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mercredi, 16 février 2011

Geocultura: il potere della lingua

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Geocultura: Il potere della lingua

 

Uno strumento internazionale
che può fare a meno delle politiche di Stato

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

I nordamericani, ovvero, quegli esseri umani che quantificano tutto, dove il gigantismo è il dio monocorde di una sinfonia noiosa come lo può essere quella di misurare tutto ciò che si fa, non lasciando posto al fare o smettere di fare “perché così lo voglio”, come accade con noi del “piccolo mondo”. Gli americani hanno appena eseguito una nuova indagine sull’uso e l’apprendistato del castigliano negli Stati Uniti (loro preferiscono chiamarlo spagnolo).
Le cifre sono le seguenti: 850.000 studenti universitari stanno imparando lo spagnolo, mentre che il francese lo seguono solo in 210.000; tedesco 198.000, giapponese 74.000 e cinese mandarino 74.000. Inoltre, circa 40 milioni di individui parlano con fluidità la lingua di Cervantes e 4 milioni di nordamericani Wasp (White anglosaxon protestant [Bianchi anglosassoni protestanti]) che non sono di origine ispana parlano correttamente lo spagnolo.

Continuando sempre con le cifre, questa nuova indagine mostra che l’89% dei giovani ispanici nati negli USA parlano inglese e spagnolo, contro il 50% delle generazioni precedenti. Si calcola che per il 2050 gli ispanici, vista la crescita della loro popolazione che supera in figli la media degli americani e dei neri, costituirà il 30% della popolazione. L’indice di natalità degli americani è del 1,5%, quello dei neri del 2% e quello degli ispani del 3,5%.

Nel mondo ispanico degli Stati Uniti è avvenuto un cambio di mentalità ed è che i genitori considerano come un vantaggio il bilinguismo dei loro figli, contrariamente a quanto accadeva un paio di generazioni fa. Così, qualche decennio fa i genitori chiedevano ai loro figli di non parlare lo spagnolo perché pensavano che il loro inserimento e progresso negli Stati Uniti sarebbe stato più veloce, mentre che adesso stimano che la pratica del bilinguismo offre loro maggiori possibilità di lavoro e d’integrazione sociale.

Questo cambio di paradigma ha dato luogo a un boom negli studi ispanici in America con il consueto effetto moltiplicatore che produce nelle società che gli sono periferiche come può esserlo il suo cortile posteriore: l’America ispanica.

D’altra parte, lo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione come Internet ha contribuito a questa forte espansione della pratica del castigliano in Nord America. Gli immigranti ispanici sono in contatto quotidiano con la loro cultura di origine, con le loro pratiche quotidiane, con i loro usi e costumi.
Com’è politicamente giudicato questo fenomeno dagli Stati Uniti? Dagli Stati Uniti un analista politico e strategico come Samuel Huntigton in un recente studio che ha per titolo La sfida ispana, afferma: «Il costante flusso d’immigranti ispani verso gli Stati Uniti minaccia di dividere questo paese in due popoli, due culture e due lingue. Diversamente dai precedenti gruppi d’immigranti, i messicani e gli altri ispani non si sono integrati nella cultura americana dominante, bensì hanno formato le proprie enclave politiche e linguistiche – da Los Angeles fino a Miami – e rifiutano i valori anglo protestanti che edificarono il suolo americano. Gli USA corrono un rischio se ignorano questa sfida. »
Da parte sua il politologo della Boston College, Peter Skerry, sostiene: «Diversamente dagli altri immigranti i messicani provengono da una nazione vicina che soffrì una sconfitta militare da parte degli Stati Uniti e si stabiliscono, soprattutto, in una regione che, in un altro tempo, formava parte del loro paese (…) Gli abitanti di origine messicana hanno la sensazione di stare in casa propria, fatto che gli altri immigranti non possono condividere.» Cosicché, quasi tutto il Texas, il Nuovo Messico, l’Arizona, la California, il Nevada e l’Utah formavano parte del Messico fino a che questo paese li ha persi come conseguenza della guerra d’indipendenza del Texas, nel 1835-1836, e la guerra tra il Messico e gli Stati Uniti, nel 1846-1848.

E, cosa si fa da parte del mondo ispano americano? In sostanza non si fa nulla, questo fenomeno lo si lascia muovere in una specie di forza delle cose per cui ciò che bisogna dare, si darà e ciò che bisogna cambiare, si cambierà. Non esiste, per quanto ne sappiamo, nemmeno una sola politica di Stato, di nessuno dei ventidue Stati iberoamericani sull’argomento dell’espansione, consolidazione e trasmissione del castigliano tra gli immigranti negli Stati Uniti. Questi sono lasciati alla loro sorte e arbitrio e non ricevono nessun aiuto né appoggio per consolidare la pratica di questa lingua.

Il fatto è che la dirigenza politica iberoamericana (eccetto lo straordinario caso di Lula) non vede nell’esercizio e nella pratica dello spagnolo una molla di potere internazionale, che in un universo di 550 milioni di parlanti la fa diventare la lingua più parlata al mondo. Non vedono nemmeno il prodotto lordo che abbiamo appena esposto.

Il caso Lula si pone di là della consuetudine, come lo è la dirigenza politica iberoamericana nel suo insieme, poiché lui da buon discepolo di Gilberto Freyre ha potuto affermare: «La cultura ispanica è alla base delle nostre strutture nazionali argentine e brasiliane, come vincolo transnazionale, vivo e germinale nella sua capacità di avvicinare le nazioni ». Nel mese di settembre 2008 firmò il decreto legge sull’”Accordo ortografico della lingua portoghese” che semplifica e unifica la forma di scrivere il portoghese tra gli otto Stati che lo utilizzano come lingua ufficiale (Portogallo, Brasile, Angola, Mozambico, Capo verde, Guinea Bissau, São Tomé e Príncipe e Timor Orientale). Un accordo che egli ha qualificato strategico. Attualmente, in Brasile sono 12 milioni gli studenti che praticano correttamente lo spagnolo, il fatto è che l’uomo ispano capisce e, con un minimo di sforzo, parla con naturalità quattro lingue: il gallego, il catalano, il portoghese e lo spagnolo.
Il multi o polilinguismo con il quale il castigliano convive da sempre – la vita in Spagna e l’avventura dell’America sono state prove definitive – ci sta indicando che oggi, laddove il bilinguismo diventa così indispensabile come l’acqua, la nostra lingua si trova nelle migliori delle condizioni di qualsiasi altra per servire l’umanità nel suo complesso. E la loro cecità non gli consente di apprezzare che hanno fra le mani, senza avvalersene, lo strumento più prezioso per quanto concerne la politica internazionale.

Alberto Buela, UTN- Fed. del Papel, membro del Comitato scientifico di Eurasia. Rivista di studi geopolitici

(trad. di V. Paglione)

 

 

 

  

 

 

mardi, 15 février 2011

Rivoluzione d'Egitto - Distruzione creativa per un "Grande Medio Oriente"?

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Rivoluzione d’Egitto – Distruzione creativa per un “Grande Medio Oriente”?

 

Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23131 [1]

Velocemente sulla scia del cambiamento di regime in Tunisia, s’è alzato il movimento di protesta popolare lanciato il 25 gennaio contro l’ordine radicato di Hosni Mubarak in Egitto. Contrariamente all’impressione coltivata con cura secondo cui l’Amministrazione Obama sta cercando di mantenere l’attuale regime di Mubarak, Washington, infatti, sta orchestrando i cambiamenti di regime egiziano e regionali, dalla Siria allo Yemen, alla Giordania e ben oltre, in un processo cui alcuni si riferiscono come “distruzione creativa”.

Il modello per tale cambiamento di regime sotto copertura è stata sviluppata dal Pentagono, dalle agenzie di intelligence degli Stati Uniti e dai vari think-tank come la RAND Corporation. nel corso di decenni, a partire dalla destabilizzazione del maggio 1968 della Presidenza de Gaulle in Francia. Questa è la prima volta dal cambiamento di regime sostenuto dagli USA in Europa orientale, circa due decenni fa, che Washington aveva avviato con operazioni simultanee in molti paesi di una regione. Si tratta di una strategia che nasce dalla disperazione e certo non è senza rischi significativi per il Pentagono e per l’agenda a lungo termine di Wall Street. Cosa ne risulterà per i popoli della regione e per il mondo, non è ancora chiaro.

Eppure, mentre il risultato finale della sfida delle proteste di piazza al Cairo e in tutto l’Egitto e il mondo islamico non è chiaro, le grandi linee di una strategia occulta degli Stati Uniti sono già chiare.

Nessuno può mettere in discussione le motivare genuine rimostranze di milioni di persone scese per le strade, a rischiare la vita. Nessuno può difendere le atrocità del regime di Mubarak e la tortura e la repressione del dissenso. Nessuno può contestare l’aumento esplosivo dei prezzi alimentari, ad opera degli speculatori di materie prime di Chicago e Wall Street, e la conversione dei terreni agricoli americani per la folle coltivazione del mais per l’etanolo combustibile, che ha fatto schizzare i prezzi del grano. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo, in gran parte dagli Stati Uniti. I futures del grano di Chicago sono aumentati di uno sbalorditivo 74% tra giugno e novembre 2010, portando ad un inflazione dei prezzi alimentari egiziani di circa il 30%, nonostante i sussidi governativi.

Ciò che è largamente ignorato da CNN, BBC e altri media occidentali, nella loro copertura degli eventi in Egitto, è il fatto che tutto qualsiasi siano i suoi eccessi interni, l’egiziano Mubarak costituisce un ostacolo rilevante all’interno della regione, alla maggiore agenda degli Stati Uniti.

Dire dei rapporti tra Obama e Mubarak sono stati congelati fin dall’inizio non è esagerato. Mubarak è stato fermamente contrario alle politiche di Obama sull’Iran e su come trattare il suo programma nucleare, sulle politiche di Obama verso gli Stati del Golfo Persico, la Siria e il Libano, nonché verso i palestinesi. [1] E’ stato una spina formidabile ai grandi ordini del giorno di Washington per l’intera regione, il progetto di Washington del Grande Medio Oriente, recentemente riproposta col meno inquietante titolo di “Nuovo Medio Oriente”.

Reale come i fattori che stanno spingendo milioni in piazza in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente, ciò che non può essere ignorato è il fatto che Washington sta decidendo i tempi e come li vede, cercando di plasmare il risultato finale in un cambiamento di regime globale destabilizzazione tutto il mondo islamico. Il giorno delle straordinariamente ben coordinate manifestazioni popolari che chiedevano a Mubarak le dimissioni, i membri chiave del comando militare egiziano, incluso il capo di Stato Maggiore Gen. Sami Hafez Enan, erano tutti a Washington in qualità di ospiti del Pentagono. Neutralizzando opportunamente la forza decisiva dell’esercito nel fermare la protesta anti-Mubarak, crescente nei primi giorni critici [2].

La strategia era in vari dossier del Dipartimento di Stato e del Pentagono da almeno un decennio o più. Dopo che George W. Bush ha dichiarato la Guerra al Terrore, nel 2001, ciò è stato chiamato programma per il Grande Medio Oriente. Oggi è noto come il meno minaccioso titolo di progetto per il “Nuovo Medio Oriente“. Si tratta di una strategia per spezzare gli Stati della regione dal Marocco all’Afghanistan, la regione definita dall’amico di David Rockefeller, Samuel Huntington nel suo infame saggio Lo Scontro di Civiltà apparso su Foreign Affairs.

Egitto in ascesa?

Lo scenario attuale per l’Egitto del Pentagono si legge come uno spettacolo Hollywoodiano di Cecil B. DeMille, solo che questo ha un cast di milioni di giovani ben addestrati fanatici di Twitter, reti di operatori della Fratellanza musulmana, che operano con militari addestrati dagli USA. Nel ruolo di protagonista della nuova produzione, al momento, non è altro che un premio Nobel della Pace che convenientemente appare tirare tutti i fili dell’opposizione all’ancien régime, in quello che appare come una transizione senza problemi in un Egitto di nuovo sottoposto a un auto-proclamata rivoluzione liberal-democratica.

Alcuni retroscena sugli attori sul terreno sono utili, prima di guardare a ciò che sul piano strategico a lungo termine di Washington, potrebbe accadere al mondo islamico dal Nord Africa al Golfo Persico e, infine, alle popolazioni islamiche dell’Asia centrale, ai confini di Cina e Russia.

Le ‘rivoluzioni‘ soft di Washington

Le proteste che hanno portato al brusco licenziamento dell’intero governo egiziano da parte del Presidente Mubarak, sulla scia del panico per la fuga dalla Tunisia di Ben Ali, verso un esilio saudita, non sono affatto “spontanee“, come la Casa Bianca di Obama, il Dipartimento di Stato della Clinton, o CNN, BBC e altri media importanti dell’Occidente pretendono siano.

Sono stati organizzati nello stile high-tech elettronico ucraino, con grandi reti di giovani collegato tramite internet a Mohammed ElBaradei e ai torbidi e clandestini Fratelli Musulmani, i cui legami con servizi segreti e alla massoneria britannici e statunitensi, sono ampiamente indicati. [3]

A questo punto il movimento anti-Mubarak sembra tutt’altro che una minaccia per l’influenza statunitense nella regione, anzi. Ha tutte le impronte di un altro cambio di regime appoggiato dagli USA, sul modello delle rivoluzioni a colori del 2003-2004 in Georgia e in Ucraina, e della fallita Rivoluzione verde contro l’Iran di Ahmadinejad, nel 2009.

La richiesta di uno sciopero generale egiziano e del giorno della rabbia del 25 gennaio, che ha scatenato le proteste di massa che esigono le dimissioni di Mubarak, sono state lanciate da una organizzazione basata su Facebook e che si fa chiamare Movimento 6 aprile. Le proteste erano così consistenti e ben organizzate che hanno costretto Mubarak a chiedere al suo governo di dimettersi e di nominare un nuovo vice-presidente, il generale Omar Suleiman, ex ministro dell’Intelligence.

Il 6 aprile è guidato da un tale Ahmed Maher Ibrahim, un ingegnere civile di 29 anni, che ha configurato il sito di Facebook per sostenere l’appello ai lavoratori per lo sciopero del 6 aprile 2008.

Secondo il New York Times, dal 2009 circa 800.000 Egiziani, la maggior parte giovani, erano già allora membri di Facebook o Twitter. In un’intervista con la Carnegie Endowment di Washington, il capo del movimento 6 aprile Maher, ha dichiarato: “Essendo il primo movimento giovanile in Egitto ad avere l’uso delle modalità di comunicazione basate su Internet come Facebook e Twitter, ci proponiamo di promuovere la democrazia, incoraggiando il coinvolgimento del pubblico nel processo politico.”[4]

Maher ha inoltre annunciato che il suo Movimento 6 aprile sostiene l’ex capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) delle Nazioni Unite, capo e dichiarato candidato presidenziale egiziano, ElBaradei assieme alla coalizione di ElBaradei, l’Associazione Nazionale per il Cambiamento (NAC). Il NAC include tra gli altri George Ishak, leader del Movimento Kefaya, e Mohamed Saad El-Katatni, presidente del controverso blocco parlamentare Ikhwan o Fratelli Musulmani [5].

Oggi Kefaya è al centro degli attuali avvenimenti egiziani. Non lontano, sullo sfondo vi sono i più discreti Fratelli Musulmani.

ElBaradei, a questo punto viene proiettato come figura centrale in un futuro cambiamento democratico parlamentare egiziano. Curiosamente, anche se egli non ha vissuto in Egitto negli ultimi 30 anni, ha avuto l’appoggio di ogni parte immaginabile dello spettro politico egiziano che va dai comunisti ai Fratelli Musulmani, da Kefaya ai giovani attivisti del 6 aprile.[6] A giudicare dal comportamento calmo che presenta ElBaradei in questi giorni verso gli intervistatori CNN, anche lui ha probabilmente il sostegno dei principali generali egiziani contrari al dominio di Mubarak per qualche motivo, così come di alcune persone molto influenti a Washington.

Kefaya è al centro delle mobilitazioni delle manifestazioni di protesta egiziane che supportano la candidatura di ElBaradei. Kefaya di traduce “basta!

Curiosamente, i progettisti della National Endowment for Democracy (NED) di Washington [7] e delle ONG connesse alla rivoluzione colorate, sono apparentemente prive di creatività riguardo degli accattivanti nuovi nomi per la loro Color Revolution egiziana. Nel novembre 2003 per al loro Rivoluzione delle Rose in Georgia, le ONG finanziate avevano scelto una parola attraente, Kmara! Al fine di identificare il movimento giovanile per il cambiamento di regime. Kmara!, anche in georgiano significa “basta!”

Come Kefaya, Kmara in Georgia è stata costruita da consiglieri del NED finanziati da Washington e di altri gruppi come la mal denominata Albert Einstein Institution di Gene Sharp, che utilizza ciò che Sharp aveva una volta identificato come “la non-violenza come metodo di guerra.” [8]

Le diverse reti giovanili in Georgia come in Kefaya sono stati accuratamente addestrate come libera e decentrata rete di cellule, evitando deliberatamente una organizzazione centrale che poteva essere distrutto portando il movimento ad una battuta d’arresto. La formazione degli attivisti alle tecniche di resistenza non-violenta venne fatta in impianti sportivi, facendola apparire innocua. Gli attivisti erano stati assegnati a corsi di formazione in marketing politico, relazioni con i media, tecniche di mobilitazione e reclutamento.

Il nome formale di Kefaya è Movimento egiziano per il cambiamento. E’ stato fondata nel 2004 selezionando intellettuali egiziani presso Abu’ l-Ala Madi, leader del partito Al-Wasat, un partito creato dai Fratelli Musulmani [9]. Kefaya è stato creato come movimento di coalizione unito solo dall’appello per la fine del dominio di Mubarak.

Kefaya come parte dell’amorfo Movimento 6 aprile, ha capitalizzato subito i nuovi media sociali e la tecnologia digitale come suoi principali mezzi di mobilitazione. In particolare, i blog politici, che postano senza censure videoclip e immagini fotografiche su youtube, sono molto abilmente e professionalmente utilizzati. In un raduna già effettuato nel dicembre 2009, Kefaya aveva annunciato il sostegno alla candidatura di Mohammed ElBaradei per le elezioni egiziane del 2011 [10].

RAND e Kefaya

Non di meno un centro di riflessione della dirigenza della difesa statunitense, quale la RAND Corporation, ha condotto uno studio dettagliato su Kefaya. Lo studio su Kefaya come la RAND nota, è stato “promosso da Ufficio del Segretario della Difesa, Stati Maggiori riuniti, Comandi Operativi Unificati, Dipartimento della Marina Militare, Corpo dei Marines, organismi della difesa, e la la comunità d’intelligence della difesa“. [11]

Un gruppetto di simpatici signori e donne più democraticamente orientati difficilmente potrebbe essere trovato.

Nella loro relazione del 2008 al Pentagono, i ricercatori della RAND ha rilevato quanto segue in relazione a Kefaya dell’Egitto:

Gli Stati Uniti hanno professato un interesse a una maggiore democratizzazione nel mondo arabo, in particolare dopo gli attentati del settembre 2001 da parte di terroristi provenienti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Libano. Questo interesse fa parte di uno sforzo per ridurre dei destabilizzanti violenza politica e terrorismo. In qualità di presidente, George W. Bush ha sottolineato in un discorso del 2003 al National Endowment for Democracy, “Finché il Medio Oriente rimane un luogo dove la libertà non fiorisce, rimarrà un luogo di stagnazione, risentimento e violenza pronta all’esportazione” (The White House, 2003). Gli Stati Uniti hanno utilizzato mezzi diversi per perseguire la democratizzazione, compreso un intervento militare che, anche se è stato lanciato per altri motivi, ha avuto l’installazione di un governo democratico come uno dei suoi obiettivi finali. Tuttavia, i movimenti di riforma indigeni sono nella posizione migliore per far avanzare la democratizzazione del proprio paese.“[12]

I ricercatori della RAND hanno speso anni per perfezionare le tecniche di cambio di regime non convenzionale sotto il nome di “brulichio“, un metodo di diffondere masse folli di gioventù collegata per via digitale e attuare forme di protesta mordi-e-fuggi, muovendosi come sciami di api [13].

Washington e la scuderia di ONG dei “diritti umani“, della “democrazia” e “non violenza” che sovrintende, negli ultimi dieci anni o più, ha sempre più fatto affidamento su sofisticati movimenti di protesta indigena locale spontanei e che si “autoalimentano“, per creare un cambiamento di regime filo-Washington e far progredire l’agenda globale della Full Spectrum Dominance del Pentagono. Così lo studio della RAND afferma, nelle sue raccomandazioni conclusive del Pentagono, che Kefaya:

Il governo degli Stati Uniti già sostiene gli sforzi di riforma attraverso organizzazioni come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il United Nations Development Programme. Data la corrente opposizione popolare contraria agli Stati Uniti nella regione, il sostegno degli Stati Uniti alle iniziative di riforma è meglio effettuato attraverso organizzazioni non governative e istituzioni senza scopo di lucro.“[14]

Lo studio del 2008 della RAND era ancora più concreto sul futuro sostegno degli Stati Uniti al governo egiziano e gli altri movimenti di “riforma“:

“Il governo degli Stati Uniti dovrebbe incoraggiare le organizzazioni non governative offrendo una formazione ai riformatori, tra cui una guida per la costruzione della coalizione e come trattare le differenze interne nel perseguimento delle riforme democratiche. Istituzioni accademiche (o anche organizzazioni non governative associate a partiti politici statunitensi, come l’International Republican Institute o il National Democratic Institute for International Affairs) potrebbero effettuare tale formazione, equipaggiando i leader delle riforme, nel conciliare le loro divergenze in modo pacifico e democratico.

In quarto luogo, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare i riformatori ad ottenere e utilizzare le tecnologie dell’informazione, magari offrendo incentivi alle società statunitensi per investire nelle infrastrutture delle comunicazioni e nelle tecnologie dell’informazione regionali. aziende tecnologiche dell’informazione USA potrebbero anche contribuire a garantire che i siti dei riformatori possano rimanere in funzionamento, e potrebbero investire in tecnologie come l’anonymizer, che potrebbero offrire qualche riparo dal controllo del governo. Questo potrebbe essere raggiunto anche con l’impiego di tecnologie di sicurezza per impedire ai regimi di sabotare i siti web dei riformatori.“[15]

Come la loro monografia su Kefaya afferma, è stata preparata nel 2008 dalla “RAND National Security Research – Divisione per di iniziativa strategica alternativa”, patrocinata dal Rapid Reaction Technology Office presso l’Ufficio del Sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione, la tecnologia e la logistica.

La iniziativa strategica alternativa, proprio per sottolineare il punto, comprende “la ricerca su un uso creativo dei media, della radicalizzazione dei giovani, dell’impegno civile per arginare la violenza settaria, la fornitura di servizi sociali per mobilitare settori danneggiati delle popolazioni indigene e, tema di questo volume, i movimenti alternativi.”[16]

Nel maggio del 2009 poco prima del viaggio al Cairo di Obama per incontrare Mubarak, la segretaria di Stato statunitense Hillary Clinton ha ospitato una serie di giovani attivisti egiziani a Washington, sotto gli auspici della Freedom House, un’altra ONG dei “diritti umani” con sede a Washington e una lunga storia di coinvolgimento in cambi di regime sponsorizzati dagli USA, dalla Serbia alla Georgia all’Ucraina e ad altre rivoluzioni colorate. Clinton e l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, Jeffrey Feltman, hanno incontrato sedici attivisti al termine di una ‘visita‘ di due mesi organizzata dal programma New Generation della Freedom House [17].

Freedom House e la ONG dei cambi di regime, finanziata dal governo di Washington, National Endowment for Democracy (NED), sono al centro delle rivolte che ora attraversano il mondo islamico. Esse si adattano al contesto geografico di ciò che George W. Bush ha proclamato, dopo il 2001, come il suo Progetto di Grande Medio Oriente per portare la “democrazia” e una riforma economica “liberale e per il libero mercato” nei paesi islamici, dall’Afghanistan al Marocco. Quando Washington parla di introdurre la “riforma liberale del libero mercato” la gente dovrebbe guardare fuori. E’ poco più di un codice per portare quelle economie sotto il giogo del sistema del dollaro, e di tutto ciò che esso comporta.

La NED di Washington fa parte di un’agenda più grande

Se facciamo un elenco dei paesi della regione che sono sottoposti a movimenti di protesta di massa dagli eventi tunisino ed egiziano, e li riportiamo su una mappa, troviamo una quasi perfetta convergenza tra i paesi oggi coinvolti nelle proteste e la mappa originale del progetto di Washington per un Grande Medio Oriente che fu per prima presentato durante la presidenza di George W. Bush, dopo il 2001.

La NED di Washington era tranquillamente impegnata nella preparazione di un ondata di destabilizzazioni dei regimi in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, dopo l’invasione militare degli Stati Uniti, nel 2001-2003, di Afghanistan e Iraq. L’elenco dei luoghi dove la NED è attiva, è rivelatore. Il suo sito web elenca Tunisia, Egitto, Giordania, Kuwait, Libia, Siria, Yemen e Sudan e, curiosamente, Israele. Casualmente questi paesi sono quasi tutti soggetti oggi a “spontanee” insurrezioni popolari per un cambio di regime.

