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samedi, 27 mars 2010

Il male atlantista

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Il male atlantista

di Fabio Falchi

Fonte: fabiofalchicultura

 

L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale".



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

anti_nato_tshirt.jpgE' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.


Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).


E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".

 

 

Géopolitiques de l'Argentine et du Chili

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

Géopolitiques de l'Argentine et du Chili

 

Bertil HAGGMAN

 

conesud.pngSi le Canal de Panama est bloqué, le trafic maritime n'a d'autre alternative que d'emprunter la route qui passe par le Cap Horn. C'est pourquoi tant l'Argentine que le Chili ont une très grande importance géopolitique. A l'époque de la guerre froide, ces deux pays étaient des cibles privilégiées des tentatives de pénétration soviétique. Le long littoral de la côte argentine face à l'Atlantique Sud (1700 miles) fait de ce pays une puissance atlantique. De l'autre côté du cône austral de l'Amérique du Sud se trouve le Chili, dont la côte pacifique est longue de 2600 miles. Le territoire chilien s'étend sur une centaine de miles plus au Sud. Le Détroit de Drake entre la Péninsule Antarctique et le Cap Horn constitue une connexion vitale entre les Océans Pacifique et Atlantique. Il nous apparaît dès lors fort important de procéder à une étude de la géopolitique chilienne et argentine en Europe, afin que nous nous rendions bien compte de l'importance géostratégique et géopolitique vitale de cette région du monde.

 

La géopolitique argentine

 

En Argentine, on s'intéresse très fort à la géopolitique et on y consacre toutes sortes de recherches. La pensée géopolitique s'y est développée en deux étapes depuis 1940. La première étape a commencé vers 1940 et s'est poursuivie jusqu'au début des années 50. La première théorie géopolitique moderne d'Argentine semble être celle mise en œuvre par Emilo R. Isolas et Angel Carlos Buerras. En 1950, ils publient tous deux Introduccion a la geopolitica argentina. Nos deux auteurs y affirmaient que les doctrines géopolitiques conçues à l'étranger n'étaient pas toujours pertinentes pour l'Argentine. Ce sont eux également qui ont introduit la méthode d'inverser les cartes. Celles-ci, dans leurs travaux, étaient centrées sur l'Argentine et sur le “pivot de l'Antarctique”. Cette manière de jeter un regard sur le monde rappelle des tentatives similaires, réalisées au Canada et aux Etats-Unis, quand on cherchait, là-bas, à souligner l'importance de l'Arctique. L'importance de l'Antarctique a acquis progressivement une signification cardinale dans les théories géopolitiques argentines. Isolas et Buerras plaidaient pour le renforcement des liens entre l'Argentine et le Chili et pour le retour des Iles Malouines/Falklands à l'Argentine.

 

Plus d'une décennie s'est écoulée, avant que de nouvelles idées géopolitiques voient le jour, mais les thèses de Buerras et Isolas continuaient néanmoins à être étudiées et approfondies dans les universités, les écoles et les académies militaires. En 1966, Justo P. Briano, un Colonel qui avait enseigné au Collège Militaire en 1940-41 publie un ouvrage de très grand intérêt. Entre 1960 et 1964, il était devenu professeur de géopolitique à l'Institut de Science Politique de la Salvador University. Dans Geopolitica y geostrategia americana, il affirme que la géopolitique est une science. Elle est, affirme-t-il, un instrument inestimable pour les hommes politiques qui guident effectivement la nation. Briano militait pour l'unification du continent sud-américain. Il voulait ce que l'on appelait l'“intégration”, autour de l'Argentine et du Brésil, alliés des Etats-Unis dans un “groupe américain”.

 

Jorge Atencio, également Colonel et Professeur de géopolitique à l'Université Nationale de Cuyo (Mendoza) fut le successeur immédiat de Briano, en soumettant à ses élèves et ses collègues un nouvel ouvrage majeur de géopolitique, intitulé Que es geopolitica? Ce livre constitue une interprétation claire de la pensée géopolitique et en adapte les thèses d'un point de vue argentin. L'Argentine, explique Atencio, n'a nul besoin d'étendre son territoire mais doit le développer. Atencio inclut dans le territoire argentin les Iles Malouines et l'immense secteur argentin de l'Antarctique. Il affirme également que la mer est importante. Les Amériques du Nord et du Sud disposent d'énormes réserves territoriales et sont les dépositaires de larges territoires, en deuxième position par rapport à l'Asie. Atencio réclame de ses compatriotes qu'ils s'intéressent davantage à la mer et qu'ils déployent un maximum d'efforts pour développer les zones “vierges” de l'Argentine.

 

Fernando A. Milia, Amiral en retraite, était lié à l'Institut des Etudes stratégiques. Son livre Estrategia e poder militar  (1965) est une tentative de créer une doctrine stratégique argentine. L'Amiral Milia prétend que la stratégie se limite aux exigences de la politique étrangère, de la politique intérieure et de l'économie. Le développement économique est nécessaire pour accroître le potentiel militaire. La théorie de Milia cherche à intégrer dans son concept stratégique l'entièreté ou des parties des territoires voisins. Cette volonté a été dénommée “intégrationniste”.

 

La pensée géopolitique contemporaine en Argentine est surtout liée à deux thématiques. La première est orientée vers la restauration du pouvoir et de l'influence de l'Argentine par le biais d'une forme ou une autre de politique “intégrationniste”, parfois d'inspiration nationaliste. L'autre thématique se retrouve dans des travaux dont l'orientation générale opte pour la coopération ou pour l'intégration économique et militaire (c'est l'intégrationnisme non nationaliste). Le schéma ci-dessous montre bien quels sont les objectifs de chacune des deux écoles:

 

XXXX

 

En 1975, Osiris Guillermo Villegas, Général à la retraite, publie Tiempo geopolitico argentino.  Il y explique que l'Argentine a besoin d'un nouveau modèle national qui lui permette d'accélérer son développement. Les atouts qui lui permettraient de réaliser un tel programme sont: l'autonomie de décision, la rentabilisation économique de la région et la création d'une société développée, originale et créative. L'intégration nationale doit tout à la fois tabler sur les efforts du peuple et sur les forces armées, recommande le Général Villegas. Dans une annexe de son livre, Villegas donne 160 recommandations politiques originales, afin de réaliser ce nouveau modèle de société.

 

Le géopolitologue le plus péroniste des années 70 reste sans conteste Gustavo Cirigliano. Dans son livre Argentina triangular: geopolitica y projecto nacional  (1975), , il affirme que l'Argentine est une puissance “triangulaire” et non pas circulaire. Elle s'est developpée selon deux axes: l'axe andéen et l'axe de la Plata et a ainsi englobé la Patagonie, les Malouines et le secteur argentin de l'Antarctique. Cirigliano a également suggéré un projet d'intégration continental, devant s'achever en 1990, incorporant le Canada en 1994 et l'Espagne en 1995. Le livre de Cirigliano a été critiqué, on l'a jugé trop utopique, mais on l'a également loué parce qu'il mettait l'accent sur l'intégration continentale.

 

Gomez Rueda, Professeur à l'Université de Cuyo, est proche de Villegas dans sa pensée. Son ouvrage Teoria y doctrina de la geopolitica  (1977) démontre que la géopolitique est liée à la politique, la géographie et l'histoire et est fortement connectée à la stratégie. Rueda a forgé une nouvelle théorie géopolitique, la théorie relativiste. Rueda vise l'intégration continentale des dix pays de l'Amérique du Sud, afin de ne plus former qu'un seul pays. Il affirme aussi que l'Argentine est le centre géopolitique du Ters-Monde. Dans son livre, il subdivise l'Amérique du Sud en cinq régions géopolitiques; parmi celles-ci, la région biocénanique, comprenant le cône austral de l'Amérique du Sud, soit le Chili et l'Argentine.

 

José Felipe Marini est également un Colonel en retraite de l'Armée de Terre; il enseigne la géopolitique au Collège national de guerre et à l'Institut des Services étrangers. En 1980, il a publié trois ouvrages de géopolitique, dont certains avec un co-auteur. L'ouvrage principal de Marini date de 1978 et s'intitule Geopolitica argentina: Bases para su formulacion. Il y perçoit l'Argentine comme une île, séparée par de longues distances océaniques de l'Europe, de l'Afrique et de l'Australie. Il se fait l'avocat d'une étroite coopération avec le Chili, pays dont la position est similaire. L'Argentine doit peupler et développer les espaces vacants de son territoire et formuler des objectifs politiques sur le long termes (des périodes de 20 à 25 ans) afin d'assurer son développement.

 

Dans un livre intitulé El poder del Pan,  Rodriguez Zia plaide pouru ne intégration complète de l'Argentine, de la Bolivie, du Paraguay et de l'Uruguay, afin d'amorcer une politique qui favorise à outrance la production de denrées alimentaires. Il affirme que cette région appelée à s'intégrer est la plus habitable de tout l'hémisphère sud. Le bassin de la Plata pourrait constituer une formidable réserve de production alimentaire. La théorie du Heartland de Mackinder ne survivra pas, prophétise Zia, car le véritable problème de l'avenir sera la faim. Le vrai pouvoir sera le “pouvoir du pain”.

 

L'Argentine a développé un véritable programme d'enseignement de la géopolitique dans ses collèges militaires et dans ses universités civiles. Même dans les écoles secondaires, la géopolitique est enseignée d'une manière relativement intensive. Après le retour d'un pouvoir civil dans les années 80, l'influence de la géopolitique s'est peut-être un peu amoindrie mais reste importante et ne cesse d'exprimer les intentions stratégiques et politiques du pays, sur le plan des politiques intérieure et extérieure.

 

La géopolitique en Argentine s'est étoffée au départ de l'“Instituto do Estudios geopoliticos” (IDEG) et de sa revue Geopolitica. Il y a également eu un “Instituto Argentino de Estudios Estratégicos y de las Relaciones Internacionales” (INSAR), à la tête duquel se trouvait le Général Guglialmelli. Cet institut publiait la revue Estrategia, qui a cessé de paraître. L'INSAR peut être considéré comme plus nationaliste, tandis que l'IDEG est plus intégrationniste.

 

La tradition géopolitique en Argentine remonte bien avant 1940, mais j'ai surtout voulu attirer l'attention de mes lecteurs sur la géopolitique moderne. Il me faut toutefois citer un ouvrage ancien, Interesa argentinos en el mar  (1916), rédigé par l'Amiral Segundo R. Storni. L'intention de l'Amiral Storni était de réveiller l'intérêt des Argentins pour la mer. Storni combinait les concepts de Ratzel et de Mahan. Il estimait que l'Argentine devait se doter d'une vaste flotte marchande, de même que d'une flotte de pêche. Les forces navales étaient nécessaires pour protéger les navires civils. On considère aujourd'hui que Storni est le fondateur d'une géopolitique argentine orientée vers la mer.

 

La géopolitique chilienne

 

Le Chili a produit moins de textes géopolitiques que l'Argentine, toutefois, ce pays a la caractéristique d'avoir été gouverné à partir de 1973 par un Président géopolitologue et auteur d'un traité de géopolitique, Geopolitica. Ce Président, c'était Augusto Pinochet. Le Chili est une puissance navale dans l'Océan Pacifique, position qui a influencé toute sa conception de la stratégie et de la géopolitique. Comme en Argentine, les Chiliens s'intéressent énormément au continent Antarctique. Les débuts de la géopolitique moderne au Chili remonte aux années 40 et sont marqués par des livres aussi importants que Chile o une loca geografia (1940) et Tierra de Oceano (1946, tous deux de Benjamin Subercaseaux. En 1944, Oscar Pinochet de la Barra avait publié La Antartica chilena.

 

L'un des principaux géopolitologues chilien dans les années 30 et 40 a été le Général Ramon Canas Montalva. Ce militaire a avancé de nombreuses théories, parmi lesquelles nous retiendrons surtout la revendication chilienne d'une part du continent antarctique. Un décret présidentiel avait jadis délimité les revendications chiliennes dans cette aire: de 53° à 90° de longitude ouest. La première base chilienne sur ce continent a été établie en 1947. Dans un article paru en 1948, le Général Canas Montalva lance quatre nouveaux concepts géopolitiques:

1. L'ère du Pacifique commence, signalant que les ères méditerranéenne et atlantique viennent de prendre fin.

2. L'importance du lieu géographique dans toute géopolitique.

3. Le Chili détient une responsabilité d'ordre géopolitique dans la défense continentale et a un destin propre.

4. Le Chili est une puissance du Pacifique-Sud.

Les Amériques doivent dès lors devenir les continents de l'ère nouvelle. Par sa position géographique, le Chili doit être en mesure de contrôler les voies aériennes et maritimes dans la région. Dans un article ultérieur, intitulé Reflexiones geopoliticas  (1), le Général Canas Montalva jette les bases de ses théories géopolitiques. Un an plus tard, il propose la fondation d'une “Confédération du Pacifique”, étape vers l'unification du continent.

 

Dans les années 50, Pablo Ihl a développé ces idées. Il plaide en faveur d'une solution “tiers-mondiste” pour le Chili, en association avec d'autres puissances du Pacifique et du continent sud-américain.

1. Le Chili doit proposer une union économique et commerciale entre le Chili, l'Argentine, le Brésil, la Bolivie, le Pérou, l'Equateur, le Paraguay, l'Uruguay, l'Australie, la Nouvelle-Zélande et les îles du Pacifique.

2. Le Chili doit travailler à l'avènement d'une grande nation sud-américaine, comprenant tous les pays de ce continent, ainsi que le Mexique et les Etats centre-américains.

 

Ihl voulait l'intégration d'autres nations sud-américaines. Comme le Général Canas Montalva dans les années 50, il réagit contre une menace argentine. Il réclame un “bloc pacifique” pour contrer les pressions de Buenos Aires. Vers 1960, Canas Montalva avait également attiré l'attention de ses compatriotes sur l'importance géostratégique du Canal de Beagle.

 

En 1968, Julio Cesar von Chrismar Escuti publie Geopolitica: Leyes que se deducen del estudio de la expansion de los Estados. Von Chrismar affirmait qu'il existe une série de “lois géopolitiques”. Il en a identifié 35 et les a analysées brièvement. Il met l'acent sur la sécurité et le développement, dans des termes que l'on retrouve dans les écrits géopolitiques d'Argentine et du Brésil. Ses vues reflètent surtout l'option de l'Académie de guerre, où le Général Augusto Pinochet Ugarte était professeur de géopolitique. C'est d'ailleurs lui qui écrira la préface du livre de von Chrismar. Ce dernier enseigne la géopolitique à l'Academia Superior de Seguridad Nacional.

 

La même année, Pinochet publie son livre Geopolitica, résultat de quinze années d'enseignement de cette discipline et de stratégie. Le point de départ de Pinochet est la théorie de Ratzel sur l'Etat comme organisme vivant. La croissance de l'Etat est l'étape la plus importante dans le cycle de vie d'une nation. Pinochet récapitule l'histoire de la pensée géopolitique depuis l'antiquité et le moyen-âge. Pinochet explique que pour comprendre la naissance, la croissance et le dépérissement des Etats, il faut être conscient du rôle qu'ont eu les réactions aux défis d'ordre spatial, ainsi que d'un nombre d'autres facteurs tels la géostratégie.

 

Augusto Pinochet et von Chrismar forment en quelque sorte une école distincte de la géopolitique chilienne. Ils présentent les lois et les concepts de la géopolitique de façon telle que les gouvernements sont appelés à les appliquer pour le bien de l'organisme Etat. Plus tard, dans les années 70, une géopolitique plus nationaliste voit le jour. Ainsi, Federico Manuel Bermudez se fait l'avocat d'une “mer chilienne” dans le Pacifique et veut étendre les eaux territoriales jusqu'à 200 miles. Cette “mer chilienne” devait avoir les limites suivantes: à partir de la frontière nord du Chili, les géopolitologues nationalistes tracent une ligne jusqu'à l'Ile de Pâques, puis la font descendre vers le Sud-Est jusqu'à la limite des revendications chiliennes dans l'Antarctique, soit 90° de longitude Ouest, pour revenir au territoire continental du pays. A l'Est, ils tracent une ligne à partir du Canal de Beagle, la prolongent vers l'Est, à travers l'Arc des Antilles australes jusqu'à la limite orientale des revendications chiliennes dans l'Antarctique. Cette délimitation de la “mer chilienne” aurait donné au Chili le cinquième de l'Océan Pacifique. Notons que le Chili n'a pas revendiqué une extension de sa souverainté sur toute cette zone.

 

Dans les années 80, le Chili a produit énormément de textes géopolitiques. Après 1973, émerge une “nouvelle géopolitique”. Elle prend des aspects à la fois nationalistes et intégrationnistes, mais ce sont nettement les formes nationalistes qui dominent. La “nouvelle géopolitique” a l'ambition politique de souligner le rôle du Chili en tant que puissance pacifique. En 1981, l'“Instituto Geopolitico de Chile” (IGC) est fondé. Son directeur est le Prof. Hernan Santis Arena (2). L'IGC produit toute une série de publications, ainsi qu'une revue, la Revista Chilena de Geopolitica. L'institut impulse d'importants débats en matières de géopolitique et promeut le développement de la science géopolitique dans cet important pays du cône austral de l'Amérique du Sud.

 

Bertil HAGGMAN.

(Paper no. 4, Geopolitics in South America, Part 1, The Cone: Argentina and Chile, 1989, Center for Research on Geopolitics, Helsingborg, Suède).

vendredi, 26 mars 2010

Le "Plan Bernard Lewis"

Mansur KHAN (*) :

Le « Plan Bernard Lewis »

 

Bernard_Lewis.jpgL’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services  secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.

 

Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).

 

Khan---Geheime-Geschic.gifLors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).

 

Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ».  C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.

 

Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).

 

Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.

 

Mansur KHAN.

(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).

 

Notes :

(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).

 

(1)     Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.

(2)     Ibidem, p. 303 & ss.

(3)     William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.

(4)     Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.

(5)     Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.

(6)     Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.

(7)     Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.

Khan, Mansur
Die geheime Geschichte der amerikanischen Kriege
[100 103]

 


 

Verschwörung und Krieg in der US-Außenpolitik



3. Auflage
624 Seiten
17x24cm
Lexikonformat
Leinen
80 Abbildungen
Register
ISBN-10: 3-87847-208-0
ISBN-13: 978-3-87847-208-7

Euro: 29,80

Kurztext:

Amerikas Kriegspolitik: 200 Jahre blutiger Imperialismus! Obwohl die USA noch nie von einem Gegner direkt bedroht waren und niemals einen äußeren Feind im eigenen Lande hatten, waren sie weltweit an allen größeren Händeln dieses Jahrhunderts beteiligt und gaben meist den Ausschlag. Mansur Khan gibt einen ausführlichen und mit mehr als 1100 Anmerkungen abgestützten Überblick über die US-Kriegspolitik.


Langtext:

In rund 200 Jahren stiegen die USA von einer englischen Kolonie an der Ostküste Nordamerikas zur Weltmacht Nummer ein auf, die heute an allen Stellen der Erde eingreift. Wie das durch dauernde Kriege gegen Nachbarn und dann entfernte Staaten geschah, schildert dieses Buch. Dabei waren die USA – wie insbesondere im Ersten und Zweiten Weltkrieg, in Korea, Vietnam oder am Golf – nie unmittelbar selbst bedroht, sondern es standen stets große wirtschaftliche Interessen hinter Washingtons Drang zum Krieg, der teilweise erst durch klassische Provokationen – z.B. ›Lusitania‹-Versenkung, Pearl Harbor-Angriff, Tonkin-Zwischenfall – für die zunächst kriegsunwillige US-Bevölkerung annehmbar gemacht werden mußte. Besonders in Zeiten ausbrechender wirtschaftlicher Rezession griffen US-Präsidenten zu kriegerischen Auseinandersetzungen, um ihrer Wirtschaft durch Rüstungsaufträge neuen Auftrieb zu geben. Besonders die Motive und Hintergründe der einflußreichen US-Machtelite werden untersucht.

Klappentext:

Seit dem Zusammenbruch des Sowjetimperiums sind die Vereinigten Staaten von Amerika unbestritten die Weltmacht Nummer eins, und sie sind in der Lage, überall auf der Erde ihre Interessen durchzusetzen. Daß sie dazu auch gewillt sind, haben sie im letzten Jahrzehnt durch mehrmaliges militärisches Eingreifen auf den verschiedenen Kontinenten bewiesen. Dabei haben sie stets vorgegeben, für die Stärkung der Demokratie und die Sicherung der Freiheit eingetreten zu sein, obwohl es in Wahrheit eher um harte wirtschaftliche und materielle Vorteile ging.

Wie ein roter Faden zieht sich durch die Geschichte der USA die rücksichtslose Durchsetzung eigener Macht. Aus einer Kolonie wurde in rund zweihundert Jahren durch fast pausenlose Kriege und weiträumige Eroberungen eine imperiale Macht, die heute die ganze Erde kontrolliert und andere Völker wirtschaftlich ausbeutet, die mit dem von ihr geschaffenen Instrument der Vereinten Nationen (UNO) Strafexpeditionen in den verscheidenen Teilen der Welt unternimmt und mit der NATO auch in Europa entscheidenden Einfluß ausüben kann.

Dieses Buch gibt einen Überblick über die Kriegsgeschiche der USA von den Anfängen bis zur Gegenwart und hellt die Hintergründe dieser Entwicklung auf. Es beschreibt die Landnahme, die mit dem Völkermord an den Indianern und der Ausbeutung von Millionen schwarzer Sklaven verbunden war, die Eroberung des riesigen Landes bis zum Pazifik, den amerikanischen Bürgerkrieg und die Auseinandersetzungen mit Mexiko um die großen Territorien im Südwesten. Ausführlich wird das imperiale Ausgreifen seit Ende des vorigen Jahrhunderts behandelt, werden die Kriege um Kuba und die Philippinen, das Eingreifen in Mittelamerika wie in Europa im Ersten und Zweiten Weltkrieg geschildert. Die dann folgenden Kriege in Korea, Vietnam, am Persischen Golf, in Afghanistan oder Somalia setzen diese militärische Linie über kleinere Einsätze in Haiti, Grenada oder Nicaragua bis zur Gegenwart fort.

Dabei stehen vor allem die Motive und Hintergründe der US-Politik im Vordergrund. Ist es Zufall, daß fast jeder größere Krieg der letzten hundert Jahre gerade dann in Washington vom Zaun gebrochen wurde, wenn eine wirtschaftliche Rezession die Vereinigten Staaten heimsuchte, die dann erfolgreich durch die neuen Aufträge für die Rüstungsindustrie behoben werden konnte? Hat die US-Regierung nicht stets den kommenden Gegner über längere Zeit zu beabsichtigten Reaktionen provoziert, um selbst als der Angegriffene zu erscheinen und die kriegsunwillige eigene Bevölkerung zur Befürwortung eines Krieges zu treiben? Wie kam es, daß die USA im Ersten Weltkrieg von einer tief verschuldeten Nation zum Gläubigerstaat wurden und im Zweiten Weltkrieg das britische Empire beerbten, indem sie beide Male einen möglichen früheren Verständigungsfrieden in Europa durch ihr Eingreifen verhinderten?

Die These des Buches ist, daß eine ›Machtelite‹ in den USA das Sagen hat und die jeweiligen Präsidenten als Ausführungsgehilfen benutzt. Wenn diese das Gewünschte nicht ausführen wollen, wie Lincoln oder Kennedy, schreckt man auch nicht vor Mord zurück, um sie zu beseitigen. Kriege dienen dem Profit dieser Machtelite, werden teilweise künstlich verlängert, um zum einen viel Kriegsmaterial zu verbrauchen und zum anderen große Zerstörungen zu verursachen, an deren Beseitigung anschließend noch einmal verdient werden kann. Die von Präsident Theodore Roosevelt kultivierte ›Politik des großen Knüppels‹ ist durch Männer wie Kissinger und Reagan nun auf die ganze Welt erweitert worden, und Washington sieht seine unmittelbaren Interessen heute in fast allen Ländern der Erde berührt.

Wer die Politik unseres Jahrhunderts verstehen will, muß diese Zusammenhänge kennen, muß wissen, wo die Drahtzieher des wirklichen Geschehens sitzen, und sich nicht mit der üblichen oberflächlichen Darstellung nach dem Geschichtsbild der Sieger – und das ist eben die US-Machtelite – zufriedengeben. In diesem Sinne ist dieses Werk ein Aufklärungsbuch und dient dem historischen Revisionismus.

