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lundi, 21 avril 2008

Gli Arii nell'Oceano Pacifico

Gli Arii nell’Oceano Pacifico

1937evola_copertina.jpgDi Alfonso De Filippi

Chi avrà letto Il mito del sangue di Julius Evola (se ne veda l’edizione del 1942 riproposta nel 1995 dalle edizioni SeaR di Borzano) ricorderà certamente l’esposizione fatta dall’Autore delle affascinanti (e troppo spesso eccessivamente fantasiose) teorie di Herman Wirth. Lo studioso olandese, dopo aver evocato la famosa “Patria Artica” e l’Atlantide di Platone aveva supposto che numerose migrazioni avessero portato gli Arii fin nelle regioni più remote se non nell’Australia (Evola, op. cit., p. 177).

Senza risalire, almeno per ora, a tempi così remoti (e “favolosi”), possiamo dire che gli esploratori europei ebbero spesso modo di notare tra gli isolani del Pacifico, specie tra i ceti più elevati, elementi assai simili agli Europoidi. Nel suo Viaggio attorno al mondo (1772) il francese Louis Antoine Comte de Bouganville scriveva che “gli abitanti di Thaiti consistono in due razze di uomini molto diverse tra loro… la prima produce uomini di grande taglia, ed è molto comune vederli misurare dal metro e 80 di altezza in su. Non ho mai visto uomini fatti meglio. La seconda razza è di taglia media, con capelli crespi e non differiscono molto, per il colore della pelle, dai mulatti” (cit. da A. Salza, Atlante delle popolazioni, ed. Garzanti, Milano 1997, p. 259).

Più recentemente l’antropologo francese Luois Figuier (Le razze umane, fratelli Treves, Milano 1874) scriveva a proposito degli abitanti della Micronesia: “I capi… sono più bianchi e meglio fatti degli altri isolani” (p. 244), e intorno alle donne di Thaiti (p. 240): “Il colore della loro pelle ordinariamente color rame chiaro. Alcune tuttavia sono rimarchevoli per la bianchezza e specialmente le spose dei capi”. C.P. Masica, The Indo-Aryan Languages L’italiano M. Canella nel suo Razze umane estinte e viventi (Sansoni, Firenze 1942, p. 248) scriveva: “…il biondismo dei Polinesiani, frequente pare in passato e del quale si è conservato il ricordo nelle tradizioni e nei miti, ha fatto supporre l’esistenza di un elemento nordico e protonordico nei loro antenati”.

Altri dati li forniva Alain de Benoist nel suo Visto da Destra (Akropolis, Napoli 1981, p. 91): “In un resoconto di Pedro Fernandez de Quiros, che fu pilota di Alvaro Mendana de Neira all’epoca in cui questi scoprì le Isole Salomone, si può leggere che “Gli indigeni dell’Isola della Maddalena sono quasi bianchi. Hanno i lineamenti regolari e gradevoli, dei begli occhi, lo sguardo dolce, i denti bianchi e ben sistemati. La maggioranza ha capelli biondi…”. Esistono decine di testimonianze di questo genere che riguardano le isole Sandwich, le Molucche, le Marchesi… ancora nel 1902 Paul Huguenon osservava che le famiglie dei grandi capi di Nouka Hiva (una delle Isole Marchesi) si chiamano Arri, il loro colorito è più chiaro, gli occhi sono bluastri, i capelli tendono verso il rosso”. Abbiamo ripreso questi vecchi appunti dopo la lettura di R. Thorsten, Lords of the Soil. The Story of Turehv. The White Tangata Whenua, edito dalla neozelandese Spectrum Press e ottenibile dalla Renaissance Press (P.O. box 1627 Papaparaumu Beach, New Zealand - di quest’ultima segnaliamo il catalogo assai interessante).

L’autore inizia prendendo in esame alcune leggende dei Maori della Nuova Zelanda in cui si fa cenno, talvolta in toni fiabeschi, a genti che avrebbero preceduto i Maori stessi nell’occupazione di tali isole così da poter essere considerati gli autentici “Signori della Terra” o “Tangata Whenua”. Costoro, talvolta, verrebbero descritti di carnagione chiara, capelli biondi o rossi e occhi azzurri. Trasparirebbe perciò il ricordo di abitatori precedenti detti anche “Turehu” o “Patapairehe”, i cui caratteri “caucasoidi” riapparirebbero saltuariamente, ancor oggi, tra i Maori anche dove questi sarebbero, ancora, immuni da incrocî coi i successivi colonizzatori europei. Le leggende narrerebbero anche di una sanguinosa battaglia detta “dei 5 forti” nella quale i Maori travolsero le difese dei loro predecessori bianchi. Per tentare una spiegazione l’autore tratta delle ardite ipotesi del famoso Thor Heyerdal che credeva di poter collegare i “Bianchi” delle isole del Pacifico con quegli individui assai simili agli europei che gli invasori spagnoli avrebbero notato tra l’aristocrazia dell’Impero Inca. Scriveva l’Heyerdal (Aku-Aku, ed. Martello, Milano 1958, pp. 413-414): “Quando gli Spagnoli scoprirono il Regno degli Incas, Pedro Pizarro scrisse che, sebbene gli Indiani della Ande fossero scuri e di piccola statura i componenti della famiglia regnante degli Incas erano alti e di pelle più chiara degli stessi Spagnoli”.

Lo studioso norvegese ipotizzava infatti un preistorico impero marittimo nordeuropeo esteso a gran parte del mondo. Se è discutibile l’ipotesi di migrazioni dal Sud America al Pacifico, sono senz’altro interessanti le pagine che l’Heyerdal dedicò all’Isola di Pasqua (Rapa Nui). La cultura di quest’isola sarebbe crollata anche a causa della lotta che avrebbe opposto una casta dirigente di aspetto simile a quella degli Europei (le “orecchie lunghe”) a una popolazione più scura (le “orecchie corte”). Ma le vicende di Rapa Nui meritano, senz’altro, che vi si ritorni in futuro.

Il Thorsten chiedendosi a quanto remota antichità possa risalire la presenza di bianchi nelle isole del Pacifico giunge a ipotizzare che essa possa, in primo luogo, ricollegarsi all’espansione della “cultura megalitica” alla quale potrebbero attribuirsi varî siti archeologici, in realtà alquanto misteriosi, presenti in alcune isole del Pacifico. A proposito egli cita un significativo brano dal volume del prof. J. Mc Millan Brown, Maori and Polinesian: “… questa abilità nel trasportare enormi lastre di pietra nei tempi antichi deve essere stata… possesso di un determinato tipo di uomini.

Non si tratta di uno stadio nell’evoluzione di tutte le razze. Le uniche zone abitate da mongolodii in ui se ne ritrovano tracce sono le steppe dell’Asia, la Siberia meridionale, la Mongolia, la Manciuria, la Corea, il Giappone e la Malesia, l’America Centrale e il Perù. E l’esistenza di genti dal cranio allungato, capelli ondulati e carnagione chiara in parti isolate di queste regioni indica che lo strato mongoloide è posteriore rispetto a un caucasoide precedente. Dovunque… la traccia della Civiltà Megalitica appare, si può dedurre che ivi sia stata presente la parte caucasica dell’Umanità. In breve si può dire che si tratti di una traccia caucasica attraverso il pianeta”. Lasciando da parte il fatto che il termine “caucasico” è ormai del tutto superato, si può dire che tutto ciò sia assai suggestivo anche se necessitante di ulteriori prove. J. P. Mallory (ed.), Encyclopedia of Indo-European Culture Proseguendo, il Nostro ipotizza che la stessa Nuova Zelanda sia stata raggiunta, nell’antichità, da navigatori fenici ed egizî.

Più che di Egizî, secondo l’Autore, si dovrebbe parlare di Egitto-libici. Sarebbero stati discendenti di quei “Popoli del Mare” che avevano tentato di invadere il Delta del Nilo verso il 1200 a.C. e che, a quanto pare, sarebbero stati, almeno in parte, indoeuropei. Scriveva J. Vercoutter ne L’Antico Egitto (Garzanti, Milano 1960, p. 84): “Tribù ariane si erano sparse in tutta l’Europa meridionale e traversando il mare erano venute a occupare la Libia. Subito cominciarono a cercare di infiltrarsi in Egitto”. Dei “Popoli del Mare” scriveva Gerard Herm (Il mistero dei Celti, Garzanti, Milano 1975): “A contingenti (dei “Popoli del Mare”, N.d.A.) riuscì di fondare la Lega delle Città Filistee… mentre altri si unirono nel Libano ai Cananei aiutandoli all’edificazione del loro Impero commerciale, quello fenicio… erano infatti in grado di costruire navi necessarie per una simile impresa, molto meglio di qualsiasi altro popolo indigeno del Mediterraneo”. È anche da pensare a influssi dell’India, è infatti possibile che l’espansione indù che fu all’origine della civiltà Khmer nell’attuale Cambogia ed ebbe grande influenza sulle culture indonesiane, sia giunta anche a toccare l’Oceania.

E, infine, non si vede perché non si possa ipotizzare che i Vichinghi siano giunti molto più lontano di quanto comunemente si pensi. Ipotesi affascinanti sulle quali potremo ritornare più dettagliatamente in futuro. Quello che ci pare l’aspetto più significativo è il fatto che le testimonianze degli esploratori europei sulla presenza di elementi più o meno simili agli Europei riguardino soprattutto le famiglie dei capi e le “aristocrazie” in genere. Fenomeni simili si riscontrano anche nel sistema indiano delle caste, tra le varie popolazioni africane e, mutatis mutandis, tra gli Afro-americani degli USA. È un fatto sul quale invitiamo i lettori a riflettere.

Alfonso De Filippi

Tratto da Algiza 14, pp. 8-9.

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dimanche, 20 avril 2008

Semitic Monotheism : Root of Intolerance in India

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SEMITIC MONOTHEISM:
THE ROOT OF INTOLERANCE IN INDIA

By S. GURUMURTHY (from : http://www.bjp.org )

S. Gurumurthy argues that the monotheistic Semitic religions of what he calls "the West" brought intolerance to India. Traditionally, Gurumurthy argues, Indian culture was characterized by a liberal pluralism stemming from the polytheism of Hindu beliefs.

In the history of human civilization there have been two distinct ways of life -- the eastern and the Semitic. If we look at the history of India and of its people on the one hand and at the history of Semitic societies on the other, we find a glaring difference. In India the society and individual form the center of gravity, the fulcrum around which the polity revolves, and the state is merely a residuary concept. On the other hand, in the Semitic tradition the state wields all the power and forms the soul and the backbone of the polity. In India, temporal power was located in the lowest units of society, which developed into a highly decentralized social network. This was the very reverse of the centralized power structures that evolved in the Semitic tradition of the West. We had decentralizing institutions, of castes, of localities, of sects belonging to different faiths; of groups of people gathering around a particular deity or around a particular individual. Society was a collection of multitudes of self-contained social molecules, spontaneously linked together by socio spiritual thoughts, symbols, centers of pilgrimage, and sages. In the West the most important, and often the only, link between different institutions of the society was the state.

THE RESIDUAL STATE

Of course, the state also existed in India in the past, but only as a residual institution. It had a very limited role to perform. Even the origin of the state is said to be in the perceived necessity of an institution to perform the residual supervisory functions that became necessary because a small number of people could not harmonize with the rest in the self- regulating, self-operating and self powered functioning of the society. The state was to look after the spill-over functions that escaped the self-regulating mechanisms of the society. The Mahabharata, in the Santiparva, defines the functions of the state precisely thus. The state was to ensure that the one who strays away from public ethics does not tread on others. There was perhaps no necessity for the state at one point in our social history. The evolution of society to a point where certain individuals came to be at cross purposes with the society because of the erosion of dharmic, or ethical values, introduced the need for a limited arbiter to deal with "outlaws" who would not agree to be bound by dharma. That task was entrusted to the state. This appears to be the origin of the state here. So the society or the group, at whatever level it functioned, was the dominant reality and the state was a residual authority. The society had an identity distinct from the state. Social relations as well as religious and cultural bonds transcended the bounds of the state.

DHARMA VS. SOCIAL CONTRACT

People in the Semitic society, on the other hand, seem to have burdened themselves with the state the moment they graduated from tribalism and nomadic life to a settled existence. Thus the Semitic society never knew how to live by self-regulation. People never knew how to exist together unless their lives were ordered through the coercive institution of the state. The concept of self-regulation, the concept of dharma, the personal and public norms of action and thought that we have inherited from time immemorial, did not have any chance to evolve. Instead what evolved, for example in the Christian West, was the "social contract" theory of the state. And this became the basis of the nation state that dominated during the era of Western hegemony. But even before that, a mighty state, a nation-less state, had already evolved in the West. It was a state that cut across all nations, all societies, all ethnicities, all faiths, all races. This was the kind of state developed by the Romans. The statecraft of the Romans purveyed power and power alone. Later, after the collapse of the nationless state, tribal nationalism began to be assertive. This nation state, whose power was legitimated according to socio-religious criteria, became the model for the Semitic society. Far from being an arbiter, the state became the initiator, the fulcrum of the society.

STATELY RELIGION

Western society thus became largely a state construct. Even geography and history began to follow state power. In the scheme of things, the king symbolized total power, the army became crucial to the polity, and the police indispensable. The throne of the king became more important than the Church, and his word more important than the Bible, forcing even the Church to acquire stately attributes and begin competing with the state. That is why the first Church was founded in Rome. Because of the social recognition of state power and the importance that it had acquired, religion had to go to the seat of the state. That is how Rome, and not Bethlehem, became the center of Christian thought. The Church developed as a state-like institution, as an alternative and a competing institution. The Church began to mimic the state, and the Archbishop competed with the King. And finally religion itself became a competitor of the state. Naturally there were conflicts between these two powerful institutions -- between the state and the Church, and between the King and the Archbishop. Both owed allegiance to the same faith, the same book, the same prophet -- and yet they could not agree on who should wield ultimate power. They fought in order to decide who amongst them would be the legitimate representative of the faith. And, in their ^ght, both invoked the same God. The result was a society that was at war with itself; a society in which the stately religion was at war with the religious state. The result also was centralism and exclusivism, not only in thought, but also in the institutional arrangements. Out of such war within itself -- including between Christianity and Islam -- Semitic society evolved its centralist and exclusivist institutions that are now peddled as the panacea for the ills of all societies. As the monotheistic civilization rapidly evolved a theocratic state, it ruled out all plurality in thought. There could not be any doubt, there could not be a second thought competing with the one approved and patronized by the state, and there could not even be a second institution representing the same faith. The possibility of different religions or different attitudes to life evolving in the same society was made minimal. No one could disagree with the established doctrine without inviting terrible retribution. Whenever any semblance of plurality surfaced anywhere, it was subjected to immediate annihilation. The entire social, political and religious power of the Semitic society gravitated toward and became slowly and finally manifest in the unitary state. Thus single-dimensional universality, far more than plurality, is the key feature of Western society. The West, in fact, spawned a power-oriented, power-driven, and power-inspired civilization which sought and enforced thoughts, books, and institutions.

GUARDIAN SAGES

This unity of the Semitic state and the Semitic society proved to be its strength as a conquering power. But this was also its weakness. The moment the state became weak or collapsed anywhere, the society there also followed the fate of the state. In India, society was supported by institutions other than the state. Not just one, but hundreds and even thousands of institutions flourished within the polity and none of them had or needed to use any coercive power. Indian civilization -- culture, arts, music, and the collective life of the people guardianship of the people and of the public mind was not entrusted to the state. In fact, it was the sages, and not the state, who were seen as the guardians of the public mind. When offending forces, whether Sakas or Huns or any others, came from abroad, this society -- which was not organized as a powerful state and was without a powerful army or arms and ammunition of a kind that could meet such vast brute forces coming from outside -- found its institutions of state severely damaged. But that did not lead to the collapse of the society. The society not only survived when the institutions of the state collapsed, but in the course of time it also assimilated the alien groups and digested them into inseparable parts of the social stream. Later invaders into India were not mere gangs of armed tribes, but highly motivated theocratic war-mongers. The Indian states, which were mere residues of the Indian society, caved in before them too. But the society survived even these crusaders. In contrast, the state-oriented and state-initiated civilizations, societies and cultures of the West invariably were annihilated with the collapse of the state. Whether the Romans, the Greeks or the Christians, or the later followers of Islam, or the modern Marxists -- none of them could survive as a viable civilization once the state they had constructed collapsed. When a Semitic king won and wiped out another, it was not just another state that was wiped out, but all social bearings and moorings of the society -- all its literature, art, music, culture and language. Everything relating to the society was extinguished. In the West of today, there are no remnants of what would have been the products of Western civilization 1500 years ago. The Semitic virtue rejected all new and fresh thought. Consequently, any fresh thought could prevail only by annihilating its predecessor. At one time only one thought could hold sway. There was no scope for a second.

EASTERN PLURALISM

In the East, more specifically in India, there prevailed a society and a social mind which thrived and happily grew within a multiplicity of thoughts. "Ano bhadrah kratavo yantu visatah" ("let noble thoughts come in from all directions of the universe") went the Rigvedic invocation. We, therefore, welcomed all, whether it was the Parsis who came fleeing from the slaughter of Islamic theocratic marauders and received protection here for their race and their religion, or the Jews who were slaughtered and maimed everywhere else in the world. They all found a secure refuge here along with their culture, civilization, religion and the book. Even the Shia Muslims, fearing annihilation by their coreligionists, sought shelter in Gujarat and constituted the first influx of Muslims into India. Refugee people, refugee religions, refugee cultures and civilizations came here, took root and established a workable, amicable relationship with their neighborhood. They did not -- even now they do not -- find this society alien or foreign. They could grow as constituent parts of an assimilative society and under an umbrella of thought that appreciated their different ways. When first Christianity, and later Islam, came to India as purely religious concerns, they too found the same assimilative openness. The early Christians and Muslims arriving on the west coast of India did not find anything hostile in the social atmosphere here. They found a welcoming and receptive atmosphere in which the Hindus happily offered them temple lands for building a church or a mosque. (Even today in the localities of Tamilnadu temple lands are offered for construction of mosques). It was only the later theocratic incursions by the Mughals and the British that introduced theological and cultural maladjustments, creating conflict between the assimilative and inclusive native ways of the East and the exclusive and annihilative instincts of Islam and even Christianity. Until this occurred, the native society assimilated the new thoughts and fresh inputs, and had no difficulty in keeping intact its social harmony within the plurality of thoughts and faiths. This openness to foreign thoughts, faiths and people did not happen because of legislation, or a secular constitution or the teachings of secular leaders and parties. We did not display this openness because of any civilizing inspiration and wisdom which we happened to have received from the West. Yet, we are somehow made to believe, and we do, that we have become a somewhat civilized people and have come to learn to live together in harmony with others only through the civilization, the language, the statecraft and the societal influence of the West! It is a myth that has become an inseparable component of the intellectual baggage that most of us carry.

SURVIVING THE SEMITIC ONSLAUGHT

Religious fanaticism, invaded us and extinguished our states and institutions, our society could still survive and preserve its multidimensional life largely intact. Our survival has been accompanied, however, with an extraordinary sense of guilt. In our own eyes, we remain a society yet to be fully civilized. This is because, as the state in India quickly became an instrument in the hands of the invaders and colonizers, we were saddled not just with an unresponsive state, but a state hostile to the nation itself. A state-less society in India would have fared better. Such a paradox has existed nowhere else in the history of the world. When we look at the history of any other country, we find that whenever an overpowering alien state came into being, it wiped out everything that it saw as a native thought or institution. And if the natives insisted on holding on to their thought and institutions, then they were wiped out. But the Indian society survived under an alien and hostile state for hundreds of years, albeit at the price of having today lost almost all initiative and self confidence as a civilization.

GIVE ME YOUR PERSECUTED

How did the assimilative Hindu cultural convictions fare in practice, not just in theory and in the archives? This is probably best seen by comparing the Iranians of today with the Parsis of India. A few thousand of them who came here and who now number 200,000 have lived in a congenial atmosphere. They have not been subjected to any hostility to convert, or to give up their cultural or even racial distinction. They have had every chance, as much as the natives had, to prosper and evolve. And they did. They have lived and prospered here for 1500 years, more or less the same way as they would have lived and prospered in their own lands, had those lands not been ravaged by Islam. Compare an average Parsi with an average Iranian. Does the Persian society today display any native attributes of the kind that the Parsis, living in the Indian society, have managed to preserve? One can ^nd no trace of those original native attributes in the Iranian society today. That is because not only the native institutions, native faiths and native literature, but also the native mind and all vestiges of native originality were wiped out by Islam. That society was converted and made into a uniform outfit in form, shape and mental condition. On that condition alone would Islam accept it. What Islam did to the natives in Egypt, Afghanistan and Persia, or what Christianity did to the Red Indians in America, or what Christianity and Islam did to each other in Europe, or the Catholics did to Protestants, or the Sunnis did to Shias and the Kurds and the Ahmedias, or what the Shias did to the Bahais, was identical. In every case the annihilation of the other was attempted -- annihilation of other thoughts, other thinkers and other followers. The essential thrust of the Semitic civilizational effort, including the latest effort of Marxist monotheism, has been to enforce uniformity, and failing that, to annihilate. How can the West claim that it taught us how to lead a pluralistic life? If you look at history, you find that they were the ones who could not, and never did, tolerate any kind of plurality, either in the religious or the secular domain. If it has dawned upon them today that they have to live with plurality, it must be because of the violence they have had to commit against themselves and each other. The mass slaughter which the Western society has been subjected to by the adherents of different religious thoughts and by different tyrants is unimaginable, and perhaps they are now sick of this slaughter and violence. But the view we get, and are asked to subscribe to, is that the "civilized" West was a peaceful society, and that we brutes down here never knew how to live at peace with ourselves and our neighbors until liberated by the literate. What a paradox!

TEMPORAL POWER

The foundation of the Semitic system is laid on temporal power. For acceptance and survival in this system even religion had to marry and stick to temporal authority at the cost of losing its spiritual moorings. It was with this power -- first the state power, which still later was converted into technological power -- that the Christian West was able to establish its dominance. This brute dominance was clothed in the garb of modernity and presented as the civilization of the world. The aggressively organized Western society, through its powerful arm of the state, was able to overcome and subordinate the expressions of the self- governing decentralized society of the East that did not care to have the protection of a centralized state. Our society, unorganized in the physical sense, although it was much more organized in a civilizational sense, had a more evolved mind. But it did not have the muscle; it did not have the fire power. Perhaps because of the Buddhist influence, our society acquired disproportionately high Brahmatejas, Brahminical piety and authority, which eroded the Kshatravirya, the temporal war-making power. So it caved in and ceded temporal authority to the more powerful state and the statecraft that came from outside. The society that caves in is, in terms of the current global rules, a defeated society. This society cannot produce or generate the kind of self-confidence which is required in the modern world.

DYNAMIC CHRISTIANS, STAGNANT MUSLIMS

The nation-state was so powerful, that other countries, like India, could not stand against it. And when the nation-state concept was powered by religious exclusivism it had no equal. When religion acquired the state, the church itself was the first victim of that acquisition. Christianity suffered from the Christian state. It had to struggle not only against Islamic states and Islamic society, but also against itself. As a consequence, it underwent a process of moderation. First, it experienced dissent, then renaissance through arts, music and culture. Thus Christianity was able to overcome the effect of theocratic statecraft by slowly evolving as a society not entirely identified with the state. First the state began to dominate over the Church on the principle of separation between the religious and temporal authorities. The result was the evolution of the secular state. Thus the King wrested the secular power from the Archbishop. Then through democratic movements following the French Revolution, the people wrested power from the King. Later commerce invaded public life as the prime thrust of the Christian West. The theocratic state abdicated in favor of a secular state, the secular state gave way to democracy and later democracy gave way to commerce. Then power shifted from commerce to technology. And now in the Christian West, the state and the society are largely powered by commerce and technology. The Christian West today is even prepared to give up the concept of the nation-state to promote commerce fueled by technological advance. Look at the consolidation that is taking place between Mexico, Canada and the United States of America around trade, and the kind of pyramidal politico economic consolidation that is taking place in Western Europe. All this is oriented towards only one thing West.

ISLAM REMAINED UNCHANGED

While the Christian West has evolved dynamically over the past few centuries, the story of Islam is one of 1500 years of unmitigated stagnation. There has never been a successful attempt from within Islam to start the flow, so to speak. Anyone who attempted to start even a variant of the mainstream flow -- anyone who merely attempted to reinterpret the same book and the same prophet -- was disposed of with such severity that it set an example and a warning to anyone who would dare to cross the line. Some, who merely said that it was not necessary for the Islamic Kingdom to be ruled by the Prophet's own descendants were wiped out. Some others said that the Prophet himself may come again -- not that somebody else might come, but the Prophet himself may be reborn. They were also wiped out. The Sunnis, the Shias, the Ahmedias, the Bahais -- all of whom trusted the same prophet, revered the same book and were loyal to the same revelation -- were all physically and spiritually maimed. From the earliest times, Islam has proved itself incapable of producing an internal evolution; internally legitimized change has not been possible since all change is instantly regarded as an act of apostasy. Every change was -- and is -- put down with bloodshed. In contrast, the Hindu ethos changed continuously. Though, it was always change with continuity: from ritualistic life, to agnostic Buddhism, to the Ahimsa of Mahavira, to the intellect of Sankara, to the devotion of Ramanuja, and finally to the modern movements of social reform. In India, all these changes have occurred without the shedding of a single drop of blood. Islam, on the other hand retains its changelessness, despite the spilling of so much blood all around. It is the changelessness of Islam -- its equal revulsion towards dissent within and towards non-Islamic thoughts without -- that has made it a problem for the whole world.

ISLAM IN INDIA

The encounter between the inclusive and assimilative heritage of India and exclusive Islam, which had nothing but theological dislike for the native faiths, was a tussle between two unequals. On the one side there was the inclusive, universal and spiritually powerful -- but temporally unorganized - native Hindu thought. And on the other side there was the temporally organized and powerful -- but spiritually exclusive and isolated -- Islam. Islam subordinated, for some time and in some areas, the Hindu temporal power, but it could not erode Hindu spiritual power. If anything, the Hindu spiritual power incubated the offending faith and delivered a milder form of Islam -- Sufism. However, the physical encounter was one of the bloodiest in human history. We survived this test by fire and sword. But the battle left behind an unassimilated Islamic society within India. The problem has existed since then, to this day.

ISLAM, INDIA AND THE CHRISTIAN WEST

The Hindu renaissance in India is the Indian contribution to an evolving global attitude that calls for a review of the conservative and extremist Islamic attitudes towards non-Islamic faiths and societies. The whole world is now concerned with the prospect of extremist Islam becoming a problem by sanctifying religious terrorism. So long as the red flag was flying atop the Kremlin, the Christian West tried to project communism as the greatest enemy of world peace. It originally promoted Islam and Islamic fundamentalism against the fanaticism of communism. The West knew it could match communism in the market-place, in technology, in commerce, and even in war, but it had no means of combating communism on the emotive plane. So they structured a green Islamic belt -- from Tunisia to Indonesia -- to serve as a bulwark against Marxist thought. But that has changed now. When communism collapsed, extremist Islam with its terrorist tendencies instantly emerged in the mind of the Christian West as the major threat to the world.

HINDUS SURVIVED MUSLIM INVASION

We must realize that we have a problem on hand in India, the problem of a stagnant and conservative Islamic society. The secular leaders and parties tell us that the problem on our hands is not Islamic fundamentalism, but the Hindutva ideology. This view is good only for gathering votes. The fact is that we have a fundamentalist Muslim problem, and our problem cannot be divorced from the international Islamic politics and the world's reaction to it. To understand the problem and to undertake the task of solving it successfully, we must know the nature of Hindu society and its encounter with Islam in India. As a nation, we are heckled by the secularist historians and commentators: "You are caste-oriented, you are a country with 900 languages, and most of them with no script," they say. "You can't even communicate in one language, you don't have a common religious book which all may follow. You are not a nation at all. In contrast, look at the unity of Islam and its brotherhood." But the apparently unorganized and diverse Hindu society is perhaps the only society in the world that faced, and then survived, the Islamic theocratic invasion. We, the Hindu nation, have survived because of the very differences that seem to divide us. It is in some ways a mind- boggling phenomenon: For 500 to 600 years we survived the invasion of Islam as no other society did. The whole of Arabia, which had a very evolved civilization, was run over in a matter of just 20 years. Persia collapsed within 50 years. Buddhist Afghans put up a brave resistance for 300 years but, in the end, they also collapsed. In all of these countries today there remains nothing pre- Islamic worth the name save for some broken down architectural monuments from their pre-Islamic past. How did our society survive the Islamic onslaught? We have survived not only physically, but intellectually too. We have preserved our culture. The kind of music that was heard 1500 years ago is heard even today. Much of the literature too remains available along with the original phonetic intonations. So the Indian society continued to function under a hostile occupation even without a protective state. Or rather, we survived because our soul did not reside in an organized state, but in an organized national consciousness, in shared feelings of what constitutes human life in this universe that happens to be such a wonderfully varied manifestation of the divine, of Brahman.

HINDUTVA AS INDIA'S ANCHOR

The assimilative Hindu cultural and civilizational ethos is the only basis for any durable personal and social interaction between the Muslims and the rest of our countrymen. This societal assimilative realization is the basis for Indian nationalism, and only an inclusive Hindutva can assimilate an exclusive Islam by making the Muslims conscious of their Hindu ancestry and heritage. A national effort is called for to break Islamic exclusivism and enshrine the assimilative Hindutva. This alone constitutes true nationalism and true national integration. This is the only way to protect the plurality of thoughts and institutions in this country. To the extent secularism advances Islamic isolation and exclusivism, it damages Hindu inclusiveness and its assimilative qualities. And in this sense secularism as practiced until now conflicts with Indin nationalism. Inclusive and assimilative Hindutva is the socio-cultural nationalism of India. So long as our national leaders ignore this eternal truth, national integration will keep eluding us.

Center for Policy Studies, Madras.
1993.