L’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs citati dal documento della RAND su Kefaya sono organizzazioni affiliate alla National Endowment for Democracy, di Washington e finanziata dal Congresso USA.

La NED è l’agenzia di coordinamento di Washington per la destabilizzazione e il cambiamento dei regimi. E’ attiva dal Tibet all’Ucraina, dal Venezuela alla Tunisia, dal Marocco al Kuwait nel ridisegnare il mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in quello che George HW Bush, in un discorso del 1991 al Congresso, proclamò trionfalmente essere l’alba di un Nuovo Ordine Mondiale. [18] Mentre l’architetto e primo capo del NED, Allen Weinstein ha detto al Washington Post nel 1991 che, “molto di quello che facciamo oggi è stato fatto di nascosto 25 anni fa dalla CIA“. [19]

Il Consiglio di Amministrazione della NED comprende o ha incluso, l’ex Segretario alla Difesa e vice capo della CIA, Frank Carlucci del Carlyle Group, il generale in pensione della NATO Wesley Clark; il neo-conservatore Warhawk Zalmay Khalilzad, che fu architetto dell’invasione afghana di George W. Bush e più tardi ambasciatore in Afghanistan, nonché nell’occupato Iraq. Un altro membro del consiglio della NED, Vin Weber, ha co-presieduto una task force indipendente importante sulla politica degli Stati Uniti verso le riforme nel mondo arabo, con l’ex Segretaria di Stato statunitense Madeleine Albright, e fu uno dei membri fondatori dell’ultra-aggressivo think-tank Progetto per un Nuovo Secolo Americano con Dick Cheney e Don Rumsfeld, che auspicava un forzato cambio di regime in Iraq, già nel 1998 [20].

La NED si suppone sia una fondazione privata, non governativa, senza scopo di lucro, ma riceve uno stanziamento annuale per i suoi lavori internazionali dal Congresso degli Stati Uniti. Il National Endowment for Democracy dipende dal contribuente statunitense per il finanziamento, ma perché la NED non è un ente governativo, non è soggetta alla normale supervisione del Congresso.

Il denaro della NED è incanalato ai paesi di destinazione attraverso quattro “basi centrali“, il National Democratic Institute for International Affairs, legato al Partito Democratico, l’International Republican Institute legato al Partito Repubblicano, l’American Center for International Labor Solidarity legata alla federazione del lavoro statunitense AFL-CIO e al Dipartimento di Stato statunitense, e il Center for International Private Enterprise legato alla liberista libero Camera di Commercio statunitense.

La defunta analista politica Barbara Conry aveva osservato che, “La NED ha approfittato del suo presunto status privato per influenzare le elezioni all’estero, attività che è oltre la portata dell’AID o della USIA, e sarebbe altrimenti possibile solo attraverso una operazione segreta della CIA. Tali attività, si può anche notare, sarebbero illegali per dei gruppi esteri che operassero negli Stati Uniti.”[21]

Significativamente la NED dettaglia i suoi vari attuali progetti nei paesi islamici, tra cui oltre all’Egitto, Tunisia, Yemen, Giordania, Algeria, Marocco, Kuwait, Libano, Libia, Siria, Iran e Afghanistan. In breve, la maggior parte dei paesi che attualmente sentono gli effetti del terremoto delle proteste per una riforma radicale in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, è un obiettivo della NED [22].

Nel 2005 il presidente statunitense George W. Bush ha pronunciato un discorso alla NED. In un lungo discorso incoerente che equiparava il “radicalismo islamico“, con il malvagio comunismo, quale nuovo nemico, e usando un termine più volutamente morbido di “più vasto Medio Oriente” invece di Grande Medio Oriente, che aveva suscitato molto disturbo nel mondo islamico, Bush aveva dichiarato,

Il quinto elemento della nostra strategia nella guerra al terrore è quello di negare future reclute ai militanti, sostituendo l’odio e il risentimento con la democrazia e la speranza attraverso un più vasto Medio Oriente. Si tratta di un lungo e difficile progetto, ma non c’è nessuna alternativa ad esso. Il nostro futuro e il futuro di quella regione sono collegate. Se il più vasto Medio Oriente viene lasciato crescere nell’amarezza, se i paesi rimangono in miseria, mentre i radicali suscitano il risentimento di milioni, allora quella parte del mondo sarà una fonte infinita di conflitto e pericoli montanti, per la nostra generazione e per quella successiva. Se i popoli di quella regione potranno scegliere il proprio destino, e far avanzare la loro energia, con la partecipazione di uomini e donne liberi, gli estremisti saranno marginalizzati, e il flusso del radicalismo violento verso il resto del mondo sarà rallentato, e alla fine finito… Stiamo incoraggiando i nostri amici in Medio Oriente, compreso l’Egitto e l’Arabia Saudita, a prendere la strada delle riforme, per rafforzare la propria società nella lotta contro il terrorismo, rispettando i diritti e le scelte del proprio popolo. Appoggiamo i dissidenti e gli esiliati contro i regimi oppressivi, perché sappiamo che i dissidenti di oggi saranno i leader democratici di domani… “[23]

Il Progetto degli Stati Uniti per un ‘Grande Medio Oriente’

La diffusione di operazioni di cambio di regime di Washington dalla Tunisia al Sudan, dallo Yemen all’Egitto e la Siria, sono assai ben visti, nel contesto della lunga strategia del Pentagono e del Dipartimento di Stato verso l’intero mondo islamico da Kabul in Afghanistan, a Rabat in Marocco.

I rozzi lineamenti della strategia di Washington, in parte basata sulle sue riuscite operazioni di cambio regime nell’ex Patto di Varsavia, il blocco comunista dell’Europa orientale, sono state elaborate dall’ex consulente del Pentagono e neo-conservatore Richard Perle, e poi dall’assistente di Bush Douglas Feith, in un Libro bianco elaborato per l’allora nuovo regime del Likud israeliano di Benjamin Netanyahu, nel 1996.

Tale raccomandazione politica è stata intitolata Un taglio netto: Una nuova strategia per assicurare il Reame. Fu la prima che uno scritto del think-tank Washington chiedeva apertamente la rimozione di Saddam Hussein in Iraq, un atteggiamento militare aggressivo nei confronti dei palestinesi, di colpire la Siria e gli obiettivi siriani in Libano. [24] Secondo quanto riferito, il governo Netanyahu in quel momento seppellì la relazione di Perle Feith, in quanto troppo rischioso.

Con gli eventi dell’11 settembre 2001 e il ritorno a Washington degli ultrafalchi neoconservatori del gruppo di Perle, l’amministrazione Bush diede priorità assoluta alla versione allargata del piano di Feith-Perle, chiamandolo Progetto per un Grande Medio Oriente. Feith fu nominato da Bush Sottosegretario della Difesa.

Dietro la facciata delle annunciate riforme democratiche dei regimi autocratici in tutta la regione, il Grande Medio Oriente era ed è un progetto per estendere il controllo militare degli Stati Uniti e spezzare le economie stataliste in tutto l’arco degli stati dal Marocco fino ai confini della Cina e della Russia.

Nel maggio 2003, prima che le macerie del bombardamento statunitense di Baghdad fossero tolte, George W. Bush, un presidente che non sarà ricordato come un grande amico della democrazia, proclamò la politica di “diffondere la democrazia” in tutta la regione ed aveva esplicitamente sottolineato cosa ciò significava: “La creazione del Medio Oriente come area di libero scambio con gli Stati Uniti entro un decennio.” [25]

Prima del Summit dei G8 del giugno 2004 a Sea Island, Georgia, Washington aveva pubblicato un documento di lavoro, “G8-Greater Middle East Partnership“. Sotto la sezione intitolata opportunità economiche vi era un drammatico appello di Washington per “una trasformazione economica simile, in grandezza, a quella intrapresa dai paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale”.

Il documento statunitense aveva detto che la chiave di ciò era il rafforzamento del settore privato come strada per la prosperità e la democrazia. E sosteneva, in modo fuorviante, che ciò sarebbe stato fatto attraverso il miracolo della microfinanza, come il documento chiariva, “solo 100 milioni di dollari all’anno per cinque anni saranno creerebbero 1.2 milioni di imprenditori (750.000 dei quali donne), uscendo dalla povertà, attraverso prestiti di 400 dollari a ciascuno.”[26] (Et Voilà, ecco il perché del nobel a Muahmmad Yunus, ideatore della microfinanza per i poveracci… NdT)

Il piano statunitense prevedeva l’acquisizione di banche regionali e finanziarie da parte delle nuove istituzioni apparentemente internazionale ma, come la Banca Mondiale e il FMI, di fatto controllate da Washington, tra cui il WTO. L’obiettivo del progetto a lungo termine di Washington, è quello di controllare completamente il petrolio, controllare completamente i flussi di entrate dal petrolio, controllare completamente le intere economie della regione, dal Marocco fino ai confini della Cina, e tutto ciò che sta in mezzo. E’ un progetto ardito quanto è disperata.

Una volta che il documento del G8 degli Stati Uniti era trapelato nel 2004, su Al-Hayat, l’opposizione ad essa si diffuse in tutta la regione, con una grande protesta per la definizione statunitense del Grande Medio Oriente. Un articolo del francese Le Monde Diplomatique di aprile 2004, aveva osservato che “oltre ai paesi arabi, si estende a Afghanistan, Iran, Pakistan, Turchia e Israele, il cui unico comune denominatore è che si trovano nella zona in cui l’ostilità verso gli Stati Uniti è più forte, in cui il fondamentalismo islamico nella sua forma anti-occidentale è più diffuso.”[27] Va notato che la NED è attiva anche all’interno di Israele, con un certo numero di programmi.

In particolare, nel 2004 vi è stata la veemente opposizione da due leader del Medio Oriente, l’egiziano Hosni Mubarak e il re dell’Arabia Saudita, che hanno costretto i fanatici ideologi dell’amministrazione Bush a mettere temporaneamente il progetto per il Grande Medio Oriente nel dimenticatoio.

Funzionerà?

In questo scritto non è chiaro quale sia il risultato cui porterà finale delle ultime teleguidate destabilizzazioni USA in tutto il mondo islamico. Non è chiaro quale sarà il risultato per Washington e i sostenitori di un Nuovo Ordine Mondiale dominato dagli USA. La loro agenda è chiaramente sia la creazione del Grande Medio Oriente sotto la presa salda degli Stati Uniti, come un maggior controllo dei futuri flussi di capitali e flussi di energia verso Cina, Russia e Unione Europea, che potrebbero portare, uno di questi giorni, all’idea di allontanarsi da questo ordine statunitense.

Essa ha enormi implicazioni potenziali per il futuro di Israele. Come un commentatore statunitense ha ammesso, “Il calcolo israeliano di oggi è che se ‘Mubarak se ne va’ (che di solito viene indicato con ‘Se gli USA permettono che Mubarak vada via’), l’Egitto andrà via. Se va via la Tunisia (stessa storia), anche il Marocco e l’Algeria andranno. La Turchia è già andata (per la quale gli israeliani devono solo incolpare se stessi). La Siria è andata (in parte perché Israele ha voluto escluderla dall’accesso all’acqua del mare di Galilea). Gaza è andata ad Hamas e l’Autorità palestinese potrebbe presto pure andarsene (con Hamas?). Lasciando Israele tra le rovine della politica del dominio militare della regione.” [28]

La strategia di Washington di “distruzione creativa“, sta chiaramente causando notti insonni non solo nel mondo islamico, ma anche a Tel Aviv, e infine da ora anche a Pechino e a Mosca e in tutta l’Asia centrale.


* F. William Engdahl è autore di Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order. Il suo libro A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order è stato appena ristampato in una nuova edizione. È membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”.



Note

[1] DEBKA, Mubarak believes a US-backed Egyptian military faction plotted his ouster, February 4, 2011, www.debka.com/weekly/480/. DEBKA Debka è aperto circa i sua buoni legami con l’intelligence e le agenzie di sicurezza di Israele. Mentre i suoi scritti devono essere letti con questo in mente, alcuni rapporti che pubblica spesso inducono a interessanti ulteriori indagini.

[2] Ibid.

[3] The Center for Grassroots Oversight, 1954-1970: CIA and the Muslim Brotherhood ally to oppose Egyptian President Nasser, www.historycommons.org/context.jsp?item=western_support_for_islamic_militancy_202700&scale=0. Secondo il defunto Miles Copeland, un funzionario della CIA di stanza in Egitto durante il periodo di Nasser, la CIA si alleò con i Fratelli Musulmani che si opponevano al regime laico di Nasser, così come all’opposizione dell’ideologia nazionalista alla fratellanza pan-islamica.

[4] Jijo Jacob, What is Egypt’s April 6 Movement?, 1 Febbraio 2011, http://www.ibtimes.com/articles/107387/20110201/what-is-egypt-s-april-6-movement.htm

[5] Ibidem.

[6] Janine Zacharia, Opposition groups rally around Mohamed ElBaradei, Washington Post, 31 gennaio 2011, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/01/31/AR2011013103470_2.html?sid=ST2011013003319.

[7] National Endowment for Democracy, Middle East and North Africa Program Highlights 2009, in http://www.ned.org/where-we-work/middle-east-and-northern-africa/middle-east-and-north-africa-highlights.

[8] Amitabh Pal, Gene Sharp: The Progressive Interview, The Progressive, 1 marzo 2007.

[9] Emmanuel Sivan, Why Radical Muslims Aren’t Taking over Governments, Middle East Quarterly, December 1997, pp. 3-9

[10] Carnegie Endowment, The Egyptian Movement for Change (Kifaya), http://egyptelections.carnegieendowment.org/2010/09/22/the-egyptian-movement-for-change-kifaya

[11] Nadia Oweidat, et al, The Kefaya Movement: A Case Study of a Grassroots Reform Initiative, Prepared for the Office of the Secretary of Defense, Santa Monica, Ca., RAND_778.pdf, 2008, p. iv.

[12] Ibidem.

[13] Per altre discussioni dettagliate sulle tecniche del “brulichio” della RAND: F. William Engdahl, Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order, edition.engdahl, 2009, pp. 34-41.

[14] Nadia Oweidat et al, op. cit., p. 48.

[15] Ibid., p. 50.

[16] Ibid., p. iii.

[17] Michel Chossudovsky, The Protest Movement in Egypt: “Dictators” do not Dictate, They Obey Orders, 29 gennaio 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22993

[18] George Herbert Walker Bush, State of the Union Address to Congress, 29 gennaio 1991. Nel discorso, Bush a un certo punto ha dichiarato con aria trionfante di celebrazione del collasso dell’Unione Sovietica, “Ciò che è in gioco è più di un paese piccolo, è una grande idea, un nuovo ordine mondiale …

[19] Allen Weinstein, quoted in David Ignatius, Openness is the Secret to Democracy , Washington Post National Weekly Edition, 30 Settembrw 1991, pp. 24-25.

[20] National Endowment for Democracy, Board of Directors, http://www.ned.org/about/board

[21] Barbara Conry, Loose Cannon: The National Endowment for Democracy , Cato Foreign Policy Briefing No. 27, 8 Novembre 1993, http://www.cato.org/pubs/fpbriefs/fpb-027.html.

[22] National Endowment for Democracy, 2009 Annual Report, Middle East and North Africa, http://www.ned.org/publications/annual-reports/2009-annual-report.

[23] George W. Bush, Speech at the National Endowment for Democracy, Washington, DC, 6 ottobre 2005, http://www.presidentialrhetoric.com/speeches/10.06.05.html.

[24] Richard Perle, Douglas Feith et al, A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm , 1996, Washington and Tel Aviv, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, www.iasps.org/strat1.htm

[25] George W. Bush, Remarks by the President in Commencement Address at the University of South Carolina, White House, 9 Maggio 2003.

[26] Gilbert Achcar, Fantasy of a Region that Doesn’t Exist: Greater Middle East, the US plan, Le Monde Diplomatique, 4 Aprile 2004, http://mondediplo.com/2004/04/04world

[27] Ibid.

[28] William Pfaff, American-Israel Policy Tested by Arab Uprisings, http://www.truthdig.com/report/item/american-israeli_policy_tested_by_arab_uprisings_20110201/


Traduzione di Alessandro Lattanzio

lundi, 14 février 2011

Naufrage de la diplomatie post gaullienne

Naufrage de la diplomatie post gaullienne

Ex: http://www.insolent.fr/

110208Les cafouillages assez lamentables et les polémiques non moins misérables autour des voyages privés de Mme Alliot-Marie, accompagnée de M. Patrick Ollier en Tunisie viennent de recevoir une sorte d'étrange écho. Grâce aux révélations du Canard enchaîné, qui paraîtra en date du 9 février, confirmées par Matignon à la veille de la mise en kiosques (1), on apprend en effet que le Premier ministre lui-même a effectué un voyage d'agrément, assez similaire quoique plus culturel. Le couple Ollier-Marie se rendait chez Ben Ali, Fillon chez Moubarak : décidément nos dirigeants fréquentent beaucoup les correspondants douteux de l'Internationale socialiste (2). Et ils semblent leur porter la poisse. De telles péripéties pourraient n'être considérées, à certains égards, comme ne relevant que de la dérision. Médiocre écume des choses, ces petits faits ne manquent pas toutefois de nous éclairer sur l'affaissement d'un système, celui de la diplomatie post-gaullienne autant que celui du régime politique intérieur.

Que représente en effet Mme Alliot-Marie ? Pour complaire aux rogatons de la Chiraquie impunie à ce jour, le gouvernement Fillon avait propulsé ce ministre itinérant au quai d'Orsay. Rappelons que dans les dernières années elle avait promené, sans jamais rien faire de bien marquant, son incompétence de droit divin, successivement, du ministère de la Défense, dans les gouvernements Raffarin puis Villepin de 2002 à 2007, puis au ministère de l'Intérieur de 2007 à 2009, puis au ministère de la Justice de juin 2009 à novembre 2010, avant de succéder le 14 novembre dernier à Kouchner au ministère des Affaires étrangères. On nous assure qu'elle a laissé un très bon souvenir au sein des administrations qu'elle a chapeautées. Et la chose nous semble normale dans la mesure même où elle n'aura dérangé le train-train d'aucun de ses bureaucrates.

Bien que n'ayant jamais réalisé rien de concret, cette ancienne présidente du RPR (1999-2002), fait partie des inévitables incontournables, indispensables de la classe politique. Soulignons que, par exemple, c'est sous la présidence de cette machine à perdre à la tête du RPR que Paris, après un siècle de majorité municipale de droite est passée, conduite au désastre par Séguin, sous la coupe de la gauche dite plurielle en 2001.

Ministre ridiculisée, elle vient d'illustrer, jusqu'à la caricature, l'inconsciente arrogance de trop de ces occupants des palais nationaux. La Ve république leur a conféré un sentiment de toute puissance. Leur règne dure pratiquement depuis 52 ans. De la sorte, c'est peut-être à eux plus encore qu'aux moubarakiens d'Égypte que s'adressera un jour l'impératif simple et direct : "dégage".

Au-delà de cette question, qui relève de la politique intérieure, on doit se préoccuper de tourner une autre page, plus illusoire encore, de notre apparence d'État : celle de la diplomatie post-gaullienne.

En son temps, le fondateur de la Ve république avait, certes, bercé beaucoup de Français d'un refrain d'indépendance, de dignité du pays, et en même temps de construction de l'Europe, dont le caractère à notre avis factice, ne devrait pas tromper. La seule chose qui se soit maintenue de cet héritage reprend la relation toujours fausse de ce pays avec l'Amérique.

Dès l'époque de la seconde guerre mondiale ce tropisme a dépassé la critique légitime parfois fondée qu'a longtemps appelée la politique mondiale américaine. En effet, si le parti démocrate des États-Unis a trop souvent tendu aux mêmes erreurs "désincarnées", que celles des radicaux-socialistes en France sous la IIIe république, si un certain "globalisme" insufflé par Washington met en péril les intérêts communs des Occidentaux, ceux-ci existent bel et bien, solidairement des deux côtés de l'Atlantique. Et, en s'obstinant à le nier systématiquement, dès 1941 (3) on peut se demander s'il ne s'agissait pas toujours de complaire aux intérêts de l'URSS.

Au moins dans sa politique extérieure globalement destructrice, le gaullisme historique avait conservé, en certaines circonstances, le sens, du moins en façade, de la dignité du pays. Il a toujours frayé avec les pires dictatures au nom d'un soi-disant réalisme, mais il a su le faire sous un vernis honorable.

Le fond est resté. La forme, en revanche, s'est dégradée avec le temps.

Les dirigeants français se comportent désormais ouvertement en commis voyageurs du complexe militaro-industriel hexagonal, et en corrupteurs des politiciens de petits pays étrangers. Ils ne craignent ni l'anachronisme des pots de vins à ciel ouvert, que l'OCDE proscrit officiellement. Ils nient seulement encore l'existence de rétro commissions en leur faveur. Mais bientôt, n'en doutons pas, l'évidence de celles-ci éclatera, elle aussi, au grand jour, à la faveur, par exemple, de l'affaire de Karachi ou de n'importe quelle autre. Et alors, nos politiciens, énarques et ministres intègres proposeront d'en compenser la disparition dommageable par de nouvelles subventions destinées à financer leur intéressante contribution aux débats d'idées dans la patrie de Descartes, de Pascal et de Bernanos.

Ceci s'accomplit aux yeux du monde, faut-il le rappeler. Seuls les derniers lecteurs des journaux parisiens l'ignorent.

Pendant toute l'année 2010, en parallèle avec les rumeurs de remaniement ministériel, on a fait des gorges chaudes sur l'échec de l'expérience d'une politique extérieure représentée par Kouchner. Et Dieu sait si notre ex-médecin humanitaire, ex-communiste, ex-radical de gauche, ex-débardeur de sacs de riz en Somalie, ex-procurateur de l'ONU au Kossovo, prêtait le flanc à la critique et à la caricature.

Au moins pouvait-il incarner un concept négativement positif, une remise en question de cette promiscuité avec les dictatures et de ces familiarités avec leurs potentats que les cuistres appellent d'un terme bismarckien qu'ils ne comprennent même pas. Si maladroite et parfois déplacée qu'ait pu se révéler la démarche du mari de Mme Ockrent, elle ouvrait un débat, celui de la rupture avec un passé déshonorant.

Merci au gouvernement Fillon remanié le 14 novembre. Il a dissipé sur ce point tout malentendu. Les barbouzes d'hier peuvent rôtir sereinement en enfer. Dans le monde de l'héritage des Foccart, des Chirac, des Roger Frey, des réseaux anti OAS alimentés par les délateurs communistes, des agents soviétiques et des financements tiers mondistes, rien ne semble vouloir changer. Du moins pour l'instant. Tout se contente de s'effondrer.

JG Malliarakis

 


Apostilles

 

  1. La dépêche AFP est datée du 8 février à 16 h 44.
  2. Dont le parti de Hosni Moubarak n'a été exclu que le 17 janvier 2010.
  3. cf. à ce sujet "De Gaulle dictateur" par Henri de Kérillis

samedi, 12 février 2011

Taliban en al-Qaida hebben geen ideologische banden

taliban1111.jpg

Taliban en al-Qaida hebben geen ideologische banden (rapport)
       
WASHINGTON 07/02 (AFP) = De Afghaanse taliban en al-Qaida worden ten
onrechte beschouwd als ideologische bondgenoten. Het zou zelfs mogelijk zijn
om de taliban ervan te overtuigen het terroristische netwerk niet
meer te steunen. Dat blijkt uit een rapport van Amerikaanse
deskundigen, zo staat te lezen in de New York Times.
   

Er waren al wrijvingen tussen de leiders van de taliban en al-Qaida
voor de aanslagen van 11 september 2001 en die zijn sindsdien enkel
sterker geworden, zo luidt het in "Separating the Taliban from Al
Qaeda: The Core of Success in Afghanistan", een rapport van Alex Strick
van Linschoten en Felix Kuehn van de universiteit van New York.

Beide mannen hebben jaren in Afghanistan gewerkt en merken op dat
de intensivering van de militaire operaties tegen de taliban een
oplossing wel heel moeilijk zou kunnen maken.

Het rapport legt uit dat het uitschakelen van leiders van de
taliban leidt tot hun vervanging door jongere en radicalere strijders, wat
de invloed van al-Qaida enkel verhoogt. De onderzoekers raden de VS
aan zo snel mogelijk een dialoog op te starten met de ouderlingen
onder de taliban, alvorens die hun invloed verliezen. 

De auteurs zijn niet gekant tegen de Navo-aanvallen in Afghanistan,
maar ze vragen dat er parallel onderhandelingen gevoerd worden. "Er
is een politiek akkoord nodig, anders zal het conflict escaleren",
luidt het.

http://www.nytimes.com/2011/02/07/world/asia/07afghan.htm...
arating%20&st=cse

Report Casts Doubt on Taliban’s Ties With Al Qaeda

By CARLOTTA GALL
Published: February 6, 2011

KABUL, Afghanistan — The Afghan Taliban have been wrongly perceived as close
ideological allies of Al Qaeda, and they could be persuaded to renounce the
global terrorist group, according to a report to be published Monday by New
York University.

The report goes on to say that there was substantial friction between the
groups’ leaders before the attacks of Sept. 11, 2001, and that hostility has
only intensified.

The authors, Alex Strick van Linschoten and Felix Kuehn, have worked in
Afghanistan for years and edited the autobiography of a Taliban diplomat,
many of whose ideas are reflected in the report. The authors are among a
small group of experts who say the only way to end the war in Afghanistan is
to begin peace overtures to the Taliban.