Inhaltsverzeichnis:

Vorwort 9

Einleitung 11

Kapitel 1
Die formenden Jahre der US-Außenpolitik 17
Die Ausrottung der Indianer und die Versklavung der Schwarzen: ›Manifest Destiny‹ bis zum bitteren Ende (ca. 1692-1890) 17
Expansionsdrang und Eroberungskriege: vom richtigen Umgang mit den Nachbarstaaten (1775-1818) 22
Der Befreiungskrieg 1776-1783: Krieg gegen das Mutterland 22
Inoffizieller Kaperkrieg mit Frankreich (1798-1800) 29
Der erste Berberkrieg gegen Tripolis (1801-1805) 31
Die Besitzergreifung von Louisiana und Florida (1803-1819) 32
Der Krieg von 1812 mit Großbritannien 36
Imperialismus in Vollendung oder: die Eroberung von Texas und der Krieg gegen Mexiko (1819-1848) 39
Der amerikanisch-mexikanische Krieg (1846-1848) 44

Kapitel 2
Krieg gegen das eigene Volk: der Amerikanische Bürgerkrieg (1861-1865) 52
Die scheinheilige Demokratie oder die Machtergreifung auf amerikanisch 69
Die Ermordung amerikanischer Präsidenten oder Staatsputsch auf amerikanisch (Lincoln und Kennedy) 74

Kapitel 3
Der Aufstieg zur Weltmacht 90
Pax Americana: Das amerikanische Jahrhundert und seine Kanonenboot Diplomatie 90
»Liefern Sie Bildmaterial, ich liefere den Krieg« - der spanisch-amerikanische Krieg (1898) 91
Erneuter Eingriff in Mexiko oder: wie der lateinamerikanische Hinterhof entdeckt wurde 105

Kapitel 4
Wirtschaftskriege auf amerikanisch 112
Der ›Große Krieg‹ und das große Geld: der Erste Weltkrieg und die USA 113
Der Erste Weltkrieg schuf die Voraussetzungen für den Zweiten Weltkrieg. 132
Wer finanzierte Hitler? 149

Kapitel 5
Die Provokation Japans oder: wie man in einen Weltkrieg eintritt 166
Der manipulierte Angriff auf Pearl Habor 194
Und Deutschlands Schicksal 226

Kapitel 6
Vom Kalten Krieg zum Koreakrieg 237

Kapitel 7
Vietnam, das zweite Gewaltopfer, und andere Eskapaden 264
Kambodscha: Dominostein im Kreuzzug gegen Vietnam 289
Laos: ein weiteres Opfer des Kreuzzuges 295

Kapitel 8
Kleinere Kriege 298
Grenada 1983: Ein Inselstaat bedroht die USA! 298
Libyen 1980-1986: Reagan sieht rot 308 Invasion Panamas 1989 oder: Wie Bush seinen ›Krieg gegen die Drogen‹ gewann 312
Die afghanische Tragödie: eine russische Aggression? 1979-1988 319

Kapitel 9
Der erste Golfkrieg oder: wessen Stellvertreterkrieg war er? 333
Ein Plan für den Mittleren Osten? 335
Amerikanisch-israelische Geheimverbindungen im ersten Golfkrieg 345
Saddam war siegessicher 348
Die Lage in Europa 1989 und die US-Außenpolitik 350

Kapitel 10
Die Vorbereitung der Golfkrise 352
Die Beziehungen USA-Irak nach dem ersten Golfkrieg 352
Irakisch-kuwaitische Beziehungen nach dem ersten Golfkrieg 356
Vorbereitungen der USA auf die Krise am Golf 359
Die Beziehungen zwischen den USA und Kuwait vor dem Golfkrieg 362
Die Wirtschaftslage in den USA 365

Kapitel 11
Die Inszenierung der Golfkrise und die Golfkriegsversehwörung der Bush-Regierung 369
Katastrophen-Diplomatie 383
Warum griff der Irak Kuwait an? 392

Kapitel 12
Der Weg in den Krieg 396
Warum waren die USA am Golfkrieg interessiert? 399
Die Vorbereitungen der Bush-Regierung auf den Golfkrieg 403
Die Zeitabstimmung für den US-Angriff auf den Irak 410
Der Propagandafeldzug der Bush-Regierung: die Medien in den USA und ihr Einfluß auf den Golfkrieg 411
Der Sprachenmord des Pentagons und der Medien 415
Die Ausschaltung der Opposition in den USA 417
Die Brutkasten-Lüge 417

Kapitel 13
Die Gründe der Bush-Regierung für den Golfkrieg 420
Saddam Husseins Machtergreifung mit freundlicher Unterstützung des CIA 420
Die Lüge über das Atomprogramm des Iraks 425
Der Mythos des unterbrochenen Ölflusses 429
Die Bush-Regierung behauptete, der Irak werde Saudi-Arabien angreifen 431
Der Krieg am Golf: Völkermord im Namen der UNO 438
Washingtons verdeckter nuklearer Krieg 442

Kapitel 14
Somalia: Ein bißchen humanitäre Intervention ›The American Way‹ (1993-1994) 445

Kapitel 15
Jugoslawien: Humanitäre Intervention Teil II oder: die verheimlichte Rolle der USA bei der Zerstückelung eines Staates 452
Die USA beherrschen die Region durch Wirtschaftssanktionen 467

Kapitel 16
Irak Teil 11 oder: Wer besitzt Waffen der Massenvernichtung? 470

Nachwort
Ziel erreicht, globale Weltherrschaft der USA? 486

Nachtrag
Der Kosovo-Krieg als Komplott. Humanistische Hegemonie? 498
Das Racak-Massaker - eine bewußte Eskalation zum richtigen Zeitpunkt 500
Das Diktat von Rambouillet 506
Ziele der Machtelite vor und nach dem Kosvovo-Krieg 508
Nachwirkungen des Kosovo-Krieges 510

Anhang I
Amerikanische militärische Interventionen und Kriege seit Gründung der USA 514
Amerikanische Kriege, militärische Interventionen und CIA-Operationen seit 1945 528

Anhang II
Attentatskomplotte der US-Regierung 539

Anhang III
US-Atomwaffenpolitik 545

Anmerkungen 548

Kommentiertes Literaturverzeichnis 582

Personenverzeichnis 611

Über den Autor:

MANSUR U. KHAN, geboren 1965 in Kaiserslautern, interessierte sich schon sehr früh für Geschichte. Besuch der University of Maryland (Diplom in Politikwissenschaften und Volkswirtschaftslehre) und der Boston University (MA im Fach ›Internationale Beziehungen‹). Zur Zeit arbeitet er an einer Dissertation über den Zweiten Golfkrieg. Veröffentlichungen: Das Kosovo-Komplott, 2001; Das Irak-Komplott.

Energie voor Europa: het belang van goede banden met Rusland en Iran

EnergieHet internationale grootkapitaal is ambitieus. Het wil zoveel als mogelijk haar macht uitbreiden. Elkeen die in de weg staat, moet “geneutraliseerd” worden . Na pogingen in Servië, Georgië, Oekraïne, Kirgizië, Oezbekistan, Irak en anderen is nu Iran aan de beurt. Het gebruikte trukje is eenvoudig. Ofwel organiseert de CIA en aanverwante organisaties door aanvoer van letterlijk hele kisten vol dollars “spontane betogingen”, ofwel bombardeert men het land en zijn bevolking.

In het Midden-Oosten bevinden zich een paar landjes die niet zwichten voor de duivelse wellustige gulzigheid van het internationale grootkapitaal. Palestina en Syrië zijn bij ons even bekend als Iran.

De opkomst en groei van de BRIC-landen (Brazilië, Rusland, India en China) maken het leven van de Amerikaanse economische bovenlaag zuur. Heel wat olie- en gasreserves liggen in landen die de VS beschouwen als “kwaadaardig”.

De vraag naar olie en gas neemt wereldwijd toe. De energieproductie concentreert zich meer en meer op landen met grote reserves zoals Rusland, het Midden-Oosten, Iran, Venezuela, enzovoort. De grootste wereldeconomieën worden meer en meer afhankelijk van energie-invoer uit deze landen. De importafhankelijkheid stijgt tot boven de 80% voor de VS, de EU-landen, China en India. Net als de andere veelverbruikers Japan en Zuid-Korea zullen de Europese landen – uitgezonderd Rusland - zo goed als volledig afhankelijk worden van invoer. Met andere woorden : de importafhankelijkheid van 80% zal nog toenemen naar een getal dat zich niet ver van de 100% bevindt. Dit is een voor ons uitermate zwakke positie. Een ietsje meer Europese actie zou meer dan welkom zijn. Het valt op dat Europa er door middel van de alles verlammende Europese Unie passief bij staat.  

Er zijn een paar belangrijke geografische aspecten waar we rekening moeten mee houden : met Europa als continent (omdat wij nu eenmaal hier wonen); met de energieleveranciers en met energiecorridors (transport van energie). De belangrijkste vraag voor ons luidt : wie levert ons de nodige energie en langs welke wegen wordt deze tot bij ons gebracht ? De Europese landen zijn het aan zichzelf verplicht om het eigen belang voorop te stellen. Maar het gebeurt niet.

Iran en de Straat van Hormuz

Iran is net als Rusland een belangrijke energieleverancier.  Het land is echter totaal omsingels door VS-gezinde regeringen en de daarbijhorende Amerikaanse troepen zoals Saoudi-Arabië, Irak (waar de VS nu de door hun gebrachte chaos misbruiken om er aan de macht te zijn), Pakistan en het chaotische Afghanistan. Iets verder bevindt zich het oorlogszuchtige Israël. Rusland-Iran

Belangrijk voor olieuitvoer is de Straat van Hormuz. Deze 21 kilometer brede watercorridor verbindt de Perzische Golf (gelegen aan de zuidkust van Iran) met de Indische Oceaan.  Aan de andere kant van de Perzische golf liggen Saoudi-Arabië, de Verenigde Arabische Emiraten en in het verlengde van de Perzische Golf, de Golf van Oman, bevindt zich het Sultanaat Oman. In de geopolitiek wordt het belang van waterwegen nooit onderschat. De Straat van Hormuz is één van de drukst bevaarde waterwegen. Dagelijks passeren er 17 miljoen vaten olie en 31 miljoen ton vloeibaar gas. De productievolumes van de VS, Europa, Rusland en Azië zullen met de jaren afnemen waardoor de productie in het Midden-Oosten aan belang zal toenemen. Europese landen kunnen zich op deze veranderende situatie beter goed voorbereiden. Het Internationaal Energie Agentschap (IEA) voorspelt dat het olievervoer door de Straat van Hormuz  zal verdubbelen. Men schat dat er dagelijks spoedig 35 miljoen vaten per dag zullen passeren. Ook het gasvervoer zal er enorm toenemen. De Straat van Hormuz wint zienderogen aan belang als energiecorridor van de wereldeconomie. De goede verstaander begrijpt waarom de VS met alle macht deze regio helemaal in handen willen hebben en waarom ze niet opgezet zijn met het “lastige” Iran. De VS importeren via deze Straat dagelijks 2,5 miljoen vaten olie. De regio wordt voor een groot deel door de VS gecontroleerd. Zij beschouwen Iran als een “gevaar”. Iran bevindt zich in een perfecte strategische positie om er de doorgang van olie en gas te bedreigen. Iraanse leiders hebben al gedreigd de olietransporten te verhinderen indien het land wordt aangevallen. Israël zal een zware verantwoordelijkheid op zich nemen indien het zelf Iran aanvalt of de aanval aan de VS-troepen overlaat (via de almachtige Israel-lobby in de VS). De gevolgen van een aanval op Iran zullen het transport en de de prijs van de olie niet in het voordeel van de Europese consument doen evolueren.

Ook de Chinezen beschouwen de Amerikaanse dominantie van de Straat als een bedreiging. In dit kader werden er al contracten afgesloten met Abu Dhabi om de Straat van Hormuz te omzeilen en olie via pijpleidingen naar China te brengen. Hoofdaannemers zijn twee dochterfirma’s van het Chinese staatsbedrijf CNPC.

Oekraïne en de Zwarte Zee

De gasproductie neemt in Europa zienderogen af terwijl de vraag toeneemt. De aanvoer van gas naar Europa gebeurt hoofdzakelijk door pijpleidingen. Zuid-Europa wordt bevooraad via Noord-Afrika, Trinidad-Tobago en het Midden-Oosten. Noord-west Europa krijgt gas van Noorwegen en Rusland. Oost-Europa is helemaal afhankelijk van Russische aanvoer.

Geheel Europa is nu al voor 25% afhankelijk van Russisch gas. Hiervan komt 80% binnen via de Oekraïnse corridor en 20% via Wit-Rusland. De grote afhankelijkheid van de Oekraïnse corridor veroorzaakte veel ongemak bij de Europese landen en bij Rusland omdat het land tijdens de pro-westerse periode de pijpleidingen liet verrotten. Hierdoor vermindert de doorvoer van gas jaarlijks aanzienlijk. De winsten op transitvergoedingen verdwenen veelal in diepe zakken terwijl er zo goed als geen onderhoud werd gedaan. Het is in het belang van alle  partijen (West-Europa, Oekraïne en Rusland) dat de huidige nieuwe regering onder Janoekovitsj  orde schept, de corruptie aanpakt, en mee kan bijdragen aan het bevorderen van goede relaties tussen Rusland, Oekraïne en de Europese landen.

De Europese landen en Rusland waren tot 2004 accoord dat er een Baltische pijpleiding van Rusland naar Duitsland moest komen. Deze zou gewoon door de Baltische Zee lopen. Nu heeft Europa geen zin meer omdat de Baltische landen en Polen dit plots niet meer zien zitten. De Baltische landen en Polen hebben een pattent op  “Russen pesten”.  Zij vrezen dat ze met de komst van de pijpleiding door zee niet meer over een “pest- en verhindermogelijkheden” beschikken. Ook vrezen ze vele transitinkomsten te missen. Een onbegrijpelijk anti-Russisch gedrag gezien deze landen extreem afhankelijk zijn van Russische energie. 

Om de problematische Oekraïnse corridor te omzeilen werken Russen en Italianen aan een nieuwe pijpleiding via de Zwarte Zee en Turkije. De Zwarte Zee is heel belangrijk voor Rusland. Het voert langs daar heel veel olie uit komende vanuit het Russische binnenland en Kaspische Zee. Deze pijpleiding vormt zware concurrentie voor de Nabucco-pijpleiding, die ooit bedoeld was om Iraans gas naar Europa te brengen. Ondanks het gegeven dat deze pijpleiding een verbinding legt tussen Iran en Azerbeidjan enerzijds en West-Europa anderzijds, hebben de VS de aanleg van deze lijn actief gesteund. Als dat geen bemoeienis is in onze zaken ! Gezien Iran niet zomaar naar de Atlantische pijpen danst, wilde men zich in het Atlantische kamp in andere Kaspische landen bevoorraden zoals Turkmenistanen Azerbeidjan. Maar Turkmeens gas wordt voornamelijk door de Russen opgekocht. Een deel dient voor de Russische markt, een ander deel(tje) wordt doorverkocht aan de rest van Europa.  De Europese landen strijden dus in twee blokken – Rusland tegenover de rest van Europa - om Kaspische energie. Intussen heeft ook China zijn geopolitieke belangen en plannen in de Kaspische regio laten zien.

De corridor van Xinjiang

De economische bonzen hebben allen hun oog laten vallen op Centraal-Azië. Japan had na de val van de Sovjet-Unie sterke ambities in die regio, ambities die het moest opbergen wegens politieke hinderpalen. China’s vraag naar meer en meer energie leidde naar het opdrogen van Chinese energietransporten naar Japan.

Centraal-Aziatische grondstoffen dragen bij aan de verdere ontwikkeling van Oost-Azië. Chinese energiebedrijven trachten de energierijke Chinese regio Xinjiang te integreren met de omgeving. Sinds 2006 stroomt er olie van Kazachtstan naar China. Deze pijleidingen zullen door getrokken worden naar de olierijke Kaspische Zee-regio. China sloot ondertussen overeenkosten met Oezbekistan, Turkmenistan en Kazachstan. Verder hebben de Russen een plan om gas uit West-Siberië over het Altajgebergte naar Xinjiang te voeren.  De Russen hebben steeds een grote voorkeur gehad om met Europa zaken te doen, maar de EU heeft onder Amerikaanse druk Ruslands uitgestoken hand steeds geweigerd. De Russen zijn niet van gisteren en besluiten dan maar om zich op hun eigen achtertuin te wenden : Centraal-Azië en China. Dit scenario komt sterk overeen met wat het Amerikaanse grootkapitaal wenst : Rusland weghouden van de rest van Europa en verder richting Azië wegdringen.

Hoewel Xinjiang zelf 25 miljoen ton olie en 16 miljoen ton gas produceert, volstaat dit niet om de energienoden van de energieverslindende Chinese kust te bevredigen. Als energiecorridor naar Centraal-Azië en Rusland is Xinjiang in Noord-West China uitermate belangrijk.  De grens met Pakistan neemt ook aan belang toe. De Chinezen hebben al miljarden geïnversteerd in de Pakistaanse haven Gwadar, gelegen aan de Arabische Zee. Wie de kaart bekijkt, ziet dat de haven op amper 400 kilometer van de Straat van Hormuz ligt . De haven biedt toegang tot de Perzische Golf en de Zee van Oman. Midden-Oosterse en Afrikaanse energietransporten worden met dit strategisch punt enorm ingekort. Nu wordt er nog veel geïmporteerd via de Straat van Malakka. De Straat van Malakka is de belangrijkste route tussen de Indische Oceaan en de Stille Oceaan. Hier worden alle belangrijke Aziatische economieën (India, China, Japan, Zuid-Korea en Taiwan) met elkaar verbonden. Er varen jaarlijks meer dan 50.000 schepen doorheen. Men kan makkelijk begrijpen dat China deze drukke en voor hen lange route wil inkorten. Daarbij komt de moeilijkheid dat de Straat niet diep genoeg is – amper 25 meter -  om de zwaarste olietankers door te laten.

Het Panamakanaal

Het Panamakanaal is zeer belangrijk en hoofdzakelijk aangelegd voor de Amerikaanse economie. Het werd in 1914 aangelegd om de route tussen New York en San Francisco de helft korter te maken. Vandaag zien we dat het Panamakanaal een belangrijke energiecorridor vormt tussen Latijns-Amerika en Oost-Azië. Hugo Chavez, president van Venezuela en groot tegenstander van de VS, beschouwt het kanaal als primordiaal voor de ontwikkeling van de energisector van zijn land. Venezuela beschikt over zware olie en bevat potentieel veel olievelden. Het kan mettertijd de belangrijkste olieleverancier van de wereld worden. Chavez heeft terecht de hele energiesector genationaliseerd. De opbrengsten moeten aan het hele volk ten goede komen en niet aan enkelen, zoals bijvoorbeeld in de VS en in Rusland. Chinese en Russische bedrijven vervangen er de Amerikaanse. China importeert nu al duizenden tonnen olie uit Venezuela en wil het aantal opdrijven. Ook Japan heeft zijn zinnen op de Venezuelaanse olie gezet. Alle Latijns-Amerikaanse olie richting Azië wordt langs het Panamakanaal vervoerd. In 1999 droegen de VS de eigendomsrechten over het kanaal over aan Panama. Het bedrijf Hutchinson-Whampoa van de Hong Kong-Chinese oligarch Li Ka-Shing kocht zich een controlerend belang in waarmee hij meer specifiek beide kanten van het kanaal controleert. Hiermee zijn de Chinese belangen veilig gesteld.

De VS zijn wereldmijd oppermachtig. Maar er groeit concurrentie. Rusland kan steeds beter om met zijn energieproductie en de transitzones. China en India staan aan de deur te kloppen om in de hoogste afdeling mee te dingen naar de kampioenstitel.

Besluit :

China heeft begrepen wat de Europese landen niet willen begrijpen : het opkomen zonder limieten voor het eigen belang. Iran is het enige niet door de VS gedomineerd land in de olierijke Kaspische regio. De Chinezen weten dit en handelen er naar. De vandaag zeer passieve Europese landen staan voor de keuze : of blijven meeheulen met de VS, die ons al 65 jaar bezetten, ons Kosovo aan de hand heeft gedaan en Turkije aan ons been willen lappen, ofwel accoorden sluiten met vrije landen zoals Rusland, Iran en Venzuela. In het kader van een remigratiepolitiek is het trouwens steeds goed om met bepaalde landen goede banden te hebben.

De Europese landen hebben de mogelijkheid om wereldwijd een rol van belang te spelen. Om een rol van belang te spelen moet men eerst en vooral binnenlands stevig op de benen staan. De Europese Unie is een nefaste contructie die best wordt opgeheven. In de plaats kan een verbond (overlegorgaan) komen van vrije landen en volkeren. De EU is één van de verlengstukken van de NAVO, die op zijn beurt de militaire arm is van het internationale grootkapitaal. De NAVO strijdt niet voor een rechtvaardige wereld – want dan zouden ze Israël moeten aanvallen – maar voor de economische belangen van een bepaalde economische kaste.

De Lage Landen zijn volledig importafhankelijk wat betreft primordiale levensbehoeften : voedsel en energie. Onze landbouw wordt doelbewust ten voordele van Amerikaanse genetisch gemanipuleerde import vernietigd. Energie uit fossiele brandstoffen hebben we opgegeven. Onze Europese politici hebben ons lot verbonden aan dat van de goede wil van de VS. De VS hebben echter een eigen politieke agenda : Europa zo veel mogelijk verzwakken. Zij beschouwen ons nog steeds als een gevaarlijke potentiële concurrent.

In afwachting van de ontbinding van de Europese Unie (als instituut) en de oprichting van een Europees overlegorgaan, kunnen de lage Landen best nu al uit de EU stappen. Dan kunnen we zelf vrij en ongebonden akkoorden sluiten met Rusland, Iran, Venezuela en andere belangrijke geopolitieke gebieden en landen.

Kris Roman
N-SA coördinator Buitenlandse Contacten

N-SA coördinator geopolitieke denktank "Euro-Rus"

Comment s'agencera l'archipel-monde? Hypothèses au seuil des années 1990

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

 

Comment s'agencera l'archipel-monde?

Hypothèses au seuil des années 1990

 

Robert STEUCKERS

Extrait mis à jour d'une conférence prononcée à la tribune du Cercle Kléber, animé par Pierre Bérard à Strasbourg en novembre 1991

 

Devant la fin de la bipolarisation et le morcellement du bloc oriental/communiste, le monde semble mûr, au début des années 90, pour prendre la forme d'un “archipel”. Michel Foucher, géopolitologue français, forge à ce moment-là, dans l'euphorie de la chute du Mur de Berlin et de la réunification allemande, le concept d'“archipel-monde”. La planète se scinde en ensembles distincts, mais fortement interdépendants. C'est précisément cette notion d'interdépendance qui fera la différence entre les pratiques qu'initieront les composantes de cet archipel-monde, d'une part, et ce qu'ont suscité les visions autarciques du passé (les Pan-Ideen de l'école de Haushofer).

 

Chez Michel Foucher, la prise en compte de cette interdépendance peut faire penser à l'éclosion d'une économie-monde, d'un grand marché global et unique. Tel n'est pourtant pas le cas: en dépit de l'interdépendance économique, la pluralité sera maintenue au XXIième siècle, pense Foucher. Mais sous quelle forme? Sous la forme de regroupements régionaux volontaires et non plus autoritaires à la mode soviétique ou coercitif comme sous la férule des armées allemande et japonaise en Europe et dans la “Sphère de co-prospérité est-asiatique”. Pour Foucher, l'Union du Maghreb, la zone baltique, la zone adriatique, l'ASEAN (Asie du Sud-Est), l'ALENA (Mexique, USA, Canada) sont des ensembles volontaires de cette nature. Ils apportent ponctuellement satisfaction et prospérité aux citoyens qui vivent en leur sein.

 

Toujours selon Foucher, trois grands centres  —Washington, Tokyo et Bruxelles—  se profileront, sans qu'il n'y ait plus une opposition Est/Ouest ou Nord/Sud, mais une dispersion généralisée des grands centres de décision, ne permettant plus aucun antagonisme binaire. En dépit de leur volonté de rester différents et de conserver leur autonomie, les trois centres imposeront une globalité croissante des règles, tout en respectant les volontés d'autonomie. Il s'agira de conjuguer ouverture et identité. La logique de ces regroupements ne sera plus une logique militaire, comme celle qui régentait l'idéologie du camp retranché brejnévien, ni même une logique exclusivement économique, tendance que l'on a trop souvent dû déplorer dans la construction européenne. Ce constat, un peu amer, ne signifie pas que nous postulons une évacuation de l'économie, celle-ci gardant tout son poids, mais que nous espérons un retour offensif du culturel, qui servira de ciment et de levain à ces ensembles pluriels.

 

Pour Zaki Laïdi, chercheur au CNRS, auteur notamment de L'URSS vue du Tiers-Monde, paru chez l'éditeur Karthala, a analysé les carences de la “grammaire léniniste” exportée en Afrique par les coopérants de l'ère brejnévienne. Laïdi nous demande d'imaginer cinq scénarios pour une multipolarité fonctionnante, c'est-à-dire des combinaisons régulatives circonstancielles, toujours temporaires:

1) Une alliance Russie/Etats-Unis, avec deux protagonistes majeurs habitués à la pratique du leadership. Ils possèdent tous deux de fortes armées mais ont pour faiblesses, l'un, un déficit pharamineux, l'autre, un technological gap problématique.

2) Une domination européenne sur le commerce mondial, assorti d'une aide à l'Est. La faiblesse de l'Europe reste la faiblesse de sa défense.

3) Une alliance Japon/Etats-Unis, garantissant la sécurité asiatique, assurant aux Etats-Unis un financement constant venu du Japon, permettant un leadership sur le commerce mondial.

4) L'avènement de la triade Japon/Etats-Unis/Europe.

5) L'avènement d'un “Quadrilatère Nord”, impliquant une alliance des Etats-Unis, du Japon, de l'Europe et de la Russie.

 

Ensuite Zaki Laïdi pose la question: quelles seront les valeurs fédérantes de ces ensembles? La fragmentation, l'archipélisation, induisent une dispersion du processus de fabrication des valeurs. Autant de valeurs, autant de stratégies vitales. On perçoit tout de suite le rôle-clef du combat culturel dans l'optique de Laïdi, alors que d'aucuns voulaient l'évacuer pour poursuivre de vaines chimères politiciennes ou pour mettre seulement les règles économiques à l'avant-plan ou pour hisser des slogans moralisants sans profondeur, tout de raideur, à la place des cultures cimentantes et liantes, dont la plasticité permet souplesse et réadaptations, contrairement à la rigidité des codes moralisants. Zaki Laïdi voit dans les identités des matrices fécondes, permettant sans cesse des jeux complexes de préservations et de renouveaux, en dépit des glaces idéologiques, des idéologies froides (pour paraphraser Papaioannou).

 

Mais les valeurs américaines sont toujours dominantes. Toutefois leur socle s'affaiblit: il est contesté par une gauche communautarienne et une droite qui veut imposer envers et contre tous les pragmatismes matérialistes et calculateurs, sourds aux valeurs, l'éthique de la moral majority. Les valeurs ou plutôt les contre-valeurs américaines sont curieusement plus vivaces ou virulentes dans leurs zones d'exportation, notamment en France, où les banlieues sont ravagées par le déracinement des populations, par la disparition des grands clivages idéologiques qui font que les profils politiques européens traditionnels (catholique, communiste, etc.) sont de moins en moins distincts. La réactivation des identités permettrait un travail de substitution et de reconquête. Aux valeurs américaines dominantes se substitueraient des valeurs diversifiées, permettant l'élaboration de modèles politiques divers, reposant sur des mécanismes acceptant et rentabilisant les différences. En économie, la diversification des modèles culturels et des modèles de vie enclencherait un processus de diversification des produits donc de réactivation de l'économie.