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Mohrt, écrivain sudiste

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Mohrt, écrivain sudiste

 

Il faut louer Pol Vandromme, hussard de Charleroi et criti­que littéraire à l'œuvre couvrant tout ce que notre litté­rature romande compte de rebelles, de Brassens à Rebatet et de Brel à Anouilh, pour son dernier essai qu'il consacre à l'un des plus méconnus des écrivains de la droite buisson­niè­re: Michel Mohrt. Né en 1914, annus horribilis, le Breton Mohrt sert plus qu'honorablement dans les Chasseurs alpins lors de la "drôle de guerre" face aux Italiens et aux côtés d'un homme au destin tragique, Jean Bassompierre, dont l'om­bre plane sur toute l'œuvre de l'académicien. Cagou­lard, juriste brillant et courageux officier, Bassompierre suivra Darnand, combattra à l'Est et sera décoré de la Croix de Fer, promu capitaine*. C'est une autre promotion qui dé­cidera de son sort: en 1944, il accepte d'aider Darnand en France et devient inspecteur général de la Milice, où il joue­­ra un rôle modérateur. Il servira ensuite dans la divi­sion Charlemagne jusqu'à la fin. Capturé en Italie, il est con­­damné à mort dans une atmosphère d'hystérie collective et fusillé malgré l'intervention de grands résistants.

 

Ce dra­me a profondément marqué Mohrt déjà traumatisé par la débâcle de 1940. Une grande partie de son œuvre té­moigne  de sa tristesse. Comme l'a fort bien dit Marcel Schnei­der dans le Figaro littéraire du 1er février 1988: "Il est de ceux qui n'ont jamais pu accepter ni même com­pren­dre la débâcle. Elle est pour eux comme la blessure d'Am­for­tas qui saigne toujours sans pouvoir se guérir". La plaie est rouverte à la Libération, ses règlements de compte et le triomphe de l'imposture. Plusieurs romans, dont Mon ro­yaume pour un cheval, paru en 1949, retracent avec autant de courage —nous sommes en plein délire résistancialiste— que de talent le climat complexe de la guerre et de l'occu­pa­tion. Bassompierre et Drieu, que Mohrt connut, apparais­sent à peine masqués. La Guerre civile (1986) est l'un d'eux.

 

Amérique sudiste et Bretagne natale

 

Mohrt quitte l'Europe et met le cap à l'Ouest: l'Amé­rique, autre thème fondamental dans son œuvre, sera son re­fuge, qu'il peindra avec sympathie dans nombre de ro­mans et de récits: il s'agit de la vieille Amérique sudiste ou anglomane, qui n'existe sans doute plus que dans chez quel­ques cœurs rebelles. Mohrt chante aussi la mer et sa Bre­tagne natale, pour laquelle il prit quelques risques: son ro­man La prison maritime (1961) narre les tribulations d'un jeune Breton mêlé à de mystérieux trafics d'armes. Il sem­ble que Mohrt n'ait pas tout inventé dans ce livre: qui est ce jeune hom­me? Est-ce le preux Vissault de Coëtlogon? Voi­re le futur académicien? Cela le rendrait encore plus cher à notre cœur… et ferait de lui le deuxième acadé­mi­cien (le troi­sième avec le regretté Laurent) amateur d'é­motions fortes.

 

Ecrivain solitaire, à la fois austère et liber­tin raffiné, Mi­chel Mohrt, sudiste et chouan, incarne une ré­bellion racée dont nous pouvons nous inspirer. Il y aurait beaucoup à dire de cette œuvre singulière, résolument à con­tre-courant: pre­nons donc Vandromme comme cicérone et prions Michel Mohrt d'enrichir un œuvre trop rare (Patrick CANAVAN).

 

Pol VANDROMME, Michel Mohrt, romancier, Table ronde, 2000, 130 FF. Voir le dernier ouvrage paru de M. Mohrt: Tom­beau de la Rouërie, Gallimard, 2000, 85 FF.

 

(*) Je pille ces informations dans la courageuse Histoire de la Collaboration de Dominique Venner (Pygmalion, 2000), un livre ap­pelé à devenir un classique.

 

 

 

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samedi, 19 avril 2008

Französische Revolution als Vorstufe des Anti-Sozialismus

Robert Steuckers:
Die Französische Revolution als Vorstufe des Anti-Sozialismus

Warum sollte man sich ständig über die Vergangenheit und die frühere Entwicklung des Sozialismus Fragen stellen, besonders wenn er öfters Wahlrückgänge in Europa erlebt, wenn er weder ein koherentes Projekt noch einen bewaffneten Arm hat, sei dieser sowjetisch oder anderartig, wenn ein verrücktgewordener Individualismus heute die postmodernen Geister in der sog. ³ersten Welt² prägt, ohne die geringste Ahnung von den potentiellen Katastrophen, der er verursachen kann, zu haben, wenn Yuppy-Geist und Burrowing des an sein virtuelles Weltchen angeschlossener Bürgers von der tatsächlichen Politik fernhalten?

Wir sind gezwungen, diese Frage zu stellen, weil der Sozialismus, ob man es will oder nicht, ein gemeinschaftliches Reflex, eine Sehnsucht nach einer möglichen ideellen Gemeinschaft, ist und bleibt. Um ein realbanales Diskurs wieder anzukurbeln, könnten wir sagen, daß der Mensch kein auf-sich-bezogenes oder nur auf seiner eigenen Ichheit bezogenes Wesen ist. Der Mensch ist immer Kind von Eltern, Enkelsohn oder Enkelin, Bruder oder Schwester, Vater oder Mutter, Vetter oder Kusine, Nachbar(in), Kolleg(in). In diesem Sinne, kann der Mensch das Wohl seiner Gruppe oder der Gruppen, in denjenigen er lebt, handelt und arbeitet, wollen, und dieses Gemeinwohl über sein Eigenwohl stellen. So wie alle Anhänger der großen Weltreligionen und auch des klassischen Humanismus, kann ein Mensch sein Eigenwohl für seine Kinder, für eine Sache, für alle mögliche Motive, die die reine Ichheit transzendieren, opfern. Die menschliche Intelligenz und das menschliche Instinktgedächtnis (zwei Qualitäten, die sich nicht unbedingt ausschließen, und die nicht notwendigerweise heterogen sind) können also Opfer für eine künftige bessere Zeit, das noch zu kommen ist, fordern. Der Mensch handelt nicht nur und immer in einer Gegenwartsbezogene Perspektive, aber zielt öfters langfristiger, sieht voraus, wettet auf die Zukunft der Seinen. Wenn ich diese höheren Realbanalitäten aufzähle, die Anthropologen und Soziologen allzugut kennen, ist mein Ziel, darauf aufmerksam zu machen, daß philosophische und volkswirtschaftliche Systeme, die hartnäckig einen methodologischen Individualismus befördern und die die Marotte der political correctness überall aufdrängen wollen, abwegig sind.

Ein Teil der Anhänger der Aufklärungsideologie versuchte ab dem 18. Jahrhundert diese individualistische Methodologie in der alltäglichen politischen Praxis einzuleiten. Andere haben in Kielwasser der aufgeklärten Despoten die Grundlagen einer Sozialpolitik unterstützt. Diese Figuren der Aufklärung erscheinen uns heute viel positiver als die sog. Ideologen rund Destutt de Tracy oder die Philosophen der Pariser Salons. Andere Figuren in Kielwasser von Herder und dem Sturm und Drang haben eine Emanzipation der Menschen und Seelen durch Rekurs auf die ersten Wurzeln der Kulturen, auf die Kultur- und Literaturemergenzen, wo die Identität völlig originel und schön unbefangen erscheint, vorgeschlagen. Wenn wir die individualistische Methodologie, die von bestimmten Aufgeklärten entwickelt wurde, kritisieren, verwerfen wir nicht deshalb alle Aspekte dieser Aufklärung, nur diejenigen die eine unweise Entwicklung gehabt, allerlei fehlerhafte Funktionnierungen gezeigt und eine schematische Ideologie aufgedrängt haben, die heute als Grundlage der konventionellen Pflichtsprache, d.h. der ³Baumwollsprache der Softideologie², wie der heutige französische Philosoph François-Bernard Huyghe sie nennt, oder das altbekanntes Newspeak  Orwells (in seinem weltberühmten Roman 1984)  dient. Wir lehnen dann auch konsequent diese Aspekte der Aufklärung ab, die heute Anlaß zu einem jedes Debatt ablehnenden Diskurs geben, d.h. ein Diskurs, das weiter zum heutigen political correctness  führt. Im Gegenteil, denken wir, daß ein doppeltes Rekurs auf denjenigen Facetten der Aufklärung, die das heute herrschende Diskurs vernachlässigt, das Debatt wieder ankurbeln und realpolitsche Alternativen für unsere Zeitgenoßen, die sich in Sackgassen geirrt haben, vorschlagen könnte.

Das fehlerhaftes Funktionieren des aufklärerischen Gedankengutes läßt sich auf verschiedenen Ebenen der Geschichte Europas während der zweihundert letzten Jahre beobachten. Nämlich in:
- all den von der ³Uhrwerk-Metaphore² bzw ³Machinen-Metaphore² abgeleiteten Ideologien. Diese mechanistische Metaphore ist immer Indiz einer mechanistischen Anschauung der politisch-sozialen Beziehungen, wobei jedes Individuum als einfaches auf sich geschloßenes Rädchen, das neben anderen Rädchen gesetzt werden kann, betrachtet wird, ohne daß irgendwelche Abstammungsfolge in Rechnung getragen wird. Die individualistischen Trends der Aufklärung sind mit dieser metaphorischen, schematischen und machinenhaften Anschauung der politisch-sozialen Beziehungen eng verknüpft. Gegen diese mechanistische ³Uhrwerk- bzw. Machinen-Metaphore² entwickelten zeitgenößische Philosophen eine organische ³Baum- bzw. Pflanze-Metaphore², die von den Mechanisch-Aufgeklärten radikal abgelehnt wurde, obwohl diese Vorläuferin der Romantik und aller politisch-organische Denkmuster war, die nicht blind allen Abstammungsprinzipien gegenüber bleiben wollte;

- den Maßnahmen, die die Assemblée nationale in Frankreich zur Zeit der Revolution gegen alle Zunftwesen und Koalitionrechte zugestimmt und getroffen hat; der hyperzentralistischen Organisation des Territoriums der damaligen neuen Republik, mit Bürgemeister (= ³maires²), die statt den städtischen oder dörflichen Gemeinde eher die Pariser Zentralmacht vertraten; der Einführung eines wesentliches individualistischen Recht überall in Europa wo die revolutionären und später die bonapartischen Armeen ihre Zelte geschlagen haben; diese Maßnahmen haben viele gegenrevolutionären Denker tief empört, so daß diese eigentlich die einzigen damals waren, die sich für die soziale Gerechtigkeit engagiert haben. Diese geschichtliche Tatsache findet trotzdem kein Echo in der heutigen üblichen Geschichtschreibung;

- das erste Auftreten der industriellen Revolution in England findet statt unter dem Motto eines erzindividualisierten Rechtssystems; später dehnt sich dieses System weiter auf dem Kontinent;

- die Volkswirtschaftslehren, die damals erarbeitet wurden, beruhen auf mechanistischen und individualistischen Methodologien;

- der Sozialismus, der in diesem Kontext entsteht, hat als philosophisch-ideologischer Hintergrund ein Denken, das sich nur auf dem Boden des Mechanizismus und Individualismus des 18. Jahrhunderts ernährt; diese Art Denken wird in dieser Perspektive als das einzige, das realwissenschaftliche ist, verkauft;

Dieser fünffache Bündel von Tatsachen hat dazu geführt, daß der Sozialismus bzw. Kommunismus der II., III. und IV. Internationalen, und seine zahlreichen Spaltungen, Splittergruppchen und Dissidententümer, die mechanistischsten, maschinistischen und anorganischen Ideen der Aufklärung übernommen und alle anderen Strömungen des emanzipatorischen Aufklärungszeitalters als ³gegenrevolutionär² verworfen haben, eben wenn diese pragmatischer, organischer und kulturtragender waren. Wenn der Sozialismus heute in seiner radikalsten Fassung (d.h. der Kommunismus bolschewistischer Prägung) zusammengebrochen ist, ist es eben darum, weil er eine echte Glaube in dieser mechanistischen Ersatzreligion entwickelt hat. Dieser Ersatzreligion behauptete, sie sei die einzige, die ³wissenschaftlich² war, aber schon ab 1875, wenn Physiker das zweite Prinzip der Thermodynamik entdecken, konnte Sie ihre Pseudo-Wissenschaftlichkeit kaum noch rational beweisen. Deshalb gab es die Rede von einer ³bürgerliche (d.h. ³falsche²) Wissenschaft². Später haben die Quantenphysik, die Biologie, usw. die Kluft zwischen Wissenschaftlichkeit und politisch-ideologischem Sozialismus noch vertieft. Dieser Sozialismus hat trotzdem dem Zusammenbruch seiner mechanistischen Erkenntnistheorie ein Jahrhundert überlebt.

Hätte der Sozialismus als Parteisystem, das in der europäischen Geschichte verankert ist, sich sofort den organischen Methodologien, die dem Denken eines Herders oder der deutschen Romantik zurückzuführen sind, angegliedert, wäre er heute noch ganz lebendig. Jede politische Praxis, die die individualistische Methodologie ablehnt, muß mit den mechanistischen Paradigmen abbrechen. Im 18. Jahrhundert wurden diese Paradigmen ideologisch-didaktisch mit Uhrwerk- bzw. Maschinenmetafern erklärt. Die Gegner dieser Argumentation verteidigten ihre Ansichten eher mit Baummetafern. Hier haben sich tatsächlich die Geister getrennt.

Und in der Tat, die implizite Ideologie hinter den Baummetafern war demokratischer. Das bewegende Motorwesen einer Maschinen steht außerhalb der Maschine genauso wie der Despot außerhalb des Volkes, das er regiert und verwaltet, steht. Das bewegende Prinzip des Baumes, d.h. seine Energie-Quelle, seine erste Impulsion, liegt aber innerhalb des Baumes selbst. Der Baum besitzt in sich seine gestaltende und regierende Bewegung. Sein Leben entstammt nicht einem äußerlichen Agent, der ein Schlüssel- und Rädersystem aktionniert, damit er sich bewegt und so ³lebt². Ein realorganischer jedem Mechanismus fremder Sozialismus hätte seiner Prinzipien aus der Geschichte des eigenen regierten und verwalteten Volkes abgeleitet, und nicht aus einer trockenen, abstrakten,weltfremden und zeitlosen Philosophie. Die Geschichte bringt uns eben das bei, daß die sozialistischen Oligarchien den Irrtum begangen haben, aus dem Volke herauszutreten (die Annahme der anorganischen Philosophie, die durch die Uhrwerkmetafer illustriert wurde, ist in diesem Sinne der Heraustritt überhaupt) oder haben es versucht, ein anderes Volk als ihr Eigenes im Name einer äußerst hypothetischen ³internationalen Solidarität² zu regieren, ohne die innerlich-selbstbewegte Motivierung des Volkes zu verstehen oder noch verstehen zu wollen. Die Kritik eines Roberto Michels über die ³Verbürgerlichung, Verbonzung und Verkalkung² der sozialistischen Eliten am Anfang dieses Jahrhunderts oder die unerbittliche Satire eines George Orwells in seinem weltberühmten Roman Animal Farm,  in dem die regierenden Revolutionären die Schweine sind, die ³gleicher² sind als die Andere, sprechen für sich selbst und beweisen also, daß Sozialisten und Sozialdemokraten die Neigung zeigen, diesen politischen Fehler zu begehen, d.h. daß sie dazu neigen, schablonenhafte ideologische Muster anzunehmen und versuchen zu konkretisieren, was sie am Rande des Volkes stellt, wobei ihr offizieller behaupteter Sozialismus dann automatisch relativiert wird und endlich in der Praxis nicht oder nur linkisch verwirklicht werden kann. Die Oligarchisierung der sozialistischen Parteien ist ein permanentes Risiko für den Sozialismus an sich, u.a. weil die ³Bonzen² es weigern, sich in einer Volkssubstanz einzutauchen. Sie betrachten diese Volkssubstanz als irrational an sich, manchmal weil sie jedem reinen Schematismus einer endlos räsonnierenden Vernunft entrinnt.

Heute erklären die Sozialismen verschiedener Prägungen, sie seien die Erben der Französischen Revolution. Diese bürgerliche Revolution aber hebt die Vereinrechte der Gesellen, Arbeiter, Hanswerker, Lehrlinge auf und schafft aller Zünfte, als einzige Vetretungsorgane des kleinen Volkes im ancien régime, beiseite. Gegen alle Vereinrechte und alle differenzierten Annäherungen der sozialen Fakte, führt die französische Revolution ein rein individualistisches Recht ein. Während des 19. Jahrhunderts versuchen die Arbeiter die traditionnellen Vereine durch Gewerkschaften wieder zu beleben. In England entsteht Anfang unseres Jahrhunderts ein Sozialismus gemeinschaftlicher Art: der Guild-Socialism.  Die Oligarchen der sozialistischen Parteien haben aber ihre wirkliche Ideologie verteidigt, die genau das Gegenteil des Sozialismus ist. Die endlosen und zahlreichen Brüche, Spaltungen innerhalb des sozialistischen Lagers und die unzählbaren Änderungen des linken Diskurs haben alle als Urgrund, eine eigentliche Abneigung des Arbeitertums gegen diesen abstrakten Individualismus der aufklärerischen und pseudo-revolutionären Ideologie. Heute, wenn die Parteienoligarchien, die ³Bonzen² im Wortschatz eines Roberto Michels, sich unbefriedigend benehmen und sich als Handlanger gewisser mafiöser Netzwerke erweisen (sowie in Italien mit Craxi oder in Belgien mit der Cools-Affäre), entsteht ein Unbehagen in der Basis: sozialistische Wähler wählen anders und gewisse linken Intellektuellen ändern ihre Paradigme, wobei man öfters eine Rückkehr zur Gemeinschafts-Idee feststellt. Heute spricht man wieder von ³Kommunautarismus² (cf. Walter Reese-Schäfer, Was ist Kommunitarismus?,  Campus, Frankfurt a.M., 1994), eben in den Vereinigten Staaten. Dieser Diskurs über den Kommunitarismus zwingt zur Wiederentdeckung von Beziehungen und Werten, die nur die Gegenrevolutionären zur Zeit der französischen Revolution und des bonapartischen Abenteuertums analysiert und vertreten hatten.

Im allgemeinen erwähnen die Quellen der Geschichtschreibung über die sog. Gegenrevolution nur die gegenrevolutionären Autoren, die sich eingesetzt haben, um eine bloße Rückkehr zum ancien régime zu verwirklichen und um die früheren klerikalen und aristokratischen Eliten wieder im Sattel zu setzen, nachdem sie durch die Revolution umgestürzt worden waren. Aber unter den Autoren, die allgemein als Gegenrevolutionären gelten, gibt es diejenigen, die die alten Freiheiten und die autonomen Arbeitervereine restaurieren wollen und die dabei heftig die extreme Individualisierung des Eigentumsrechts im bürgerlichen Codex kritisieren, das ab 1789 allgemein in Frankreich eingeführt wurde. Am Ende wird dieses Recht stramm kodifiziert, was der ancien régime nie gewagt hatte, eben wenn eine langfristige Erosion aller gemeinschaftlich-solidarischen Traditionen seit ungefähr zwei Jahrhundert in Wirkung war. In Frankreich waren schon Autonomien aller Arten verschwunden; der Prozeß war dort schneller und früherer im Gang als irgendwo anders in Europa. Die Lage variierte aber in den verschiedenen Provinzen. Im Westen, die Feudalherren erheben umfangreiche Steuern aber im Lyonnais, in der Provence und in den Ländereien rund um Paris sind diese Steuern fast komplett aufgehoben worden. Einige Jahre vor der Revolution ist das Bauerntum als hauptsächliches Volksboden  ‹da die industrielle Revolution noch nicht stattgefunden hat, sind die Arbeiter noch quantitativ in der Minderheit‹  feindlich dem Steuersystem des Klerus und des Beamtentums gegenüber, aber will überall die Erhaltung der Allmenden, die frei zur Verfügung der gesamten Dorfgemeinschaften bleiben müssen.

Wenn vor 1789 rebelliert wurde, war es gegen die Eigner von  titres seigneuraux (= wirkliches Innehaben des Landherrn) und gegen diejenigen die ein Privateigentum auf einer ehemaligen Allmende besassen. Man könnte also glauben, daß das französische Bauerntum am Vorabend der Revolution entschieden republikanisch ist, weil es gegen die lehnsherrlichen Privilegien rebelliert, die die uralten Allmendrechte eingreifen. Aber ihre Forderungen werden kurz nach dem großen Ereignis der Revolution wiederholt, da die revolutionären Versammlungen die Steuern noch erhöhen und Ende 1790 eine Grundsteuer einführen, die viel höher als die, die unter dem ancien régime  galt. Der Historiker Hervé Luxardo schreibt, daß eine Revolution innerhalb der Revolution stattfand. Das Bürgertum stürzte den ancien régime  in den Städten, festigte seine eigene Macht und empörte so ein Bauerntum, das kurzfristig seine Feindschaft den Edelleuten und den Bürgern (die Eigner ehemaliger Allmendgründe geworden waren) gegenüber jetzt gegen die neuen Eigner richtete, die sog. foutus bourgeois  (= verdammten Bürger), wie ein rebellierender Bauer der Dordogne 1791 sie wütend mit der Flinte in der Hand nannte. Die empörten Bauern machten keinen Unterschied zwischen einem königstreuen Edelmann und einem erzrepublikanischen Besitzbürger. Und wenn der neue Revolutionsstaat den Grundbesitz der Kirche (biens nationaux  genannt, d.h. ³Nationale Güter²) an Privatpersonen verkauft, statt Felder, Wiesen, Wälder oder Brachländer den Dorfbewohnern wieder auszuteilen, erhitzen sich die Geister im Westfrankreich und die ersten Erhebungen der Chouans  finden in der Bretagne und der Vendée statt.

Noch schlimmer, erklärt uns Luxardo, die Constituants (Abgeordneten der konstituierenden Versammlung) schaffen die letzten übriggebliebenen traditionnellen Volksversammlungen in Dezember 1789 ab, wo alle reichen wie armen Familienhäupter wählten, und ersetzen diese durch Munizipalitäten, die nur durch die sog. ³aktiven Bürger², d.h. nur die Reichsten, gewählt worden waren! Diese Maßnahme hätte die Legende einer demokratischen französischen Revolution beenden müssen. Von dieser Zeit ab regeln diese vom Volk getrennten Notabeln alle Kollektivrechte nach ihrer Laune: am 28. September 1791, setzten die neuen Machthaber ein Landcodex (Code rural)  fest, wobei das Recht der ärmsten Dorfbewohner, die Brachfelder, Wiesen und Allmendwälder zi benutzen, zunichte gemacht wurde. Dieser Reservenaturraum diente im Falle von Not und Hunger,besonders in Winterzeit, die Ärmsten zu ernähren. Die Allmenden waren die soziale Sicherheit dieser Zeit. René Sédillot, ein französischer Historiker, der seine Kritiken der Revolutionszeit gegenüber nicht spart, schreibt in Le coût de la révolution française:  "Von dieser Zeit ab, war es den Greisen, Witwen, Kindern, Kranken, Krüppeln, Hungerleidenden nicht mehr erlaubt, Ähren nach der Ernte zu sammeln, von den zweiten oder dritten Heuernten zu genießen, Strohhalme zu sammeln, um Better zu machen, Trauben nach der Weinlese nachzulesen, Gras nach der Heuernte zu harken (...) Den Herden war es auch nicht mehr erlaubt, freien Zugang zu den Stoppelfeldern, Brachackern und Brachfeldern, zu haben". Zusammenfassend, mit einem einzigen Federstrich, schaffen die bürgerlichen Constituants  die einzige soziale Sicherheit, die damals die ärmsten Bevölkerungsschichten hatten. Das Verschwinden der sozialen Sicherheit verwandelt die armen Schichten in sog. ³gefährlichen Schichten², wie die polizeiliche Terminologie sie von dann ab benannte. Sehr schnell konnte das Land alle Dorfbewohner nicht mehr ernähren, so daß ein Exodus nach den Städten und Kolonien anfing. Die proletarisierten Massen entwickelten dann notwendigerweise aus Verzweiflung einen agressiven Sozialismus.

In den Städten, war das Handwerk in Bruderschaften (confréries) mit Meistern und Gesellen organisiert. Die compagnonnages (Gesellenverbindungen) waren nur für die Gesellen da, damit sie ihre Forderungen den Meistern beibringen konnten. Diese Gesellenverbindungen organisierten die Solidarität zwischen Gesellen und veranstalteten Streike, wenn ihre Forderungen kein Gehör fanden. Der Constituant  Isaac Le Chapelier schlägt ein Gesetz vor, das es verbietet, rechtsmäßig Syndiken zu wählen oder zu ernennen, Gewerkschaften sowie alle anderen möglichen Vereine zum Zweck, die Interessen der Lohnarbeiter zu verteidigen, zu gründen. Sédillot schreibt dazu: "Das Gesetz Le Chapelier vom 14. Juni 1791, setzt ein Ende an alle Freiheiten der Lohnarbeiter und Handwerker. Später ignoriert das Zivilcodex jede Form von Arbeitsgesetzgebung. Bonapartes Consulat führt die polizeiliche Kontrolle der Arbeitskräfte ein, indem es das sog. ³Büchlein² auflegt. Keine einzige linke Partei oder Bewegung ist also heute glaubwürdig, wenn sie zur gleichen Zeit sich als Erbe der französischen Revolution, als Vetreterin ihrer Ideologie stilisiert und sich als Verteidigerin der Arbeiterklasse. Der soziale Kampf des 19. Jahrhunderts insgesamt ist de facto  ein Protest und eine schärfste Ablehnung dieses Le Chapelier-Gesetz. Philosophisch darf gesagt werden, daß die mechanistische Ideologie der ersten französischen Republik zur Zeit der ³Großen Revolution² unfähig ist, die verschiedene Arten der Solidarität zu sichern, und eine umfangreiche soziale Regression zur Folge hat.

Die Ereignisse der französischen Revolution und die Ankunft der industriellen Revolution in England lassen ein neues Wirtschaftsdenken mathematisch-arithmetischer Natur entstehen, dessen bestes Beispiel das Ideensystem Ricardos war. Mit keinem einzigen historischen oder geographischen Kontext wurde in diesem Volkswirtschaftsdenken Rechnung gehalten. Nur mit der deutschen ³historischen Schule², dem Kathedersozialismus und dem (meist amerikanischen Institutionalismus fing man an, mit kontextbezogenen Elementen, sei diese historischer oder geographischer Art, im Volkswirtschaftsdenken Rechnung zu halten. So wurde die abwegige Idee ruiniert, daß nur eine einzige wissenschaftliche Volkswirtschaftslehre universal alle Wirtschaftsysteme der Erde lenken konnte.

Konsequenterweise ist der Sozialismus eine Reaktion gegen die Aufklärung, zumindest gegen die Aufklärung so wie sie durch die französische Revolutionären und insbesonderes durch Constituants wie Le Chapelier interpretiert wurde. In diesem Sinne ist der Sozialismus, zumindest in seinen Gefühlen am Anfang seiner Geschichte, grundsätzlich konservativ, indem er organisch-konkrete Freiheiten, Allmenden und verschiedenartige Typen von Gesellenverbindungen konservieren bzw. bewahren will. Diese Gefühlen waren gerechtigt, d.h. justi (justus stammt von ius, Recht). Aber wenn der Sozialismus, den wir heute kennen, sich fehlentwickelt hat und eine Injustitia, eine Ungerechtigkeit oder eine Gaunerei geworden ist, es ist weil er die Gefühle des Volkes verraten hat, in gleicher Art, wie die französischen Revolutionären ihre Bauern verraten hatten. Ein Sozialismus, der Sinn hätte für Geschichte und organische Fakten, der sich auf eine Volkswirtschaftslehre stützte, die Erbin der ³historischen Schule² bzw. des Kathedersozialismus wäre, muß sich als Nachfolger dieses falschgewordenen ent-kontextualisierten und mechanistischen Sozialismus emporzustreben, und sich entschieden von allen mathematisch-arithmetischen Wirtschaftslehren und allem französisch-revolutionären Gedankengut distanzieren.

Robert Steuckers,
November 1994.

Bibliographie:

- F.M. BARNARD, Herder's Social and Political Thought. From Enlightenment to Nationalism,  Clarendon Press, Oxford, 1965.
- Michel BOUVIER, L'Etat sans politique. Tradition et modernité, Librairie générale de Droit et de Jurisprudence, Paris, 1986.
- Louis-Marie CLÉNET, La contre-révolution, Presses universitaires de France, Paris, 1992.
- Bernard DEMOTZ & Jean HAUDRY (Hrsg.), Révolution et contre-révolution, Ed. Porte-Glaive, Paris, 1989.
- Jean EHRARD, L'idée de nature en France à l'aube des Lumières, Flammarion, Paris, 1970.
- Georges GUSDORF, La conscience révolutionnaire. Les idéologues, Payot, Paris, 1978.
- Georges GUSDORF, L'homme romantique, Payot, Paris, 1984.
- Panajotis KONDYLIS, Die Aufklärung im Rahmen des neuzeitlichen Rationalismus, DTV/Klett-Cotta, München/Stuttgart, 1986.
- Panajotis KONDYLIS, Konservativismus. Geschichtlicher Gehalt und Untergang, Klett-Cotta, Stuttgart, 1986.
- Jean-Jacques LANGENDORF, Pamphletisten und Theoretiker der Gegenrevolution 1789-1799, Matthes & Seitz, München, 1989.
- Hervé LUXARDO, Rase campagne. La fin des communautés paysannes, Aubier, Paris, 1984.
- Hervé LUXARDO, Les paysans. Les républiques villageoises, 10°-19° siècles, Aubier, Paris, 1981.
- Stéphane RIALS, Révolution et contre-révolution au XIX° siècle, DUC/Albatros, Paris, 1987.
- Antonio SANTUCCI (Hrsg.), Interpretazioni dell'illuminismo, Il Mulino, Bologna, 1979 [in dieser Anthologie: cf. Furio DIAZ, "Tra libertà e assolutismo illuminato"; Alexandre KOYRÉ, "Il significato della sintesi newtoniana"; Yvon BELAVAL, "La geometrizzazione dell'universo e la filosofia dei lumi"; Lucien GOLDMANN, "Illuminismo e società borghese"; Ira O. WADE, "Le origini dell'illuminismo francese"].
- René SÉDILLOT, Le coût de la révolution française, Librairie académique Perrin, Paris, 1987.
- Barbara STOLLBERG-RILINGER, Der Staat als Maschine. Zur politischen Metaphorik des absoluten Fürstenstaats, Duncker & Humblot, Berlin, 1986.
- Raymond WILLIAMS, Culture and Society 1780-1950, Penguin, Harmondsworth, 1961-76.