The prevailing view in Washington, however, is “that the Taliban and Al
Qaeda share the same ideology,” said Tom Gregg, a former United Nations
official in Afghanistan and a fellow at the Center on International
Cooperation at N.Y.U., which is publishing the report. “It is not an
ideology they share; it is more a pragmatic political alliance. And
therefore a political approach to the Taliban ultimately could deliver a
more practical separation between the two groups.”

Some American officials have argued that the military surge in Afghanistan
will weaken the Taliban and increase the incentive to negotiate. But the
report cautions that the campaign may make it harder to reach a settlement.

The report, “Separating the Taliban from Al Qaeda: The Core of Success in
Afghanistan,” says attacks on Taliban field commanders and provincial
leaders will leave the movement open to younger, more radical fighters and
will give Al Qaeda greater influence. The authors suggest that the United
States should engage older Taliban leaders before they lose control of the
movement.

The authors do not oppose NATO’s war, but suggest that negotiations should
accompany the fighting. A political settlement is necessary to address the
underlying reasons for the insurgency, they write. Otherwise, they warn, the
conflict will escalate.

The report draws on the authors’ interviews with unnamed Taliban officials
in Kabul, Kandahar and Khost, and on published statements by the Taliban
leadership. The authors indicate that Taliban officials fear retribution if
they make on-the-record statements opposing Al Qaeda.

Nevertheless, Taliban leaders have issued statements in the last two years
that indicate they are distancing their movement from Al Qaeda. The report
says the Taliban will not renounce Al Qaeda as a condition to negotiations,
but will offer to do so in return for guarantees of security.

The report reflects many of the arguments put forward by Mullah Abdul Salam
Zaeef, whose autobiography, published in English as “My Life With the
Taliban,” the authors edited. Mullah Zaeef lives under a loose house arrest
in Kabul after being held at Guantánamo Bay, Cuba, and has been an
intermediary between the Afghan president, Hamid Karzai, and the Taliban.

The report argues that Taliban leaders did not know of the Sept. 11 attacks
in advance and that they appeared to have been manipulated by Osama bin
Laden, who then lived in Afghanistan.

In November 2002, the report says, senior Taliban figures gathered in
Pakistan and agreed to join a process of political engagement and
reconciliation with the new government of Afghanistan. Yet the decision came
to nothing, since neither the Afghan government nor the American government
saw any reason to engage with the Taliban, the report says.

A member of the Haqqani family, which leads what American officials regard
as the most dangerous Taliban group, came to Kabul in 2002 to discuss
reconciliation, but he was detained and badly treated, the report states.

Bruce Riedel, a former C.I.A. officer who prepared a strategic policy review
on Afghanistan and Pakistan for President Obama in 2009, places the Afghan
Taliban alongside Al Qaeda in the “syndicate of terrorists” threatening the
United States. Mullah Mohammad Omar, the Taliban leader, has maintained an
“alliance, even friendship” with Mr. bin Laden that “seems to have remained
intact to this day,” Mr. Riedel writes in his book “Deadly Embrace:
Pakistan, America and the Future of the Global Jihad.”

Yet others say that there is a clear ideological divide between the two
groups and that the Taliban are not engaged in international terrorism.

“Al Qaeda is an organization that has a clearly articulated vision of global
jihad, and that is not the case with the Haqqanis and the Taliban,” Mr.
Gregg said. “Their focus is on Afghanistan, the country they are from.”

vendredi, 11 février 2011

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Redaktion

Ägypten steht vor dem wirtschaftlichen Zusammenbruch. Die Lage ist so angespannt, dass eine Machtübernahme des Militärs nicht länger als Bedrohung, sondern als einzige Hoffnung gesehen wird, das Land vor einem wirtschaftlichen Kollaps zu bewahren. Ein amerikanischer Marineverband mit sechs Kriegsschiffen und einem Hubschrauberträger ist in den Suezkanal eingelaufen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

De Libanese Christenen: van een pro-Westerse naar een nationaal-Libanese koers

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De Libanese Christenen: van een pro-Westerse naar een nationaal-Libanese koers

Ex: http://www.catholica.nl/ - Catholica, 2 februari 2011

Door Filip Martens


Een uitvoerig historisch exposé over de ontstaansgronden van het probleem rond Libanon en haar inwoners, ingezet bij 1920, het ontstaan van de zgn. "Mandaatgebieden"

De Ottomaanse militaire nederlaag tegen de Britten tijdens de Eerste Wereldoorlog leidde tot een ware metamorfose in het hele Nabije Oosten. De Arabische provincies van het Ottomaanse Rijk werden verdeeld in door de overwinnaars gecontroleerde nieuwe staten: Syrië, Libanon, Irak, Palestina en Transjordanië. Er was echter tevens een halfslachtige poging van de Britten en Fransen om ook de Arabieren iets te gunnen, omdat primo sinds de 19de eeuw het Arabische nationalisme streefde naar één grote Arabische staat, secundo de Hashemietische vorsten uit de Hedjaz [1] hun militaire bondgenoten geweest waren tegen de Ottomanen en tertio vanwege de nadruk van de Volkenbond op zelfbeschikking. Dit leidde tot de creatie van de ‘Mandaatgebieden’.

Een Mandaatgebied was een gebied dat door de Volkenbond toegewezen was aan de koloniale machten na de Eerste Wereldoorlog, officieel om de onafhankelijkheid voor te bereiden. In feite was het een doodgewone kolonie, maar de mandaathouders waren toch verplicht tot het oprichten van regeringen. Dit nieuwe instrument van politieke controle moest de Britse en Franse heerschappij over hun nieuwe bezittingen in het Nabije Oosten rechtvaardigen.

Op de Conferentie van San Remo in april 1920 verdeelden Frankrijk en Groot-Brittannië de Mandaatgebieden in het Nabije Oosten. De Fransen verwierven het mandaat over Syrië (inclusief het huidige Libanon) en de Britten over Palestina (inclusief het huidige Jordanië) en Irak. De Volkenbond bevestigde deze verdeling in juli 1922.

Deze nieuwe orde in het Nabije Oosten werd echter niet aanvaard door zijn inwoners. Zo was er in 1920 een grote opstand tegen Groot-Brittannië in Irak en Palestina. En toen Frankrijk in hetzelfde jaar zijn mandaat in Syrië wou opnemen, functioneerde er reeds twee jaar een Arabische regering in Damascus (sinds de terugtrekking der Ottomanen). Na het verdrijven van deze regering vond bovendien in 1925-1927 in heel Syrië en Libanon een grote anti-Franse opstand plaats. De Europese imperialistische machten werden uit Turkije en Perzië zelfs volledig verdreven door sterke lokale legers.

Desondanks beheersten Frankrijk en Groot-Brittannië in de 2de helft der jaren 1920 toch het Nabije Oosten. Zij bepaalden de nieuwe grenzen, wie zou regeren en welk soort regeringen er geïnstalleerd werd. En bovenal beslisten ze samen met de VS over de toegang tot de oliebronnen in de regio.

Het was in deze periode dat de basis van het politieke leven in het Nabije Oosten gelegd werd, samen met veel nog altijd onopgeloste problemen: betwiste grenzen, etnische en religieuze spanningen, nationale minderheden die geen eigen staat gekregen hadden (zoals de Koerden). Belangrijk is dat er voor de door Frankrijk en Groot-Brittannië geschapen mandaatstaten geen precedenten bestonden in de Arabische geschiedenis. Alleen het kleine christelijke gebied rond het Libanongebergte had onder de Ottomanen autonomie genoten en Syrië was vóór de Franse bezetting 2 jaar onafhankelijk geweest. In alle Mandaatgebieden koesterden de diverse bevolkingsgroepen bovendien een religieuze identiteit: alawieten, Armeense orthodoxen, Assyrische katholieken, Arabische joden, druzen, maronieten, oriëntaals-orthodoxen, oosters-orthodoxen, sjiieten, soennieten, … Van enige etnische of nationale identiteit, laat staan een tendens tot staatsvorming was dus geen sprake.

Groot-Libanon

Waar de Britten in Transjordanië (dat afgesplitst werd van Palestina) en Irak monarchieën installeerden, opteerde Frankrijk in Syrië en Libanon (dat afgesplitst werd van Syrië) voor republieken onder volgzame presidenten. De Fransen ondervonden in Libanon relatief weinig oppositie tegen het mandaat, doch in Syrië werd het mandaat beschouwd als een surrogaat voor het oude imperialisme. Daarom werd een pro-Frans en sterk Libanon gecreëerd. Officieel verkocht Frankrijk dit alsof het de maronieten – i.e. de lokale katholieken – wou ‘beschermen’ en beriep zich daarvoor zelfs op contacten uit de tijd der Kruistochten.

liban-drap.gifGeneraal Henri Gouraud hertekende op 31 augustus 1920 de grenzen van ‘Groot-Libanon’, zodat het maar liefst vier keer (!) groter werd dan het kleine historische Libanon. Hierdoor werd het historisch tot Syrië behorende Libanon een zelfstandig Mandaatgebied náást het Syrische Mandaatgebied. De grenzen van het nieuwe Libanese Mandaatgebied waren zo gekozen dat de christelijke denominaties er een nipte meerderheid van ca. 55% vormden. Hierdoor werd het gebied onttrokken aan de traditionele Arabische invloed en werd het op het liberale Westen georiënteerd.

Hoewel deze manoeuvre een deel der Libanezen pro-Frans maakte, versterkte het aanzienlijk de bestaande breuklijnen enerzijds tussen de religieuze groepen in Libanon en anderzijds tussen het ‘christelijke’ Libanon en het ‘islamitische’ Syrië [2]. Deze door Frankrijk aangezwengelde tweedracht vormde de hoofdoorzaak van de Libanese burgeroorlogen van 1958 en van 1975-1990 én leidt tot op heden tot bitterheid! Het Franse mandaat was dan ook in beide landen absoluut géén voorbeeld van goed bestuur, maar onderdrukte slechts tijdelijk de onrust die uiteindelijk wel tot geweld moest leiden.

Op korte termijn bleek dit Franse beleid succesvol, doch de inclusie van grote islamitische gebieden tastte de christelijke aard van Libanon aan. Frankrijk versnipperde aanvankelijk ook de rest van Syrië in diverse staten en autonome gebieden, doch dit bleek zodanig duur te zijn dat het zich gedwongen zag de meeste gebieden te hergroeperen in een federatie. Veel problemen die het mandaatsysteem geacht werd op te lossen, werden slechts uitgesteld en blijven tot op heden brandende kwesties in het Nabije Oosten.

In tegenstelling tot het Britse ‘indirect rule’ in Irak en Transjordanië slaagde Frankrijk er nooit in om zijn ‘direct rule’ over Libanon en Syrië te consolideren. Waar het Groot-Brittannië lukte om zijn mandaatgebieden te controleren met amper een handvol ambtenaren en enkele kleine luchtmachteenheden, dienden de Fransen grote militaire inspanningen te doen. Zo werden in Libanon en Syrië meer dan 50.000 Franse soldaten gestationeerd. Verder werden er ook nog eens 14.000 lokale hulptroepen ingeschakeld, evenals Arabische woestijnpatrouilles onder leiding van Franse officieren om de steppes en de woestijn te controleren. Het hoeft geen betoog dat dit Frankrijk handenvol geld kostte.

De Fransen bestuurden Libanon met behulp van de collaborerende maronieten. Aangemoedigd door de Franse bevoordeling en ook uit vrees voor het opkomende Syrische nationalisme richtten zij zich sterk op Frankrijk. De particuliere belangen der maronieten kwamen hierdoor bij een nauw met Frankrijk verbonden Libanon te liggen, terwijl de diverse islamitische denominaties en een deel der orthodoxe christenen streefden naar een Groot-Syrië. Dit vergrootte het onderscheid tussen de Arabieren van Beiroet en Damascus.

Waar de Britten louter tot doel hadden om zoveel mogelijk baat uit hun mandaatgebieden te halen tegen een zo laag mogelijke kostprijs, definieerden de Fransen hun mandaat als een verplichting om de Franse cultuur naar de ‘achterlijke inboorlingen’ te brengen. Dat deze ‘wilden’ Arabieren waren en een omvangrijke, eeuwenoude literaire en culturele erfenis hadden, werd daarbij over het hoofd gezien. Desondanks investeerde Frankrijk slechts weinig in onderwijs om de groei van het nationalisme tegen te gaan. De Syriërs, die zich trots hun tweejarige onafhankelijkheid herinnerden, bleven immers hardnekkig streven naar onafhankelijkheid en de Fransen konden zich slechts met veel moeite en ten koste van het verlies van veel mensenlevens handhaven. Bovendien was Syrië voor Frankrijk een economische verliespost, vermits de Britten de Syrische markt domineerden en vermits het Franse bestuur peperduur was (cfr. supra).

In juli 1925 kwamen de druzen in het Libanongebergte in opstand omdat het Franse bestuur hun tradities en machtsstructuren ondermijnde. Onder leiding van sultan Al-Atrash werd het Franse leger enkele keren verslagen én breidde de volksopstand zich ook uit naar Syrië. De Fransen belegerden Damascus, doch werden teruggeslagen. Pas in 1926 kon een nieuw Frans offensief de stad bezetten, maar toch zou het nog tot 1927 duren eer Frankrijk Libanon en Syrië opnieuw volledig controleerde.

1943: Onafhankelijkheid

De Tweede Wereldoorlog maakte een eind aan de Europese koloniale dominantie over het Nabije Oosten. De nederlagen van Frankrijk en Italië, evenals de opkomst der nieuwe wereldmachten VS en USSR beschadigden het prestige van de oude imperialistische machten zwaar. Al van in het begin der jaren 1930 leefde in heel het Nabije Oosten een sterke sympathie voor de Aslanden. Tijdens de Tweede Wereldoorlog kozen Libanon, Syrië, Irak en Iran dan ook de kant der Aslanden, enerzijds uit onvrede met de Franse en Britse dominantie over het Nabije Oosten en anderzijds omdat het voorbeeld van Duitsland, Italië en Japan (en ook Turkije) – die zich van zwakke staten op korte termijn ontwikkeld hadden tot belangrijke landen – aanstekelijk werkte.

Toen de Mandaatgebieden Syrië en Libanon aan het begin van de Tweede Wereldoorlog onder het bestuur van Vichy-Frankrijk kwamen en de onafhankelijke staten Irak en Iran openlijk Duitsland steunden, veroverden de Britse en Australische troepen deze territoria in mei-juli 1941. In november 1943 werd het Franse mandaat over Libanon opgeheven en werd het gebied onafhankelijk. In 1944 bezorgde een opstand ook Syrië eindelijk zijn onafhankelijkheid. Toch verlieten de laatste Franse troepen pas in april 1946 de voormalige Mandaatgebieden.

In Libanon werd bij de onafhankelijkheid het Nationale Pact gesloten. Dit bepaalde dat de president en de opperbevelhebber van het leger steeds maronieten moesten zijn en de premier en de parlementsvoorzitter steeds respectievelijk een soenniet en een sjiiet. Ook alle parlementszetels en overheidsfuncties werden verdeeld via een religieuze verdeelsleutel van 6 christenen en 5 druzen en islamieten. Deze verdeling was gebaseerd op de volkstelling van 1932. Verder zou Libanon tijdens conflicten tussen Arabische landen neutraal blijven en zich cultureel zowel op Europa als op de Arabische wereld richten. Het hoeft geen betoog dat dit Nationale Pact en de blijvende goede relaties der maronieten met Frankrijk de kiemen vormden van de Libanese burgeroorlogen van 1958 en 1975-1990, daar dit systeem de druzen en islamieten tot tweederangsburgers maakte.

De 2 nieuwe onafhankelijke staten zagen zich geconfronteerd met dezelfde moeilijkheden als de koloniale heerser. Een nationalistische coalitie vormen tegen de vreemde bezetter was één ding, de toewijding der inwoners verkrijgen een ander. Daarnaast had de Franse kolonisator bovendien ook nog zwaar gefaald inzake het bestrijden van armoede en analfabetisme, in het ontwikkelen van industrie en onderwijs, evenals in het oprichten van nationale banken. Tevens had Frankrijk zware financiële tekorten, religieuze en sociale tegenstellingen, gepolitiseerde bureaucratische structuren en krachteloze koloniale legers gecreëerd. Een dergelijke koloniale erfenis moest onvermijdelijk wel tot politieke instabiliteit leiden. In Syrië pleegden gefrustreerde legerofficieren dan ook al in 1949 een militaire coup. Libanon vormde daarentegen een pluralistisch systeem dat van de ene crisis naar de andere waggelde.

Libanon en Syrië sloten direct na hun onafhankelijkheid een douane-unie, die echter al in 1950 op de klippen liep. Vanwege zijn economische afhankelijkheid van Syrië werd Libanon daarna een sterk voorstander van het vrijhandelsverdrag van 1953 tussen de lidstaten van de Arabische Liga.

Veel politieke analisten verklaarden de aanvankelijke instabiliteit van de pas onafhankelijke Arabische staten door een combinatie van religieuze en historische factoren die zogezegd specifiek voor de regio zouden zijn, zoals ‘de’ islam en het Arabisch nationalisme. Echter, hoewel altijd met religieuze en transnationale banden dient te worden rekening gehouden, verschillen voornoemde moeilijkheden niet echt veel van die in andere pas gedekoloniseerde landen. Ook daar ontstonden immers al snel na de onafhankelijkheid militaire of eenpartijregimes. In het Nabije Oosten werd dan ook net als in andere regio’s de politieke instabiliteit overwonnen door het uitbouwen der bureaucratie en der veiligheidsdiensten.

De eerste Libanese burgeroorlog van 1958

Na de talrijke coups in de Arabische landen in de jaren 1950 en 1960 trad vanaf de jaren 1970 stabiliteit in. De hoofdreden voor dit politieke evenwicht was de groeiende staatsmacht. Alleen Libanon bleek niet in staat om zijn middelpuntvliedende krachten onder controle te houden, wat nog verergerde doordat het ook de speelbal werd van intra-Arabische en Arabisch-Israëlische rivaliteiten.

Libanon kende gedurende de jaren 1940 en 1950 politieke stabiliteit en economische voorspoed, hoewel de demografisch sterk aangroeiende sjiitische bevolkingsgroep toch ontevreden was over zijn tweederangsrol in de maatschappij. Vanaf 1955 verwierf het socialistische Arabisch-nationalisme van de Egyptische president Nasser door diens virulente verzet tegen het Brits-Amerikaanse neokolonialistische Bagdadpact een enorme populariteit in de Arabische wereld. Ook Libanon kwam onder druk te staan om zijn contacten met het liberale Westen af te bouwen, vooral toen Syrië en Nassers Egypte in 1958-1961 tijdelijk samen de Verenigde Arabische Republiek vormden.

In 1958 eisten druzen en islamieten een nieuwe volkstelling, omdat die van 1932 gedateerd was en de verdeling van parlementszetels en overheidsfuncties dus niet meer aan de maatschappelijke realiteit beantwoordde. Tevens werd gestreefd naar aansluiting bij Nassers Verenigde Arabische Republiek. De door maronieten gedomineerde regering legde deze eisen naast zich neer, waarop een grootschalige volksopstand losbrak in heel Zuid-, Centraal- en Oost-Libanon. Het Libanese leger durfde niet in te grijpen uit vrees dat een deel der troepen zou aansluiten bij de rebellen. De opstandelingen werden daarentegen sterk gesteund door de Verenigde Arabische Republiek. Tijdens deze burgeroorlog bracht een staatsgreep in Irak een anti-Westers regime aan de macht. Uit vrees voor een gelijkaardig scenario in Libanon stuurde de VS mariniers om de volksopstand te onderdrukken. Toch poogde in 1961 een staatsgreep om Libanon alsnog bij Syrië te doen aansluiten, doch deze mislukte echter.

Ontstaan van de tweede burgeroorlog van 1975-1990

 

De burgeroorlog van 1958 en de mislukte staatsgreep van 1961 toonden aan dat hoewel Libanon een goed draaiende economie had en zich tevens opwerkte tot een aantrekkelijk vakantieland, er toch ook ernstige politieke en sociaal-economische problemen bestonden. De economische elite was christelijk en soennitisch en was niet toegankelijk voor de snel aangroeiende sjiitische bevolkingsgroep, die daardoor achtergesteld werd. Dit leidde in 1974 tot de oprichting van de emancipatiebeweging Amal, wat staat voor ‘Libanese Verzetseenheden’. Amal wou op vreedzame wijze de sociale positie der sjiieten verbeteren.

Dit alles getuigde van een toenemende onrust onder grote delen der Libanese bevolking. De politieke en maatschappelijke machtsverdelingen in het land waren immers gebaseerd op de al lang verouderde volkstelling van 1932. De diverse moslimgroeperingen, die toen een nipte minderheid vormden, hadden in de jaren 1970 een demografische meerderheid verworven zonder dat echter de machtsverhoudingen mee geëvolueerd waren. Vandaar dat dan ook een beweging ontstond om dit te herzien, wat echter geboycot werd door de maronieten en het Westen.

De spanning in het land werd nog opgedreven sinds de PLO, die door koning Hoessein II tijdens Zwarte September 1970 uit Jordanië verdreven was, zijn hoofdkwartier in Beiroet gevestigd had. De PLO was dankzij het oliegeld van de Arabische landen in de jaren 1970 de rijkste bevrijdingsbeweging ter wereld en telde ca. 15.000 strijders. Vanuit Libanon werd dan ook regelmatig Noord-Israël aangevallen. Zowel de christelijke als islamitische burgerbevolking van Libanon werd getroffen door de Israëlische vergeldingsacties, evenals door een vaak brutale terreur van de PLO (ontvoeringen, verkrachtingen, mishandelingen, moorden, …) tegen de bevolking. Dit leidde in 1973 tot een gewapende strijd tussen regeringstroepen en PLO-milities, terwijl ook de maronitische falangisten slaags raakten met islamitische groeperingen.

In 1975 brak dan de tweede Libanese burgeroorlog uit tussen enerzijds het Libanese Front en anderzijds de Libanese Nationale Beweging. Het Libanese Front wou het institutionele status quo handhaven, werd geleid door Falange-leider Pierre Gemayel en bestond uit de christelijke denominaties en een deel der moslims. De Libanese Nationale Beweging wou de machtsverhoudingen actualiseren, werd geleid door de druzische leider Kamal Jumblatt en bestond uit de druzen, de PLO en een deel der moslims.

Binnen deze 2 kampen ontstonden echter al gauw interne conflicten, wat de burgeroorlog tot een complex kluwen maakte. Zo beval Bashir Gemayel, zoon van de maronitische, pro-Westerse Pierre Gemayel, bijvoorbeeld een slachtpartij in het huis van de maronitische, pro-Syrische familie Franjieh. Hierin kwamen Tony Franjieh (zoon van ex-president Suleiman Franjieh), diens vrouw, hun tweejarig dochtertje en nog een dertigtal anderen om. Het Libanese leger verbrokkelde bovendien langs sektarische lijnen. Daarenboven trokken in 1976 met toestemming van Israël en de VS ook nog eens Syrische troepen het land binnen. En in 1977 viel het Israëlische leger eveneens – kortstondig – het land binnen.

De Israëlische invasie van 1982

In juni 1982 viel Israël opnieuw Libanon binnen en voerde 3 maanden lang hevig strijd met de PLO in Beiroet. Het presidentieel paleis werd verdedigd tegen de Israëlische invallers door regeringstroepen onder leiding van de maronitische generaal Michel Aoun, aangezien geen enkele andere christelijke officier een militaire confrontatie met het Israëlische leger aandurfde.

Deze Israëlische invasie had 2 doelen: primo de PLO uit Libanon verdrijven en secundo een satellietregime onder leiding van Bashir Gemayel installeren. De PLO diende inderdaad in september 1982 – onder begeleiding van een Amerikaans-Frans-Italiaanse troepenmacht – noodgedwongen naar Tunis te verhuizen, doch de creatie van een pro-Israëlische satellietstaat Libanon mislukte echter. Toch leidde de invasie tot belangrijke wijzigingen in de krachtsverhoudingen tussen de diverse milities.

De pro-Israëlische Bashir Gemayel presidentskandidaat werd nog vóór zijn aanstelling op 14 september vermoord. Israëlisch minister van Defensie Ariël Sharon liet daarop falangistische milities de Palestijnse vluchtelingenkampen Sabra en Shatilla binnentrekken onder het oog en met assistentie van het Israëlische leger. Deze christelijke milities vermoordden daarbij in drie dagen ca. 1.500 Palestijnen. Het hierdoor ontstane internationale schandaal leidde tot het aftreden van minister Sharon én tot het ontstaan van de Israëlische vredesbeweging.

De twee Israëlische invasies leidden voorts tot grote aantallen vluchtelingen, die in hun vluchtelingenkampen verzetsbewegingen oprichtten om Israël uit hun land te verdrijven. Het sjiitische, radicale en anti-Westerse Hezbollah ontstond in 1982 uit deze verzetsbewegingen, omdat Amal als onvoldoende doelmatig werd beschouwd om Zuid-Libanon te bevrijden. Hezbollah beschouwt Israël en de VS als zijn voornaamste vijanden vanwege hun decennialange inmenging in Libanon. In 1983 introduceerde de beweging zelfmoordaanslagen, gericht tegen Israëlische en Westerse doelwitten. Dit toen nieuwe verschijnsel bezorgde Hezbollah veel bekendheid in het Westen. Buitenlandse soortgelijke bewegingen zoals Hamas en de Islamitische Jihad namen dit over. Hezbollah ontvoerde in de jaren 1980 ook Westerlingen.

