manzano, traductor de Cartas de la cárcel –y de la mayoría los libros de Céline en español– respalda las afirmaciones de François Gibault: "Él sentía desprecio por los alemanes, nunca fue colaborador de los nazis. Siempre lo negó y nunca se pudo demostrar nada; después, cuando volvió a Francia, se encerró y nunca quiso hablar con la prensa ni con nadie".

En mayo de 2002, el primer manuscrito de Viaje al fondo de la noche fue subastado en París por casi un millón 800 mil dólares. Las 876 páginas del original –llenas de tachaduras y correcciones– quedaron en Francia ya que la Biblioteca Nacional interpuso su derecho prioritario para que el texto no salga del país. Para los especialistas, el hallazgo del texto tiene un valor inestimable, ya que permite comprender los mecanismos mediante los cuales se construyó una de las obras más importantes y sombrías del siglo XX. Durante más de 40 años, el original fue motivo de las más increíbles versiones: se decía que fue perdido, recuperado y quemado por Céline; también que estaba oculto en Argentina, en manos de nazis refugiados.

La suma que se pagó por el histórico escrito de Céline superó el monto en que fue subastado, en 1988 por la casa Sotheby’s, el manuscrito de El proceso, de Franz Kafka: un millón y medio de dólares. El texto del primer tomo de En busca del tiempo perdido, de Marcel Proust, otro clásico, fue rematado en 2001 por Christie’s en poco más de un millón de dólares.

Dejemos algunas reflexiones finales por cuenta de Andreu Navarra Ordoño, autor de "Céline: el hombre enfadado" (revista Babab Nº 11, Madrid, enero de 2002), quien define a Viaje al fondo de la noche como "una de las más feroces sátiras contra la civilización occidental". El escritor español se pregunta: "¿Es injustificado desentenderse del mundo cuando éste se ha convertido en una estafa universal, en algo así como una trampa a gran escala? ¿Cómo no hubiera podido enfadarse ante semejante espectáculo? ¿Niega Céline alguna vez las acusaciones de que fue objeto? En absoluto. Sí nos ofrece sus reflexiones, nunca alegaciones".

Céline falleció en Meudon en 1961, a los 77 años. En algún momento de su vida, escribió: "En este mundo vil, nada es gratuito. Todo se expía: el bien, como el mal, se paga tarde o temprano. El bien mucho más caro, lógicamente".

© Giselle Dexter y Roberto Bardini

I miti che generano depressione

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I miti che generano depressione

di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risè [scheda fonte]

Un europeo su dieci è depresso. Le donne il doppio degli uomini, e i giovani più degli adulti. Lo rivela l’ultimo sondaggio importante svolto in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania, che conferma i dati precedenti. Sappiamo così che non aumenta. Ma cosa succede quando si entra in depressione, e perché accade?
Alcuni aspetti diventano sempre più evidenti: ad esempio i tratti “sociali” della depressione, i suoi legami col lavoro, la famiglia, e il modello di sviluppo attuale.
I depressi vengono messi in difficoltà dal carattere “performativo” del nostro modello sociale che richiede in continuazione di “funzionare” bene nei diversi campi, dal lavoro alla sessualità.
Ridurre la persona a produttore (di denaro, successo, piacere), suscita in molti l’ansia di “misurare” direttamente quanto siano adeguati alle richieste degli altri e del collettivo. A questo punto, se non si è sostenuti da una forte autostima, e da molta concretezza e umiltà, è facile deprimersi.
Il modello della “persona di successo” è, infatti, per definizione, ideale e irraggiungibile, come dimostrano le stesse biografie delle star, che rivelano in continuazione improvvisi squarci di infelicità, disordine, o vere e proprie malattie.
La bellezza, l’essere attraenti, è una dote di partenza, non è completamente costruibile con la chirurgia o altri artifici: dà più sicurezza apprezzarsi per come si è che inseguire una perfezione inesistente.
L’altro grande Idolo del nostro modello culturale poi, il potere, richiede a sua volta (per solito) grandi durezze e sacrifici per ottenerlo, (magari sul piano della coerenza, gusti, o moralità personali), e prima o poi va necessariamente lasciato, o comunque viene tolto.
Adeguarsi a queste richieste collettive: performance elevate, bellezza, potere, suscita dunque di per sé prima ansia, e poi depressione. Si diventa come bambini piccoli e esageratamente prepotenti, che su una giostra vogliano raggiungere il cavallo di legno che c’è davanti invece di godersi il loro giro. E quando il giro è finito piangono.
Da questo punto di vista la depressione, se attraversata con consapevolezza, può invece essere un importante passaggio formativo e una straordinaria scuola di vita, come ha ricordato nei suoi lavori (tra cui l’ultimo: Elogio della depressione) Eugenio Borgna, che ha introdotto in Italia la psichiatria fenomenologica.
Certamente non è facile, come del resto buona parte delle esperienze formative dell’esistenza.
Il rifiutare questo “lato difficile” della formazione personale, e il cercare di aggirarlo con tecniche, o con vere e proprie menzogne, come la “vendita del successo” in cui consiste molta pseudo educazione contemporanea, non fa altro che produrre nuove depressioni e altri disagi. Tra questi, è piuttosto interessante l’attuale svalutazione mediatica e culturale dell’importanza nella vita delle persone di un rapporto di coppia stabile.
Del consumismo complessivo e della relativa esaltazione dell’individuo, col suo fascino e potere, fa parte infatti la celebrazione della fine della famiglia-coppia stabile, sostituita da famiglie aperte e variabili, inframmezzate da lunghi periodi di stato “single”. Peccato però che proprio le persone che vivono da sole, single, divorziati, separati o vedovi siano nel gruppo di testa dei depressi (in Europa e nel mondo).
Lo stabile e profondo rapporto d’amore con l’altro, così come la ricca e complessa socialità della famiglia, col suo dialogo tra generazioni e società circostante, sostiene infatti, oggi e da sempre, la formazione e sviluppo della persona. E quindi il suo benessere.


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mardi, 20 mars 2012

LEAP : Les cinq orages dévastateurs de l’été 2012 au cœur du basculement géopolitique mondial

LEAP : Les cinq orages dévastateurs de l’été 2012 au cœur du basculement géopolitique mondial

Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique, 15 mars 2012

Joseph Vernet, Une tempête, vers 1770 (cliquez pour agrandir)

Dans son numéro de janvier 2012, le LEAP a placé l’année en cours sous le signe du basculement géopolitique mondial. Le premier trimestre 2012 a largement commencé à établir qu’une époque était en effet en train de se terminer avec notamment : les décisions de la Russie et de la Chine de bloquer toute tentative occidentale d’ingérence en Syrie (1) ; la volonté affirmée des mêmes, associées à l’Inde (2) en particulier, d’ignorer ou de contourner l’embargo pétrolier décidé par les Etats-Unis et l’UE (3) à l’encontre de l’Iran ; les tensions croissantes dans les relations entre les Etats-Unis et Israël (4) ; l’accélération de la politique de diversification hors du dollar US conduite par la Chine (5) et les BRICS (mais également le Japon et l’Euroland (6)) ; les prémisses du changement de stratégie politique de l’Euroland à l’occasion de la campagne électorale française (7) ; et l’intensification des actes et discours alimentant la montée en puissance de guerres commerciales trans-blocs (8). En mars 2012, on est loin de mars 2011 et du « bousculement » de l’ONU par le trio USA/UK/France pour attaquer la Libye.

Mars 2011, c’était encore le monde unipolaire d’après 1989. Mars 2012, c’est déjà le monde multipolaire de l’après crise hésitant entre confrontations et partenariats.

 

Evolution des réserves de change chinoises et de leur part en titres US (2002-2011) (en milliers de milliards de dollars) (en vert : total ; en saumon : titres US ; courbe rouge : évolution en % de part des titres US dans le total) – Sources : Banque populaire de Chine / Trésor US / Wall Street Journal / DollarCollapse, mars 2012

Ainsi, comme anticipé par le LEAP, le traitement de la « crise grecque » (9) a rapidement fait disparaître la soi-disant « crise de l’euro » des unes des médias et des inquiétudes des opérateurs. L’hystérie collective entretenue à ce sujet au cours du second semestre 2011 par les médias anglo-saxons et les eurosceptiques aura fait long feu : l’Euroland s’impose de plus en plus comme une structure pérenne (10), l’euro est à nouveau en vogue sur les marchés et pour les banques centrales des pays émergents (11), le duo Eurogroupe/BCE a fonctionné efficacement et les investisseurs privés auront dû accepter une décote allant jusqu’à 70% de leurs avoirs grecs, confirmant ainsi l’anticipation du LEAP de 2010 qui parlait alors d’une décote de 50% quand personne ou presque n’imaginait la chose possible sans une « catastrophe » signifiant la fin de l’euro (12). In fine, les marchés se plient toujours à la loi du plus fort… et à la peur de perdre plus, quoi qu’en disent les théologiens de l’ultra-libéralisme. C’est une leçon que les dirigeants politiques vont précieusement garder en mémoire car il y a d’autres décotes à venir, aux Etats-Unis, au Japon et en Europe. Nous y revenons dans ce [numéro].

Cliquer sur le graphique pour l'agrandir

Encours de la dette publique détenue par la banque centrale (2002-2012) – Etats-Unis (en violet), Royaume-Uni (en gris), Euroland (en pointillés violets), Japon (en pointillés gris) – Sources : Datastream / banques centrales / Natixis, février 2012

Parallèlement, et cela contribue à expliquer la douce euphorie qui alimente les marchés et nombre d’acteurs économiques et financiers ces derniers mois, pour cause d’année électorale et par nécessité de faire à tout prix bonne figure face à une zone euro qui ne s’effondre pas (13), les médias financiers américains nous refont le coup des « green shots » du début 2010 et de la « reprise » (14) du début 2011 afin de peindre une Amérique en « sortie de crise ». Pourtant les Etats-Unis de ce début 2012 ressemblent bien à un décor déprimant peint par Edward Hopper (15) et non pas à un chromo 60s rutilant à la Andy Warhol. Comme en 2010 et 2011, le printemps va d’ailleurs être le moment du retour au monde réel.

Dans ce contexte d’autant plus dangereux que tous les acteurs sont bercés d’une dangereuse illusion de « retour à la normale », en particulier du « redémarrage du moteur économique US » (16), le LEAP estime nécessaire d’alerter ses lecteurs sur le fait que l’été 2012 va voir cette illusion voler en éclats. En effet, nous anticipons que l’été 2012 verra la concrétisation de cinq chocs dévastateurs qui sont au cœur du processus de basculement géopolitique mondial en cours. Les nuages noirs qui s’amoncellent depuis le début de la crise en matière économique et financière sont maintenant rejoints par les sombres nuées des affrontements géopolitiques.

Ce sont donc, selon le LEAP, cinq orages dévastateurs qui vont marquer l’été 2012 et accélérer ainsi le processus de basculement géopolitique mondial :

. rechute des USA dans la récession sur fond de stagnation européenne et de ralentissement des BRICS
. impasse pour les banques centrales et remontée des taux
. tempête sur les marchés des devises et des dettes publiques occidentales
. Iran, la guerre « de trop »
. nouveau krach des marchés et des institutions financières.

Dans ce [numéro], notre équipe analyse donc en détail ces cinq chocs de l’été 2012.

Parallèlement, en partenariat avec les Editions Anticipolis, nous publions un nouvel extrait du livre de Sylvain Périfel et Philippe Schneider, « 2015 – La grande chute de l’immobilier occidental », à l’occasion de la mise en vente de sa version française. Il traite des perspectives du marché immobilier résidentiel américain.

Enfin, nous présentons nos recommandations mensuelles ciblées dans ce numéro sur l’or, les devises, les actifs financiers, les bourses et les matières premières.