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Céline et Chateaubriand

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Marc HANREZ:

Céline et Chateaubriand

De Hugo à Sartre, en passant par Baudelaire et Proust, nombre d’écrivains ont réagi, de façons très diverses, au modèle qu’est Chateaubriand. Céline également. Mais quand l’a-t-il découvert au juste ? Il ne suffisait pas de séjourner à Saint-Malo. En exode à Baden-Baden, donc avant son exil au Danemark, il demande à Karl Epting de lui envoyer les Mémoires d’outre-tombe. Pour les lire ou les relire ? En tout cas, c’est prémonitoire. Céline a souvent provoqué le sort. Sa vocation littéraire, quoi qu’il en dise, avait besoin de cette hardiesse. 

Or, il va bientôt (se) trouver (dans) une apocalypse : ou bien la retrouver, après « l’Horreur » de 1914. Les pires événements peuvent servir de prétexte aux meilleures histoires. Rien n’est plus à la mesure de son talent que ce nouveau drame autour de lui. Céline pense déjà sans doute au parti qu’il pourra en tirer (à condition, naturellement, de s’en tirer d’abord). C’est pourquoi Chateaubriand peut l’intéresser : en tant qu’auteur historico-personnel), qui a renouvelé non seulement la conscience, mais surtout l’expression, du passage de l’être dans le temps.


Céline et Proust auraient du reste en commun ce précurseur fondamental. Proust en avait retenu le truc, ou le déclic, de la mémoire involontaire. Le chant d’une grive, entendu par hasard, chez Chateaubriand, pas grand-chose en fait, devient aussi chez lui, transposé en madeleine, aubépine ou pavé, un détail opportun qui rappelle soudain tout un monde. Par contre, ce que Chateaubriand propose pour Céline, c’est une organisation du récit comme pseudo-chronique.
À cet égard, l’Itinéraire de Paris à Jérusalem serait encore plus probant que les Mémoires. Victor Hugo s’en est peut-être inspiré pour Notre-Dame de Paris, où des sortes d’essais, notamment sur l’architecture, sont intercalés dans la fiction. Mais, comme il les dispose en chapitres distincts, et non pas au milieu de l’intrigue, Hugo n’exploite guère tout l’avantage du procédé. Céline, au contraire, l’applique judicieusement.


Dans ses Mémoires, Chateaubriand raconte toute sa vie, alors qu’il relate, dans l’Itinéraire, un long mais unique voyage. Une grande partie de son œuvre romanesque, en particulier Le Génie du christianisme, utilise ainsi le truchement d’un voyageur. Mais dans l’Itinéraire, du moins au départ, le domaine est contemporain (l’Empire ottoman jouant le rôle du Reich nazi dans la trilogie célinienne). Chateaubriand ne fait d’ailleurs pas que décrire ce qu’il découvre. Avec une attention multiforme, et continuellement renouvelée, il traverse le paysage et l’habitat, il touche à l’histoire et à la politique, il témoigne du siècle et de son ambiance, il traite de l’archéologie et de la religion, il transcrit la faune et la flore, etc. Même circonscrite au bassin méditerranéen, c’est la relation d’un voyage presque universel, par un voyageur éprouvant cette quasi-universalité. Ce touriste est d’abord un pèlerin – allant jusqu’en Espagne, pour y rejoindre une femme… D’une étape à l’autre, les aspects innombrables sont juxtaposés, voire télescopés, dans un texte prolifique et pluriel, qui correspond, par leur évocation même, aux sentiments de l’écrivain.


Cet art du contraste inopiné de retrouve en plein dans le mélange célinien. À l’instar de Chateaubriand, Céline rapproche alors, dans un laps verbal très court, et comme à l’improviste (bien sûr il n’en est rien), des éléments parfois disparates ou fort éloignés. Certes, son texte, à première vue, paraît désordonné. Mais bientôt il s’organise d’une manière librement rigoureuse. C’est le résultat d’une économie, toujours structurale et stylistique, permettant un maximum de dérogation. Car ici le langage, par son caractère elliptique, accentue essentiellement ce phénomène.


Si Chateaubriand est le premier auteur moderne, en France du moins, Céline est déjà, dans sa génération, bien au-delà du postmoderne. On pourrait aussi les comparer sur d’autres points, et notamment sur leur usage, comme autobiographes, de la mystification ou du mensonge. Enfin, tous les deux s’appuient sur l’émotion, plutôt que sur la raison, pour exprimer le vécu et surtout le vivant.


Chateaubriand était partisan du dynamisme existentiel. Céline au fond n’a jamais changé d’opinion sur la vie : « La vraie maîtresse des véritables hommes ». Il a cependant varié sa technique pour en saisir le mystère et puis le rendre au plus près. Vu l’évolution du monde, il a vite estimé que, désormais, civilisation = robotisation. C’était sa croyance la plus intime, qui n’avait que faire de toute idéologie. Quelle prophétie, au demeurant, pour notre époque !

Marc HANREZ,

© Le Siècle de Céline, éd. Dualpha, 2006.
 

1. Le Journal de la Culture, n° 11, novembre-décembre 2004, pp. 57-65.

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vendredi, 18 avril 2008

Thor Heyerdahl

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Aymeric GAUL:

Thor Heyerdahl, un héros pour le XXIème siècle

Il ne figurait même pas dans l'Encyclopédie Larousse en quinze volumes de 1982. Bien que son nom soit furtivement cité dans une note concernant le radeau Kon Tiki. Dans le Quid 2002, il apparaît dans l'articulet consacré aux expéditions de ses radeaux, le Kon Tiki, le Râ I, le Râ II et le Tigris.Lors de sa mort à 87 ans, le 17 avril 2002, une légère agitation médiatique, gênée et contrainte, retomba aussi vite qu'elle était apparue.

Et pourtant, Thor Heyerdahl demeure, pour le petit cercle réfractaire au crétinisme généralisé, un des hommes les plus géniaux du XXème siècle. Une âme étonnament trempée à l'acier le plus pur de la contestation l'a fait paria quand le plagieur et imposteur Einstein partageait avec Lyssenko la chaire d'excellence dont la moindre réfutation est assurance de bûcher. Il est, néanmoins, le héros national de la Norvège, pays où la compétition est rude en cette matière. Son livre le plus connu, Kon-Tiki, traduit dans 67 langues, s'est vendu à des millions d'exemplaires et le film éponyme qu'il en a tiré aurait dû faire de lui, et à bien meilleur titre, le héros populaire qu'est devenu Jacques-Yves Cousteau. Mais, pour être adoubé dans ce monde là, il ne faut pas aller contre les idéologies de cour. Heyerdahl n'était pas homme à troquer sa vérité contre la faveur du temps. A la lumière des spotlights il a préféré les rudes combats anonymes et la misère hautaine du chercheur demeuré aventurier dans l'âme. S'il reste un inconnu pour l'immense troupeau, son message commence à séduire de jeunes mavericks anglo-saxons agaçés que l'on prenne si facilement des vessies pour des lanternes et que soit falsifiée avec autant d'arrogance une Histoire devenue un tissu d'âneries.

Ainsi récemment Robson Bonnichsen, directeur du Centre pour l'Etude des Amériques Premières, à l'Université d'Etat de l'Orégon, reconnaissait en lui un « visionnaire en avance sur son temps ». Dennis Stanford, anthropologue au Smithsonian institute de Washington – celui qui se bat pour la reconnaissance de l'Homme de Kennewick – ou Walter Neves, de l'université de Palo Alto, reprenaient ses thèses sur les migrations post-néolithiques. Erika Hagelberg, généticienne à l'université d'Oslo, le disait plus brutalement : « Il va falloir que toutes les disciplines se décident à étudier les théories de Thor Heyerdahl. »

Crétinisme égalitariste

Et ce n'est pas rien de venir ainsi se ranger aux côtés de celui qui, au soir de sa vie osait fracasser sur l'établissement pseudo-scientifique mondial quelques projectiles vitriolés qu'on aimerait voir plantés au fronton de toutes les universités d'Occident : « Plus je fais et plus je vois, plus je réalise l'immensité stupéfiante de l'ignorance existant dans les cercles académiques qui prétendent être des autorités et affirment détenir le monopole du savoir. »

Combler cette ignorance crasse des académies de toutes espèces ne se fera pas du jour au lendemain. Comme il paraît insurmontable de refouler des consciences ahuries les croyances les plus farfelues des dogmes d'airain. L'Amérique découverte par Colomb. Colonisée, il y a dix mille ans, et exclusivement, par des Mongoloïdes descendus du Détroit de Béring. Les gigantesques constructions pyramidales des jungles meso-américaines attribuées aux ancêtres supposés – Aztèques, Mayas, Incas – des pauvres hères qui, aujourd'hui, grattent la terre alentour. La diffusion à travers le Pacifique d'étonnantes civilisations dont les schémas incohérents n'intriguent personne. Et les mythes, les légendes, les parentés universelles que la science académique, impavide, explique par des déterminismes génétiques selon lesquels tous les hommes étant semblables on ne saurait s'étonner qu'indépendamment de toute influence exogène ils en viennent fatalement à découvrir un jour les mêmes secrets et les mêmes techniques. De l'agriculture à la ziggurat monumentale, la duplication des mêmes gestes conduit tôt ou tard, à les en croire, aux mêmes expériences.

C'est à ce type de crétinisme que la « science » marxiste de l'égalitarisme et de l'unicité du monde et des hommes a fini par conduire. Thor Heyerdahl aura lutté toute sa vie contre une telle régression intellectuelle.

Une formidable logique aura guidé chacune de ses expéditions. La première, la plus célèbre, celle du Kon-Tiki, montra que des hommes embarqués au Chili sur des radeaux de balsa pouvaient atteindre la Polynésie. La chose n'était pas innocente et l'académie lyssenkiste réagit aussitôt en dénonçant l'infaisabilité du projet. Lorsqu'il fut réalisé en 1947 et que les navigateurs nordiques, après 107 jours de traversée, se furent échoués sur l'atoll de Raroia aux Tuamotous, il fallut des années aux protagonistes de l'opération pour parvenir à entrouvrir certaines portes, et quatre ans pour que le film le Kon Tiki commence enfin son éblouissante carrière cinématographique planétaire.

Pour la science encadrée, les Polynésiens étaient des Asiatiques arrivés par sauts de puce depuis la Malaisie. Certains osaient imaginer une descente de tribus « indiennes » depuis la future Californie. Mais qui se fut risqué à imaginer un peuplement de la Polynésie à partir de l'Amérique du Sud ? L'île de Pâques intriguait mais pas plus que les extraordinaires cités monumentales dites « pré-colombiennes ». Heyerdahl avait de la pré-Histoire une conception qui ne pouvait plaire aux Académies.

Qu'y avait-il avant ?

Ses autres expéditions mirent le feu aux poudres. Râ I et Râ II, en plus montrant qu'on pouvait rallier l'Egypte aux Caraïbes dans des radeaux de papyrus, apportèrent une explication rationnelle aux étranges ressemblances existant entre constructions monumentales d'Egypte et d'Amérique précolombienne. Le périple du Tigris, en 1977 – 4200 miles en 144 jours à travers l'Océan Indien – prouva que l'expansion de Sumer ne se fit pas seulement par la terre, comme on l'a cru longtemps. Ce fut d'ailleurs la grande contribution de Heyerdahl à la connaissance des mystères du passé : le rôle fondamental joué par les océans, à partir du Néolithique, dans la diffusion des civilisations antiques. Les statues de Fatu Hiva aux Marquises ressemblent trop à celles qu'on trouve en Amérique du Sud pour que ce ne soit qu'un hasard. Les pyramides à escaliers des Canaries, l'archipel des mythiques Guanches, ces Berbères dont l'Histoire prétend avoir perdu la trace, se trouve à mi-chemin entre l'Egypte et l'Amérique du Sud. Non seulement Thor Eyerdahl conteste que Christophe Colomb ait découvert quoi que ce soit, non seulement il reconnaît que 500 ans avant lui ses ancêtres Vikings s'étaient bien installés dans le Vinland et au-delà mais, affirme-t-il dans une sorte de provocation, « je dis qu'aucun Européen n'a jamais découvert autre chose que l'Europe... ». C'est dire que tout avait déjà été « découvert » bien avant qu'on ne le croit. Et que ne le prétend une mystification historique terrifiée que des peuples de géants aient dominé la planète en des temps que le progressisme bêtifiant assure avoir été celui de brutes vêtues de peaux de bêtes.

On tombe alors sur des vérités qui font trembler. Sur la présence par exemple dans le sud du continent américain de squelettes d'hommes non-mongoloïdes - australoïdes - bien antérieurs à la présence des ancêtres des « Indiens » sur ce continent. On rejoint les formidables travaux du Professeur de Mahieu sur la civilisation inca créée par les clans vikings qui accompagnaient le yarl Ullmann à la fin du Ier millénaire. Les communautés polynésiennes « blondes » découvertes par les premiers navigateurs européens en différents archipels du Pacifique. On rejoint aussi l'Homme de Kennewick, la « civilisation Clovis » du Sud Texas et ses pointes de flèches superbement solutréennes, la présence aux Etats-Unis de milliers de sites mégalithiques, la forte imprégnation de certaines langues indiennes par des termes, des formules et des signes gravés phéniciens et tamazight. L'obligation de reconnaître la présence na-dene, cette nouvelle classification linguistique, partie de l'ouest du Maghreb, remontée pour le Pays Basque, traversant toute l'Eurasie, pour aller se perdre chez certaines tribus du nord-ouest des Etats-Unis. On s'interroge sur les Aïnous, sur les dolmens des Nouvelles Galles du Sud, sur certaines légendes des Aborigènes australiens évocatrices de géants blancs qui habitaient le sud du continent du temps qu'il était verdoyant. Et qui un jour s'embarquèrent vers l'Est.

Derrière la remise en cause des dogmes imposés par le lyssenkisme idéologique, Thor Heyerdahl a jeté les bases d'une nouvelle lecture de l'Histoire et de la Préhistoire. C'est, à terme, un séisme de grande magnitude qui a été initié. Une reconsidération complète de la vision du monde falsifiée qui prévaut aujourd'hui. Elle ne se fera, on s'en doute bien, que dans les pays qui possèdent encore un minimum de liberté d'expression. Les Etats-Unis en premier. Dans ceux qui, comme en France, sont assujettis à des lois soviétoïdes du type loi Gayssot, il est peu probable que l'on voie se développer des études en ce sens. Il reste néanmoins que le vent qui se lève soufflera même sur les lieux les mieux gardés.

« Il y a quelque 5000 ans, pour une raison inconnue, une civilisation disparut de son site originel et s'établit le long du Nil, sur les berges des rivières mésopotamiennes, au bord de l'Indus... portée par des hommes barbus qui construisaient des bateaux de lianes, par des astronomes qui adoraient le soleil et lui élevaient des pyramides à escaliers telles qu'on en trouve en Egypte, en Mésopotamie, au Mexique, en Bolovie, à Ténérife. Il est impossible que de telles civilisations se soient developpées brusquement en une seule génération ou même en un siècle : il y avait quelque chose avant... » (Thor Heyerdahl).

par Aymeric GAUL, publié dans Réfléchir & Agir n° 12 – Eté 2002

Réfléchir & Agir

Revue autonome de désintoxication idéologique 
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A. Schuler und die kosmische Bläue

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Alfred Schuler und die kosmische Bläue

"Sternverwandt irr empor, du mein armes Licht,
In den schwarzlockigen Abgrund irr empor -
O große Nacht
So nimm auch diese Lampe in umflorte Mutterhand.
Zu tief in heilgem Blute schwoll ihr Docht.
O gieße Lethe endlich unter diese Schmerzenstülle-"
(Gebet)
 

Alfred Schuler - Eine Randfigur?

Alfred Schuler (geb. Mainz 22.11.1865, gest. München 8.4.1923) gilt als ein Kuriosum der Literatur- und Geistesgeschichte. Verschwiegen kann er nicht werden, wenn die Geschichte jenes Kreises geschrieben wird, den man die Münchner "Kosmiker" nennt: neben Schuler vor allem Ludwig Klages, der Philosoph; Stefan George, der Dichter des geheimen Deutschlands; Alfred Kubin, der Zeichner und Schriftsteller. Nachzulesen ist diese durchaus amüsante Geschichte in den "Erzählungen des Herrn Dames" der Gräfin Franziska zu Reventlow. Gelegentlich wird erwähnt, daß Walter Benjamin, Ahnherr der Frankfurter Schule, den für seine Ästhetik so zentralen Begriff der "Aura" über Ludwig Klages indirekt von Alfred Schuler geborgt hat. Rainer Maria Rilkes Werk zeigt seine Berührung mit Schuler. In Studien zur Krankheit Nietzsches wird erzählt, daß ein Verrückter Nietzsche mit dionysischen Tänzen ins gesunde Leben zurückrufen wollte. Dieser Verrückte war Alfred Schuler. Am Rande begegnet Alfred Schuler auch im Werk Ernst Jüngers: "Manche Autoren sind nur durch Briefe und Briefwechsel, andere wesentlich nur durch Gespräche bekannt. Das setzt einen bedeutenden Kreis, ein "cénacle" voraus. Zum Beispiel Schuler (1865-1923): wir wissen weniger von ihm als über ihn - so durch George, Klages, die Gräfin Reventlow. Alfred Schuler hielt sich für einen Eingeweihten und verhielt sich in diesem Sinn. Sein Einfluß ist bedeutend bis in die politischen Niederungen; doch schwer zu verfolgen, denn er wirkte weniger durch Texte als durch Infiltration. In meiner Bibliothek verwahre ich: >Fragmente und Vorträge aus dem Nachlaß von Alfred Schuler mit einer Einführung von Ludwig Klages<, 1940. Die Einführung ist umfangreich, beinahe ein Buch für sich." (Ernst Jünger, Autor und Autorschaft - Nachträge) Und Jünger zitiert aus der Widmung Carl Schmitts: "Son oeuvre me rapelle a le mot de Léon Bloy: 'J´ai fait mes plus beaux voyages sur des routes mal éclairées.'" "Ich habe meine schönsten Reisen auf schlecht beleuchteten Wegen gemacht" trifft gut die Lektüre des Schulerschen Werkes.
 

"Ein roter Schein wie Fackeln in der Luft,
Wie Purpurruß, durchätzt von Pechbrandduft,
In Nacht ob Gassen schwarzer Menschenbrunst
Gährender Erzkolosse Sauerdunst,
So glüht es einst in unsrer Kindheit Wahn -
So glüht es auf woimmer Götter nahn -
Urfunken euch sei unser letzter Sang
Und Feuerstoß aus unsrem Untergang."
(Gebet)
 

Telesma und Blutleuchte

Alfred Schuler war ein Seher, ein Mystiker des Blutes. Er lebte in München als sei es das spät antike Rom. Er fühlte sich als Zeitgenosse Neros, der die letzten Tage der Wittelsbacher und den Revolutionsbrand von 1918 apokalyptisch deutet. Alfred Schulers "Lehre" ist jedoch eine eminent esoterische, kein plumper Entwurf, schon gar kein politischer, sondern eine in viele Verästelungen führende Schau, die die Interpreten vor viele Schwierigkeiten stellt. Der Einfluß Bachofens wird von allen hervorgehoben, als wäre Schuler nur der Sänger des Matriarchats. Unbestritten ist es das Mütterliche, das Schuler in Verbindung mit dem Totenreich und dem Prinzip des Lebens setzt, und ein großer Teil seiner Vortragsreihe "Vom Wesen der ewigen Stadt" ist ein Lobgesang auf das Weiblich-verströmende und eine Anklage gegen die Vernichtung durch das Männlich-evakuierende. Nur: Angelesenes aus Bachofen - das ist sicher nicht die Substanz des Schulerschen Werkes, es ist eine kosmische Schau und eine Ahmung (um das Kunstwort Leopold Zieglers zu verwenden), keine Nachahmung. Schulers Grundprinzip ist die kosmische Verbindung zwischen dem inneren Leben, das seinen Sitz im Blut hat, und dem äußeren All, dem Allumfassenden. Daher die Bezeichnung "Kosmiker". Über den Träger dieser kosmischen Substanz, das Telesma, sagte er:"Das Auge ins Innere gewendet erblicke ich eine vibrierende Lichtfülle, unzählige im Wechselgenuß aufleuchtende Fluiden, eine ewig ununterbrochene Hochzeit im Äther. Diese Substanz, wie ich vermute, identisch mit dem, was das "große Telesma" genannt und in analoger Weise geschildert wird, erachte ich als die verklärende, seligmachende Kraft, als ihren Sitz das Blut. Insoweit sie die Blutwelle leuchtend macht, nenne ich sie essentielles Leben. Diese Bezeichnung stellte sich mir von selbst zugleich mit dem Erlebnis ein. Der Besitz der Leuchte ist unser Anteil am absoluten Leben. Eine andere Deutschung kann dem Worte essentiell in diesem Zusammenhang nicht innewohnen. Man gewinnt andererseits den Eindruck, daß solche Leuchte mit Strömungen aus dem All, in welchem sie demnach verbreitet sein muß, in Verbindung ist. Der in Leuchte Stehende erlebt dieses Strömen als kalte aus dem Kosmos herabkommende Schauer, während die Essenz, dem Blute vermählt, in seliger Wärme glüht. - Die aus dem Weltall einschießende Substanz nenne ich kosmisch. Eros Kosmogonos erscheint mir als eine späte Symbolisierung solcher Herabkunft." (Vom Wesen der ewigen Stadt) Es geht ihm also um die gesteigerte Seelenkraft, die er als Blut beschreibt, nicht so sehr um Blut als Abstammung, oder wenn doch, dann um seelische Abstammung und mehr noch Übereinstimmung. Nur so kann der Zeitabgrund zwischen dem München der Jahrhundertwende und dem Neronischen Rom überbrückt werden. Wie es die Tradition lehrt, wie es die Gnostiker beschrieben haben: Durch den Fall in die geschichtliche Zeit wurde das Licht in die Finsternis verwirbelt. Die Evolution begann. "Ich habe das bisher durchlebte Menschendasein in zwei einander entgegengesetzte Perioden eingeteilt: in eine (prähistorische), in welcher ich die (gesamte) Körperwelt als ganz und gar von Leuchte durchdrungen annehme (wie das auch schon in dem Worte Urzeit - Ur=Ar=Licht - das ist Lichtzeit, zum Ausdruck gelangt), dem Heiden als das "goldene Zeitalter", dem Juden als das "Paradies" bekannt. Ihr stelle ich gegenüber die historische Periode, charakterisiert durch einen gegen die bisherige Leuchte gerichteten Evakuierungsprozeß in der Menschheit." (Vom Wesen der ewigen Stadt) Der Evakuierungsprozeß ist für Schuler ein Werk des Monotheismus (Molochismus), der zunächst den Lebenskern durch Transzendalisierung ins Jenseitige verlegt, um "das Fischlein Seele aus dem Blute Leben zu reissen." Nachdem dies erreicht ist, wird im zweiten Stadium, der Reformation, auch die transzendentale Maske beseitigt. Diesen Zustand charakterisiert er mit drastischen Worten: "Brutnest aller Berufsidioten. Bei verkohlter Seele. Erloschener Herzgrube. Allgemeine mechanische Zerbröckelung. Industrieller Maschinalismus. Weiteste Ringe der Rotation: Amerika. (...) Herausstülpung der untersten Eitermassen: Révolution Francaise. (...) Der moralische Polizei und Pastorstaat." (Fragmenta Neronis Domini)
Dem Entlebungsvorgang fallen immer wieder Licht- und Lebensträger gewaltsam zum Opfer: von der heidnischen Märtyrein Hypatia zur Prinzessin Lamballe, Opfer des sexuell entfesselten französischen Revolutionspöbel, bis zur Kaiserin Elisabeth und ihrem hermaphroditischen Freund König Ludwig von Bayern: "Tollwütige Bettelmönche hatten einst den Körper der heidnischen Philosophin Hypatia vor dem Hochaltar der Hauptkirche zu Alexandrien mit scharfen Marmorsplittern zerfleischt, im spritzenden Herzblut scharrend; rasende Hallenweiber bohrten ihre Zähne in das noch schlagende Herz der Hypatia der Revolution, der Prinzessin Lamballe. Ein Menetekel, zu schreiben in die weiße Apsis der Gewaltigen, daß der jungfräulich verklärte Leib als ihr letztes, ihr innerlichstes Opfer blutet. Doch ist der psychische Leib nicht so rasch wie der physische vernichtet. Gleich dem an Lesbos anschwimmenden Haupte des Orpheus, das noch im Tode sang, setzt sich ein letztes Klingen fort in den Werken deutscher Romantik. Ja noch mehr: In zwei Personen, die wir noch erlebt, strebt einmal noch die verhängnisvolle Zelle selbst empor. Die Wellen des Starnberger Sees, ich meine Ludwig des Zweiten gesendeten Tod, der Hafen von Genf, ich meine das blutige Ende Elisabeths, sind Zeugen, welches Los die wirkende Macht solchen Früchten vom alten Baume beschert hat. Sie fielen als letzte Widerstände unter den Schwingungen des schwarzen Rades, welches jetzt der Herr ist weithin über den Erdkreis." (Vom Wesen der ewigen Stadt)

Das blaue Licht

Doch die Zeit, der Schuler am meisten Aufmerksamkeit widmete, ist die des Kaisers Nero. Es sollten hier keine übertriebenen Schlüsse daraus abgeleitet werden. War es die Schicksalszeit der Blutleuchte? Nein, ich neige eher der Auffassung zu, daß jede Zeit Schicksalszeit ist. In jedem geschichtlichen Augenblick entscheidet sich alles aufs Neue, steht alles auf dem Spiel. Es dürfte aber ein Zusammenklingen der Gegenwart mit der Zeit des Künstlerkaisers gegeben haben. Andere Mystiker des 19. Jahrhunderts haben sich ebenfalls gerade dieser römischen Spätzeit zugewandt. Bemerkenswert etwa, daß wenige Jahrzehnte vor Schuler die Hauptfigur der Wiedererweckung des Okkultismus, der sich selbst den Namen Eliphas Lévi gab, sich als Erbe
des Apollonius von Tyana, des einflußreichen Weisen und Magiers der Spätantike, sah. Eliphas Lévi hat am 24.6.1854 in London den Geist des Apollonius beschworen. Lévi weihte auch den englischen Rosenkreuzer Edward Bulwer Lord Lytton in die Geheimnisse der spätantiken Magie ein. Bulwer Lytton verfaßte nicht nur einen Roman über Cola di Rienzo,
den letzten römischen Tribunen, den Richard Wagner zu seinem ersten großen Opernhelden machte - Vorbild für den jungen Adolf Hitler. Nein, mit dem Roman "The Coming Race" verfaßte Bulwer-Lytton den folgenreichen okkulten Roman schlechthin. In diesem wird ein englischer Spießbürger durch Zufall in das unterirdische matriarchale Reich der Vrilya initiiert. Die Frauen dieser Unter-Welt handhaben eine geheimnisvolle blauschimmernde Kraft namens Vril, die auch das subterrane Licht liefert. Die Spur des Vrils außerhalb dieses Romans ist leicht zu finden. Wer nur ein bißchen gräbt, wird fündig. Das Leuchten des adeligen Blutes ist blau. Für das blaue Licht fand Kadmon Assoziationen auf den mystischen Buchstaben E: "Das blaue Licht, Emblem der Sehnsucht nach dem Ursprung. Edelmut. Eden. Ekstase. Enigma. Erotik. Ewigkeit. Existenz." Das blaue Licht hat Namen wie "Aura", "Od" oder "Orgon". Wilhelm Reich: "Blau ist die spezifische Farbe der Orgonenergie innerhalb und außerhalb des Organismus. Protoplasma jeder Art, in jeder Zelle oder Bakterie ist blau. Gewöhnlich wird es als Licht'brechung' bezeichnet, was aber sehr unzutreffend ist, weil die Zelle unter denselben Lichtverhältnissen die blaue Farbe verliert, wenn sie stirbt. Gewitterwolken sind tiefblau, was von hohen Orgonmengen herrührt, die in den Massen des verdunsteten Wassers enthalten sind. Wasser in tiefen Seen oder Meerwasser ist blau; ebenso die leuchtenden Schwanzenden der Glühwürmchen, das Elmsfeuer und das Nordlicht." Nach Ansicht des Reichianers Peter Nasselstein kann die blaue Orgon-Energie von "esoterischen Faschisten" wie Gurdjieff und Crowley zu einem "blauen Faschismus" mißbraucht werden (analog zum "echten" also schwarzen Faschismus und zum von Reich so bezeichneten kommunistischen "roten Faschismus".
Bei Alfred Schuler steht die Farbe blau jedoch auch für das erste Aufleuchten des essentiellen Lichts im Jünglingsverband: "(Vom Jünglingshaus) klingen die Bezeichnungen Kamerad und Geselle, der Partner in Kammer und Saal, dringt das Institut der Vergesellung, bei den Germanen von so hoher Bedeutung, daß man im Zweikampf mit Rivalen focht, der Partnerwahl, wenn es zum Fest im Saale geht - aei gamos -, in die Waberlohe des Lebens. - Von dort auch fällt jenes ominöse Blau als die früheste Durchglühung der materiellen Finsternis mit essentiellem Lichte, das als Märchenleuchte im Bewußtsein der Späten lebt: conte bleu, bibliothèque bleue; von dort kommt das Tätowieren in Blau, ursprünglich im kosmischen Wirbelsymbol; und in den Zeiten des wiederaufglühenden Gesellenhaus der Gesellenschaft, welche, den Patriarchalismus der Zünfte bekämpfend, in ihrem Herbergsleben, wenn auch unbewußt, das alte Jünglingshaus wiedererstehen läßt, das Blau-Machen als Feiern, der blaue Montag als Rivale des solar-männlich-christlich bedingten Sonntags." (Vom Wesen der Ewigen Stadt)
Ludwig Klages, dessen eigentliche Stärke vor allem die phänomenologische Einfühlung war, spürt Schulers Beziehung zu München in den Farben des Blutes und des Himmels nach, den Sinnbildern der Ortsseele: "Wir finden deren zwei (Sinnbilder): rostbraunen Brodem und tiefdurchsichtiges Himmelblau. Symbole, wie wir hören werden, sind Wirklichkeiten, und Wirklichkeiten lassen immer auch ihre Spur zurück in der Welt der Dinge: weißblau waren die bayerischen Landesfarben, blau die Briefkästen, die Trambahnen, die Uniformen der Soldaten, blau war im "Wahrzeichen Münchens", der unvergleichlichen Frauenkirche, das mit Sternen durchstickte Deckengewölbe, blau ist der Mantel der "Mutter Gottes". Der rostbraune Brodem aber, der heimlich zur Nacht über jedem Bräuhaus und den sommerlichen Kastanienkerzen jedes Bierkellers zitterte, wölkte bei unbedecktem Himmel sichtbarlich über dem abendlichen Menschengewirr und Lärm und Dunst und Lichtergefunkel und Feuerschein jedes Oktoberfestes. Beides trug Schuler in der eigenen Seele: den zunderfarbenen Brodem verschollener Orgien und vom kosmischen Blau zwar nicht die olympische Helle, (...) wohl aber den azurnen Ferneton, der hinüberweist zum Totenreich. Darum erwachte seine Seele in München. (Ludwig Klages, Einführung zu: Alfred Schuler, Fragmente und Vorträge aus dem Nachlaß)

Evola über Schuler

Dies alles ist im Jahre 1940 einer größeren Öffentlichkeit bekanntgeworden, als es Ludwig Klages gelang im Verlag Johann Ambrosius Barth die Schulerschen Fragmente zu veröffentlichen. Erfolgte Besprechungen zeigen, daß das Buch auf eine gewisse Beachtung stieß. Julius Evola verfaßte eine eindeutig ablehnende Rezension in der "Bibliografia Fascista". Er fühlte sich auf seinem eigenen Gebiet angegriffen. Das heroisch-solare Rom - gedeutet als aus chthonischem Urschlamm herausgewachsen, in den Sümpfen des Tibers von säugenden Müttern begründet? Die strenge, klare, erstarrte Architektur Roms umspült von Wogen dionysisch entgrenzter Faschingsumzüge? Rom - ein Ur-Schwabing? Doch Schuler ist auch für Evola eine Art von "Mystiker", um nicht zu sagen "Initiierter", aber einer, der seine außergewöhnliche "psychometrische" Begabung nicht durch Studien fortgebildet hat. Daher die sehr verwirrten Auffassungen Schulers. Evola beschränkt sich in seiner Besprechung darauf, einige Widersprüche Schulers, sowie seine Anlehnung an dekadente und korrupte Riten zu kritisieren. Im Kern ist die Schulersche Welt Evola zu fremd um Substantielles über sie sagen zu können. Die im Nachlaß erhaltenen und im Vorjahr erstmals veröffentlichten Fragmente, die eine wohl für manche - jedenfalls für mich - unappetitliche Form der Homosexualität literarisch überhöhen, hätten ihn wohl in seiner Ablehnung bestärkt. Schulers Neigung zu Schlächterburschen mit schwieligen Händen und blutig-geilem Blick, mögen ein Naheverhältnis zu heutigen Schlächtermeistern des Orgien-Mysterien-Theaters nahelegen (deren Hauptmysterium allerdings deren Fähigkeit im Abkassieren von Steuergeldern darstellt), eine Männerbund- und damit staatsbildende Kraft haben Schulers Stallknechte und Metzgerschlafstätten nicht, dies wäre jedoch die einzige Form der Homosexualität, der ein Wert zugesprochen werden könnte Doch gilt für Schuler vielleicht sein eigener Auspruch, "daß wenn Schleusen geöffnet werden, zuerst der Unrat vorausfließt und dann das klare Wasser folgt." Eine Dekadenz der geöffneten Schleusen anstelle einer Dekadenz der aufgestauten Brühe. In diesem Sinne kann Schuler heute noch Schleusen öffnen. Auf den Schlamm folgt dann das hellblaue klare Wasser.