Bashir Gemayels broer Amin werd op 23 september 1982 president van Libanon, maar kon slechts met behulp van Amerikaanse, Franse, Britse en Italiaanse troepen in het zadel gehouden worden. De zwakke president Amin Gemayel sloot onder Amerikaanse druk in mei 1983 een omstreden – want zeer onpopulair bij de Libanese bevolking – vredesverdrag met Israël, dat zijn troepen terugtrok en nog slechts een zogenaamde veiligheidszone in Zuid-Libanon behield. De Westerse troepen werden omwille van het opdringen van dit vredesakkoord in 1983-1984 het doelwit van spectaculaire aanslagen met honderden dode Westerse soldaten tot gevolg. Dit dwong hen om Libanon in 1984 te verlaten, terwijl de regering het onhoudbare vredesverdrag met Israël opzegde.

Pogingen tot pacificatie onder Syrië in de jaren 1980

Deze ontwikkelingen versterkten de machtspositie der Syrische troepen, wat eindelijk kansen op pacificatie bood. In juni 1984 werd generaal Michel Aoun benoemd tot opperbevelhebber van het Libanese leger door de op de vredesconferentie van Lausanne (Zwitserland) gevormde regering van nationale eenheid. Aoun probeerde voornamelijk de eenheid van het leger te vrijwaren en bleef zelf uit de schijnwerpers tot 1988. Ook werd tot dat jaar het Libanese leger, dat ondertussen aanzienlijk verkleind was door vele afscheuringen, niet ingezet in de burgeroorlog.

Helaas braken in 1985 opnieuw zware gevechten uit tussen het sjiitische Amal en herbewapende Palestijnse milities. Nog in 1985 specificeerde Hezbollah zijn doelstellingen in een handvest: primo definitief een einde stellen aan het Westerse neokolonialisme in Libanon; secundo vervolging van de falangistische misdaden tegen de Libanese bevolking tijdens de burgeroorlog; en tertio alle Libanezen in vrijheid een eigen regering laten kiezen.

Op het einde van 1985 slaagde Syrië er in om een vredesakkoord tot stand te brengen tussen de diverse strijdende facties. Dit werd echter afgewezen door de maronieten, die zich steeds anti-Syrischer opstelden. Daardoor ontstond er vanaf 1987 tweespalt tussen pro-Syrische en anti-Syrische krachten in de regering. Dit deed Libanon in een politieke impasse belanden, terwijl ook de economie verder kapseisde. Cyprus nam bovendien tijdens de burgeroorlog Libanons rol als regionaal handelscentrum in het Nabije Oosten over.

1988-1990: Het Libanees-nationalisme van generaal Michel Aoun

De Libanese parlementsleden werden in 1988 verhinderd zich uit de gebieden der pro-Syrische christelijke milities en der Syrische troepen naar Beiroet te begeven om een nieuwe president te verkiezen. Een nieuwe Libanese president dient immers door het parlement met een tweederdemeerderheid te worden verkozen. Hoewel deze president vervolgens de premier benoemt, moeten ook hij en de door hem samengestelde regering het vertrouwen van het parlement krijgen.

Syrië wou zo de verkiezing vermijden van een president die de Syrische dominantie over Libanon niet wilde erkennen en hoopte dat de aldus ontstane impasse tot een politiek vacuüm zou leiden dat Syrië de kans zou geven heel Libanon over te nemen. Echter, vlak voor het verstrijken van zijn ambtstermijn en in strijd met het Nationale Pact (dat stipuleerde dat de premier een soenniet moest zijn), verving de aftredende president Amin Gemayel in september 1988 de regering van de soennitische premier al-Hoss door een militaire regering onder de maronitische generaal Michel Aoun. Interim-premier Aoun moest het land leiden tot het parlement in staat was om een nieuwe president te verkiezen. Dit leidde tot de splitsing van de Libanese regering in een nationaal-Libanese militaire regering in Oost-Beiroet onder Aoun en een pro-Syrische burgerlijke regering in West-Beiroet onder al-Hoss.

Michel Aoun werd in 1935 geboren in een arme familie in een gemengd christelijk-islamitisch dorp ten zuiden van Beiroet. In 1941 verjoegen de binnenvallende Britse en Australische troepen zijn familie uit hun huis om er soldaten te legeren. Als kind raakte de maroniet Aoun bevriend met vele moslims. Hij studeerde in 1958 af aan de Militaire Academie als artillerieofficier. Later zou hij nog bijkomende militaire opleidingen volgen in Frankrijk en de VS. Als officier verwierf Aoun zich een reputatie van eerlijkheid, onkreukbaarheid en boven de sektarische groeperingen te staan.

Interim-premier Aoun bevocht zowel christelijke als islamitische milities en werd gesteund door het met Syrië rivaliserende Irak van Saddam Hoessein. Daar zijn regering slechts Oost-Beiroet en de omliggende dorpen controleerde, wou Aoun het staatsgezag herstellen over heel Libanon. Hiervoor verwierf hij de steun van de meeste andere Arabische landen en bijgevolg veroverden Aouns troepen in februari 1989 de haven van Beiroet en andere belangrijke economische faciliteiten op de belangrijkste maronitische militie. Daar Aoun zelf een maroniet was, leidde deze militaire actie tot verbazing én voldoening bij de Libanese islamieten, die nog nooit eerder beschermd waren door de regering tegen de aanvallen van de maronitische milities.

Vervolgens belaagde Aoun pro-Syrische sjiitische en druzische milities in West-Beiroet. Toen de Syriërs antwoordden met artilleriebeschietingen op burgerdoelwitten in Oost-Beiroet, verklaarde hij in maart 1989 de oorlog aan Syrië. Dit leidde het volgende half jaar ondanks vruchteloze bemiddelingspogingen van de Arabische Liga tot enorme verwoestingen in Beiroet en tot meer dan een miljoen vluchtelingen. Desondanks piekte de steun van het volk voor Aouns oorlog tegen het Syrische leger in heel Libanon. Aouns roep om vrijheid creëerde een revolutionair gevoel van trots en tevredenheid over de religieuze grenzen heen, waarmee hij zich een plaats veroverde in de harten der Libanezen. Toch hebben tot op heden velen bedenkingen bij Aouns ‘bevrijdingsoorlog’ tegen het veel sterkere Syrische leger.

1990-2005: Libanon als Syrische satellietstaat na de Vrede van Taïf

Toen in september 1989 duidelijk werd dat er geen internationale tussenkomst zou komen, aanvaardde Aoun een door de Arabische Liga bewerkstelligd staakt-het-vuren. Hierna werden onder druk van de Arabische Liga de vredesonderhandelingen van Taïf gevoerd, hoewel Aoun weigerde deel te nemen aan deze bijeenkomst. Saoedi-Arabië en Syrië forceerden een vredesakkoord tussen de diverse strijdende Libanese facties. Deze Vrede van Taïf voorzag in verkiezingen, ontwapening der milities, Syrische voogdij over Libanon, de aanstelling van René Mouawad tot president en een gelijke verdeling van overheidsambten en van de 128 parlementszetels tussen enerzijds christenen en anderzijds druzen en islamieten (waarbij elke groep dus 64 zetels heeft). Tot 1989 hadden de christelijke denominaties 55% der parlementszetels en overheidsfuncties in handen, hoewel de druzische en islamitische groeperingen al decennia de meerderheid der bevolking vormden.

Alleen interim-premier Michel Aoun weigerde het vredesakkoord te aanvaarden en de nieuwe president te erkennen, omdat er niet voorzien werd in de terugtrekking der Syrische troepen uit Libanon en omdat deze vrede volgens hem niet kon bedisseld worden door parlementsleden uit de traditionele politieke klasse die de burgeroorlog veroorzaakt had. Sinds 1972 waren er immers geen parlementsverkiezingen meer gehouden. Syrië weigerde echter het vredesakkoord aan een volksreferendum te onderwerpen.

Op 5 november 1989 verkozen de Libanese parlementsleden op een Syrische luchtmachtbasis René Mouawad tot president. Nadat deze op 22 november 1989 bij een aanslag om het leven kwam, liet Syrië de pro-Syrische maroniet Elias Hrawi tot president verkiezen. Ondanks internationale erkenning van Hrawi’s regering weigerde Aoun opnieuw deze te aanvaarden.

Aoun bleef zich verschansen in het presidentieel paleis en teerde op een nooit eerder geziene volkssteun, hoewel hij tegelijk de vijandschap opwekte van de militieleiders en de traditionele elite. In december 1989 werd hij officieel ontzet uit zijn functie, waarop honderdduizenden sjiitische, soennitische en christelijke Libanezen naar het presidentieel paleis stroomden om een menselijk schild te vormen tegen de Syrische belegeraars. Dit toonde duidelijk de kracht aan van de Libanese nationalistische beweging.

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In 1990 leverde Michel Aoun hevig strijd met christelijke milities. Echter, na de bezetting van Koeweit door Irak in augustus 1990 wou de VS de deelname van Syrië aan het anti-Iraakse bondgenootschap bekomen. In ruil mocht Syrië heel Libanon veroveren. Bijgevolg bezetten Syrische troepen in oktober 1990 Aouns Oost-Beiroetse enclave en dwongen zijn krijgsmacht tot overgave, waardoor de burgeroorlog na 15 jaar eindigde. Aoun zelf vond onderdak in de Franse ambassade en kreeg in augustus 1991 politiek asiel in Frankrijk.

In mei 1991 sloten Syrië en Libanon het Libanees-Syrische Samenwerkingsverdrag, dat voorzag in een overlegmechanisme tussen de presidenten van beide landen en culturele, economische en wetenschappelijke samenwerking. Daarnaast werd tevens de nauwe band tussen beide landen bevestigd en de Syrische militaire aanwezigheid in Libanon geregeld. De Libanese staat kon zich nu weer versterken en met uitzondering van de door Israël bezette Zuid-Libanese veiligheidszone opnieuw gezag uitoefenen over het hele land. Behalve Hezbollah, dat nog jarenlang een guerrillaoorlog tegen Israël bleef voeren, werden alle milities ontbonden en de laatste Palestijnse verzetshaarden gebroken. In 1998 werd president Hrawi opgevolgd door de eveneens pro-Syrische maroniet Emile Lahoud.

Heden erkent Libanon 17 verschillende religies: 11 christelijke kerken (maronieten, oosters-orthodoxen, oriëntaals-orthodoxen, melkitische katholieken, Armeens-orthodoxen, Armeens-katholieken, Assyrisch-orthodoxen, nestorianen, chaldeeuws-katholieken, kopten en rooms-katholieken), 4 islamitische denominaties (alawieten, ismaëlieten, sjiieten en soennieten), de druzen en de protestanten. De verhouding christenen-druzen-moslims wordt heden ingeschat als respectievelijk 39%, 4% en 57%. Vanwege de gerichtheid der maronieten op het Westen emigreerden velen van hen gedurende de laatste halve eeuw, waardoor het totale aantal christenen gestaag daalde. De christelijke gemeenschappen wonen voornamelijk in het centrale kustgebied rond Beiroet.

Hezbollah wordt sinds 1992 geleid door Hassan Nasrallah en transformeerde in de jaren 1990 van een guerrillaorganisatie naar een goed georganiseerde sociale beweging met een politieke partij en een militaire vleugel. Dankzij aanpassingen van zijn doelstellingen en vele sociale werken won Hezbollah sterk aan populariteit onder de Libanese bevolking. De organisatie bezorgde de achtergestelde sjiitische bevolking goedkope huisvesting, gezondheidszorg, hospitalen, leningen, onderwijs en werkloosheidsuitkeringen. Daarnaast richtte Hezbollah nog de televisiezender Al-Manar op en heeft ook in een deel van Libanon de facto de macht in handen. Sinds 2000 neemt Hezbollah tevens deel aan de Libanese parlementsverkiezingen.

Israël ontruimde Zuid-Libanon in mei 2000. Sindsdien controleert Hezbollah het gebied en voert van daaruit militaire acties tegen Israël. Deze bevrijdingsorganisatie verwierf door deze hardnekkige strijd tegen Israël veel aanzien in Libanon en onder de Palestijnen.

In februari 2005 werd ex-premier Rafik Hariri bij een nooit opgehelderde bomaanslag gedood, die door de internationale media zonder enige vorm van bewijsmateriaal of aanwijzingen aan Syrië werd toegeschreven. Tegelijk ontstonden massademonstraties die de terugtrekking der Syrische troepen eisten. Deze pro-Westerse Cederrevolutie werd door pro-Syrische politieke krachten beantwoord met grote pro-Syrische betogingen. De internationale druk liep echter zodanig hoog op dat Syrië zich in april 2005 effectief genoodzaakt zag zijn troepen terug te trekken, terwijl ook de pro-Syrische regering aftrad. President Émile Lahoud benoemde Najib Mikati op 15 april tot premier om verkiezingen voor te bereiden.

Een nationaal-Libanees verbond rond de Aoun Alliantie en het Weerstands- en Ontwikkelingsblok

Na de Syrische overwinning op Michel Aoun in 1990 werden ca. 4.000 ‘Aounisten’ opgepakt door de Libanese en Syrische veiligheidsdiensten. Pas in het begin der 21ste eeuw nam de vervolging af en ontstond de Aounistische Vrije Patriottische Beweging. Sinds 2005 organiseerde deze politieke partij talrijke massademonstraties. Onder druk van het publiek begonnen Libanese politici ook op te roepen tot de terugkeer van Aoun, doch Syrië dwarsboomde dit steeds. Door de Syrische terugtrekking kon de dan 70-jarige Michel Aoun in mei 2005 dan toch terugkeren om te participeren aan de verkiezingen van juni 2005. Het wekte grote verbazing dat zijn Vrije Patriottische Beweging één verkiezingslijst vormde met voormalige pro-Syrische christelijke tegenstanders als Michel Murr (Murr Blok) en Suleiman Franjieh jr. (Skaff Blok). Deze Aoun Alliantie won 21 van de 128 parlementszetels en werd hiermee veruit de grootste christelijke formatie.

De traditionele maronitische politieke elite veracht Michel Aoun omdat hij met zijn Libanees nationalisme hun cliëntelistische patronagenetwerken ondermijnde. Ook de Syrische president wijlen Hafez Assad haatte Aoun omdat deze met succes de sektarische breuklijnen in de Libanese maatschappij oversteeg, wat Syrië dwarsboomde in het tegen mekaar uitspelen van de diverse sektarische groepen. Voor de gewone Libanezen blijft Aoun echter het bekendste symbool van het seculiere Libanese nationalisme: een revolutionair die bijna messianistische bewondering opwekt. Aouns hardnekkige verzet tegen de Syrische overmacht in 1990 raakte een gevoelige snaar bij miljoenen Libanezen, ongeacht religie of afkomst. Ondanks zijn ballingschap in Frankrijk bleef Aoun Libanons voornaamste oppositieleider. Hoewel hij nog steeds meer gesteund wordt door christenen, bleef hij ook populair bij de Libanese islamitische denominaties. Zo plaatsten in 1996 bijvoorbeeld de sjiieten hem als derde in een reeks van meeste geliefde Libanese leiders. Het mag dan ook geen verwondering wekken dat zijn Aoun Alliantie de traditionele christelijke partijen electoraal verpulverde.

Ook Hezbollah, Amal, 3 kleinere partijen (Baath-partij, Falange Pakradouni en Syrische Socialistische Nationale Partij) en enkele onafhankelijken organiseerden zich in het Weerstands- en Ontwikkelingsblok. Hezbollah zelf wordt sterk gesteund door Syrië en Iran. Hoewel meerdere Europese landen Hezbollah niet als terroristisch beschouwen, brandmerken de VS, Canada en Israël deze beweging wel als een terroristische organisatie vanwege Hezbollahs standpunt over de bestrijding van de staat Israël, die door Hezbollah niet erkend wordt. Bij de verkiezingen van juni 2005 haalde het Weerstands- en Ontwikkelingsblok 35 zetels in het Libanese parlement.

In februari 2006 sloten de Aoun Alliantie en het Weerstands- en Ontwikkelingsblok een samenwerkingsverband. Deze 8 maart-alliantie – vernoemd naar de datum waarop pro-Syrische massabetogingen ontstonden na de moord op Hariri – vertegenwoordigde gezamenlijk 56 van de 128 parlementszetels en deed een breed nationaal-Libanees politiek verbond ontstaan rond een christelijk-sjiitische as.

De pro-Westerse Lijst Martelaar Rafik Hariri

Rond Rafik Hariri’s zoon Saad verzamelden zich de anti-Syrische en pro-Westerse krachten, bestaande uit de Beweging van de Toekomst, de Progressieve Socialistische Partij, 4 kleinere partijen (Beweging van Linkse Democraten, Democratische Vernieuwing, Libanese Strijdkrachten en Tripoli Blok), het kartel Qornet Shehwan en enkele onafhankelijken. Saad Hariri is een welstellende zakenman die studeerde in de VS. Zijn Lijst Martelaar Rafik Hariri kwam met 72 zetels als overwinnaar uit de verkiezingen van juni 2005 en mocht dan ook de premier leveren.

Naar Libanese gewoonte vormde premier Fouad Siniora een regering met alle politieke en religieuze strekkingen, bestaande uit enerzijds 12 christenen en anderzijds 12 druzen en islamieten. Dit was tevens de eerste keer dat Hezbollah aan een regering deelnam.

Het pro-Westerse verbond van Saad Hariri veranderde zijn naam in 14 maart-alliantie – een naam afkomstig van de anti-Syrische massademonstraties na de moord op Rafik Hariri – en werd gevormd door soennieten, druzen en enkele christelijke splintergroepen. De 14 maart-alliantie wordt gesteund door de VS, Egypte en Saoedi-Arabië.

2006: Oorlog tussen Israël en Hezbollah

In juli 2006 sneuvelden bij een aanval van Hezbollah op een Israëlische grenspost acht Israëlische soldaten en werden er 2 gevangen genomen. Israël reageerde met een zeeblokkade, zware luchtbombardementen en artilleriebeschietingen, doch door de hardnekkige weerstand van Hezbollah slaagde het Israëlische leger er niet in om Libanon opnieuw binnen te vallen. Na ruim een maand strijd moest Israël zich onverrichterzake terugtrekken, wat een overwinning voor Hezbollah betekende: voor de eerste keer in de geschiedenis had een Arabische legermacht een Israëlische aanval weerstaan.

Direct na het staakt-het-vuren startte Hezbollah met hulpverlening aan de bevolking en met de wederopbouw van de verwoeste gebieden. Daarmee bewees de beweging opnieuw de belangen van de Libanese bevolking centraal te stellen, waarmee ze nog aan populariteit won. In 2008 ruilde Hezbollah de lichamen van de 2 gevangen genomen Israëlische soldaten – waarvan 1 eigenlijk al dood was bij zijn ‘gevangenname’ en de ander dodelijk gewond was – voor 5 door Israël gevangen gehouden Libanezen. Deze gevangenenruil werd in Libanon als een nationale feestdag gevierd: scholen, banken en winkels waren gesloten en de 5 Libanese gevangenen werden door Hezbollah als helden onthaald.

De oorlog versterkte de invloed van Hezbollah in de Libanese politieke arena, doch de regering-Siniora weigerde haar waardering uit te spreken, wat er toe leidde dat in november 2006 alle ministers van de 8 maart-alliantie opstapten.

Aanslepende regeringscrisis sinds 2007

Aan het begin van 2007 ontstond een blijvende politieke crisis toen de nu pro-Westerse regering vroeg om de moord op Rafik Hariri te laten onderzoeken door een VN-tribunaal. De nu oppositionele 8 maart-alliantie poogde dit tevergeefs tegen te houden, doch behield een de facto veto inzake regeringsbeslissingen. Deze crisis werd het grootste politieke probleem sinds het einde van de burgeroorlog in 1990.

De spanning liep op toen op het einde van 2007 Michel Suleiman niet tot nieuwe president kon benoemd worden door twist over het aanduiden van een nieuwe premier en de vorming van een nieuwe regering. De 14 maart-alliantie weigerde de sjiieten een belangrijke rol te gunnen en de 8 maart-alliantie verzette zich tegen de pro-Westerse premier Siniora. Een ander twistpunt was dat Hezbollah als enige militie nog steeds niet ontwapende sinds het einde van de burgeroorlog.

Na een aantal tegen Hezbollah gerichte regeringsmaatregelen braken op 7 mei 2008 in de hoofdstad Beiroet gevechten uit tussen Hezbollah en regeringstroepen. Op 10 mei had de beweging half Beiroet veroverd en zag de regering zich genoodzaakt haar beslissingen te herroepen, hoewel er nog enkele dagen verder gevochten werd. Op een verzoeningsconferentie in Qatar werd beslist om een regering van nationale eenheid te vormen, waarna eind mei Suleiman kon aangesteld worden tot nieuwe president. Suleiman benoemde opnieuw Siniora tot premier. De nieuwe regering telde 30 leden: 16 pro-Westerse ministers, 11 nationaal-Libanese ministers en 3 door president Suleiman benoemde ministers.

De parlementsverkiezingen van 2009

 

Saad Hariri’s pro-Westerse 14 maart-alliantie verloor bij de parlementsverkiezingen van juni 2009 4 zetels, maar behield een meerderheid van 68 zetels in het 128 zetels tellende Libanese parlement. De nationaal-Libanese 8 maart-alliantie haalde 57 zetels of 1 zetel meer dan de Aoun Alliantie en het Weerstands- en Ontwikkelingsblok in 2005. Daarnaast werden nog 3 onafhankelijken verkozen. De politieke verhoudingen wijzigden door deze verkiezingen dus nauwelijks. In de praktijk zijn deze verkiezingsresultaten bovendien minder belangrijk, aangezien de 128 parlementszetels via een complex kiessysteem elk voor de helft verdeeld worden tussen enerzijds christenen en anderzijds druzen en islamieten.

Binnen de 8 maart-alliantie zorgde de christelijke Aoun Alliantie echter wel voor sterke verschuivingen. Deze veroverde immers 27 zetels (6 meer dan in 2005), wat goed is voor 21% der stemmen. Aoun kwam dus versterkt uit deze verkiezingen en kon zich voortaan opwerpen als de spreekbuis der Libanese christenen.

Als leider van de grootste alliantie werd nu Saad Hariri benoemd tot premier van Libanon. Hij slaagde er in om na een zeer moeilijke regeringsvorming tegen november 2009 een nieuwe regering van nationale eenheid te vormen. Deze regering omvatte 15 ministers van Hariri’s 14 maart-alliantie, 10 van de 8 maart-alliantie en 5 die door president Suleiman benoemd werden.

Nieuwe regeringscrisis in 2011

 

De nieuwe regering slaagde er niet echt in om uit de politieke instabiliteit te raken, omdat sinds 2009 de Westerse media en de pro-Westerse 14 maart-alliantie pogen om via het Libanon-tribunaal van de VN de aanslag op Rafik Hariri nu aan Hezbollah toe te schrijven. De 14 maart-alliantie stelt tevens dat het Libanon wil beschermen tegen Syrië, hoewel er al jaren geen enkele bedreiging van Syrië uitgaat. De werkelijke doelen waren evenwel om Hezbollah te breken als politieke tenor, te ontwapenen en de focus op Israël als vijand te beëindigen. De nationaal-Libanese 8 maart-alliantie wees er echter op dat alleen machtsdeling werkelijke vrede kan garanderen en dat Libanon zich dient te beschermen tegen Israël.

Doordat op 12 januari 2011 alle 10 ministers der 8 maart-alliantie en 1 door de president benoemde minister opstapten, viel de regering en ontstond een patstelling in de Libanese politiek. Het nationaal-Libanese blok rond Michel Aoun en Hezbollah wou niet meer samenwerken met de soennitische premier Saad Hariri, omdat hij de problemen in de Libanese politiek zou creëren in plaats van ze op te lossen. Hun belangrijkste beschuldiging tegen de ex-premier was dat hij en de VS probeerden om de moord op Rafik Hariri in de schoenen van Hezbollah te schuiven. De 14 maart-alliantie bleef achter Saad Hariri staan als premier, doch hij kon geen regeringscoalitie meer vormen zonder de 8 maart-alliantie.

Op 25 januari 2011 benoemde president Michel Suleiman de door de 8 maart-alliantie voorgestelde miljardair Najib Mikati als nieuwe premier. De soenniet Mikati was in april-juli 2005 al eens premier (cfr. supra) en kreeg een parlementaire meerderheid achter zich doordat de 11 druzische parlementsleden zich aansloten bij de 8 maart-alliantie.

Het nationaal-Libanese blok bestaat hierdoor voortaan uit een verenigd front van christenen, druzen en sjiieten en lijkt het toekomstige regeringsbeleid te zullen gaan domineren. De rollen zijn nu immers omgedraaid: de 57 zetels der oppositionele 8 maart-alliantie groeiden aan tot een meerderheid van 68 zetels en de voordien dominerende 14 maart-alliantie verwerd tot oppositie door de afkalving van 68 naar 57 zetels! Hariri’s pro-Westerse blok is door het vertrek der druzen verzwakt en voornamelijk soennitisch geworden (aangezien slechts nog enkele kleine christelijke splintergroepjes dit steunen).