 

Deuxième question soulevée à l'aube des années 90 et toujours sans réponse: faut-il reprendre le rôle des deux superpuissances du temps de la guerre froide? Le tandem euro-japonais pourrait-il prendre le relais? Zbigniew Brzezinski souligne les faiblesses du Japon et de l'Europe. Cette dernière, dit-il, souffre surtout de son hétérogénéité: les grands courants idéologiques ont gelé des identités mais n'ont pas pour autant susciter un sens du destin de l'Europe. Exemples: 1) L'Internationale socialiste est elle-même hétérogène: on constate en son sein une grande différence d'approche entre ceux qui étaient neutralistes, notamment en Allemagne et en Italie, et ceux qui étaient atlantistes, comme la plupart des Français. 2) Dans le PPE (Parti Populaire Européen), regroupant les formations démocrates-chrétiennes, l'aile conservatrice ne dit pas la même chose que les ailes “progressistes”, et le poids du catholicisme dans ce PPE, en dépit de la participation de protestants hollandais et allemands, maintient un clivage confessionnel empêchant l'envol d'une vision européenne commune, comparable à celle qui faisait la force de l'idéal écouménique catholique juste avant la Réforme. Le carnage yougoslave a bien montré que la césure entre Rome et Byzance ne s'est nullement cicatrisée.

 

Pour Brzezinski, la faiblesse du Japon tient au fait qu'il veut garder ses traditions en dépit des défis de la modernité technologique. Le politologue américain opte là pour une analyse diamétralement opposée à celle de Zaki Laïdi.

 

Autre voix, celle de l'Indien Muckund Dubey. Celui-ci constate que l'atout militaire, propre des Etats-Unis et de la Russie, est économiquement affaiblissant (son analyse rejoint en cela celle du Prof. Paul Kennedy, in The Rise and Fall of the Great Powers).  Face à ces deux puissances alourdies par leur fardeau militaire, l'Allemagne et le Japon n'ont pas intérêt à s'imposer dans le monde de la même façon que Washington et Moscou du temps de la guerre froide et de sa logique binaire. Leur politique doit dès lors consister à arrondir les angles, à se rendre indispensables pour effacer les aspérités de la bipolarité. L'Espagnol Juan Antonio Yañez partage peu ou prou la même opinion: il n'y a plus de dyarchie, ni remplacement d'une dyarchie par une autre. Il n'y a pas non plus d'oligarchie des grandes puissances, en dépit du G7, mais on voit poindre à l'horizon d'autres formes de coopération, sans exclusion.

 

François Heisbourg, directeur de l'“International Institute for Strategic Studies” à Londres, la multipolarité et l'archipelisation du monde contiennent un terrible risque, celui de voir se multiplier les conflits régionaux, comme par exemple celui qui oppose l'Inde au Pakistan, où les adversaires pourraient recourir à des armes nucléaires. Tout dérapage dans un éventuel conflit indo-pakistanais pourrait déclencher une succession en chaîne de conflits nucléaires locaux avec risques écologiques globaux. Dans l'optique américaine et britannique, que défend Heisbourg, c'est la volonté d'éliminer un risque de cette nature qui a justifié l'intervention dans le Golfe en 90-91. Mais, si le risque de conflits nucléaires localisés est sans doute réel, cela ne signifie pas, à nos yeux, qu'il faille perpétuer la stratégie anglo-saxonne de la balkanisation des grandes aires culturelles, car celle-ci aussi est très bellogène.

 

La vraie question qu'il conviendrait de poser est la suivante: qui restaurera l'équivalent de la pax turcica d'avant 1918/19 au Proche et au Moyen-Orient? La guerre Iran-Irak, le conflit palestinien, le risque d'une guerre de l'eau, le risque de voir les pétro-monarchies déstabilisées, la misère du peuple irakien après la défaite devant les armées onusiennes, montre clairement qu'il faut dans cette région une puissance gardienne de l'ordre, tablant sur une population suffisamment nombreuse et homogène culturellement, capable d'agir à la satisfaction du plus grand nombre. La Turquie, à la condition qu'elle abandonne ses prétentions à vouloir entrer dans l'Europe, l'Irak (représentatif du pôle arabe) et l'Iran sont autant de candidats potentiels. L'axe d'expansion interne de ce nouveau Moyen-Orient doit être Nord-Sud, et l'Europe apportera son soutien dans cette seule condition.

 

Francisco Rezek, ministre des affaires étrangères du Brésil, reprend à son compte l'idée gorbatchévienne de “maison commune”. Il estime que l'idée de “maison commune” exclut toute pratique de “verticalité” entre les Etats, donc tout hégémonisme. L'idée gorbatchévienne de “maison commune” a suggéré l'“horizontalité” des relations inter-étatiques et réitéré un projet formulé lors de la visite de De Gaulle en URSS, qui avait irrité les milieux atlantistes. Rezek voit la juxtaposition sur la planète de trois “maisons communes”, de trois aires économico-civilisationnelles: l'aire américaine (de l'Alaska à la Terre de Feu), l'aire euro-arabe à deux vitesses, l'une au nord de la Méditerranée, l'autre au Sud, du Maroc au Koweit; enfin, l'aire asiatique-orientale, reprenant plus ou moins l'idée japonaise d'une zone de co-prospérité est-asiatique.

 

Mohamed Sahnoun, conseiller diplomatique du Président Chadli (et aujourd'hui négociateur de l'ONU pour la région des Grands Lacs en Afrique), parie pour une logique eurafricaine, qui aura en face d'elle la tentative américaine de s'implanter dans le Golfe Persique et de contrôler la Corne de l'Afrique. Cette dynamique eurafricaine, plutôt euro-arabe, est appelée à dépasser le nationalisme, en tant que raisonnement politique appliqué à des espaces devenus aujourd'hui trop étroit, pour favoriser le “culturalisme”, c'est-à-dire un patriotisme animant de vastes aires culturelles. L'avènement de ces Kulturkreise  (pour reprendre le vocabulaire du sociologie darwinien du XIXième siècle, Ratzenhofer) ou de ces Völkergemeinschaften (Constantin Frantz) ou de ces Großräume (Schmitt, Perroux, Haushofer) signale un processus d'élargissement des horizons qui n'induit pas nécessairement un déracinement. La culture d'un peuple ou plutôt d'une communauté de peuples prend le pas sur l'idéologie abstraite, universaliste dans ses intentions. La culture reconquiert le terrain que lui avait enlevé l'idéologie. L'organique, chassé par le faux pragmatisme, les mécanicismes méthodologiques, par les pratiques économicistes, revient au galop. Le mutilation mentale que constituait l'adhésion à une idéologie (Zinoviev) s'estompe, les valeurs redeviennent des refuges stabilisants. Pour restaurer ces valeurs, il faut agir dans la sphère culturelle. Il n'y aura pas nécessairement disparition pure et simple des Etats-Nations: les Etats-Nations qui acceptent le retour du culturel, qui acceptent le principe d'une imbrication dans une vaste sphère culturelle se fortifieront; les Etats-Nations qui refuseront ce primat du culturel imploseront ou exploseront.

 

Pour Mohamed Sahnoun, les relations Nord/Sud seront pendant longtemps ponctuées de conflits, en dépit de la nécessité de fédérer les énergies. Ces conflits seront d'ordre racial (à cause de l'explosion démographique, notamment dans le Maghreb, qui pousse à l'émigration dans des zones ethniquement différentes) et des reliquats de l'humiliation coloniale. Mais le défi écologique, les pollutions dramatiques, la disparition d'espèces animales, et surtout la déforestation de l'Amazonie et de l'Afrique, contraindront Nord et Sud à coopérer à l'échelle globale.

 

Moriyuki Motono, Conseiller de Nakasone, projette cette idée d'un futur “culturalisme”, d'une juxtaposition d'aires culturelles, surtout sur le grand bloc continental eurasiatique, où une Europe de l'Ouest (catholique et protestante), serait la voisine d'une Russie/CEI et partagerait avec elle une sorte de plage d'intersection slave-uniate-grecque-orthodoxe- roumaine; toutes deux seraient les voisines d'un vaste Islamistan, avec la Méditerrannée et l'ancienne Asie centrale soviétique comme zones d'intersection. Enfin, l'Hindoustan indien serait le pivot central de cette dynamique plurielle entre aires culturelles différentes, sur les rives de l'Océan Indien. A l'Est renaîtrait la sphère de co-prospérité est-asiatique.

 

L'intérêt de la vision de Moriyuki Motono réside dans le constat qu'il y aura des plages d'intersection entre les aires culturelles de demain, et qu'elles pourront être tout autant sources de conflit que zones de transition et facteurs d'apaisement. Motono reprend là la vieille idée géopolitique anglo-américaine des lignes de fracture en lisière du noyau continental eurasien et sur les rives océaniques; cette idée est issue d'une interprétation du rôle des “rimlands” entourant le “heartland” sibérien/centre-asiatique. Mais Motono ne prévoit aucune intervention américaine dans ces cinq zones culturelles: son Amérique est repliée sur la Grande Ile s'étendant de l'Alaska à la Terre de Feu, elle prend enfin la Doctrine de Monroe au sérieux. Elle est définitivement isolationniste. Motono précise l'idée de culturalisme par rapport à Sahnoun, rejoint en quelque sorte Rezek en n'évoquant aucune verticalité. L'idéal serait sans doute la présence d'un hegemon dans chacune de ces aires, d'une puissance-guide qui aurait la sagesse de travailler inlassablement à l'horizontalisation des relations au sein de sa propre aire et entre les différentes aires.

 

Pour Paul Lamy, qui a été directeur de cabinet de Jacques Delors à la Commission des Communautés Européennes, la pluralité d'aires culturelles implique une instabilité, une effervescence, qui pourrait à terme s'avérer dangereuse. Il y a donc nécessité d'une régulation, d'un management  de l'interdépendance. L'intérêt premier de cette vision de Lamy, c'est qu'elle n'est pas iréniste; il reste quelque peu pessimiste et appelle à la vigilance. Lamy n'est pas un adepte de l'éthique de la conviction, qui croit naïvement à cette “paix perpétuelle” dont ont toujours rêvé les utopistes.

 

Cet ensemble de réflexions éparses, parfois contradictoires, nous conduit à penser le monde comme divisé entre un “Nouveau Monde” (les Amériques) et un “Ancien Monde” (les vieilles aires de civilisation toujours traversées par des dynamismes féconds). Cet “Ancien Monde” possède un appendice africain (ne représentant hélas pour lui que 2,5% des flux transactionnels de la planète) et un appendice australien-océanique, tiraillé entre une Asie en pleine croissance économique et une Amérique par solidarité anglo-saxonne.

 

Le “Nouveau Monde” est un monde conquis, l'“Ancien Monde”, un archipel d'aires matricielles, autochtones, autant de sols d'où sont jaillies des civilisations originelles. Le “Nouveau Monde”, de par sa nouveauté et sa qualité de conquête, permet davantage d'expérimentations politiques, de fonder de nouvelles communautés politico-religieuses comme le firent les Founding Fathers  puritains, d'expérimenter à l'ère moderne-techniciste plus de projets pré-fabriqués, sans tenir compte des impératifs et des devoirs liés à tout “indigénisme”. L'“Ancien Monde” est la patrie des identités, des cultures telles que l'entrevoit le culturalisme de Sahnoun et Laïdi.

Dans le “Nouveau Monde”, la logique peut être éventuellement unifiante, vu l'élimination des indigénats et des résistances qu'ils impliquent. Dans l'“Ancien Monde”, l'homme politique, le décideur, doit être capable de manipuler un arsenal très diversifié de logiques, d'affronter la pluralité, de tenir compte de niveaux multiples. Le type de logique à utiliser dans l'“Ancien Monde” est celui de la bio-cybernétique, où l'on tient compte des “rétro-actions”, des reculs éventuels, des stratégies vitales en apparence illogiques, etc. Le modèle économique du “Nouveau Monde” est celui du libéralisme absolu selon le modèle anglo-saxon défini par Michel Albert dans Capitalisme contre capitalisme. Les modèles économiques de l'“Ancien Monde” doivent être autant d'adaptations spatio-temporelles de ce capitalisme moins absolu qu'Albert définit comme “capitalisme rhénan”. Face à l'économie libérale absolue du “Nouveau Monde”, le “supplément d'âme” est fourni par l'“idéologie californienne”, même si aujourd'hui, le retour aux valeurs cimentantes est une réalité incontournable  —et admirable—  aux Etats-Unis. Dans l'“Ancien Monde”, valeurs cimentantes et (ré)armements spirituels sont fournis  —ou devraient être fournis—  par les traditions religieuses, les cultures traditionnelles, les idéaux du “sérieux de l'existence”.

 

Dans ce concert global, l'Europe, elle aussi, est multiplicité car elle compte trois espaces latins (ou plus), un espace orthodoxe, un espace scandinave, un espace britanniques (où s'affrontent celticité irlandaise, spécificités galloise et écossaise, un fond de “merry old England”, une modernité tout à la fois impériale et marchande), un espace germanique, héritier qu'il le veuille ou non du “Saint-Empire”. Entre certains de ces espaces, nous assistons à l'émergence de coopérations inter-régionales chevauchantes, comme Sarlorlux, Alpe-Adria, etc., préfigurant une Europe unie par un consensus civilisationnel, un “patriotisme de civilisation”, mais conservant ces innombrables facettes, réalités, modes de vie, etc. Il y a en Europe imbrication générale de toutes les matrices culturelles, sans pour autant qu'il y ait simultanément homogénéisation et panmixie. Les aires culturelles d'Europe demeurent mais se fructifient mutuellement, empruntent chez les voisins des linéaments utiles, en rejettent d'autres, enclenchant un processus culturel très effervescent que le poète ou le philosophe qualifieront tour à tour de “kaléidoscopique” ou de “rhizomique” (Deleuze). Des réseaux innombrables traversent les frontières en Europe: ils sont culturels, idéologiques, religieux, commerciaux, historiques. Aucune guerre interne au continent n'a pu les effacer, rien que les interrompre, très momentanément.

 

L'archipelisation du monde appelle aussi une réorganisation de l'Europe, une Europe capable de reconnaître et de gérer sa propre pluralité avant d'accepter et de chevaucher les pluralités d'ailleurs. C'est à ce titre que l'Europe deviendra réellement un pôle comme l'annonce Foucher, qu'elle fabriquera des valeurs originales capables de s'opposer efficacement aux valeurs matérialistes de l'idéologie californienne, comme le souhaite Laïdi, à notre époque où justement ce matérialisme californien est devenu le matérialisme le plus virulent depuis l'effondrement du grand récit soviétique. C'est à ce titre que l'Europe pourra dépasser ses anciens clivages affaiblissants, dont se réjouit Brzezinski, qu'elle se posera comme un véritable Kulturkreis, comme le souhaite Sahnoun, qu'elle deviendra une “maison commune” travaillée et animée par d'innombrables “horizontalités” fécondantes.

 

Robert STEUCKERS.

mercredi, 24 mars 2010

LEAP: les cinq séquences de la phase de dislocation géopolitique globale

LEAP : les cinq séquences de la phase de dislocation géopolitique globale

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique (LEAP), du 15 mars 2010

En cette fin de premier trimestre 2010, au moment où sur les fronts monétaires, financiers, commerciaux et stratégiques, les signes de confrontations se multiplient au niveau international, tandis que la violence du choc social de la crise se confirme au sein des grands pays et ensembles régionaux, le LEAP/Europe2020 est en mesure de fournir un premier séquençage anticipatif du déroulement de cette phase de dislocation géopolitique mondiale.

Hercule capturant Cerbère, par Hans Sebald Beham, 1545 - Cliquez sur l'image pour l'agrandir


Nous rappelons que cette phase ne peut être un prélude à une réorganisation pérenne du système international que si, d’ici le milieu de cette décennie, les conséquences de l’effondrement de l’ordre mondial hérité de la seconde guerre mondiale et de la chute du Rideau de Fer, sont pleinement tirées. Cette évolution implique, notamment, une refonte complète du système monétaire international, pour remplacer le système actuel, fondé sur le Dollar américain, par un système basé sur une devise internationale, dont la valeur dérive d’un panier des principales monnaies mondiales, pondérées par le poids respectif de leurs économies.

En publiant, l’année dernière à la même époque, un message en ce sens sur une pleine page du Financial Times, à la veille du sommet du G-20 à Londres, nous avions indiqué que la « fenêtre de tir » idéale pour une telle réforme radicale, se situait entre le printemps et l’été 2009, faute de quoi le monde s’engagerait dans la phase de dislocation géopolitique globale à la fin 2009 (1).

Cliquez sur le graphique pour l'agrandir

L’ « Anneau de Feu » des dettes souveraines – Répartition graphique des Etats, en fonction de leur dette et de leur déficit publics (en % PIB) – Source : Reuters Ecowin, 02/2010

L’échec du sommet de Copenhague en décembre 2009, qui met fin à près de deux décennies de coopération internationale dynamique sur ce sujet, sur fond de conflits croissants entre Américains et Chinois, et de division occidentale sur la question (2), est ainsi un indicateur pertinent, qui confirme cette anticipation de nos chercheurs. Les relations internationales se dégradent dans le sens d’une multiplication des tensions (zones et sujets), tandis que la capacité des Etats-Unis à jouer leur rôle d’entraînement (3), ou même tout simplement de « patron » de leurs propres clients, s’évanouit chaque mois un peu plus (4).

En cette fin de premier trimestre 2010, on peut notamment souligner :

. la dégradation régulière des relations sino-américaines (Taïwan, Tibet, Iran, parité Dollar-Yuan (5), baisse des achats de Bons du Trésor US, conflits commerciaux multiples…)
. les dissensions transatlantiques croissantes (Afghanistan (6), OTAN (7), contrats ravitailleurs US Air Force (8), climat, crise grecque…)
. la paralysie décisionnelle de Washington (9)
. l’instabilité sans répit au Moyen-Orient (10) et l’aggravation des crises potentielles Israël-Palestine et Israël-Iran
. le renforcement des logiques de blocs régionaux (Asie, Amérique latine (11) et Europe en particulier)
. la volatilité monétaire (12) et financière (13) mondiale accrue
. l’inquiétude renforcée sur les risques souverains
. la critique croissante du rôle des banques US associée à une réglementation visant à régionaliser les marchés financiers (1)
. etc.

Evolution de la rentabilité (en %) du New York Stock Exchange de 1825 à 2008 – Sources : Value Square Asset Management / Yale School of Management, 2009

Parallèlement, sur fond d’absence de reprise économique (15), les confrontations sociales se multiplient en Europe, tandis qu’aux Etats-Unis, le tissu social est purement et simplement démantelé (16). Si le premier phénomène est plus visible que le second, c’est pourtant le second qui est le plus radical. La maîtrise de l’outil de communication international par les Etats-Unis, permet de masquer les conséquences sociales de cette destruction des services publics et sociaux américains, sur fond de paupérisation accélérée de la classe moyenne du pays (17). Et cette dissimulation est rendue d’autant plus aisée que, à la différence de l’Europe, le tissu social américain est atomisé (18) : faible syndicalisation, syndicats très sectorisés sans revendication sociale générale, identification historique de la revendication sociale avec des attitudes « anti-américaines » (19)… Toujours est-il que, des deux côtés de l’Atlantique (et au Japon), les services publics (transports en commun, police, pompier…) et sociaux (santé, éducation, retraite…) sont en voie de démantèlement, quand ils ne sont pas purement et simplement fermés ; que les manifestations (20), parfois violentes, se multiplient en Europe, tandis que les actions de terrorisme domestique ou de radicalisation politique (21) sont de plus en plus nombreuses aux Etats-Unis.

En Chine, le contrôle croissant de l’Internet et des médias est, avant tout, un indicateur fiable de la nervosité accrue des dirigeants pékinois, en ce qui concerne l’état de leur opinion publique. Les manifestations sur les questions de chômage et de pauvreté continuent à se multiplier, contredisant le discours optimiste des leaders chinois sur l’état de leur économie.

En Afrique, la fréquence des coups d’Etat s’accélère depuis l’année dernière.

Et en Amérique latine, malgré des chiffres macro-économiques plutôt positifs, l’insatisfaction sociale nourrit les risques de changements de cap politique radicaux, comme on l’a vu au Chili.

Evolution de la dépense nominale (22) dans l’OCDE (en % du PNB de l’année précédente) – Source : MacroMarketMusings / David Beckworth, 11/2009

L’ensemble de ces tendances est en train de former très rapidement un « cocktail socio-politique explosif », qui conduit directement à des conflits entre composantes de la même entité géopolitique (conflits Etats fédérés/Etat fédéral aux Etats-Unis, tensions entre Etats-membres dans l’UE, entre Républiques et Fédération en Russie, entre provinces et gouvernement central en Chine), entre groupes ethniques (montée des sentiments anti-immigrés un peu partout) et recours au nationalisme national ou régional (23) pour canaliser ces tensions destructrices. L’ensemble se déroulant sur fond de paupérisation des classes moyennes aux Etats-Unis, au Japon et en Europe (en particulier au Royaume-Uni et dans les pays européens et asiatiques (24), où les ménages et les collectivités sont les plus endettés).

Dans ce contexte, le LEAP/E2020 considère que la phase de dislocation géopolitique mondiale va se dérouler selon cinq séquences temporelles, qui sont développées dans ce [numéro], à savoir :

0. Initiation de la phase de dislocation géopolitique mondiale – T4 2009 / T2 2010
1. Séquence 1 : Conflits monétaires et de chocs financiers
2. Séquence 2 : Conflits commerciaux
3. Séquence 3 : Crises souveraines
4. Séquence 4 : Crises socio-politiques
5. Séquence 5 : Crises stratégiques

Par ailleurs, dans ce numéro [...], notre équipe présente les huit pays qui lui paraissent plus dangereux que la Grèce en matière de dette souveraine, tout en présentant son analyse de l’évolution post-crise de l’économie financière, par rapport à l’économie réelle. Enfin, le LEAP/E2020 présente ses recommandations mensuelles (devises, actifs…), y compris certains critères pour une lecture plus fiable des informations, dans le contexte particulier de la phase de dislocation géopolitique mondiale.

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Notes :

(1) Joseph Stiglitz et Simon Johnson ne disent désormais pas autre chose, quand ils estiment que la crise est en train de devenir une occasion ratée de réforme du système financier mondial, qui va conduire rapidement à de nouveaux chocs. Source : USAToday, 12/03/2010

(2) Américains et Européens ont des positions diamétralement opposées sur ce sujet et l’arrivée au pouvoir de Barack Obama n’a fait que rendre plus compliqué le positionnement public des Européens (puisqu’ils se sont affirmés d’emblée « Obamaphiles »), sans changer la donne sur le fond.

(3) Même dans le domaine de la recherche, la place des Etats-Unis recule très rapidement. Ainsi, le classement mondial des meilleures institutions de recherche ne compte plus que six institutions américaines sur les quinze premières, contre quatre européennes et deux chinoises ; et aucune, dans les trois premières places. Source : Scimago Institutions Rankings 2009, 03/2009

(4) Comme l’illustre l’attitude d’Israël, qui agit dorénavant de manière presque injurieuse vis-à-vis de Washington. C’est un indicateur important, car personne mieux que les alliés les plus proches, n’est en mesure de percevoir le degré d’impuissance d’un empire. Les ennemis, ou bien les alliés récents ou éloignés, sont incapables d’une telle perception, car ils n’ont pas un accès aussi intime au pouvoir central, ni un recul historique suffisant pour pouvoir déceler une telle évolution. L’éditorial de Thomas Friedman dans le New York Times du 13/03/2010 illustre bien le désarroi des élites américaines, face à l’attitude de plus en plus désinvolte de leur allié israelien, et également l’incapacité de l’administration américaine à réagir fermement à cette désinvolture.

(5) Le ton monte considérablement sur cette question, qui devient un enjeu de pouvoir symbolique autant qu’économique, pour Pékin comme pour Washington. Sources : China Daily, 14/03/2010 ; Washington Post, 14/03/2010.

(6) Le repli probable d’un grand nombre de troupes de l’OTAN hors d’Afghanistan, en 2011, conduit ainsi la Russie et l’Inde à développer une stratégie commune, notamment avec l’Iran, pour prévenir un retour des Talibans au pouvoir ! Source : Times of India, 12/03/2010

(7) Outre la chute du gouvernement néerlandais sur la question de l’Afghanistan, c’est maintenant d’Allemagne que vient l’idée d’intégrer la Russie à l’OTAN, une bonne vieille idée russe, au prétexte que l’OTAN n’est plus pertinente dans sa forme actuelle. Source : Spiegel, 08/03/2010

(8) Les Européens sont tous très remontés, suite à la décision de Washington d’éliminer, de facto, l’offre européenne du grand contrat de renouvellement des ravitailleurs de l’US Air Force. Cette décision marque probablement la fin du mythe (en vogue en Europe) d’un marché transatlantique des armements. Washington ne laissera pas d’autres compagnies que les siennes gagner de tels grands contrats. Les Européens vont donc devoir envisager sérieusement de se fournir essentiellement, eux aussi, auprès de leur industrie de défense. Source : Financial Times, 09/03/2010

(9) Même le Los Angeles Times du 28/02/2010 se fait l’écho des inquiétudes de l’historien britannique Niall Ferguson, qui estime que l’ « empire américain » peut désormais s’effondrer du jour au lendemain, comme ce fut le cas pour l’URSS.

(10) Et le fait que l’ensemble du monde arabe est désormais fortement affecté par la crise économique mondiale, va ajouter à l’instabilité régionale chronique. Source : Awid/Pnud, 19/02/2010

(11) Le Vénézuela s’équipe ainsi d’avions de chasse chinois. Une situation de scénario de politique fiction, il y a seulement cinq ans. Source: YahooNews, 14/03/2010

(12) Comme nous l’avions anticipé dans les précédents [numéros], la « crise grecque » se dissipant, on retourne aux réalités des tendances lourdes de la crise et, comme par hasard, depuis quelques jours, on commence à voir de nouveau des analyses qui mettent en perspective la perte, par les Etats-Unis, de leur notation AAA concernant leur dette ; et la fin du statut de monnaie de réserve du Dollar. Sources : BusinessInsider/Standard & Poor’s, 12/03/2010

(13) Le graphique ci-dessous illustre la volatilité toujours plus forte qui caractérise les places financières et qui, selon le LEAP/E2020, est un indice de risque systémique majeur. Si on regarde la rentabilité du New York Stock exchange sur plus de 180 ans, on constate que les années de la décennie passée (2000-2008 et on pourrait certainement y ajouter 2009) figurent aux extrêmes des meilleurs et des pires résultats. C’est un résultat statistiquement improbable, sauf à ce que les marchés financiers, et les tendances qui les animent, soient entrés dans une phase d’incertitude radicale, détachés de l’économie réelle et de son inertie. La taille des ordres passés sur les marchés financiers mondiaux s’est ainsi réduite de 50% en cinq ans, sous l’effet de l’automatisation et des méthodes à « haute fréquence », accroissant donc leur volatilité potentielle. Source : Financial Times, 21/02/2010

(14) Le récent avertissement du Secrétaire d’Etat au Trésor US, Thimoty Geithner, concernant les risques de dérive transatlantique en matière de réglementation financière, n’est que le dernier indice de cette évolution. Source : Financial Times, 10/03/2010

(15) Dernier exemple en date, la Suède, qui pensait avoir traversé la crise, se retrouve à nouveau plongée dans la récession, au vu des très mauvais chiffres du 4° trimestre 2009. Source : SeekingAlpha, 02/03/2010

(16) Le taux de chômage US est désormais voisin de 20%, avec des pics à 40%-50% pour les classes sociales défavorisées. Pour éviter de faire face à cette réalité, les autorités américaines pratiquent, à très grande échelle, une manipulation des chiffres de la population active et de la population à la recherche d’emploi. L’article de Steven Hansen publié le 21/02/2010 sur SeekingAlpha et intitulé « Which economic world are we in ? », offre une perspective intéressante à ce sujet.