Cosmogonische Augen

Ein größerer Ausschnitt des Nachlaßwerkes Alfred Schulers ist nun durch Baal Müllers Ausgabe zugänglich: Alfred Schuler. Cosmogonische Augen. Gesammelte Schriften. Herausgegeben, kommentiert und eingeleitet von Baal Müller. Paderborn: Igel Verlag 1997. 482 Seiten, 11 Abbildungen, Paperback.
Zwar kann dieses Buch auch nicht den ganzen Schuler bringen, doch ohne den Eingriffen von Klages, der um überhaupt eine Ausgabe veröffentlichen zu können, alle drastisch homosexuellen Partien weggelassen hatte, wird doch das Bild Schulers vollständiger. Über orthographischen Korrekturen kann man natürlich geteilter Meinung sein. Schließlich sind Schulers Texte ohnehin schon sehr schwer zu verstehen, behutsame Korrekturen wie durch Klages könnten die Lesbarkeit sicher etwas erleichtern. Wegen des langen, monomanischen, aber dennoch als Zeugnis der Bekanntschaft unverzichtbaren Vorworts wird die Klages-Ausgabe sicher weiterhin in den Antiquariaten zu den gesuchten Titeln zählen. Das Vorwort dieser neuen Ausgabe erwähnt hingegen beispielsweise die Beziehung zu Papus, doch wird ersichtlich daß Müller tieferes esoterisches Wissen fehlt. Statt dessen natürlich philologische Anmerkungen, es sei aber zugestanden, daß auf allzuviel Philologengegacker verzichtet wurde. (Ein bißchen muß ja sein, um sich vor der Zunft zu rechtfertigen.) Der Kommentarapparat ist sicher ergänzungsbedürftig. Zugegeben, manches angeführt hätte ich nicht gewußt. Doch manches anderes, was ich für anmerkungswert gehalten hätte, fehlt. Daß schließlich bei der armen Prinzessin Lamballe schlicht "nicht ermittelt" steht, deutet auch auf Lücken in der Allgemeinbildung. Hier sei daher in den Worten Erik von Kuehnelt-Leddihns nachgetragen: "Princesse de Lamballe. Diese Freundin der Königin wurde verhaftet, weigerte sich aber im Gefängnis, einen Eid auf die Verfassung abzulegen, worauf man sie einer tobenden Volksmenge überantwortete. Sie wurde nicht nur umgebracht, geköpft und ausgeweidet, nein, man machte aus ihren Geschlechtsteilen ein grausiges "Arrangement", dasdurch die Gassen getragen wurde, ihr Kopf aber wurde auf einer Stange Marie-Antoinette hohnlachend präsentiert. Das geschah knapp vor den Septembermorden des Jahres 1792, liebevoll von Danton, einem "gemäßigten" Republikaner organisiert, wobei die Akteure des Gemetzels große Mengen Weins und je sechs Livres für ihre Mühewaltung bekamen."(Von der Humanität ...zur Bestialität. Eine Bilanz der französischen Revolution)Nicht nur vom Christentum, mehr noch von den humanistischen Revolutionen, kann und sollte eine Kriminalgeschichte geschrieben werden.

Martin Schwarz

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jeudi, 17 avril 2008

Liberal Double-Talk

The Liberal Double-Talk & its Lexical and Legal Consequences

by Tomislav (Tom) Sunic


Language is a potent weapon for legitimizing any political system. In many instances the language in the liberal West is reminiscent of the communist language of the old Soviet Union, although liberal media and politicians use words and phrases that are less abrasive and less value loaded than words used by the old communist officials and their state-run media. In Western academe, media, and public places, a level of communication has been reached which avoids confrontational discourse and which resorts to words devoid of substantive meaning. Generally speaking, the liberal system shuns negative hyperbolas and skirts around heavy-headed qualifiers that the state-run media of the Soviet Union once used in fostering its brand of conformity and its version of political correctness. By contrast, the media in the liberal system, very much in line with its ideology of historical optimism and progress, are enamored with the overkill of morally uplifting adjectives and adverbs, often displaying words and expressions such as "free speech," "human rights," "tolerance," and "diversity." There is a wide spread assumption among modern citizens of the West that the concepts behind these flowery words must be taken as something self-evident.

There appears to be a contradiction. If free speech is something "self- evident" in liberal democracies, then the word "self-evidence" does not need to be repeated all the time; it can be uttered only once, or twice at the most. The very adjective "self-evident," so frequent in the parlance of liberal politicians may in fact hide some uncertainties and even some self-doubt on the part of those who employ it. With constant hammering of these words and expressions, particularly words such as "human rights," and "tolerance", the liberal system may be hiding something; hiding, probably, the absence of genuine free speech. To illustrate this point more clearly it may be advisable for an average citizen living in the liberal system to look at the examples of the communist rhetoric which was once saturated with similar freedom-loving terms while, in reality, there was little of freedom and even less free-speech.

Verbal Mendacity

The postmodern liberal discourse has its own arsenal of words that one can dub with the adjective "Orwellian", or better yet "double-talk", or simply call it verbal mendacity. The French use the word "wooden language" (la langue de bois) and the German "cement" or "concrete" language (Betonsprache) for depicting an arcane bureaucratic and academic lingo that never reflects political reality and whose main purpose is to lead masses to flawed conceptualisation of political reality. Modern authors, however, tend to avoid the pejorative term "liberal double-talk,” preferring instead the arcane label of "the non-cognitive language which is used for manipulative or predictive analyses." (1) Despite its softer and non abrasive version, liberal double-talk, very similar to the communist "wooden language," has a very poor conceptual universe. Similar to the communist vernacular, it is marked by pathos and attempts to avoid the concrete. On the one hand, it tends to be aggressive and judgemental towards its critics yet, on the other, it is full of eulogies, especially regarding its multiracial experiments. It resorts to metaphors which are seldom based on real historical analogies and are often taken out of historical context, notably when depicting its opponents with generic “shut-up” words such as "racists", "anti-Semites", or "fascists".

The choice of grammatical embellishers is consistent with the all-prevailing, liberal free market which, as a rule, must employ superlative adjectives for the free commerce of its goods and services. Ironically, there was some advantage of living under the communist linguistic umbrella. Behind the communist semiotics in Eastern Europe, there always loomed popular doubt which greatly helped ordinary citizens to decipher the political lie, and distinguish between friend and foe. The communist meta-language could best be described as a reflection of a make-belief system in which citizens never really believed and of which everybody, including communist party dignitaries, made fun of in private. Eventually, verbal mendacity spelled the death of communism both in the Soviet Union and Eastern Europe.

By contrast, in the liberal system, politicians and scholars, let alone the masses, still believe in every written word of the democratic discourse. (2) There seem to be far less heretics, or for that matter dissidents who dare critically examine the syntax and semantics of the liberal double-talk. Official communication in the West perfectly matches the rule of law and can, therefore, rarely trigger a violent or a negative response among citizens. Surely, the liberal system allows mass protests and public demonstrations; it allows its critics to openly voice their disapproval of some flawed foreign policy decision. Different political and infra-political groups, hostile to the liberal system, often attempt to publicly drum-up public support on behalf or against some issue - be it against American military involvement in the Middle East, or against the fraudulent behavior of a local political representative. But, as an unwritten rule, seldom can one see rallies or mass demonstrations in Australia, America, or in Europe that would challenge the substance of parliamentary democracy and liberalism, let alone discard the ceremonial language of the liberal ruling class. Staging open protests with banners "Down with liberal democracy!, or "Parliamentary democracy sucks"!, would hardly be tolerated by the system. These verbal icons represent a “no entry zone” in liberalism.

The shining examples of the double-talk in liberalism are expressions such as "political correctness", "hate speech," "diversity," "market democracy," "ethnic sensitivity training" among many, many others. It is often forgotten, though, that the coinage of these expressions is relatively recent and that their etymology remains of dubious origin. These expressions appeared in the modern liberal dictionary in the late 70s and early 80s and their architects are widely ignored. Seldom has a question been raised as to who had coined those words and given them their actual meaning. What strikes the eyes is the abstract nature of these expressions. The expression "political correctness" first appeared in the American language and had no explicit political meaning; it was, rather, a fun- related, derogatory expression designed for somebody who was not trendy, such as a person smoking cigarettes or having views considered not to be "in" or "cool." Gradually, and particularly after the fall of communism, the conceptualization of political correctness, acquired a very serious and disciplinary meaning.

Examples of political eulogy and political vilification in liberalism are often couched in sentimentalist vs. animalistic words and syllabi, respectively. When the much vaunted free press in liberalism attempts to glorify some event or some personality that fits into the canons of political rectitude, it will generally use a neutral language with sparse superlatives, with the prime intention not to subvert its readers, such as: "The democratic circles in Ukraine, who have been subject to governmental harassment, are propping up their rank and file to enable them electoral success." Such laudatory statements must be well-hidden behind neutral words. By contrast when attempting to silence critics of the system who challenge the foundation of liberal democracy, the ruling elites and their frequently bankrolled journalists will use more direct words - something in the line of old Soviet stylistics, e.g.: "With their ultranationalist agenda and hate-mongering these rowdy individuals on the street of Sydney or Quebec showed once again their parentage in the monstrosity of the Nazi legacy." Clearly, the goal is to disqualify the opponent by using an all pervasive and hyperreal word "Nazism." "A prominent American conservative author Paul Gottfried writes: "In fact, the European Left, like Canadian and Australian Left, pushes even further the trends adapted from American sources: It insists on criminalizing politically correct speech as an incitement to "fascists excess." (3)


The first conclusion one can draw is that liberalism can better fool the masses than communism. Due to torrents of meaningless idioms, such as "human rights" and "democracy" on the one hand, and "Nazism" and "fascism" on the other, the thought control and intellectual repression in liberalism functions far better. Therefore, in the liberal “soft” system, a motive for a would-be heretic to overthrow the system is virtually excluded. The liberal system is posited on historical finitude simply because there is no longer the communist competitor who could come up with its own real or surreal "freedom narrative." Thus, liberalism gives an impression of being the best system – simply because there are no other competing political narratives on the horizon.

What are the political implications of the liberal double-talk? It must be pointed out that liberal language is the reflection of the overall socio-demographic situation in the West. Over the last twenty years all Western states, including Australia, have undergone profound social and demographic changes; they have become "multicultural" systems. (multicultural being just a euphemism for a"multiracial" state). As a result of growing racial diversity the liberal elites are aware that in order to uphold social consensus and prevent the system from possible balkanization and civil war, new words and new syntax have to be invented. It was to be expected that these new words would soon find their way into modern legislations. More and more countries in the West are adopting laws that criminalize free speech and that make political communication difficult. In fact, liberalism, similar to its communist antecedents, it is an extremely fragile system. It excludes strong political beliefs by calling its critics "radicals," which, as a result, inevitably leads to political conformity and intellectual duplicity. Modern public discourse in the West is teeming with abstract and unclear Soviet-style expressions such as “ethnic sensitivity training”, "affirmative action”, "antifascism", "diversity", and “holocaust studies". In order to disqualify its critics the liberal system is resorting more and more to negative expression such as "anti-Semites", or " "neo-Nazi", etc. This is best observed in Western higher education and the media which, over the last thirty years, have transformed themselves into places of high commissariats of political correctness, having on their board diverse "committees on preventing racial perjuries", "ethnic diversity training programs", and in which foreign racial awareness courses have become mandatory for the faculty staff and employees. No longer are professors required to demonstrate extra skills in their subject matters; instead, they must parade with sentimental and self-deprecatory statements which, as a rule, must denigrate the European cultural heritage.

By constantly resorting to the generic word "Nazism" and by using the prefix "anti", the system actually shows its negative legitimacy. One can conclude that even if all anti-Semites and all fascists were to disappear, most likely the system would invent them by creating and recreating these words. These words have become symbols of absolute evil.

The third point about the liberal discourse that needs to be stressed is its constant recourse to the imagery of hyperreality. By using the referent of "diversity", diverse liberal groups and infra-political tribes prove in fact their sameness, making dispassionate observers easily bored and tired. Nowhere is this sign of verbal hyperreality more visible than in the constant verbal and visual featuring of Jewish Holocaust symbolism which, ironically, is creating the same saturation process among the audience as was once the case with communist victimhood. The rhetoric and imagery of Holocaust no longer function "as a site of annihilation but a medium of dissuasion."(4).

The Legal Trap

Other than as a simple part of daily jargon the expression "hate speech" does not exist in any European or American legislation. Once again the distinction needs to be made between the legal field and lexical field, as different penal codes of different Western countries are framed in a far more sophisticated language. For instance, criminal codes in continental Europe have all introduced laws that punish individuals uttering critical remarks against the founding myths of the liberal system. The best example is Germany, a country which often brags itself to be the most eloquent and most democratic Constitution on Earth. This is at least what the German ruling elites say about their judiciary, and which does not depart much from what Stalin himself said about the Soviet Constitution of 1936. The Constitution of Germany is truly superb, yet in order to get the whole idea of freedom of speech in Germany one needs to examine the country's Criminal Code and its numerous agencies that are in charge of its implementation. Thus, Article 5 of the German Constitution (The Basic Law) guarantees "freedom of speech." However, Germany's Criminal Code, Section 130, and Subsection 3, appear to be in stark contradiction to the German Basic Law. Under Section 130, of the German criminal code a German citizen, but also a non-German citizen, may be convicted, if found guilty, of breaching the law of "agitation of the people" (sedition laws). It is a similar case with Austria. It must be emphasized that there is no mention in the Criminal Code of the Federal Republic of Germany of the Holocaust or the Nazi extermination of the Jews. But based on the context of the Criminal Code this Section can arbitrarily be applied when sentencing somebody who belittles or denies National- Socialist crimes or voices critical views of the modern historiography. Moreover a critical examination of the role of the Allies during World War may also bring some ardent historian into legal troubles.

The German language is a highly inflected language as opposed to French and English which are contextual languages and do not allow deliberate tinkering with prefixes or suffixes, or the creation of arbitrary compound words. By contrast, one can always create new words in the German language, a language often awash with a mass of neologisms. Thus, the title of the Article 130 of the German Criminal Code Volksverhetzung is a bizarre neologism and very difficult compound word which is hard to translate into English, and which on top, can be conceptualized in many opposing ways. (Popular taunting, baiting, bullying of the people, public incitement etc..). Its Subsection 3, though is stern and quite explicit and reads in English as follows:

"Whoever publicly or in a meeting approves of, denies or renders harmless an act committed under the rule of National Socialism… shall be punished with imprisonment for not more than five years or a fine."

If by contrast the plight of German civilians after World War II is openly discussed by a German academic or simply by some free spirit, he may run the risk of being accused of trivializing the official assumption of sole German guilt during World War II. Depending on a local legislation of some federal state in Germany an academic, although not belittling National Socialist crimes may, by inversion, fall under suspicion of "downplaying" or "trivializing" Nazi crimes - and may be fined or, worse, land in prison. Any speech or article, for instance, that may be related to events surrounding World War may have a negative anticipatory value in the eyes of the liberal inquisitors, that is to say in the eyes of the all prevailing Agency for the protection of the German Constitution (Verfassungschutz). Someone's words, as in the old Soviet system, can be easily misconstrued and interpreted as an indirect belittlement of crimes committed by National-Socialists.

Germany is a half-sovereign country still legally at war with the USA, and whose Constitution was written under the auspices of the Allies. Yet unlike other countries in the European Union, Germany has something unprecedented. Both on the state and federal levels it has that special government agency in charge of the surveillance of the Constitution. i.e., and whose sole purpose is to keep track of journalists, academics and right-wing politicians and observe the purity of their parlance and prose. The famed "Office for the Protection of the Constitution" ("Verfassungschutz"), as the German legal scholar Josef Schüsselburner writes, "is basically an internal secret service with seventeen branch agencies (one on the level of the federation and sixteen others for each constituent federal state). In the last analysis, this boils down to saying that only the internal secret service is competent to declare a person an internal enemy of the state." (5)

In terms of free speech, contemporary France is not much better. In 1990 a law was passed on the initiative of the socialist deputy Laurent Fabius and the communist deputy Jean-Claude Gayssot. That law made it a criminal offence, punishable by a fine of up to 40,000 euros, or one year in prison, or both, to contest the truth of any of the "crimes against humanity" with which the German National Socialist leaders were charged by the London Agreement of 1945, and which was drafted for the Nuremberg Trials. (6) Similar to the German Criminal Code Section 130, there is no reference to the Holocaust or Jews in this portion of the French legislation. But at least the wording of the French so-called Fabius-Gayssot law is more explicit than the fluid German word "Volksverhetzung." It clearly states that any Neo-Nazi activity having as a result the belittling of Nazi crimes is a criminal offence. With France and German, being the main pillars of the European Union these laws have already given extraordinary power to local judges of EU member countries when pronouncing verdicts against anti-liberal heretics.
For fear of being called confrontational or racist, or an anti-Semite, a European politician or academic is more and more forced to exercise self-censorship. The role of intellectual elites in Europe has never been a shining one. However, with the passage of these "hate laws" into the European legislations, the cultural and academic ambiance in Europe has become sterile. Aside from a few individuals, European academics and journalists, let alone politicians, must be the masters of self-censorship and self-delusion, as well as great impresarios of their own postmodern mimicry. As seen in the case of the former communist apparatchiks in Eastern Europe, they are likely to discard their ideas as soon as these cease to be trendy, or when another political double-talk becomes fashionable.

The modern politically-correct language, or liberal double-talk, is often used for separating the ignorant grass-roots masses from the upper level classes; it is the superb path to cultural and social ascension. The censorial intellectual climate in the Western media, so similar to the old Soviet propaganda, bears witness that liberal elites, at the beginning of the third millennium, are increasingly worried about the future identity of the countries in which they rule. For sure, the liberal system doesn’t yet need truncheons or police force in order to enforce its truth. It can remove rebels, heretics, or simply academics, by using smear campaigns, or accusing them of "guilt by association," and by removing them from important places of decision - be it in academia, the political arena, or the media. Once the spirit of the age changes, the high priests of this new postmodern inquisition will likely be the first to dump their current truths and replace them with other voguish "self-evident" truths. This was the case with the communist ruling class, which after the break down of communism quickly recycled itself into fervent apostles of liberalism. This will again be the case with modern liberal elites, who will not hesitate to turn into rabid racists and anti-Semites, as soon as new "self evident" truths appear on the horizon.


DR. TOMISLAV SUNIC
……………………….

This article is based on Dr. Sunic's speech at the Sydney Forum, Sydney, Australia, August 25, 2007. Dr.Tom Sunic is a former US professor in political science and author. His latest book is: Homo americanus: Child of the Postmodern Age (2007).
http://www.amazon.com/Homo-americanus-Child-Postmodern-Age/dp/1419659847

Notes:
1. A. James Gregor, Metascience and Politics (1971 London: Transaction, 2004), p.318.

2. Alan Charles Kors, "Thought Reform: The Orwellian Implications of Today's College Orientation," in Reasononline, (March 2000). See the link: http://reason.com/0003/fe.ak.thought.shtml

3. Paul Gottfried, The Strange Death of Marxism (Columbia and London: University of Missouri Press, 2005), p.13.

4. Jean Baudrillard, The Evil Demons of Images (University of Sydney: The Power Inst. of Fine Arts, 1988), p.24.

5. Josef Schüsslburner, Demokratie-Sonderweg Bundesrepublik (Lindenblatt Media Verlag. Künzell, 2004), p. p.233

6. See Journal officiel de la République française, 14 juillet 1990 page 8333loi n° 90-615.

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Bernanos contre les robots

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Bernanos contre les robots
http://www.immediatement.com
La leçon faite à Jacques Delors, Alain Minc et Hans Tietmayer : dès 1940, Georges Bernanos dénonçait prophétiquement le futur empire économique universel et la violence totalitaire de la technique.
Le monde moderne a le feu dans ses soutes et va probablement sauter , écrivait lucidement Georges Bernanos le 17 Avril 1935 dans Marianne, l'hebdomadaire de la gauche républicaine où, à la demande pressante d'Emmanuel Berl, il avait choisi d'écrire.. Le feu moderne, Bernanos l'avait éprouvé dans la sainteté misérable des tranchées de 1914-1918, dans la brutalité de la guerre de matériel où le poilu mystérieusement héroïque acceptait son destin de chair à canon, abdiquait chaque jour davantage toute initiative aventureuse et renonçait à ce que Le Chemin de la Croix-des-Ames allait appeler l'art individuel, l'inspiration du soldat.
Là où Jünger, Ernst von Salomon ou Blaise Cendrars dans L'Homme foudroyé voient encore des occasions de combats chevaleresques, de coups de main qui défient la camarde, Bernanos, comme Jules Romains, Genevoix et surtout Jean Giono, entrevoit dans la guerre moderne, dans la mobilisation totale de masses de combattants au front et de masses d'ouvriers dans les usines d'armement, le triomphe sinistre de la technique, la mort de la vieille civilisation chrétienne et des plus belles libertés. Un monde gagné par la technique, écrira-t-il en 1945 dans La France contre les robots, est perdu pour la liberté.
A chaque fois que Bernanos réfléchit à la technique, à son emprise totalitaire sur les hommes du XXe siècle, à l'ordre mondial dont la deuxième guerre et Yalta ont accouché dans la pire violence, il revient douloureusement à l'expérience des tranchées, à cette solitude de la pitié -- selon la belle expression de Giono -- qui lui révéla, en même temps que la soumission de ses contemporains à une mort planifiée, leur grandeur surnaturelle, leur part divine.
C'est pourquoi Bernanos n'a pas le triste honneur de figurer dans le mémorial glacé des penseurs de la technique au XXe siècle. Face à ce qu'il appelle un nouveau Moloch, il a refusé le bouclier menteur du concept ou du système ramifié, il a rejeté les arguties jésuites, leur odieux réalisme capitulard qui s'accommode de toutes les aliénations, les justifications aristotéliciennes ou thomistes du monde industriel par une prétendue croissance de l'information ou un élan vital à la Teilhard de Chardin.
Il n'a pas toujours choisi les armes de Saint-Georges. Les pages géniales sur la genèse des totalitarismes dans Les Grands Cimetières sous la lune, les centaines de chroniques ou les conférences d'après-guerre multiplient certes les coups contre l'ordre technicien mondial, les Etats totalitaires avoués -- Allemagne, Italie ou Russie -- ou honteux comme l'Amérique capitaliste. Mais le plus souvent, ses phrases bousculées, pressées, emportées échappent à l'ordre humain, au lecteur moderne, à celui qui ne peut plus se livrer à l'aventure abyssale du c ur, de l'abandon à Dieu, à celui qui est fouaillé par la crainte du surnaturel .
Ses chroniques, ses pamphlets se tiennent donc à la lisière de notre monde. Mais ce serait péché de bêta orgueilleux que de prétendre qu'on y voit la trame de l'autre, et Bernanos le premier en bondirait de rage. Mieux vaut alors ne rien dire. Mais comme Léon Bloy, le créateur de Mouchette court ici le risque de la plus grande liberté que nous ayons : reconnaître ce qui nous dépasse.
Il n'y aura donc chez lui, prévient Bernanos, aucun système de la technique, aucune critique universelle. Rien qu'un témoignage. Mais à chaque vision de la monstruosité du monde où l'homme accepte de s'éloigner un peu plus du dépôt sacré de ses origines, l'écrasant et victorieux Moloch technicien va faire saigner davantage le c ur aimant du témoin.
Il n'y a pas de résumé possible du Chemin de la Croix-des-Ames ou de La France contre les robots. C'est dommage pour Jacques Attali, Jean-Claude Trichet ou les crétins cyniques qui veulent vendre aux esclaves modernes une mondialisation heureuse : s'ils s'engagent dans la lecture de Bernanos, dans le beau chemin souffrant que lui a révélé la mise en place du marché mondial, déjà dénoncé en 1945, ils en sortiront plus humbles et à genoux.
Car c'est à eux, les maîtres du monde, les élites nouvelles, comme à nous, les infimes agents soumis de l'ordre mondial, que s'adresse prophétiquement Bernanos. Il ne pouvait souhaiter meilleur lecteur que le Français d'aujourd'hui, battu de mauvaises nouvelles, accablé d'incertitudes et de mensonges odieux, perdu de voir sa nation disparaître dans le silence trompeur et rusé des édiles et des élites : l'Etat totalitaire, national ou mondial, démontre Bernanos, a toujours menti et pratiqué l'imposture. La guerre américaine contre le nazisme n'était pas une croisade de la démocratie, écrivait-il dès 1943, mais le meilleur moyen d'asseoir un capitalisme qui parle le patois yankee .
Le mythe de l'égalité devant la loi, c'était aussi, en d'autres temps, l'habillage de la soumission des individus à l'Etat le plus omnipotent, le plus brutal, adversaire des anciennes libertés dans la famille, la commune ou le métier . Et la démocratie, c'était les comices agricoles, le maquignonnage de l'intérêt grossier et du profit solide.
Bernanos a devancé un Jünger ou un Heidegger
Ce qu'Amsterdam et l'AMI réalisent, Bernanos l'avait dénoncé il y a cinquante ans. Parce qu'il n'affronte pas la technique avec les armes qu'elle impose à ses adversaires reconnus -- le langage sectionné, lui-même mécanique, de l'analyste, ou juridique c'est-à-dire romain et païen dit La France contre les robots -- Bernanos a vraiment devancé un Jünger ou un Heidegger. Il faut attendre 1953 pour que ce dernier prononce à Munich sa célèbre conférence sur La Question de la technique, devant un public enthousiaste où figurent trois spécialistes du problème : Ortega y Gasset et les frères Jünger -- Ernst, bien sûr, l'auteur du Travailleur et de La Mobilisation totale avant-guerre, et Friedrich-Georg, qui venait de publier La Perfection de la technique. Heidegger y montre que l'essence de la technique n'est pas seulement, comme le croyaient ses prestigieux auditeurs, la provocation envers la nature, sa mise en demeure comme l'a dit Pierre Boutang : elle accomplit aussi l'exil de la philosophie grecque hors de son sol natal, achevant ainsi le mouvement d'éloignement des origines que représente la métaphysique. C'est, au sens propre, l'Occident, le déclin de la pensée grecque, du seul moment philosophique de l'histoire humaine.
A l'inquiétude soulevée par ce lent processus peut seul répondre un recours mystérieux à ce qui nous sauve , au risque d'une transcendance sacrée, à ce que Heidegger appelle encore la piété de la pensée Ainsi, ce cheminement philosophique, même s'il relève de cette pensée allemande que Bernanos tenait pour une des sources du totalitarisme moderne, aboutit à la même ligne de crête entre le danger permanent, envahissant de la technique et la révélation surnaturelle qu'elle ménage à l'homme moderne.
Bernanos, lui, a la grâce d'aller plus loin : puisque la grande machinerie met à mort la chrétienté, puisque le moderne aveugle ne peut plus voir la sainteté, la technique est l'occasion du seul combat mystique que puisse comprendre l'homme du XXe siècle.
Le parcours aventureux d'un autre assistant à la conférence de Heidegger vient nourrir cette vérité dérangeante, cette flamme fragile :
Ernst Jünger, après avoir brossé à coups de concepts techniciens précis et froids comme l'acier le portrait de l'homme nouveau, le travailleur, renonce au piège d'une armature théorique trop semblable au monde totalitaire qu'elle prétendait librement décrire.
Dès la fin des années trente, il recourt plus volontiers à des fables, à de vrais mythes comme Sur les Falaises de marbre ou à son Journal. Il s'y transforme alors, à l'instar de Bernanos, en témoin inspiré des ravages du nihilisme : Heidegger aussi ou Pierre Boutang dans l'Ontologie du secret ont relié cette tendance lourde du XXe siècle au triomphe du contrôle mécanique de l'existence. Cependant, jusque dans les derniers tomes de Soixante-dix s'efface, il continue à voir dans la technique une incarnation de forces naturelles qui rappellent souvent les dieux païens.
Or Bernanos discerne justement dans l'Etat technicien une résurrection du paganisme antique dont il rend moins responsable le Diable que l'Eglise de la Renaissance ou les Borgia. Le XVIe siècle est frère du nôtre en idolâtrie et abjection. C'est à peine si nos glorifications païennes changent de nom : la raison d'Etat, le profit, la spéculation abondée par la machine demeurent, auxquelles nous avons ajouté les usurpations de la race, de la nation, du parti.
Reprendre le grand mouvement de 1789
Il faut donc voir Helmut Kohl, Tietmayer ou Jacques Delors au XVIe siècle, la fraise au cou, bien plissée et délicate : ce sont de vieux robots , les dangereux imbéciles bernanosiens. Mais Bernanos, dans sa grande et prophétique charité, ne désespère pas d'eux : il est l'écrivain de l'espérance. Et ses mots, aussi simples et dénués de ruse que ceux de Jeanne à son procès, parlent à notre liberté : la civilisation, la France -- deux parfaits synonymes -- peuvent nous garder du pire à condition de reprendre le grand mouvement de 1789 , notre tradition de presque mille ans de franchises coutumières et personnelles que 1793, la révolution industrielle, le capitalisme, sa version léniniste ou fasciste ont voulu mettre à bas.
Mais Bernanos n'est pas un petit marquis à paradoxes, un clerc soucieux de briller dans le vide affreux de sa nuit intérieure : c'est le marcheur sacré, le pauvre divinisé qui ne renonce à rien de ce que l'éclatante justice de la sainteté lui peut montrer.
On voit souvent, à la Bayorre, Bernanos chevaucher sa moto Peugeot. Ailleurs, on apprend qu'il était fier d'avoir fait 46 heures d'avion de guerre en 1917. C'était un humble usage, médiéval et gamin, de la technique : lui qui préférait le brutal Pizarro, un barbare que peut encore saisir la pitié, à l'ingénieur américain ou russe qui ne voit rien des destructions lointaines et immenses qu'il a provoquées, cherchait toujours l'échappée libre, l'assaut chevaleresque, le moment où, à moto ou sur un biplan Farman, l'homme croit qu'il est plus que jamais dans la main de Dieu.
Jean Védrines
 
Jean Védrines est critique et romancier. Dernier livre paru : Château perdu, La Différence, 1997.
La Liberté pourquoi faire ? est disponible en Folio, La France contre les robots et Le Chemin de la Croix-des-Ames figurent dans le tome II des Ecrits de combat dans la Pléiade.