Ook voor de VS is deze recente ontwikkeling zeer slecht geopolitiek nieuws: naast de traditionele vijanden Iran en Syrië en een Turkije dat zich de laatste jaren onafhankelijk van Washington opstelt, verliezen de Amerikanen nu ook nog Libanon. De VS liet al duidelijk horen ‘not amused’ te zijn en alles in het werk te zullen stellen om het Libanon-tribunaal verder te beïnvloeden.

Conclusie

Het is bijzonder krom om de complexe Libanese casus te simplificeren als een tegenstelling tussen christenen en moslims, zoals veel westerse opinieleiders al decennia doen. In werkelijkheid betreft het een tegenstelling tussen enerzijds pro-Westerse en anderzijds nationaal-Libanese en pro-Syrische krachten. In beide (!) kampen bevinden zich christenen én islamieten.

De Libanese maronieten raakten in de koloniale periode grotendeels op Frankrijk georiënteerd en richtten zich na de Tweede Wereldoorlog op de VS. Daar zij decennialang weigerden om het nationale belang van hun land voorop te stellen en eerder de belangen van vreemde mogendheden dienden, ontstond er verzet uit voornamelijk druzische en sjiitische hoek. Doch ook de orthodox-christelijke denominaties en zelfs een deel der maronieten beseften dat de gerichtheid van Libanon op het liberale Westen fout was en er voor het nationale belang diende gekozen te worden. Generaal en interim-premier Michel Aoun was de eerste maroniet die dit in de praktijk bracht door op het einde van de 15-jarige burgeroorlog voluit de Libanese kaart te trekken. Hij faalde echter op militair vlak, doch werd door zijn optreden onsterfelijk bij de Libanezen. De Falange, de partij der pro-Westerse maronieten, ging daarentegen compleet ten onder aan haar blijvende oriëntering op vreemde mogendheden: van de ooit dominante Falange schieten vandaag slechts tweehe onbetekenende splintergroepjes over.

Na de 15-jarige burgeroorlog en een even lange overgangsperiode onder Syrische dominantie slaagde de uit ballingschap teruggekeerde Michel Aoun er in 2005 in om de meerderheid der christenen in zijn Aoun Alliantie te verzamelen, een resultaat dat hij bij de parlementsverkiezingen van 2009 nog sterk verbeterde. Hierdoor wendde de meerderheid der christenen zich af van het Westen, dat alleen nog de soennieten en een handvol christelijke splintergroeperingen overhoudt als bondgenoten.

Door het aangaan van een verbond met de sjiitische politieke krachten slaagde Aouns christelijke alliantie er in om het nationale belang centraal te stellen in de Libanese politiek. Doordat ook de druzen hier in januari 2011 bij aansloten, spelen de christenen nu opnieuw een belangrijke rol. Door de breuk van de Libanese christenen met het Westen is er na decennia ellende eindelijk een kans dat er een reële vrede komt in Libanon en de sektarische spanningen verdwijnen, zodat de achteruitgang van het aantal christenen kan ophouden. Hadden de maronieten reeds na de Libanese onafhankelijkheid in 1943 voor deze koers gekozen, zou Libanon én de Libanese christenen meer dan een halve eeuw narigheid bespaard zijn gebleven.

We mogen Michel Aoun dan ook als een rolmodel voor de christenen in het Nabije Oosten beschouwen: de Arabische christenen dienen zich niet te richten op het liberale Westen, maar wel op hun eigen land! Anders komen er onvermijdelijk problemen van, zoals de geschiedenis der Libanese maronieten aantoont.

Noten

[1] De Hedjaz is een landstreek in Noordwest-Arabië, waartoe de heilige islamitische steden Mekka en Medina behoren.
[2] Ca. 10% der Syrische bevolking is christelijk.

Literatuur

CORM (Georges), Le Liban contemporain. Histoire et société, Editions La Découverte, Parijs, 2003, pp. 318.
DAALDER (Ivo), GNESOTTO (Nicole) en GORDON (Philip), Crescent of Crisis: U.S.-European Strategy for the Greater Middle East, European Union Institute for Security Studies, Parijs, 2006, pp. VI + 263.
EHTESHAMI (ANOUSHIRAVAN), Globalization and Geopolitics in the Middle East: old games, new rules, Routledge, New York, 2007, pp. XII + 258.
FEKI (Masri) en DE FICQUELMONT (Arnaud), Géopolitique du Liban: Constats et enjeux, Paroles de Sagesse, Garches, 2008, pp. 160.
KAMRAVA (Mehran), The Modern Middle East: A Political History since the First World War, University of California Press, Berkeley, 2005, pp. 510.
NOE (Nicholas), BLANFORD (Nicholas) en KHOURI (Ellen), Voice of Hezbollah: the statements of Sayyed Hassan Nasrallah, Verso, Londen, 2007, pp. 420.
RICHARDS (Alan) en WATERBURY (John), A political economy of the Middle East, Westview Press, Boulder (Colorado), 2008, pp. XVIII + 474.
ROGAN (Eugene), De Arabieren, De Bezige Bij, Amsterdam, 2010, pp. 624.SALT (Jeremy), The Unmaking of the Middle East: A History of Western Disorder in Arab Lands, University of California Press, Berkeley, 2008, pp. 468.
SCHULZE (Kirsten), The Arab-Israeli Conflict, Longman Publishing Group, New York, 2008, pp. 212.
STEWART (Dona), The Middle East Today: Political, Geographical and Cultural Perspectives, Routledge, New York, 2008, pp. XI + 213.
WATENPAUGH (Keith David), Being Modern in the Middle East: Revolution, Nationalism, Colonialism and the Arab Middle Class, Princeton University Press, Princeton, 2006, pp. XI + 325.

 

jeudi, 10 février 2011

Analyse des relations entre Turquie et Israël


Analyse des relations entre Turquie et Israël

dimanche, 06 février 2011

Russie, alliance vitale

Bientôt en librairie : "Russie, alliance vitale" de Jean-Bernard PINATEL

Ex: http://theatrum-belli.hautetfort.com/

Les grandes inflexions dans le système international peuvent être perçues, bien avant qu'elles ne se produisent, par les observateurs qui disposent d'une grille de lecture et qui fondent leurs réflexions sur les faits en se débarrassant de tout a priori idéologique ou sentiment partisan. Ainsi cet essai soutient des thèses et fournit une analyse des événements internationaux qui sont éloignés de la pensée dominante actuelle d'inspiration essentiellement américaine. 

pinatel001.jpgCette vision a été élaborée en utilisant une méthodologie fondée sur de nombreux emprunts aux enseignements de Marcel Merle (1), à la méthode prospective d'Hugues de Jouvenel et à l'œuvre d'Edgar Morin avec lesquels j'ai eu la chance de partager des réflexions dans le cadre de Futuribles et de la Fondation pour les études de défense à l'époque où elle était présidée par le général Buis. 

Ce n'est pas la première fois que je propose une vision prospective différente de celle communément admise. Dès les années 1970 déjà, j'avais pressenti que le temps de l'affrontement Ouest-Est fondé sur l'équilibre des forces nucléaires et classiques était révolu et qu'il serait remplacé par une forme nouvelle d'affrontement entre le Nord et le Sud. Je caractérisais ma vision de la nature différente de la "guerre" que nous connaîtrions dans le futur par le concept de "guerre civile mondiale". Pour ce faire je reçus l'aide précieuse et critique de mon amie Jacqueline Grapin qui était, à l'époque, journaliste au Monde et proche collaboratrice de Paul Fabra. 

La publication par Calman-Levy en 1976 de notre livre (2) fit l'effet d'une bombe dans les milieux politico-militaires puisqu'il soutenait que les guerres futures prendraient plus la forme d'une « guerre civile » Nord-Sud que celles d'un affrontement entre deux puissantes armées conventionnelles sous menace nucléaire auquel on se préparait. Nous écrivions : "À y regarder d'un peu près, le concept d'une guerre civile mondiale cerne assez étroitement la réalité. Il transpose, à l'échelle de la planète désormais ressentie comme un monde fini, l'idée du combat fratricide que se livrent les citoyens d'un même État. Et il est bien exact que le système international actuel est le premier à avoir une vocation mondiale, sans échappatoires possibles à ses blocages et à ses conflits. Il implique une guerre sans fronts, qui déborde les frontières et dépasse les militaires, pour défendre des enjeux vitaux dans un processus qui peut aller jusqu'à la mort... À force de détournements d'avions et d'actes terroristes, les Palestiniens ont essayé d'impliquer le monde entier dans leur cause, et le monde dans leur ensemble est devenu leur champ de tir". 

Le système international, qui évolue rapidement sous nos yeux, sera dominé dans les prochaines années par deux grands acteurs, les États- Unis et la Chine, qui interagissent dans une relation d'"adversaire- partenaire" : adversaires quand il s'agit d'enjeux ou d'intérêts vitaux à protéger, partenaires pour conquérir de nouveaux espaces et marchés et, surtout, pour empêcher de nouveaux acteurs d'acquérir une autonomie qui pourrait remettre en cause leur sphère d'influence et le partage du monde qu'ils préconisent implicitement ou explicitement. Un exemple récent en est l'accueil condescendant qui a été réservé par les grandes puissances à l'initiative de la Turquie et du Brésil pour apporter une solution à la crise iranienne. 

L'élaboration de cette vision s'appuie sur l'analyse et la hiérarchisation des intérêts permanents, vitaux ou majeurs, de ces grands acteurs, et sur l'évaluation de la marge de manœuvre, souvent limitée, que peuvent acquérir par leur charisme les dirigeants de ces pays. C'est ce qui explique les difficultés rencontrées par Barack Obama pour mettre en œuvre sa vision généreuse des rapports internationaux. Elle heurte de plein fouet les intérêts du complexe militaro-industriel américain qui s'est arrogé depuis longtemps le monopole de la désignation des menaces et de la défense des "intérêts permanents" des États-Unis et du "monde libre". 

C'est au Premier ministre de la reine Victoria, Benjamin Disraeli (1804-1881), qu'il est généralement convenu d'accorder la paternité de ce concept. En considérant que les États n'ont ni amis ni ennemis mais des "intérêts permanents", il introduisait pour la première fois les enjeux économiques dans la compréhension des relations internationales. Ce concept s'est étendu progressivement à d'autres dimensions comme la dimension culturelle. Ainsi le maintien de liens étroits entre les États francophones fait partie des intérêts permanents de la France car cela lui permet de peser plus que de par son poids dans les instances internationales (3). 

Dans les pays démocratiques c'est la perception de ces "intérêts permanents" par les citoyens qui est essentielle. Car il n'est de légitimité que reconnue par l'opinion publique. Ainsi la construction d'une Europe politique disposant de pouvoirs fédéraux ne deviendra un "intérêt permanent" pour les Européens que lorsque la grande majorité de la population des nations qui la composent en auront compris l'importance. Cette construction fait déjà partie des intérêts permanents de la France puisque la majorité des forces politiques y est favorable. La crise financière récente que nous avons traversée a montré la faiblesse d'une Europe fondée sur le plus petit commun dénominateur. De même, la présence des forces armées allemandes en Afghanistan est très critiquée par une majorité des forces politiques et de la population qui n'en comprennent pas les enjeux (4). Ces "intérêts permanents" sont rarement explicités par les dirigeants en dehors de cénacles restreints. Le maintien d'une incertitude sur leur définition précise constitue un atout dont les États auraient tort de se priver dans la compétition mondiale. 

Avec l'apparition de l'arme nucléaire, est apparue la notion d'"intérêts vitaux", au nom desquels un État se réserve le droit d'utiliser en premier l'arme nucléaire (5). Là encore, l'ambiguïté et l'imprécision font partie de la logique dissuasive, aucune puissance nucléaire ne déclarant ce qu'elle considère comme ses intérêts vitaux. 

Il est cependant possible d'évaluer les "intérêts permanents" des États en analysant les facteurs déterminants de leurs forces et de leurs vulnérabilités. Ainsi dans la Guerre civile mondiale (6) publiée en 1976, en pleine Guerre froide, nous nous interrogions sur la réalité de la menace militaire soviétique comme vecteur de la propagation du communisme, qui a été un des facteurs déterminants du système international entre 1945 et 1989. 

À l'époque, analystes et leaders d'opinion s'alarmaient à longueur de pages sur la menace que représentaient les 167 divisions militaires russes, sans jamais analyser les vulnérabilités de l'URSS qui pouvaient légitimer cet effort militaire. Prenant à contre-pied ces analyses, nous mîmes en relief plusieurs facteurs qui offraient un autre éclairage sur la menace soviétique : 

  • une relative faiblesse en nombre : rapportée à la superficie de l'URSS et, d'un point de vue défensif, cette force militaire "ne représentait plus que 12 militaires de l'armée de terre au km2 contre 60 en France" ;
  • une immensité de frontières à défendre : "L'URSS est le plus proche voisin de toutes les puissances actuelles et potentielles. À l'Est, l'URSS n'est séparée de l'Alaska américain que par les 30 km du détroit de La Pérouse, au Sud, elle a 7.000 km de frontières avec la Chine, 2.000 km avec l'Afghanistan, 2.500 avec l'Iran, 500 avec la Turquie..." ;
  • un manque de cohésion intérieure : "Mosaïque de 95 nationalités, d'ores et déjà l'URSS connaît un problème musulman avec la hausse de la natalité des populations islamisées qui représenteraient en 1980 72% de la population contre 52% en 1970 dans les cinq républiques d'Asie centrale" ;
  • et une "faiblesse de peuplement à l'Est de l'Oural".
  • Nous concluions : "L'URSS a de nombreuses vulnérabilités qui peuvent la pousser à s'armer au moins autant que les objectifs offensifs avancés par tous les observateurs".

Cet essai vise ainsi à éclairer d'un jour nouveau les intérêts permanents de l'Europe et de la Russie dans la gestion des menaces et des crises qui se développent à leurs frontières. Il soutient que l'insécurité qui règne à nos frontières sert directement les intérêts du complexe militaro-industriel américain au point de faire penser que les crises qui s'y enracinent ne sont pas le résultat d'erreurs stratégiques des dirigeants américains, mais proviennent d'options mûrement pesées par des conseillers qui en sont issus. Tout se passe en effet comme si la politique américaine visait à maintenir une insécurité permanente dans la région du Moyen-Orient et de la Caspienne. Elle viserait ainsi à freiner le développement économique de nos proches voisins tout en s'appropriant leurs ressources et, par contrecoup, à pénaliser la croissance de l'Europe et de la Russie en les privant de débouchés pour leurs produits et, enfin, à empêcher par tous les moyens la création d'une alliance stratégique de Dunkerque à l'Oural, qui constituerait un troisième acteur du système international capable de s'opposer à leurs ambitions. 

Jean-Bernard PINATEL

Editions CHOISEUL

178 pages, 17 euros

Général (2S) et dirigeant d'entreprise, J.-B. Pinatel est un expert reconnu des questions géopolitiques et d'intelligence économique. Docteur en études politiques et diplômé en physique nucléaire, il est breveté de l'École supérieure de guerre et ancien auditeur de l'IHEDN.

Sommaire :

  • Préface, p7
  • Avant-propos, p 13
  • Introduction, p 19
  • La montée en puissance de l'impérialisme chinois, p 23
  • Les relations sino-américaines à l'heure de l'interdépendance économique, p 43
  • La stratégie américaine d'"adversaire-partenaire", p 63
  • Les États-Unis face à l'Europe : éviter l'unification du "Heartland", maintenir la suprématie du "Rimland", p 77
  • Les pièges fondamentaux de la politique étrangère américaine, p 99
  • Pour un partenariat stratégique entre l'Europe et la Russie, p 119
  • La Russie, acteur clé dans la résolution des conflits et dans la lutte contre le terrorisme au Moyen-Orient, p 133
  • Irak et Afghanistan : pour une implication accrue de l'Europe et de la Russie, p 149
  • Conclusion, p 167

Notes :  

1. Sociologie des relations internationales (1987).

2. La Guerre civile mondiale, Paris, Calmann-Levy, 1976.

3. Forte d'une population de plus de 803 millions et de 200 millions de locuteurs de français de par le inonde, l'Organisation internationale de la Francophonie (01F) a pour mission de donner corps à une solidarité active entre les 70 États et gouvernements qui la composent (56 membres et 14 observateurs) — soit plus du tiers des États membres des Nations unies.

4. Le président allemand Horst Köhler, qui occupe une fonction principalement honorifique, a créé la surprise en annonçant sa démission le 31 mai 2010 après avoir déclenché un tollé politique suite à ses déclarations légitimant la participation accrue de son pays aux combats en Afghanistan par des raisons économiques. Il a jugé dans une déclaration à une radio cet effort « nécessaire pour maintenir nos intérêts, comme par exemple libérer les routes commerciales ou prévenir des instabilités régionales qui pourraient avoir un impact négatif sur nos perspectives en termes de commerce, d'emplois et de revenus » allemand sont déplacés, car ils suscitent méprise et malentendu. De fait, il est compréhensible qu'Horst Köhler, qui occupe une fonction symbolisant l'image de l'Allemagne, démissionne de son poste honorifique après les violentes réactions contre ses propos controversées sur une importante mission de son pays à l'étranger.

5. L. Mandeville, "Barack Obama peine à imposer sa doctrine", Le Figaro, 2/3/2010 : "Spécialistes du Pentagone et de la Maison Blanche ferraillent encore sur plusieurs points cruciaux de doctrine. Ainsi l'administration Obama devrait-elle refuser de souscrire au "non-emploi en premier" de l'arme nucléaire pour rester dans l'ambiguïté actuelle, contrairement à ce que les partisans du désarmement nucléaire espéraient, à en croire le quotidien new-yorkais".

6. J. Grapin, J.-P. Pinatel, op. cit., p. 256 et ssq.

samedi, 05 février 2011

Teilung des Sudans - Eine Tragödie ohne Ende?

Teilung des Sudans – Eine Tragödie ohne Ende?

Wolfgang Effenberger

Der Südsudan strebt die Unabhängigkeit vom Zentralstaat an. Er verfügt über große Ölreserven, doch nur der Norden hat die Raffinerien und die dafür notwendige Infrastruktur. Streit scheint vorprogrammiert. Erstaunlicherweise steht die Selbstständigkeit des Südsudans im Weißen Haus ganz oben auf der Tagesordnung. Außenministerin Hillary Clinton forderte den sudanesischen Vizepräsidenten Ali Osman Taha und den politischen Führer des autonomen Südens, Salva Kiir, in Telefonaten auf, das Friedensabkommen umzusetzen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

lundi, 31 janvier 2011

Militaire topman NAVO: het tij is gekeerd in Afghanistan

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Militaire topman Navo: het tij is gekeerd in Afghanistan

       
BRUSSEL 27/01 (BELGA) = Het hoofd van het militair comité bij de NAVO, de admiraal Giampaolo Di Paola, heeft donderdag alles uit de kast gehaald om te onderstrepen dat de internationale troepenmacht in Afghanistan de bovenhand gehaald heeft op de Taliban. "Ik geloof oprecht dat het tij gekeerd is", benadrukte hij na een ontmoeting van de NAVO-stafchefs. De Italiaan schuwde zelfs een vergelijking met de Tweede Wereldoorlog niet.

Tijdens een NAVO-top eind vorig jaar beslisten de NAVO-leiders om de macht in Afghanistan tegen 2014 volledig aan de Afghaanse autoriteiten over te dragen. Deze lente nog moet die evolutie zich al in enkele provincies voltrekken. Niet alle waarnemers geloven echter dat
de Afghaanse veiligheidstroepen daar klaar voor zullen zijn. 

"Het zal niet makkelijk zijn. Het wordt echt geen wandeling door het park, maar de situatie gaat wel degelijk vooruit", onderstreepte Di Paola. Om ook de twijfelaars over de streep te trekken, trok hij vervolgens een vergelijking met de Tweede Wereldoorlog. Zo was de  lucht in 1942 nog "erg donker" voor de geallieerden en werd ook nadien nog hevig gevochten, maar de eindoverwinning werd wel degelijk binnengehaald.

Vraag blijft echter of een vergelijking met het Vietnam van 1957 niet beter opgaat. De eigen veiligheidstroepen vielen toen in nauwelijks enkele weken volledig uit mekaar, waarop een jarenlange uitzichtloze oorlog volgde. "Die parallel gaat niet op", oordeelde admiraal Di Paola. De grote internationale inzet en de intensieve opleiding van Afghaanse troepen maken volgens hem het verschil. KNS/RBR/

dimanche, 30 janvier 2011

Afghanistan - "Totenacker der Imperien"?

Afghanistan – »Totenacker der Imperien«?

Gedanken zur Verlängerung des Afghanistan-Mandates

Wolfgang Effenberger

 

Mitte Januar 2011 beschloss die Bundesregierung, das Afghanistan-Mandat vorerst bis Ende 2011 zu verlängern. Dann soll der Abzug beginnen, sofern »die Lage dies erlaubt«. Weder dürften die verbleibenden deutschen Soldaten, noch die »Nachhaltigkeit des Übergabeprozesses» gefährdet werden. Die seit Jahren übliche Rhetorik, die üblichen Worthülsen. Diese schwammigen Formulierungen sind eine Farce. Viel wichtiger als der Beginn eines scheinbaren Abzuges – man erinnere sich an den »Abzug« der US-Kampfbrigaden im Irak im Sommer 2010 (1) – ist das definitive Ende mit der Rückkehr des letzten Soldaten. Diesen Mut hat die Sowjetunion bewiesen und den Rückzug aus Afghanistan fest terminiert: Am 15. Februar 1989 überquerte mit General Boris Gromow der letzte sowjetische Soldat die Termez-Brücke am Grenzfluss Amu Darja.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/wolf...

 

 

 

Quelle: http://gesellschaftsspiegel.de/wordpress/wp-content/uploads/brz158.jpg

La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

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La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

Il Sudan è una nazione diversa e un paese che rappresenta la pluralità dell’Africa delle varie tribù, clan, etnie, gruppi religiosi. Tuttavia l’unità del Sudan è in questione, mentre si parla di nazioni unificanti e del giorno della creazione degli Stati Uniti d’Africa attraverso l’Unione africana.
La ribalta è per il referendum del gennaio 2011 in Sud Sudan. L’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente che sostiene la separazione del Sudan meridionale dal resto del Sudan.

La balcanizzazione del Sudan è quello che è veramente in gioco. Per anni i dirigenti ed i funzionari del Sud Sudan sono stati sostenuti dagli USA e dall’Unione europea.

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La politicamente motivata demonizzazione del Sudan

 

Una campagna di demonizzazione importante è in corso contro il Sudan e il suo governo. È vero, il governo sudanese di Khartoum ha avuto un record negativo per quanto riguarda i diritti umani e la corruzione dello stato, e nulla poteva giustificare questo.

Per quanto riguarda il Sudan, condanne selettive o mirate sono state attuate. Ci si dovrebbe, tuttavia, chiedere perché la leadership sudanese è presa di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, mentre la situazione dei diritti umani in diversi clienti sponsorizzati dagli Stati Uniti tra cui l’Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, e l’Etiopia sono casualmente ignorate.

Khartoum è stato diffamata come una oligarchia autocratica colpevole di genocidio mirato sia in Darfur e Sud Sudan. Questa attenzione deliberata sullo spargimento di sangue e l’instabilità nel Darfur e nel Sud Sudan è politica e motivata dai legami di Khartoum con gli interessi petroliferi cinesi.

Il Sudan fornisce alla Cina una notevole quantità di petrolio. La rivalità geo-politica tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle forniture energetiche mondiali e africane, è il vero motivo per il castigo del Sudan e il forte sostegno dimostrato dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dagli ufficiali israeliani alla secessione nel Sud Sudan.

E’ in questo contesto che gli interessi cinesi sono stati attaccati. Ciò include l’attacco dell’ottobre 2006 alla Greater Nile Petroleum Company di Defra, Kordofan, da parte della milizia del Justice and Equality Movement (JEM).

Distorcere le violenze in Sudan

Mentre c’è una crisi umanitaria in Darfur e un forte aumento del nazionalismo regionale nel Sudan meridionale, le cause profonde del conflitto sono stati manipolate e distorte. Le cause di fondo della crisi umanitaria in Darfur e il regionalismo nel Sud Sudan sono intimamente collegate a interessi strategici ed economici. Se non altro, l’illegalità e i problemi economici sono i veri problemi, che sono stati alimentati da forze esterne.

Direttamente o tramite proxy (pedine) in Africa, gli Stati Uniti, l’Unione europea e Israele sono i principali architetti degli scontri e dell’instabilità sia in Darfur che in Sud Sudan. Queste potenze straniere hanno finanziato, addestrato e armato le milizie e le forze di opposizione al governo sudanese in Sudan. Esse scaricano la colpa sulle spalle di Khartoum per qualsiasi violenza, mentre esse stesse alimentano i conflitti al fine di controllare le risorse energetiche del Sudan. La divisione del Sudan in diversi stati è parte di questo obiettivo. Il Supporto al JEM, al Sud Sudan Liberation Army (SSLA) e alle altre milizie che si oppongono al governo sudanese da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e d’Israele è orientato al raggiungimento dell’obiettivo di dividere il Sudan.