(17) Une analyse, certes radicale mais très bien documentée et assez pertinente de cette situation, est développée par David DeGraw sur Alternet du 15/02/2010.

(18) Source (y compris les commentaires) : MarketWatch, 25/02/2010

(19) C’est la suspicion du « Rouge », du « Coco », qui dormirait dans chaque syndicaliste ou manifestant pour des causes sociales.

(20) Même aux Etats-Unis, où les étudiants manifestent contre les hausses des droits d’inscription et où la population s’inquiète de la fermeture de la moitié des écoles publiques dans une ville comme Kansas City, tandis qu’à New York ce sont 62 brigades de pompiers qui vont être supprimées. Sources : New York Times, 04/03/2010 ; USAToday, 12/03/2010 ; Fire Engineering, 11/03/2010

(21) De Joe Stack aux Tea Parties, la classe moyenne américaine tend à se radicaliser très rapidement depuis la mi-2009.

(22) La dépense nominale est la valeur totale des dépenses, dans une économie non corrigée de l’inflation. C’est, en fait, la valeur de la demande totale. On constate, sur ce graphique, que la crise marque un effondrement de la demande.

(23) Le terme régional est utilisé ici au sens géopolitique, d’ensemble régional (UE, Asean…).

(24) Ainsi en Corée du Sud, l’endettement des ménages continue de s’aggraver avec la crise, tandis que les entreprises accumulent des réserves de liquidités au lieu d’investir, car elles ne croient pas à la reprise. Source : Korea Herald, 03/03/2010

LEAP Europe 2020

(Merci à SPOILER)

Los corredores bioceanicos fluvio-ferroviarios en la integracion de Suramérica

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Los corredores bioceánicos fluvio-ferroviarios en la integración de Suramérica

Alberto Buela(*)

Desde hace más de tres años en el marco del Primer Encuentro de Pensamiento Estratégico de la Patria Grande(29-3-01 en Buenos Aires) y desde el marco de pertenencia de la CGT-disidente, venimos planteando la denominada Teoría del Rombo.

Vinieron luego, el Congreso de Trabajadores Bolivarianos en Caracas (2002);  el Segundo Encuentro(2002); el Foro Social Mundial de Porto Alegre (2002); el Tercer Encuentro(2003) y múltiples congresos en el interior del país. Todos ellos con la participación de personalidades políticas, académicas y consulares de los países de América del Sur. Se realizaron además publicaciones de todo tipo para su difusión, incluso quedó plasmada en un libro Metapolítica y Filosofía (Buenos Aires, Theoría, 2002).

Todo esto para decir que cuando hablamos de la Teoría del Rombo lo estamos haciendo sobre algo medianamente conocido, estudiado y aceptado. Se denomina así porque es el pensamiento  que busca expresar una Nueva Estrategia Suramericana y que en su formulación plantea la unión de cuatro vértices: Buenos Aires, Lima, Caracas y Brasilia, lo que forma un irregular rombo.

Esta teoría busca una complementación de Mercosur más Pacto Andino a través de la consolidación de un gran espacio en América del Sur, que reúne las características de bioceánico, económicamente autocentrado, tecnológicamente complementario, políticamente confederado e interconectado entre sí mediante el aprovechamiento de los 50.000 km. de ríos navegables en su corazón interior, en su
heartland.

Corredores Bioceánicos    
 
Existen potencialmente dos tipos de corredores bioceánicos en América del Sur; los fluviales combinados con los terrestres y los únicamente terrestres.
 
Nosotros creemos, y esta es nuestra tesis, que sólo los primeros son realmente viables y económicamente plausibles.
 
Las vinculaciones hidroviales  que permiten una interconexión bioceánica son cuatro:
 
1.- El sistema Orinoco-Meta que vincula Puerto Buenaventura(Colombia) con Puerto Ordáz (Venezuela) con 1866 km. de vía fluvial y 779 km. de carretera.
 
2.- El sistema Amazonas- Putumayo que une el puerto de Belem do Pará(Brasil) con el de San Lorenzo(Ecuador) con 4535 km. de vía fluvial, 230 de carretera y 549 de ferrocarril.

3.- El sistema Amazonas-Marañón que une los puertos de Belem do Pará(Brasil) con el Chiclayo(Perú) con 4796 km. de vía fluvial y 700 Km. de carretera.
 
4.- La hidrovía Paraná- Paraguay que une los puertos de Sao Paulo(Brasil) con el puerto de Ilo en Perú con 3440 Km. de vía fluvial, vinculado al corredor vial de 570km. que une Puerto-Suarez(Bolvia)-Corumbá(Brasil) con Santa Cruz de la Sierra, que acaba de ser terminado con la cooperación de lal Unión Europea en Bolivia.

Desde Santa Cruz a Cochabamba  con  la construcción del pequeño tramo ferroviario a Aiquile, quedan unidas La Paz-Santa Cruz por vía férrea. Luego La Paz-Arica(Chile) o La Paz –Ilo(Perú).

Consideraciones geopolíticas

Es este el corredor bioceánico que nosotros, los argentinos,  debemos privilegiar por varios motivos.

En primer lugar porque fortalece uno de los ejes interiores de la Teoría del Rombo, aquel que envuelve al heartland continetal por el lado sur. Permite una circulación rápida y económica de mercadería y gente, habida cuenta que los transportes fluviales y ferroviarios son los más baratos, al poder transportar grandes volúmenes. Son los menos contaminantes y los que tienen menor impacto ambiental.

La vinculación de los puertos de Santos(Brasil) e Ilo(Perú) o eventualmente Arica(Chile) evita y elimina de plano la teoría del arco, de la vieja estrategia brasileña, muy bien aprovechada por Chile, hasta ahora.

Esta teoría del arco fue denunciada por Perón en la Escuela Superior de Guerra en una conferencia de carácter reservado en noviembre de l953 cuando afirmó: tenemos que quebrar la estrategia del arco que va de Río a Santiago y crear una nueva para América del Sur” y proponía a renglón seguido un área de unión aduanera y libre comercio entre Argentina, Brasil y Chile denominada ABC.

Hoy como denuncia el brillante trabajo de Mario Meneghini: Con el eje Chile-China, se nos quiere imponer bajo ropajes nuevos la vieja teoría del arco, que se llevaría a cabo bajo la mascarada de un Proyecto de las Regiones Centro-Cuyo, que viene a cortar a la Argentina en dos para que puedan salir los productos brasileños por el puerto chileno de Coquimbo a través del paso de Aguas Negras en la provincia de San Juan. Todo ello bajo financiación china de 250 millones de dólares.

Hay que decirlo con todas la letras. Cualquier corte horizontal de la Argentina  sólo se puede hacer por carretera vial y se haga por donde se haga, sólo beneficia exclusivamente a Chile y al comercio del sur de Brasil. Parte a la Argentina en dos dejando el Norte Grande librado a su suerte de ser siempre una gran región “del futuro”. Cuando en realidad, este Norte Grande cuenta con las mejores condiciones geoestratégicas para constituirse en un engranaje continental que alimente tanto a Brasil, Paraguay, Chile, Bolivia y Perú. Basta mirar el mapa y tomar nota detenida de distancias, accidentes geográficos y ventajas comparativos para darse cuenta que Puerto Suárez(Bolivia) y Corumbá(Brasil) dos ciudades separadas por el río Paraguay están a distancias equivalentes de La Paz, Brasilia, Sao Paulo, Asunción y Salta(Argentina), que forman entre ellas un rectángulo casi perfecto.

Nosotros defendemos y proponemos como el más beneficioso para América del Sur este corredor bioceánico mixto(marítimo, fluvial, ferro-vial) que tiene como gozne Corumbá-Puerto Suárez. En donde Argentina puede integrarse desde tanto desde Corrientes como de Salta.

El aporte de la Comunidad Económica Europea a Bolivia en la construcción del vínculo entre Puerto Suárez y Santa Cruz de la Sierra, nos está indicando una inteligencia sobre este asunto de vital importancia geoestratégica para nuestra región. Está en nosotros captarlo y redimensionarlo con un sentido propio y para beneficio nuestro. La construcción de un gran espacio autocentrado como son los 18 millones de kilómetros cuadrados suramericanos no es un chiste ni una idea baladí, es la construcción de un poder, y eso siempre despierta los celos y resistencias de aquellos que hoy lo tienen.

No tenemos ningún reparo, y forma parte de las relaciones bilaterales entre dos Estados, en que nuestras provincias limítrofes con Chile saquen por allí todas sus mercaderías, pero que no se disfracen dichas salidas, con la bandera de la integración suramericana. Por favor, que no se amañen falsas razones para que Argentina a su costo tenga que mantener 1200 km. de rutas para que transiten alegremente los camiones de Brasil y Chile, que no aportan ningún beneficio ni al Estado nacional ni a la comunidad argentina, ni a la integración.

La Confederación Suramericana va más allá de las buenas relaciones bilaterales entre Estados, pasa, más bien, por la integración de los grandes vértices de poder continental como lo son Buenos Aires, Brasilia, Caracas, que hoy tienen líderes políticos afines, y en menor medida Lima. Si nos desviamos del fortalecimiento de los ejes marcados por este rombo imaginario, creando artificiales e interesados corredores bioceánicos lo que vamos a lograr es, más bien, la desintegración de Suramérica.

(*) filósofo
buela@2vias.com.ar <mailto:buela@2vias.com.ar>  

dimanche, 21 mars 2010

De la dissuasion nucléaire comme rééquilibrage des relations internationales

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De la dissuasion nucléaire comme rééquilibrage des relations internationales

Ex: http://blogchocdumois.hautetfort.com/

Que n’a-on vu et lu, surtout en marge du conseil d’administration du monde, appelé pudiquement, le « G 20 », à propos du chef d’Etat iranien, comparé, pour l’occasion, à Hitler, rien de moins. Exceptio limitatis, on ne doit guère s’étonner de ce procédé éculé des curés de la pensée unique, dénoncé » jadis par le regretté Léo Strauss, qui consiste à déconsidérer (voire à enterrer) médiatiquement et politiquement l’adversaire, par une « reductio ad hitlerum » en règle.

Nos gouvernants, bien incapables, en vérité, d’avoir su s’entendre sur les remèdes à apporter à la crise économique et financière ( prélude à la crise sociale pronostiquée l’année prochaine), prenant l’opinion publique internationale pour un parterre d’imbéciles (certes, il y en a beaucoup, mais tout de même), ont menacé l’Iran de sanctions, notamment économiques, si cet Etat souverain (on oublie un peu trop cet irréductible donné du Jus gentium, surtout en Europe) s’avisait de poursuivre le développement de son nucléaire civil. Personne ne doit être dupe du fait que ce coup de menton mussolinien (la ressemblance s’arrête là) n’est d’abord qu’un coup d’éclat publicitaire et communicationnel pour masquer la vacuité d’un sommet international aussi onéreux qu’inefficace.

Obama, Sarkozy, Brown et consorts, non contents, par leurs politiques irresponsables (continuées par eux dans la lignée de leurs prédécesseurs), d’avoir créé les conditions d’une mondialisation inhumaine, où l’on a laissé les banques et les multinationales prendre le contrôle de l’économie en lieu et place des responsables politiques pourtant démocratiquement élus, persistent diaboliquement dans leur entreprise de moralisation et d’uniformisation du monde, ce, en violation de tous les principes, notamment ceux de liberté et d’égalité souveraines des Etats.

Si Ahmadinejad fait peur au monde, c’est avant tout parce qu’il effraie jusqu’à la paralysie, Israël et les intérêts israéliens à l’étranger (ainsi que les intérêts étrangers en Israël). Le fait que les Etats-Unis encouragent globalement au désarmement nucléaire, participe de la volonté de cet empire de s’assurer la maîtrise de l’armement atomique. (cf. http://www.lesmanantsduroi.com/articles2/article32284.php). La fin poursuivie ? Faire sauter le verrou d’un nationalisme islamique (à l’instar de l’Irak baasiste, en son temps), obstacle réel et sérieux à la captation de l’énergie pétrolière par le Grand Sam.

Ce qui fait peur, en définitive, c’est la clairvoyante lucidité du régime iranien à l’égard des tenants occidentaux du nouvel ordre mondial qui pratiquent, avec une duplicité consommée, un jeu de bonneteau diplomatique générateur de dangereux déséquilibres au Moyen-Orient, au seul bénéfice d’Israël et des Etats-Unis.

Ce n’est pas faire montre d’antisémitisme primaire (ou secondaire ou tertiaire) que d’affirmer cela. L’édification d’un Etat israélien pérenne ne peut se faire au détriment des intérêts arabo-musulmans de la région. C’est un truisme dont ne tient pas compte la politique étrangère de la France, laquelle, à la remorque de la diplomatie israélo-américaine rompt avec la sagesse qui avait prévalu jusque là de l’équanimité à l’égard des uns et des autres.

La dénonciation de l’antisionisme, comme moteur de la géopolitique israélienne, par une transmutation linguistique délibérée, a été amalgamée à l’antisémitisme, au point que tout débat sur les relations internationales de l’Etat hébreux est devenu impossible. Lorsque qu’Ahmadinejad dit tout haut ce qui se murmure tout bas, à savoir, qu’« il n'est plus acceptable qu'une petite minorité domine la politique, l'économie et la culture dans une large partie du monde grâce à ses réseaux sophistiqués, instaure une nouvelle forme d'esclavage et nuise à la réputation d'autres nations, y compris des nations européennes et des Etats-Unis, afin d'atteindre ses objectifs (http://www.rue89.com/2009/09/25/iran-nouvelle-usine-secrete-nouvelles-menaces-occidentales)», de telles parole sont pris pour de la provocation, voire de l’incitation à la haine raciale.

Se rendrait coupable de délits « faurissoniens », quiconque irait, d’une part, jusqu’à mettre en doute la nocivité objective des propos du président iranien, d’autre part, à s’interroger sur leur possible validité.

Il est pourtant de bonne méthode d’appréhender la représentation psychologique que l’on peut se faire de telle ou telle réalité du monde comme un élément d’étude géopolitique à part entière au lieu de la nier d’emblée. Les mythes, qui sont des images et non des concepts, animent les opinions publiques, bien plus que n’importe quel discours un tant soit peu savant. C’est ce que ne comprennent guère nos apprentis-sorciers, aveuglés qu’ils sont par l’idéologie, qui est à la politique ce que les ombres de la caverne de Platon sont à la réalité.

Les Etats-Unis veulent l’exclusivité dans tout ce qui peut concourir à dominer le monde. Jeune nation qui n’a pas le recul et la sagesse des civilisations millénaires d’Orient, d’Asie ou d’Europe, l’Amérique ne peut souffrir à la fois la concurrence et la discussion avec des Etats qui revendiqueraient légitimement d’être traités d’égal à égal. C’est tout l’enjeu de la nucléarisation des politiques civiles et militaires de pays comme l’Iran ou la Corée du Nord (encore qu’il ne faille pas occulter la singularité du problème coréen). Après l’apparente bipolarité de la Guerre froide, la complexité multipolaire renoue avec des horizons géopolitiques et diplomatiques, jusque là neutralisés ou biaisés.

Les Américains ne s’y trompent d’ailleurs guère lorsqu’ils font pression sur Moscou et Pékin en vue de leur faire voter le principe d’une sanction contre l’Iran au Conseil de sécurité des Nations Unies. Tandis que la Chine s’approvisionne en pétrole persan, d’autres pays comme le Brésil s'opposent également à des sanctions et prônent le maintien des négociations au sein de l'Agence internationale de l'énergie atomique (AIEA) (http://www.iranfocus.com/fr/nucleaire/liran-ne-negociera-que-sil-est-sanctionne-sur-le-nucleaire-selon-clinton-07787.html).

Oui, la dissuasion nucléaire doit revenir au cœur des relations internationales, dans la mesure où elle réactiverait, à tout le moins en Europe, un certain Droit public international des grands espace et des équilibres inhérents qu’ils susciteraient. Nous laisserons le mot de la fin au Général Pierre-Marie Gallois qui écrivait dans un texte limpide publié en 1960, que les éditions François-Xavier de Guibert ont eut la géniale idée de rééditer : « (…) le domaine d’efficacité de la stratégie de dissuasion est plus généralement limité à la défense des intérêts vitaux du pays qui pratique cette stratégie. Entre ces pays, c’est la coexistence forcée et, s’il y a encore tension entre eux, celle-ci ne peut que s’exercer de manière moins directe, plus subtile que le chantage à la guerre, l’ultimatum ou l’agression  (Stratégie de l’âge nucléaire, François-Xavier de Guibert, Paris, 2009, p.166).

Robert Massis

samedi, 20 mars 2010

Le fragilità dell'impero americano

Le fragilità dell' impero americano

di Niall Ferguson

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

niall.jpgPer secoli gli storici, i teorici della politica, gli antropologi - ma anche la gente comune - hanno perlopiù pensato ai processi politici in termini ciclici. Le grandi potenze, come i grandi uomini, nascono, crescono, dominano e poi lentamente scompaiono. Il declino delle civiltà di solito si protrae per un lungo periodo. Anche le sfide che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sono spesso viste come processi graduali. È la tendenza costante del fattore demografico - che fa salire la quota dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi -, non una cattiva politica a condannare la finanza pubblica degli Stati Uniti a sprofondare nei debiti. È l' inesorabile crescita dell' economia cinese, non la stagnazione americana, a far sì che il Pil della Repubblica Popolare supererà quello degli Stati Uniti entro il 2027. Che cosa succederebbe, però, se la storia non fosse ciclica né si muovesse solo lentamente, ma avesse un andamento irregolare - a tratti quasi immobile, ma anche capace di improvvise accelerazioni? E se il crollo non si verificasse dopo secoli, ma arrivasse all' improvviso? Le grandi potenze sono sistemi complessi, fatti di un gran numero di componenti che interagiscono tra di loro. Il loro modo di funzionare si colloca tra l' ordine e il disordine. Per un certo periodo di tempo sembrano procedere in maniera stabile, sembrano aver trovato un equilibrio, ma in realtà continuano ad adattarsi. Poi arriva un momento in cui i sistemi complessi entrano in crisi. Una spinta anche modesta può innescare il passaggio da uno stato di proficuo equilibrio a uno di crisi. Poco dopo il verificarsi di una crisi del genere entrano in scena gli storici. Che però, nel decodificare questi eventi, spesso ne valutano male la complessità. Sono addestrati a spiegare le calamità ricercando cause di lungo periodo, magari lontane decenni. In realtà la maggior parte dei fenomeni anomali che gli storici studiano non sono il culmine di un processo lungo e deterministico, ma piuttosto sconvolgimenti, a volte il crollo completo, di sistemi complessi. Tutti i sistemi complessi hanno alcune caratteristiche in comune. In un sistema del genere, ad esempio, una minima variazione, uno shock relativamente piccolo, possono produrre cambiamenti enormi, spesso imprevisti. Perciò, quando in un sistema complesso le cose vanno male, l' entità dello sconvolgimento è quasi impossibile da prevedere. Tutte le grandi entità politiche sono sistemi complessi. La maggior parte degli imperi hanno un' autorità centrale nominale - un imperatore ereditario o un presidente eletto -, ma in realtà il potere di ogni singolo governante è funzione di una rete di relazioni economiche, sociali e politiche sulle quali lui o lei esercita il suo controllo. Sotto questo profilo gli imperi mostrano molte delle caratteristiche di altri sistemi complessi e adattabili, tra cui la tendenza a passare molto rapidamente dalla stabilità all' instabilità. L' esempio più recente e noto di rapido declino è il crollo dell' Unione Sovietica. Col senno del poi, gli storici hanno individuato ogni genere di marciume nel sistema sovietico, fino all' era Breznev e oltre. Allora però non sembrava fosse così. L' arsenale nucleare dei sovietici era più grande di quello degli Stati Uniti, e i governi di quello che allora era chiamato il Terzo Mondo in quasi tutti i 20 anni precedenti si erano schierati dalla parte dei sovietici. Eppure, meno di cinque anni dopo l' ascesa al potere di Gorbaciov, l' impero sovietico nell' Europa centro-orientale si sgretolò, e poco dopo, nel 1991, fu la volta della stessa Unione Sovietica. Se gli imperi sono sistemi complessi che prima o poi soccombono a crisi improvvise e catastrofiche, quali conseguenze dobbiamo trarne per gli Stati Uniti di oggi? Anzitutto che discutere degli stadi del declino è probabilmente una perdita di tempo. Uomini politici e cittadini dovrebbero preoccuparsi piuttosto di una caduta improvvisa e inaspettata. Inoltre, il crollo di un impero quasi sempre avviene in seguito a una crisi finanziaria. Quindi i campanelli d' allarme dovrebbero suonare molto forte visto che gli Stati Uniti prevedono di avere un deficit di più di 1.500 miliardi di dollari nel 2010, il più alto dopo la Seconda guerra mondiale. Questi numeri non sono buoni, ma nel campo della politica sono altrettanto importanti le percezioni. Nei periodi di crisi degli imperi non sono tanto le reali basi del potere a contare, quanto le attese sugli sviluppi futuri. Le cifre che abbiamo citato non possono da sole erodere la forza degli Stati Uniti, ma possono indebolire la fiducia che per tanto tempo gli americani hanno avuto nella capacità del loro Paese di superare qualsiasi crisi. Un giorno o l' altro una brutta notizia apparentemente casuale - magari un rapporto negativo di un' agenzia di rating - comparirà sulle prime pagine dei giornali in un periodo altrimenti abbastanza tranquillo, e all' improvviso non saranno più solo pochi addetti ai lavori a preoccuparsi della sostenibilità della politica fiscale degli Stati Uniti, ma chiunque, compresi gli investitori all' estero. È questo passaggio a essere fondamentale: un sistema complesso e adattabile è seriamente nei guai quando i suoi componenti perdono la fiducia nella sua capacità di rigenerarsi. La prossima fase della crisi attuale potrebbe incominciare quando la gente inizierà a mettere in discussione la credibilità delle radicali misure finanziarie e fiscali prese per risanare l' economia. Nessun tasso a interesse zero o stimolo finanziario potrà produrre un risanamento sostenibile se la gente, negli Stati Uniti e all' estero, deciderà collettivamente, da un giorno all' altro, che queste misure alla fine porteranno a tassi di inflazione molto più alti o a un vero e proprio crollo. Combattere una battaglia perdente sulle montagne dell' Hindu Kush è già stato il segno premonitore della caduta dell' impero sovietico. Quel che è avvenuto 20 anni fa dovrebbe ricordarci che gli imperi non nascono, si sviluppano, dominano, entrano in declino e cadono secondo un ciclo ricorrente e prevedibile. Gli imperi si comportano piuttosto come tutti i sistemi complessi adattabili. Restano per un certo periodo in apparente equilibrio e poi, improvvisamente, crollano. Washington, sei avvertita. (traduzione di Maria Sepa)

 

jeudi, 18 mars 2010

L'Egypte, nouvel allié d'Israël

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Matteo BARNABEI :

L’Egypte, nouvel allié d’Israël

 

Le Caire voudrait exclure le Hamas de la conférence de Tripoli – Le leader de la Ligue Arabe se tait

 

Sur l’échiquier du Proche Orient, l’Egypte pourrait bientôt assumer un rôle de plus en plus prépondérant dans un sens pro-américain et pro-israélien. L’Egypte, désormais proche des positions de Washington et de Tel Aviv, prendra-t-elle prochainement la place qu’occupait Ankara dans le dispositif américain, lorsque la Turquie était le principal allié d’Israël dans la région. La donne a changé depuis la nouvelle ligne politique adoptée par la Turquie à la suite de l’opération « Plomb fondu ». Durant l’offensive armée des forces israéliennes contre le Hamas dans la Bande de Gaza, le premier ministre turc Erdogan a exprimé clairement son désaccord face à cette initiative musclée, tandis que le président égyptien Hosni Mubarak donnait son appui inconditionnel à l’Etat hébreu. Cet appui allait jusqu’à tolérer le bombardement d’une petite portion du territoire national égyptien, proche de la Bande de Gaza pour permettre aux Israéliens de frapper et de détruire les tunnels qui reliaient l’enclave palestinienne au monde extérieur.

 

Depuis ce moment-là, les coopérations israélo-égyptiennes de cette nature se sont poursuivies. Il suffit de penser aux opérations conjointes de l’armée égyptienne, de Tsahal et des forces américaines et à la construction d’une barrière très contestée, dite « barrière d’acier », tout au long des limites de la Bande de Gaza. L’aide que fournit l’Egypte à Tel Aviv n’est pas seulement d’ordre logistique et militaire mais aussi d’ordre politique. C’est probablement ce facteur politique qui s’avèrera le plus déterminant, vu le rôle prépondérant que joue l’Egypte au sein de la Ligue Arabe, en tant que puissance fondatrice et grâce au soutien américain ; la Ligue Arabe, rappelons-le, a toujours été présidée par un Egyptien, mis à part de brèves parenthèses, l’une tunisienne, l’autre libanaise. Ces jours-ci, nous assistons à un exemple macroscopique de la bienveillance que Le Caire montre désormais à l’égard de Tel Aviv. L’Egypte, depuis quelque temps, critique sévèrement le rôle du Hamas dans le monde arabe et ne reconnaît pas la légitimité de son gouvernement. On s’en doute, mais sans plus, depuis que les Egyptiens dénoncent les tentatives de rapprochement entre le Hamas et ses rivaux du Fatah. Ainsi, par exemple, lorsqu’une délégation de la Ligue Arabe s’est récemment rendue à Gaza pour exprimer son soutien à la population palestinienne et à l’exécutif local face à la menace israélienne, on a dû constater l’absence du président de l’organisation, l’Egyptien Amr Mussa, alors que l’initiative était importante. Amr Mussa ne s’est pas exprimé sur la question et, malgré les invitations réitérées du Hamas, ne s’est jamais rendu dans la bande de Gaza. Vendredi 19 février, tous les doutes quant à la position réelle de l’Egypte se sont évanouis car les déclarations émises par les instances gouvernementales égyptiennes dans les colonnes du quotidien « Al Misriyoon » font clairement savoir que la présence du mouvement islamiste palestinien au pouvoir à Gaza lors du sommet arabe qui se tiendra le mois prochain à Tripoli n’était pas souhaitée, vu qu’elle « pourrait avoir un impact négatif sur les négociations inter-palestiniennes ».