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mercredi, 16 avril 2008

Thoughts on Hegelian Geopolitics

RUSSIA IN 2008: THOUGHTS ON HEGELIAN GEOPOLITICS

by Troy Southgate

Despite the negative image of Russia that is currently being portrayed in the media, it seems pretty feasible that Putin - possibly since his last meeting with Bush in 2007 - was eventually persuaded, albeit covertly, to capitulate to Western demands. That he's a loyal friend of Russia's capitalist ruling class is not even up for debate, even if some people in Right-wing circles do seem to respect him for ousting the Jewish oligarchs several years ago. In reality, however, Russian capitalism is no better than its Jewish-dominated counterpart and Putin's so-called 'successor', Dmitry Medvedev, is little more than a puppet of the same socio-economic regime. But when you stop to think about the vilification of Russia over the last few months, especially with the well-publicised Litvinenko affair, the systematic construction of what many people are interpreting as a 'new Cold War' is, in a sense, rather Hegelian. The reason being, that contradiction, of course, eventually leads to reconciliation and some commentators believe that the thesis-antithesis-synthesis formula is better expressed in the dictum: 'problem-alternative-solution'. Perhaps this potential return to a bi-polar world is a shift beyond Samuel Huntingdon's 'Clash of Civilisations' strategy in which there is merely one superpower (United States) fighting against an imagined or manufactured opponent (Islam)? Let's think seriously for a moment about the relationship between the West and Russia in both a Hegelian (after Fichte) and a geopolitical context:

* thesis or intellectual proposition (Western capitalism)
* antithesis or negation of the proposition (Soviet communism)
* synthesis or reconciliation (a gradual alliance, through perestroika, between the two)
* presentation of a new antithesis (Cold War 2, Russia as the 'new' bogeyman)

... and so it goes on ...

Russia has not exactly presented a new antithesis in an ideological sense as Soviet Communism claimed to do, of course, and it was Hegel's view that no new antithesis can ever arise due to the eventual disappearance of extreme ideological and philosophical positions, but this rather idealistic perspective does not seem to take into consideration the fact that convenience will often outweigh genuine revolutionary fervour. It remains to be seen where Islam will fit into all this.

Food for thought.

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Le Traité de Rapallo et ses suites

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Le Traité de Rapallo et ses suites

 

16 avril 1922 : Traité de Rapallo : l’Allemagne vaincue en 1918 et l’URSS, sortant de la guerre civile qui avait opposé Blancs et Rouges, concluent un accord bilatéral, sous la houlette de leurs ministres respectifs, Walther Rathenau et Georges Tchitchérine. L’URSS renonce à réclamer des réparations de guerre à l’Allemagne, qui, en échange, promet de vendre des biens et produits d’investissement infrastructurel à la Russie rouge. La conférence de Gênes avait été suggérée par la Grande-Bretagne, pour régler l’ordre d’après-guerre, après que l’URSS ait refusé de payer les dettes de l’Empire des Tsars. Les Britanniques suggéraient une reconnaissance de l’URSS, l’établissement de relations diplomatiques normales et, surtout, visaient à récupérer des intérêts dans les pétroles de Bakou. Le financement par les Britanniques de la contre-révolution blanche avait pour objectif principal d’éloigner le pouvoir rouge, centré autour de Moscou et de Petersbourg, des champs pétrolifères caucasiens : les artisans de cette manœuvre étaient Churchill et le magnat Deterding, de la Shell. L’échec des armées blanches et la reconquête soviétique du Caucase obligèrent les Britanniques à changer de stratégie et à accepter d’intervenir dans le fameux « NEP » (= « Nouveau Programme Economique », lancé par Lénine. Au même moment, les Américains commencèrent à s’intéresser, eux aussi, au pétrole du Caucase, espérant profiter des déconvenues britanniques, suite à la défaite des armées blanches. Avant le coup de Rapallo, imprévu, un conflit frontal entre la Grande-Bretagne et les Etats-Unis se dessinait à l’horizon, ayant pour objet la maîtrise planétaire du pétrole. Il se poursuivit néanmoins, par personnes interposées, notamment en Amérique ibérique, mais le bloc informel germano-russe constituait désormais le danger principal, interdisant toute confrontation directe entre Londres et Washington.

 

Rathenau n’avait nulle envie, au départ, de lier le sort de l’Allemagne à celui de la jeune URSS. Mais le poids colossal des réparations, exigées par les Français et les Britanniques, était tel qu’il n’avait pas d’autres solutions. En 1921, Londres avait imposé une taxe prohibitive de 26% sur toutes les importations allemandes, contrecarrant de cette façon toute possibilité de rembourser les dettes imposées à Versailles dans des conditions acceptables. L’Allemagne avait besoin d’une bouffée d’air, d’obtenir des matières premières sans avoir à les acheter en devises occidentales, de relancer son industrie. En échange de ces matières premières, elle participerait à la consolidation industrielle de l’URSS en lui fournissant des biens de haute technologie. L’ « Ultimatum de Londres » de 1921 avait exigé le paiement de 132 milliards de marks-or, somme que John Maynard Keynes jugeait disproportionnée, si bien qu’elle entraînerait à terme un nouveau conflit. Pire : si l’Allemagne n’acceptait pas ce diktat, finalement plus draconien que celui de Versailles, elle encourait le risque de voir la région de la Ruhr, son cœur industriel, occupée par les troupes alliées. L’objectif était de pérenniser la faiblesse de l’Allemagne, de juguler tout envol de son industrie, de provoquer un exode de sa population (vers les Etats-Unis ou les possessions britanniques) ou une mortalité infantile sans précédent (comme lors du blocus des côtes allemandes dans l’immédiat après-guerre).

 

Avec le Traité de Rapallo, les Britanniques et les Français voyaient se dessiner un spectre à l’horizon : la relance de l’industrie allemande, le paiement rapide de la dette donc l’échec du projet d’affaiblissement définitif du Reich, et le développement tout aussi rapide des infrastructures industrielles soviétiques, notamment celles de l’exploitation des champs pétrolifères de Bakou, qui serait dès lors aux mains des Russes eux-mêmes et non pas de « patrons » anglais ou américains. Sur tout le territoire allemand, prévoyaient les accords bilatéraux de Rapallo, un réseau de distribution d’essence, dénommé DEROP (« Deutsch-Russische Petroleumgesellschaft »), permettant à l’Allemagne de se soustraire à toute dépendance pétrolière à l’égard des puissances anglo-saxonnes. Le 22 juin 1922, un peu plus de deux mois après la conclusion des accords de Rapallo, Rathenau fut assassiné à Berlin par un commando soi-disant nationaliste et monarchiste, relevant d’une mystérieuse « Organisation C ». A la fin de l’année, le 26 décembre 1922, Poincaré, lié aux intérêts anglais, trouve un prétexte –l’Allemagne n’a pas livré suffisamment de bois pour placer des poteaux télégraphiques en France-  pour envahir la Ruhr. Les troupes françaises entrent dans la région dès le 11 janvier 1923. Les Anglais s’abstiennent de toute occupation, faisant porter le chapeau à leurs alliés français, sur qui retombe tout l’opprobre dû aux 150.000 déportés et expulsés, aux 400 ouvriers tués et aux 2000 civils blessés, sans omettre dans cette sinistre comptabilité l’exécution du Lieutenant Léo Schlageter.

 

L’assassinat de Rathenau n’est pas un fait historique isolé. Les organisations terroristes, chargées d’exécuter les planificateurs politiques de stratégies industrielles jugées inacceptables pour Londres ou Washington, n’ont pas toujours eu une couleur monarchiste et/ou nationaliste, comme dans le cas de Walther Rathenau. Les services anglo-saxons ont aussi, pour exécuter leurs basses besognes, des pantins d’extrême gauche, notamment ceux de la RAF ou Bande à Baader. Ainsi, Jürgen Ponto, Président de la Dresdner Bank, qui avait planifié, avec les Sud-Africains, le retour de l’étalon-or pour pallier aux fluctuations du dollar et du prix du pétrole, fut assassiné le 31 juillet 1977 par des tueurs se réclamant de la Bande Baader-Meinhof. Quelques semaines plus tard, ce fut au tour du « patron des patrons », Hanns-Martin Schleyer. Mais ce n’est pas tout. Le 29 novembre 1989, la voiture blindée d’Alfred Herrhausen, directeur de la Deutsche Bank, explose. Herrhausen avait été le conseiller économique du Chancelier Kohl, à l’époque de la dislocation de l’empire soviétique et des manifestations populaires en Allemagne de l’Est réclamant la réunification allemande. L’Allemagne projetait d’investir dans les nouveaux Länder de l’ancienne RDA, dans les pays de l’ex-Comecon et en Russie. Les milieux financiers anglais et américains craignaient que cette masse de capitaux, destinés au développement de l’Europe centrale et orientale n’alimentât plus les investissements européens et allemands aux Etats-Unis, ne permettant plus, par conséquent, de maintenir le système américano-centré à flot. La presse anglaise venait de faire campagne, via notamment le « Sunday Telegraph », contre l’émergence d’un « Quatrième Reich ». Malgré l’assassinat de Herrhausen, le Chancelier Kohl annonça publiquement, quelques semaines plus tard, que son gouvernement envisageait le développement des grands moyens de communication en Europe, notamment la création d’un chemin de fer Paris-Hanovre-Berlin-Varsovie-Moscou.

 

La mort tragique de Herrhausen fut le premier acte d’une contre-stratégie anglo-saxonne : pour ébranler cet axe Paris-Berlin-Moscou en gestation, il fallait frapper à deux endroits, dans les Balkans, où commence alors le processus de dislocation de la Yougoslavie, et en Irak, site des principaux champs pétrolifères de la planète. De Rapallo aux guerres contre l’Irak et de celle-ci à la proclamation unilatérale de l’indépendance du Kosovo, il existe un fil conducteur bien visible pour ceux qui n’ont pas la naïveté de prendre pour argent comptant les vérités de propagande diffusées par les grands médias internationaux et les discours larmoyants sur les droits de l’homme bafoués que glapissaient les Lévy, Glucksmann et autres Finkelkraut (Robert Steuckers).

 

Source (à lire et à relire !) : William ENGDAHL, « Pétrole : une guerre d’un siècle – L’ordre mondial anglo-américain », Ed. Jean-Cyrille Godefroy, Paris, 2007, ISBN-978-2-86553-200-1, pour consulter le programme de l’éditeur : www.editionsjcgodefroy.fr .  

 

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M. Allais: l'économie humaniste

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Frédéric VALENTIN:

 

Maurice ALLAIS : L’économie humaniste

Intervention à la 8ième Université d'été de «Synergies Européennes», Groppelo di Gavirate, juillet/août 2000

I - Conception de la science économique

II - L’économie de marchés.

III - La dynamique monétaire

IV - Assomption de l’Europe.

Né en 1911, prix Nobel en 1988, Maurice Allais a publié sur les problèmes de l’Europe, ces dernières années, plusieurs ouvrages destinés à un vaste public. En 1991, avec “l’Eu­rope face à son avenir ”, il posait très clairement le pro­blème des européens : leur tâche dans cette fin de siècle, c’est de réaliser la Communauté culturelle, politique et économique qui constitue la condition de leur épanouis­sement dans le XXI° siècle. Il montre inlassable­ment les ex­tra­vagances et incohérences des conceptions de la Com­mission européenne qui emploie systématiquement la mé­thode autoritaire. On lui doit aussi une clarification des con­ditions de la réussite d’une monnaie commune.

Depuis ces premiers travaux, en 1943, M. Allais donne des leçons de clarté, de lucidité et de courage.  Aussi, après une présentation de sa conception de la science écono­mique, nous exposerons brièvement le cadre qu’il a élabo­ré, l’économie de marchés, et les difficultés que provoque la théorie monétaire dominante, dont les profiteurs sont essentiellement les oligarchies financières. De là, nous mon­trerons les projets d’amélioration de la construction européenne à laquelle le maître se consacre désormais.

I - CONCEPTION DE LA SCIENCE ÉCONOMIQUE

L’autoportrait de Maurice ALLAIS, publié en 19891, expose avec clarté les principes fondamentaux qu’il a suivis dans tous ses travaux : 

 1 - Le critère fondamental de l’expérience. Il n’y a de science que là où existent des régularités susceptibles d’être analysées et d’être prédites. Toute science repose sur des modèles et tout modèle comporte trois stades : hypothèses bien explicitées ; conséquences de celles-ci ; con­frontation des conséquences avec les observations. L’é­conomiste est intéressé par la première et la troisième de ces phases.

Une théorie dont ni les hypothèses ni les conséquences ne peuvent être confrontées avec le réel est dépourvu de tout intérêt scientifique. Une théorie qui n’est pas vérifiée par les données de l’expérience n’a aucune valeur et doit être rejetée. C’est ainsi que récemment (2) le prix Nobel citait le modèle RUNS de la Banque mondiale qui considère 22 régions, 20 produits, 8 périodes et, finalement, 77.000 va­riables.  “En réalité un tel modèle n’a aucune signification ni économique, ni économétrique” 

 2 - La recherche d’invariants. Pour une très large part, l’élaboration des sciences sociales repose sur la recherche de relations et de quantités invariantes dans le temps et dans l’espace. L’activité économique des hommes se ramè­ne à la recherche de surplus, à leur réalisation et à leur ré­partition. Il existe une relation invariante entre la pro­duc­tion et les facteurs fournis dans le passé qui peuvent être considérés comme à l’origine de cette production. De mê­me, on constate une utilité cardinale pour tous les sujets ; elle peut se représenter par une fonction invariante des va­riations relatives de leur capital. Cela vaut aussi pour la dy­namique monétaire.

3 - L’utilisation des mathématiques. Les mathématiques ne peuvent être qu’un outil. La rigueur mathématique des rai­sonnements ne saurait en aucun cas justifier une théorie fondée sur des postulats étrangers à la nature réelle des phé­nomènes étudiés. Le véritable progrès ne réside pas dans l’exposé formel qui ne doit jamais être considéré com­me une garantie de qualité, mais dans la découverte d’idées directrices.

4 - La tyrannie des doctrines dominantes. Ce n’est que par la constante remise en cause des “vérités établies” que la science peut réellement progresser. Mais tout pro­grès se heurte à la tyrannie des idées dominantes et des “es­tablishments” dont elles émanent. Aussi, Maurice Allais reprend-il à son compte le jugement de W. Pareto “l’his­toire de la science se réduit à l’histoire des erreurs des hom­mes compétents” et affirme, avec courage, que l’hom­me de science doit se préoccuper uniquement de la recher­che de la vérité, quoi qu’il puisse lui en coûter.

II - L’ÉCONOMIE DE MARCHÉS

Le modèle d’équilibre général de Walras suppose qu’il exis­te à tout moment un système unique de prix pour tous les opérateurs et que les fonctions sont continues, dérivables et convexes. Ces hypothèses sont totalement irréalistes et donc à rejeter. A la place, M. Allais a développé depuis 1967 un modèle de dynamique économique fondé sur la recherche décentralisée des Surplus distribuables.

A - La recherche de surplus

Le modèle de l’économie de marchés retient les caractè­res essentiels de la réalité, en particulier : il y a, hors d’é­qui­libre, des systèmes de prix spécifiques à chaque opé­ra­tion d’échange ; il existe un ensemble de marchés partiels sur lesquels se fixe un prix par confrontation des offres et des demandes, suivi d’échanges effectifs.

Dans le modèle de l’économie de marchés, les règles de com­portement des agents économiques sont les suivantes (3):

a) Tout opérateur cherche à trouver un ou plusieurs autres opérateurs disposés à accepter un échange dégageant un surplus susceptible d’être réparti.

b) Une situation d’équilibre est celle où il n’existe aucune possibilité de réaliser un surplus quelconque. Une situation d’efficacité maximale reste définie comme une situation où un indice de préférence quelconque peut être considéré comme maximal.

Cette approche présente l’avantage de faire reposer toute la dynamique sur la recherche, la réalisation et la répar­tition des surplus, à la place de la recherche du système de prix d’équilibre.

B - L’efficacité de l’économie de marchés

La réussite économique ne résulte pas d’une recette unique valable en tout temps et en tout lieu. Mais il existe des conditions nécessaires.

1 - Chaque pays est dans une situation où les ressources dont il dispose sont limitées alors que les besoins sont illimités. Tout pays est condamné à l’efficacité, qui repose sur deux piliers : 

 - La décentralisation de la gestion économique : des mil­lions d’agents à la recherche des meilleures solutions ont plus de chance de trouver ces solutions efficaces que quel­ques personnes même très intelligentes. 

 - Les agents économiques doivent être incités à réaliser les progrès techniquement réalisables qu’ils découvrent. Les ré­munérations sont un moyen d’incitation.

2 - Partout dans le monde, la bureaucratie est inefficace. Pour les mêmes raisons : 

 * Loi de Parkinson de prolifération des bureaux. 

 * Loi de mouvement ascendant des rapports (vers les supérieurs).

* Loi de la compétence décroissante (les supérieurs trai­tent d’affaires locales dont ils sont très éloignés). 

 * Prise de décision au hasard (du fait d’un trop grand nom­bre de dossiers à traiter en peu de temps).

Le lien de causalité entre irresponsabilité et mauvaise ges­tion est un des plus sûr facteur d’inefficacité des bureau­craties.

3 - L’État doit faire ce qu’il est le seul à pouvoir faire. Le suc­cès des entreprises dépend de deux sortes de facteurs. Les uns sont positifs, concrets, spéciaux à chaque cas: in­vestissements judicieux ; bons produits ; etc. Les autres sont négatifs et uniformes : rien ne doit venir contrarier les facteurs positifs ; aucun fléau ne doit venir annuler les avantages réunis par les hommes. Or, la lutte contre les facteurs négatifs met en jeu l’État. Il doit protéger l’envi­ronnement, tant la santé que les libertés, la végétation que l’architecture en formulant les réglementations et normes techniques applicables ; et favoriser le travail et le plein emploi des équipements par une politique fiscale adaptée et une gestion du change en relation avec l’État de la ba­lance des paiements courants.

III -  LA DYNAMIQUE MONÉTAIRE

Depuis au moins deux siècles, de profonds désordres moné­taires se sont constatés au sein des économies occiden­tales. Ils se sont caractérisés par des fluctuations considé­rables de la valeur réelle de la monnaie, par l’impossibilité de calculs économiques corrects, par une répartition des re­venus très inéquitable, par des taux de chômage éthi­que­ment inacceptables, par une tendance permanente à spo­lier les épargnants individuels. Le système financier trans­national est générateur de déséquilibres : il donne nais­san­ce à un affairisme malsain et à une spéculation effrénée.

A - A l’origine des crises

Toutes les crises du XIX° siècle et du XX° siècle, la grande dépression de 1929, toutes les crises des monnaies sur le plan international, ont tiré leur origine des soi-disant “miracles du crédit” et de la multiplication abusive des moyens de paiement au seul profit de certains. La monnaie contemporaine est débarassée de tout support matériel. Elle repose sur la seule confiance. La création de moyens de paiement ex nihilo par simple jeu d’écritures ban­caires est assimilé par le prix Nobel à une association de faux monnayeurs.

Qu’il s’agisse des taux de change ou des cours des actions, on constate une dissociation entre les données de l’éco­no­mie réelle et les cours nominaux déterminés par la spécu­lation qui est permise, alimentée et amplifiée par le crédit tel qu’il fonctionne actuellement. Alors que dans un cadre in­stitutionnel approprié la spéculation serait utile et stabi­lisante, elle est actuellement déstabilisatrice et noci­ve. C’est l’importance des flux financiers spéculatifs qui ex­plique l’extraordinaire instabilité des cours du dollar. C’est le développement de l’endettement sur le plan inter­na­tional, avec utilisation mondiale du dollar comme unité de valeur, qui permet au niveau de vie moyen américain de se maintenir à une valeur de 3% plus élevée que celle qu’il aurait dans une situation d’équilibre.

B - L’impôt sur le capital et la réforme monétaire

Afin de rendre équitable la distribution des revenus et de diminuer considérablement l’ampleur des fluctuations, l’au­teur propose une réforme de la fiscalité accompagnée d’une généralisation de l’indexation, ainsi qu’un ensemble de modifications dans le fonctionnement du secteur mo­nétaire et financier.

1 - L’Impôt sur le capital et l’indexation généralisée (4)

La mise en place d’un impôt sur le capital s’accompagne d’une suppression de l’impôt sur le revenu, des impôts sur les bénéfices et de ceux qui frappent les mutations. Le ca­pital taxé s’entend “valeur des seuls biens physiques”.

Cet impôt payé par toute personne physique ou morale se­rait exigible dès qu’existe une appropriation des biens phy­siques, que ces biens procurent ou non un revenu effectif. Le taux de cet impôt annuel serait de l’ordre de 2%. Il ne frapperait finalement que les intérêts et les rentes. Son in­cidence directe serait nulle : aucune modification de l’in­vestis­sement, des prix des actifs, ni de l’offre de capital. In­directement, cet impôt n’affectant pas les entre­pre­neurs dynamiques, il pousserait à investir et accroîtrait l’effi­ca­cité globale de l’économie.

La réforme de la fiscalité forme l’un des volets d’une ré­for­me d’ensemble dont les deux autres touchent d’une part au système du crédit, pour  s’opposer à la création ex ni­hilo de moyens de paiement par les banques, d’autre part à l’indexation généralisée de tous les engagements sur l’ave­nir. L’efficacité de l’économie (et la justice) impliquent que les engagements soient respectés et que ni les créan­ciers ni les débiteurs ne soient spoliés. Cela est réalisé si tous les contractants sont protégés contre les variations annuelles du pouvoir d’achat de la monnaie. Ces mesures d’indexation, utilisant le déflateur du produit national brut nominal, vaudraient pour les barèmes de la fiscalité, pour les bilans des entreprises, pour les salaires.

2 - Réforme monétaire et financière (5)

a) Toute réforme du crédit doit s’appuyer sur deux prin­cipes fondamentaux :

- Le domaine de la création monétaire relève de l’État et de l’État seul auquel on donne une maîtrise totale de la mas­se monétaire. 

 - Il convient d’éviter toute création monétaire autre que la monnaie de base de manière que toute dépense trouve son origine dans un revenu effectivement gagné.

Les fonctions bancaires devraient donc être réparties entre deux types d’établissements :

* Les banques de dépôt assureraient la garde des dépôts en monnaie de base et effectueraient les paiements de leurs clients. Leurs services seraient facturés. Sur elles pèserait la contrainte d’une couverture intégrale des dépôts en mon­naie de base. 

 * Les banques de prêts respecteraient une règle de gestion précise : tout prêt d’un terme donné serait financé à partir d’un emprunt de terme au moins aussi long.

Ces réformes supprimeraient tout déséquilibre résultant d’un financement d’investissement à long terme à partir d’em­prunts à court terme. La masse monétaire croîtrait au taux souhaité par les Autorités et le parlement contrôlerait facilement la politique suivie. La collectivité bénéficierait des gains provenant de la création de monnaie et allègerait les impôts existants. Tout paiement et encaissement n’au­rait de valeur légale que s’il était effectué par l’inter­mé­diaire de banques de dépôts (françaises ou étrangères) sou­mises à la législation nationale.

b) La réforme des marchés boursiers est devenue fon­da­mentale pour éviter les fluctuations conjoncturelles des­truc­trices dont leur fonctionnement actuel est responsable. Ce système n’est profitable qu’à quelques mafias.

- Si les offres publiques d’achat sont utiles, il est anormal qu’elles puissent être financées par des moyens de paie­ment créés ex nihilo. Cela doit être rendu impossible.

- La spéculation est utile si les positions à terme sont ga­ran­ties par des marges suffisantes. Ces marges doivent être augmentées et consister en liquidités. 

 - La cotation continue des cours est une escroquerie. Elle sert uniquement à favoriser la manipulation des marchés. On la remplacera par un véritable marché journalier de cha­que valeur, dégageant un prix pour chaque titre.

Enfin, au niveau international, le dollar doit être aban­don­né au profit de la création d’une unité de compte commu­ne.

IV - ASSOMPTION DE L’EUROPE

L’Europe actuelle a réalisé une harmonisation bureaucra­ti­que et centralisatrice des cadres institutionnels des écono­mies européennes. Les institutions bancaires et financières, les législations boursières ont été harmonisées sous l’in­fluen­ce des professionnels de la finance qui tirent de très grands profits du fonctionnement actuel de ces institutions. De plus, les européens ont imité les américains dont l’in­fluen­ce n’a cessé de croître. La finance a donc imposé sa con­ception a priori, arbitraire, d’une planification centra­li­sée de toute cette sphère.

A l’inverse de cette dérive totalitaire, l’objectif à réaliser est une Europe Économique, Politique et Culturelle fondée sur des bases réalistes. Le but final, une Communauté Eu­ro­péenne, est à poursuivre régulièrement par la mise en pla­ce d’institutions communes minimales dans les trois di­mensions. Ainsi, les diversités pourraient se maintenir et l’ac­cueil d’autres pays de la zone interviendrait sans diffi­cul­tés dès que les conditions politiques et économiques de cette intégration seraient remplies.

Deux erreurs majeures ont été commises : 

 - Négliger les questions politiques et culturelles.

- Donner à l’organisation de Bruxelles des pouvoirs exces­sifs à partir desquels des technocrates prennent des déci­sions irréalistes et irresponsables.

Maurice Allais affirme que l’objectif à poursuivre est de réa­liser en plusieurs étapes une Europe fédérale avec des in­stitutions politiques communes disposant de pouvoirs limités mais réels (6). La première étape est de réaliser une Communauté Politique, Économique et Culturelle dans le cadre actuel de l’Europe des 15. La seconde étape sera d’intégrer les pays de l’Europe de l’Est à mesure qu’ils au­ront réalisé à l’intérieur de leurs frontières les conditions d’une réelle économie de marchés.

A - La Communauté politique européenne

Une Communauté Politique Européenne implique tout d’a­bord que les nations acceptent de régler leurs différends sur la base d’une loi commune acceptée par tous et selon une procédure préétablie. Elle implique l’institution d’une Citoyenneté Commune (sans perte des nationalités d’ori­gi­ne) et la constitution d’une Autorité Politique Commune, aux pouvoirs réels mais limités fondés sur la légitimité po­pulaire.

1 - Des Institutions démocratiques

L’organisation d’une société démocratique est toujours aus­si décentralisée que possible et la centralisation se li­mi­te au minimum indispensable. Aussi, chaque État a simulta­né­ment à rétrocéder un maximum de droits aux régions et à transférer à l’Autorité Politique Européenne ceux qu’im­plique la poursuite en commun des objectifs com­muns.

La meilleure orientation est une Fédération des Peuples d’Eu­rope qui transcende les États en créant un pouvoir qui en est indépendant et dont la légitimité émane des peu­ples. Les meilleures institutions, dans la situation présente, pourraient raisonnablement être les suivantes :

  - Le Parlement Européen. Il regrouperait deux Chambres: Une Chambre des députés élue au suffrage universel direct; un Sénat représentatif des États membres. La Chambre des députés existe déjà : l’actuel Parlement de Strasbourg, élu au suffrage universel direct. Le Sénat, à créer, représentatif des États, serait élu par les Par­lements nationaux.  