E’ anche un caso che per anni, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, e l’intera UE, con la scusa dell’umanitarismo stiano spingendo al dispiegamento di truppe straniere in Sudan. Hanno attivamente sostenuto il dispiegamento di truppe NATO in Sudan sotto la copertura di un mandato di peacekeeping delle Nazioni Unite.

Si tratta della rievocazione delle stesse modalità utilizzate dagli Stati Uniti e dall’Unione europea in altre regioni, in cui i paesi sono stati suddivisi a livello informale o formale e le loro economie ristrutturate dai proxy installati da governi stranieri, sotto la presenza di truppe straniere. Questo è quello che è successo nella ex Jugoslavia (attraverso la creazione di numerose nuove repubbliche) e nell’Iraq occupato dagli anglo-statunitensi (attraverso la balcanizzazione soft tramite una forma di federalismo calcolato, volto a definire uno stato debole e de-centralizzato). Le truppe straniere e una presenza straniera hanno fornito la cortina per lo smantellamento dello stato e l’acquisizione estera delle infrastrutture, risorse ed economie pubbliche.

La questione dell’identità in Sudan

Mentre lo stato sudanese è stato dipinto come oppressivo nei confronti del popolo del Sud Sudan, va osservato che sia il referendum che la struttura di condivisione del potere del governo sudanese, rappresentano qualcos’altro. L’accordo per la condivisione del potere a Khartoum tra Omar Al-Basher, il presidente del Sudan, include il SPLM. Il leader del SPLM, Salva Kiir Mayardit, è il primo vicepresidente del Sudan e  presidente del Sud Sudan.

La questione etnica è stata anche portata alla ribalta dal nazionalismo regionale o etno-regionale che è stato coltivato in Sud Sudan. La scissione in Sudan tra i cosiddetti arabi sudanesi e i cosiddetti africani sudanesi è stata presentata al mondo come la forza principale del nazionalismo regionale che motivatamente chiede di fondare uno Stato in Sud Sudan. Nel corso degli anni, questa auto-differenziazione è stata diffusa e socializzata nella psiche collettiva delle popolazioni del Sud Sudan.

Eppure, le differenze tra i cosiddetti sudanesi arabi e i cosiddetti africani sudanesi non sono un granché. L’identità araba dei cosiddetti arabi sudanesi si basa principalmente sull’uso della loro lingua araba. Supponiamo anche che le identità etniche sudanesi sono totalmente separate. E’ ancora noto, in Sudan, che entrambi i gruppi sono molto eterogenei. L’altra differenza tra il Sud Sudan e il resto del Sudan è che l’Islam predomina nel resto del Sudan e non in Sud Sudan. Entrambi i gruppi sono ancora profondamente legati l’uno all’altro, tranne che per un senso di auto-identificazione, che è ben nel loro diritto avere. Eppure, sono proprio queste diverse identità su cui si è giocato da parte dei leader locali e delle potenze straniere.

La negligenza della popolazione locale di diverse regioni, da parte delle élites del Sudan, è la causa principale dell’ansia o dell’animosità realmente motivate tra le persone nel Sud Sudan e il governo di Khartoum, e non le differenze tra i cosiddetti arabi e i cosiddetti africani sudanesi.
Il favoritismo regionale ha operato in Sud Sudan.

La questione è anche aggravata dalla classe sociale. Il popolo del Sud Sudan crede che la sua condizione economica e tenore di vita migliorerà se formerà una nuova repubblica. Il governo di Khartoum e i sudanesi non-meridionali sono stati usati come capri espiatori per le miserie economiche del popolo del Sud Sudan e della loro percezione della povertà relativa da parte della leadership locale del Sud Sudan. In realtà, i funzionari locali del Sudan meridionale non miglioreranno le condizioni di vita delle popolazioni del Sud Sudan, ma manterranno uno status quo cleptocratico. [1]

Il progetto a lungo termine per balcanizzare il Sudan e i suoi collegamenti con il mondo arabo

In realtà, il progetto di balcanizzazione del Sudan è in corso dalla fine del dominio coloniale britannico nel Sudan anglo-egiziano. Sudan ed Egitto sono stati un paese solo per molti differenti periodi. Sia l’Egitto che il Sudan sono stati anche un paese, in pratica fino al 1956.

Fino alla indipendenza del Sudan, c’era un forte movimento per mantenere l’Egitto e il Sudan uniti come un unico stato arabo, che stava lottando contro gli interessi britannici. Londra, tuttavia, alimentò il regionalismo sudanese contro l’Egitto, e nello stesso modo il regionalismo è al lavoro nel Sud Sudan contro il resto del Sudan. Il governo egiziano è stato raffigurato nello stesso modo di come lo è oggi Khartoum. Gli egiziani sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi, come i sudanesi non-meridionali sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi del sud.

Dopo l’invasione britannica di Egitto e Sudan, gli inglesi riuscirono anche a mantenere le loro truppe di stanza in Sudan. Anche mentre lavoravano per dividere il Sudan dall’Egitto, i britannici hanno lavorato per creare differenziazioni interne tra il Sud Sudan e il resto del Sudan. Ciò è stato fatto attraverso il condominio anglo-egiziano del 1899-1956, che costrinse l’Egitto a condividere il Sudan con la Gran Bretagna dopo le rivolte mahdiste. Alla fine, il governo egiziano avrebbe rifiutato di riconoscere il condominio anglo-egiziano come legale. Il Cairo avrebbe continuamente chiesto agli inglesi di porre fine alla loro occupazione militare illegale del Sudan e di smettere di impedire la re-integrazione di Egitto e Sudan, ma gli inglesi si rifiuteranno.

Sarà sotto la presenza delle truppe britanniche che il Sudan si sarebbe dichiarato indipendente. Questo è ciò che porterà alla nascita del Sudan come una stato arabo e africano separato dall’Egitto. Così, il processo di balcanizzazione è iniziato con la divisione del Sudan dall’Egitto.

Il Piano Yinon al lavoro in Sudan e nel Medio Oriente

La balcanizzazione del Sudan è legato anche al Piano Yinon, che è la continuazione dello stratagemma britannico. L’obiettivo strategico del Piano Yinon è quello di garantire la superiorità israeliana attraverso la balcanizzazione del Medio Oriente e degli stati arabi, in stati più piccoli e più deboli. E’ in questo contesto che Israele è stato profondamente coinvolto in Sudan. Gli strateghi israeliani videro l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo. È per questo che l’Iraq è stato delineato come il pezzo centrale per la balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo.The Atlantic, in questo contesto, ha pubblicato un articolo nel 2008 di Jeffrey Goldberg “Dopo l’Iraq: sarà così il Medio Oriente?” [2] In questo articolo di Goldberg, una mappa del Medio Oriente è stato presentato, che seguiva da vicino lo schema del Piano Yinon e la mappa di un futuro in Medio Oriente, presentato dal Tenente-colonnello (in pensione) Ralph Peters, nell’Armed Forces Journal delle forze armate degli Stati Uniti, nel 2006.

Non è neanche un caso che da un Iraq diviso a un Sudan diviso, comparivano sulla mappa. Libano, Iran, Turchia, Siria, Egitto, Somalia, Pakistan e Afghanistan erano presentati anch’esse come nazioni divise. Importante, nell’Africa orientale nella mappa, illustrata da Holly Lindem per l’articolo di Goldberg, l’Eritrea è occupata dall’Etiopia, un alleato degli Stati Uniti e d’Israele, e la Somalia è divisa in Somaliland, Puntland, e una più piccola Somalia.

In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, una per i musulmani sciiti e l’altra per i musulmani sunniti. Ciò è stato ottenuto attraverso la balcanizzazione morbida del federalismo nell’Iraq, che ha permesso al Governo regionale del Kurdistan di negoziare con le compagnie petrolifere straniere per conto suo. Il primo passo verso l’istituzione di ciò fu la guerra tra Iraq e Iran, che era discussa nel Piano Yinon.

In Libano, Israele ha lavorato per esasperare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane, nonché i drusi. La divisione del Libano in diversi stati è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono di dividere il Libano e la Siria in diversi stati sulla base dall’identità religiosa e settaria per i musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi.

A questo proposito, l’assassinio di Hariri e il Tribunale speciale per il Libano (STL) giocano a favore di Israele, creando divisioni interne nel Libano e alimentando il settarismo politico. Questo è il motivo per cui Tel Aviv è stato assaiu favorevole al TSL e l’appoggia assai attivamente. In un chiaro segno della natura politicizzata del TSL e dei suoi legami con la geo-politica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno anche dato al TSL milioni di dollari.

I legami tra gli attacchi contro i copti egiziani e il referendum in Sud Sudan

Dall’Iraq all’Egitto, i cristiani in Medio Oriente sono sotto attacco, mentre le tensioni tra musulmani sciiti e sunniti sono alimentate. L’attacco a una chiesa copta di Alessandria, il 1° gennaio 2011, o le successive proteste e rivolte copte non dovrebbero essere considerati isolatamente. [3] Né la furia successiva dei cristiani copti espressasi nei confronti dei musulmani e del governo egiziano. Questi attacchi contro i cristiani sono legati ai più ampi obiettivi geo-politica di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e NATO sul Medio Oriente e sul mondo arabo.

Il Piano Yinon precisa che se l’Egitto viene  diviso, il Sudan e la Libia sarebbero anch’esse balcanizzate e indebolite. In questo contesto, vi è un legame tra il Sudan e l’Egitto. Secondo il Piano Yinon, i copti o cristiani d’Egitto, che sono una minoranza, sono la chiave per la balcanizzazione degli stati arabi del Nord Africa. Così, secondo il piano Yinon, la creazione di uno stato copto in Egitto (sud Egitto) e le tensioni cristiani-musulmani in Egitto, sono dei passi essenziali per balcanizzare il Sudan e il Nord Africa.

Gli attacchi ai cristiani in Medio Oriente sono parte delle operazioni di intelligence destinata a dividere il Medio Oriente e il Nord Africa. La tempistica degli attacchi crescenti ai cristiani copti in Egitto e il processo per il referendum nel Sud Sudan, non è una coincidenza. Gli eventi in Sudan ed Egitto sono collegati l’uno all’altro e sono parte del progetto per balcanizzare il mondo arabo e il Medio Oriente. Essi devono anche essere studiati in collaborazione con il Piano Yinon e con gli eventi in Libano e in Iraq, nonché in relazione agli sforzi per creare un divario sunniti-sciiti.

Le connessioni esterne di SSLA, SPLM e milizie nel Darfur

Come nel caso del Sudan, l’interferenza o l’intervento sono stati usati per giustificare l’oppressione dell’opposizione interna. Nonostante la  corruzione, Khartoum è stata sotto assedio per aver rifiutato di essere semplicemente un proxy. Il Sudan s’è giustificato sospettando le truppe straniere e accusando Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele di erodere la solidarietà nazionale del Sudan.  Per esempio, Israele ha inviato armi ai gruppi di opposizione e ai movimenti separatisti in Sudan. Ciò è stato fatto attraverso l’Etiopia per anni, fino a quando l’Eritrea è diventata indipendente dall’Etiopia, che ha fatto perdere all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso, e fatto sviluppare cattive relazioni tra gli etiopi e gli eritrei. In seguito le armi israeliane sono entrate nel Sud Sudan dal Kenya. Dal Sud Sudan, il People’s Liberation Movement del Sud Sudan (SPLM), che è il braccio politico del SSLA, avrebbe ceduto le armi alle milizie nel Darfur. I governi di Etiopia e Kenya, così come l’Uganda People’s Defence Force(UPDF), hanno anche lavorato a stretto contatto con Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele in Africa orientale.

Il grado d’influenza israeliana nell’opposizione sudanese e nei gruppi separatisti è significativo. Il SPLM ha forti legami con Israele e suoi membri e sostenitori regolarmente visitano Israele. È grazie a questo, che Khartoum ha capitolato e ha rimosso le restrizioni ai passaporti sudanesi per le visita in Israele, alla fine del 2009, per soddisfare il SPLM. [4] Salva Kiir Mayardit ha anche detto che il Sud Sudan riconoscerà Israele quando sarà separato dal Sudan.

The Sudan Tribune ha riferito, il 5 marzo 2008, che gruppi separatisti in Darfur e nel Sudan meridionale aveva uffici in Israele:
I sostenitori di Israele [del Movimento di liberazione del Popolo del Sudan ] hanno annunciato la costituzione della sede in Israele del Sudan People’s Liberation Movement, ha detto oggi un comunicato stampa. 
Dopo consultazioni con i leader della SPLM a Juba, i sostenitori del SPLM in Israele hanno deciso di istituire l’ufficio del SPLM in Israele”. Detto [sic.] un comunicato ricevuto via email da Tel Aviv, firmato dalla segreteria dell’SLMP in Israele. La dichiarazione ha detto che l’ufficio avrebbe  promosso le politiche e la visione del SPLM nella regione. Ha inoltre aggiunto che, in conformità con il Comprehensive Peace Agreement, lo SPLM ha il diritto di aprire uffici in qualsiasi paese, compreso Israele. Ha inoltre segnalato che ci sono circa 400 sostenitori dell’SPLM in Israele. Il leader dei ribelli del Darfur, Abdel Wahid al-Nur ha detto la scorsa settimana, che ha aperto un ufficio a Tel Aviv. [5]”

Il dirottamento del referendum del 2011 in Sud Sudan

Cosa è successo al sogno di un’Africa unita o di un mondo arabo unito? Il Panarabismo, un movimento di unità di tutti i popoli di lingua araba, ha avuto pesanti perdite, come nell’unità africana. Il mondo arabo e l’Africa sono stati costantemente balcanizzati.

La secessione e balcanizzazione in Africa orientale e nel mondo arabo sono nei piani degli Stati Uniti, d’Israele e della NATO.

L’insurrezione della SSLA è stata segretamente sostenuta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele dagli anni ’80. La formazione di un nuovo stato in Sudan non è destinata a servire gli interessi del popolo del Sud Sudan. Fa parte di un più ampio programma geo-strategico mirato al controllo del Nord Africa e del Medio Oriente.

Il conseguente processo di “democratizzazione” che porta fino al referendum del Gennaio 2011, serve gli interessi delle compagnie petrolifere anglo-statunitensi e alla rivalità contro la Cina. Questo avviene a detrimento della vera sovranità nazionale in Sud Sudan.

Mahdi Darius Nazemroaya è un ricercatore associato del Centre for Research on Globalization (CRG).

NOTE
[1] una cleptocrazia è un governo e/o stato che lavora per proteggere, estendere, approfondire, continuare e consolidare la ricchezza della classe dirigente.

[2] Jeffrey Goldberg, “After Iraq: What Will The Middle East Look Like?” The Atlantic, gennaio/febbraio 2008.

[3] William Maclean, “Copts on global Christmas alert after Egypt bombing”, Reuters, 5 gennaio 2011.
[4] “Sudan removes Israel travel ban from new passport”, Sudan Tribune, 3 ottobre 2009: 


[5] “Sudan’s SPLM reportedly opens an office in Israel – statement”, Sudan Tribune, 5 marzo 2008:

http://www.sudantribune.com/spip.php?page=imprimable&....

 

 

 

ALLEGATO: La mappa del “Nuovo Medio Oriente” del The Atlantic
Nota: la seguente mappa è stata disegnata da Holly Lindem per un articolo di Jeffrey Goldberg. E’ stata pubblicata su The Atlantic di gennaio/febbraio 2008. (Copyright: The Atlantic, 2008). 

Fonte: Global Research 

http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=22736 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.sudantribune.com/spip.php?iframe&page=impr...

 

 

 

di Mahdi Darius Nazemroaya - 27/01/2011

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

 

 

 

mardi, 25 janvier 2011

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Udo Ulfkotte

 

Weil weder Israel noch die Vereinigten Staaten die Fortführung des iranischen Atomwaffenprogramms mit einem Militärschlag verhindert haben, will Saudi-Arabien nun seine Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen. Die Saudis haben auf dem südlich von Riad gelegenen geheimen unterirdischen Militärgelände von al-Sulaiyil alles für die Überführung ihrer Atomsprengköpfe vorbereiten lassen. Dort gibt es Tunnel für pakistanische Ghauri-II-Raketen, die eine Reichweite von 2.300 Kilometern haben. Saudi-Arabien ist seit vielen Jahren schon militärische Nuklearmacht, hatte die eigenen Waffen aber geschickt in Pakistan gelagert. So konnte man behaupten, nicht zu den Atomwaffenstaaten zu gehören.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

 

 

lundi, 24 janvier 2011

Ayméric Chauprade: géopolitique russe


Ayméric Chauprade:

Géopolitique russe

samedi, 22 janvier 2011

Vaarwel Amerika !

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Wereldorde -  De zon komt op in het Oosten

Vaarwel Amerika

Door: Marcel Hulspas & Jan-Hein Strop

Ex: http://www.depers.nl/

Zestig jaar lang was Europa militair en economisch nauw verbonden met de Verenigde Staten. Die verbintenis heeft haar tijd gehad. Europa moet de VS loslaten. Het liefst zo snel mogelijk.

Toen Winston Churchill in 1941 de Amerikaanse president Roosevelt ontmoette, om Amerikaanse steun te vragen in de strijd tegen Hitler-Duitsland, zou hij tegen Roosevelt hebben gezegd: ‘Give us the tools and we’ll finish the job.’ En dat is wat Roosevelt deed. Washington redde het failliete Groot-Brittannië en de VS werden ‘het arsenaal van de democratie’. Direct na de oorlog vormde het Amerikaanse leger de enige garantie tegen een Russische bezetting, en dankzij de miljarden dollars uit het Marshallplan kon West-Europa zich daarna economisch herstellen. Europa is de VS buitengewoon veel verschuldigd.

Maar nu, zestig jaar later, wordt het hoog tijd dat Europa de Verenigde Staten vaarwel zegt. Dat we de blik niet langer westwaarts richten, maar oostwaarts. De VS kampen met ernstige problemen, in binnen- en buitenland, in de economie én in de politiek. De American Century loopt ten einde. En als Europa wil overleven, moet het de banden snel verbreken, of in ieder geval veel losser maken.

Amerika’s grootste probleem is een intern probleem. Het alom geroemde regeringssysteem functioneert al geruime tijd niet meer. De volstrekt vergiftigde partijpolitieke tegenstellingen zorgen ervoor dat het Congres en het Witte Huis elkaar al zo’n twintig jaar voor de voeten lopen, en niet in staat zijn om hoogst noodzakelijke wetgeving door te voeren. Het landsbestuur gaat kapot aan partijpolitieke tegenstellingen.

Onoplosbaar probleem nummer één is het begrotingstekort van 1.300 miljard dollar, waardoor de staatsschuld in moordend tempo toeneemt. Minister Clinton van Buitenlandse Zaken bestempelde het begrotingsprobleem als ‘de grootste bedreiging voor de nationale veiligheid’, maar een weg uit het financiële moeras is verder weg dan ooit.

Keihard bezuinigen: not

Waar landen als Ierland, Griekenland en Portugal in staat zijn tot rigoureuze bezuinigingen, tegen alle publieke verontwaardiging in, staat het machtigste land ter wereld machteloos. De Congressional Budget Office voorspelt dat de rentelasten, bij voortzetting van het huidige beleid, tot 2020 zullen verdriedubbelen. De renteafdracht, als percentage van de belastinginkomsten, neemt toe van 9 procent nu tot 20 procent in 2020 en tot 58 procent in 2040.

Er blijft zo weinig geld over voor beleid, zodat één ding onvermijdelijk is: keihard bezuinigen. Maar snijden in populaire programma’s als Medicare, Medicaid en Social Security is net zo moeilijk als het terugdringen van het heilig verklaarde wapenbezit. Wat defensie betreft (naar schatting 700 miljard per jaar, en stijgende) bleek een uiterst bescheiden voorstel van minister Gates van Defensie om de stijging een beetje in te tomen al voldoende voor heftig verzet.

Extra belastingen om het tekort aan te pakken staan gelijk aan politieke zelfmoord. Sterker, de Republikeinen zijn vast van plan om het begrotingstekort in stand te houden. Onder de oude begrotingsregels (‘pay-as-you-go’) was een toename van bestedingen alleen toegestaan als er tegelijkertijd voor hetzelfde bedrag gesneden werd of extra inkomsten werden gegenereerd.

Maar vorige week, bij het aantreden van het nieuwe Huis van Afgevaardigden, heeft de Republikeinse meerderheid nieuwe begrotingsregels ingesteld, die een uitzondering maken voor het verlagen van de belastingen. Tax cuts mogen dus eindeloos gefinancierd worden zonder te bezuinigen. Hiermee hoopt de partij de belastingverlaging voor de allerrijksten, die in december tijdelijk is verlengd, straks permanent te kunnen maken. Met de tijdelijke verlaging wordt in vijf jaar al 900 miljard dollar toegevoegd aan het tekort.

Normaal gesproken wordt fiscaal onverantwoordelijke politiek bestraft met oplopende rentes op staatsobligaties. Maar de VS genieten al zestig jaar het privilege dat ze ’s werelds reservemunt drukken, en dat ze de geldpersen onbeperkt kunnen laten draaien. Daarmee koopt de Amerikaanse Centrale Bank haar eigen staatsobligaties op om de rente laag te houden, en verder (maar dat zal het nooit toegeven) zorgt dat drukken ervoor dat de waarde van de dollar daalt, wat de VS weer competitief maken op de wereldmarkt. Zo moet de Amerikaanse economie uit het slop worden getrokken. En snel.

Het experimentele monetaire beleid jaagt de wereld schrik aan. Veel landen, en vooral China, zitten met enorme dollarreserves (2,8 biljoen dollar) en zijn bang dat die reserves straks niets meer waard zijn. Als de dollar ineenzakt vóórdat de Amerikaanse economie opkrabbelt, brokkelt hun vertrouwen in de Amerikaanse kredietwaardigheid in hoog tempo af. Als dat gebeurt, is de grootste Amerikaanse crisis aller tijden een feit: de VS krijgen hun schulden alleen nog gefinancierd door nog meer dollars te drukken. Hyperinflatie is het waarschijnlijke gevolg.

De aandelenmarkten vinden het prachtig. Dat er met goedkoop geld een groot risico is op nieuwe bubbels, maakt politici niets uit: hun campagnekassen lopen vol, nu op Wall Street de bankiers zich met hun hoge bonussen weer suf lachen. Amerika gelooft nog steeds in het cowboy-kapitalisme, met zijn boom-bust-cyclus, in leven op krediet.

Europa heeft pakweg dertig jaar in die mallemolen meegedraaid. Het wordt tijd om eruit te stappen.

Wijsheid uit het Oosten

We moeten uit de buurt blijven van die onvermijdelijke crash. En dat kan. De huidige crisis is al een puur westerse crisis. Het zijn de westerse economieën die stagneren. Elders groeit de economie onstuimig door. Wereldwijd groeide de economie in 2010 met 7 procent. Europa kan daar bij aansluiten. Nobelprijswinnaar Joseph Stieglitz noemde het ‘bizar’ dat de wereld nog steeds denkt in dollars. ‘Dat zou het al zijn als de VS hun economie op orde hadden. Maar nu dat niet zo is, is die situatie absurd.’ Lang hoeft dat niet te duren. Als Europa zijn interne financiële problemen heeft opgelost, wordt de euro een aantrekkelijk alternatief. Dan moet Europa die kans ook grijpen.

De Chinezen zijn behoedzame spelers op de financiële wereldmarkt. Ze beschikken over voldoende dollars om de VS op de knieën te dwingen, maar zullen er alles aan doen om een handelsoorlog te voorkomen. Maar je hoeft geen rocket scientist te zijn om te zien waar deze groeiende reus zijn groeikansen ziet. Over twintig jaar zijn niet de VS, maar is China de grootste economie ter wereld. De opkomende landen als China, India, Rusland en Brazilië zijn gezamenlijk nu al economisch machtiger dan het Westen. En de EU is op dit moment China’s grootste afzetmarkt.

Omgekeerd wordt China voor de EU als exportland steeds belangrijker. Een kwart van de Rotterdamse haven is nu al in gebruik voor de Chinese im- en export. China is dus zeer gebaat bij Europese stabiliteit, en Peking heeft diepe zakken gevuld met dollars, die voor de stabilisatie van de euro kunnen zorgen. Zij heeft beloofd met die enorme dollarreserves de eurozone bij te staan, door staatsschulden van landen als Griekenland, Spanje en Portugal op te kopen. Daarmee koopt China politieke invloed en belangen in industrieën. Japan heeft zich vorige week overigens ook bereid getoond de eurozone met serieuze bedragen te helpen.

Het Oosten heeft vertrouwen in Europa. Wat nog ontbreekt, is Europees vertrouwen in het Oosten. In de VS worden Chinese investeerders bijna het land uitgejaagd; hier in Europa worden ze met enig wantrouwen gadegeslagen. Ten onrechte. Ze zijn onze grote kans om aan de omarming van de wankele Amerikaanse reus te ontsnappen. En dat moet. Voordat dat land in de greep komt van een permanente politieke én financiële crisis.

Er is een andere uitstekende reden om zo snel mogelijk aan die Amerikaanse greep te ontkomen: energie. Ooit was Europa net zo verslaafd aan Arabische olie als de VS. Toen liepen de geopolitieke belangen parallel. Maar dat doen ze allang niet meer. Amerikanen zijn nog steeds verslaafd aan Arabische olie, en daaraan zal in de komende decennia weinig veranderen. Terwijl Europa het niet alleen veel zuiniger aan doet, maar ook dringend op zoek is naar alternatieven. Europa moet wel. Het heeft altijd voorrang gegeven aan een misschien minder spectaculaire, maar in ieder geval stabiele economische groei.