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Notes :

(1) Un article de CameroonVoice, publié le 06 mars 2012, offre un tour d’horizon intéressant de cette situation de blocage qu’il nous paraît utile d’analyser sous l’angle géopolitique autant que sons l’angle humanitaire qui a tendance à camoufler nombre de paramètres derrière les « évidences de la cause juste ». Souvenons-nous de l’attaque sur la Libye et des conséquences désastreuses qu’elle entraîne aujourd’hui pour de nombreux Libyens et pour toute la région ; dernière en date : la déstabilisation de toute une partie de l’Afrique sub-saharienne, comme le Mali par exemple. A ce sujet, on peut lire la très intéressante analyse de Bernard Lugan dans Le Monde du 12 mars 2012.

(2) Et au Japon qui fait profil bas mais n’a pas l’intention d’arrêter de s’approvisionner en pétrole iranien. La Chine et l’Inde de leurs côtés accroissent leurs livraisons de pétrole iranien et s’engouffrent dans le vide laissé par les Occidentaux. Les Indiens utilisent même désormais l’Iran comme une porte vers le pétrole d’Asie centrale. Sources : Asahi Shimbun, 29 février 2012 ; Times of India, 13 mars 2012 ; IndianPunchline, 18 février 2012

(3) Attendons de voir ce que sera la volonté de l’UE en la matière dans la seconde moitié de 2012. Avec la fin de la tutelle US sur la politique étrangère française suite au changement de président français, de nombreux aspects de la politique internationale de l’Europe vont changer.

(4) Nombreux sont les responsables israéliens et américains qui se demandent dans quel état vont être les relations entre les deux pays à l’issue de cette quasi-confrontation sans précédent sur la question d’une éventuelle attaque de l’Iran. Pour certains, on s’approche du moment de « ras-le-bol » d’Israël de la part des Etats-Unis, comme l’analyse l’article de Gideon Levy dans Haaretz du 04 mars 2012.

(5) Derniers exemples en date : l’accord des BRICS pour organiser entre eux des échanges en devises nationales, et particulièrement en yuan du fait de la volonté de Pékin d’internationaliser sa devise ; et la décision du Japon d’acheter des bons du Trésor chinois en accord avec Pékin. Pékin agit ainsi à l’opposé du Japon « dominant » des années 1980 qui n’avait jamais osé pousser à l’internationalisation du yen. Cet aspect suffit à réduire à néant toutes les comparaisons entre l’ascension avortée du Japon et la situation de la Chine aujourd’hui. Tokyo était sous contrôle de Washington ; Pékin ne l’est pas. Sources : FT, 07 mars 2012 ; JapanToday, 13 mars 2012

(6) Les banques de l’Euroland se dégagent de leurs activités de prêts en dollars. Source : JournalduNet, 23 février 2012

(7) A savoir la fin du social-libéralisme qui avait pris la place de la social-démocratie européenne au cours de ces deux dernières décennies ; et le retour de l’ « économie sociale de marché » au cœur du modèle rhénan, modèle historique européen continental. De la Slovaquie du nouveau premier ministre Fico à la France du futur président Hollande (ceci n’est pas un choix politique mais le résultat de nos anticipations publiées dès novembre 2010 dans [notre numéro du 15 novembre 2010]) en passant par l’Italie de Mario Monti et une Allemagne où conservateurs et sociaux-démocrates doivent désormais faire le chemin européen ensemble puisqu’il le faut pour obtenir la majorité nécessaire à la ratification des nouveaux traités européens, on voit se dessiner les contours de la future stratégie économique et sociale de l’Euroland : fiscalité progressive renforcée, solidarité sociale, efficacité économique, mise sous contrôle du secteur financier, vigilance douanière… en résumé : éloignement à grande vitesse du modèle anglo-saxon à la mode depuis 20 ans parmi les élites du continent européen.

(8) Derniers épisodes en date : l’attaque devant l’OMC de la politique commerciale chinoise concernant les « terres rares » par les Etats-Unis, appuyés par l’UE et le Japon ; les nouveaux rebondissements des accusations réciproques USA/UE toujours devant l’OMC concernant les subventions à Boeing et Airbus ; la « guerre monétaire » déclenchée par le Brésil contre les Etats-Unis et l’Europe. Sources : CNNMoney, 12 mars 2012 ; Bloomberg, 13 mars 2012 ; Mish’s GETA, 03 mars 2012

(9) D’ailleurs, impensable pour beaucoup il y a seulement trois mois, l’agence de notation vient de remonter la note de la Grèce. Source : Le Monde, 13 mars 2012

(10) Les questions de démocratisation de ces structures se posent comme nous l’avons souligné. Mais ces structures (MES, BCE…) sont désormais établies. Aux acteurs et forces politiques des deux prochaines années d’entamer leur mise sous contrôle par les citoyens plutôt que de passer leur temps à regretter un temps merveilleux… où les citoyens n’avaient même pas la moindre idée de comment leur pays gérait sa dette. Et ce n’est pas en attaquant les technocrates qui ont fait le « sale boulot » au milieu de la tempête que les politiques trouveront le chemin de la légitimation démocratique des institutions de l’Euroland, mais en proposant de nouveaux mécanismes et des processus d’implication des peuples dans les décisions. A ce propos, il est utile de savoir qu’au Parlement européen, le groupe PPE (où siègent notamment les partis de Nicolas Sarkozy et Angela Merkel) tente de tuer dans l’œuf une proposition trans-partisane de création de 25 sièges du Parlement européen qui seraient élus sur des listes transnationales avec l’UE comme circonscription unique. Selon le LEAP, cette proposition est un petit pas sur le seul chemin qui peut conduire à un contrôle citoyen des décisions européennes. Il est regrettable que des chantres de la nécessité de rapprocher l’Europe des peuples soient en fait complices du blocage d’une première tentative sérieuse dans cette direction. Source : European Voice, 11 mars 2012

(11) Même le Financial Times, pourtant l’un des acteurs-clés de l’hystérie anti-euro, doit désormais reconnaître que les marchés émergents (acteurs publics et privés) ont retrouvé leur appétit pour la devise européenne. Source : Financial Times, 26 février 2012

(12) Nous insistons sur ces points car il ne faut pas oublier trop vite les discours dominants de 2010 et 2011 qui ont incité les investisseurs à acheter de la dette grecque car c’était une « affaire en or » ! Souvent les mêmes « experts » ont aussi pronostiqué une parité euro/dollar entraînant nombre d’opérateurs à vendre leurs euros pour acheter du dollar dans cette même logique. Résultat : ces « experts », qui peuplent les unes des médias et les émissions financières, ont fait perdre beaucoup d’argent aux uns et aux autres. Pour savoir anticiper l’avenir, il faut aussi entretenir sa mémoire !

(13) N’oublions pas que sans l’hystérie collective entretenue autour de la « crise de l’euro », dès la fin 2011, les Etats-Unis auraient été incapables de financer leurs énormes déficits. Wall Street et la City ont dû peindre une Europe au bord du gouffre pour pouvoir maintenir le flux d’achats de leurs titres. Maintenant que cette propagande ne fonctionne plus, il est donc vital d’essayer d’embellir la situation US faute de tarir la source extérieure du financement de l’économie américaine. Voir [nos numéros du 15 octobre 2011 au 15 janvier 2012].

(14) Pour mémoire, mi-2010, le FMI se préoccupait de ne pas « handicaper la reprise ». Et en janvier 2011, les experts se demandaient comment bénéficier de la « reprise » démontrée par les fameux « indicateurs clés » ! Sources : FMI, 07 juillet 2010 ; CreditInfocenter, 27 janvier 2011

(15) Notre équipe tient à préciser que nous apprécions le talent de Hopper et qu’il n’est cité ici que parce qu’il est le peintre par excellence de la classe moyenne de l’ « âge d’or » des Etats-Unis, qu’il a pourtant en général montrée dans une atmosphère très dépressive. Nous ne pouvons qu’imaginer ce que serait l’ambiance de ses tableaux aujourd’hui avec une classe moyenne en perdition dans un « âge de fer » pour le pays.

(16) Nous rappelons que c’est le credo fondamental sur lequel repose tout le système économique et financier global. Et en trois ans de crise, pour la première fois depuis 1945, ce moteur ne fonctionne plus. Alors il faut prétendre le plus longtemps possible, en espérant un miracle. A l’été 2012, les orages porteront bien des éclairs mais il n’y aura pas de foudre miraculeuse ; bien au contraire.

Laboratoire Européen d’Anticipation Politique

Russland und die Muster-Demokraten

 

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Russland und die Muster-Demokraten

Andreas MÖLZER

Ex: http://andreasmoelzer.wordpress.com/

Putins Wahl, das sei ein Sieg der Korruption, konnte man in heimischen Medien nach dem vergangenen russischen Wahl-Sonntag lesen. Massiven Wahlbetrug habe man erkennen können, die Opposition hätte keine Chance bekommen und die Gegenkandidaten wären samt und sonders nicht mehr als Zählkandidaten gewesen. Der neue / alte Staatspräsident sei insgesamt alles andere als demokratisch gewählt worden.

Es war der deutsche SPD-Bundeskanzler Gerhard Schröder der erklärt hatte, Putin sei ein „lupenreiner Demokrat“. Das ist nun vielleicht tatsächlich ein wenig schöngefärbt. Allzumal der Kreml-Herr sich selbst immer als starken Mann stilisiert hat: der Judoka-Putin, der Jäger-Putin, der russische Naturbursche. All das passt nicht so recht in das Bild musterdemokratischer Bedenkenträger, wie wir sie in Westeuropa kennen. Ob es allerdings deswegen berechtigt ist zu sagen, Putin verfüge über keinerlei demokratische Legitimation, er sei von den Russen nicht gewählt worden?

Tatsache ist, mehr als 60 Prozent, also zwei Drittel der Russen waren und sind für Putin. Tatsache ist auch, dass er sich an die Verfassung gehalten hat und nach zweimaliger Präsidentschaft den Sessel des Staatsoberhaupts geräumt hat – allerdings um sich nun, verfassungskonform, wiederwählen zu lassen. Wäre er ein Diktator, hätte er derlei Formalien wohl nicht notwendig gehabt. Und Tatsache ist, dass er es geschafft hat, das post-kommunistische, krisengeschüttelte Russland in ruhigere Fahrwasser zu lenken.

Jene, die gegenwärtig aus Westeuropa mit dem moralisch erhobenen demokratiepolitisch erhobenen Zeigefinger auf den Kreml weisen, müssen sich allerdings daran erinnern lassen, dass es mit der Demokratie auch im hochgelobten demokratischen Westen, auch in Europa nicht allzu weit her ist. Wo bleibt die Gewaltenteilung zwischen Exekutive und Legislative etwa in der EU, wo der Rat, also die Summe der europäischen Exekutive in den Regierungen die Legislative, das Parlament nämlich, absolut dominiert. Und wo ist der demokratische Souverän, das Volk, wenn wie etwa im Falle Irlands bei Volksabstimmungen so oft abgestimmt werden muss, bis das Ergebnis den Mächtigen in Brüssel in den Kram passt. In Sachen Demokratie haben die Europäer wenig Anlass, auf die Russen des Vladimir Putin mit dem Finger zu zeigen.

Vielmehr sollte man in Brüssel, aber auch in Paris, Berlin, London und Rom darüber nachdenken, auf welche Art und Weise man das geopolitische Bündnis zwischen Europa und Russland, das nach wie vor der größte Flächenstaat der Erde ist, festigt und ausbaut. Bisweilen scheint es in Vergessenheit geraten zu sein, dass Russland schlechthin der optimale geopolitische Partner Europas ist. Die Russen sind ein europäisches und christliches Volk, kulturell blicken sie nach Westen. Sie verfügen über gewaltige Bodenschätze, über ein immenses wirtschaftliches und industrielles Potential und sie sind zweifellos die einzigen Partner, mit deren Hilfe Europa sich gegenüber den US-Amerikanern emanzipieren, gegenüber China und Indien und der islamischen Welt behaupten kann. Dazu werden wir Putin und sein Russland noch bitter notwendig haben.