- Le Conseil Exécutif Européen remplacerait l’actuelle Com­mission Européenne. Il pourrait comporter quarante mi­nistres siégeant en permanence et n’exerçant aucune au­tre fonction. Il serait responsable de son action devant le Par­lement européen.

- Le Président de la Communauté Européenne ainsi qu’un Vice-Président seraient élus par le Parlement Euro­péen. Ce Président veillerait au respect de la constitution Européenne. Il désignerait le Président du Conseil Exécutif Européen qui choisirait les ministres parmi les membres du Parlement.  

- Cour Constitutionnelle et Cour de Justice.  La Cour Con­stitutionnelle examinerait les recours de tout citoyen, de toute minorité, contre toute loi ou décision contraire aux dispositions expresses de la Constitution. La Cour de Justice, qui existe déjà, serait compétente uniquement pour l’interprétation des lois et règlements commu­nautai­res pris en application de la Constitution.  - Création d’un Conseil Fédéral Européen, réunissant :  

·          Les chefs d’État et de gouvernement des États mem­bres.

·          Les présidents et vice-présidents de la Communauté, de la Chambre européenne des députés, du Sénat, du Con­seil Exécutif Européen. Cet organisme  assurerait la coordination entre les États et la Communauté, améliorerait la concertation. Par exemple, ce Conseil donnerait son avis, en seconde lecture, sur les lois proposées par le Parlement Européen. Mais, principa­le­ment, ce Conseil serait seul compétent en matière de po­litique étrangère et de défense.

2 - La Constitution Fédérale Européenne.

Toute Constitution Fédérale repose sur le principe de sub­sidiarité. Une Communauté est chargée des tâches d’in­térêt commun qu’elle seule peut mettre en œuvre effica­cement. Un État conserve donc toutes les compétences qui n’ont qu’un caractère national et qu’il peut gérer plus ef­fi­cacement lui-même. Symétriquement, les pouvoirs donnés à la Communauté Européenne se limitent à ce minimum de pouvoirs qu’implique la poursuite efficace en commun des objectifs communs. Ce principe Fédéral est garanti par la Cour Constitutionnelle Européenne que chaque État ou instance peut saisir. La Constitution Européenne préciserait les pouvoirs respec­tifs des Institutions de la Communauté et du Conseil fé­dé­ral. Elle préciserait les pouvoirs de l’exécutif, du législatif, du judicière. Elle serait précédée d’une “Déclaration des Droits et des Devoirs des citoyens” et introduirait le ré­fé­rendum d’initiative populaire. Ainsi, les tâches fonda­men­tales de la Communauté Européenne seraient au nombre de six (7) :  

- Lutte contre divers fléaux qui affectent l’ensemble de l’Europe: criminalité, violence, drogue, immigration et ac­tion en faveur de l’écologie européenne et des infra­struc­tures. Tous ces points demandent une action commune à l’é­chelon de la Communauté Européenne.        

- Achèvement du grand marché européen, avec politiques communes de la concurrence, adaptation des règle­men­ta­tions et des normes techniques nationales, contrôles sani­tai­res des produits, bref tout ce qui met en cause plusieurs pays membres.  

- Monnaie unique avec Banque Centrale indépendante char­gée de la stabilité monétaire dont elle serait respon­sable devant le Parlement Européen.  

- Établissement d’une Citoyenneté Commune et Décla­ra­tion commune des Droits et Devoirs fondamentaux des cito­yens européens.  

- Politique étrangère commune, couvrant notamment la paix, la sécurité et le contrôle des armements devant abou­tir à une Communauté Européenne de Défense.  

- Un Territoire Fédéral, propre à la Communauté Euro­péen­ne, accueillerait les Institutions. Situé sur plusieurs frontières simultanément, ce territoire “EUROPA” de 400 km2  remplirait le rôle de capitale.

B - La communauté économique européenne

Aucun auteur, aucun organisme ne cherche à étudier en détail les composantes du chômage en Europe. Les con­cep­tions en ce domaine sont très superficielles et fort é­loi­gnées de la volonté de clarté. Soit il est affirmé que tout est complexe et qu'on ne peut rien dire d'autre que "ré­duisons les salaires " pour réduire le chômage. Soit, comme à la Banque mondiale par exemple, on affirme dogma­ti­que­ment qu'il convient d'aller toujours dans la même direction.

Maurice ALLAIS cherche à comprendre les causes du chôma­ge, à expliquer son accroissement puis à tester les explica­tions. Il cherche aussi à proposer une analyse des tendan­ces en ne retenant, comme dans toute réflexion perti­nen­te, que les facteurs essentiels ; et en sachant qu'il ne s'agi­ra jamais d'une description exhaustive. Car tant l’attitude de l’Europe à l’égard de l’extérieur que les réformes inter­nes dépendent d’une bonne compréhension de ce qui cause ce chômage massif, destructeur de vies et de notre civi­lisation.

1 - Le sous-emploi massif, conséquence du libre-échangisme Maurice Allais affirme, après une analyse minutieuse et des développements précis du cas français (8), que cinq fac­teurs d'importance différente expliquent le chômage: la protec­tion sociale; le libre-échange; l’immigration; le pro­grès technique; la conjoncture.

Ces composantes du sous-em­ploi, sur la période 1995-1997, sont évidemment des or­dres de grandeur dont l'erreur relative sur chaque poste est de + ou - 20%. Mais on a les lignes directrices. ESTIMATIONS: Structure de la politique sociale : 24,5% Libre-échange mondialiste: 50,7% Immigration extra-européenne: 17   % Progrès technologique:  5, 2% Situation conjoncturelle:  2, 6%   La politique libre-échangiste sans limite menée à Bruxelles a des conséquences inéluctables: une augmentation consi­dérable des inégalités sociales ; un chômage majeur ; un effondrement de notre civilisation, désindustrialisée, dé­sœu­vrée, démoralisée. Le libre-échangisme est un dogme qui repose sur des croyances faussement présentées comme des connaissances scientifiques. Le principe des avantages comparatifs au nom duquel on justifie ce libre-échangisme est inexistant de par le fait que les différences de coûts com­paratifs ne restent pas invariables dans le temps, qu’elles sont contingentes aux taux de change utilisés, qu’elles se devraient de réintégrer tous les coûts indirects des spécialisations détruites. Compte tenu des très fortes distorsions introduites par les cours de change, M. Allais pré­conise une libéralisation des échanges dans le cadre d’en­semble régionaux économiquement et politiquement as­sociés et, inversement, de se protéger raisonnablement vis-à-vis des autres pays.

2 - La préférence communautaire (9)

La Communauté européenne doit comporter une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Il s’agit de protéger ef­ficacement les intérêts communs fondamentaux des pays mem­bres car les spécialisations économiques impliquées par la libéralisation des échanges sont fragiles et chan­geantes, de sorte que certaines activités qui paraissent non rentables à un instant donné peuvent le redevenir quelques années plus tard. Évitons de soumettre l’ensemble des hommes et de leurs activités aux aléas d’un libre-é­chan­gisme mal construit, dont seuls profitent quelques oli­gar­chies. La protection vise à assurer un approvisionnement régulier en matières premières, à maintenir une palette d’in­dus­tries qui, soumises au progrès technique, voient leur com­pé­titivité fluctuer selon des prix et des coûts peu signi­ficatifs, voire même totalement manipulés comme les taux de change. Il n’est pas souhaitable de voir disparaître l’in­dustrie textile, la sidérurgie, la construction navale,...ni de délocaliser alors que la stabilité des pays n’est pas as­surée, que les conditions qui prévaudront ultérieurement, tant en Europe qu’à l’étranger, sont inconnues.               

La protection du marché agricole européen vis à vis du va­ste monde est fondamentalement justifiée. Une agriculture européenne est économiquement, sociologiquement et cul­tu­rellement vitale. Sa disparition compromettrait la sécu­ri­té de l’Europe en matière alimentaire. La libéralisation totale des échanges n’est possible, sans éra­dication des activités ni paupérisation des personnes, que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays de développement économique et social comparable et de fondements culturels associés. Pour parvenir à ce but, la protection à la fois réaliste et ef­fi­cace utilisera les contingents d’importations. Les licen­ces d’importation se vendent aux enchères. Dans chaque sec­teur, un pourcentage de 20% maximum de la consom­ma­tion communautaire serait assuré par des importations. Ces éléments permettraient le développement d’une zone de civilisation qui, depuis la Renaissance puis le XVIII° siècle, repose sur une culture commune véhiculée par le Grec et le Latin, avec des schémas mentaux associés à la philosophie, à la politique, à l’administration et au droit ro­main. Ce fonds culturel commun mérite d’être appro­fon­di, amélioré, afin qu’émerge un véritable esprit européen.

CONCLUSION : lutte contre les fossoyeurs de l’EUROPE                                                                                           

L’œuvre de Maurice ALLAIS dégage une grand cohérence. Sa pensée illustre la grandeur de l’Europe, notamment son renouveau depuis la Renaissance : la connaissance y est fon­­damentale car, tirée de l’expérience, elle permet tout à la fois de réformer les structures de la vie en société et d’entretenir la capacité de l’homme à raisonner en remet­tant en cause les vérités établies ou “révélées”. Devant la situation instable qui se constate aujourd’hui dans le monde: démographie excessive; finance pré­datrice; pouvoir totalitaire de mafias usant de la violence éco­no­mique et du crime judiciaire, les Européens ont à prendre conscience de l’urgence d’une Construction Européenne Économique, Politique et Culturelle. Humaniste et esprit li­bre, Maurice Allais balise la route de notre libération de tou­tes les servitudes. Que son œuvre éclaire nombre de “bons européens”.

Frédéric VALENTIN.

Notes:

1 - M. ALLAIS : Autoportraits. Une vie, une œuvre. Montchrestien, 1989, Chap.3.

2 -  M. ALLAIS : La mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance. Cl.Juglar, 1999. p.464.

3  - M. ALLAIS : La théorie générale des Surplus. Economies et Sociétés, Série EM n°8, Janvier - Mars 1981, n° 1-2-3.

4 -  M. ALLAIS : L’impôt sur le capital et la réforme monétaire. Hermann,  1989.

5 -  M. ALLAIS : Les conditions monétaires d’une écono­mie de marchés. Revue d’Économie Politique, mai-juin 1993, pp.320-367.

6 -  M. ALLAIS : L’Europe face à son avenir : que faire ?  R.Laffont / Cl.Juglar, 1991. p.37.

7 -  M.ALLAIS : L’Europe face à son avenir : op.cit. p.70.

8 -  En France, support d’une analyse tout à fait générale, Maurice Allais rappelle :   

- Le taux de croissance moyen du Produit Intérieur Brut (PIB) de 1974 à 1997 a été de 2,3%.   

- Le sous-emploi depuis 1993 s'accroît de 240.000 per­son­nes par an en moyenne (le sous-emploi mesure le chômage tel qu'il est calculé par le Bureau International du Travail plus l'ensemble des personnes qui bénéficient des dispo­sitifs de la politique de l'emploi).   

- Le taux de croissance du PIB réel par habitant (revenu par tête) a augmenté de 1,8% par an en moyenne entre 1974 et 1997   

- Le nombre de salariés payés au SMIC a augmenté de 50% de 1995 à 1999.  

9 - M.ALLAIS : Combats pour l’Europe. Cl. Juglar, 1994. Chapitre VIII : repenser la construction européenne.

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mardi, 15 avril 2008

Kouchner: de Médecins du Monde à Militaires sans Frontières

Emmanuel Todd : « Kouchner est passé de Médecins du monde à Militaires sans frontières » Version imprimable Suggérer par mail
Emmanuel Todd : « Kouchner est passé de Médecins du monde à Militaires sans frontières »
Emmanuel Todd vient de publier, avec Youssef Courbage, un ouvrage, Le rendez-vous des civilisations (1), qui tord le cou à la thèse du choc des civilisations. Pour ces deux démographes, la montée de l'islam radical n'est que l'un des signes, nombreux, de la modernisation du monde musulman dont l'aspect démographique est d'ailleurs le plus éclatant. Les sociétés du monde musulman sont entrées dans une transition démographique qui voit progresser l'alphabétisation des hommes puis des femmes, avant que le nombre d'enfants par femme se rapproche de celui de l'occident. Tout cela évoque selon eux une montée de l'individualisme dans ces sociétés. L'analyse démographique les conduit ainsi à rejeter l'idée d'une différence de nature entre les sociétés anciennement chrétiennes et les sociétés musulmanes.


Que penser de la déclaration musclée de Bernard Kouchner sur l'Iran?
Emmanuel Todd : Son intervention ravive une interrogation personnelle qui date de la guerre d'Irak, où il s'était déjà prononcé en faveur de l'intervention américaine : quelle peut être la psychologie d'un médecin qui manifeste une préférence stable pour la guerre ? Nous passons trop vite de Médecins du monde à « Militaires sans frontières ».
Plus sérieusement Bernard Kouchner n'a fait qu'exprimer maladroitement la ligne Sarkozy, qui de fait est la ligne de Washington. Avant la présidentielle, j'avais suggéré que les Américains attendaient l'élection de Nicolas Sarkozy pour s'attaquer à l'Iran.

Le Quai d'Orsay propose une autre lecture de cette déclaration : il ne s'agirait pas, en fait, de menacer l'Iran mais de montrer à ses dirigeants actuels le coup économique de leur refus d'obtempérer aux recommandations de la communauté internationale.
On peut dire ce qu'on veut, mais le mot guerre a été prononcé, et le Quai d'Orsay apprendra d'autres nouvelles par la presse.

L'Iran inquiète davantage certains observateurs que l'Irak avant l'intervention américaine.
La question de l'Iran se présente sous la forme d'un flot d'images et de faits difficiles à interpréter vu de France. Il y a les propos absurdes du président Ahmadinejad, les images de femmes couvertes de noir, et l'islamophobie ambiante. Tout cela masque la réalité profonde de l'Iran : une société en développement culturel rapide, dans laquelle les femmes sont plus nombreuses que les hommes à l'université, un pays dans lequel la révolution démographique a ramené le nombre d'enfants par femme à deux, comme en France ou aux Etats-unis. L'Iran est en train de donner naissance à une démocratie pluraliste. C'est un pays où, certes, tout le monde ne peut pas se présenter aux élections, mais où l'on vote régulièrement et où les basculements d'opinion et de majorité sont fréquents. Comme la France, l'Angleterre ou les Etats-unis, l'Iran a vécu une révolution qui se stabilise et où un tempérament démocratique s'épanouit.
Tout cela est à mettre en rapport avec une matrice religieuse dans laquelle la variante chiite de l'islam valorise l'interprétation, le débat et, éventuellement, la révolte.

Pour un simple observateur occidental, l'assimilation du chiisme au protestantisme n'est pas une évidence qui tombe sous le sens.
Il serait absurde de pousser à l'extrême la comparaison. Mais il est clair que de même que le protestantisme a été, dans l'histoire européenne, un accélérateur de progrès et le catholicisme un frein, le chiisme apporte aujourd'hui une contribution positive au développement, notamment dans le domaine du contrôle des naissances : l'Azerbaïdjan, certes postcommuniste, mais également chiite, est à 1,7 de taux de fécondité, les régions alaouites de Syrie rattachées au chiisme, ont terminé leur transition démographique contrairement aux régions majoritairement sunnites. Au Liban, la communauté chiite, base sociale du Hezbollah, était en retard sur le plan éducatif et social, mais elle est en train de rattraper les autres communautés, comme on le voit dans l'évolution du taux de fécondité.
L'Iran est aussi une très grande nation qui manifeste une conscience réaliste de ses intérêts stratégiques dans une région où la majorité de ses voisins possède l'arme nucléaire : le Pakistan, l'Irak et l'Afganistan (via la présence de l'armée américaine), Isräel. Dans ce contexte, l'attitude européenne raisonnable serait d'accompagner l'Iran dans sa transition libérale et démocratique et de comprendre ses préoccupations de sécurité.

Dans votre livre, vous faites l'hypothèse tout à fait surprenante d'une possible laïcisation des sociétés musulmanes.
Dans la mesure où dans les mondes catholique, protestant, orthodoxe et bouddhiste, la baisse de la fécondité a toujours été précédée d'un affaiblissement de la pratique religieuse, on doit se demander si des pays musulmans dans lesquels le nombre d'enfants par femme est égal ou inférieur à 2 ne sont pas en train de vivre aussi, à notre insu – et peut-être même à l'insu de leurs dirigeants – un processus de laïcisation. C'est le cas de l'Iran.

Pourquoi les Américains et Sarkozy ont-ils adopté cette stratégie de confrontation avec l'Iran ?
Les services diplomatiques américains sont parfaitement au fait de la réalité iranienne, de la montée de la démocratie et de la modernisation du pays. Mais ils veulent abattre une puissance régionale qui menace leur contrôle de la zone pétrolière. C'est un pur cynisme utilisant l'incompréhension actuelle du monde musulman. Dans le cas de Sarkozy, je pencherais plus pour l'idée d'incompétence ou de sincère ignorance, qui le conduit néanmoins à amorcer une politique extérieure contraire à la morale et à l'intérêt de la France. D'éventuelles sanctions économiques françaises contre l'Iran feraient rire les Américains qui n'ont plus d'intérêts dans ce pays, et sourire les Allemands, qui ont comme nous en ont beaucoup, mais semblent pour le moment plus réalistes.

(1) Le rendez-vous des civilisations, Emmanuel Todd et Youssef Courbage, Le Seuil, 2007


Source :
http://www.marianne2.fr

Hommage à Pierre Monnier

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Hommage à Pierre Monnier,

par Marc Laudelout

Pierre Monnier est décédé le 27 mars 2006 à Nice, où il s’était retiré depuis plusieurs années. Il allait avoir 95 ans. 
Tout célinien a dans sa bibliothèque Ferdinand furieux, ce bouquin épatant dans lequel il raconte dans quelles circonstances il rencontra Céline après la guerre et les relations qui se nouèrent entre eux. Il est difficile aujourd'hui d'imaginer à quel point l'écrivain était alors non seulement victime d'une conspiration du silence, mais considéré par nombre de ses pairs comme un écrivain fini, voire démodé. 


Pierre Monnier m’a souvent dit que les amis de Céline demeurés fidèles se comptaient alors sur les doigts d’une seule main. Et de citer invariablement Marie Canavaggia, Arletty, Daragnès et André Pulicani. Dans ces années-là, Céline lui-même disait : «Autant de cloches à Montmartre que de potes qui m’ont renié». Monnier, qui n’avait pas 40 ans, se lança dans cette entreprise folle qu’est l’édition pour redonner à l’écrivain qu’il admirait l’occasion de se faire entendre à nouveau. Ce ne fut pas sans difficultés mais ce serait sans nul doute faire injure aux lecteurs de ce Bulletin que de rappeler plus avant ces faits bien connus d’eux.


En juin 1993, ce bulletin lui rendit hommage suite à un déjeuner-débat qui eut lieu à Bruxelles et dont il avait été l'invité d'honneur. J'écrivais ceci : «Les qualités du conférencier sont aussi celles de l’homme. Sincérité, lucidité, chaleur, générosité, enthousiasme : tels sont les mots qui se bousculent sous ma plume lorsqu’il me faut définir Pierre Monnier.» C'est bien ainsi qu'il m'est toujours apparu. Et c'est sans aucun doute cet amour de la vie qui transcendait toute sa personnalité. Pourtant les fées ne s'étaient pas penchées sur son berceau. Parlant de son père, officier de carrière mort au combat en 1915, il disait : «J’ai eu peu de temps pour l’aimer». Orphelin de guerre dès l’âge de quatre ans, il dut, adolescent, gagner sa vie tout en suivant des cours à l’École des Beaux-Arts. Rude apprentissage, comme on s’en doute, mais qui n’entama jamais le caractère volontaire de ce Breton féru de peinture, de littérature et de... politique. Dans ses livres de souvenirs, il a raconté son compagnonnage avec l’Action Française, puis cette étonnante aventure de L’Insurgé, éphémère hebdomadaire nationaliste et progressiste fondé en 1937 par Jean-Pierre Maxence et Thierry Maulnier, et dont il fut le secrétaire de rédaction. Il y tenait aussi une chronique sociale qui marquait la volonté de réconcilier syndicalisme et nationalisme. De 1940 à 1942, il participa à la création et au développement des «Centres d’apprentissage des jeunes», créés par Vichy en zone occupée. Après la guerre, il vécut, difficilement, de la peinture et des dessins de presse (notamment dans Aux Écoutes), puis de l'édition sous le nom de « Frédéric Chambriand», avant de faire une belle carrière à L'Oréal. Sa retraite fut très active puisqu'il écrivit pas moins de dix livres, dont deux sur Céline. Et il se voua aussi à l'amitié, ayant pendant de nombreuses années le bonheur d'avoir auprès de lui, dans sa ville d'adoption, ses amis Louis Nucéra et Alphonse Boudard. Une vie assurément variée et bien remplie.


Ceux qui l'ont connu garderont de lui un souvenir lumineux. C'était un homme attachant, loyal, fidèle à ses convictions et d'une humeur joyeusement roborative. Un être d'exception que nous n'oublierons pas. Il n'est que juste de saluer ici sa mémoire.

Marc Laudelout

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T. Southgate: Tradition and Revolution

'Tradition and Revolution: Collected Writings of Troy Southgate'
Aarhus: Integral Traditions (2007), 329 pp.

Reviewed by Andreas Faust

This book contains a varied selection of essays, poems, and other short written pieces by Troy Southgate, one of the founders of the philosophy known as National-Anarchism. National-Anarchism is a cultural current rather than an organisation. It is a long-term strategy. N-A developed simultaneously in England, France and Germany, in just the same way that modern Odinism simultaneously sprang up in at least four different countries in the early 1970s.
N-A is a form of anarchism which has no roots in the political left, but neither is it right-wing. It differs from the 'mainstream' anarchist movement in its support for racial separatism (amongst other things), but at the same time has no problem with those who want to establish mixed-race communities also. As Southgate puts it: "We have no desire to rule over an administrative structure or disaffected population of any kind [...] Whilst they choose their own destinies, we shall choose ours."

If N-A took off on a wide scale, this would theoretically lead to a series of independent communities, which "may or may not wish to form part of a confederated alliance". Each community, of course, would be primed for self-defence. The regional alliance or federation would support any group of individuals wishing to found a separate community to preserve their own identity – regardless of what that identity might be.

So, has the book converted this reviewer to National-Anarchism? Well, hmmm, hmmm...I believe it might have. I still dislike the term. But on the other hand I can't really think of a better one. On explaining the concept to a friend recently, he pointed out that as soon as you start throwing the word 'anarchist' about, it will automatically turn people away. The word has become linked with images of violence, chaos, disorder...sinister men in black balaclavas throwing bombs.

But who exactly should the term appeal to? The conservatively inclined probably wouldn't support the doctrine anyway, even if wrapped in more soothing packaging. The term 'National-Anarchist', on the other hand, is likely to appeal to the young and rebellious, whose minds might not as yet be stultified. And as Tord Morsund notes in his introduction, N-A is not chaotic at all, but is a strategy that starts with the individual, then progresses to the family, the community, village, town etc. There is a need to reclaim the term 'anarchy', which N-A is certainly contributing towards doing.

The 'black bloc' left-wing anarchists seen spray-painting walls at many an anti-globalist demo probably wouldn't know what to do if the State ever collapsed, as they claim they wish to happen. But N-A is already planning for such eventualities. And N-A has the added benefit of confusing people's political preconceptions by mixing up 'left-' and 'right-wing' symbolism, thus forcing people to step outside their preconceived thought patterns (which only serve the globalist agenda).

The first essay in the book, 'Transcending the Beyond', is as close to an N-A 'mission statement' as there is. N-A originally emerged from a movement called the 'International Third Position', which rightly recognised that communism was not an antidote to capitalism but actually a "symptom and product" of it. But while these 'third positionists' were committed to going beyond the 'two C's (capitalism and communism), "National-Anarchists have taken things one step further by actually transcending the very notion of beyond." In other words, they have rejected the concept of the State itself, aiming towards 'independent enclaves'. They have maintained a belief in racial separatism but no longer want to impose that belief on others. So N-A is to political theory, then, what heathenism is to religion.

People like Southgate have been described by some fanatical leftists as 'fascists', but even a cursory glance at their ideas will show this to be untrue. Southgate regards the fascist regimes in general as having been 'reactionary charlatans' who used nationalism as a cloak to disguise their sympathy for international capital. He does see value in certain 'fascist' groups, like the Romanian Iron Guard (who he believes were genuine nationalists, not reactionaries). The Iron Guard's 'nest' system of organisation and its lack of authoritarian hierarchy (leadership had to be earned, leaders benevolent and cheerful, not gloomy, and willing to sacrifice themselves along with their men) all give it common ground with National-Anarchism.

N-A itself achieves the difficult feat of being both non-authoritarian and meritocratic. Meritocratic because it encourages greatness to rise to the top...unlike capitalism, which elevates a pseudo-aristocracy based on greed, ensuring many worthy people are unable to rise to their natural level. But also non-authoritarian in the sense that it doesn't seek power over those who don't share its vision...which would be throwing pearls before swine in any case. N-A communities would also have little need for internal policing...Southgate quotes John Pfeiffer to the extent that an "organic society has no need for policing practices until the population has exceeded more than 500 persons. This is because 500 is considered to be the maximum number of people that one person could possibly know." (my italics)

What is the relation of N-A to nationalism, then? Southgate originally called himself a 'Revolutionary Nationalist' (or 'Social Nationalist'), and nationalism itself, as he often states, is beyond left and right (contrary to the media claim that it's 'right-wing'). It could fairly be said, then, that N-A is an updated form of nationalism, one better suited to the practical situation that nationalists in the modern world face. He illustrates this by a quote from Roger Bacon: "He that will not apply new remedies must expect new evils."

But while this may be well and good in Europe or North America, what about Australia or New Zealand...thinly populated lands ripe for the taking by two populous empires directly to the north (Indonesia and China), as soon as the American ally's power declines. Would N-A perhaps have a negative effect in Australasia, weakening our capacity for self defence? The main Australasian exponent of N-A is Welf Herfurth, resident in Sydney. Herfurth's idea, as formulated in a recent interview, seems to be that Australia should consist of a patchwork quilt of different communities, all completely independent, but co-operating in the important matter of foreign policy. So these entities would not be completely independent, but would constitute a kind of bloc or casual federation.

That don't sound so bad...although there is another issue there should also be consensus on – the environment. Cultural independence won't do us any good if there isn't any land to be inhabited, all being soil-degraded or flooded. Overpopulation, of course, has much to do with this, and Southgate himself is pessimistic. He thinks there is nothing we can realistically do to check overpopulation, and that nature herself will eventually take care of the matter, possibly via a plague or sequence of natural disasters. All that's left to do, he believes, is to harden ourselves to this fact, and to concentrate on preserving those lives that can be preserved (i.e. those who have the will to survive).

What kind of practical strategies does Southgate propose for promoting N-A ideals? One tactic he advocates is 'entryism'...we should not fight the enemy head-on, but from within. This can only occur when there are more National-Anarchists than now. But yes, it is more effective than using the ballot-box. That is how the leftists managed to take over the univerisities in their so-called 'long march through the institutions'. Open warfare against the State is impossible at this point in time, so entryism may be the best course to pursue. But hand in hand with that, of course, goes the cultural struggle. That is where N-A intersects with the broader and less dogmatic current known as the European New Right.

Like the ENR, Southgate believes that political objectives "must be preceded by a Spiritual Revolution". We must build from the inside, not the other way around. In line with this, he advocates home-schooling (which he practises in his own family) as one of the best ways of ensuring our traditions are passed on. Southgate demolishes many myths, such as the one that home-schooled children will be 'sheltered' or 'socially naive'...in fact they have better social skills and are shown to be more socially adjusted. They can always join a local sports team or organisation to mix with other kids.

Home-schooled kids are usually better educated than those taught in schools, and have often reached university level by age fourteen. I remember reading an article in the local paper that confirmed this. There's a time investment, but teaching materials are not very expensive. The next step would be to establish 'practical learning centres', where home-school parents can help each other with resources and so forth. On the other hand, the system may crack down on this in future...home-schooling was recently outlawed in California, and as everyone knows, when California sneezes the world catches a cold.

There will also presumably be the need to form vigilante groups, for protection. The existing communities will thank us for this, while the more sensible 'official' cops may come to turn a blind eye to it. Troy rightly emphasises the importance of self-defence and fitness skills. But is it enough? The State may use military force against us at a certain point. On the other hand, the State's promotion of multi-racialism may in turn work against it, as common identities take form out of the increasing chaos. None of us can really say what the future holds...all we can do is to take an idea and try to make it work. N-A is as good an idea as any I've heard.

As a kind of added bonus, the book contains Southgate's chapter-by-chapter analysis of Julius Evola's book Men Among the Ruins, which will be of benefit to those wish to understand the key concepts of Evola's political thought but can't abide Evola's constipated writing style. The book also contains two fascinating esoteric essays. One is called 'A Sussex Swan: the Wodenic Mysteries of a Small English Town,' and concerns a town named Steyning, full of symbolism relating to the constellation of Cygnus the Swan, which Troy believes is at the centre of an English spiritual revival. May the ugly ducklings of our modern towns and cities find their true destiny as swans! As black swans here in the South, of course...

Beachy Head, another Sussex locality, forms an exact contrast to Steyning...as England's most popular suicide spot, it has lured countless people to literally 'drop out' of life. But often those people are amongst the most gifted (and consequently don't fit in with the modern world). Thus Beachy Head is depriving us of future artists and leaders. Southgate maintains that "something quite cataclysmic is taking place beyond the gaze of the ordinary masses." He suggests we can counteract this by "re-energising the more authentic points which concord with our spiritual and psychological heritage," and thus to "raise the banner of the Northern Sun against the lunar-centred darkness that envelopes our land."

If you don't believe such a lunar-centred darkness exists, just step around the corner. Welcome to a world where "teenage mothers...old before their time and flanked by hooped earrings and a pink mobile phone," with "no education" and "no future" rub shoulders with "wealthy businessmen with piggy eyes and sweaty palms," in a town where "graffiti is scrawled on any available space" and where "imagination and creativity are pushed aside."