Dat vereist stabiele energieprijzen. Maar dankzij Amerikaanse militaire interventies is het Midden-Oosten één grote brandhaard, en is olie uit het Midden-Oosten buitengewoon onaantrekkelijk geworden. De voortdurende conflicten in de regio, en het daardoor oplaaiende terrorisme, zullen de VS hoogstwaarschijnlijk verleiden tot nieuwe militaire avonturen, zoals een aanval op Iran. Avonturen die de regio alleen maar nóg instabieler zullen maken. En dat zal de leverantie alleen maar nog onbetrouwbaarder maken.

Rusland

Maar er is ook een kans dat de VS zich de komende jaren juist terug zullen trekken uit de internationale politieke arena (zie kader.) Dat is goed nieuws voor het Midden-Oosten (met uitzondering van Saoedi-Arabië en Israël) en belangrijk nieuws voor de opkomende industriestaten, die op eigen kracht hun economische belangen zullen moeten gaan beschermen. Europa is geen militaire grootmacht en moet dat ook niet worden. Maar als het zijn welvaart wil behouden, zal het in dit spel een hoofdrol moeten spelen. Alweer een reden om verder te kijken dan het oude, atlantische bondgenootschap

Inzet van het beleid is een duurzaam evenwicht. Wat Europa nodig heeft, is een slimme combinatie van energieleveranciers en van energiebronnen: duurzame energiebronnen (nucleair, zon, wind, biomassa) én het flexibele, schone aardgas. Dat laatste betekent een nauwere band met Rusland. Nu al zijn er innige banden tussen Nederland en het Russische Gazprom. Gasunie neemt deel in Nordstream, de gaspijpleiding door de Oostzee. Als het om energie gaat, hebben we allang voor het Oosten gekozen. Daar groeit een compleet nieuwe markt, met compleet andere spelers. China heeft recent een overeenkomst gesloten voor de levering van Russisch gas. Ook hier gaan de belangen steeds meer parallel lopen.

Een nieuwe wereldorde

De American Century spoedt naar zijn einde. Het land is economisch in het slop geraakt en politiek volstrekt verlamd. Iedereen roept er om hervormingen, om nieuw elan, om eenheid. En al die idealen zijn verder weg dan ooit. Het land staat voor een ongekende zware, dubbele crisis. Europa moet te allen tijde voorkomen dat het daarin wordt meegesleurd. Het zal zo snel mogelijk aansluiting moeten zoeken bij de opkomende industrielanden.

Diezelfde landen zijn dringend op zoek naar een nieuwe economische wereldorde. Een systeem waarbinnen de ooit almachtige Verenigde Staten een bescheidener rol spelen, en waarin diezelfde VS niet meer in staat zullen zijn de wereldeconomie hun wil op te leggen. Economisch en financieel is de basis voor die nieuwe orde al gelegd. China wil zijn krachten bundelen met de nieuwe spelers, met energiegigant Rusland én met het rijke, gistende Europa.

Alles en iedereen staat klaar voor de Grote Sprong Oostwaarts. Iedereen, alleen de politiek huivert. We mogen hopen dat Europa zijn kans ziet, en benut, voordat het zinkende schip Amerika ons naar beneden trekt.

vendredi, 21 janvier 2011

Bernard Lugan: les crises africaines

Bernard Lugan:

les crises africaines

mercredi, 19 janvier 2011

Philippe Conrad présente "2030, la fin de la mondialisation" d'Hervé Coutau-Bégarie


Philippe Conrad présente "2030, la fin de la mondialisation" d'Hervé Coutau-Bégarie

lundi, 17 janvier 2011

Comment l'Europe et la Russie pourront subsister à l'avenir

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Comment l’Europe et la Russie pourront subsister à l’avenir

Vladimir Poutine, Premier ministre russe, présente des projets de coopération

par Karl Müller

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

Il y a 20 ans, le 21 novembre 1990, les représentants gouvernementaux de 32 pays européens – y compris l’Union soviétique d’alors – ainsi que des Etats-Unis et du Canada signaient dans le cadre de la Conférence sur la sécurité et la coopération en Europe (CSCE – aujourd’hui OSCE) la Charte de Paris. C’était une déclaration publique en vue de la création d’un ordre pacifique en Europe après la réunification des deux Etats allemands et la fin de l’affrontement entre l’Est et l’Ouest (cf. Horizons et débats no 1 du 11/1/10)

A la suite du président Dimitri Medvedev, qui avait soumis une proposition fin 2009 en faveur d’un Accord européen de sécurité, reprenant ainsi les objectifs sécuritaires de la Charte de Paris, c’est au tour du Premier ministre du pays, Vladimir Poutine, de mettre en avant les dimensions économiques d’une possible coopération dans toute l’Europe (y compris la partie asiatique de la Russie – donc de Lisbonne à Vladivostock), en soumettant une proposition (cf. p. 4).
La Charte de Paris ne s’était pas contentée de promouvoir une coopération dans la politique sécuritaire au sens étroit du terme, mais aussi – sachant combien les deux domaines se recouvrent – pour un ordre économique inter étatique et une plus forte coopération économique dans toute l’Europe.
Le Premier ministre russe a soumis cette proposition à la «Süddeutsche Zeitung», en vue d’un débat organisé par cette dernière les 25 et 26 novembre à Berlin sous le titre de «IVe rencontre de dirigeants de l’économie», rassemblant 40 hommes politiques, dirigeants d’entreprises et scientifiques, en tant que conférenciers et participants à la Table ronde, de même que 300 personnes invitées.

La crise de 2008 est structurelle

Présentant ses propositions concrètes, le Premier ministre russe a constaté que «l’éclatement de la crise mondiale en 2008 n’était pas seulement dû au gonflement des «bulles» et à l’échec de la régulation des marchés mais qu’il était de nature structurelle». Selon lui «le problème central consiste dans l’accumulation de déséquilibres mondiaux. Le modèle selon lequel un centre régional multiplie les emprunts et consomme des biens sans frein alors que l’autre produit des marchandises bon marché et rachète des dettes a échoué. En outre, la répartition de la prospérité est extrêmement inégale aussi bien entre les différents pays qu’entre les différentes couches de population, ce qui a ébranlé la stabilité de l’économie, provoqué des conflits locaux et paralysé l’aptitude au consensus de la communauté internationale dans le débat sur les problèmes urgents.» Poutine réclame donc de s’engager dans une nouvelles voie, «de procéder à des réexamens, à évaluer les risques et à réfléchir à de nouvelles évolutions fondées non sur des valeurs virtuelles mais réelles.»

L’activité économique peut protéger la dignité humaine

En jetant un coup d’œil honnête sur les 20 années passées, on ne peut qu’approuver ce diagnostic. Les objectifs fixés dans la Charte de Paris par tous les gouvernements européens, mais aussi par ceux des Etats-Unis et du Canada, de promouvoir «une activité économique qui respecte et protège la dignité humaine, de développer des économies de marché «en vue d’une croissance économique durable, de la prospérité, de la justice sociale, du développement de l’emploi et de l’utilisation rationnelle des ressources économiques», de mettre l’accent sur le fait qu’il «est important et conforme à notre intérêt à tous que le passage à l’économie de marché réussisse dans les pays qui font des efforts en ce sens, afin que cette réussite nous permette de partager les fruits d’un accroissement de la prospérité auquel nous aspirons tous ensemble», ne furent pas pris sérieusement en compte et donc pas atteints.
On n’accorda pas suffisamment d’attention à l’exigence de «prendre en compte les intérêts des pays en développement» lors d’une coopération économique accrue au sein du processus CSCE.
Bien au contraire: au cours des derni­ères 20 années, les «vainqueurs» de la guerre froide ont tenté de transformer les Etats du Conseil d’assistance économique mutuelle (Comecon) en économies de marché, autrement dit de leur imposer une forme de capitalisme qui ne répondait pas à la volonté des peuples. Ce fut le sort de tous les peuples de l’Europe centrale orientale, de l’Europe du Sud-Est et de l’Est.

L’indépendance économique fait partie de la dignité humaine

C’est ce que durent vivre les Allemands de l’ancienne RDA, qui ne sont toujours pas considérés comme des citoyens de valeur égale dans un Etat commun. Car on ne leur accorda pas une des conditions fondamen­tales de liberté égale, soit l’autonomie économique (cf. Karl-Albrecht Schachtschneider: «Plaidoyer pour la citoyenneté», Horizons et débats n° 47 du 6 décembre; ainsi que Peter Ulrich: «Integrative Wirtschaftsethik», p. 278 sqq: «Wirtschaftsbürgerrechte als Grundlage realer Freiheit für alle»). Encore 20 ans plus tard, la majorité des habitants de l’Est du pays dépendent encore de l’aide pécuniaire de l’Etat. On ne leur laissa pas le droit d’un gagne-pain sur place, c’est-à-dire là où vit leur famille, où ils ont leurs amis, dans leur environnement. Les 30 entre­prises qui, selon l’ouvrage intitulé «Die Blaue Liste» [La liste bleue] de Wolfgang Schorlau, devaient leur rester sous forme de coopératives n’ont plus de valeur que comme mémorial de l’éthique économique. Alors qu’après 1990 presque l’entière structure économique de la RDA fut traitée comme une masse en faillite et qu’elle ne servit plus que d’ateliers pour les grandes entreprises ouest-allemandes, on n’a toujours pas réussi – ou peut-être ne l’a-t-on pas voulu – de mettre en place une structure économique saine, indépendante et offrant des emplois sûrs.
Il faut prendre conscience que n’est pas forcément fausse la thèse selon laquelle cette tragédie n’est pas qu’interallemande, mais bien une part d’un plus grand projet dans l’intérêt du capital financier, que donc l’Est de l’Allemagne, comme d’ailleurs l’ensemble de l’Europe centrale orientale, de l’Europe du Sud-Est et de l’Europe de l’Est devait être désindustrialisé et dépendre directement (par l’accumulation des dettes privées) ou indirectement (par l’accumulation des dettes publiques) de l’industrie de la finance.
Le Premier ministre russe parle, en se référant à l’UE, des «fruits pourris d’une désindustrialisation qui dure depuis de longues années» et du risque réel «d’un affaiblissement de ses positions sur les marchés industriels et de la haute technologie».

Renforcer l’économie réelle plutôt que de produire des bulles financières

C’est pourquoi on comprend que Poutine propose une «politique industrielle commune» et demande de mettre en place une marche à suivre pour savoir «comment faire déferler une nouvelle vague d’industrialisation sur le continent européen» avec «la mise en œuvre de programmes communs de soutien aux PME opérant dans l’économie réelle».
En vérité: la décadence des Etats-Unis et de la Grande Bretagne et la montée de la Chine et de l’Inde est l’image même du mensonge que fut la prétention des 20 dernières années qu’il fallait tout miser sur la finance. Cela provoqua une dépendance du capital financier et des lieux de production dans les pays lointains. C’est doublement dangereux. Car personne ne peut garantir que la monnaie dont nous croyons pouvoir encore disposer aujourd’hui gardera demain sa valeur et nous permettra encore de faire nos achats. L’argent ne nourrit pas.
Tout comme la formation et les sciences, une fourniture d’énergie sûre, en quantité suffisante et financièrement équilibrée sont de première importance pour l’avenir de l’Europe et de la Russie. Ces deux aspects sont aussi inclus dans la proposition de Poutine.

Des zones de libre-échange entre Etats qui se respectent sont aussi une garantie de paix

Lorsque Poutine écrit que «l’état actuel de la collaboration entre la Russie et l’UE ne correspond absolument pas aux défis auxquels nous sommes confrontés», il ressort que le Premier ministre vise une étude approfondie des forces en présence et des dangers dans la politique et l’économie du monde.
En août de cette année, lors de sa visite en Suisse, le président Medvedev avait proposé, de commun accord avec ses hôtes, de mettre en place une zone de libre-échange entre la Russie et l’AELE. Les négociations devront commencer dès janvier prochain, selon le secrétaire de l’AELE Kaare Bryn lors d’une interview le 22 novembre (www.nachhaltigkeit.org).
Cette proposition du Premier ministre russe pour une zone de libre-échange entre la Russie et l’UE fait partie d’une vision pour toute l’Europe, au profit des deux parties, assurant de surcroît la paix.

Réactions positives de l’industrie et des banques européennes

Les propositions du Premier ministre russe doivent être suivies de près. Comment expliquer les réticences de la chancelière allemande et de la bureaucratie de l’Union européenne? Il ne s’agit sûrement pas de pressions venant de l’industrie et des banques européennes, car elles saluent les propositions de Poutine, d’autant plus que ce sont elles qui ont contribué au développement des échanges commerciaux entre l’UE et la Russie depuis l’an 2000 – l’année de crise 2009 n’ayant été qu’une parenthèse – passant de 86 milliards d’euros en 2000 à 282 milliards en 2008 (selon les indications d’Eurostat [76/2010] du 28 mai 2010). La Russie est, après les Etats-Unis et la Suisse le troisième partenaire commercial de l’UE. Il y a toutefois encore beaucoup de possibilités de développement.
Le Premier ministre russe dénonça le système de visa entre la Russie et l’UE comme frein à la coopération, mettant en cause la politique et non pas l’économie. Il affirma lors d’un entretien avec des entrepreneurs allemands que «les autorités allemandes semaient les obstacles sur le chemin des investisseurs russes. (Ria Novosti du 29 novembre)
La proposition actuelle du Premier ministre russe mérite qu’on s’y arrête, tout comme ce fut le cas de celle concernant un Traité européen de sécurité. Les dégâts causés en Europe au cours des 20 dernières années sur les plans politique, économique et social exigent une vision nouvelle. Le Premier ministre russe a soumis ses propositions, aux Européens de répondre de manière constructive.    •

dimanche, 16 janvier 2011

Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie


Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie

samedi, 15 janvier 2011

Philippe Conrad présente "L'Amérique solitaire?" de Hervé Coutau-Bégarie

Philippe Conrad présente "L'Amérique solitaire?" de Hervé Coutau-Bégarie

jeudi, 13 janvier 2011

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

USA: die Angst vor der Katastrophe

USA: die Angst vor der Katastrophe

F. William Engdahl

 

uncle%20sam%20_____.jpgVor einigen Tagen hat US-Finanzminister Timothy Geithner erstmals öffentlich über den drohenden Staatsbankrott der Vereinigten Staaten gesprochen. Fast alle Europäer waren in den vergangenen Wochen durch die Euro-Schwäche ganz auf sich selbst konzentriert. Dabei ist die Lage in den USA weitaus dramatischer als in Europa. Verschuldung und Defizite geraten außer Kontrolle.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/f-w...

mercredi, 05 janvier 2011

Sur la Chine

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Robert STEUCKERS :

 

Sur la Chine

 

Conférence prononcée à Gand, le 21 avril 2010, àla tribune de l'association étudiante KASPER

 

Mesdames, Messieurs, Chers amis,

 

Je suis un peu honteux de venir prononcer ici une brève conférence sur la Chine, alors que dans l’espace linguistique néerlandais, nous avons deux éminents spécialistes de la question : le Professeur Koenraad Elst et Alfred Vierling. Tous deux auraient accepté votre invitation et vous auraient fourni une conférence passionnante. Ce sont eux qui auraient dû se trouver à ma place ce soir. Vous me dites qu’ils sont indisponibles et que je dois les remplacer : je tenterai donc de faire du mieux que je puis en vous donnant les clefs nécessaires pour comprendre les ressorts philosophiques, idéologiques et politiques de ce géant qui défie aujourd’hui la superpuissance américaine. Pour donner corps à mes arguments, je me référerai aux ouvrages de Jean-François Susbielle, géopolitologue français contemporain, auteur de plusieurs ouvrages, dont Les Royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale (First Editions, 2008). Dans ce livre consacré aux grandes puissances effectives et émergentes (dont le Brésil), Susbielle décrit de manière particulièrement didactique les linéaments profonds de l’histoire chinoise, le passage de la Chine maoïste à celle de Deng Xiaoping, prélude au formidable développement économique chinois auquel nous assistons aujourd’hui. Je serai donc, ce soir, le simple porte-paroles de Susbielle, dont je recommande vivement trois ouvrages consacrés à la Chine ou aux rapports entre la Chine et les autres puissances mondiales : celui que je viens de citer puis Chine-USA : la guerre programmée et La morsure du dragon.

 

La première chose qu’il convient de dire en parlant de la Chine, c’est qu’elle possède une histoire très longue, qui s’étend sur une période entre trois et cinq millénaires. La mémoire chinoise est donc très profonde, bien plus profonde que celle de l’Occident, qui a trop souvent érigé l’oubli et l’amnésie historique au rang de vertus. Ma tâche n’est donc pas aisée et il va falloir me montrer très succinct.

 

« La Chine, c’est quoi ? »

 

Première question : la Chine, c’est quoi ?

C’est un monde en soi, bien balisé, parfois volontairement hermétisé par rapport à son environnement. Ce monde souvent clos, qui pratique l’ouverture seulement quand ses intérêts immédiats le postulent, est doté de quelques valeurs bien spécifiques, mises en exergue par une historienne des religions, Karen Armstrong, dont l’ouvrage The Great Transformation s’est inspiré de la méthode du philosophe allemand Karl Jaspers (1). Ce dernier avait forgé le concept de « période axiale » de l’histoire (Achsenzeit der Geschichte). Toute « période axiale » de l’histoire est une période, selon Karl Jaspers et Karen Armstrong, où émergent les valeurs structurantes et impassables d’une civilisation, celles qui lui donnent ses caractéristiques principales. Pour la Chine, selon Karen Armstrong, ces principales caractéristiques sont :

-          le culte des ancêtres, donc de la continuité, chaque Chinois se sentant dépositaire d’un héritage qu’il doit conserver ou enrichir, sous peine de perdre la face devant ses ascendants, qui le jugent depuis un au-delà ;

-          la centralité de la Chine dans le monde (2) ;

-          une culture essentiellement paysanne, où les sciences et les technologies ne jouent qu’un rôle secondaire ;

-          l’absence de toute vision linéaire de l’histoire : tout recommence ou recommencera un jour pour répéter une fois de plus ce qu’il y a toujours eu auparavant ; la Chine ne connaît donc pas de ruptures brutales, de césures irréversibles dans le temps, en dépit des apparences, des radicalités révolutionnaires comme la révolte de Tai Ping, le mouvement des Boxers, la révolution moderniste de Sun Ya Tsen, la prise du pouvoir par les communistes de Mao ou la révolution culturelle des années 60, suivie par la rupture tout aussi radicale, bien que plus douce, de Deng Xiaoping face à l’établissement maoïste.

 

Toujours pour répondre à notre question initiale, « La Chine, c’est quoi ? », passons maintenant aux caractéristiques géopolitiques de la Chine en tant qu’espace géographique sur la planète Terre. Pour le général autrichien Jordis von Lohausen, la Chine, c’est :

Sur le plan géographique :

-          la masse géographique la plus compacte d’Asie orientale ;

-          la plaque tournante entre a) le Japon et l’Inde ; b) entre la Russie et l’Australie ; c) entre le désert de Mongolie et l’archipel malais ;

Sur le plan stratégique, elle est une forteresse naturelle entre :

-          la forêt vierge au sud ;

-          les glaciers du Tibet ;

-          les déserts du nord et de l’ouest ;

-          l’océan à l’est ;

Cette situation particulière dans l’espace est-asiatique explique pourquoi la Chine demeure inchangée dans le fond, en dépit des transformations superficielles de nature idéologique. Elle a en permanence à faire face aux défis que lance cet espace naturel.

 

Sur le plan politique, la Chine est (ou était) :

-          la principale puissance représentant la race jaune dans le monde ;

-          la puissance prépondérante des peuples de couleur qui défiaient l’ordre mondial blanc, au temps de Mao (et aujourd’hui, sous d’autres oripeaux idéologiques, en Afrique noire) ;

-          la puissance principale du tiers-monde (aujourd’hui la notion de « tiers-monde » n’a plus la même signification que dans les années 60 ou 70 du 20ème siècle) ;

-          la puissance sur le territoire de laquelle se déroulait la « révolution villageoise » (au nom de l’idée de « civilisation paysanne » née à la période axiale de l’histoire chinoise).

Aujourd’hui, la Chine ne revêt plus entièrement cet aspect de puissance principale des races non blanches ou du tiers-monde. Elle représente un capitalisme dirigé (différent du capitalisme du libre marché tel qu’on le connaît dans l’américanosphère occidentale), expurgé de toutes velléités d’interpréter ou de déformer le monde tel qu’il est par le biais d’une idéologie trop rigide ou trop caricaturale, que cette idéologie soit le marxisme à la Mao ou l’idéologie américaine et cartérienne des « droits de l’homme ». L’exagération maoïste en matière de slogans idéologiques a été corrigée par le pragmatisme confucéen de Deng Xiaoping : la Chine ne vise plus à transformer les structures traditionnelles des peuples, en plaquant sur des réalités non chinoises des concepts maoïstes ; elle ne cherche pas non plus à imiter les Américains qui veulent imposer leur propre vision de la « bonne gouvernance » à tous les peuples du monde. La Chine laisse à chacun le soin de gérer son pays à sa guise : elle se borne à entretenir des rapports diplomatiques de type classique et à avoir de bonnes relations commerciales avec un maximum de pays dans le monde. La Chine est désormais sevrée des messianismes d’inspiration communiste ou de ce que l’on appelait dans les années 60 et 70 du 20ème siècle, des messianismes du tiers monde.

 

Pour définir la Chine et répondre encore une fois à notre question initiale, mettons en exergue la différence majeure entre l’Europe et la Chine :

-          L’Europe est une entité centrifuge, sans unité durable, tiraillée entre une multitudes de pôles régionaux ; elle est devenue un espace civilisationnel privé de valeurs « orientantes » communes ;

-          La Chine est une unité, protégée par la nature : face à la Russie, des montagnes et des déserts la protègent ; face au Sud indien (également centrifuge), des montagnes et une zone de forêts vierges la protègent ; face à l’Amérique, c’est l’immensité de l’Océan Pacifique qui la protège, tout autant que sa propre profondeur territoriale, une profondeur territoriale que ne possédait pas le Japon lors de sa confrontation aux Etats-Unis pendant la seconde guerre mondiale.

 

Une succession de grandes dynasties

 

Dans ce pays protégé par la nature, une histoire particulière va se dérouler.

L’histoire de la Chine est surtout l’histoire de grandes dynasties, comme le souligne très opportunément Jean-François Susbielle.

Au début de l’histoire chinoise, nous n’avons pas d’unité mais une juxtaposition conflictuelle de « royaumes combattants » qui s’affrontent dans des guerres interminables (comme en Europe !). Cette période s’étend de 500 à 221 avant J.C. C’est à cette époque, comme en Grèce ou en Judée, qu’émerge la fameuse « période axiale » de l’histoire chinoise, selon Karen Armstrong. C’est aussi l’époque où trois grands penseurs chinois écrivent leurs œuvres :

-          Confucius (Kong Fuzi) qui dit que la vertu doit régner et qu’un Etat fonctionne de manière optimale s’il favorise une véritable méritocratie (il n’y a dès lors pas de système de classes dans l’idéal de Confucius) ;

-          Lao Tzi (Lao Tsö), fondateurs des filons taoïstes et auteur du Tao Te King ;

-          enfin, Sun Tzu, auteur de l’Art de la guerre, préconisant la ruse.

On oublie généralement Han Fei, auteur d’un manuel pour le Prince. Les principales valeurs de la société chinoise émergent à cette époque, avant l’apparition de l’empire proprement dit, en réaction au chaos généré par les hostilités permanentes entre « royaumes combattants ». Ce chaos et cette désunion seront dès lors les modèles négatifs à ne pas imiter, à proscrire. Notons, avec Karl Jaspers et Karen Armstrong, que la période axiale de l’histoire chinoise est contemporaine de Socrate et de Platon en Grèce et de Bouddha en Inde. La République de Platon et les conseils de Han Fei au Prince méritent une lecture parallèle.

 

Après la période anarchique des « royaumes combattants », le premier empereur surgit sur la scène chinoise : Qin Shi Huang Di (-221 à -207). Il donne son nom à la Chine : « Qin » se prononce « Tchine ». Son œuvre est d’avoir uni les sept royaumes combattants, d’avoir commencé les travaux de la Grande Muraille, d’avoir introduit l’écriture et un système de poids et de mesures, d’avoir énoncé les premières lois. Il s’oppose aux disciples de Confucius, dont il fait brûler les textes, exactement comme le feront les adeptes de Mao lors de la « révolution culturelle » dans les années 60 du 20ème siècle.

 

De -207 à 220 après J.C., vient la période Han. Ce seront 400 années d’expansion, où la Chine atteindra les dimensions qu’elle a actuellement, excepté le Tibet et le Sinkiang. Après cette période de développement, viennent quatre siècles d’anarchie, sans plus aucune unité. C’est le retour des « royaumes combattants ».