La leçon de capitalisme de l’Islande

La leçon de capitalisme de l’Islande

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Par deux fois, les Islandais ont refusé de rembourser la dette de leurs banques. Un bel exemple de résistance au capitalisme financier et un modèle pour la Grèce? Pas du tout. Les créanciers commencent à être remboursés et les règles du jeu libéral respectées jusqu’au bout.

Devenue célèbre pour avoir dit non par deux fois à un référendum sur le remboursement de sa dette vis à vis du Royaume-Uni et des Pays-Bas, l’Islande est devenu l’élève modèle des Indignés et de certains économistes: dire « non » au capitalisme financier, voilà la voie à suivre pour la Grèce, piégée par une dette faramineuse. Mais les deux pays sont dans des situations incomparables.

Différence majeure avec la Grèce, la dette de l’Islande n’est pas lié à une mauvaise gestions des comptes publiques, mais à ses banques. Avant 2008, les établissements islandais pratiquaient le ‘carry trade‘, une technique de spéculation qui consiste à emprunter de l’argent dans une devise peu chère (tel que le dollar ou le yen) pour effectuer des placements dans une devise offrant des taux d’intérêts plus élevés, en l’occurrence la couronne islandaise.

50 milliards partis en fumée

 

Par ailleurs, les banques islandaises proposaient à leurs clients étrangers des taux d’intérêts très avantageux, leur permettant de drainer des milliards d’euros et de livres de dépôts, diminuant ainsi leurs coûts de financement.

Mais patatras, la crise des subprimes passe par là, et rapidement, elles se retrouvent étouffées par la défiance généralisée des marchés interbancaires, ainsi que la chute des prix de leurs actifs financiers. Environ 50 milliards de dollars partiront ainsi en fumée, provoquant l’effondrement immédiat du système bancaire islandais. Début octobre 2008, les trois principales banques du pays sont nationalisées.

Parmi elles, la banque Landsbanki – via sa banque en ligne Icesave – laissa ses 340.000 clients britanniques et néerlandais sur le carreau, en leur bloquant l’accès à leurs comptes en ligne le 8 octobre 2008.

Reculer pour mieux faire sauter la banque

Mais en Europe comme en Islande (qui fait partie de l’Association Européenne de Libre Echange – AELE), les banques sont tenues de garantir les dépôts des clients jusqu’à un certain montant. Or, en tant que branche, et non filiale, la banque Icesave relevait du système de garantie islandais, quant bien même ses clients résidaient à Londres ou Amsterdam.

C’est donc à Rekjavik qu’il incombait de rembourser au moins 20.000 euros par client, soit près de 4 milliards d’euros au total, tandis que les créances totales reconnues par Landsbanki s’élèvent à plus de 7 milliards d’euros.

Au moment de l’effondrement bancaire, le gouvernement islandais, soucieux de préserver son économie nationale, est incapable de garantir le remboursement des clients étrangers de ses banques. Les autorités financières britanniques et néerlandaises décident alors de rembourser elles-mêmes les clients d’Icesave à hauteur de la garantie des dépôts de leur pays, avant, bien sûr, de demander à l’Islande de les rembourser.

Les Islandais disent deux fois « non » 

Quelques mois plus tard, à la faveur d’une accalmie des marchés, un long processus de négociations commença entre les trois gouvernements britanniques, néerlandais et islandais, afin de trouver un accord sur le remboursement des créances étrangères de Landsbanki.

Mais c’était sans compter la réaction du peuple islandais, qui demanda par pétition un référendum sur cet accord – reférendum que leur président de la République accorda. La suite de l’Histoire est désormais bien connue: les Islandais rejetèrent par deux fois ce texte.

Mais, si le « non » des islandais lors du second référendum a été très médiatisé, l’évolution de l’affaire a, depuis, été largement ignorée par la presse. Contrainte légalement de respecter la garantie des dépôts bancaires, l’Islande s’est fait réprimandée par l’autorité de surveillance de l’AELE.

Réponse de Rekjavik: le gouvernement n’a qu’une obligation de moyen vis à vis de du mécanisme de compensation des déposants et se devait protéger son économie nationale avant tout. De plus, quand bien même une obligation de résultat lui incomberait, l’Islande fait valoir que, pour faciliter le remboursement de leurs épargnants lésés, les gouvernements britanniques et néerlandais auraient fait « obstruction » à la réorganisation et au démantèlement de Landsbanki.

L’Islande paiera quand même

Rekjavik reproche notamment des pression subies, via le FMI, l’Union Européenne, ou encore l’usage de la loi anti-terroriste par Londres (!), afin de geler les actifs de la branche de Landsbanki en Angleterre.

Mais surtout, l’Islande fait valoir que la banque Landsbanki sera de toute façon en mesure de rembourser directement les autorités financières britanniques et néerlandaises, une fois que la liquidation de ses actifs aura été achevée. La banque aurait, en effet, près de 7 milliards d’euros d’actifs financiers. Largement de quoi payer ses créances les plus prioritaires.

Cette information semble échapper à certains responsables politiques, comme Phillip Davies. Ce député britannique trouve « inacceptable qu’un pays qui refuse de rembourser des milliards de livres touche un seul centime d’aide internationale ».

Il est bien mal informé. Landsbanki a effectué un premier paiement, le 7 décembre dernier, d’environ 2 milliards d’euros, soit environ un tiers des créances totales de la Grande-Bretagne et des Pays-Bas. Le reste suivra à mesure que Landsbanki liquide ses actifs, comme le montre le schéma suivant, tiré du dernier rapport trimestriel de la banque islandaise, aujourd’hui en processus de démantèlement.


Le déclenchement des premiers paiements n’a, en revanche, pas dissuadé l’autorité de surveillance de l’AELE de continuer sa procédure contre l’Islande. Le 14 décembre, elle décidé de l’assigner en justice pour son non respect de la directive européenne sur la garantie des dépôts qui exigeait que l’Islande rembourse les Pays-Bas et le Royaume Uni au plus tard un an après la faillite d’Icesave.

Mais cette procédure a bien peu de chance de changer la donne. Dans le pire des cas, l’Islande sera simplement obligée d’accélérer les remboursements, l’autorité de surveillance n’étant pas habilitée condamner les États membres à payer des pénalités.

« L’Islande n’avait pas le choix »

Finalement, le cas de l’Islande n’est pas un pied de nez au capitalisme, mais relève plutôt de la logique de base du capitalisme dans lequel les investisseurs qui ont pris des risques perdent parfois, tandis que les clients à qui l’on avait promis des garanties seront remboursés.

Pendant ce temps, l’Europe, elle, fait l’inverse. La BCE empêche, par exemple, que l’on inflige des pertes aux créanciers de la Banque irlandaise en faillite, Anglo, préférant prêter 1.000 milliards d’euros à trois ans aux banques pour les aider à se refinancer. En Grèce, le dernier plan de sauvetage prévoit 30 milliards d’euros d’aide en contrepartie des pertes subies « volontairement » sur la dette souveraine grecque. Bref, on fait tout pour éviter que les banques ne soient trop en difficultés.

L’Islande serait-elle un modèle à suivre pour l’Europe ? Le ministre des finances islandais, Steingrimur J. Sigfusson, interrogé en 2011 par Bloomberg, se gardait de donner des leçons: « Ce qui s’est passé en Islande, c’est une situation d’urgence qui ne pouvait être évitée. Ce que nous avons fait en 2008 n’était pas de notre libre choix. C’était ça où l’effondrement complet de l’économie islandaise ».

Faut-il que le pire arrive pour que les règles du capitalisme soient appliquées ? C’est semble-t-il la leçon que l’Islande nous livre aujourd’hui.

myeurop.info

lundi, 19 mars 2012

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

L'arrogance des Etats-Unis met à l'index l'Inde pour ses achats pétroliers à l'Iran. Ils envisagent des sanctions contre l'Inde à partir de l'été. Il serait temps qu'une politique commune de rétorsion économique se prenne au BRICS contre les USA.

L'Inde menacée de sanctions pour le refus de réduire les achats de pétrole à l'Iran

  Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Photo: EPA
 
     
Les États-Unis pourraient imposer des sanctions contre l'Inde, si elle ne restreint pas les importations du pétrole iranien, rapporte Bloomberg.

La loi, qui est entrée en vigueur aux États-Unis, pénalise tout pays pour le règlement du pétrole iranien par le biais de la Banque centrale d'Iran, si ce pays ne réduit pas significativement le volume des achats de pétrole à Téhéran dans la première moitié de cette année. Et si l'Inde ne le fait pas, le président des États-Unis sera obligé d'introduire des sanctions contre ce pays à partir du 28 juin, a indiqué l'agence en citant des responsables américains.

L'Inde achète à l'Iran, en moyenne 328.000 barils de pétrole par jour. Le pays est le troisième plus grand importateur de pétrole iranien, après la Chine et le Japon.

La Syrie comme cimetière de leurs illusions ?

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Le "Bloc Américaniste Occidentaliste" (BAO) s'est piégé dans la crise syrienne dont il fut l'instigateur. Piégé par lui-même, par les effets incohérents d'un système à la dérive incontrôlable. L'Iran et la Russie jouent la carte de l'habileté en Syrie.

La Syrie comme cimetière de leurs illusions ?

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Il est possible que la crise syrienne évolue vers une véritable guerre, qu’on qualifie d’une façon incantatoire de “civile”, mais qui serait déjà internationalisée, et où la coalition du bloc BAO et de ses alliés arabes (les démocrates saoudiens et qataris), si elle se trouvait impliqués, aurait à faire face à forte partie… C’est pour cette raison qu’il ne faut pas (plus) écarter certaines révisions déchirantes. (Comme on le voit par ailleurs, ce même 19 mars 2012, les présidentielles françaises ont leur rôle à jouer.)

D’autres raisons vont dans le même sens des révisions déchirantes, selon d’autres évolutions sur le terrain, sans nécessairement le transit insaisissable de la “guerre civile“. Ces dernières semaines, la situation, sur le même terrain, a évolué en faveur du régime Assad. DEBKAFiles, le 17 mars 2012, donnent des détails sur cette évolution. (Comme on l’a déjà vu, le site DEBKAFiles, par ailleurs férocement extrémiste lorsqu’il s’agit de l’Iran, se fait notablement plus modéré lorsqu’il s’agit de la Syrie, et assez prompt à publier de ces nouvelles peu favorables aux rebelles que soutient le bloc BAO, nouvelles qui sont en général assez peu proclamées. Les Israéliens ne goûtent pas vraiment, pas plus qu’ils ne l’ont goûtée en Libye, la perspective d’un “régime change” en Syrie, qui pourrait conduire à un chaos d’où des islamistes fort suspects auraient de grandes chances d’émerger en bonne position.) DEBKAFiles, utilisant toutes ses sources, est prompt à faire des deux attentats de Damas du 16 mars (27 morts) une tentative téléguidée par le Qatar et l’Arabie pour tenter de relancer une révolte qui a subi de très sérieux revers bien qu’elle exprimerait, selon la presse-Système unanime dans le bloc BAO, un mouvement irrésistible de libération spontanée, etc.