 

Les dirigeants égyptiens contestent la présence des délégués du Hamas lors de cette rencontre dans la mesure où seuls des représentants gouvernementaux y ont théoriquement accès. Il nous paraît inutile de rappeler que c’est le Hamas qui a gagné les élections en 2006, élections qui se sont tenues sous le regard d’observateurs internationaux, et non pas le mouvement guidé par l’actuel président de l’ANP, Mahmud Abbas. L’Egypte tire quelques bénéfices de son attitude. Contrairement à ce qui se passe en Iran, où le président a été élu par le peuple lors d’élections régulières, et où chaque fois que la police disperse une manifestation non autorisée, on crie au scandale et à la violation des « droits de l’homme », en Egypte, le pouvoir peut garder sa forme purement dictatoriale, sous un masque à peine dissimulant de démocratie. Chaque fois qu’il y a une élection en Egypte, personne ne se présente contre Mubarak et si, par hasard, quelqu’un venait à protester, il serait aussitôt arrêté. Cette situation n’intéresse ni Tel Aviv ni Washington ni aucun de leurs très fidèles alliés. Le gouvernement égyptien interdit toute manifestation en faveur du retour au pays de Muhammad el Baradei qui souhaiterait défier le président égyptien actuel lors de prochaines élections ; c’est anti-démocratique mais personne n’évoque cet interdit dans les milieux politiques conformistes en Europe ou ailleurs. Personne non plus, ni chef de gouvernement ni parti politique ni association humanitaire, n’a protesté contre l’arrestation de trois jeunes femmes coupables d’avoir manifesté en brandissant un portrait de l’ancien président de l’AIEA. Evidemment, puisque l’Egypte rend désormais de bons services à Washington et à Tel Aviv.

 

Il est temps que tombe le masque d’hypocrisie qui recouvre les yeux de tant d’observateurs politiques officiels et que l’on se rende compte que, dans les crises politiques internationales, notamment dans l’actuelle crise iranienne, l’intérêt véritable n’est pas le contenu de la déclaration des droits de l’homme  ou les principes de la liberté civile mais uniquement l’argent. [On apprend par ailleurs qu’un accord  sera signé entre l’Egypte et la Jordanie, d’une part, et Israël, d’autre part, pour la construction de nouvelles centrales énergétiques. Le site de la principale centrale sera situé sur le territoire égyptien, produira de l’électricité pour l’Egypte et pour Israël et vendra le surplus aux pays voisins sauf à la Bande de Gaza, précipitant cette dernière dans une précarité de plus en plus problématique…].

 

Matteo BARNABEI.

(article paru dans le quotidien « Rinascita », Rome, 20/21 février 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

mercredi, 17 mars 2010

Obama: Yes, we can kill

Obama: Yes, we can kill

Gerhard Wisnewski / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Tja, unser Barack Obama. Hat man doch gleich geahnt, dass »Yes, we can« irgendwie unvollständig ist. Der gute Barack wollte uns einfach nicht sagen, was wir nun eigentlich können. Nun wissen wir es: »Yes, we can kill« …

obama-chosen-one.jpgIrgendwie sind seine Fans ziemlich still geworden. Kein Wunder: Da killt er in Pakistan fröhlich vor sich hin und knipst »Terroristen«, aber auch Zivilisten von der Luft aus ab. Mit ferngelenkten Drohnen. Ist ungefähr so wie ein Videospiel. Jemand sitzt an einem Bildschirm und betätigt einen Stick – und »paff«: Weg ist der Terrorist. Oder wer auch immer. Denn natürlich kann man Terroristen von Zivilisten gar nicht unterscheiden. Es ist ja das Wesen des Terroristen, dass er in zivil unterwegs ist. Uniformiert ist nur eine reguläre Truppe. Befindet sich der Terrorist in Wirklichkeit also gar nicht am Boden, sondern quasi am anderen Ende des Sticks? Oder gar im Weißen Haus? Das zu beweisen, erfordert nur ein wenig simple Logik.

»Darf ein demokratischer Rechtsstaat per Mausklick töten?«, grämt sich das Zentralorgan »Spiegel Online« angesichts des US-Drohnenkrieges gegen »Al-Qaida« in Pakistan. Eine gute Frage, die aber zu kurz greift. Denn entscheidend ist ja nicht die bloße Technik, sondern die Frage, ob ein demokratischer Rechtsstaat überhaupt relativ wahllos Menschen massakrieren darf – ohne Gerichtsverfahren, ohne Urteil. Und selbstverständlich auch ohne Beweise. Denn wen die USA nun warum zum »Terroristen« ernennen – womöglich h.c. –, bleibt im Wesentlichen ihr Geheimnis. Die wirkliche Frage muss daher lauten: »Kann ein Staat, der relativ wahllos Menschen tötet, ein demokratischer Rechtsstaat sein?« Und die Antwort lautet natürlich nein. So etwas kann nur ein menschenverachtendes Regime tun.

Die Faustregel für uns heißt daher: Terrorist ist der, der von irgendeinem Terroristen in der CIA, im US-Militär oder in der US-Regierung dazu ernannt wird. »Terroristen« in der US-Regierung? Na klar: Denn während der erklärte Terrorist relativ irreal und unbestimmt bleibt, ist der unstreitig reale Terrorist der, der den Joystick betätigt – und natürlich der, der die Befehle dazu gibt. Denn dass er wirklich abknallt, wer ihm gerade vor die Drohne läuft, wird ja ganz offiziell eingeräumt. Ob dagegen das arme Schwein, das da unten am Boden von Raketen zerfetzt wird, wirklich ein Terrorist ist, ist durchaus unklar.

Klar dagegen ist, dass die Befehlshaber und -empfänger in den USA gegen jedes Menschenrecht andere Menschen töten. Und das ist ziemlich genau die Definition von »Terrorist«. Ja, es ist sogar der Wesenskern des Terrorismus (von lat. »terror« = Schrecken), dass er ebenso wahl-  wie scheinbar sinnlos zuschlägt. Dass also jeder ständig unter der Todesdrohung leben muss. Was man auch die »Strategie der Spannung« nennt. Denn klar ist ferner, dass zumindest die Dutzenden von Zivilisten um die »Zielperson« herum mit Terrorismus in der Regel überhaupt nichts zu tun haben, und dennoch liquidiert werden – einfach, weil sie in der Nähe waren.

Aber zum Glück haben wir ja noch die freie Presse, wie etwa Spiegel Online, die das alles aufdeckt. Allerdings bestimmt nicht, um einen Skandal zu entfachen oder Obama an den Pranger zu stellen. Sondern um die Massen an den Gedanken zu gewöhnen,  dass es gerechtfertigt sein kann, wahllos Zivilisten umzubringen.

Am 5. August 2009 zum Beispiel sei es gelungen, einen Baitullah Mehsud zu töten – im 16. Anlauf. »An jenem Tag schwebte eine Drohne vom Typ Predator gut drei Kilometer über dem Haus von Mehsuds Schwiegervater in der pakistanischen Provinz Südwaziristan. Ihre Infrarotkamera sandte in Echtzeit gestochen scharfe Bilder an die CIA-Zentrale in Langley im US-Bundesstaat Virginia. Der Top-Talib saß auf dem Dach des Hauses. Seine Ehefrau, sein Onkel und ein Arzt leisteten ihm Gesellschaft. In diesem Moment wurde Tausende Kilometer entfernt, in den USA, ein Auslöser betätigt. Zwei Hellfire-Raketen schossen aus der Drohne – und trafen ihr Ziel. Am Ende waren Baitullah Mehsud und elf weitere Menschen tot.«

Toll. »16. Anlauf« heißt: Man hat halt ein wenig herumprobiert: »Insgesamt, so die Schätzungen, starben bei den 16 Angriffsversuchen zwischen 207 und 321 Personen – und nicht alle waren Taliban, das ist gewiss.«

Was sich ganz so anhört, als veranstalteten die USA mit ihren Drohnen in Pakistan ein mehr oder weniger lustiges Tontaubenschießen, bei dem sie jeweils einige hundert Menschen abknallen, um dann hinterher zu behaupten: Der zweite Turbanträger von rechts, das war der bekannte Terrorist Mohammed al-Satan.

Na und – ist doch in Afghanistan! Oder in Pakistan! Ja, aber nicht mehr lange. Das ist nur ein Testgebiet mit billigen, recht- und namenlosen Versuchskarnickeln. Sobald das US-Imperium die ganze Welt beherrscht und die Serienproduktion angekurbelt hat, werden die Drohnen den ganzen Globus umschwirren wie Schmeißfliegen. Ortungen aus Handy- und GPS-Netzen werden mit  Identitäten verknüpft und an die Drohnen weitergeleitet. Im Prinzip braucht's dazu auch keine »Piloten« mehr. Sondern die Drohnen übernehmen die Pflege der Landschaft vollautomatisch.

Obama will Guantanamo schließen? Kein Wunder. Denn in Wirklichkeit will Obama überhaupt keine Gefangenen mehr machen. Und das wiederum hört sich so an, als wäre der große Friedensnobelpreisträger Obama in Wirklichkeit ein Kriegsverbrecher.

 

Mittwoch, 10.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik, Terrorismus

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La dérive de la diplomatie turque utilise son négationnisme cynique et imperturbable

La dérive de la diplomatie turque
utilise son négationnisme cynique et imperturberdoganryad.jpgable

Jean-Gilles MALLIARAKIS /
http://www.insolent.fr/
Ce 8 mars, le Premier ministre turc Erdogan, se rendait à Riyad. Le roi d'Arabie Abdallah, allait lui décerner le prix international du Roi Fayçal pour "Services rendus à l'islam". Cette distinction, créée en 1979, est présentée pompeusement comme une sorte de prix Nobel du monde arabe. À ce titre, l'heureux lauréat recevait 200 grammes d'or et 200 000 dollars américains.

Dans mon petit livre d'initiation des Européens à la question turque (1) je livre un certain nombre de clefs explicatives de l'attitude et des actes d'Ankara.

Nous nous trouvons en présence de tendances longues. Certes, pour mes amis lecteurs, et [heureusement] pour quelques autres, celles-ci ne relèvent d'aucune sorte de mystère. Hélas, de manière étrange, nos dirigeants se plaisent à les ignorer.

La distinction reçue des mains du plus puissant représentant de la finance islamique le confirme (2). Les déclarations du roi et de son entourage mériteraient une plus large analyse. Il s'agit de donner une "approbation solennelle à ses efforts d'intermédiation au Proche et au Moyen-Orient". Et de citer son rôle actif "auprès de l'Iran, de la Syrie, du Yémen et du Hamas". Ceci le place désormais "à la tête du monde musulman" (3). Belle revanche posthume du califat ottoman.

Il demeure toutefois candidat à la qualité de membre à part entière au sein de l'Union européenne. Et un personnage comme Zapatero, au pouvoir à Madrid et occupant la "présidence tournante" de l'Union, l'y encourage.

Au-delà même du symbole, le récipiendaire profitait encore de la circonstance pour confirmer tout ce que l'on semble, de plus en plus, découvrir des nouvelles inclinations proches orientales de son gouvernement. Ne perdons jamais de vue, d'ailleurs, la part de faux-semblant, de communication et de mise en scène dans l'ensemble de cette subtile intrigue (4).

Or, en parallèle, les mêmes bureaux d'Ankara viennent d'administrer la preuve de leur incompréhension totale des références et des jugements de l'occident. Et cela se manifeste autour de la question historique du génocide arménien. Rappelons à cet égard que le fait même d'écrire ce mot, apparu en 1945, avec des guillemets pourrait tomber désormais en France sous le coup de la loi.

Au contraire, la position turque officielle persiste

1° à ergoter sur le nombre de victimes arméniennes qu'elle cherche à abaisser, du nombre habituellement admis, entre 1,5 et 2 millions de morts, à une fourchette de 300 000 à 500 000, sans se rendre compte que ce marchandage lui-même produit le plus déplorable effet.

2° à nier l'existence - d'une campagne d'extermination en dépit de la publication des télégrammes de Talaat pacha, et d'autres documents, écrits (5), témoignages habituellement considérés comme des preuves par les occidentaux.

3° à ne vouloir voir dans ces disparitions de populations entières que la conséquence du "chaos des dernières années de l'Empire ottoman".

Or très précisément cette vague évocation des événements aurait permis à n'importe quel régime démocratique européen de se défausser des fautes commises par ses prédécesseurs. Il les leur aurait imputés raisonnablement ; et il offrirait aux représentants des victimes des excuses, plus ou moins dignes, plus ou moins valables. (6)

La récente passe d'armes entre Américains et Turcs tend à démontrer l'incapacité des dirigeants de ce dernier pays à se comporter d'une telle manière. Repentance, connaît pas. Ils la jugent indigne de leur ombrageuse fierté nationale.

Une nouvelle expérience vient ainsi de se dérouler entre une commission du Congrès américain et le ministre des Affaires étrangères de l'AKP, M. Ahmet Davutoglou.

À Washington, le 5 mars, la commission des Affaires étrangères de la Chambre des représentants appelle le président des États-Unis à "qualifier de façon précise l'extermination systématique et délibérée de 1 500 000 Arméniens, de génocide". Président de cette commission, Howard Berman, a estimé que "rien ne justifie que la Turquie ignore la réalité du génocide arménien". Juste avant le vote le porte-parole du département d'État, M. Philip Crowley avait indiqué cependant que les Etats-Unis sont favorables à "une reconnaissance entière, franche et juste des faits liés aux événements historiques de 1915" en ajoutant toutefois que "Nous nous inquiétons de l'impact possible (de la résolution) sur les pays affectés".

On doit remarquer que ce vote, acquis par une courte majorité, 23 voix contre 22, est principalement dû au ralliement des élus démocrates. Les républicains se montrent en général assez hostiles à ce genre de considérations.

Sous la présidence précédente, une résolution analogue avait été censurée en 2007 par la Maison-Blanche, sous la pression. GW Bush était même intervenu personnellement, en téléphonant chez eux à divers élus (7) Et lors du dernier débat le porte parole de la droite avait considéré que, malgré sa sympathie pour les victimes, nous vivions au XXIe siècle.

La réaction de la Turquie officielle s'est donc d'autant moins fait attendre qu'elle mesure les points faibles de la démocratie américaine. Immédiatement est partie d'Ankara une protestation en forme d'avertissement : "Nous condamnons cette résolution qui accuse la nation turque d'un crime qu'elle n'a pas commis".

Lors de sa campagne présidentielle de 2008, M. Obama avait promis cette reconnaissance du génocide arménien. Peu après son élection, il a renoncé à employer ce terme alors que les États-Unis soutiennent les efforts de normalisation en cours entre la Turquie et l'Arménie pour l'ouverture de la frontière commune et l'établissement de relations diplomatiques. Idem de la part de Hillary Clinton, venue le 2 mars devant la commission pour exprimer ses réserves quant à l'opportunité de cette motion H252 dont elle approuvait le propos tant qu'elle n'occupait pas la fonction de secrétaire d'État.

Au lieu de se situer sur la défensive, de son côté, la diplomatie turque, pratique directement la menace. "À la suite de cet incident, notre ambassadeur à Washington, Namik Tan, a été rappelé à Ankara pour consultations". Le 10 mars le chef du gouvernement confirmait que jusqu'à nouvel ordre il ne reviendra pas.

Le chef de l'État Abdullah Gül a également condamné le texte voté : il n'a "aucune valeur aux yeux du peuple turc", a-t-il dit. Et il a ajouté : "La Turquie ne sera pas responsable des conséquences négatives que ce vote pourrait avoir dans tous les domaines".

Or l'objection de Mme Clinton, — "cela pourrait dresser, dit-elle, des obstacles devant la normalisation des relations" entre la Turquie et l'Arménie" – dissimule une difficulté beaucoup plus grave pour la diplomatie américaine. Le partenaire et allié de l'Otan, qui se dit offensé, joue un rôle essentiel dans les opérations militaires en Irak. Il fait valoir que, par la base d'Incirlik, en Anatolie, transite une part essentielle des aéronefs, des personnels et du ravitaillement nécessaires aux belligérants de la coalition (8). Il participe de façon considérable à la guerre d'Afghanistan. Et il menace de se solidariser avec l'Iran.

Accessoirement tout me donne à penser que sa politique dans l'ensemble du Proche-Orient joue un certain rôle… où l'Égypte a échoué… où le président actuel de tous les Français imaginait se substituer à celle-ci… et qui correspond aux desiderata profonds du gouvernement de Washington et de la finance pétrolière.

"L'intervention des politiques dans le domaine des historiens a toujours eu des effets négatifs" disent régulièrement au sujet des massacres de 1915 les communiqués officiels turcs.

J'aime cette réflexion, surtout lorsqu'elle vient de la part des politiques eux-mêmes.

Tout cela me semble confirmer le sentiment que j'exprime (9), celui de l'incongruité de prétendre intégrer ce beau et grand pays d'Asie mineure à l'Union européenne.
JG Malliarakis


Apostilles

  1. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "La chauve-souris et sa diplomatie" pages 111 et suivantes.
  2. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "Instrumentalisation de l'islam" pages 105 et suivantes.
  3. cf. Kathimerini le 11 mars 2010. Article " I saoudiki Aravia apéminé to vravio Vassilias Faïsal ston Erdoghan" [L'Arabie saoudite décerne le prix "roi Fayçal" à Erdogan.]
  4. À noter ainsi que l'annonce de cette attribution du prix a été faite en janvier. À la suite de quoi, M. Erdogan a annoncé qu'il ne se rendrait plus à Davos, haut lieu, un an plus tôt, de son esclandre anti-israélienne de janvier 2009, qui lui a valu tant de popularité dans Moyen Orient. Cf. http://www.mejliss.com/showthread.php?t=505791
  5. Dans "La Question turque et l'Europe" au chapitre "Faux dialogue avec un faux islam" aux pages 130 et suivantes, je donne ainsi quelques éclaircissements sur la fameuse citation "poétique" d'Erdogan qui lui valut ses ennuis judiciaires, aujourd'hui oubliés.
  6. cf. "La Question turque et l'Europe" chapitre "Racines jacobines des crimes turcs" pages 79 et suivantes.
  7. cf. Ovipot bulletin du 16 octobre 2007.
  8. Cet argument ne semble pas convaincre le site arménien très bien documenté du collectif Van. Cf article traduit ses soins publié par le Turkish Daily News le 23 février 2007. dans "La Question turque et l'Europe".

L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)

Mac.gifQui était le géopoliticien britannique Mackinder, génial concepteur de l'opposition entre thalassocraties et puissances océaniques? Un livre a tenté de répondre à cette question: Mackinder, Geography as an Aid to Statecraft, par W.H. Parker. Né dans le Lin-colnshire en 1861, Sir Halford John Mackinder s'est interessé aux voyages, à l'histoire et aux grands événements internationaux dès son enfance. Plus tard, à Oxford, il étu-diera l'histoire et la géologie. Ensuite, il entamera une brillante carrière universitaire au cours de laquelle il deviendra l'impulseur principal d'institutions d'enseignement de la géographie. De 1900 à 1947, il vivra à Londres, au coeur de l'Empire Britannique. Sa préoccupation essentielle était le salut et la préservation de cet Empire face à la montée de l'Allemagne, de la Russie et des Etats-Unis. Au cours de ces cinq décennies, Mackinder sera très proche du monde poli-tique britannique; il dispensera ses conseils d'abord aux "Libéraux-Impérialistes" (les "Limps") de Rosebery, Haldane, Grey et Asquith, ensuite aux Conservateurs regroupés derrière Chamberlain et décidés à aban-donner le principe du libre échange au profit des tarifs préférentiels au sein de l'Empire. La Grande-Bretagne choisissait une économie en circuit fermé, tentait de construire une économie autarcique à l'échelle de l'Empire. Dès 1903, Mackinder classe ses notes de cours, fait confectionner des cartes historiques et stratégiques sur verre destinées à être projetées sur écran. Une oeuvre magistrale naissait.

 

Une idée fondamentale traversera toute l'oeuvre de Mackinder: celle de la confrontation permanente entre la "Terre du Milieu" (Heartland) et l'"Ile du Monde" (World Island). Cette confrontation incessante est en fait la toile de fond de tous les événe-ments politiques, stratégiques, militaires et économiques majeurs de ce siècle. Pour son biographe Parker, Mackinder, souvent cité avec les autres géopoliticiens américains et européens tels Mahan, Kjellen, Ratzel, Spykman et de Seversky, a, comme eux, appliqué les théories darwiniennes à la géographie politique. Doit-on de ce fait rejetter les thèses géopolitiques parce que "fatalistes"? Pour Parker, elles ne sont nullement fatalistes car elles détiennent un aspect franchement subjectif: en effet, elles justifient des actions précises ou attaquent des prises de position adverses en proposant des alternatives. Elles appellent ainsi les vo-lontés à modifier les statu quo et à refuser les déterminismes.

 

L'intérêt qu'a porté Mackinder aux questions géopolitiques date de 1887, année où il pro-nonça une allocution devant un auditoire de la Royal Geographical Society qui contenait notamment la phrase prémonitoire suivante: "Il y a aujourd'hui deux types de conqué-rants: les loups de terre et les loups de mer". Cette allégorie avait pour arrière-plan historique concret la rivalité anglo-russe en Asie Centrale. Mais le théoricien de l'anta-gonisme Terre/Mer se révélera pleinement en 1904, lors de la parution d'un papier inti-tulé "The Geographical Pivot of History" (= le pivot géographique de l'histoire). Pour Mackinder, à cette époque, l'Europe vivait la fin de l'Age Colombien, qui avait vu l'ex-pansion européenne généralisée sans résistan-ce de la part des autres peuples. A cette ère d'expansion succédera l'Age Postcolom-bien, caractérisé par un monde fait d'un système politique fermé dans lequel "chaque explosion de forces sociales, au lieu d'être dissipée dans un circuit périphérique d'espa-ces inconnus, marqués du chaos du barba-risme, se répercutera avec violence depuis les coins les plus reculés du globe et les éléments les plus faibles au sein des orga-nismes politiques du monde seront ébranlés en conséquence". Ce jugement de Mackinder est proche finalement des prophéties énoncées par Toynbee dans sa monumentale "Stu-dy of History". Comme Toynbee et Spengler, Mackinder demandait à ses lecteurs de se débarrasser de leur européocentrisme et de considérer que toute l'histoire européenne dépendait de l'histoire des immensités conti-nentales asiatiques. La perspective historique de demain, écrivait-il, sera "eurasienne" et non plus confinée à la seule histoire des espaces carolingien et britannique.

 

Pour étayer son argumentation, Mackinder esquisse une géographie physique de la Rus-sie et raisonne une fois de plus comme Toynbee: l'histoire russe est déterminée, écrit-il, par deux types de végétations, la steppe et la forêt. Les Slaves ont élu domi-cile dans les forêts tandis que des peuples de cavaliers nomades règnaient sur les espa-ces déboisés des steppes centre-asiatiques. A cette mobilité des cavaliers, se déployant sur un axe est-ouest, s'ajoute une mobilité nord-sud, prenant pour pivots les fleuves de la Russie dite d'Europe. Ces fleuves seront empruntés par les guerriers et les marchands scandinaves qui créeront l'Empire russe et donneront leur nom au pays. La steppe cen-tre-asiatique, matrice des mouvements des peuples-cavaliers, est la "terre du milieu", entourée de deux zones en "croissant": le croissant intérieur qui la jouxte territo-rialement et le croissant extérieur, constitué d'îles de diverses grandeurs. Ces "croissants" sont caractérisés par une forte densité de population, au contraire de la Terre du Mi-lieu. L'Inde, la Chine, le Japon et l'Europe sont des parties du croissant intérieur qui, à certains moments de l'histoire, subissent la pression des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu. Telle a été la dynamique de l'histoire eurasienne à l'ère pré-colombienne et partiellement aussi à l'ère colombienne où les Russes ont pro-gressé en Asie Centrale.

 

Cette dynamique perd de sa vigueur au moment où les peuples européens se dotent d'une mobilité navale, inaugurant ainsi la période proprement "colombienne". Les ter-res des peuples insulaires comme les Anglais et les Japonais et celles des peuples des "nouvelles Europes" d'Amérique, d'Afrique Australe et d'Australie deviennent des bastions de la puissance navale inaccessibles aux coups des cavaliers de la steppe. Deux mobilités vont dès lors s'affronter, mais pas immédiatement: en effet, au moment où l'Angleterre, sous les Tudor, amorce la con-quête des océans, la Russie s'étend inexo-rablement en Sibérie. A cause des diffé-rences entre ces deux mouvements, un fossé idéologique et technologique va se creuser entre l'Est et l'Ouest, dit Mackinder. Son jugement rejoint sous bien des aspects celui de Dostoïevsky, de Niekisch et de Moeller van den Bruck. Il écrit: "C'est sans doute l'une des coïncidences les plus frappantes de l'histoire européenne, que la double expansion continentale et maritime de cette Europe recoupe, en un certain sens, l'antique opposition entre Rome et la Grèce... Le Germain a été civilisé et christianisé par le Romain; le Slave l'a été principalement par le Grec. Le Romano-Germain, plus tard, s'est embarqué sur l'océan; le Greco-Slave, lui, a parcouru les steppes à cheval et a conquis le pays touranien. En conséquence, la puissance continentale moderne diffère de la puissance maritime non seulement sur le plan de ses idéaux mais aussi sur le plan matériel, celui des moyens de mobilité".