Southgate's book aims at countering all this. It is intended for both "present and future generations." It will become a valuable point of reference for the emerging National-Anarchist movement. As the quote at the start of the book says, "the new man is still evolving." He comes "from the quiet periphery," but around him "the coming world will henceforth order itself." Troy maintains that N-A is "the next logical step towards the raising of mankind's spiritual and intellectual consciousness." In short, it is "an idea whose time has come." Let us hope, then, that it proves more powerful than the proverbial marching army.

The book can be ordered from Integral Tradition (see
http://www.integraltradition.com/catalog/about.php)

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lundi, 14 avril 2008

Transparence: outil du totalitarisme

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La transparence : un outil du totalitarisme

Les médias, la presse et toute une mode exigent toujours plus de transparence dans la vie politique. Si le but est d’éviter la malhonnêteté, personne ne peut y trouver à redire. Mais l’exercice a ses limites : si le vote n’était pas secret, beaucoup d’électeurs voteraient différemment en raison de la pression sociale pesant sur eux.

L’individu n’est pas une monade autonome. Il est plongé dans le milieu social et en interaction d’influence avec lui. L’exigence de transparence est celle de tout pouvoir totalitaire. George Orwell avait imaginé une telle société où le pouvoir vous disait : « Big Brother vous regarde ! ».

La propriété privée est un espace de liberté précisément parce que les tiers en sont exclus. Si les médias peuvent pénétrer dans votre propriété et commenter tout ce que vous faites, il est évident que c’est une atteinte à vos libertés.

Tocqueville a bien montré la puissance de l’opinion publique qui contraint tous les citoyens à afficher un grand conformisme.

Dans toute société, quatre obstacles peuvent entraver la liberté d’expression :

– la cause matérielle, pour reprendre la terminologie d’Aristote, est le manque de moyens financiers ;
– la cause formelle est l’interdiction légale, le régime légal de la censure ;
– la cause motrice, ce sont les hommes, pas seulement les censeurs professionnels mais l’opinion publique, plus ou moins conditionnée par le pouvoir dominant ;
– la cause finale de l’absence de liberté peut être l’idéologie officielle du régime.

Les deux dernières « causes » de l’absence de liberté peuvent utiliser l’exigence de transparence pour étouffer une pensée non conformiste. Ainsi, le « politiquement correct » dans certaines universités américaines restreint la liberté de parole sur beaucoup de sujets. Selon le système social, chaque cause pèsera d’un poids différent.

En démocratie, c’est l’opinion et l’idéologie dominantes qui peuvent faire obstacle à la liberté d’expression. La loi de censure et les moyens financiers peuvent jouer un rôle mais il est second. Il est difficile d’échapper à cette contrainte. Soljenitsyne s’en est aperçu : en Russie, on lui disait « Tais toi » ! En Occident, on lui dit « Cause toujours » !

Des organisations qui ont pu craindre dans le passé des persécutions comme la franc-maçonnerie ne pratiquent pas la transparence. Car l’opacité est source de pouvoir et d’influence et protège ceux qui agissent. Certains estiment cette pratique critiquable : les magistrats en Grande-Bretagne sont obligés de déclarer leur appartenance à la franc-maçonnerie.

En fait, l’exigence de transparence ne frappe pas tout le monde de la même manière. Elle touche les hommes politiques beaucoup plus que les journalistes ou les chefs d’entreprise, ou la haute administration. C’est sans doute un signe que le pouvoir réel n’est sans doute pas chez les hommes politiques. Exiger la transparence de quelqu’un, c’est réduire ses pouvoirs. Beaucoup de « lobbies » qui influencent le pouvoir politique ne pratiquent pas la transparence mais l’exigent de la part des hommes politiques.

On sait bien que le domaine de la défense nationale est aussi celui du secret légal, sinon l’ennemi pourrait affaiblir le dispositif de défense. Dans ce domaine, la transparence totale de l’Etat pourrait entraîner sa destruction ! Il en est de même pour les secrets technologiques des entreprises. Le secret ne peut pas être exclu de la vie sociale. Le secret de votre code de carte de crédit vous protège des voleurs. Il faut donc un équilibre entre secret et transparence pour qu’une société de liberté puisse réellement exister. Quand tout est secret, le citoyen n’a plus de pouvoirs pour contrôler les dirigeants politiques. Mais si tout est transparent, le citoyen transparent perd alors lui aussi sa liberté. Réclamer toujours plus de transparence peut être une façon de détruire la liberté au nom de la liberté.

Un film a bien montré ce paradoxe. Il s’agit du film allemand « La vie des autres » qui montre comment la police politique de l’Allemagne de l’Est communiste espionnait les citoyens afin d’empêcher toute critique du régime. Lorsque l’Etat veut tout connaître de la vie des autres, il réduit les autres à un statut d’esclave.

Bien entendu, il ne faut pas faire d’angélisme et il est normal qu’un Etat écoute et espionne les grands criminels ou ceux qui préparent des attentats terroristes. Comme dans beaucoup de domaines, la vertu réside dans le juste milieu, comme les philosophes grecs l’ont toujours affirmé. C’est pourquoi la pensée manichéenne est toujours à proscrire. C’est celle des fanatiques. Il y a aussi des fanatiques de la transparence : qu’ils le sachent ou non, comme disait Sartre, qu’ils soient salauds ou naïfs, ils préparent toujours une forme de destruction des libertés.

Yvan BLOT
© Polémia
19/03/08

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Jean Mabire - In memoriam

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Jean Mabire - In memoriam

A Europa

Jean Mabire gostava de se dizer regionalista normando, mesmo autonomista, mas não se contentava em defender a sua pequena pátria. Desde muito jovem compreende que uma outra pátria, espiritual e ideal, corolário da primeira, se lhe oferecia: a Europa. Durante toda a sua vida detestou o centralismo estatista, o jacobinismo francês e o parisianismo cultural. Na sua vontade feroz de reencontrar a identidade dos povos, não deixa nunca de afrontar esse Moloch das culturas populares enraizadas que é o Estado francês. Maît’ Jean toma consciência de uma indispensável complementaridade entre a luta identitária regional e a acção em favor de uma autêntica construção europeia. A Europa de Jean Mabire não é a Europa de Maastricht, de Bruxelas e de Frankfurt, esta vulgar e medíocre paródia indigna dos nossos povos, este horrível monstro feito de uniformidade informe e artificial.

Jean Mabire sentia-se plenamente europeu. A Europa das suas aspirações queria-se enraizada, viva e polimorfa. Ele sonhava com uma Europa em que os povos transbordariam de vitalidade, entusiasmo e energia. A sua Europa ideal não era aquela «de cem bandeiras» elogiada por Yann Fouéré, mas antes uma Europa de mil bandeiras, respeitosa dos particularismos populares, regionais e étnicos, uma Europa diversa e unida que se estenderia dos geisers da Islândia à taiga siberiana.

Ao exaltar os mais altos feitos dos europeus, Maît’ Jean valorizava a perenidade do carácter europeu. L’ été rouge de Pékin que narra os cinquenta e cinco dias do cerco do bairro diplomático em Pequim por parte dos Boxers em 1900, faz também parte deste verdadeiro trabalho de memória. Este episódio mal conhecido devia agradar-lhe, pois alemães, britânicos, franceses, italianos, russos e mesmo americanos lutaram lado a lado contra um inimigo comum, o perigo amarelo.

Ignorava que a questão europeia lhe permitiria abordar as margens da política?

A Política

Evocar o Jean Mabire político seria um erro, tanto se coibiu de entrar nos miasmas pútridos da acção política. Contudo, não a exclui da sua obra. É preciso talvez falar de «metapolítica», da qual foi um eminente representante. Na verdade, fazia metapolítica ao realçar a cultura normanda. Isso toma toda outra direcção com a guerra da Argélia que dilacerava a sociedade francesa. De regresso do seu Comando de caça, Jean Mabire colaborou na revista pró Argélia francesa L’Esprit Public ainda que, enquanto autonomista normando, não partilhasse a quimera de assimilar milhões de muçulmanos, árabes e Kabyles, num Estado-Nação negador das identidades populares. Retirou deste envolvimento paradoxal um livro magistral, L’écrivain, la politique et l’espérance que republicará três décadas depois, enriquecido por novos artigos, sob o título La torche et le glaive.

Nesta excelente obra, para além dos temas sobre a Europa e as regiões, Mabire expõe o seu socialismo. E sim, Maît’Jean era socialista! É, de resto, estranho que os pequenos inquisidores não tenham descoberto nele o primeiro dos «vermelhos-castanhos» …mas, atenção! O seu socialismo não devia nada ao marxismo e outros esquerdismos. O seu socialismo mergulhava nos ricos (e muito desconhecidos) pensamentos da escola francesa, de Proudhon a Jaurès. A justiça social, a defesa do «pequeno povo», o apoio à «oficina» e à «loja» entusiasmavam-no. Realmente com atenção às pequenas gentes, representava um inegável «intelectual orgânico».

Fiel às suas ideias, Jean Mabire era o contrário do fanático. Vimo-lo a propósito das suas amizades, sabia distinguir a pessoa das suas opiniões. Para o final da década de 80, entrou na National-Hebdo onde assina cáusticas «crónicas livres», frequentemente a contracorrente do Front National e das suas orientações nacionalistas jacobinas. De forma alguma uma cabeça política, Maît’Jean compreende rapidamente a aposta de defender um ponto de vista regionalista-europeu nas colunas de um hebdomadário afiliado a um partido político de audiência maior.

De temperamento dificilmente sensível ao militantismo político eleitoral, apoiou sempre as causas meritórias. Envolveu-se desde o início na grande aventura da renovação do pensamento inconformista europeu. Nos anos 60, enquanto escrevia alguns textos para a Defense de l’Occident, a revista de Maurice Bardèche, tornou-se redactor-chefe de Europe-Action onde pôde, por fim, conciliar o seu regionalismo, o seu europeísmo e o seu socialismo. Isso não o impediu de recontar a vida de Jean-Louis Tixier-Vignancour em Histoire d’un Français. Em 1969, para além da sua participação no lançamento do Mouvement Normand, que é, repita-se, um sucedimento metapolítico, «Didier Brument» contribuiu para o aparecimento do G.R.E.C.E. (Groupement de recherches et d’études pour la civilisation européenne) e participou nas colunas de Éléments, a revista principal da «Nova Direita». Nos seus esboços de tipologia das tendências internas do G.R.E.C.E. os doutos especialistas rotulá-lo-ão entre os Völkischen, o que é um pouco redutor para alguém a quem o socialismo europeu aproximará de boa vontade à corrente nacional-revolucionária…Em 1995, Maît’Jean seguiu o seu velho camarada Pierre Vial na formação de uma nova associação, Terre et Peuple, na qual participou regularmente nas mesas redondas anuais e na realização da revista homónima.

Num campo menos metapolítico, mas igualmente primordial, em 1973, Jean Mabire e o Dr. Maurice Rollet fundaram o movimento de escutismo Europe-Jeunesse. Deseja importar os princípios das altas escolas populares dinamarquesas inauguradas por Nicolas Grundtvig.

Jean Mabire era um sublime pedagogo ou, mais exactamente, um verdadeiro educador. Conhecia a importância de formar a juventude que é, afligida pelo truísmo, o futuro da nossa herança. Já actual há três décadas, esta tarefa é agora vital nesta época de lobotomia generalizada e de incultura favorecida. Para educar a juventude, elevá-la em direcção ao belo, ao bom e ao bem, Maît’Jean empregou principalmente o seu talento de escritor. (…)

O Paganismo

Os temas que versavam a França, a Europa, a Normandia, a política, a guerra, a escrita…despontaram num terreno fértil, que ademais é centro do imaginário pessoal de Jean Mabire: o paganismo. Maît Jean era pagão. Apesar de uma educação religiosa, rapidamente se livrou dos preceitos bíblicos para descobrir a alma perdida dos europeus. Não podemos compreender a atenção que ele dispensava às tradições populares e aos seus países se ignorarmos este facto fundamental.

É verdade que o seu paganismo não assentava sobre o panteão greco-romano. Preferia olhar em direcção ao Norte, a Ultima Thule, a Hiperbórea original. Nietzsche, Wagner e outros, foram os faróis desta demanda em direcção ao seu próprio Graal: as origens espirituais do Ser Europeu. Ele traçará, pontualmente ou parcialmente, esse trajecto em Thulé, le soleil retrouvé des Hyperboréens, Les dieux maudits, récit de mythologie nordique, Les solstices, histoire et actualité ou, mais recentemente, em Des poètes normands et de l’héritage nordique. «Se me orgulho de algo na minha vida é de ter sido quem manteve a ideia nórdica na Normandia», reconhecia em «Trinta anos depois…», o prefácio que escreveu para La Torche et le glaive. Fazer uma lista completa não serviria para nada, porque a veia pagã aflora e percorre todas as suas obras, inclusive nas que parece mais afastada.

Jean Mabire compreendia que não mais voltaremos aos Antigos. Mas a sua determinação, a sua ética, a sua coragem, são modelos e recursos intemporais. Neste ponto ele agiu também como aclarador, pois este tradicionalista, que não o era no sentido guenoniano ou evoliano do termo, este tradicionista, para usar o neologismo forjado por Dominique Venner, tentou pela escrita e pela reflexão renovar com os filões perdidos da tradição politeísta europeia, essa «mais longa memória», recentemente celebrada por Nietzsche.

Sublinhamos frequentemente o carácter despertador de Jean Mabire. Que ele tenha despertado povos perdidos e memórias ocultadas é incontestável, mas, pela sua audácia, mostrou que era também um fundador, um rompedor, um explorador, um precursor. Inspiremo-nos no seu exemplo. Relendo os seus livros, agindo segundo a nossa «equação pessoal», continuemos a nossa marcha nas terras crepusculares da Idade do Lobo, guiados pela única Estrela polar de onde, de agora em diante, nos contemplará Jean Mabire.

Excerto de Maît’Jean, le précurseur de Georges Feltin-Tracol

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dimanche, 13 avril 2008

La culture du refus de l'ennemi

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Trouvé sur: http://www.polemia.com/contenu.php?cat_id=43&iddoc=1641

« La culture du refus de l’ennemi / Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle »
Sous la direction de Bernard Dumont, Gilles Dumont et Christophe Réveillard

Un ouvrage important est paru à la fin de l’année 2007.
Important par son thème et son contenu, à savoir l’étude du paradoxe qui voit la démocratie actuelle s’incarner dans l’invocation toujours plus rituelle du consensus tout en continuant à se fabriquer des « ennemis », de l’intérieur le plus souvent (« extrémistes », pollueurs, fumeurs, chasseurs, chauffards et autres déviants). Le reflet, sinon l’origine de ce paradoxe est analysé au prisme du « modérantisme », ce courant politique si particulier qui semble innerver l’ensemble des systèmes de représentation démocratiques malgré la vacuité électorale de la seule « démocratie chrétienne ».

Important également parce que cette étude riche, à la fois sérieuse et courageuse, est publiée avec les concours des Universités de Paris IV-Sorbonne et de Limoges, et inscrit donc le débat dans un cadre des plus institutionnels.

L’ouvrage se voulant un stimulant à l’acceptation d’une vision schmittienne de la vie, au-delà même de la sphère politique, un chroniqueur de Polémia s’en est saisi pour ouvrir… la polémique. Les internautes sont incités à réagir ! La Fondation sera toujours ouverte à la libre et fructueuse confrontation des idées.

« On peut préférer la servitude à la liberté mais il est ontologiquement impossible qu’un ennemi se manifeste. […] La modération est une vertu que les Grecs mettaient au sommet de la prudence politique. Elle exprime la recherche de la juste mesure et relève à ce titre de l’exercice de la prudence. Elle n’a pas de rapport avec ce qu’on appelle le juste milieu, encore moins avec une option systématique pour le compromis. Tandis que la “modération” des “Modérés” est tout autre : soit elle coïncide avec l’abstention de tout engagement résolu, par peur d’être entraîné trop loin, soit elle accepte le fait accompli mais dans l’espoir d’en calmer le cours ou de sauver quelques privilèges. » Dès sa très lumineuse et pénétrante présentation, Jean-Paul Bled fixe le cap et donne le ton de cet ouvrage hors norme et pose la seule question qui vaille : « L’attitude modérée dans le paysage contemporain de l’Europe du XXIe siècle est-elle une politique ou l’absence du politique ? ». Les lecteurs de Carl Schmitt et de Julien Freud ont bien évidemment la réponse. Mais cette très utile étude s’adresse aux autres, à tous les autres, et notamment aux catholiques qui pensent encore que ce qui les caractérise est, en soi, une résistance, alors que c’est l’Eglise, bien avant Vatican II, qui a permis et accéléré la castration de nos sociétés.

Retour aux sources

Inutile de puiser jusque dans les édits de Milan (313, sous l’empereur Constantin, puis 391 avec Théodose), qui annoncent celui de Constantinople (392) par lequel les cultes païens sont définitivement interdits au profit de la nouvelle religion galiléenne, hissée au rang de religion d’Etat : l’histoire médiévale et moderne nous enseigne que, des siècles durant, aimer son ennemi n’empêchait pas de le connaître, donc de le désigner et de le combattre. La profonde utilité de cette étude cautionnée par les Universités de Limoges et de Paris-IV (Sorbonne et CNRS réunis) est de s’attacher à l’un des nombreux tournants, mais aussi à l’un des courants philosophiques et politiques les plus méconnus de l’histoire contemporaine, qui font aujourd’hui le charme émollient de nos institutions et systèmes de représentations.

Si la généalogie des causes renvoie aux « iréniques » du XVIe siècle français, le « Modérantisme » est le fruit direct de la politique de Ralliement décrétée par Léon XIII en 1892, qui entendait mettre un terme aux rapports conflictuels issus du choc déchristianisateur de la Révolution. Dès lors, malgré de nombreux soubresauts (Affaire Dreyfus 1896-1899, Affaire des Fiches 1902-1904, loi de séparation de l’Eglise et de l’Etat en 1905…), l’acceptation des institutions de la République ouvrait la voie, au-delà de la compromission évidente des catholiques, à la sécularisation du christianisme et au dévoiement du Politique qui en résulte. Les politiques menées n’ont en effet que très peu souffert de ce mouvement d’acceptation ; en revanche, l’essence du politique, passés les traumatismes de la nouvelle « Guerre de Trente Ans » européenne (1914-1945), s’en est trouvé intrinsèquement bouleversé. Avec l’aide, il est vrai, et justement rappelée par Jean-Paul Bled, des principes anglo-saxons inspirant la Société des nations (illustrés par les accords de Munich en 1938) puis l’ONU et la construction européenne : le conflit n’est plus une épreuve salutaire, ni même un mal nécessaire, c’est tout simplement un mal absolu, une tâche à effacer, un péché à absoudre.

Courant modérantiste et « ordre politique »

Au-delà de la question catholique qui fournit l’ossature de cet ouvrage, au prisme de l’étude du courant modérantiste, c’est bien évidemment l’essence des régimes libéraux qui est mise en question et leur « capacité institutionnelle quasi illimitée d’absorption » (Gilles Dumont) : absorption de ses opposants, bien sûr, au premier rang desquels les partis communistes, utilisés (comme le FN d’ailleurs) comme un moyen d’intégrer les différents groupes se trouvant aux frontières extrêmes de l’ordre démocratique ; mais également, moins cyniquement mais plus efficacement encore, neutralisation de toute pensée alternative par l’impossibilité ontologique de se projeter dans un autre possible, jusque dans la sphère privée. Ce qui, lorsque l’injonction devient la norme, est le propre des régimes totalitaires.

Pour Gilles Dumont, « le modérantisme, plus qu’une compromission à proprement parler, est donc le fait de se rendre disponible à la transaction et parfois même de la devancer ». Et le professeur de droit public de disséquer les trois méthodes ou « types de comportement » qui le définissent : le « collaborationnisme » (par conviction – cf. le progressisme catholique – ou par vain souci d’efficacité – l’entrisme basé par nature sur un rapport de forces défavorables ayant bien évidemment toujours échoué) ; l’ « optimisme invétéré » (la dérive consolatrice rejoignant le déni de réalité) ; l’ « intransigeantisme », ou « intégralisme », comme figure paradoxale du modérantisme (conduisant à une forme de quiétisme, ou de « communautarisme » individuel : « La capacité des “structures de péché” est dans ce cas identifiée et rejetée mais elle conduit à un retrait dans son jardin intérieur ; on a fait ce qu’on a pu contre elles et, pour le reste, Dieu y pourvoira »).

La « culture du refus de l’ennemi » est bien celle de la négation du politique. Chaque jour, chaque fait – même et surtout dans le cadre convenu de la « démocratie de marché » – le démontre. Mais les postures autres ne sont pas faciles à définir, et encore moins à tenir. C’est sans doute le mérite essentiel de cet ouvrage de nous le rappeler. Au-delà des exemples de Péguy et Abel Bonnard, il est bon que les « chrétiens », y compris par la critique de leur appareil théologique, participent de la remise en cause des « valeurs » totémiques de sociétés qu’ils ont grandement contribué à fabriquer. « Heureux les invités au repas du Seigneur » (Luc 14,15-24) !

Henri Herriot
© Polémia
08/03/08

« La Culture du refus de l’ennemi / Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle », sous la direction de Bernard Dumont, Gilles Dumont et Christophe Réveillard, Presses Universitaires de Limoges (Pulim) 2007, Collection Bibliothèque européenne des idées, 150 p., 20 €.

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E. Hermy: Recessie en Russische optie

Economische recessie en de Russische optie.

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In mijn betoog wil ik de correlatie aantonen tussen de neergang van een militaire en economische reus met name de Verenigde Staten, en de dreigende economische recessie die Europa zal treffen. Met dit referaat wil ik ook aantonen dat oorlogen en terreur niet noodzakelijk gewapende uiteenzettingen zijn maar dat de confrontatie zich meestal aandient via economische terreur en een economische oorlog.

De wereldmarkten en dus de economische macht zijn zich aan het verplaatsen. Als er economische machtsveranderingen zijn dan volgen ook de militaire machtsverhoudingen. Het één is gewoon het natuurlijke gevolg van het andere. De productie en afzetmarkten zijn na de verschillende delocalisatiegolven die teweeg werden gebracht door de globalisatie van het kapitalisme verschoven van Europa en de VS naar landen zoals Rusland, Brazilië, Zuid-Afrika, India en vooral naar China.

China heeft nu een groei van 8% op jaarbasis en is de belangrijkste groeimarkt van de wereld. Ter vergelijking: de VS hebben een voorspelde groei voor dit jaar van 0,1% tot 0,4% en Rusland zit China op de hielen met 6%. China heeft de VS ingehaald wat betreft het binnenhalen van buitenlandse investeringen. De volgende golf van globalisatie zal hoogwaardige producten van deze landen naar Amerika en Europa brengen omdat de groeilanden verplicht zijn om een grotere meerwaarde per product te realiseren om de eigen binnenlandse markten verder te kunnen laten groeien. Onze Europese economieën zullen nog onder zwaardere druk komen te staan dan nu al het geval is. Ook zal er een verdere delocalisering van arbeidsplaatsen plaatsvinden.

In India en China komen elk jaar meer dan 7 miljoen hooggeschoolde studenten op de arbeidsmarkt. Daarvan zijn ruim 600 000 architecten. In de VS zijn er dat 70 000 en in Europa zelf iets minder. Een gigantisch groeipotentieel en een gigantisch arsenaal aan intellectuele input. Het is nu niet meer nodig om deze mensen naar hier te halen om ons te beconcurreren want via de IT-revolutie kunnen zij onze middenkaders (en dus onze middenklasse) vanuit hun thuislanden uit de arbeidsmarkt duwen. Over de gehele wereld hebben de banken al 30% van hun banen uitbesteed aan die groeilanden. De verzekeringssector 20%. De boekhouding van 35% van de bedrijven word nu al gedaan in landen als India. Dit is nog maar een begin, de echte ‘boom’ moet nog komen zeggen alle analisten.

Alleen al in de VS zouden er zo 10 miljoen banen uitbesteed worden. Dat zou de werkeloosheid in de VS van 5% naar 11% omhoogstuwen. Voor Amerikanen is een overschrijding van de 5%-grens wat betreft werkeloosheid een ware nachtmerrie. Alles daarboven doet hen denken aan de grote depressie van de jaren ’20 tot aan het uitbreken van Wereldoorlog II in de vorige eeuw. Door de schaarste aan banen en de dreigende buitenlandse concurrentie zullen de lonen dalen. De mensen die nog een baan hebben zullen vrede moeten nemen met drastisch verlaagde inkomens. Men moet niet denken dat het alleen maar de laaggeschoolde banen zijn die daaronder zullen leiden. Computerprogrammeurs die in de VS een 100 000 Euro verdienden zijn buiten de deur gezet en vervangen door een bijna gratis model uit India, want die kost gemiddeld maar 20% van zijn Amerikaanse evenknie. Zo heeft het bedrijf 5 Indische programmeurs voor de prijs van een Amerikaan. Er zal een verschuiving zijn van de broodverdieners naar de rijstverdieners. En het brood zal schaarser worden …

Omdat we in Europa nog steeds totaal verbonden zijn met Amerika en met de dollar als betaalmiddel zullen die crisis en deze praktijken zich ook in Europa en in ons land manifesteren. Er staan al 10 000 Filippijnse IT-specialisten klaar om naar Europa te komen werken, waarvan er 1 000 voor de Belgische markt zijn bestemd.

Tegelijkertijd is er door de hypotheekcrisis in de VS een enorme financiële crash. Die hypotheekcrisis is het eindresultaat van het geven van leningen aan mensen die deze leningen nooit hadden mogen krijgen, omdat ze gewoon insolvabel waren. Er is een enorm wantrouwen gegroeid tussen de banken, en zo is de flux van cash aan reële marktrente gestremd geraakt (men is bang om aan elkaar te lenen). De nationale banken drukken echter massa’s geld bij en gooien dat op de markt en dit tegen lage rente. Een paar dagen geleden heeft de Federal Reserve, dat is de Amerikaanse Nationale Bank 200 miljard dollar in het systeem gepompt. Dit is al een eerste oorzaak van de geldontwaarding. Tegelijkertijd is er een enorme opstoot van de prijzen van energie en voedingsproducten die wordt voortgestuwd door de stijgende vraag vanuit de nieuwe groeimarkten en vooral dan door China. Deze factor die we allemaal kennen als inflatie tast de reële koopkracht aan van de mensen. Een combinatie van massaal goedkoop geld en van een groeiende vraag naar grondstoffen leidt tot deze inflatiespiraal. Om de inflatie te kunnen stoppen moet het geld duurder worden. Maar dan remt men de groei af en krijgt men een stagflatie. Dit is een nachtmerriescenario voor alle mensen en zeker voor de elite. Daarom moeten er nieuwe wegen worden gezocht om onze economie te reorganiseren

Op binnenlands en Europees vlak moeten er structurele economische en politieke veranderingen worden doorgevoerd. Op langere termijn moeten we zelf de Beurs en geldmarkt in vraag durven te stellen. Er moet een nationale revolutie in gang worden gezet die aan de dreigende economische achteruitgang van ons land en ons continent een halt wordt toegeroepen. Zeker in ons land en sommige andere Europese landen is de toestand dramatisch gezien het probleem van de vergrijzing. Maar ook de steeds meer falende scholingsgraad moet omhoog. Er moet een ander soort economie worden opgebouwd, waar innovatie en hoogtechnologische meerwaarde kunnen worden gerealiseerd. We moeten af van de productie van halffabricaten en lageloonbanen. We moeten een solidaristische volksgebonden economie naar voor schuiven. De interne klassenstrijd moet vervangen worden door de solidaire volksverbondenheid die het mogelijk moet maken om van onze Vlaamse economie een echte speerpunteconomie te maken. Een maatschappij waar tijdelijke opofferingen gecompenseerd worden door meer inspraak en macht in de bedrijven en in de economie. De economie en de politiek mogen niet in handen blijven van de huidige machtskaste. Ze moet worden overgedragen aan de nieuwe meritocratie die verantwoordelijkheid orde en tucht zal combineren met stijgende welvaart en welzijn. Daarom moeten op binnenlands vlak radicale economische en sociale hervormingen worden doorgevoerd.

Maar ook op geopolitiek vlak moeten er veranderingen komen. Er moeten nieuwe bondgenoten worden gezocht. Die kunnen garant staan voor grondstoffenmarkten en afzetmarkten. Als je weet dat dit land nu al meer dan 13% van alle buiten-Europese handel realiseert via Rusland, dan is het duidelijk dat zelf de machtselite al op twee paarden is gaan het wedden. Terwijl de Europese dictatuur zijn steun betuigt aan Amerika en zweert dat ze dat bondgenootschap eeuwig trouw zal blijven, investeren de Europese bedrijven en banken massaal in Rusland. 70% van alle buitenlandse investeringen in Rusland komen nu al vanuit de Europese Unie. Dat is ook niet verwonderlijk. Rusland heeft de volgende drie jaar een groeiverwachting van 6%. Na 2009 zal Rusland op het niveau van 1989 staan. Dat is het ogenblik waarop de muur en het communisme in elkaar zijn gedonderd. Analisten voorspellen dat er na 2009 pas echt een groei-explosie zal plaatsvinden.

Ondanks het feit dat men in Europa en de VS het huidige regime in Rusland corruptie en slecht democratisch beheer aanwrijft is het toch maar een feit dat dit Rusland al zijn oliewinsten terug in de economie stopt. Miljarden dollars worden zo in de economie gepompt. Dat heeft geleid tot de opkomst van een Russische middenklasse. Deze beschikt over genoeg inkomen om verbruikgoederen te kopen en zo de algemene economie verder groeikansen te geven. Hier ligt uiteindelijk de opportuniteit voor Europa en zeker ook voor ons land. Wij moeten nog meer gaan participeren in de voormalige Oostbloklanden en vooral in Rusland. Het is voor ons van levensbelang dat we een uitvoermarkt voor onze producten veilig stellen. Maar ook, wat nog van groter belang zal zijn in de toekomst, is dat we gas en olie zullen kunnen invoeren en zo onze economische groei zullen kunnen garanderen. Onze corrupte elite wil echter van twee walletjes eten. Ze wil wel meeprofiteren van een economische groeimarkt zoals Rusland maar ze is tegelijkertijd doodsbang om de Amerikaanse alliantie te verbreken. Nochtans is die alliantie, zoals ik reeds eerder aantoonde, een verkeerde optie. Het is de alliantie van de verliezers en van de achteruitgang. Het is een verbond dat ons zal meesleuren in de ondergang van een voormalige grootmacht. Onze elite is schatplichtig aan de Amerikaanse elite. Ze is verslaaft geraakt aan de ‘American Dream’. Zelf als die droom langzaam een nachtmerrie aan het worden is, dan nog blijven onze elites star vasthouden aan die alliantie.