Par ailleurs, dans la même analyse, DEBKAFiles donne des informations précises d’un très grand intérêt, à la fois sur l’intervention et la présence des Iraniens et des Russes en Syrie. Cela ne peut faire de mal à l’argumentaire général israélien, qui est de dire dans ce cas qu’en entretenant la révolte contre Assad on donne l’occasion aux Iraniens et aux Russes de s’implanter militairement, non seulement dans le pays mais dans la région elle-même. Ainsi l’intervention iranienne, décrite comme massive, est-elle présentée comme une “répétition” d’autres possibles opérations du même genre, – tout cela organisant un boulevard pour les capacités d’expansion de la puissance iranienne. (Au reste, d’autres exemples de cette sorte de “répétition” sont cités, vers Gaza et au Yemen.) Est-ce bien habile, demandent implicitement les Israéliens à leurs alliés du bloc BAO ? (Observons, amère cerise sur le gâteau, sur laquelle nous revenons par ailleurs, la mention de la coopération active des Irakiens avec les Iraniens, malgré des demandes US dans le sens inverse…)

«2. The airlift carrying aid to Assad last month, the biggest Iran had ever organized, was critical in helping him win out over the revolt. As OC US Central Command Gen. James Mattis explained March 3 to the Senate Armed Services Committee: They (Iranians) are working earnestly to keep Assad in power. They have flown in experts. They are flying in weapons. It is a full-throated effort by Iran to keep Assad there and oppressing his own people.”

»DEBKAfile’s military sources add: This effort was made possible by Baghdad’s permission to fly over Iraq directly to Syria. According to our Washington sources, US President Barack Obama tried interceding with Iraqi Prime Minister Nouri al-Maliki to block the Iranian transport flights to Syria only to be turned down.

»The massive air transport of equipment on behalf of Bashar Assad served also as a practice maneuver for Iran to staged airlifts of hardware to Middle East arenas of interest in other potential conflicts, such as hostilities between Syria and Lebanon and Israel.

»This week, therefore, the Iranians took active part in two Middle East conflicts in Syria and the Gaza Strip, where Israelis were partly consoled by the performance of their homemade Iron Dome interceptor in blowing up a large number of Iran-supplied Grad missiles before they landed on their cities. Iran’s heavy involvement in a third area Yemen attracted less attention. Tehran is keeping up a supply of arms and cash to northern and southern Yemeni tribes fighting the government with a view to gaining a foothold in Yemen ports and access to the Red Sea and Bab al-Mandeb Sraits, the meeting point between the Gulf of Aden, the Red Sea and the Indian Ocean.

»3. Tuesday, March 13, Deputy Russian Defense Minister Alexei Antonov vigorously denied accusations that Russian Special Forces were stationed in Syria. He would only admit that “Syria has technical experts of the Russian military,” going on to explain: “For example, where we export tanks… we have to send technical experts to train our foreign counterparts to use the equipment.”

»Intelligence sources confirm that the Russian official mentioned tanks, but not the 50 Pantsyr-S1 interceptor batteries, now the backbone of Syrian air and missile defenses, which Moscow sold Syria or that Russian military crews have since mid-January taken over their operation from Syrian personnel. This is what Gen. Martin Dempsey, Chairman of the US Joint Chiefs of Staff, meant when he pointed out that “Syria's air defenses were five times more sophisticated as those in Libya, making airstrikes riskier and more complicated”…»

… Bref, si l’on peut dire, cette affaire syrienne pourrait tourner en une étonnante composition. Si l’on oublie l’épuisant détail du scénario qui se déroule depuis des mois du côté américaniste-occidentaliste, des rencontres, des réunions, des déclarations solennelles et des menaces à peine voilées, et autour de cela, gravitant comme des satellites inévitables et hostiles, les soupçons, les hypothèses de machiavélisme, les dénonciations d’hégémonie contre ce rassemblement américaniste-occidentaliste qui joue un peu trop sur l’air de la vertu et se croit investi du droit international à lui seul, et être “la communauté internationale” à lui seul, – si l’on écarte tout cela, que reste-t-il à retenir ? Depuis des mois, le bloc BAO, auréolé de toute sa gloire libyenne, fait effectivement bloc pour menacer le monde entier d’une intervention en Syrie, sans faire rien de décisif. Bien entendu, il ne se prive pas d’actions illégales, comme celle de faire intervenir, à peine secrètement, ses sempiternelles “forces spéciales” en soutien des rebelles, mais là non plus rien de décisif.

Contre ces prétentions non suivies d’effets décisifs, les pays les plus concernés ont agi beaucoup plus sérieusement. Ils ont établi des systèmes, organisé une défense, renforcé le régime que l’on juge impérativement, à l’Ouest, comme promis à disparaître (“ce n’est pas une question de ‘si’, mais une question de ‘quand’”). Ainsi apparaît-il aujourd’hui, si l’évolution de la situation se poursuit dans le sens actuel, que l’Iran et la Russie sont en train d’établir en Syrie et alentour, des têtes de pont stratégiques d’importance, plus fondées sur le déploiement de forces diverses et sur des coopérations et des intégrations actives, que sur les discours et des intentions furieuses guère suivies d’effets ; tout cela va les faire prendre, si ce n’est le cas déjà, infiniment plus au sérieux que les acteurs américanistes-occidentalistes de la pièce. A côté de cette situation novatrice et paradoxalement (puisque fondée sur la défensive) offensive, ces deux pays parviennent habilement à passer, l’un (l’Iran) pour une victime en devenir offerte à la vindicte d’une attaque qualifiée à l’avance, et justement, d’illégale et de dévastatrice, et qui n’aura peut-être pas lieu ; l’autre (la Russie), pour une puissance amie de la paix et qui cherche à susciter un arrangement général ; et le plus fort est bien dans ce que ces deux pays, tout en verrouillant leur avantages stratégiques, n’usurpent rien en passant également pour ce qu’on en dit à l'instant.

Le problème du bloc BAO, c’est que, lorsqu’on menace et qu’on veut jouer au gendarme il faut agir et imposer son ordre ; sans cela, on perd son crédit et on donne au reste toute latitude pour agir, y compris une certaine légitimité pour le faire. Mais le bloc BAO est évidemment prisonnier, a la fois du Système qui le soumet, et du discours que cette soumission suscite chez lui pour n’avoir pas trop l’air soumis ; en général, il est admis dans ces milieux que les discours suffiront à réorienter les régions et les pays visés selon les orientations proposées, qui sont confondues avec les évidences de l’ordre international. Rien de tout cela ne fonctionne plus et il se passe que le roi est nu, que les pays du bloc BAO n’ont plus les moyens d’agir d’une façon efficace, que leurs opinions publiques ne les y poussent aucunement et même au contraire, que leurs situations intérieures sont de plus en plus instables et difficiles, et ainsi de suite... (Ce qui aurait pu et a pu paraître à certains comme une “diversion” propre à renforcer les directions politiques face aux difficultés intérieures de ces pays s’inverserait alors complètement pour tendre à devenir une charge impopulaire d’engagements stériles et coûteux, pesant de plus en plus sur ces situations intérieures.)

Le dernier facteur à considérer, comme un autre élément peu habile et peut-être potentiellement catastrophique pour le bloc BAO, c’est l’alliance très activiste de l’Arabie et du Qatar. Ces deux pays se sont transformés en de redoutables interventionnistes, poussés autant par l’ambition colorée d’activisme religieux que par une fuite en avant pour contenir leurs propres désordres intérieurs (cela, pour l’Arabie, essentiellement). Si l’opération syrienne ne donne pas les résultats escomptés, eux-mêmes (surtout l’Arabie, avec le supplément du désordre à Bahreïn) pourraient se retrouver menacés de déstabilisation interne, dont les désordres sporadiques actuels en Arabie seraient un signe avant-coureur.

Là encore, dans ce tableau général, l’Iran et la Russie apparaissent bien plus sérieux et habiles, si l’on fait la comparaison. La différence tient effectivement à la substance même des politiques développées, son insubstance justement du côté américaniste-occidentaliste, en raison des diverses causes signalées plus haut et de l’emploi massif de communication sans but politique précis sinon les slogans humanitaristes dont l’éclat médiatique ne dissimule le vide que pour un temps limité. Dans ces conditions, et en raison des conditions exceptionnelles de l’affaire libyenne en 2011, il se pourrait bien que cette affaire, au contraire du “modèle” (“modèle libyen”) qu’on en a fait, s’avérât être une exception qui aurait alimenté et confirmé une règle en forme d'évolution catastrophique pour le bloc BAO dans toute la région, et qui aurait ainsi servi, du fait même de ce bloc BAO, de leurre, d’illusion et finalement de piège pour lui-même.

 

Les citadins des champs

 

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Les citadins des champs

par Georges FELTIN-TRACOL

En 1926, Louis Aragon publiait Le Paysan de Paris. Aujourd’hui, il l’intitulerait certainement Le Parisien de Province… En effet, à la lueur des dernières données de l’I.N.S.E.E. rendues publiques le 17 janvier 2012, on apprend que sept Français sur dix éprouvent un fort attachement à leur région natale, qu’ils y demeurent ou qu’ils y reviennent pour des raisons professionnelles ou au moment de leur retraite après des années d’expatriation en Île-de-France ou à l’étranger. Tout le contraire ici du mode de vie étatsunien ! En revanche, un constat inquiétant est resté inabordé, celui de la fragmentation géo-sociale du territoire.
 
Pendant des siècles, l’espace géographique s’organisait autour d’une dualité « classique » entre la ville (ou l’ensemble urbain) et la campagne (ou le monde rural). Toutefois, dès le milieu des années 1930, la majorité des Français vivait en ville. La « révolution agricole » ou « silencieuse » des années 1950 – 1960 favorisa l’exode rural, d’où un étalement des aires urbaines aux dépens des terres agricoles, des prés et des bois. On assiste cependant depuis deux décennies à une inversion notable du phénomène. Les campagnes presque vides se remplissent de nouveau avec la venue de citadins. Par cet exode urbain apparaît désormais une nouvelle structuration du territoire national avec des zones urbaines en pleine croissance, des campagnes reculées en déshérence et un « entre-deux » qualifié par les géographes d’espace péri-urbain ou de rurbain (contraction de rural et d’urbain).

 

Les métropoles, les agglomérations et les aires urbaines représentent d’indispensables atouts économiques mondiaux avec leurs quartiers d’affaires (La Défense dans l’Ouest parisien, La Plaine Saint-Denis à l’Est de la Capitale, Euralille dans le Nord, La Part-Dieu à Lyon). Mais cette fonction de compétition ne correspond plus ou très mal à des lieux d’habitation et de convivialité quotidienne. La priorité accordée aux bureaux pousse les ménages à déménager dans les périphéries. C’est ainsi que les catégories moyennes et populaires (employés, artisans, cadres inférieurs ou intermédiaires, petits fonctionnaires…) délaissent la ville-centre et/ou le centre-ville pour des pavillons résidentiels bâtis au moyen d’un endettement bancaire. Elles fuient aussi la cherté des loyers du centre-ville, la hausse de la fiscalité locale et une promiscuité souvent insupportable avec des groupes ethniques différents. Puisque tout le monde veut son habitat individuel, la ville s’étend par conséquent au détriment des campagnes proches…

 

Ces départs sont toutefois compensés par l’installation de ménages « bo-bo » (bourgeois-bohême) dont les revenus élevés permettent l’acquisition ou la location d’appartements ou de lofts de haut standing. De ce fait, le XVIIe arrondissement parisienne, le quartier de Belleville ou la Croix-Rousse à Lyon s’embourgeoisent et adoptent un caractère huppé, tendance et branché. Vivant non loin de rues à population exotique, les « Bo-Bo » réalisent leur rêve multiculturaliste tout en s’efforçant bien sûr d’inscrire leur progéniture à l’école, puis au collège privés plus réputés que les établissements publics du quartier classés en zone prioritaire…

 

L’implantation massive et continue de catégories populaires et moyennes en périphérie immédiate des villes ou dans des coins plus excentrés accentue un mitage préjudiciable de l’espace. Ce mitage efface progressivement la distinction ville – campagne. Il attise aussi la concurrence fonctionnelle des terrains : le lopin convoité demeurera-t-il un champ cultivé ou bien deviendra-t-il un terrain à bâtir, un futur emplacement routier, ferroviaire ou autoroutier, ou un lieu de production énergétique (implantation d’éoliennes, de panneaux solaires ou de biocarburants) ?