 

Pour Mackinder, l'histoire européenne est bel et bien un avatar du schisme entre l'Empire d'Occident et l'Empire d'Orient (an 395), ré-pété en 1054 lors du Grand Schisme op-posant Rome et Byzance. La dernière croi-sade fut menée contre Constantinople et non contre le Turc. Quand celui-ci s'empare en 1453 de Constantinople, Moscou reprend le flambeau de la chrétienté orthodoxe. De là, l'anti-occidentalisme des Russes. Dès le XVIIème siècle, un certain Kridjanitch glo-rifie l'âme russe supérieure à l'âme cor-rompue des Occidentaux et rappelle avec beaucoup d'insistance que jamais la Russie n'a courbé le chef devant les aigles ro-maines. Cet antagonisme religieux fera pla-ce, au XXème siècle, à l'antagonisme entre capitalisme et communisme. La Russie opte-ra pour le communisme car cette doctrine correspond à la notion orthodoxe de fra-ternité qui s'est exprimée dans le "mir", la communauté villageoise du paysannat slave. L'Occident était prédestiné, ajoute Mac-kinder, à choisir le capitalisme car ses reli-gions évoquent sans cesse le salut individuel (un autre Britannique, Tawney, présentera également une typologie semblable).

 

Le chemin de fer accélerera le transport sur terre, écrit Mackinder, et permettra à la Russie, maîtresse de la Terre du Milieu si-bérienne, de développer un empire industriel entièrement autonome, fermé au commerce des nations thalassocratiques. L'antagonisme Terre/Mer, héritier de l'antagonisme reli-gieux et philosophique entre Rome et Byzan-ce, risque alors de basculer en faveur de la Terre, russe en l'occurence. Quand Staline annonce la mise en chantier de son plan quinquennal en 1928, Mackinder croit voir que sa prédiction se réalise. Depuis la Révo-lution d'Octobre, les Soviétiques ont en ef-fet construit plus de 70.000 km de voies ferrées et ont en projet la construction du BAM, train à voie large et à grande vitesse. Depuis 70 ans, la problématique reste identi-que. Les diplomaties occidentales (et surtout anglo-saxonnes) savent pertinemment bien que toute autonomisation économique de l'espace centre-asiatique impliquerait auto-matiquement une fermeture de cet espace au commerce américain et susciterait une réorganisation des flux d'échanges, le "crois-sant interne" ou "rimland" constitué de la Chine, de l'Inde et de l'Europe ayant intérêt alors à maximiser ses relations commerciales avec le centre (la "Terre du Milieu" proprement dite). Le monde assisterait à un quasi retour de la situation pré-colombienne, avec une mise entre parenthèses du Nouveau Monde.

 

Pour Mackinder, cette évolution historique était inéluctable. Si Russes et Allemands conjuguaient leurs efforts d'une part, Chinois et Japonais les leurs d'autre part, cela signifierait la fin de l'Empire Britannique et la marginalisation politique des Etats-Unis. Pourtant, Mackinder agira politiquement dans le sens contraire de ce qu'il croyait être la fatalité historique. Pendant la guerre civile russe et au moment de Rapallo (1922), il soutiendra Denikine et l'obligera à concéder l'indépendance aux marges occidentales de l'Empire des Tsars en pleine dissolution; puis, avec Lord Curzon, il tentera de construire un cordon sanitaire, regroupé au-tour de la Pologne qui, avec l'aide française (Weygand), venait de repousser les armées de Trotsky. Ce cordon sanitaire poursuivait deux objectifs: séparer au maximum les Allemands des Russes, de façon à ce qu'ils ne puissent unir leurs efforts et limiter la puissance de l'URSS, détentrice incontestée des masses continentales centre-asiatiques. Corollaire de ce second projet: affaiblir le potentiel russe de façon à ce qu'il ne puisse pas exercer une trop forte pression sur la Perse et sur les Indes, clef de voûte du système impérial britannique. Cette stratégie d'affaiblissement envisageait l'indépendance de l'Ukraine, de manière à soustraire les zones industrielles du Don et du Donetz et les greniers à blé au nouveau pouvoir bolchévique, résolument anti-occidental.

 

Plus tard, Mackinder se rendra compte que le cordon sanitaire ne constituait nullement un barrage contre l'URSS ou contre l'ex-pansion économique allemande et que son idée première, l'inéluctabilité de l'unité eurasienne (sous n'importe quel régime ou mode juridique, centralisé ou confédératif), était la bonne. Le cordon sanitaire polono-centré ne fut finalement qu'un vide, où Allemands et Russes se sont engouffrés en septembre 1939, avant de s'en disputer les reliefs. Les Russes ont eu le dessus et ont absorbé le cordon pour en faire un glacis protecteur. Mackinder est incontestablement l'artisan d'une diplomatie occidentale et conservatrice, mais il a toujours agi sans illusions. Ses successeurs reprendront ses ca-tégories pour élaborer la stratégie du "con-tainment", concrétisée par la constitution d'alliances sur les "rimlands" (OTAN, OTASE, CENTO, ANZUS).

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En Allemagne, Haushofer, contre la volonté d'Hitler, avait suggéré inlassablement le rapprochement entre Japonais, Chinois, Rus-ses et Allemands, de façon à faire pièce aux thalassocraties anglo-saxonnes. Pour étayer son plaidoyer, Haushofer avait repris les arguments de Mackinder mais avait inversé sa praxis. La postérité intellectuelle de Mackinder, décédé en 1947, n'a guère été "médiatisée". Si la stratégie du "contain-ment", reprise depuis 1980 par Reagan avec davantage de publicité, est directement inspirée de ses écrits, de ceux de l'Amiral Mahan et de son disciple Spykman, les journaux, revues, radios et télévision n'ont guère honoré sa mémoire et le grand public cultivé ignore largement son nom... C'est là une situation orwellienne: on semble tenir les évidences sous le boisseau. La vérité serait-elle l'erreur?

 

Robert STEUCKERS.

 

W.H. PARKER, Mackinder. Geography as an Aid to Statecraft, Clarendon Press, Oxford, 1982, 295 p., £ 17.50.  

 

mardi, 16 mars 2010

Les Malouines ou la porte vers l'Antarctique

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Bernhard TOMASCHITZ:

 

Les Malouines ou la porte vers l’Antarctique

 

La réactivation du conflit anglo-argentin pour les Malouines: l’enjeu, c’est le contrôle des matières premières!

 

 

Les relations entre l’Argentine et le Royaume-Uni entrent à nouveau en zone de turbulences. Le motif? Une fois de plus, les Iles Malouines dans l’Atlantique Sud, dont les Argentins réclament la rétrocession. L’entreprise britannique « Desire Petroleum » a entamé, fin février, début mars, des prospections et commencé des forages à 500 km au nord des Iles et devant les côtes argentines, afin de trouver du pétrole. Les réserves pétrolières dans cette région inhospitalière sont estimées, par les spécialistes, à 60 milliards de barils (de 159 litres chacun). A titre de comparaison, citons quelques chiffres : l’Arabie saoudite dispose des plus grandes réserves de pétrole au monde, avec 260 milliards de barils.

 

falklands_6_yomp.jpgFace à ces prospections, l’Argentine cherche à marquer des points sur le front diplomatique. Jorge Taiana, ministre argentin des affaires étrangères, a demandé, lors d’un entretien avec le secrétaire général de l’ONU, Ban Ki-Moon, l’intervention des Nations Unies. Il avance pour argument que les forages britanniques à proximité des Iles sont « un acte illégal qui offense le droit des gens », alors que « des résolutions explicites des Nations Unies exigent qu’aucune des deux parties ne pose d’actes unilatéraux qui pourraient aggraver la situation ». En 1982, le Royaume-Uni et l’Argentine s’étaient affrontés lors d’une guerre de dix semaines pour la maîtrise de l’archipel malouin. Un millier de soldats avaient laissé leur vie dans ce conflit, tous camps confondus.

 

Aujourd’hui, l’Argentine reçoit le soutien des pays d’Amérique latine gouvernés à gauche. Le Président du Venezuela, Hugo Chavez,  a exigé, lors d’une rencontre à Mexico, rassemblant les responsables de 32 Etats d’Amérique centrale et d’Amérique du Sud, que la Reine d’Angleterre, Elizabeth II, retourne à l’Argentine les Iles occupées depuis 1833 par les Britanniques. Le président brésilien, Lula da Silva, quant à lui, a demandé pour quelle raison d’ordre géographique, politique ou économique l’Angleterre maintient-elle sa présence dans les Malouines ; aussitôt sa question posée, il a donné la réponse : « Il se pourrait bien que la raison en est que l’Angleterre est membre permanent du Conseil de Sécurité de l’ONU ». Le Président bolivien Evo Morales est pour sa part convaincu « que toute l’Amérique latine et tous les Etats des Caraïbes se rangeront derrière l’Argentine pour défendre les Iles Malouines ».

 

En constatant le soutien général dont bénéficie l’Argentine dans le Nouveau Monde, les Etats-Unis cherchent à éviter de perdre encore du crédit et de l’influence en Amérique latine, à cause d’un nouveau conflit pour les Malouines. Pour cette raison, le Président Obama a pris une position neutre, au grand dam de la Grande-Bretagne. « Les Etats-Unis reconnaissent de facto l’administration britannique des Iles Malouines mais ne prennent pas position face aux revendications de souveraineté des parties concernées », a fait savoir Obama. En Grande-Bretagne, où l’on aime se revendiquer des « special relationships » (des relations spéciales) entre Londres et Washington, cette posture de neutralité prise par les Etats-Unis a provoqué une tempête d’indignation. « L’Amérique trahit la Grande-Bretagne quand l’heure est grave » titrait le quotidien Daily Telegraph. Le Royaume-Uni se dit prêt à défendre les Malouines seul s’il le faut. « Nous avons pris toutes les mesures nécessaires pour nous assurer que les habitants des Iles soient correctement protégés », a déclaré Gordon Brown. Pour le premier ministre britannique, le conflit avec l’Argentine arrive au bon moment. Car en mai, il y aura en Grande-Bretagne des élections pour la Chambre des Communes : les sondages estiment à l’unanimité que les travaillistes de Brown doivent escompter une défaite. Or une attitude de fermeté dans la défense des intérêts britanniques offrirait une occasion magnifique de détourner l’attention des électeurs des problèmes de politique intérieure et du triste état de l’économie anglaise. Ce ne serait sans doute pas un hasard si les forages entrepris par les Britanniques à proximité des Malouines se soient déroulés quelques semaines avant les élections pour la Chambre des Communes, élections qui laissent entrevoir un changement de direction au profit des conservateurs.

 

A cela s’ajoute que les Britanniques ont considérablement renforcé leur présence militaire dans les Iles au cours de ces dernières années. Dans la base militaire de Mount Pleasant, à 35 miles de la capitale de l’archipel malouin, Stanley, quelque deux mille soldats britanniques sont stationnés. Ils sont équipés de missiles sol-air et appuyés par un destroyer et des avions de combat de type Eurofighter. Fin décembre 2009, les forces armées britanniques ont exécuté des manœuvres devant les Iles Malouines, « simulant l’invasion de l’archipel par l’ennemi ».

 

Les Iles Malouines n’ont pas seulement une importance économique pour Londres mais aussi une grande importance stratégique. A la fin janvier 2010, l’analyste militaire russe Ilya Kramnik a rédigé une longue contribution pour l’agence de presse RIA Novosti, où l’on peut lire « que les Iles Malouines et les autres îles de l’Atlantique Sud contrôlées par les Britanniques constituent de facto la porte d’entrée vers l’Antarctique ; c’est cela qui explique l’attitude résolue de Londres de vouloir garder à tout prix la souveraineté britannique non seulement sur les Malouines mais aussi sur la Géorgie du Sud et sur les Iles Sandwich du Sud ; les Britanniques veulent en outre maintenir leur volonté de souveraineté sur les Shetland et les Orcades du Sud, selon les dispositions du Traité de l’Antarctique ». Depuis de longues années, Londres s’efforce, devant la Commission de l’ONU responsable des plateaux continentaux, d’obtenir pour la Grande-Bretagne, dans cette région maritime, la souveraineté sur environ un million de km2.

 

Le Traité de l’Antarctique, en vigueur depuis 1961 et résultant d’une convention internationale, stipule que l’Antarctique, continent inhabité, doit être réservé exclusivement à des activités pacifiques, surtout scientifiques. Juste avant l’entrée en vigueur de ce traité, les revendications territoriales des uns et des autres, en l’occurrence celles du Royaume-Uni qui revendiquaient plus d’un million de km2, ont été « gelées ». Mais sous la carapace de glace de l’Antarctique se trouvent des réserves énormes de matières premières, dont l’exploitation pourrait s’avérer fort intéressante, et pas uniquement pour les Britanniques.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article tiré de l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°9/2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

Il Grande Gioco in Asia Centrale

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Il Grande Gioco in Asia centrale

di Marco Luigi Cimminella

Fonte: eurasia [scheda fonte] 

Con la vittoria del filo-russo Janukovič alle elezioni presidenziali ucraine, svoltesi lo scorso mese, Mosca ha ritrovato un probabile alleato nello scontro energetico ingaggiato dalle grandi potenze in Asia centrale e meridionale. Il petrolio vicino-orientale non basta a soddisfare il fabbisogno di idrocarburi di Europa e Stati Uniti, che spinti alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento, hanno finito per posare gli occhi sulle riserve caspiche e caucasiche. L’estrazione e l’esportazione di queste risorse sono da tempo sottoposte al rigido monopolio del colosso russo Gazprom che, con una serie di condutture che attraversano il territorio ucraino, rifornisce i mercati occidentali.


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Nel tentativo di contrastare questo chiaro “leverage” della politica estera russa, Washington, di concerto con alcuni paesi europei, ha approntato alcuni importanti progetti. Pensiamo al gasdotto Nabucco (il tragitto nella foto) o all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che permettono agli idrocarburi asiatici di viaggiare in direzione ovest scavalcando la Russia a sud. Allo stesso modo deve essere analizzato il proposito di costruire delle condutture che, attraversando le acque del Mar Nero e collegando Supsa, in Georgia, con Odessa, in Ucraina, permetta agli idrocarburi azerbaigiani, turkmeni e kazaki di raggiungere l’Europa, senza passare per il territorio di Mosca. Inizialmente il Cremlino aveva potuto ostacolare questo progetto grazie alla collaborazione del governo ucraino, con a capo il filo-russo Kučma. In seguito alla rivoluzione arancione che si era ultimata, nel 2004, con la nomina a presidente del liberale Juščenko, l’Ucraina si era mostrata favorevole ad aderire al disegno occidentale, manifestando chiare intenzioni di entrare a far parte della Nato e attirandosi così le dure critiche della classe dirigente russa. Nel febbraio scorso, Janukovič ha riportato, in seguito ad elezioni contestate dalla rivale Timošenko, un’importante vittoria che potrebbe cambiare gli assetti degli schieramenti impegnati in quella frenetica competizione, tesa all’accaparramento delle risorse energetiche, conosciuta come il Grande Gioco del XXI secolo.


Contesto storico del Grande Gioco

L’Asia centrale e meridionale ha sempre rivestito un’importanza fondamentale nello scacchiere internazionale. Considerandola come il cuore della “World Island”, cioè della massa continentale che comprende Eurasia e Africa, H. Mackinder, padre della geopolitica moderna, aveva scritto: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island controls the world”. In queste tre semplici frasi, il noto studioso raccoglieva il succo della sua teoria dell’Hertland, destinata ad avere grande successo nei secoli successivi e ad essere sottoposta anche a diverse rielaborazioni1. La teoria di Mackinder ha trovato riscontro pratico nel corso dell’Ottocento in relazione al cosiddetto “Grande Gioco”, il lungo ed estenuante conflitto che vide impegnati lo Zar e Sua Maestà nel tentativo continuo di imporre il proprio dominio in Asia centrale e meridionale.

La regione che Mackinder definisce “Terra cuore”, si identificava, nel corso della seconda metà dell’800, con il territorio sottoposto al controllo russo. Inaccessibile dal mare, ricca di petrolio e gas naturale, quest’area faceva dell’impero zarista lo stato perno dello scacchiere internazionale. Con una rottura dell’equilibrio di potenza, originatosi con il congresso di Vienna del 1814 in seguito alle sconfitte napoleoniche, lo Zar avrebbe potuto condurre l’esercito imperiale verso la conquista dei territori periferici dell’Eurasia. Successivamente, sfruttando le ingenti risorse energetiche della regione, San Pietroburgo avrebbe potuto dotarsi di una immensa flotta, capace di concorrere con quella britannica per il dominio dei mari. Proprio lo sbocco al mare ha costituito una delle priorità dell’agenda zarista nel corso dell’Ottocento. Due in particolare erano gli obbiettivi si San Pietroburgo: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. L’interesse per il primo fu parzialmente spento in seguito alla sconfitta nella Guerra di Crimea2 (1853-1856), che comportò un cambiamento di rotta nella politica estera zarista. La Russia puntava ora ad estendere la propria influenza nei khanati in Asia centrale, e da qui, procedendo verso sud, avrebbe potuto garantirsi uno sbocco sull’Oceano Indiano.

Naturalmente, le mire espansionistiche di San Pietroburgo andarono presto incontro alla dura opposizione britannica. Difatti, in Asia meridionale vi era l’India, considerata dalla regina Vittoria la gemma del suo impero coloniale. Il continuo avanzamento delle truppe zariste nei territori centro-asiatici costituiva una grande minaccia che bisognava debellare. In particolare, il Foreign Office aveva individuato nell’Afghanistan un’ottima base strategica che le truppe russe avrebbero potuto utilizzare per infliggere duri attacchi alla prediletta fra le colonie della regina. La necessità di contenere l’espansionismo zarista, facendo dell’Afghanistan uno stato cuscinetto contro le pretese egemoniche di San Pietroburgo, diede inizio ad un esasperante conflitto che si ripercuoterà nel corso dei secoli, giungendo prorompente sullo scenario internazionale attuale.


L’importanza strategica dell’Asia centrale oggi

Questa regione ha assunto un’importanza strategica considerevole nel contesto internazionale odierno. Le motivazioni sono evidenti. In primo luogo, significativa è la questione energetica. Secondo il parere di geologi ed esperti, l’intera area trabocca di idrocarburi. Vero è che tali riserve non sono quantitativamente comparabili a quelle del Golfo Persico. Ciononostante, sono in grado di saziare, almeno per il momento, gli ingordi appetiti energetici delle grandi potenze, comportandosi come un ottimo succedaneo agli idrocarburi vicino-orientali, la cui fruizione è sempre soggetta a continue oscillazioni dovute al fondamentalismo islamico e al terrorismo internazionale. I giacimenti più ricchi li rinveniamo nel bacino caspico, nonché in Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Iran. In Azerbaijan, l’estrazione di petrolio è aumentata da 180.000 barili al giorno (barrels per day bbl/d) del 1997 a 875.000 bbl/d nel 2008. Apprezzabili anche le riserve di gas naturale, la cui produzione ha raggiunto, nel 2008 572 btc (billion cubic feet). Un altro importante produttore è il Turkmenistan, che nel 2008 ha raggiunto i 189.400 bbl/d di oro nero e 70.5 miliardi di metri cubi di oro blu. Considerevoli anche le riserve uzbeke, che nel 2008 ammontavano a 67.6 miliardi di metri cubi di gas e 83.820 bbl/d di petrolio. Le coste caspiche kazake garantiscono un ottimo approvvigionamento di petrolio, con una produzione di 1,45 milioni di barili al giorno nel 2007. Infine l’Iran, che solo nel 2008 ha esportato 2,4 milioni di barili al giorno, sia verso l’Asia che verso i paesi europei facenti parte dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)3.

In secondo luogo, vi sono anche consistenti motivazioni di carattere commerciale che non bisogna sottovalutare. Fin dai tempi antichi, infatti, questa regione aveva assunto il ruolo di crocevia di itinerari terrestri, marittimi, fluviali che, mettendo in comunicazione la Cina con il Mediterraneo, consentiva alle carovane di mercanti di vendere i pregiati ed esotici prodotti orientali sui mercati occidentali. Questo corridoio commerciale fu chiamato, dal geologo e geografo tedesco Ferdinand von Richthofen “Seidenstrabe” (via della seta). La classe dirigente zarista prima, poi quella sovietica e infine quella russa, ha sempre considerato l’Asia centrale come una regione strategica per Mosca. In particolare, nel corso del secondo conflitto mondiale e poi successivamente durante la guerra fredda, questo territorio fungeva da bacino energetico per la potente macchina bellica comunista. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, come scrive Zbigniew Brzezinski, si generò un buco nero, che successivamente finì per ridimensionare la presenza russa nel territorio. L’erosione del controllo moscovita fu accelerata dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991, dai continui tentativi della Turchia di accrescere il proprio peso in Georgia e Armenia, dalla rinascita del fervore nazionalista e musulmano nelle ex-repubbliche centro-asiatiche, continuamente impegnate nel porre fine ad una soffocante dipendenza economica, dal sapore marcatamente sovietico, nei confronti di Mosca.

Di conseguenza, fin dai primi anni novanta, l’esigenza di diversificare i propri partner politici ed economici ha assunto una significativa importanza per questi paesi, che, nel conseguimento di quest’obbiettivo, hanno incontrato non poche difficoltà. L’adozione di un approccio liberale classico, esplicatosi in questo caso in una maggiore collaborazione economica fra i paesi centro-asiatici, preludio ad un’integrazione di carattere politico, ha mostrato serie difficoltà nella sua applicazione pratica. In primo luogo, l’implementazione iniziale di politiche liberali da parte delle ex-repubbliche sovietiche ebbe dei seri risvolti negativi. Il Kirghizistan entrò a far parte, nel 1998, del WTO, mentre Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Afghanistan, Iran ne divennero osservatori. Ben presto questi paesi si accorsero che le loro deboli economie, scarsamente diversificate, non potevano reggere contro l’inondazione delle esportazioni straniere, in particolare quelle cinesi, più convenienti e vantaggiose. Per salvaguardare l’economia nazionale era quindi necessario adottare, almeno inizialmente, politiche protezioniste, e solo dopo aver sviluppato solide basi, concorrere con le altre potenze su un piano mondiale. In secondo luogo, allo scopo di incentivare una maggiore integrazione economica e finanziaria, i fragili paesi centro-asiatici avevano bisogno degli investimenti stranieri per promuovere la costruzione di infrastrutture funzionali alla realizzazione di profittevoli scambi commerciali in Eurasia. Da qui la frenetica competizione delle grandi potenze, in una lotta diplomatica senza esclusione di colpi, tesa ad una spartizione della torta asiatica che le favorisca.

Come scrive Joseph Nye4 siamo ormai catapultati in una realtà sempre più interdipendente, frutto di una globalizzazione a diversi livelli, economico, politico, socioculturale, religioso. Il ripristino di corridoi multimodali, funzionali al commercio e al trasporto di idrocarburi, si presenta inevitabile, garantendo la possibilità, agli stati della regione, di diversificare i propri partner energetici, finanziari, commerciali, politici, militari. Ed è così che la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione Europea prendono parte ad un interessante affare che per più di cinquant’anni è stato dominio esclusivo di Mosca. Un nuovo “Grande Gioco” è scoppiato quindi in Asia centrale e meridionale. Nuovi paesi recitano, sul proscenio internazionale, uno scontro, di kiplingiana memoria, che deciderà i destini dell’equilibrio mondiale. Washington, Pechino, Mosca, Bruxelles, nel perseguire ciascuno i propri obiettivi nella regione, non potranno assolutamente sottovalutare le esigenze delle piccole e medie potenze dell’area che, lungi dall’essere semplici spettatori passivi, rivendicano un ruolo da protagoniste attive nel decidere le sorti del futuro assetto geopolitico internazionale.


* Marco Luigi Cimminella, dottore in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con la redazione di “Eurasia”


Note

1 – Degno di nota fu la rivisitazione della teoria di Mackinder ad opera di Spykman, che attribuì maggiore importanza al concetto di Rimland, intesa come la fascia costiera euroasiatica dove si sarebbe inscenato lo scontro fra le potenze di terra e quelle di mare per il dominio del mondo.

2 – San Pietroburgo poteva infatti garantirsi uno sbocco nel Mediterraneo in due diversi modi. Il primo consisteva nel passare attraverso la regione dei Balcani, sottoposta al controllo turco. La seconda, controllare lo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, entrambi sotto la reggenza ottomana. La strategia russa fu quella di attendere che l’esasperazione dei popoli salvi, insofferenti alla dominazione del sultano, prorompesse in una guerra contro la dominazione turca. Le forze militari russe avrebbero allora combattuto a fianco della popolazione locale, di cui lo zar si proclamava protettore, per stroncare le truppe ottomane e imporre il proprio controllo sulla regione. L’ostilità e l’opposizione turca nei confronti delle mire zariste fu rafforzata dall’impegno bellico di Regno Unito, Piemonte e Francia, che segnò, nella guerra di Crimea, la fine militare delle pretese pseudo religiose ed espansionistiche di Nicola I.

3 – Fonte dati: http://www.eia.doe.gov/

4 – http://www.theglobalist.com/StoryId.aspx?StoryId=2392

vendredi, 12 mars 2010

Is de oorlog om de olie en gas uitgebroken?

Is de oorlog om olie en gas uitgebroken?

Ex: Nieuwsbrief Deltastichting - n°33 (maart 2010)
Het is duidelijk dat we ons al een tijdje in een overgangsfase bevinden, een interregnum: de oude zekerheden van vorige eeuw zijn weggevallen, de opdeling van de wereld in ‘goeden’ – de NAVO, het vrije Westen, West-Europa, Amerika – en de ‘slechten’ – de communistische staten rond de USSR en China – is ongedaan gemaakt, en in de plaats daarvan is een ingewikkelde wereld met veel en tegenstrijdige krachten. China botst met Rusland, Amerika botst met iedereen, China eist een stuk van de markt in Afrika, Rusland zoekt toenadering met Europa, dat nochtans een veilige afstand wil bewaren. De globalisering van de economie – waarvan het einde nu ook al voorspeld wordt door Chinakenner Jacques Martain in De Tijd (06.03.2010) – zorgt ervoor dat nog meer dan vroeger de controle over de energiebronnen een, zoniet dé inzet wordt van de strijd tussen de grote spelers op de wereldmarkt.
 
Het mag dan al zo zijn, dat we in snel tempo aan het afstevenen zijn naar het einde van het tijdperk van de fossiele brandstoffen, feit is nochtans dat de strijd ook en nog steeds gaat om de controle van onder andere olie. Maar ook in toenemende mate gas. Daarover willen we het hier hebben.
 