 

Carte_Chine_Tang.gifLa restauration vient avec la dynastie Tang, de 618 à 907, véritablement âge d’or de la civilisation chinoise. Les empereurs sont alors les alliés des Ouïghours contre les autres peuples turcs. L’influence chinoise s’étend jusqu’en Ouzbékistan. Elle s’exerce aussi sur la Corée, le Vietnam et le Cambodge. De 907 à 960 survient une nouvelle période de chaos, mais qui ne sera que de courte durée.

 

En 960, par un coup d’Etat, les Song arrivent au pouvoir, rétablissent l’unité et inaugurent une ère de prospérité généralisée, où les sciences chinoises inventent la machine à imprimer, la boussole et certains navires de haute mer. La Chine a bien failli devenir une puissance maritime dès cette époque. En 1279, cette ère de prospérité prend fin par l’invasion mongole.

 

china-yuan-large.pngDe 1279 à 1368, c’est la domination d’une dynastie mongole, les Yuan. Pékin devient la capitale de l’empire sous Qubilaï Khan. Entre 1274 et 1281, les Mongols avaient tenté d’inclure le Japon dans leur orbe mais les vents du Pacifique, les kamikazes, s’étaient levés et avaient détruit la flotte mongole en mer, évitant au Japon une conquête violente et préservant, du coup, sa spécificité en Asie orientale. Les Mongols douteront dorénavant de leur propre invincibilité et les Japonais acquerront un sentiment d’invulnérabilité qu’ils garderont jusqu’en 1945.

 

Après la dynastie mongole des Yuan, vient la dynastie des Ming (1368-1644). Elle acquiert le pouvoir suite à une révolte paysanne contre les Mongols, donc à une insurrection de la substance han autochtone face à un pouvoir étranger. Ming, chef de cette insurrection générale des populations rurales chinoises, devient empereur et règne sur environ 100 millions de sujets. Comme il n’y a plus de danger qui vient du Nord, la Chine des Ming se tourne alors vers la mer : Yong Ze envoie l’Amiral Zheng He sur les mers en 1405. Ce Zheng He est un géant de deux mètres de haut ; il est musulman et eunuque. Les arsenaux de l’Empire lui fournissent des navires de 150 mètres de long (ceux de Colomb n’en avaient que 30). L’objectif est-il la conquête de terres ? Non. C’est une entreprise de « relations publiques » : Zheng He doit présenter la Chine et ses richesses dans le vaste monde. Cette orientation maritime sera de courte durée : dès 1433, l’Empereur décide d’interdire la construction de navires. Car les Mongols reviennent à la charge : toutes les ressources de l’Empire doivent dès lors être mobilisées pour conjurer ce danger venu du nord.

 

Carte_Chine_Ming.gifLes fonds alloués aux immenses navires de Zheng He sont consacrés à la Grande Muraille, à l’agriculture, aux champs de riz, à l’irrigation, aux canaux. La Chine n’aura plus de grands projets mondiaux : elle revient à ses valeurs paysannes, nées lors de la période axiale de son histoire. Durant l’ère Ming, des contacts auront lieu entre Européens et Chinois par l’intermédiaire de l’Ordre des Jésuites. Matteo Ricci, jésuite italien, amorce une politique de conversion, faisant, dès ce moment-là, du christianisme un facteur qui compte en Chine. C’est aussi l’époque où notre compatriote, le Père Verbist, deviendra le principal astronome de la cour chinoise. Pour convertir la Chine, il aurait fallu forger un syncrétisme. Le Pape a refusé. L’Empereur n’a pas compris ce refus pontifical. Le christianisme sera interdit en 1724.

 

Le siècle de la honte

 

Après les Ming, ce sera la dynastie Qing qui règnera sur la Chine, de 1644 à 1911. Les Qing sont Mandchous. Ils font fermer les ports pour mettre la Chine à l’abri des pirates du Pacifique. La Chine se ferme en même temps à tout commerce extérieur. En 1800, elle compte déjà 350 millions d’habitants. Elle connaît pour la première fois dans son histoire le problème de la surpopulation, entrainant des tensions sociales et infléchissant le pays dans son ensemble vers une phase de déclin. Le 19ème siècle sera ainsi, pour les Chinois, le « siècle de la honte ». En 1793, Georges III d’Angleterre veut inaugurer des relations avec l’Empire chinois : il envoie un certain Lord MacCartney pour négocier à Pékin. Mais cet ombrageux Ecossais refuse de se prosterner devant l’Empereur, qui, ensuite, refuse d’entretenir des relations avec l’Angleterre. Les Anglais vont venger l’affront fait à la dignité de leur ambassadeur en faisant entrer de l’opium en contrebande en Chine, où la consommation de cette drogue était interdite. L’objectif était de briser la volonté chinoise d’autarcie en pourrissant la population, en lui ôtant tout ressort. Les Anglais vendent tant d’opium qu’une majorité de Chinois sombre dans la toxicomanie. Petit à petit la balance commerciale penche en faveur de la Grande-Bretagne. En 1839, les Chinois réagissent : le haut fonctionnaire impérial Lin Zexu fait détruire les stocks d’opium qui se trouvent à Canton et fait arrêter des négociants étrangers : les Anglais déclarent la guerre. Ce sera la première guerre de l’opium. Elle durera trois ans et se soldera par une victoire britannique. En 1842, Hong Kong est cédé pour 99 ans à la Couronne britannique. Celle-ci se ménage également des facilités dans un grand port comme Shanghai (où le quartier européen jouit d’extra-territorialité). En 1858, Français et Anglais mènent la deuxième guerre de l’opium, forçant, après leur victoire, la Chine à libéraliser son commerce et à s’ouvrir aux missions catholiques françaises (nous ne sommes pas encore à l’époque de la IIIème République maçonnique). Les soldats des deux puissances européennes pillent le palais d’été de Pékin et détruisent la bibliothèque impériale. 

 

Taiping2.png

Pour affaiblir encore le pouvoir impérial, Français et Anglais favorisent le soulèvement des Tai Ping. De 1853 à 1864, à l’appel d’un leader converti à une sorte de christianisme protestant, de larges strates de la population se soulèvent contre les empereurs mandchous, entendent abolir toutes les formes d’esclavage et toutes les modes jugées désuètes (comme l’atrophie des pieds des filles et les longs cheveux pour les hommes) et introduire comme idéologie d’Etat un fondamentalisme chrétien et protestant. Cette guerre civile fera vingt millions de morts, soit 5% de la population. En fin de compte, les Français et les Anglais volent au secours de l’Empereur, dès le moment où le pouvoir éventuel des révolutionnaires s’avère anticipativement plus dangereux que celui, écorné, de la dynastie mandchoue. Les Occidentaux abandonnent leur golem. Plus tard, les Boxers reprennent le relais : ils ne sont plus chrétiens, comme les adeptes de Tai Ping, ils s’adonnent aux arts martiaux chinois et cultivent une xénophobie sourcilleuse, y compris contre les importations utilitaires des Européens, comme le chemin de fer et le télégraphe. La Chine ne connaît pas une « Ere Meiji » comme le Japon à partir de 1868. En 1911, la Chine devient une république, mais l’avènement de cette république sera suivi de trente-sept années de chaos, de guerres civiles, sur fond d’occupation japonaise. Les nationalistes s’opposeront aux communistes, mais tous s’entendront pour se débarrasser du dernier représentant de la dynastie mandchoue, Pu Yi.

 

 

 

 

 

De la prise du pouvoir par les communistes à l’alliance américaine

 

En 1949, la Chine devient communiste sous la houlette de Mao Tse Toung, qui met un terme aux luttes entre factions, en exilant les derniers partisans de Tchang Kai Tchek sur l’île de Formose, qui deviendra Taiwan. En 1958, les troupes de Mao envahissent définitivement le Tibet dont la conquête progressive avait commencé quelques années plus tôt. 1958 est aussi l’année de la rupture avec l’Union Soviétique. Le pouvoir de Mao étant battu en brèche par d’autres forces à l’intérieur du PC chinois, le « Grand Timonier » déclenche une « révolution culturelle » en 1966, qui s’inspire partiellement de la révolte de Tai Ping (les maoïstes disent « oui » à ses tentatives de modernisation mais « non » à son christianisme) et de la révolte des Boxers (les maoïstes refusent l’anti-modernisme technophobe des Boxers mais acceptent leur refus de toute influence étrangère). En 1968 et 1969, les armées chinoises s’opposent aux armées soviétiques en Mandchourie, le long du fleuve Amour. Les Chinois ont le dessous et songent à changer d’alliance : les Soviétiques sont accusés systématiquement de « révisionnisme », de propager un marxisme édulcoré, dépouillé de sa vigueur révolutionnaire. En 1972, la Chine renoue avec les Etats-Unis et devient l’alliée de revers de Washington contre l’URSS de Brejnev. Les règles de la géopolitique triomphent dès cette année-là des discours idéologiques.

 

Les problèmes actuels de la Chine sont :

1)     Le Tibet, qui fut, à certains moments de l’histoire, un grand empire qui comprenait également de vastes territoires han, dans l’est de la Chine proprement dite. Le Tibet possède donc une identité différente de la Chine et celle-ci recèle dans ses provinces orientales des éléments qui ne sont pas purement han.

2)     Le Sinkiang, ou « Turkestan chinois », où vivent les Ouïghours turcophones et musulmans, anciens alliés des empereurs Tang, aujourd’hui ennemis du pouvoir établi à Pékin (qui considère dès lors cette volteface ouïghour comme une trahison  à l’endroit de l’histoire chinoise).

Les problèmes du Tibet et du Sinkiang sont des problèmes réels, indubitablement, mais ils servent surtout, dans le contexte actuel, à miner la cohésion de la partie centrale de l’Eurasie. L’indice le plus patent de cette stratégie de fractionnement est la présence d’agitateurs fondamentalistes wahhabites au Sinkiang. Le conflit entre les Etats-Unis et les réseaux de Ben Laden est peut-être réel dans la péninsule arabique ou en Afghanistan mais complètement fictif ailleurs, quand il s’agit d’affaiblir la Russie, la Chine ou leurs alliés en Asie centrale. En Tchétchénie, au Daghestan et au Sinkiang, les réseaux wahhabites travaillent bel et bien pour la stratégie de balkanisation de l’Eurasie, voulue par Washington. C’est potentiellement le cas en Tatarie et en Bachkirie aussi.

 

La réforme de Deng Xiaoping : une perestroïka sans glasnost

 

Le sinologue et géopolitologue français Jean-François Susbielle analyse le rôle de Deng Xiaoping dans le renouveau chinois, après la parenthèse maoïste. Dès 1977, Deng Xiaoping tolère que s’expriment des voix critiques et abolit le culte de la personnalité qui avait quelque peu ridiculisé le maoïsme. Deng Xiaoping se veut surtout un pragmatique. Jugeons-en par ces quelques citations que Susbielle met en exergue :

« Il n’est pas important que le chat soit blanc ou gris : il doit capturer les souris ». Cette citation montre que Deng Xiaoping ne juge pas l’idéologie importante : seules comptent la pratique et l’efficacité.

« La pratique est le seul critère de vérité ».

« Pas de débat : c’est là mon invention ».

« Il faut traverser la rivière en tâtant chaque pierre du pied ».

Sun Tzu : « Dissimuler ses intentions et ses forces ».

 

L’entrée de la Chine dans l’ère postcommuniste est différente que celle qu’avait préconisé Gorbatchev en URSS, rappelle fort opportunément Susbielle. Celui-ci avait annoncé la « glasnost » (la transparence) et la « perestroïka » (la restructuration). La Chine, elle, a opté pour la « perestroïka » sans la « glasnost ». Par conséquent, elle a échappé à la crise russe qui a sévi pendant dix ans avant que Poutine ne prenne les choses en mains. Les Chinois semblent meilleurs disciples de Carl Schmitt que les Russes : ils évitent toute culture stérile du débat, de la discussion interminable (Donoso Cortès), et maintiennent les arcanes de leur politique à l’abri des regards (le secret selon Schmitt). L’objectif de Deng Xiaoping est de revenir à la situation optimale de la Chine à la fin du 18ème siècle. A cette époque, la Chine, l’Inde et le Japon comptaient à trois pour 50% de l’économie mondiale. La Chine, en outre, représentait 35% de la population mondiale et 28% de la production.

 

Deng-Xiaoping.jpgAtteindre l’objectif que s’est fixé Deng Xiaoping passe par une restructuration des relations entre peuples de la masse continentale eurasienne. L’instrument de cette restructuration est le « Groupe de Shanghai », d’une part, et le BRIC (Brésil, Russie, Inde, Chine), d’autre part. Face à ces relations inter-eurasiennes ou eurasiennes/latino-américaines, l’américanosphère table sur une instrumentalisation militante et offensive de l’idéologie des droits de l’homme. Pour l’idéologie occidentale, qui s’estime affranchie de toute croyance de nature religieuse, les droits de l’homme sont des principes intangibles au même titre que ceux des théologiens fondamentalistes chrétiens ou musulmans. En réalité, derrière cette nouvelle religion occidentale, rigide parce que refusant toute interprétation différente ou toute adaptation pragmatique, se profile un cynisme mu par des intérêts économiques et géopolitiques. Le Président américain Jimmy Carter avait recréé cette idéologie de toutes pièces pour miner la cohésion de l’URSS ou pour subvertir tous les Etats hostiles aux Etats-Unis et tous les régimes insuffisant dociles. La Chine a toujours bien perçu cette nouvelle idéologie occidentale comme un instrument d’immixtion permanente dans les affaires des autres pays. Elle a riposté en estimant que chaque aire dominée par un hégémon particulier (ou chaque espace civilisationnel) devait pouvoir interpréter les droits de l’homme à sa manière, selon ses propres critères et donc, in fine, selon des critères nés lors de la « période axiale » de l’histoire spécifique de cette aire civilisationnelle. La Chine a opté pour le polycentrisme des valeurs et pour la pluralité des interprétations des droits de l’homme. Ceux-ci ne peuvent servir à subvertir les fondements des civilisations autres que l’Occident.

 

Dans l’Océan Pacifique, la Chine nouvelle du capitalisme dirigé cherche à s’emparer de Formose (Taiwan) et des îles de la Mer de Chine méridionale : elle risque là une confrontation directe avec l’Amérique. Face à l’Inde, autre géant économique potentiel au marché intérieur immense, la Chine garde un contentieux dans l’Himalaya. En 1962, une guerre sino-indienne avait tourné à l’avantage des Chinois, maîtres du Tibet, qui occupent depuis lors une partie du territoire indien, située très haut dans la chaine de l’Himalaya. L’Inde, quand elle était entièrement dominée par le Parti du Congrès, était un allié tacite de l’URSS, qui lui fournissait des armes contre le Pakistan musulman allié des Etats-Unis et contre la Chine, hostile au « révisionnisme » soviétique. L’Inde reçoit toujours des armes russes mais elle commence depuis peu à en recevoir des Etats-Unis. Le Pakistan, ennemi héréditaire de l’Inde, reste un allié de la Chine même si le fondamentalisme islamiste menace les intérêts chinois dans le Sinkiang. En Afrique, la Chine risque aussi une confrontation directe avec les Etats-Unis, car les deux puissances briguent les richesses minérales du continent noir et les richesses halieutiques de ses mers (dont l’Europe a également besoin). Avec la Russie, tout va bien pour le moment mais il y a un risque potentiel : la conquête progressive de l’espace sibérien par le trop-plein démographique chinois. Certes, la Chine et la Russie subissent un déclin démographique ; la Chine n’a jamais eu l’intention de conquérir la Sibérie mais la donne peut changer sous la pression des faits.

 

Sur le plan économique, l’accroissement démesuré de l’industrie chinoise crée une pollution de grande ampleur, contraire à l’éthique chinoise traditionnelle de gestion optimale et mesurée de l’environnement. Actuellement la Chine pollue plus que les Etats-Unis. Pour l’Europe, le danger chinois vient de la délocalisation et du dumping qui en découle. Mais là la balle est dans notre camp : c’est à nous à prendre des mesures contre les délocalisations (en Chine et ailleurs), contre ceux qui les pratiquent au détriment de nos propres tissus sociaux.

 

Conclusion : l’histoire de la Chine démontre la récurrence potentielle de tous les problèmes qui peuvent affecter une civilisation. L’histoire de la Chine est centripète, tandis que celle de l’Europe est centrifuge. Malgré ses faiblesses passagères, comme celle qui l’a marquée profondément pendant le « siècle de la honte », la Chine a tous les réflexes mentaux pour retomber sur ses pattes. L’Europe est dépourvue d’une telle force. L’anarchie et le chaos règnent dans les esprits en Europe. L’Europe attend toujours son Qin Shi Huang Di. Il aurait pu être Charles-Quint mais ce ne fut pas le cas car l’Empereur né en 1500 dans les murs de cette bonne ville de Gand a été torpillé par son rival François I, par les émeutiers protestants et les manigances du pape Clément. En attendant, malgré l’illusion que procure une UE sans projet, l’Europe n’a toujours pas dépassé le stade des guerres entre « duchés combattants ».

 

Robert STEUCKERS.

 

Notes :

(1)    Karl Jaspers patronnera également la thèse d’Armin Mohler sur la « révolution conservatrice » allemande entre 1918 et 1932. Armin Mohler parle, tout comme le promoteur de sa thèse de doctorat, de « période axiale » de l’histoire, où les valeurs dominantes, en l’occurrence celles de la révolution française et des Lumières qui l’ont précédée, sont battues en brèche par de nouvelles valeurs, qui appelle de nouvelles formes politiques.

(2)    La centralité de la Chine dans le monde implique que les Chinois estiment ne pas avoir d’ancêtres dans d’autres parties du monde. Sur le plan de la raciologie, cette prise de position actuelle, découlant tout naturellement de l’idée de la centralité de la Chine née à la période axiale de l’histoire chinoise, implique le polygénisme. Les Chinois n’acceptent donc pas la théorie monogéniste de l’émergence de l’homme en Afrique, au départ de « Lucy ».

 

Bibliographie :

-          Jean-François SUSBIELLE, Les royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale, First Editions, Paris, 2008.

-          Jordis von LOHAUSEN, Mut zur macht – Denken in Kontinenten, Vowinckel, Berg am See, 1979.

-          Karen ARMSTRONG, The Great Transformation – The World in the Time of Buddha, Socrates, Confucius and Jeremiah, Atlantic Books, London, 2006.

-          SPIEGEL SPECIAL, China – Die unberenchenbare Supermacht, Nr. 3/2008.

-          COURRIER INTERNATIONAL, n°995 (26/11 au 02/12 2009).

lundi, 03 janvier 2011

Vers l'intégration transatlantique?

Andrea PERRONE :

Vers l’intégration transatlantique ?

 

Les Etats-Unis cherchent à intégrer l’Union Européenne dans un espace économique et juridique sous leur entière hégémonie

 

europe_usa-274x300.jpgLes Etats-Unis planifient l’intégration de l’Union Européenne dans leur propre espace économique et juridique, en accord avec les législateurs de Bruxelles et de Strasbourg. Washington espère ainsi construire un marché puissant de 800 millions de citoyens sous le régime normatif et hégémonique du seul droit américain.

 

Lors d’une réunion commune entre Américains et Européens dans le cadre du « Conseil Economique Transatlantique » (CET), les Etats-Unis et l’UE ont mis au point un projet pour élaborer des critères communs dans de nouveaux secteurs comme le développement de la production technologique, la nanotechnologie et les automobiles électriques. Réunion qui a suscité un grand enthousiasme chez les fonctionnaires américains…

 

Les Etats-Unis et l’Union Européenne ont décidé de développer un « système d’alerte précoce », grâce auquel tant Bruxelles que Washington s’échangeront des connaissances sur les nouveaux systèmes de régulation en chantier, en particulier pour tout ce qui concerne les produits de haute technologie.

 

Les règles ne seront pas d’emblée les mêmes pour les deux parties concernées, mais celles-ci ont néanmoins décidé d’arriver à « une coopération accrue sur le plan normatif ». Au cours de la réunion, les parties se sont mises d’accord sur une série de principes communs qui devront encadrer la réglementation future : cette série comprend la transparence, la participation publique et la réduction au minimum des charges pour les entreprises. Les parties se sont également penchées sur « une approche sur base scientifique » des futures réglementations concernant les nouvelles technologies. Un forum commun continuera à travailler sur le développement des principes communs et sur les pratiques qui serviront à établir ultérieurement les réglementations, afin d’arriver à un accord sur la question en février 2011.

 

L’objectif est de permettre aux experts d’identifier où les parties veulent en venir dans le projet, comment elles pourront collaborer dans l’élaboration de règles, de normes et de procédures. Les Etats-Unis, pour leur part, fourniront à leurs partenaires un projet de réglementation dans les jours prochains. L’UE devra y répondre dans les plus brefs délais. Les progrès enregistrés dans la création d’un grand marché transatlantique ont été favorisés par l’action d’un institut euro-américain, le « Transatlantic Policy Network » (TPN), fondé en 1992. Cet institut réunit des parlementaires européens, des membres du « Congrès » américain et des entreprises privées afin que, de concert, ils puissent œuvrer à la création d’un bloc euro-américain aux niveaux politique, économique et militaire. Cette stratégie d’intégration reçoit l’appui de nombreuses « boites à penser » (think tanks) comme l’Aspen Institute, l’European-American Business Council, le Council of Foreign Relations, le German Marshall Fund et la Brookings Institution. Plusieurs multinationales américaines et européennes soutiennent financièrement le projet comme Boeing, Ford, Michelin, IBM, Microsoft, Daimler Chrysler, Pechiney, Siemens, BASF, Deutsche Bank et Bertelsmann. Le but du soutien politique et économique au projet est donc la naissance d’un grand marché transatlantique, fondé sur la suprématie du droit américain. En mai 2008, le Parlement Européen a approuvé une résolution qui légitime le projet pour l’année 2015 et vise à l’élimination de toutes les barrières imposées jusqu’ici au commerce, comme les douanes ou autres balises de nature technique ou procédurière ; cette résolution vise également à libéraliser les marchés publics, les droits de propriété intellectuelle et certains investissements. L’accord prévoit l’harmonisation progressive des normes et des règles sur les deux rives de l’Atlantique, afin de sanctionner une fois de plus la domination absolue des Etats-Unis sur l’Europe.

 

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu ; article tiré de « Rinascita », Rome, 22 décembre 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

dimanche, 02 janvier 2011

Russie/Inde: énergie nucléaire et clairvoyance géopolitique

Pietro FIOCCHI :

Russie/Inde : énergie nucléaire et clairvoyance géopolitique

 

La Russie est favorable à un siège indien au Conseil de Sécurité de l’ONU

 

Medvedev_in_India.jpgLe chef du Kremlin, Dimitri Medvedev s’est rendu récemment à Nouvelle Delhi pour une visite de quelques jours durant lesquels, disent les sources gouvernementales indiennes, les partenaires russes et indiens signeront de nombreux contrats, pour une valeur totale de 30 milliards de dollars, surtout dans les domaines de la défense et de l’énergie nucléaire.

 

La Russie et l’Inde ont conclu divers accords relatifs à la construction de deux réacteurs nucléaires de technologie russe, qui seront installés dans l’Etat de Tamil Nadu. Le porte-paroles du ministère indien des affaires étrangères, Vishnu Prakash, a déclaré « qu’il ne s’agissait pas d’un simple accord commercial, car les parties contractantes cherchent à développer des projets liés à la recherche, au développement et à la production commune ». Le ministre des affaires étrangères indien, S. M. Krishna, a indiqué que, parmi les thèmes inscrits à l’ordre du jour, il y a également la lutte contre le terrorisme et la situation dans la région actuellement en ébullition, à cheval sur l’Afghanistan et le Pakistan.

 

Sur le plan plus strictement politique, une nouveauté émerge, qui était déjà dans l’air : la Russie, désormais, est entièrement favorable à un siège indien permanent au Conseil de Sécurité de l’ONU. Medvedev, à la fin d’une cérémonie tenue à l’occasion de la signature de onze accords et memoranda bilatéraux, a déclaré que « l’Inde mérite pleinement d’être candidate à un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU, dès que l’on aura pris la décision de réformer cet organisme ».

 

La visite de Medvedev en Inde coïncide avec le dixième anniversaire de la Déclaration de Delhi, qui avait consacré le partenariat stratégique entre les deux pays. Une période pendant laquelle « les liens entre les deux Etats ont permis d’atteindre de nouveaux stades, y compris sur le plan des principes », a dit Aleksandr Kadakin, ambassadeur russe en Inde. Les liens ont sextuplé en l’espace d’une décennie et le niveau désormais atteint par les échanges économico-commerciaux est notable. Cette fois-ci, cependant, le bond en avant ne doit être attribué aux échanges de matières premières mais à toutes les innovations qu’autorise une coopération accrue.

 

Les exportations russes consistent principalement en armes de haute technologie, à des infrastructures destinées au lancement de satellites et à des équipements pour centrales atomiques. Les projets de haute technologie, comme celui des avions de chasse de la cinquième génération ou celui du système de navigation satellitaire Glonass, sont le fruit de recherches conjointes entre Russes et Indiens. A cela s’ajoute un accroissement de la coopération entre les deux pays en matière de recherche spatiale, notamment de projets lunaires, de missions spatiales habitées et d’un satellite baptisé « Youth Sat ». Tous ces projets ne sont que les fleurons de la coopération industrielle entre Nouvelle Delhi et Moscou.

 

Pietro FIOCCHI.

( p.fiocchi@rinascita.eu ; article tiré de « Rinascita », Rome, 22 décembre 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).