 

Les villages, y compris les plus perdus, voient pousser autour d’eux de nouveaux ensembles pavillonnaires horizontaux uniformes. Les nouveaux arrivants ne s’embarrassent pas d’exiger des édiles tout le confort urbain sans subir les inconvénients de l’existence rurale, d’où des plaintes répétées contre les cloches de l’église ou le cri matutinal du coq. À terme, si se poursuit l’« exode urbain », il est probable que l’ensemble métropolitain dont l’intercommunalité en est une préfiguration en fasse de simples communes – dortoirs.

 

Quant au rural profond encore dominant dans la Creuse, en Haute-Loire, en Ardèche, en Lozère, dans la Nièvre ou en Champagne-Ardenne, il dépérit doucement en raison d’un désintérêt et d’un mépris marqués des pouvoirs publics envers les populations locales. Après la fermeture de l’école, des services administratifs, du bureau de poste, du dispensaire médical, de la gare, de la desserte routière, du café, de l’épicerie, voilà maintenant que la Poste retire ses boîtes aux lettres jaunes et qu’Orange enlève les dernières cabines téléphoniques des places du marché. Quant au rectorat, il supprime volontiers une ou deux classes du primaire alors que la commune (ou le cadre intercommunal) a financé la réfection ou la construction de nouvelles salles de classe. Une véritable colonisation intérieure s’opère, car, dans le même temps, les projets déments d’enfouissement de déchets ménagers ou nucléaires dans ces territoires abandonnés se multiplient.

 

Les campagnes essentiellement peuplées de « petits Blancs » ne brûlent aucune bagnole et demeurent profondément légalistes. L’État peut s’en détourner ostensiblement et ignorer leur paupérisation flagrante. Oui, les campagnes françaises sont plus pauvres que les banlieues dont le taux élevé de chômage et la misère « officielle » statistique maquillent une autre réalité, celle d’une « narco-économie » souterraine, informelle, en pleine expansion. Quant aux immigrés, ils ne s’enrichissent pas parce qu’ils transfèrent leurs économies là-bas au pays.

 

L’éloignement du lieu de travail par rapport au domicile nécessite deux voitures minimum quand la nouvelle résidence n’est pas (ou mal) desservie par les transports collectifs. La flambée du prix du carburant signifie une hausse du budget transport supportée par des familles déjà en situation précaire. Et cela risque de s’aggraver avec la mise en place, tôt ou tard – soyons-en certains ! – d’une taxe carbone qui pénaliserait encore plus des familles incapables d’emprunter le Vélib’ ou le Vélove !

 

L’actuelle crise systémique atteint durement cette « troisième France » qui, hors des villes et des banlieues de non-droit, pourrait devenir le cadre de véritables jacqueries post-modernes. Aux XIXe et XXe siècles, les villes regroupaient les « classes dangereuses ». Aujourd’hui et encore plus demain, l’étincelle de la révolte ne surgira pas des banlieues de l’immigration contrôlées par les caïds de la drogue ni des centres urbains « bo-bo-isés », mais de ces nouvelles campagnes urbanisées…

 

Georges Feltin-Tracol

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samedi, 17 mars 2012

Norwegen: Streit um Einwanderungs-Studie

Norwegen: Streit um Einwanderungs-Studie

Ex: http://www.jungefreiheit.com/

OSLO. Eine Studie zum steigenden Einwanderanteil in Oslo sorgt in Norwegen zunehmend für Streit. Bürgermeister Fabian Stang von der konservativen Høgre-Partei sagte, es sei unsicher, ob 2040 tatsächlich 40 bis 56 Prozent der Bevölkerung in der Hauptstadt ausländische Wurzeln hätten.

Er gab jedoch zu, daß Norwegen in den kommenden Jahren einige Probleme bei der Integration von Zuwanderern bekommen werde, berichtet die norwegische Nachrichtenagentur NTB. Es sei aber Aufgabe des Parlaments zu entscheiden, wie viele Ausländer nach Norwegen kommen dürften. Es müsse geprüft werden, wie lange man in der Statistik als Einwanderer gelte.

Henry Day Sandbakken, Staatssekretär im Ministerium für Kommunalverwaltung und regionale Entwicklung, betonte dagegen, die Zuwanderung nach Norwegen sei Teil eines globalen Trends, der dem Land in den vergangenen Jahren viele Vorteile gebracht hätte. Die Kommunen seien Dank der bisher gesammelten Erfahrungen in der Lage, die Herausforderungen zu meistern.

Fortschrittspartei fordert schärfere Einwanderungsregel

Die Vorsitzende der rechten Fortschrittspartei, Siv Jensen, forderte angesichts der Zahlen dagegen eine schnelle Verschärfung der Einwanderungsgesetze. „Je mehr Einwanderer es gibt, desto schwieriger wird es sein, eine erfolgreiche Integration sicherzustellen.“ Zudem sollten Ausländer, die einen in Norwegen lebenden Einwanderer heiraten, nicht automatisch ein Aufenthaltsrecht bekommen.

Die Studie des norwegischen Statistikamtes hatte ergeben, daß bis 2040 der Einwandereranteil auf mindestens 40 Prozent ansteigt. Je nachdem, wie viele Ausländer künftig ins Land kämen, könnte der Anteil bis auf 56 Prozent ansteigen. Die Untersuchung war die erste, die sich mit den regionalen Folgen der Einwanderung in Norwegen beschäftigt. (ho)

L'imprévu dans l'histoire

« L'imprévu dans l'histoire : Treize meurtres exemplaires », de Dominique Venner

par Jean-Yves Le Gallou

Ex: http://www.polemia.com/

ImprévuVenner.gifDans son nouveau livre, Dominique Venner revient sur l’un de ses thèmes forts : l’imprévu dans l’histoire, à l’occasion de la réédition enrichie d’un ouvrage paru en 1988 et consacré au meurtre politique. Ce livre offre des récits vifs et ouvrent de vastes horizons à la réflexion.

Car le meurtre politique est singulier. Celui qui va donner la mort sait qu’il va mourir parce qu’il ne peut réussir son « coup » qu’en sacrifiant ses chances de fuite. Et sa cible, celui qu’il veut tuer, sait aussi qu’il risque de mourir, parce que l’engagement politique expose inévitablement (et même dans les périodes calmes) à risquer sa réputation, sa liberté et sa vie. Pierre Stolypine, premier ministre du tsar, assassiné à Kiev en 1911, disait adieu aux siens à chaque fois qu’il sortait de sa maison et leur disait : « Je veux être enterré là où je serai tué ». Ce qui fut fait. Et en quittant son pays pour un voyage officiel en France qui lui fut fatal, en 1934, le roi Alexandre de Yougoslavie dit à la reine Marie : « Allons, ma chère, braver les attentats ne fait-il pas partie du métier de roi ? »

Le meurtre politique a inspiré les auteurs antiques, comme les philosophes de la fin du Moyen Age et de la Renaissance qui ont développé la théorie du tyrannicide. Cette théorie était encore invoquée en 1962 par le polytechnicien Bastien-Thiry, fusillé après avoir tenté d’assassiner le général De Gaulle.

Des auteurs contemporains se sont intéressés à l’étude du meurtre politique. Dans une vaste fresque parue en 1990 Franklin L. Ford s’interroge sur l’efficacité du procédé à travers 2500 ans d’histoire. Pour son préfacier, Pierre Chaunu : « L’histoire enseigne que le meurtre politique a presque toujours manqué son but. » Cette conclusion rejoint le principe d’hétérotélie analysé par Jules Monnerot dans Les lois du tragique et L’Intelligence du politique : le résultat d’une action politique est souvent en décalage par rapport à l’intention initiale.

Pas toujours, toutefois ! Dans Le Couteau et le Poison, paru en 1997, Georges Minois étudie l’assassinat politique en Europe de 1400 à 1800. Certes, tout ne marche pas toujours selon les souhaits des assassins. Le meurtre d’Henri III par le moine Jacques Clément débouche sur l’avènement d’un prince protestant et relaps, ce qui ne correspondait pas aux vœux de la Sainte Ligue. Ravaillac réussit mieux son coup ! Les effets de l’assassinat d’Henri IV sont plus importants : c‘est le report – au moins pour quelques années – de la guerre contre les Habsbourg. A contrario quelques années plus tôt l’assassinat d’Henri de Guise, en 1588, a peut-être sauvé la monarchie capétienne : « acte de justice du roi », le meurtre du Balafré rétablit l’ordre naturel de la monarchie.

Le propos de Dominique Venner est différent : il montre que treize meurtres du XXe siècle ont fait surgir l’inattendu dans l’histoire. Pas tous, d’ailleurs. L’assassinat de Kennedy – le premier sous l’œil des caméras – fut aussi spectaculaire qu’énigmatique mais il ne changea pas grand-chose au cours de l’histoire. Tel ne fut pas le cas de l’attentat contre l’archiduc François Ferdinand à Sarajevo : « Un coup de pistolet, neuf millions de morts ».

Il n’y avait pourtant pas de fatalité à cette montée aux extrêmes : plusieurs crises – dans les Balkans ou au Maroc – furent dénouées sans conflagration dans les années précédentes. Mais Dominique Venner pointe deux meurtres antérieurs qui ont joué – hasard malheureux – leur rôle dans le déclenchement de la Grande Guerre, deux meurtres qui ont éliminé deux hommes de haute vue qui auraient – peut-être – pu s’opposer aux bellicistes : Stolypine en Russie (assassiné en 1911) et Caillaux en France (sorti du jeu politique à la suite de l’assassinat, par Madame Caillaux, de Gaston Calmettes, le directeur du Figaro en mars 1914).

Certes, la Guerre de 1914 fut sans doute le produit de la fatale nécessité des alliances ; mais le hasard a joué son rôle dans la manière dont les hommes en place ont fait face à des circonstances exceptionnelles. En tout cas, le 28 juin 1914 nul ne pouvait imaginer l’ampleur incroyable des changements qui allaient suivre.

Voilà qui doit conduire – et c’est le message de Dominique Venner – à bien mesurer les limites du déterminisme historique. Les situations qui paraissent les mieux établies peuvent être bouleversées par un caprice du destin. Pour le pire, souvent, pour le meilleur parfois !