Rusland was in de jaren 80 van vorige eeuw de grootste producent van petroleum, maar met het ineenstorten van de Sovjet-Unie zakte ook de productie in elkaar. Met Poetin aan de macht in het Kremlin werd hieraan grotendeels verholpen en moet men vaststellen dat Rusland opnieuw is opgeklommen tot de tweede producent van petroleum, na Saoedi-Arabië. Rusland is goed voor ongeveer 6% van ontdekte wereldreserves, maar gelet op het feit dat nog heel wat grondgebied niet volledig is onderzocht, zou dit aandeel wel eens kunnen stijgen in de komende jaren. Maar Rusland speelt vooral een grote rol op het vlak van de gasproductie, haar reserves zijn goed voor 30% van de wereldvoorraad. Daarnaast bevinden zich 25% van de steenkoolreserves op het Russische grondgebied. Zij is dus een hoofdspeler op de wereldenergiemarkt.
 
Op dat vlak is ze de perfecte tegenspeler op het vlak van energievoorziening: het islamitische deel van het Midden-Oosten (Saoedi-Arabië, Irak, Iran, de Golfemiraten). Dit politiek en economisch belangrijke stuk van het Midden-Oosten controleert 2/3de van de wereldreserves van aardolie en meer dan een derde van alle gasvoorraden.

 

Wie doet beroep op en is afhankelijk van de Russische energievoorziening? De Europese Unie eerst en vooral (ze koopt er de helft van haar gas en zo’n 20 van haar petroleum), Japan, China, India, Korea. Tegen 2020 zal een belangrijk deel van de energie-export van Rusland in de richting van Zuid-Oost-Azië gaan, rekenen economische commentatoren ons voor.
 
Zo bekeken was het voor Poetin al heel lang overduidelijk dat de energievoorziening de joker wordt van de Russische heropstanding. Met dit onderwerp heeft de Russische politicus zijn doctoraat aan de universiteit van Sint-Petersburg gehaald, en met dezelfde vaststellingen bouwt hij zijn politiek verder uit. Niet alleen zal de export van energie Rusland de middelen verschaffen om haar dominante militaire, economische en politieke rol in de wereld te vestigen, de staten die voor hun energievoorziening afhankelijk zijn van de toevoer vanuit Rusland, zullen dit ook politiek vertaald zien.

Aan de andere kant van het geografische spectrum blijven de VSA natuurlijk ook op een zeer prominente manier aanwezig. Niet alleen hebben zij sinds de oorlog tegen Irak hun controle op de petroleum in het Midden-Oosten versterkt, maar daarenboven domineren zij met hun enorme oorlogsvloot zowat alle grote zeevaartroutes ter wereld. Terwijl Amerika dus met haar oorlogsvloot Rusland wil verzwakken door haar te omsingelen, gebeurt eigenlijk hetzelfde door Rusland, dat Amerika wil verzwakken door continentale aanvoerroutes op te zetten van aardolie en gas. Op die manier wil Rusland haar positie van wereldspeler veilig zetten, terwijl Amerika er alles aan doet om haar eerste rangsrol te verdedigen. De oorlog om het gas en de olie is dus inderdaad losgebroken. De Europeanen zitten in deze ‘vreedzame’ oorlog op een uitermate ongemakkelijke plaats: ze hebben een militaire alliantie met de VSA, maar zij economisch sterk afhankelijk van de olie- en gastoevoer vanuit Rusland.
 
Misschien als uitsmijter het volgende meegeven: de strijd van Poetin om de energiemarkt is een strijd op twee fronten. Hierboven hebben we al een kleine inkijk gegeven op de strijd buiten de grenzen van Rusland. Maar de strijd werd eerst intern gevoerd, en die strijd heeft Poetin grotendeels gewonnen. Ik heb het dan over de strijd tegen de grote olie-oligarchen op het Russische grondgebied. Een aantal namen zijn wellicht bij onze lezers blijven hangen: Gazprom en Rosneft, maar vooral Joekos en Michaël Khodorchovski. Sommigen hebben het in dat verband zelfs over petroleumnationalisme. 

(Peter Logghe)

jeudi, 11 mars 2010

New Article on Dugin

duginssssxxx.jpgNew article on Dugin

Ex: http://traditionalistblog.blogspot.com/
Anton Shekhovtsov, "Aleksandr Dugin’s Neo-Eurasianism: The New Right à la Russe," Religion Compass 3/4 (2009): 697–716

Abstract:
Russian political thinker and, by his own words, geopolitician, Aleksandr Dugin, represents a comparatively new trend in the radical Russian nationalist thought. In the course of the 1990s, he introduced his own doctrine that was called Neo-Eurasianism. Despite the supposed reference to the interwar political movement of Eurasianists, Dugin’s Neo-Eurasian nationalism was rooted in the political and cultural philosophy of the European New Right. Neo-Eurasianism is based on a quasi-geopolitical theory that juxtaposes the ‘Atlanticist New World Order’ (principally the US and the UK) against the Russia-oriented ‘New Eurasian Order’. According to Dugin, the ‘Atlanticist Order’ is a homogenizing force that dilutes national and cultural diversity that is a core value for Eurasia. Taken for granted, Eurasia is perceived to suffer from a ‘severe ethnic, biological and spiritual’ crisis and is to undergo an ‘organic cultural-ethnic process’ under the leadership of Russia that will secure the preservation of Eurasian nations and their cultural traditions. Neo-Eurasianism, sacralized by Dugin and his followers in the form of a political religion, provides a clear break from narrow nationalism toward the New Right ethopluralist model. Many Neo-Eurasian themes find a broad response among Russian high-ranking politicians, philosophers, scores of university students, as well as numerous avant-garde artists and musicians. Already by the end of the 1990s, Neo-Eurasianism took on a respectable, academic guise and was drawn in to ‘scientifically’ support some anti-American and anti-British rhetoric of the Russian government.

Le réveil du Vieux Monde

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Le réveil du Vieux Monde

par Louis SOREL

 

L'édifice diplomatico-stratégique s'écroule et l'Etablissement politique et médiatique n'en finit pas de jouer les prolongations. Ainsi, Thierry de Montbrial, docteur de l'IFRI, prêche le statu quo quand celui-ci n'existe plus, et Jacques Attali, sous couvert de prospective, fait dans le millénarisme soft  (1). C'est donc avec bonheur que nous avons lu le dernier ouvrage de William Pfaff, Le réveil du Vieux Monde. Citoyen américain de souche rhénane, vivant à Paris, William Pfaff développe avec finesse et objectivité ses analyses sur l'ordre international de l'après-guerre. Son diagnostic est sévère et lucide: les héros (Etats-Unis et URSS) sont fatigués et les fissures du monde bipolaire laissent entrevoir un possible retour à la primauté pluriséculaire de l'Europe.

 

indexooooooo.jpgC'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).

 

Le «siècle américain» n'a pas

duré cinquante ans...

 

Quarante-cinq années après la clôture de cette guerre de trente ans, la bi-hégémonie américano-soviétique est remise en cause. «Le siècle américain n'aura pas duré cinquante ans» et W. Pfaff fait de l'idéologie américaine la cause majeure des revers extérieurs. De l'isolationnisme de l'Age classique à l'internationalisme de l'après-guerre, la politique extérieure des Etats-Unis se fonde en effet sur la présomption de supériorité morale; qu'il s'agisse de se préserver de ce monde corrompu ou de le convertir, avec pour postulat tacite de Washington à Bush: «L'Amérique ne serait en lieu sûr dans le monde que le jour où le monde lui ressemblerait d'assez près» (4).

 

Ce messianisme à base de calvinisme et de libéralisme n'a cessé de se heurter à la force des choses. L'Amérique s'est enthousiasmée pour les «Etats-Unis d'Europe» mais depuis le guerre commerciale fait rage et l'insipide technocrate qu'est Jacques Delors se surprend à hausser le ton! L'Amérique a cru l'Asie plus docile et ouverte à son influence  mais elle n'en finit pas d'exorciser le spectre du Vietnam!

 

Et pourtant, le vieux vocabulaire de l'exceptionalisme américain persiste, faute d'autre philosophie politique: «Mise au défi de repenser la politique en Amérique centrale, la Commission Kissinger, groupe de réflexion à dominante conservatrice qui remit son rapport en 1984, ne trouva rien de mieux à proposer qu'un ambitieux programme d'assistance pour aider les populations centre-américaines à faire leur la vision de l'avenir que représentent nos idéaux».

 

Parallèlement, les anciennes sociétés culturellement autonomes d'Europe centrale et d'Eurasie auront survécu à la puissance soviétique et démontrent le caractère inéluctablement transitoire du communisme. Cette volonté de faire table rase du passé a généré la situation d'insécurité permanente de l'URSS.

 

Aujourd'hui l'Amérique souffre d'hypertrophie impériale et invoquer les mânes des Founding Fathers  ne conjurera pas le déclin. De même, le retour de Lénine prôné par Gorbatchev ne peut légitimer un système à bout de souffle (5). Ironie de l'histoire, «de cette révolution, il (Gorbatchev) pourrait bien être le Kérenski!». La rétraction des deux protagonistes du jeu politique mondial n'est pas sans risques, mais la fin du «siècle américain» débouche sur un nouveau «siècle européen». De fait, le thème récurrent du Pacifique, Méditerranée du XXIième siècle, a pu dominer l'orée des années 80, la remarquable réussite d'un Japon fondamentalement autre n'a pas valeur paradigmatique, W. Pfaff se montrant circonspect quant à l'éveil de la Chine, tant la vigueur des cultures de frontière fait défaut à la civilisation centrale (6). Demeure donc au centre du monde l'Europe, dont le partage était l'enjeu de la guerre froide, les Etats-Unis ne pouvant s'en abstraire sans renoncer à la puissance.

 

Quelles destinées pour

la Grande Europe...?

 

«Lorsque le maître de la mer dispose d'un pareil atterrage, écrit Georges Buis, il ne le lâche pas». De bon gré, ajouterions-nous. Un temps déclassée mais bénéficiant des plus formidables antécédents historiques, «l'Europe pourrait même à l'avenir compter davantage que les Etats-Unis». Ecrivant ces lignes avant le jeu de domino de l'automne 1989, l'auteur n'envisage alors que le seul sort de la CEE; avec la fermeture de la parenthèse soviétique, les destinées de la Grande Europe sont manifestement autres que celles des Etats-Unis.

 

«Depuis la fin de la guerre, le privilège de l'irresponsabilité a été la qualité saillante de la situation en Europe» et, après quarante années de statu quo, l'espace paneuropéen est à organiser, la question centrale étant l'avenir de l'URSS. Constatant que l'occupation du glacis centre-européen n'a pu assurer la sécurité de l'Etat soviétique, W. Pfaff estime possible et nécessaire un arrangement russo-européen fondé sur la claire conscience du coût prohibitif et de l'irrationalité politique de toute nouvelle guerre en Europe. A cette fin, il réhabilite le statut de la Finlande acquis à la pointe de l'épée et injustement dénigré. «La vieille peur de la Russie, consciente de sa faiblesse et de son arriération, a toujours été la peur de l'encerclement», la neutralisation de l'Europe centrale pourrait l'en affranchir.

 

La guerre froide terminée, W. Pfaff n'entonne pas pour autant un Te Deum.  Au terme d'une aventure politique et morale qui a commencé avec le voyage de Lénine dans un fourgon scellé, les étoiles sont mortes (intitulé du premier chapitre). «L'Amérique fut un empire éphémère» et l'Europe reste «le nœud de l'histoire contemporaine». L'histoire nous offre une page blanche: «L'aventure léniniste est terminée. La question capitale demeure: qu'est-ce qui a commencé?».

 

Louis SOREL.

 

William PFAFF, Le réveil du Vieux Monde. Vers un nouvel ordre international, Calmann-Lévy, 1990, 130 FF.

 

Notes

 

(1) Dans le Figaro  du 5 octobre 1989, Thierry de Montbrial prétend vouloir favoriser leur (les peuples de l'Europe de l'Est) affranchissement de l'impérialisme soviétique, mais «sans bouleverser l'équilibre européen, car nous ne serions certainement pas prêts à en assumer les risques». Jacques Attali, pseudo-futurologue, prédit dans Signes d'horizon  (Fayard, 1989) la fin de la crise par la généralisation de l'ordre marchand, un mode de vie universel, le triomphe de l'individu et du nomadisme...». Voir également John Naisbitt, Méga-tendances - 1990-2000 (éd. First).

(2) Cf. Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances, Payot, Paris, 1989. Cfr. Vouloir  n°50/51. La version originale a suscité un important débat aux Etats-Unis.

(3) cf. Alain de Benoist, «Pensée politique: l'implosion», in Krisis,  n°1, 1989.

(4) Sur la politique extérieure des Etats-Unis, voir Bernard Boëne, «La stratégie générale des Etats-Unis ou le jeu sans fin (?) de l'idéologie et du réalisme», in Stratégique,  n°39/1988. Et l'essai de Michel Jobert, Les Américains  (Albin Michel, 1987).

La prégnance de l'American Creed  depuis deux siècles explique l'aspect "croisade messianique" et les caractères anti-clausewitziens des guerres américaines: les objectifs poursuivis  -la capitulation sans condition de l'adversaire-  et les moyens mis en œuvre sont disproportionnés par rapport aux enjeux initiaux.

(5) Contre la thèse aronienne du projet humanitaire dévoyé par Staline, lire Dominique Colas, Lénine et le léninisme,  PUF, 1987. L'auteur y démontre avec rigueur le caractère intrinsèquement totalitaire du léninisme.

(6) W. Pfaff se réfère à Arnold Toynbee dont l'ouvrage majeur, L'Histoire  (Bordas, 1981) a été recensé par Ange Sampieru dans Vouloir  n°50/51.

mercredi, 10 mars 2010

Nouveautés sur le site "Vouloir"

Nouveautés sur le site

http://vouloir.hautetfort.com/

 

Landsknecht16JH.jpgDossier “Géopolitique”:

 

Robert STEUCKERS:

Rudolf Kjellen (1864-1922)

 

Louis PALLENBORN:

Introduction à la géopolitique (entretien)

 

René-Eric DAGORN:

La géopolitique en mutation

 

Hervé COUTAU-BEGARIE:

Critique de la géopolitique

 

Dossier “Guerillas”:

 

Christian NEKVEDAVICIUS:

Guerilla dans les forêts de Lituanie

 

Arnaud LUTIN:

La longue nuit d’un “Frère de la Forêt”

 

Dag KRIENEN:

Nouvelles études sur la guerre des partisans en Biélorussie (1941-1944)

 

Dossier “Participation”:

 

Robert STEUCKERS:

Participation gaullienne et “ergonisme”: deux corpus d’idées pour la société de demain

 

Ange SAMPIERU:

La participation: une idée neuve?

 

Pascal SIGODA:

Charles De Gaulle, la “révolution conservatrice” et le personnalisme du mouvement l’Ordre Nouveau

 

Jean-Jacques MOURREAU:

De Gaulle, visionnaire de l’Europe

 

Dossier “Synergies Européennes”:

 

Robert STEUCKERS:

Discours pour l’Europe

(Paris, 9 novembre 1988)

 

Robert STEUCKERS:

Réflexions sur le destin et l’actualité de l’Europe

(Paris, mai 1985, colloque “Troisième Voie”)

 

Robert STEUCKERS:

Pour préciser les positions de SYNERGIES EUROPEENNES

(Questions de Pieter Vandamme)

 

Hors dossiers:

 

Thierry MUDRY:

L’itinéraire d’Ernst Niekisch

 

Alois PRESSLER:

Réflexions sur le voyage de Guillaume II en Palestine

 

Robert STEUCKERS:

Herman Wirth (1885-1981)

 

La Russie veut assurer son autosuffisance alimentaire et devenir une grande puissance agricole

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La Russie veut assurer son autosuffisance alimentaire et devenir une grande puissance agricole

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Assurer enfin l’indépendance alimentaire du pays et devenir une grande puissance agricole. Telles sont les ambitions de la Russie, invitée d’honneur du Salon international de l’agriculture, jusqu’au dimanche 7 mars. A la suite de l’explosion de l’URSS, Moscou avait pourtant abandonné ce secteur. La production agricole russe s’était effondrée de moitié entre 1991 et le tournant des années 2000. Au point que l’Union européenne avait dû faire parvenir, fin 1998, une aide alimentaire d’urgence d’un montant de 400 millions d’euros.

 

Le revirement date de 2005, quand Vladimir Poutine, alors président, a fait de l’agriculture un des piliers de l’essor économique du pays. Deux ans plus tard, Moscou a même lancé un plan quinquennal pour le secteur de 551 milliards de roubles (13,7 milliards d’euros). Une somme censée être doublée par les régions.

Mais, malgré les progrès affichés ces dernières années, Moscou reste très dépendant des importations : en 2009, le pays a acheté à l’étranger 30 % de sa consommation de viande et 20 % de ses produits laitiers, selon le ministère russe de l’agriculture. Un chiffre qui atteindrait même, selon un spécialiste local, 70 % pour les fruits.

« L’indépendance alimentaire est une composante de la sécurité d’Etat », explique Elena Borisovna Skrynnik, la ministre de l’agriculture russe. « Notre objectif est d’arriver à produire nous-mêmes, en 2012, 85 % de notre consommation de viande, de produits laitiers ou de sucre. En 2009, nous avons réduit les importations de viande d’un quart. »

Le dossier est supervisé en haut lieu : le plan quinquennal a été placé sous la responsabilité du vice-premier ministre russe, Viktor Zoubkov, un proche de M. Poutine qui fut son premier ministre lors des derniers mois de sa présidence. Et les oligarques ont été invités à s’intéresser à l’agriculture : Vladimir Potanine, le confondateur du géant Norilsk Nickel, est ainsi devenu un acteur de poids du secteur.

Ce marché prometteur ainsi que la flambée des cours des matières premières en 2008, depuis retombée, ont attiré de nouveaux investisseurs : « J’ai vu arriver des banquiers ou des vendeurs de 4×4, qui venaient me voir pour mettre de l’argent dans l’agriculture », explique un Français basé à Moscou. « Certains étaient prêts à acheter 10 000 vaches en une commande. »

Une aubaine pour les fournisseurs étrangers de bêtes, de semences ou de matériels, à commencer par les Allemands, les Néerlandais ou les Danois, qui ont été les plus prompts. Si des bovins français – comme la Salers ou l’Aubrac – ont fait leur apparition en Russie, leur présence n’est toutefois pas à la hauteur de la réputation des races de l’Hexagone.

La Russie, qui a pu faire office dans le passé de « grenier à blé » du monde, est aussi redevenue un acteur incontournable sur le marché des céréales. Lors de la campagne 2008-2009, le pays a exporté 17,5 millions de tonnes de blé, juste derrière les Etats-Unis (26,5 millions) et l’Union européenne (21 millions). Et vise à terme 35 à 50 millions de tonnes. Il est vrai que la Russie possède un atout de taille : les tchernozioms, ces fameuses terres noires très grasses et extrêmement fertiles.

« Comme l’Ukraine ou le Kazakhstan, la Russie est devenue un pays redoutable et très agressif », explique François Gatel, directeur de France Export Céréales, un organisme de promotion des produits français. « Avec des coûts de production bien inférieurs et des parités monétaires plus avantageuses, elle a réussi à pénétrer des marchés où nous nous étions fortement développés, comme l’Egypte. »

Et le pays possède un énorme potentiel. D’abord du fait de sa taille : 220 millions d’hectares de surface agricole utile, soit presque 10 % des terres cultivables dans le monde, très loin d’être toutes exploitées. Ensuite en raison de rendements encore faibles : en moyenne 22 quintaux de blé par hectare (70 en France). De quoi devenir, dans dix ans, une puissance agricole incontournable, voire la plus puissante ?

« On fera tout pour y parvenir », glisse Mme Skrynnik. Avant d’ajouter en souriant : « Mais comme vous, les Français. »

Le Monde

De eilandsgroep Palestina

De eilandengroep Palestina

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Voor u denkt dat ik compleet doorsla door te beweren dat het Nabije Oosten een eilandengroep is, zal ik het even uitleggen. Men denkt vaak dat de Westelijke Jordaanoever helemaal door de Palestijnse overheid wordt bestuurd. Niets is echter minder waar. Israël controleert nog steeds grote belangrijke stukken, vooral de grote verbindingswegen en het gebied daarond, en ook zijn er Joodse kolonies aanwezig op dat gebied.

Deze kaart heeft alle gebieden op de Westelijke Jordaanoever dat niet door de Palestijnen wordt bestuurd als water aangegeven en de effectieve Palestijnse gebieden als land. Een zeer interessante en mooie kaart die helaas een schrijnende werkelijkheid laat zien.

Tot slot nog een woordje uitleg van de maker hiervan:

The Bible contains at least two stories equating the aquatic with the amoral. As Red Sea pedestrians, Moses and the Israelites didn’t even get their sandals moist, while the Lord did some expert smiting on the pursuing Egyptians, by way of the gurgling waters closing in on them. And a few thousand years earlier, Noah kept his binary boatload afloat while all the rest of humanity (and the now extinct species of the animal kingdom) met their watery grave.

Even though this map of L’archipel de Palestine orientale (‘The Archipelago of Eastern Palestine’) is set in the same area and uses a similar theme, the cartographer behind it refutes any allegation that it is meant to reflect the same Biblical dry = good, wet = bad analogy. “The map is not about ‘drowning’ or ‘flooding’ the Israeli population, nor dividing territories along ethnic lines, even less a suggestion of how to resolve the conflict,” gasps Julien Bousac, the Frenchman who created this map.

A small excerpt of the map (focusing on the Greater Jerusalem area) was published a bit earlier on this blog, but the map in its entirety (sent in by Mr Bousac but also earlier by Baptiste Hautdidier) merits a separate entry, not only because “without a legend, it […] gives ground to various misinterpretations, due to the high sensitivity of the subject,” as Mr Boussac relates – but also because it just looks so nice. And strange, of course.

“Maybe posting the full map would help to take it for what it is, i.e. an illustration of the West Bank’s ongoing fragmentation based on the (originally temporary) A/B/C zoning which came out of the Oslo process, still valid until now. To make things clear, areas ‘under water’ strictly reflect C zones, plus the East Jerusalem area, i.e. areas that have officially remained under full Israeli control and occupation following the Agreements. These include all Israeli settlements and outposts as well as Palestinian populated areas.”

Mr Boussac took advantage of the resulting archipelago effect “to use typical tourist maps codes (mainly icons) to sharpen the contrast between the fantasies raised by seemingly paradise-like islands and the Palestinian Territories grim reality.” The map does have a strong vacationy vibe to it – but whether that is because of the archipelago-shaped subject matter, or due to the cheerful colour scheme is a matter for debate.

Those colours, incidentally, denote urban areas (orange), nature reserves (shaded), zones of partial autonomy (dark green) and of total autonomy (light green). Totally fanciful are of course the dotted lines symbolising shipping links, the palm trees signifying protected beachland, and the purple symbols representing various aspects of seaside pleasure. The blue icon, labelled Zone sous surveillance (‘Zone under surveillance’) has some bearing on reality, as the locations of the warships match those of permanent Israeli checkpoints.

Some of the paradisiacally named islands include Ile au Miel (Honey Island), Ile aux Oliviers (Isle of the Olive Trees), Ile Sainte (Holy Island) and Ile aux Moutons (Sheep Island), although the naming of Ile sous le Mur (Island beneath the Wall) constitutes a relapse into the grimness of the area’s reality.

Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden - oder für Opium und Uran...

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Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden – oder für Opium und Uran …

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Bei der »Operation Moshtarak«, einer vorab angekündigten massiven NATO-Offensive in der Stadt Marjah in der afghanischen Provinz Helmand, ging es offensichtlich nicht in erster Linie darum, die »Taliban« »auszulöschen« oder die versprengten Überreste einer angeblichen »Al Qaida« zu zerschlagen – die ohnehin immer mehr das Fantasieprodukt amerikanischer schwarzer Propaganda zu sein scheint. Welches Ziel hatte dann aber die Tötung so vieler unschuldiger afghanischer Zivilisten, darunter auch Frauen und Kinder?

Die Operation Moshtarak begann damit, dass Ort und mehr oder weniger die genaue Zeit des Angriffs in einer bizarr anmutenden Erklärung bereits vorab bekannt gegeben wurden. Bei ernsthaftem militärischem Vorgehen zeugt es nicht gerade von brillanter Taktik, den Gegner zuvor davon in Kenntnis zu setzen. Die Bombenangriffe umfassten den Einsatz ferngesteuerter amerikanischer Drohnen und anderer Flugzeuge, sie waren begleitet von einer Bodenoffensive von etwa 6.000 US-Marines, britischen und anderen NATO-Soldaten sowie Truppen der afghanischen nationalen Streitkräfte, insgesamt waren in der kleinen Stadt Marjah ca. 15.000 Soldaten im Einsatz. Das Weiße Haus spricht von der größten gemeinsamen US-NATO-afghanischen Militäroperation der Geschichte, die erste Großoffensive von Einheiten, die zu der von Barack Obama angeordneten »Aufstockung« um 30.000 Soldaten gehören.

Wie die New York Times berichtete, sind in den ersten Tagen der Offensive, die von der Propaganda des Pentagon als »humanitäre« Militärmission bezeichnet wird, fünf Kinder beim Einschlag einer Rakete in ein Gelände getötet worden, auf dem sich »afghanische Zivilisten aufhielten«. Insgesamt kamen bei dem Angriff bis zu zwölf Zivilisten ums Leben. Die computergesteuerten Raketen wurden von einer mehr als zehn Meilen entfernten Basis abgeschossen.

»Wir versuchen, dem afghanischen Volk zu vermitteln, dass wir die Sicherheit in ihrem Wohnumfeld erhöhen«, erklärte US-General Stanley McChrystal.

 

»Lächerliche Militärstrategie«

Zunächst einmal wird – wie viele zuverlässige Berichte aus Afghanistan bestätigen – der Begriff »Taliban« von den Militärplanern in Washington als Begründung für jede Form amerikanischer militärischer Besetzung des Landes ins Feld geführt. Viele, die da als Taliban bezeichnet werden, sind in Wirklichkeit lokale Aufständische, die das Land nach über 30-jähriger ausländischer Besetzung endlich von den Besatzern befreien wollen.