Jean-Yves Le Gallou
7/03/2012

Voir aussi les articles sur Polémia :

« Le choc de l'histoire » de Dominique Venner : un livre lumineux
Entretien avec Dominique Venner, « Le Choc de l'Histoire. Religion, mémoire,identité » Propos recueillis par Laure d'Estrée
« Le Siècle de 1914 / Utopies, guerres et révolutions en Europe au XXe siècle » de Dominique Venner

A lire :

Dominique Venner, L’imprévu dans l’histoire, Treize meurtres exemplaires, Pierre Guillaume de Roux, 2012
Crimes d’État et scandales politiques, la Nouvelle Revue d'Histoire, n°59, mars - avril 2012.
Franklin L Ford, Le Meurtre politique, du tyrannicide au terrorisme, PUF, 1990
Georges Minois, Le couteau et le poison, L’assassinat politique en Europe (1400-1800), Fayard, 1997

vendredi, 16 mars 2012

Krantenkoppen - Maart 2012 (2)

Krantenkoppen

Maart 2012 (2)

BOEREN MET SMAAK.
"Vroeger kwamen de meeste appels recht uit de boomgaard of de tuin, vandaag komen ze uit de supermarkt, en supermarkten willen vooral fruit dat in uniforme pakjes past, lang bewaart, altijd voorradig is en schoon oogt. (...) En het jammere is dat de hele fruitteelt en tuinbouw die marktlogica volgen. Smaak moet het onderspit delven voor andere eigenschappen. Maar het is geen verloren zaak. (...) De West-Vlaamse bio-ingenieur Bernard Lahousse is er volop mee bezig (...): 'Wij willen tuinders steunen die oude rassen in stand houden door zelf hun zaaigoed te selecteren, maar vooral ook tonen hoe je nieuwe rassen kunt ontwikkelen in functie van smaak en textuur. Met eenvoudige middelen, desnoods op je balkon.' (...)
Voor professionele tuinders maakt de wetgeving het heel moeilijk. Greet Lambrecht van het tuinbouwbedrijf De Akelei in Schriek bij Mechelen weet er alles van. Ze heeft zelf een preiras ontwikkeld dat prima gedijt in de streek, zonder bestrijdingsmiddelen. Om die met andere boeren te kunnen delen, moet ze het laten erkennen en dan nog mag ze het maar op heel beperkte schaal verspreiden. Meer als een stukje erfgoed dan als landbouwmateriaal. (...) 'Ik doorloop netjes de hele procedure, om eens te zien waar ze me brengt. Ze heeft me al heel veel administratie gekost en een dikke 200 euro. Op die manier ontmoedigt zo'n wet de boeren natuurlijk om de biodiversiteit in stand te houden. Enkele decennia geleden had elke streek nog zijn eigen groenterassen. Hier rond Mechelen had je de typische vroege bloemkool, de blauwgroene winterprei, de aromatische hollepijpselder, de Mechelse krombek-erwt, ... Jaar na jaar versterkten boeren die rassen door zelf zaad uit de beste planten te selecteren. (...) Die rassen gaan verloren.' De beperkende wetgeving (...) bevordert in de praktijk vooral de grote zaadbedrijven. 
Haast alle professionele boeren kopen vandaag hun zaaigoed bij zo'n gespecialiseerd zaadbedrijf, dat is eenvoudiger. Die bedrijven ontwikkelen rassen die grote oogsten geven en toegespitst zijn op de markt, maar waar de boeren niet zelf mee kunnen voortkweken; ze moeten elk jaar opnieuw bestellen. Het betekent dat zo'n zaadbedrijf grotendeels bepaalt wat er op ons bord kan komen en hoe dat geteeld wordt. Vaak zijn het takken van grote multinationals zoals Monsanto, die niet alleen zaden verkopen, maar ook bestrijdingsmiddelen of machines die erbij passen. (...) 
‘Nadat Monsanto 4 jaar geleden het Nederlandse zadenbedrijf De Ruiter had overgenomen, heeft het zijn afdeling biologische zaden gewoon afgeschaft', vertelt professor Edith Lammerts van Bueren (...) van de Universiteit Wageningen. ‘Het is niet overdreven om je daar zorgen over te maken. Je ziet dat grote bedrijven de groentediversiteit gaan bepalen. Een ras in stand houden en vermarkten, kost geld, dus zetten ze alleen in op de rassen waar ze de meeste winst mee maken. Dat is slecht nieuws voor de biolandbouw, maar ook voor kleinere groentesoorten zoals veldsla of pastinaak.' (...)
Zo'n aanpak zet een hele eetcultuur op de helling, maar ook onze elementaire voedselvoorziening. De zaadbedrijven ontwikkelen niet alleen minder rassen, maar ook kwetsbaardere rassen, met minder genetische diversiteit. In de gewenste omstandigheden scoren ze vaak spectaculair, maar als één kool toch ten prooi valt aan een ziekte, dan doen de andere kolen dat ook allemaal. Gaandeweg gaat je voedselsysteem op een smallere basis steunen, met minder gewassendiversiteit, maar ook minder teeltwijzen en meer afhankelijkheid van enkele grote bedrijven. Lammerts van Bueren hoopt dat boeren weer meer zullen bijdragen aan de broodnodige diversiteit door zelf groenterassen te ontwikkelen, in nieuwe samenwerkingsverbanden tussen bedrijven en onderzoekers.
In België is net zo'n project afgerond, met steun van de Vlaamse en Europese overheid. De Akelei was een van de demonstratiebedrijven die andere boeren konden inspireren, maar het paradepaardje van de actie was het ‘Brussels grondwitloof' uit de regio Brussel-Mechelen-Leuven. Dat mag sinds enkele jaren een Europees streeklabel dragen, op voorwaarde dat de witloofkwekers zelf het zaad telen. Het illustreert een gespleten beleid dat je ook in de stedenbouw aantreft: de vrije markt mag de toekomst vorm geven en in de marge beschermen we met veel rompslomp enkele waardevolle verworvenheden als monument. (...) ‘Voor al het andere witloof in de wereld zijn nog maar een vijftal selecteurs verantwoordelijk, gespreid over evenveel zaadbedrijven. Zij maken elk jaar het zaad waarmee het witloof geteeld wordt. Het is op wereldschaal een kleine groente, er wordt dus niet veel in geïnvesteerd.' (...)
Dit weekend vindt in Amsterdam Reclaim the Seeds plaats, een grote zaaigoedruilbeurs met boeren, kleine veredelaars, hobbytuinders, organisaties en verenigingen uit Nederland en de buurlanden. De deelnemers willen kennis en materiaal uitwisselen, maar ook de aandacht vestigen op de biodiversiteit op ons bord en op onze groeiende afhankelijkheid van grote agrobedrijven. De eenvoudige basisgedachte dat groente- en fruitrassen niemands eigendom horen te zijn, is allang geen realiteit meer. Er hangt een leuk rebels sfeertje rond Reclaim the Seeds, met een logo van een vuist die uit een plantje groeit. Hier komt een beweging op gang."
 
 
270.000 BOEREN KLAGEN MONSANTO AAN.
"270.000 biologische boeren hebben Monsanto, het grootste zadenbedrijf ter wereld, aangeklaagd wegens intimidatie en marktmanipulatie. (...) De boeren beweren dat Monsanto bedrijven aanklaagt voor wat Monsanto de illegale teelt van genetisch gemodificeerde gewassen uit hun gamma noemt. Volgens OSGTA weet Monsanto heel goed dat er geen sprake is van illegale teelt, maar wel van vervuiling door zad...en die zijn overgewaaid van andere percelen: 'Via deze intimidatie dwingt Monsanto de boeren om haar ggo-maïs, -soja of -koolzaadvariëteiten te kopen. (...) Monsanto zet telers die eerder wel zaaigoed van de firma kochten, maar daarmee ophielden, vaak op een zwarte lijst. Het bedrijf bedenkt daarna dat ze illegaal zaaigoed gebruiken.' 
Er loopt reeds een onderzoek naar Monsanto's 'blacklisting'. De officiële waakhond voor beursgenoteerde bedrijven startte in 2011 ook al een onderzoek naar Monsanto's klantstimuleringsprogramma's. Monsanto won vorig jaar de prijs voor het slechtste bedrijf van het jaar. Dat dankt de biotechreus aan rechtszaken rond het ontbladermiddel Agent Orange, dioxine-vergiftigingen, omkoping in Indonesië en gifschandalen zoals het grootschalig dumpen van giftig afval in Groot-Brittannië. Monsanto levert 90% van de genetisch gemanipuleerde zaden van maïs, graan en soja op de Amerikaanse markt."
 
 
TEL-AVIV WORDT RUINE NA IRAANSE AANVAL.
"Een aanval op Iran betekent het begin van een regionale oorlog. Nu weten we hoe oorlogen beginnen, wat we niet weten is wanneer ze beëindigd worden. Indien Israël Iran aanvalt, is de kans groot dat de Islamitische Republiek terugslaat door Tel Aviv te treffen, de rijkste en modernste stad van Israël. Dat zou een vernietigend effect hebben en ons dagelijks leven hier totaal verstoren. Israël zou geruime tijd in grote problemen zitten. (...) Trouwens, niets kan het Iraanse nucleaire programma stoppen. Het kan enkel worden vertraagd."
http://www.express.be/joker/nl/brainflame/tel-aviv-wordt-een-ruine-na-iraanse-aanval-iran-beschikt-over-tientallen-nucleaire-sites/163799.htm
 
 
HAMAS AND QATAR TO SIGN 250 MILLION USD DEAL TO REBUILD GAZA.
"Gaza's Hamas leaders will sign a deal with the Qatari government to get more than 250 million U.S. dollars for reconstruction projects in the Gaza Strip. (...) Under the agreement, 5,000 houses will be built and 55,000 would be repaired. (...) These houses were damaged during Israel's major military offensive more than 3 years ago.
The agreement also covers some infrastructure projects (...). Earlier this month, Qatar brokered a pact between Hamas supreme leader Khaled Mashaal and Palestinian President Mahmoud Abbas."
http://news.xinhuanet.com/english/world/2012-02/26/c_131432557.htm
 
 
L'INDE ET L'IRAN ADOPTENT LA ROUPI POUR LEURS ECHANGES.
"L'adoption de la roupie comme monnaie d'échange par l'Iran et l'Inde est une bonne initiative qui permet d'éliminer les intermédiaires (...). Une partie des échanges entre les 2 pays est effectuée par l'entremise d'un pays tiers mais l'adoption de la roupi débloquera la situation. (...) Le taux de croissance de l'Inde est d'ordre de 8% et [l'Inde veut] d'avoir une plus large présence sur les marchés iraniens."
http://french.irib.ir/info/asie/item/175196-linde-et-liran-adoptent-la-roupi-pour-leurs-echanges
 
 
UN MILLIARD DE DOLLARS INVESTIS CHAQUE ANNEE DANS DES OPERATIONS D'INGERENCE USAID/CIA.
"Les États-Unis investissent un milliard de dollars annuellement dans des opérations 'humanitaires' en Amérique Latine et les Caraïbes par le biais de leur Agence pour le Développement International (USAID). (...) Cinq millions seront dédiés à la 'démocratie' au Venezuela cette année. Pourtant, l’USAID s'est retirée du pays par peur de la Loi de Défense de la Souveraineté Politique et l'Autodétermination Nationale. Cette loi interdit depuis fin 2010 le financement externe des partis politiques. Un secteur très important pour cette agence est celui qui est en relation avec la démocratie et pour cela des programmes sont mis au point pour fortifier les institutions dans la plupart des pays de la région. (...)
Le président bolivien Evo Morales a dénoncé que les États-Unis, par le biais de l'USAID, espionne Bolivie et d'autres pays latino-américains: 'Je suis convaincu que certaines ONG, plus particulièrement celle financées par l'USAID, sont la cinquième instance de l'espionnage, non seulement en Bolivie, mais dans toute l'Amérique latine'. (...) 
L'omniprésence dans le [Mexique est] confirmée par des organismes de sécurité, du FBI, de la DEA et … de la CIA. (...) L'USAID a également joué un rôle-clé dans le renversement du Président Jean-Bertrand Aristide, en 2004. Ces dernières années, on a signalé pour Amérique latine la présence de l'USAID en Bolivie, au Brésil, en Colombie, à Cuba, en Equateur, El Salvador, au Guatemala, a Haïti, au Honduras, au Mexique, au Nicaragua, à Panama, au Pérou, en République Dominicaine et au Venezuela. En de multiples occasions, il a été prouvé que l'USAID, en plus de fournir une couverture à des officiels de la CIA, a recruté, préparé et financé des éléments qui ultérieurement se sont présentés comme des agents au service des intérêts nord-américains."
 
 
POUTINE, DE GAULLE RUSSE, DEMAIN UN NOUVEAU PIERRE LE GRAND?
"Les Etats-Unis pensaient tenir avec Medvedev un nouveau Gorbatchev qui, au nom du développement économique, de la liberté d’expression et d’un droit de l’hommisme à la russe, allait, avec les louanges et les encouragements de l’Occident, terminer en fait le travail de destruction massive de la puissance de l’URSS commencé avec Gorbatchev (...)! L’erreur grotesque de Medvedev, avec l’absence du droit de véto de la Russie à l’ONU, lors de l’intervention militaire éhontée de l’OTAN en Libye derrière (...) était porteuse d’espoir pour l’Occident et les Etats-Unis. (...) Poutine, en reprenant le contrôle de la politique étrangère, a contrecarré d’une façon prémonitoire les plans de l’Oncle Sam en Syrie et au Moyen orient! En venant d’être réélu (...) Président de la Fédération de Russie, il pourrait bien contrecarrer encore pendant 12 ans d’une façon irréversible les plans d’encerclement de la Russie et de la Chine par l’Amérique!
Poutine, c’est l’homme que les Américains n’attendaient pas et qui a non seulement redressé la Russie, mais l’a sauvée du dépeçage en 3 tronçons. Le rêve géopolitique des Etats-Unis, si la Russie avait perdu la guerre en Tchétchénie, était de faire de la Russie, une nouvelle Grande Pologne, en la ramenant à Stavropol, point de départ de la colonisation russe au XIXème siècle.
Poutine s’est aussi opposé avec succès à l’exploitation des ressources naturelles de la Russie par les groupes étrangers, ce qui était le but affiché par Mikhaïl Khodorkovski, patron de Youkos, interpellé le 25 octobre 2003 sur un aéroport de Sibérie, alors qu’il venait de participer quelques jours plus tôt à un forum d’affaires à Moscou en compagnie de Lee Raymond, l’un des directeurs d’Exxon; cette société était sur le point de participer jusqu’à hauteur de 25 milliards de dollars dans la fusion Youkos-Sibneft. Les capitaux américains d’Exxon Mobil et de Chevron-Texaco souhaitaient en fait s’infiltrer avec une participation de 40% dans le sanctuaire sibérien des hydrocarbures russes. En perdant ses ressources financières, la Russie perdait définitivement toute chance de rebondir.
Poutine a réussi pour l’instant à contenir, mais sans le briser complètement l’encerclement par l’Otan et l’oléoduc Bakou-Tbilissi-Ceyhan (BTC). Avec le projet du bouclier anti-missiles qui revient à l’ordre du jour, les Etats-Unis auront un adversaire redoutable qui continuera à leur dire leur quatre Vérités. 
Vladimir Poutine, c’est aussi l’homme du KGB qui a vu venir et réussi à combattre à ce jour avec succès toutes les révolutions orange en Ukraine, Géorgie, Kirghizstan, Ouzbékistan, les manifestations actuelles et à venir anti-Poutine en Russie n’étant que leur chant du cygne, un dernier soubresaut, une dernière tentative de l’Occident pour se défaire de Vladimir Poutine!
Comme de Gaulle, Poutine a misé sur les valeurs traditionnelles, le sens de la Grandeur, le patriotisme et l’Eglise orthodoxe pour éviter la «chienlit». L’autoritarisme plus marqué de Poutine par rapport à de Gaulle convient parfaitement et est même absolument nécessaire, en Russie, tout comme en Chine d’ailleurs, pour éviter l’éclatement tant redouté du pays. Quant à la corruption, de la même façon qu’ elle a continué de plus belle en Ukraine avec l’arrivée au pouvoir de l’égérie de la révolution orange Ioulia Timochenko, un pouvoir politique fort, ce que savent tous les Russes, est un bien meilleur antidote que les oligarchies politiques de type occidental, car ces dernières ne feraient que s’acoquiner avec les oligarques russes; il en résulterait une décadence qui serait encore plus rapide que dans l’actuelle Europe de l’Ouest.
Le Patriarche orthodoxe Kirill a vu juste en soutenant Poutine qui pourrait être considéré en 2024 comme un nouveau Pierre le Grand du XXIème siècle, à 4 conditions:
- développer d’une façon très intense le réarmement et la modernisation en cours de l’Armée russe,
- réussir le développement et la diversification, déjà commencée par Medvedev, de l’économie russe,
- continuer à combattre la dénatalité russe, ce dont Poutine est, comme de Gaulle en 1945, parfaitement conscient,
- ramener dans le giron russe, ce qui est inexorable historiquement à long terme, la Biélorussie et l’Ukraine, afin de constituer un contrepoids humain suffisant de 200 millions d’habitants face à la Chine, l’Asie Centrale et le Caucase. 
L’affrontement en cours de Poutine avec les Etats-Unis peut être comparé au premier combat du jeune Tsar Pierre Le Grand avec Charles XII qui mit fin par la bataille de Poltava le 8 juillet 1709 à la suprématie suédoise dans la Baltique. Pierre Le Grand, tout en renforçant et modernisant l’armée russe ne commit pas l’erreur ensuite d’oublier l’économie, l’innovation et les Arts, ce qu’il montra en 1717 lors d’un déplacement en Europe. Pierre Le Grand ancra la Russie avec une fenêtre sur l’Europe en fondant Saint-Pétersbourg. Le natif Poutine de cette même ville, qui parle allemand, ancien espion du KGB à Dresde avant la chute du Mur de Berlin, a une vision continentale européenne et souhaite se rapprocher pour des raisons géopolitiques de la France et de l’Allemagne. (...) Pour Poutine, l’avenir est donc européen!
Mais la Russie regarde aussi à l’Est et vers le Sud d’où peuvent venir de nombreux dangers, la fin de l’intervention occidentale en Afghanistan n’étant pas l’un des moindres. Au delà de son effort démographique propre pour atteindre au minimum les 130 millions d’habitants (...), la Russie a besoin à terme de la Biélorussie et de l’Ukraine. Ces 2 pays (...) représenteraient un apport humain d’environ 60 millions d’habitants pour constituer une superpuissance suffisante face à La Chine et à l’Asie centrale. Si Poutine, sous sa Présidence, réussit ce tour de force, en commençant très vraisemblablement par la Biélorussie, il pourra être véritablement comparé à Pierre le Grand, sinon il n’aura pas démérité et pourra être comparé au minimum à de Gaulle, Churchill ,Bismarck, Richelieu et Clemenceau, ces grands Hommes d’Etat ayant eu une vision historique, un courage, une continuité qui font cruellement défaut à nos petits politiciens européens actuels, atlantistes, libre-échangistes, démocrates, démagogues et droit de l’hommistes, ce qui ne sera déjà pas si mal!"
 
 
RUSSISCH-ORTHODOXEN MEER EN MEER PRATIKEREND: SPIRITUEEL REVEIL SINDS VAL COMMUNISME. 
"De jongste 6 jaar is het percentage orthodoxe Russen dat pratikeert toegenomen van 57 naar 71%. (...) In 2 decennia tijd is het aantal parochies vermenigvuldigd met 4 en het aantal kloosters vermenigvuldigd met 45."
http://www.rorate.com/nieuws/nws.php?id=70382
 
 

La “guerre nouvelle” est déclarée, et elle est totale

Des Mongols à Sun Tzu, de Zbigniew à Brzezinski, la guerre totale fait rage contre la Russie. Pas encore de tirs de missiles stratégiques expédiés sur l'adversaire, mais la version G4G est encore plus redoutable pour l'Humanité.

La “guerre nouvelle” est déclarée, et elle est totale

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

14 mars 2012 – Dans notre texte Bloc-Notes du 12 mars 2012, nous mentionnons à plusieurs reprises le concept d’“agression douce”, selon une expression forgée pour la cause, et pour tenter de représenter le phénomène auquel nous faisions allusion. L’expression anglaise équivalente, mais plutôt adaptée que traduite, se retrouvait dans le texte de Pépé Escobar qui était cité (sur ATimes.com, le 9 mars 2012), dans lequel Escobar parlait de “illegal instruments of soft power”, – dans le paragraphe suivant :

«So Washington and its minions have been warned. Before last Sunday's election, Putin even advertised his road map. The essentials; no war on Syria; no war on Iran; no “humanitarian bombing” or fomenting “color révolutions” – all bundled into a new concept, “illegal instruments of soft power”. For Putin, a Washington-engineered New World Order is a no-go. What rules is “the time-honored principle of state sovereignty”.»

L’expression soft power ne nous semble pas convenir parfaitement, parce qu’elle privilégie une notion statique (“pouvoir”) alors que nous voyons plutôt une dynamique à l’œuvre, beaucoup mieux exprimée par le terme “agression”. A ce propos, nous écrivions donc (12 mars 2012) :

«Cette agression, faite essentiellement par des moyens de manipulation de groupes informels, et de groupes frontistes russes sous le couvert de leurs étiquetages d’ONG, ou bien de diffamation médiatique, fonde désormais ce que les Russes nomment de l’expression approximative (pour notre traduction interprétée) de “moyens illégaux d’agression douce”… (Fameuse époque, où l’agression peut être “douce”, mais n’en est pas moins, extrêmement agressive, mais plutôt dans le style vicieux et subreptice ; rejeton incontestable du système de la communication, cela.) Il est manifeste que cette technique d’“agression douce” va devenir la forme d’agression générale de plus en plus systématiquement employée contre les forces anti-bloc BAO, déstructurant et dissolvant les relations politiques et diplomatiques normales entre les pays qui l’emploie (bloc BAO) et les autres, et rendant ces relations de plus en plus chaotiques et conflictuelles.»

Cette idée d’une “agression”, du côté russe, avait déjà été mise en évidence par une intervention d’Igor Panarine, que nous présentions et commentions le 3 mars 2012. Panarine observait, parlant, lui, d’“agression médiatique” «The Russian leader should primarily recognize that ideology and information are the long-standing vulnerabilities of the Russian state, which caused it to collapse twice in the 20th Century. Therefore, it would be helpful for the development of Russian statehood if the government would establish a State Ideology (Spirituality, Greatness, Dignity) and set up a special mechanism for countering foreign media aggression through a set of administrative, PR and media-related measures. This would enable Russia to become a pan-Eurasian center of gravity in both economic and spiritual terms.»

…Et, sur ce point précis, nous commentions: «Il s’agit […] de la réalisation également correcte que la véritable puissance se trouve aujourd’hui dans le système de la communication, et l’une des utilisations étant l’“agression psychologique” par diffamation mécanique et robotisée. Là aussi, le Système parle et anime les créatures qu’il a soumises, au sein du bloc BAO.»

Pour compléter ce champ des définitions, il convient de préciser que le terme “doux” caractérise la forme et nullement, ni l’intention, ni la démarche, qui sont au contraire extrêmement agressives, illégales par rapport aux normes des principes, diffamatoires et construites sur des affirmations trompeuses et souvent sur une corruption massive, et enfin extrêmement dommageables du point de vue de la psychologie (d’où le terme que nous employions d’“agression psychologique”, plus précisément décrite comme une “agression contre la psychologie”). Cette forme est construite sur une rhétorique morale qui prétend effectivement à la “douceur”, sinon à l’angélisme, mais dont l’effet est opposé ; selon l’expression courante, il y a “des mots qui tuent”, ou, au moins, qui terrorisent, bien plus sûrement que la force des bombes et l’oppression policière, parce qu’ils agissent comme des contraintes subversives et dissolvantes exercées sur la psychologie. A la place d’un “doux” où il n’y a aucune douceur selon l’entendement habituel, on aurait pu employer un qualificatif tel que “subreptice”, qui n’implique sans aucun doute aucune “douceur”, mais on aurait perdu ce qui fait le principal de l’originalité de la démarche qui est de s’exposer à ciel ouvert, en affichant ses intentions en toute agressivité et en toute illégalité. (Il faut aussi bien remarquer que ce que nous entendons par “agression contre la psychologie” relève moins de la propagande que d’une avatar du virtualisme : il s’agit d’amollir la psychologie comme on “attendrit” la viande, l’affaiblir, la rendre vulnérable, ouvrant la voie à la soumission de l’esprit, – et là on peut tout de même parler d’une “douceur” perverse ouvrant la voie à ces “mots qui tuent” ou terrorisent… Disons que cela pourrait être envisagé, du point de vue “tactique”, comme l’équivalent postmoderniste du persiflage du XVIIIème siècle.)