Malalai Joya, eine gewählte Abgeordnete des afghanischen Parlaments, hat den jüngsten Militärschlag offen als »lächerliche Militärstrategie« bezeichnet. Im einem Interview mit der Londoner Zeitung Independent erklärte sie: »Einerseits fordern sie Mullah Omar auf, dem Marionettenregime beizutreten. Andererseits führen sie diesen Angriff, dem vor allem schutzlose, arme Menschen zum Opfer fallen. Wie in der Vergangenheit werden sie bei Bombenangriffen der NATO getötet und dienen den Taliban als menschliche Schutzschilde. Die Menschen in Helmand leiden seit Jahren und Tausend von Unschuldigen sind bereits ums Leben gekommen.«  

Joya betont, das Ziel der USA und des McCrystal-Plans seien nicht die Taliban. Es gehe vielmehr um die Sicherung der Kontrolle über die wertvollen Rohstoffe in der Provinz Helmand, nämlich um Uran und Opium.

Die Polizeikräfte in Afghanistan bezeichnet Joya als »die korrupteste Institution in Afghanistan. Bestechung ist an der Tagesordnung, wer das Geld hat, um die Polizei von oben bis unten zu bestechen, der kann praktisch tun, was er will. In weiten Teilen Afghanistans hassen die Menschen die Polizei mehr als die Taliban. So haben beispielsweise die Menschen in Helmand Angst vor der Polizei, die gewaltsam gegen sie vorgeht und Unruhe schürt. Die meisten Polizisten in dieser Provinz sind opium- oder cannabisabhängig.« Zu der jüngsten multinationalen Afghanistan-Konferenz in London war Joya nicht eingeladen, sie gilt als »wandelndes Pulverfass«, weil sie zu offen über die Wirklichkeit in Afghanistan spricht. Berichten zufolge hat sie genau deswegen in Afghanistan sehr viele Anhänger.

Nach Angaben im neuesten Afghanistan-Gutachten der UN ist die Provinz Helmand mit 42 Prozent der Weltproduktion die größte Opium produzierende Region der Welt. Hier wird mehr Opium hergestellt als in ganz Burma, dem zweitgrößten Opiumproduzenten nach Afghanistan. Über 90 Prozent des weltweiten Opium-Angebots stammt aus Afghanistan. Wenn Washington nun einerseits behauptet, die Taliban hätten sich die Kontrolle über die Opiumproduktion in Helmand verschafft, um ihren Aufstand zu finanzieren, oder wenn sich andererseits die Opium-Warlords weigern, mit den amerikanischen und anderen NATO-Geheimdiensten zusammenzuarbeiten, die selbst im Verdacht stehen, den weltweiten Opiumhandel zu kontrollieren, um mit den Einnahmen ihre schwarzen Operationen zu finanzieren, dann geht es bei der derzeitigen Militäroffensive eindeutig nicht darum, Afghanistan dem Frieden näher zu bringen oder die ausländische militärische Besetzung zu beenden.

Dienstag, 02.03.2010

Kategorie: Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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mercredi, 03 mars 2010

Le nouveau site d'Ayméric Chauprade

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La géopolitique exposée par Aymeric Chauprade

Un nouveau site:

 http://realpolitik.tv/

 

Aymeric Chauprade, dont Polémia a largement développé les mesures de disgrâce qu’ils l’ont frappé voilà un an, annonce le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus et audiovisuels. Déjà à la pointe de l’actualité internationale, on y trouve dès maintenant une excellente analyse Nouvelle doctrine de défence russe, sous la plume de Xavier Moreau, qui, en contrepoint des articles généralement destructeurs de la grande presse sur tout ce qui concerne la Russie, permet de comprendre mieux ce qui a amené la Russie à adopter sa nouvelle doctrine de défense en désignant comme ennemis principaux et immédiats les Etats-Unis et l’OTAN.

Polémia ne peut que conseiller à ses lecteurs, intéressés par la géopolitique, de mettre ce nouveau site dans la liste de leurs favoris et de le visiter régulièrement. Ils y trouveront des informations et des explications pertinentes aux grands événements mondiaux.

Polémia

 

J’ai le plaisir de vous annoncer le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus écrits et audiovisuels.

Les intervenants sont tous des spécialistes de géopolitique d’une aire géographique (Europe, États-Unis, Chine, Russie, Amérique Latine, Afrique…) ou d’un thème (questions maritimes, énergétiques…). Issus d’horizons variés, ils s’attachent à développer une pensée indépendante et attentive aux réalités des peuples et des civilisations. Le choix du terme realpolitik signifiant simplement que nous tentons de comprendre et d’expliquer le monde tel qu’il, non tel qu’on voudrait qu’il soit.

Le site n’est pas payant, et n’a pas vocation à le devenir. Il débute son activité, il est donc loin d’avoir atteint son plein régime et vous aurez bien conscience, lors de votre première consultation, que le contenu va s’enrichir de nombreux articles et de nombreuses vidéos. Vous pouvez nous adresser vos critiques et suggestions en nous écrivant directement à l’adresse contact@realpolitik.tv.

Je vous en remercie par avance. Bienvenue dans le monde des réalités identitaires !

Aymeric Chauprade, directeur du site

 

Correspondance Polémia

25/02/2010

Polémia

L'idée de Mitteleuropa

mitteleuropa0003_copia.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

L'idée de "Mitteleuropa": elle refait surface

 

 

par Karlheinz Weissmann

 

 

Lors du dernier Congrès de la SPD, le parti social-démocrate allemand, qui s'est tenu cette année à Nuremberg, Peter Glotz profita d'un forum sur le thème "Europe occidentale - Europe centrale - Europe totale" pour ranimer l'idée de "Mitteleuropa" (Europe centrale). Si cette initiative fut rejetée par la plupart des participants, un détail, cependant, mérite attention: parmi les quelques rares personnalités qui approuvèrent Peter Glotz, se trouvait Zdenek Mlynar, haut fonctionnaire du PC tchèque pendant l'ère Dubcek. Cela n'a rien d'étonnant: le débat "néogauchiste" sur la Mitteleuropa fut lancé et animé essentiellement par des intellectuels socialistes dissidents des pays d'Europe centrale et orientale. En septembre 1985 déjà, la revue Kursbuch,  organe toujours influent de la gauche libertaire, la fameuse "undogmatische Linke" de RFA, avait publié dans ses colonnes la proposition du Hongrois György Dalos qui souhaitait une "Confédération centreuropéenne" et plusieurs autres publications théoriques s'ouvrirent à des débats sur ce thème. Le rejet de la proposition de Glotz illustre de façon typique l'attitude de la classe politique allemande à l'égard de thèses tendant à surmonter le statu quo des blocs; mais il s'explique surtout par le fait que Glotz avait aussi mis en avant l'idée de Reich, d'Empire, comme puissance tutélaire traditionnelle en Europe centrale et avait même évoqué, dans la foulée, les conceptions de Friedrich Naumann.

 

l'héritage de Naumann

 

Ceux qui s'intéressent à l'histoire savent que le nom de Friedrich Naumann est intimement lié à l'idée de Mitteleuropa. En 1915, Naumann publia un livre intitutlé précisément  Mittteleuropa,  où l'on trouve la formulation sans doute la plus prégnante de cette notion politique. Ses réflexions se ressentaient essentiellement de la situation créée par la Première Guerre mondiale, en particulier par l'économie de guerre. Naumann présageait l'avènement d'une époque où seuls les grands espaces autarciques pourraient économiquement, et donc politiquement, survivre. Son but était la fusion de l'Allemagne et de la monarchie danubienne, futur "noyau cristallisateur" d'une Europe centrale qui serait plus tard étendue à la France (1) ainsi qu'aux territoires limitrophes du Reich, à l'Est comme à l'Ouest. En cette "période historique d'avènement des groupements d'Etats et des Etats-masse", le nouvel espace ainsi créé serait capable de soutenir la concurrence des empires britanniques, nord-américain et russe. Bien que d'origine libérale, Naumann avait la conviction que la structure interne de ces grandes puissances serait toujours marquée par l'Etat organisateur mais que, dans une Europe centrale sous direction allemande, cette structure porterait le sceau du "socialisme d'Etat" ou du "socialisme national".

 

Pour étayer son argumentaire, Naumann se réfère volontiers à la politique de Bismarck et à sa Duplice (Zweibund). D'abord, parce que la figure du fondateur du Reich garde une force émotionnelle, et donc légitimante, considérable; ensuite, parce que cette évocation répondait sans doute aux convictions intimes de Naumann. Pourtant, celui-ci est victime d'une erreur de jugement historique: certes, Bismarck accordait une grande importance à une alliance avec l'Autriche-Hongrie, mais il n'excluait pas, si l'urgence de la situation politique l'exigeait, une entente avec la Russie aux dépens des Habsbourg! Plutôt que chez Bismarck, c'est dans les projets "grossdeutsch" du Parlement de Francfort, dans la vision d'un "Empire de 70 millions d'âmes", chère à Schwarzenberg et à Bruck, qu'il faut rechercher les précurseurs de la "Mitteleuropa". Quant à ses prophètes, il vaut mieux les chercher du côté des critiques de l'Etat national "petit-allemand", chez un Constantin Frantz ou un Paul de Lagarde par exemple.

 

le contexte de la première guerre mondiale

 

Toujours est-il que l'idée acquit une certaine faveur à la veille de la Première Guerre mondiale. Mais il faudra le conflit armé pour qu'elle acquière des chances réelles de réalisation: très tôt, la perte des colonies montra aux responsables politiques allemands que l'Allemagne devait rechercher ailleurs l'assise d'une grande puissance. Après les premières victoires des Empires centraux, l'Allemagne, l'Autriche-Hongrie et la Bulgarie signèrent le 6 septembre 1915 une convention militaire à laquelle l'Empire Ottoman adhéra peu après. Sur la base de cette alliance, Falkenhayn, chef d'Etat-Major allemand, adresse au chancelier Bethmann-Hollweg (peu avant la parution de l'ouvrage de Naumann) un mémoire sur la "fondation d'une confédératon d'Etats du centre de l'Europe", un Mitteleuropäischer Staatenbund.  Ce projet, comme tant d'autres, échoua devant la résistance de l'Autriche-Hongrie. Si la notion de "Mitteleuropa" est restée, dans les esprits, synonyme d'"agressions" et de "conquêtes territoriales" par l'Allemagne, cela tient à ce que les thèses bellicistes de l'extrême-droite allemande ont été débattues sous ce nom-là et que cette extrême-droite, surtout après la paix de Brest-Litovsk, envisageait d'étendre démesurément la sphère d'influence allemande en Europe centrale et orientale.

 

L'effondrement du Reich et de la monarchie des Habsbourg réduisit tous ces projets à néant. Les petits Etats-nations nouvellement créés entre l'Allemagne et l'Union Soviétique étaient étroitement contrôlés par la France. Le concept de "Mitteleuropa" n'avait pas disparu pour autant, tout au moins au niveau du débat politique. L'idée fut relancée à des titres divers. Ainsi, Giselher Wirsing, issu de la mouvance de la revue Die Tat  lança l'idée de Zwischeneuropa,  Europe médiane ou Europe d'entre-deux, dans laquelle l'Allemagne, si elle se redressait, aurait un rôle à jouer. Le "front anti-impérialiste des peuples jeunes" y instaurerait un espace d'autarcie économique. On reconnait là une parenté avec les thèses de Naumann mais on note un glissement dans la désignation de l'adversaire: non plus Londres et Saint-Petersbourg, mais Paris et Moscou. L'analyse sociologique, souvent très aride, de Wirsing concernant les présupposés politico-économiques, contraste étrangement avec les idéaux, souvent très romantiques, de "reconstruction du Reich" auxquels adhéraient nombre de théoriciens jungkonservativ  de l'époque de Weimar. En toile de fond de leur analyse, il y avait la situation des populations d'ethnie allemande, dont il s'agissait de tirer les leçons. Le Reich  réaliserait en Europe centrale un ordre fédérateur reposant non sur une conception centraliste de la nation, legs de la Révolution française, mais sur le principe de l'égalité des droits entre tous les peuples. Jung écrit à ce sujet: "C'est l'idée d'un Reich structuré, accordant à chacune de ses composantes un degré de liberté capable d'extirper à jamais de l'âme européenne les idées poussiéreuses d'annexion, d'exploitation et de génocide". Cette conception associait volontiers à la signification proprement politique du terme "Mitteleuropa" l'idée d'une "position médiane de l'esprit", une geistige Mittellage  qui était au coeur de la pensée nationale traditionnelle et que, dès 1818, Arndt formulait ainsi: "Dieu nous a placés au centre de l'Europe; nous sommes le coeur de notre partie du monde". Quoi qu'il en soit, cette idée de Reich  fut l'un des ferments intellectuels les plus féconds de la période de Weimar. Or, si l'on songe que la République de Weimar avait une liberté d'action plutôt limitée en politique étrangère, il n'est guère étonnant qu'aucune idée politique plus ambitieuse n'ait eu une chance quelconque de se réaliser: la propositon Briand-Stresemann sur l'unification européenne resta lettre morte tout comme cette fameuse union douanière austro-allemande dans le cadre d'une politique "centre-européenne", plutôt traditionnelle celle-là, pour laquelle militait le chancelier Brüning et dont l'échec (en 1931) inspira largement à Wirsing le sujet de son livre.

 

du nazisme au deuxième après-guerre

 

Le débat sur la "Mitteleuropa" se poursuivit sous les nationaux-socialistes. Il semble même, au cours des années 30, que ce débat épousait les contours de la stratégie hitlérienne en politique extérieure. Jusqu'à la conclusion de l'accord commercial germano-roumain, en effet, on pouvait encore affirmer que le Troisième Reich reprenait à son compte l'héritage de la monarchie habsbourgeoise dans l'espace mitteleuropäisch.  Parmi ceux qui eurent tendance à confondre les intentions du régime national-socialiste avec leurs convictions personnelles, il faut citer l'interprétation de l'idéologie nazie par Heinrich von Srbik. Celui-ci persistait à croire que l'enjeu de la guerre mondiale était "un nouvel ordre plus viable en Europe centrale et sur notre continent". Or, les nationaux-socialistes ont toujours perçu l'idée de "Mitteleuropa" comme étrangère à leur mentalité, ne fut-ce qu'en raison de l'autonomie relative que cette idée accordait aux "petits peuples". Dans leur logique à eux, l'idée de "grand espace" était dictée par des impératifs tout à fait différents.

 

La deuxième guerre mondiale et ses prolongements firent litière des conditions fondamentales qui avaient sous-tendu les réflexions de naguère sur la Mitteleuropa. L'extermination des Juifs, l'expulsion des Allemands des territoires orientaux du Reich et de la plupart des pays d'Europe centrale et orientale, détruisirent une structure ethnique multiséculaire. L'Allemagne, puissance tutélaire potentielle de l'Europe centrale, disparut de la scène comme acteur politique, et ce pour une durée indéterminée. L'émiettement géographique en Etats se doubla d'une partition de l'Europe selon les lois du nouvel antagonisme mondial. Ce n'est qu'à la fin des années 40 que l'on vit apparaître, en République fédérale et dans les zones d'occupation occidentales, une amorce de réflexion allant à l'encontre d'une allégeance occidentale sans faille de la RFA et susceptible de trouver quelque résonance. La SBZ (Sowjetische Besatzungszone, future RDA), puis la RDA, n'avaient aucune liberté d'action et tous les projets fédéralistes développés en Europe centrale et orientale se heurtèrent invariablement au niet  de l'Union Soviétique, peu encline à tolérer le moindre mouvement dans son glacis. C'est pourquoi les projets d'un Gerhard Schröder, par exemple, qui voulait établir des contacts directs avec ce groupe d'Etats, sans en référer à l'URSS, étaient voués à l'échec.

 

l'idée de "Mitteleuropa" renaît dans les années 80

 

Le nouveau débat sur la Mitteleuropa prend sa source dans les années 80. Cette source est en fait plurielle. En République Fédérale, le regain des argumentaires "géopolitiques" avait préparé le terrain. Aux Etats-Unis, la distinction entre géopolitique "vraie" et "fausse" n'avait jamais été abandonnée et ce type de réflexion alla jusqu'à influencer la stratégie américaine en politique étrangère. Henry Kissinger lui-même, qui orienta longtemps cette stratégie, avait eu recours, dans ses travaux historiques, à des facteurs géopolitiques pour analyser et expliquer l'histoire allemande. Il n'est guère surprenant, dès lors, que ce soit un autre Américain, David P. Calleo, qui ait interprété toute l'évolution de l'Etat national allemand sous l'angle de sa "situation centrale". Calleo conclut son livre The German Problem Reconsidered,  paru en 1978, par ces lignes remarquables: "La géographie et l'histoire s'étaient jointes pour permettre à l'Allemagne une ascension tardive; mais rapide, contestable et contestée. Le reste du monde a réagi en écrasant le parvenu". Plus prudents, les historiens ouest-allemands sont néanmoins d'accord sur le fond: Michael Stürmer diagnostique un "traumatisme de puissance médiane menacée" et évoque les "contraintes d'une position centrale". Dans son Die gescheiterte Großmacht. Eine Skizze des deutschen Reiches 1871-1945   (paru en 1980), Andreas Hillgruber, dont les travaux antérieurs faisaient déjà appel à des considérations géopolitiques, fait de la "situation géostratégique centrale" un élément d'explication majeur. Et il ne faut pas oublier à quel point les déclarations de Richard von Weizsäcker sur les conséquences de "notre situation géopolitique" ont pu contribuer à légitimer et à vulgariser ces thèses. Tout cela annonce une "valse des paradigmes" dans l'historiographie officielle de la RFA, comme l'atteste l'émoi avec lequel certains représentants de l'opinion (jusqu'alors) dominante  -qui ne voient dans l'histoire allemande que la sanction d'erreurs intrinsèques à l'Allemagne (le fameux Sonderweg!)-   ont réagi devant ce qu'ils appellent "l'absurdité des constantes géostratégiques".

 

En marge de ces constructions historiques, la politique renoua spontanément, à la fin des années 70, avec la notion de Mitteleuropa. A Trieste, l'ancien port méditerranéen de la monarchie danubienne, germa la nostalgie d'une "Civiltà Mitteleuropa" (Viktor Meier). Il faut dire que les frustrations nées de la crise économique endémique qui secoue l'Italie n'étaient pas étrangères à cet état d'esprit. On ne peut pas dire, cependant, que cette étincelle se soit propagée à d'autres territoires anciennement austro-hongrois.

 

la "Mitteleuropa" correspond à la zone dénucléarisée envisagée par Olof Palme

 

Le concept de "Mitteleuropa" refit surface dans le sillage du débat sur la paix. Parmi les dissidents, notamment hongrois et tchécoslovaques, se développa l'idée d'une association des satellites ci-devant soviétiques en une confédération d'Etats indépendants, plus conforme aux traditions culturelles et politiques de ces peuples. Parallèlement, des contacts étaient noués entre la SED est-allemande et les sociaux-démocrates d'Allemagne occidentale en vue de la constitution d'une "zone soustraite aux armes chimiques", à rapprocher du projet, lancé par Olof Palme, d'une "zone dénucléarisée" en Europe.

 

La boucle est bouclée: le Congrès de Nuremberg de la SPD ouest-allemande a repris dans son programme la création d'un "corridor dénucléarisé". Certes, la sociale-démocratie ne conteste pas l'intégration de la RFA dans l'OTAN, mais il y a là un indice qui, à la suite d'autres, traduit la volonté de se démarquer toujours davantage de l'Alliance atlantique. Du coup, le conflit Est-Ouest, jusque là considéré comme une évidence naturelle, s'émousse au contact du débat sur la paix. Et cette érosion est devenue irrémédiable.

 

Il était inévitable, compte tenu de sa domination intellectuelle, que la gauche fût la première à produire un discours tendant à désamorcer les antagonismes en Europe. Et si les idées sur la neutralisation de la RFA, de l'Allemagne ou de l'Europe divergent encore quant à la stratégie, elles convergent en fin de compte vers un consensus quant aux objectifs fondamentaux.

 

Glotz, social-démocrate, reste dans le vague

 

Le projet proposé par Glotz pour la Mitteleuropa se singularise par un souci de transcender l'idée, plutôt prosaïque, d'une zone dénucléarisée sur 150 km de part et d'autre du Rideau de fer par une vision plus ambitieuse à laquelle Glotz prête apparemment quelque pouvoir mobilisateur. Malheureusement, on décèle chez lui un certain essoufflement des idées: Glotz semble être sans cesse demandeur d'idées nouvelles mais ses propres projets ne parviennent pas à le captiver très longtemps (par exemple, son dernier "Manifeste" pour des idées novatrices dans la politique européenne de la gauche). Cela peut, certes, s'expliquer par la grande mobilité intellectuelle du personnage mais on peut y voir aussi un signe de perplexité, et il n'est pas sûr que sa tentativce de renouer avec les idées de Mitteleuropa et de "Reich" soit d'un grand secours. Outre qu'il manque totalement de réalisme devant le fait de la puissance, il reste que les idées politiques ne sont pas des recettes de cuisine. Traditionnellement, la gauche allemande a toujours opposé le front du refus aux idées de "Mitteleuropa" et de "Reich" alors que les idées nationalistes ont pu, organiquement, faire bon ménage avec le socialisme ou la social-démocratie. Quoi qu'il en soit, le "Reich" est impensable sans référents résolument conservateurs; le contraire n'est pas concevable. Le fait que la gauche se cherche aujourd'hui des attaches de ce côté-là a valeur de symptôme mais de symptôme seulement: symptôme de son exaspération, ce qui semble donner raison à D.P. Calleo qui écrivait: "Après la deuxième Guerre mondiale, les Allemands ont en quelque sorte pris en congé de leurs problèmes traditionnels (...). Gageons que le conte allemand n'est pas encore fini...".

 

Aucun mouvement politique ne peut percer sans une dimenson visionnaire, un mouvement conservateur, ou national, moins que tout autre. Croire que le cynisme de la puissance géopolitique brute suffise à produire ses effets mobilisateurs, ou que l'idée "européenne" (en réalité ouest-européenne!) soit encore une idée d'avenir, est une erreur. En allemand, le mot "Reich" a gardé une résonnance particulière. Il pourrait donner une nouvelle impulsion à la question nationale et l'histoire de tous les peuples d'Europe centrale pourrait être unifiée, même si cette unité reste lourde (donc riche) de tensions Certes, la voie est ingrate et ne promet rien dans l'immédiat. Mais le jeu en vaut la chandelle et l'effort intellectuel, lui, ne décevra point.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(texte tiré de Criticón n°97, septembre-octobre 1986; traduction française de Jean-Louis Pesteil)

 

N.B. Il est bien évident qu'entre cette idéologie et les solutions offertes par Naumann et Renner au problème de la Mitteleuropa , il n'y a aucun point commun. D'ailleurs les auteurs nationaux-socialistes n'avaient pas ménagé leurs critiques à l'encontre des idées naumaniennes, qualifiées de "pseudo-socialisme", marquées d'esprit judaïque. La plupart des collaborateurs et des amis de Naumann, l'ensemble des rédacteurs de la Hilfe   se sont exilés ou ont subi la persécution nazie; seul P. Rohrbach, qui se trouvait en 1939 à la tête de la Deutsche Akademie  de Munich avait accepté de subir la loi du régime, sans toutefois capituler devant toutes ses exigences. Le national-socialisme ne doit rien à Naumann et à son école.

samedi, 27 février 2010

Chile y la formacion de su Esrtado-Nacion

ModifChili.jpgChile y la formación de su Estado-nación

 

                                                                                 Alberto Buela (*)

 

Luego de la derrota española en la definitiva batalla de Maipú el 5 de abril de 1818, los vencedores, las fuerza criollas, se enfrentaron con el problema de la organización del territorio que tenía un sistema colonial de gobierno. Había que establecer un modelo político nuevo, una organización administrativa que lograse reemplazar la antigua administración. De modo tal que se produjo un doble quiebre, como sucedió en toda Nuestra América: a) un quiebre político, el reemplazo de una administración y un régimen, el de la monarquía por la república. Y b) un quiebre de la identidad subjetiva de la nación, no más españoles americanos sino simplemente americanos (ideal de Bolivar y San Martín) o chilenos, paraguayos, argentinos, etc. (ideal del nacionalismo de patria chica) que fue lo que realmente sucedió.

 

La función de construir un Estado-nación propio va a ir emparejada a la importancia que adquieren las armas, así se va cumplir aquí el adagio de Clausewich: la guerra es la continuación de la política por otros medios. En el caso de Chile, a la guerra de la Independencia continuarán Portales y la batalla de Lircay, la guerra contra la confederación peruano-boliviana y la guerra civil de 1851.

 

Es que a partir de 1818 la unidad política alrededor del Estado-nación se va a tornar confusa e inestable y así lo que establecía O´Higgins, lo derribaba Freire y aquello que sostenía éste, lo volteaba Pinto. En realidad, ellos eran obstáculos a la integración en un orden nacional. Es que el caudillismo y los intereses locales eran divergentes. Así O´Higgins se enfrenta a los terratenientes, quienes eran representados por Freire. Fracasa en Chile el proyecto federalista. Y se impone luego de la derrota de Freire en la batalla de  Lircay en 1830, el unitarismo del régimen portaliano, que no fue otra cosa que la síntesis entre la espada y la civilidad. Los dos autores más significativos en esta tema; el ensayista e historiador Alberto Edwards Bello (1874-1932) en su libro La Fronda aristocrática y el historiador Mario Góngora (1915-1985) en su libro Ensayo histórico sobre la noción de Estado en Chile en los siglo XIX y XX  van a respaldar con sus investigaciones esta tesis.

 

A partir de 1830 surge un gobierno fuerte pero extraño al militarismo de los tiempos de la independencia, que proclama la Constitución de 1833  sosteniendo que Chile es una república democrática y representativa, pero que al carecer de tradición republicana debe ser gobernada autoritariamente. Y Diego Portales es el principal resorte de ese régimen aun cuando no sea el presidente.

Aparece entonces en el horizonte político chileno la Confederación peruano-boliviana que “siempre serán más que Chile en todo orden  Y que “debemos dominar para siempre el Pacífico”  según Portales, por lo tanto, “guerra a la Confederación que debe desaparecer”.

Sin embargo, Portales es asesinado en Cerro Barón y el propósito de los conspiradores, detener la guerra contra el cholo Santa Cruz no sólo no se cumplió sino que de impopular, la guerra se transformó en una causa nacional.

Con el triunfo del general Bulnes triunfador de Yungay en 1841 y su posterior asunción a la presidencia de la República se consolida definitivamente el Estado-nación chileno en donde la “institucionalidad portaliana” reemplazó definitivamente al antiguo “caudillaje”.

 

 

(*) arkegueta, aprendiz constante, mejor que filósofo

alberto.buela@gmail.com

Casilla 3198 (1000) Buenos Aires