Toutes ces considérations sont faites à propos de la Russie, durant ces dernières semaines. L’on pourrait argumenter qu’elles auraient pu être faites il y a déjà fort longtemps, au moment des “révolutions de couleur” (2003-2005), voire, selon certains, pour ce qu’on nomme “le printemps arabe” (notre position est plus nuancée à ce propos, car il y a également une forte part de spontanéité dans ces évènements arabes). Au contraire, nous voyons dans l’affaire russe (élection de Poutine, organisation d’une “opposition” pour discréditer cette élection) un changement de nature par rapport à ce qui a précédé. Nous passons de l’accidentel souvent improvisé, à l’essentiel même, qui est nécessairement structuré puisqu’essentiel, sans qu’il soit nécessaire de parler de complot… Au contraire, là aussi, il y n’y a pas complot dans le cas russe, à la différence des “révolutions de couleur”, parce qu’il y a quelque chose de désormais naturel dans le sens de l’automatique dans la posture et l’action du bloc BAO en l’occurrence. Personne n’ignore qui se trouve à la manœuvre machinatrice, comme toujours depuis quelques années, dans la version-Système d’une forme extrêmement avancée de l’Agit-Prop et différente substantiellement (puisqu’attaquant la psychologie pour l’affaiblir plutôt que la pensée pour la tromper).

Ce qui différencie l’affaire russe de celles qui ont précédé, c’est que l’“agression douce” se fait contre un État marqué par la pérennité d’une grande nation, par sa tradition, son histoire, son statut de puissance nucléaire reconnue, sa stabilité ethnique et géographique, et sa spiritualité, – et, conjoncturellement, par son redressement récent et par sa propre volonté, malgré des catastrophes intérieures sans précédents ; un État qui, par conséquent, dispose d’une légitimité et d’une souveraineté indiscutables. (A cet égard, Poutine a une conscience claire de la question… Comme l’explique Escobar : «What rules is “the time-honored principle of state sovereignty”».)

Sur ce point qui nous paraît essentiel, il y a une rupture par rapport aux “révolutions de couleur” et au “printemps arabe” (quand c’est le cas), qui, tous, impliquaient des États et des gouvernements souvent dans une situation incertaine ou chaotique, ou dans des situations d’illégitimité avérée, de corruption étrangère, etc., – des “États” où l’incertitude des principes régnaient assez pour qu’on puisse n’y pas distinguer une “agression” contre la structure puissante qu’est un principe. Il y a là une rupture qualitative car, plus qu’une “agression” contre un régime ou un gouvernement ; il s’agit d’une “agression” contre des principes fondamentaux, donc une agression nécessairement fondamentale.

En ce sens qui prend en compte la profondeur de l’agression, on pourrait dire qu’il s’agit d’une véritable déclaration de guerre… Reste à voir de quelle guerre il s’agit.

L’objectif autodestructeur du désordre (du chaos) destructeur

De par l’importance de l’évènement, parce que l’“agression” affecte un pays comme la Russie et qu’elle a eu des conséquences très importantes (essentiellement négatives pour les “agresseurs doux”, avec la forme soudain exceptionnelle de la victoire de Poutine), on peut dire qu’il s’agit de l’installation définitive du système de la communication comme principal moyen de la puissance et comme principale voie vers l’affrontement. Par conséquent, il ne s’agit pas seulement d’une “guerre de communication” (succédané postmoderne de “la guerre de l’information” ou de la “guerre de propagande”) mais de la guerre en soi qui devient essentiellement animée et réalisée par le système de la communication, – donc une “guerre du système de la communication”. Il ne fait aucun doute que sa forme est celle d’une guerre totale, dont l’issue sera la disparition du vaincu (encore plus que l’anéantissement, où des ruines subsistent).

(Pour nous, “le système de la communication” ne concerne pas la seule communication, il ne peut être réduit à elle. Par son activité, sa puissance intrinsèque et le fait déjà dit qu’il représente la véritable puissance politique aujourd’hui, il est créateur de conditions politiques et psychologiques spécifiques qui bouleversent la situation générale en même temps qu’elles font de lui-même quelque chose de fondamentalement autre que la seule communication au sens strict. Le “système de la communication” touche tous les domaines du grand affrontement en cours autour et au cœur du Système, et, par conséquent, des domaines fort étrangers à la communication en plus d’elle-même. Il est multiple dans ses conséquences et ses effets, et peut être souvent retourné contre ses créateurs et ses manipulateurs [effet Janus]. Il ne se contente certainement pas de tenter de désinformer l’esprit et de changer le jugement, il vise et touche la psychologie elle-même, qu’il entend bouleverser absolument… Comme la psychologie est un phénomène neutre, il peut, selon qui le manipule et selon la façon dont on peut le retourner contre ses manipulateurs, avoir effectivement une action antiSystème exceptionnellement puissante alors qu’il aurait été déclenché opérationnellement par le Système lui-même.)

On mesurera à cet égard de la puissance universelle du système de la communication dans notre époque postmoderniste, la différence d’enjeu, la différence de la rapidité de l’évolution et la différence de l’importance des effets avec la réhabilitation des concepts de “défaite” et de “victoire”, tout cela en faveur de cette nouvelle sorte de “guerre” qui apparaît effectivement comme totale. Il suffit de comparer, par exemple, la guerre d’Afghanistan absolument paralysée depuis dix ans et la “guerre-éclair” qui s’est menée à Moscou et s’est terminée par l’élection de Poutine devenue une victoire sur l’“agression douce”. La première est un modèle classique de guerre géopolitique et l'on peut constater que les facteurs dynamiques de ce modèle classique se trouvent désormais complètement dominés et réduits à rien par les facteurs statiques qui engendrent une situation de complète paralysie ; c’est tout le contraire avec la “guerre du système de la communication” telle qu’elle s’est complètement révélée avec l’épisode russe.

L’importance de cette “agression douce” dans le cas de la Russie, qui fait qu’on peut parler de “guerre” dans un sens extrêmement appuyé, se mesure dans le fait, signalé plus haut, que cette agression se fait directement contre des principes, pleinement représentés et actifs en Russie. De ce fait, l’“agression douce” perd son caractère exotique, anecdotique, son caractère d’acte d’expansion marginal ou complémentaires aux grands axes politiques, pour devenir au contraire partie intégrante de ces grands axes politiques, et même la partie essentielle du grand axe politique fondamental qu’est l’affrontement direct du Système contre le reste. Dans ce cas russe, en effet, il s’agit bien d’une attaque directement déstructurante et dissolvante, du fait que les principes sont directement mis en cause et attaqués.

La technique d’attaque est classique et basée sur l’outil anglo-saxon habituel des “réseaux”, qui est une sorte de paradoxale “structure anti structurelle” pour l’attaque déstructurante. Du temps de la splendeur de l’Empire (britannique), l’outil des réseaux fonctionna superbement pour maintenir la mainmise britannique sans rendre trop visible l’“occupation” ni immobiliser trop de moyens “lourds”, militaires notamment, – mais l’outil fonctionnait “en terrains conquis”, pour maintenir un contrôle. Aujourd’hui, l’outil des réseaux est utilisé dans un but subversif et dissolvant, pour investir des espaces structurés, en y agissant comme des termites visibles et bruyantes. (Les Français, dont l’intelligence est à la disposition de tous, y compris de leurs plus farouches ennemis, ont mis cette technique en musique philosophique avec la French Theory et l’univers deleuzien.) Bien entendu, les USA en tant qu’entité spécifique de l’américanisme et cœur du Système, et pays non-régalien absolument constitué d’intérêts privés qui organisent naturellement leurs réseaux, ont emprunté la méthode des réseaux avec le plus grand naturel du monde, comme allant de soi. Ce faisant, les USA (les anglo-saxons) se conformaient absolument aux pulsions du Système qui sont naturellement dissolvantes de toutes les structures pérennes ; ils se sont complètement mis à son service, comme s’ils avaient été créés pour cela….

Si la tactique subsiste, la situation générale n’a plus rien de commun avec celle du temps de l’empire britannique. Ces réseaux, cette “agression douce”, sont engendrés et inspirés complètement par un Système en cours d’effondrement, avec sa surpuissance passée en mode d’autodestruction, et se trouvent donc considérablement affaiblis, et même invertis par perversion. Lorsque la structure attaquée est faible, l’attaque dissolvante réussit mais c’est bientôt pour se dissoudre elle-même. Les structures de destruction de l’espace investi mises en place sont elles-mêmes très fragiles et ne règlent rien dans le sens désiré. (Les cas ukrainien et égyptien sont typiques de ces situations “intermédiaires” et incertaines.) Lorsque la structure attaquée est forte, ce qui est désormais le cas de la Russie, la riposte se fait au niveau du renforcement des principes structurants et elle est victorieuse en retournant contre l’agresseur sa propre force… Quoi qu’il en soit, c’est dans ce cas que l’“agression douce” se montre pour ce qu’elle est devenue et pour ce qu’elle représente, et c’est l’observation la plus importante : une véritable guerre et une guerre nécessairement totale, dont l’objectif n’est rien moins que la dissolution nihiliste, sans autre but que cette dissolution nihiliste, dans un “désordre destructeur” ou un “chaos destructeur”, de l’organisation structurelle fondamentale, c’est-à-dire l’identité même de l’entité prise à partie. Il s’agit d’une guerre du Système lui-même, de sa guerre totale et décisive…

(Nous répétons cette expression d’apparence pléonastique de “désordre destructeur”, ou ”chaos destructeur”, que nous avions proposée le 3 mars 2012, contre l’idée de pure communication, ou relations publiques, de “désordre/chaos créateur” : «Il s’agit de la recherche du chaos, présenté en apparence par certains comme une recherche paradoxale d’avantages géostratégiques (narrative du “chaos créateur”), devenant implicitement et objectivement la recherche du chaos comme un but en soi, comme un facteur non réalisé comme tel mais effectivement opérationnel d’accélérateur de la crise de la Chute (la fameuse dynamique de transformation du Système surpuissance-audodestruction). (Il s'agirait, pour réduire à sa réalité de simulacre la narrative du “chaos créateur”, d'une sorte de “chaos destructeur”, expression suivant une démarche rhétorique d'expolition.)»)

L’épisode russe nous dit combien les conditions générale d’affrontement sont en train de changer pour apparaître dans leur vérité, pour en venir à l’enjeu essentiel dont on pourrait aller jusqu’à dire qu’il concerne la substance structurelle du monde, c’est-à-dire la constitution même du monde, avec le Système tout entier lancé dans ce qui serait en théorie une poussée finale visant à détruire par déstructuration (“désordre destructeur”) les principales structures restant en place. D’une certaine façon, avec cette sorte d’initiative, beaucoup plus que pour telle ou telle place pétrolière où il s’engage dans des affrontements politiques désastreux et sans issues, le Système lancerait toutes ses forces dans la bataille, pour détruire les structures pérennes qui, lui semble-t-il assez justement, lui interdisent la victoire finale. Il semble pourtant, comme on le voit avec le cas russe, que cette sorte d’initiative soit vouée en général à un échec dévastateur qui prend l’allure d’une défaite totale, qui a pour effet de renforcer ce que le Système veut détruire. L’intérêt n’est pas tant, ici, de voir survivre des structures (celles de la Russie) qui, en elles-mêmes, ne peuvent assurer notre sauvegarde générale et notre régénérescence, – même si cette sauvegarde a évidemment son importance ; l’intérêt central est de voir le Système s’autodétruire de plus en plus vite, d’une façon de plus en plus déterminée. Le fait de la Russie confrontée à l’“agression douce” a, une fois de plus, démontré cette singulière mécanique qui fait de la dynamique de surpuissance du Système une dynamique catastrophique d’autodestruction de lui-même.