Onze elites willen geen verandering. Ze zijn doodsbang voor verandering. Ze denken dat ze onder de paraplu van de VS nog altijd aanspraak kunnen maken op grote economische macht en invloed. Maar het monster van de globalisering keert zich uiteindelijk tegen diegenen die dat monster hebben gecreëerd. De globalisering heeft nieuwe superstaten laten ontstaan en die zullen met de oude afrekenen. De huidige Europese machtselite doet er verkeerd aan om Oost-Europa te willen Balkaniseren. Ook het sturen van troepen om Amerikaanse belangen te gaan verdedigen is misdadig. Men probeert Rusland te isoleren en te omsingelen, kijk naar Afghanistan en kijk wat er gebeurt in de vroeger Sovjetrepublieken. Kijk naar de installatie van nieuwe raketsystemen in Europese landen. Zelfs het stichten van moslimenclaves worden als buffer tegen de Russische groei en economische machtsuitbreiding gebruikt. Etnische tegenstellingen worden aangewakkerd. Die tegenstellingen zullen in ons gezicht ontploffen, want ook wij zijn reeds etnisch geïnfiltreerd.

Wij, in Europa, moeten ons beschermen tegen de pletwals die de huidige militaire en economische macht Amerika zal doen botsen met de nieuwe opkomende macht China. Darfour, maar ook veel andere Afrikaanse landen worden nu al ingepalmd door China omwille van de grondstoffen. Dat is een voorbode van veel zwaardere conflicten om grondstoffen en afzetmarkten. Wij hebben nieuwe vrienden nodig, die Europa tegen China kunnen beschermen. Want de terreur tegen Europa en Rusland zal vroeg of laat uitmonden in een open oorlog. Dan zal niet alleen onze koopkracht en onze welvaart aangetast worden. Dan zullen de levens van u en uw kinderen in de weegschaal worden gelegd.

Voor het N-SA is het duidelijk. Wij moeten in de Europese ruimte komen tot een hergroepering van krachten. Als we dat willen realiseren is de As Europa-Rusland de meest zinnige optie. Daarom onze strijd. Een strijd tegen oorlog en terreur. Tegen economisch imperialisme. Deze strijd kan alleen maar slagen als we een vrije en solidaristische volksstaat uitbouwen!

Algemeen Coördinator Eddy Hermy.Toespraak namens de N-SA op het Dineerdebat van Euro-Rus.

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samedi, 12 avril 2008

L'itinéraire personnel d'Urbain Decat

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Un itinéraire personnel du socialisme flamand au Vlaams Blok

Entretien avec Urbain Decat, cofondateur des "Rode Leeuwen"

 

«Le parti socialiste flamand a trahi le combat populaire pour l'émancipation. A l'heure de la globalisation néo-libérale, le Vlaams Blok reprend le flambeau», nous déclare Urbain Decat, conseiller communal VB à Schaerbeek

 

Monsieur Decat, votre itinéraire est tout à fait in­ha­bi­tuel. Vous étiez au départ un militant socialiste con­vain­cu, vous avez milité pendant toute votre vie pour le triomphe de la plus grande idée de la philosophie des Lumières, l'émancipation, la sortie de l'homme hors de sa minorité (Kant); vous avez été professeur de "morale laïque" dans une grande école secondaire de la région bru­xelloise, vous avez présidé à l'Université à la forma­tion permanente de vos jeunes collègues et vous vous re­trouvez aujourd'hui dans les rangs du Vlaams Blok, un parti que vos anciens camarades et collègues considè­rent comme l'antithèse exacte de vos anciens engage­ments. Pouvez-vous nous expliquer cette anomalie  —vo­tre anomalie—  dans le paysage politique flamand?

 

Personnellement, je suis issu d'une vieille famille libérale (an­ti-cléricale) mais flamingante, soucieuse de l'émancipa­tion du peuple flamand face à la double emprise de la fran­cophonie et du cléricalisme. Mon arrière-grand-père fut ain­si l'un des fondateurs du Willemsfonds, la grande fonda­tion culturelle libérale flamande, dans les années 1870, au moment où le Kulturkampf de Bismarck luttait contre l'em­prise cléricale en Allemagne. Mais le Kulturkampf laïque et germanique n'a pas réussi en Flandre: le cléricalisme catho­lique romain le plus obtus a mis la main sur le mouvement fla­mand, ruinant à l'avance toute tentative d'émancipation à l'allemande. Ma famille a pris ses distances avec le fla­min­gantisme institutionnel. Elle a conservé son idéal indé­pendantiste flamand, mais elle refusait le joug clérical, ne vou­lait pas de la tutelle cléricale sur le mouvement fla­mand et, a fortiori, sur une Flandre qui serait devenue in­dé­pendante. Le clivage cléricalisme/anti-cléricalisme a été dé­terminant dans toute l'histoire de la Belgique indépen­dante, jusque dans les années 60. Mais l'emprise de l'Eglise sur le mouvement flamand a contraint les anti-cléricaux à changer de priorité, à abandonner la lutte pour l'émanci­pation flamande.

 

Dans ma jeunesse, vers 16 ou 17 ans, j'ai atterri dans le mou­­vement socialiste, tout en gardant les positions flamin­gantes, héritées de mon contexte familial. Oui je suis fier d'être Flamand, mais pas à la mode de ce nationalisme pé­tri de cléricalisme, de pensées pieuses. Ce nationalisme-là idéalise les "belles âmes", les "bons paroissiens", les "ver­tueux sans tripes ni bite". Je constate que cette imagerie d'E­pinal a réussi à fabriquer un bon petit peuple de couil­lons (l'expression existe: een arm klootjesvolk). De cela, je ne tire aucune fierté: je ne veux pas appartenir à un peu­ple qui ressemble à des chromos à la Saint-Sulpice. Je veux des durs à cuire, des gars au verbe haut et peu châtié, des cogneurs, des tombeurs de filles, des têtes de lard. Car ils sont toujours l'incarnation de la liberté d'action et de senti­ments. Mais ce type d'homme n'apparaîtra que dans une Flan­dre véritablement émancipée et indépendante. L'indé­pen­dance met les peuples devant leurs responsabilités. Leur donne un but, une fierté. Les Flamands feront comme les Français ou les Allemands (bien que la fierté nationale, là-bas à l'Est, en a pris un coup dans le processus de "réé­du­cation" mis en œuvre par les Américains après 1945).

 

Passivité flamande dans la question autrichienne

 

Prenons un exemple actuel: Louis Michel, Ministre des Af­fai­res Etrangères du Royaume de Belgique, parvient à con­tour­ner la majorité flamande dans la question autrichien­ne. On sait que seulement 10% des Flamands sont en faveur des mesures de rétorsion préconisées par Michel contre l'Au­triche, parce que le peuple autrichien n'a pas voté com­me cela lui aurait plu! Même en Wallonie, région plus ma­tra­quée par les folies austrophobes fabriquées à Paris, seu­le une minorité de 30% donne raison sur ce plan à Michel. A Bruxelles, ville plus cosmopolite, 34% sont en faveur du boy­cott. L'affaire autrichienne, qui a excité les esprits en ce printemps 2000,  démontre que les Flamands, et leur per­­son­nel politique, sont passifs, se laissent embobiner dans une politique française, imposée par les relais franco­phones du Quai d'Orsay, de l'Alliance française ou d'autres “services spéciaux” de la République une-et-indivisible  en Wallonie. Les Flamands n'ont pas eu le courage civique et na­tional de dénoncer ce jeu malsain de la France chez nous et à Vienne, alors qu'ils sont majoritaires et qu'une simple fermeté aurait pu provoquer la démission de Michel et con­fondre les manigances de Chirac et de Jospin au niveau eu­ro­péen. Ceci dit, malgré le fait que je déplore amèrement la faiblesse politique de mon peuple, je reste flamingant au sens historique du terme. 

 

Revenons à votre engagement socialiste, quand vous étiez adolescent…

 

UD: Quand j'avais 16 ou 17 ans, je me suis effectivement en­gagé dans les rangs du parti socialiste belge, qui était en­core un parti unitaire, regroupant les fédérations fla­mandes et wallonnes. En 1963, l'année où l'on a déterminé définitivement le tracé de la frontière linguistique en Bel­gique, les choses ont bougé, notamment par une marche fla­mande sur Bruxelles (plus de 100.000 participants) et des incidents assez violents dans les six villages des Fourons. J'ha­bitais Landen, une petite ville flamande, qui faisait par­tie de la province de Liège, trilingue à l'époque, mais très majoritairement wallonne (les districts de Landen et des Fourons étaient flamands, ainsi que la vallée du Geer, perdue pour la Flandre aujourd'hui; les cantons d'Eupen et de Saint-Vith étaient et sont toujours germanophones). Avec le tracé de la frontière linguistique, à Landen, nous sou­haitions nous détacher de cette province très majoritai­rement wallonne et faire partie du Brabant (bilingue à l'é­poque, avant qu'elle n'ait été récemment scindée en deux provinces, l'une flamande, l'autre wallonne). Une minorité francophone à Landen (5%) souhaitait que notre ville restât liégeoise. Avec mes amis socialistes, mais aussi avec les mi­litants politiques flamands de toutes obédiences, nous nous sommes battus pour que Landen passe au Brabant. Ce ne fut pas un long combat: rapidement, on nous a donné rai­son et nous avons quitté le giron de la province de Liège, heu­reuse de se débarrasser d'une minorité néerlandophone qui aurait compliqué son administration.

 

En 1964, je suis venu habiter à Bruxelles et j'ai rejoint, dans la capitale, les sections du BSP/PSB (Belgische So­cia­listische Partij/Parti Socialiste Belge), dont les structures, à l'époque, étaient unitaires. A Bruxelles, les Flamands comp­taient pour du beurre, ils faisaient fonction de cin­quiè­me roue à la charrette. Jamais on ne leur donnait une pla­ce éligible. Lors des réunions, quand un militant ouvrier s'exprimait en néerlandais parce qu'il ne maîtrisait pas as­sez le français, les francophones l'insultaient, lui lançaient des "Ta gueule!". Tout cela m'a rapidement échauffé les o­reilles. Pas question pour moi de me faire traiter de tous les noms ni de subir cette hystérie. J'ai donc milité au sein du parti socialiste pour briser cet unitarisme qui était un mar­ché de dupes, pour nous Flamands. Nous avons donc fon­dé à la fin des années soixante et au début des années sep­tante les "Rode Leeuwen" (= les Lions Rouges), une struc­ture autonome des socialistes flamands, prélude à la scission du parti en deux entités indépendantes l'une de l'autre: le PS wallon et francophone, et le SP flamand. Plus exactement en trois entités, avec le SP germanophone à Eupen et à Saint-Vith. En 1970, j'ai démissionné. L'aventure de la fondation des "Rode Leeuwen" était terminée, pour laisser la place au personnel politique belge habituel: les pense-petits, les arrivistes, les carriéristes à la petite se­maine, les politicards véreux, les obséquieux qui quéman­dent un logement social, une allocation, un petit boulot, etc. Ce zoo ne me convient pas. Je suis dès lors resté un "sans-parti" jusqu'en 1995, quand j'ai adhéré au Vlaams Blok, parti qui suscitait ma sympathie depuis quelques an­nées déjà, parce qu'il était le seul à proposer une rupture radicale dans le ronron politicien belge. Pendant ces vingt-cinq années, j'ai été professeur de morale laïque dans une grande école secondaire de la région bruxelloise et j'ai di­rigé les stages de formation pour mes jeunes collègues à la VUB (Vrije Universiteit Brussel).

 

Vous avez étudié la philosophie. Quels professeurs ont été vos maîtres, quels filons de la philosophie peuvent expliquer votre engagement et surtout votre passage du SP au VB?

 

UD: Quand j'entre à la VUB à dix-huit ans, l'esprit y était beau­coup plus ouvert qu'aujourd'hui. J'assiste actuellement à un effondrement dramatique du niveau philosophique et du niveau politique. A l'époque, le principe du libre examen signifiait encore quelque chose. On permettait aux étu­diants d'exercer leur sens critique. A fond. Avec la perti­nen­ce et l'insolence voulues. Les principes du libre-exami­nis­me ne s'étaient pas encore mués en des dogmes aussi fa­des qu'intangibles. Les prêtres de ce laïcisme étaient des phi­losophes critiques et pas encore une sinistre prêtraille ner­veuse et hystérique. Le ver est entré dans le fruit avec ce culte, venu de Paris, pour les Droits de l'Homme, qui n'a plus rien à voir avec l'émancipation de l'homme "hors de la minorité qu'il s'était lui-même imposée" (Kant), mais con­stitue bel et bien l'émergence d'un nouveau catéchisme fi­gé, d'un éventail de dogmes rigides, que l'on ne peut ni cri­ti­quer ni adapter aux réalités du temps et de l'espace. Dans ce glissement progressif vers le dogmatisme, sous couleur d'une interprétation fallacieuse des droits de l'homme, j'ai vu l'émergence d'un nouveau cléricalisme, justement la men­talité que ma famille combattait depuis des géné­ra­tions.

 

Vertuisme politique, néo-cléricalisme, "political correctness", inquisition et ukases saugrenus 

 

Pire pour un garçon issu du laïcisme et de la libre pensée com­me moi: le vertuïsme politique, nouveau cléricalisme, la political correctness à la belge, est portée aujourd'hui par un dominicain acharné et obstiné, le R.P. Johan Leman, éminence grise et grand manitou de ce machin qui s'im­misce en tout dans le Royaume de Belgique aujourd'hui, le "Centre d'égalité des chances et de lutte contre le ra­cis­me". Les travers les plus saugrenus de l'idéologie des Lu­miè­res (mal comprise et mal digérée) sont imposés à coups d'ukases tout aussi saugrenus par un dominicain, qui, logi­que­ment, en tant qu'homme d'Eglise, devrait les com­bat­tre: telle est la contradiction majeure, et risible, du "dé­bat" en Belgique aujourd'hui. Mais peut-on parler de "dé­bat"? Non, évidemment. Nous avons affaire à un monologue collectif, à un ânonnement généralisé des mêmes poncifs é­culés. Comme vous pouvez le constater, je reste fidèle à l'i­dée cardinale de l'idéologie des Lumières: l'émancipation, la sortie volontaire de l'homme hors de sa minorité, la di­gni­té de l'homme libre, non prisonnier de dogmes mu­ti­lants. Or, nous voyons depuis plusieurs décennies que l'i­déologie des Lumières, idéologie de gauche, a sombré dans un gauchisme de plus en plus mièvre, jusqu'à se trans­for­mer en cette bouillie insipide qui inonde toute discussion au­jourd'hui, crée un marais où toute idéologie émergeante, constructive et contestatrice, risque l'enlisement. Cette bouil­lie insipide, qui se présente comme “inoffensive” et “dé­mocratique”, érige toutefois des “garde-fou” dogma­ti­ques pour ne pas être remise en question par des esprits au­dacieux, soucieux tout à la fois de ne pas poser de dog­mes intangibles et d'agir efficacement (constructivement) dans la société et au niveau du politique. Qui enfreint les “dogmes garde-fou” est condamné à l'opprobre médiatique, au cordon sanitaire, voire à la correctionnelle: c'est le re­tour de l'inquisition, la mort des libertés civiles et de la li­ber­té d'expression. Bref le retour à tout ce qu'un libre pen­seur cohérent comme moi abomine et exècre.

 

Des corrections au départ de Nietzsche

 

Pour éviter cet enlisement dramatique, il aurait fallu, de temps à autre, opérer des corrections au départ de corpus classés arbitrairement à droite, notamment en tenant compte des enseignements et des critiques de Nietzsche, et de toutes les écoles qu'il a fécondées. Malheureusement, se référer à Nietzsche et à ces écoles, c'est commettre aux yeux des pères-la-morale et des vertuïstes actuels, le pé­ché de "dextrisme". Les insolents sont considérés comme é­tant "de droite", ou comme des "fascistes". Que les inqui­si­teurs persécutent, que l'on étouffe sous le silence, à qui l'on barre toute carrière académique. Tout adepte cohérent de l'idéologie des Lumières ne peut que se révolter devant une telle situation! Donc, je me révolte. Et je crie ma ré­volte.

 

Dans les années 60, décennies où vous avez achevé vos études, le marxisme, le freudo-marxisme, les idées de Marcuse et de l'école de Francfort, l'existentialisme de Sartre étaient les mouvements d'opinion dominants. Vous vous en êtes réclamé, comme tous vos contem­po­rains, comme tous les étudiants de votre génération. Quel regard rétrospectif jetez-vous sur ce passé que l'on peut carrément qualifier de "soixante-huitard"?

 

UD:  Dans les années 60, il y avait des exégètes pertinents de la pensée de Marx, que je respecte et que je relis, mais c'é­tait surtout un Vulgärmarxismus, un marxisme vulgaire, qui dominait à l'Université. On a vu cela dans tous les pays d'Europe et aux Etats-Unis. Je ne dis pas que le marxisme y était mal enseigné, mais la masse des étudiants n'en rete­nait qu'une vulgate maladroite, appelée à terme à devenir un pot-pourri de dogmes stériles. Cette vulgate était insup­por­table, d'autant plus qu'elle était portée par ceux qui n'a­vaient jamais lu Marx! Le noyau intéressant du marxisme, que je me suis efforcé de retenir, était une petite fleur fra­gile: les manipulateurs de la vulgate l'ont fait crever. Ensui­te, le marxisme vulgaire de l'Université était mâtiné de théo­ries françaises, étrangères au contexte germanique de Marx. Notamment l'interprétation existentialiste du marxis­me proposée par Sartre.

 

Léopold Flam: une double lecture de Marx et de Nietzsche

 

J'ai suivi les cours du Professeur Léopold Flam, avant de de­ve­nir son assistant. Flam était issu de la communauté israé­lite de Belgique. Il avait fait de la résistance et les Alle­mands l'avaient interné à Buchenwald. Flam enseignait la pensée de Marx, sans être un dogmatique. Car, justement, il corrigeait les dérives gauchistes et néo-cléricales de la vul­gate marxiste par un recours à Nietzsche. Il fut le pre­mier à écrire dans une revue consacrée à la pédagogie de la philosophie que Nietzsche était par excellence le philo­so­phe de la jeunesse et que sa manière de voir le monde de­vait absolument être enseignée aux adolescents dans les écoles secondaires. Flam s'intéressait aussi à Heidegger et à sa philosophie de l'enracinement dans le sol (notamment le sol de la Forêt Noire, de la Souabe alémanique). Heidegger souligne la nécessité d'un ancrage, pour éviter les vatici­na­tions hors contexte, désarticulées, fumeuses, qui, à terme, servent d'instruments manipulateurs aux escrocs qui endor­ment les peuples pour mieux les enchaîner. Une combinai­son adroite de Marx, Nietzsche et Heidegger serait la re­cette idéale pour briser le dogmatisme actuel, qui aurait hé­rissé Flam, pour casser les reins à cette monstruosité qu'est la political correctness.

 

L'œuvre littéraire de Henri Bosco

 

Flam se référait à un autre auteur, un Français, un Proven­çal, Henri Bosco, pour étayer son discours sur le nécessaire ancrage anthropologique de l'homme dans un lieu, concret et clairement circonscrit dans l'espace. Bosco appartient à la catégorie des "écrivains du terroir", comme Giono, autre illustre Provençal, Maurice Genevoix et, plus récemment, Henri Vincenot. Flam a sans doute découvert cet auteur, cette fascination pour la Provence, via le lien qui unissait aussi Heidegger à ce Midi du Soleil. Je rappelle qu'il y a sé­journé avec René Char, découvrant aux abords des collines du Lubéron, un paysage "où l'origine n'était pas entière­ment voilée". Camus aussi, à la fin de sa vie, a été séduit par ce paysage, où son corps repose désormais, dans le pe­tit cimetière de Lourmarin. Henri Bosco, le Provençal pré­féré de Léopold Flam, était certes un écrivain du terroir, chan­tre de la Provence éternelle, de sa nature, de sa fau­ne, de sa flore, de ses habitants qui suivent des rythmes de vie simple et inchangés depuis des siècles. Mais derrière ce décor qu'on pourrait croire idyllique, serein, sans boulever­se­ments, la violence est toujours présente, prête, le cas échéant, à faire irruption à la surface. La violence n'est pas bannie de l'horizon du poète Bosco. Avec l'inspiration que lui a donnée Gérard de Nerval, les mystères, le suprasen­si­ble, les éléments magiques, les numines propres aux élé­ments de la nature peuplent ses romans et leur donnent une touche païenne, qui n'est pas sans rappeler l'œuvre de l'An­glais David Herbert Lawrence. Comme Camus, Flam glis­sait sans doute vers une acception plus enracinée de la gau­che intellectuelle, glissement diamétralement différent de celui, actuel, qui va vers la political correctness, en dé­pit de l'engouement pseudo-écologique d'une frange non né­gligeable de l'électorat.

 

"Urwüchsigkeit" et "Weltgefühl"  

 

Flam haïssait les "libres-penseurs" professionnels, les Frei­denker à faux nez, les bigots et les rombières du bataclan laïciste. Il détestait de tout son cœur ceux qui débitaient des dogmes. Qui érigeaient un nouveau cléricalisme. Flam n'ap­préciait que ceux qui allaient à la substance de la pen­sée, à l'Urwüchsigkeit, à la Vie des vitalistes, au Weltge­fühl. Il aimait les esprits ouverts, peu importent leurs en­ga­ge­ments ou leurs opinions périphériques.

 

Plus exactement, qu'est-ce que le marxisme pour vous?

 

UD: Le marxisme des années 60 était pour Flam, pour ses étu­diants et pour moi-même, une concession à la mode du temps, au Zeitgeist. Personnellement, je considère que le socialisme annoncé par Marx est le socialisme de la fin de l'aliénation (Entfremdung). Le socialisme n'est pas, en pre­mière instance, l'avènement de la "justice sociale" (car com­ment peut-on la quantifier?). Ni surtout ce moralisme qu'on essaie de nous vendre comme la quintessence des gau­ches aujourd'hui. Le socialisme, c'est donc la fin de l'a­lié­nation, pour tous les hommes en général, pour les tra­vail­leurs en particulier, victimes du manchestérisme et de l'exo­de rural au XIXième siècle. Pour Marx, le travailleur doit être le maître de son travail, et du produit de son tra­vail. Conserver un lien direct, immédiat, vital avec son activité professionnelle et avec le produit que celle-ci gé­nè­re. Tels sont ses leitmotive fondamentaux. A la suite de Léo­pold Flam, mon professeur, et de George Steiner, philo­sophe juif-allemand émigré en Angleterre à l'époque du na­tio­nal-socialisme, je constate une analogie entre ce désir de Marx et la pensée ancrée-enracinée de Heidegger. Celui-ci parlait d'un sentiment fondamental de l'homme, sans le­quel il est jeté dans la tourmente de l'existence: le "sich-zu-Hause-Fühlen", le "se-sentir-chez-soi", le "se-sentir-en-sa-maison". Le travailleur doit se sentir chez soi dans son usine, dans sa rue, dans sa ville, dans son pays, il doit être ancré, demeurer sûr de cet ancrage et ne plus être le jouet de forces supra-locales qui le manipulent comme un pion sur un échiquier ou qui spéculent sur son interchangeabilité permanente. Mon engagement au Vlaams Blok découle de là: je n'ai plus retrouvé dans la "libre-pensée" officielle (et dévoyée) le souci incontournable du "sich-zu-Hause-Füh­len", élément essentiel de toute anthropologie cohérente et viable. Beaucoup de mes camarades politiques du Vlaams Blok considèreront sans doute les propos que je tiens ici comme le reflet et l'expression d'une hérésie ou d'une aberration, mais j'affirme clairement que je vois dans le combat de mon nouveau parti une sorte de combat pro­to-marxiste. Le Manifeste du parti communiste de Marx (1844) contient pourtant des affirmations que n'importe quel homme de droite accepterait avec enthousiasme.

 

Le "Manifeste du parti communiste" de Marx: une lecture impérative pour tout homme "de droite"

 

Je cite de mémoire cet extrait du Manifeste de Marx: "Par­tout où elle [= la bourgeoisie] a conquis le pouvoir, elle a détruit les relations féodales, patriarcales et idylliques. Tous les liens variés qui unissent l'homme féodal à ses su­périeurs naturels, elle les a brisés sans pitié pour ne laisser subsister d'autre lien, entre l'homme et l'homme, que le froid intérêt, les dures exigences du “paiement au comp­tant”. Elle a noyé les frissons sacrés de l'extase religieuse, de l'enthousiasme chevaleresque, de la sentimentalité peti­te-bourgeoise dans les eaux glacées du calcul égoïste. Elle a supprimé la dignité de l'individu devenu simple valeur d'é­change; aux innombrables libertés dûment garanties et si chèrement conquises, elle a substitué l' unique et impito­ya­ble liberté de commerce. En un mot, à l'exploitation que mas­quaient les illusions religieuses et politiques, elle a sub­stitué une exploitation ouverte, éhontée, directe, brutale. La bourgeoisie a dépouillé de leur auréole toutes les activi­tés considérées jusqu'alors, avec un saint respect, comme vé­nérables. Le médecin, le juriste, le prêtre, le poète, l'hom­me de science, elle en a fait des salariés à ses gages. La bourgeoisie a déchiré le voile de sentimentalité tou­chan­te qui recouvrait les rapports familiaux et les a réduits à de simples rapports d'argent". Je vous le demande: quel hom­me de la droite véritable, de la droite des racines (j'y re­viens!) ne souscrirait-il pas à ces phrases de Marx et d'En­gels?

 

Aujourd'hui, cette synthèse marxo-heideggerienne, cette dou­ble revendication sociale et philosophique du droit "à être chez soi" ("Thuis zijn", thème central de la campagne du Vlaams Blok pour les élections communales du 8 octobre 2000) est notamment portée par le philosophe slovène Sla­voj Zizek, peu connu dans l'espace linguistique fran­cophone mais largement apprécié dans le monde anglophone, en Al­lemagne et aux Pays-Bas. Zizek va dans le même sens: il est hostile à la globalisation, parce qu'elle porte l'aliénation à son pinacle. Sa critique est nourrie de Marx et de Hei­deg­ger. Lui aussi dénonce l'idéologie “po­litiquement correcte”, avec son homme “multiculturel”, qui n'est, dit-il, qu'une ab­­straction totalement désincarnée. Donc une escroquerie. Donc un instrument de manipu­lation.  

 

Donc, pour vous, le malheur premier de l'homme, c'est l'a­liénation. Tout humaniste engagé en politique doit dès lors lutter contre les facteurs et les effets de l'alié­nation, aider ses contemporains plus faibles et plus dé­sorientés à s'en dégager…

UD: Oui. Aujourd'hui, l'aliénation a conduit à l'atomisation de nos sociétés, surtout dans les grandes villes. Bruxelles n'é­chappe évidemment pas à la règle. Les gens vivent barri­cadés chez eux, parce qu'ils n'ont plus envie de sortir  —la rue ne correspondant plus à leurs désirs de convivialité ou d'esthétique collectives—   ou parce qu'ils s'abreuvent de fic­tions cinématographiques, d'expériences de "seconde main", par films interposés. Dans un tel contexte, l'agora antique, le forum des citoyens libres, libres parce qu'ils pre­naient la parole en public, s'adressaient à leurs homolo­gues, n'est plus qu'un souvenir: c'est le comble de l'aliéna­tion. C'est aussi le message que nous a laissé Hannah Arendt. Ma position, de philosophe et d'homme engagé dans le seul parti révolutionnaire du pays (révolutionnaire jus­tement parce qu'il fait enrager tous les conformistes), c'est de m'insurger contre l'aliénation et ses formes multiples, de mettre toutes mes énergies à lutter contre les affres de l'aliénation. Je suis ainsi scrupuleusement la leçon de Marx, en tournant le dos à tout marxisme vulgaire, à tout "mar­xisme de parti" (partijmarxisme). Ce marxisme de parti est une escroquerie. Mon marxisme reste purement philoso­phique, il transcende largement les querelles politiques ou les querelles entre écoles. Avec Henri Lefèbvre, autre in­tellectuel en vue du PCF dans les années 50 et 60, je me dres­se contre le déracinement des hommes. Vous me dites qu'avec votre ami Guillaume Faye, ténor de la "Nouvelle Droi­te" dans les années 80, vous avez eu le privilège de dî­ner deux fois à la “Closerie des Lilas" à Paris avec Lefèbvre: je suis heureux de l'apprendre, cela confirme mes intui­tions. Depuis longtemps déjà, des passerelles auraient pu être jetées. Je suis fier d'être ainsi, à quelques années de dis­tance, sur la même longueur d'onde que Lefèbvre, ce grand maître de ma période universitaire.

 

Marx aurait donc été aussi "politiquement incorrect" que vous, s'il avait vécu aujourd'hui?

 

UD: Evidemment. Sa critique du consumérisme comme for­me la plus extrême de l'aliénation, où tous les hommes deviennent les esclaves de la marchandise, l'aurait mis radicalement en porte-à-faux par rapport à cet agence­ment complexe et aliénant de publicité et de mass-media que nous connaissons depuis quelques décennies. On ne parle jamais, chez les bigots laïcistes qui se piquent de marxisme, du "racisme" de Marx. Bon nombre de ses propos l'auraient conduit aujourd'hui devant un de ces tribunaux inquisitoriaux, issus de la Loi Moureaux, une loi qui doit son nom à cet ex-ministre de la Justice qui se prétend juste­ment son plus féal disciple au sein du PS francophone. En­core une belle contradiction dans notre "beau monde" politique! Philippe Moureaux exhorte ses ouailles socialistes à lire et à relire Marx, il n'a que cette exhortation à la bou­che… Mais, s'il veut être fidèle, par ailleurs, à l'esprit de sa fameuse loi contre le racisme, il devrait fournir à ses yes-men des versions dûment expurgées de Marx, sinon ils ris­que­raient d'enfreindre la loi qui porte son nom! Karl Marx était très fier, par exemple, d'appartenir à la culture alle­man­de, à l'appareil complexe de cette culture, mixte d'idéa­lisme, de kantisme, d'hegelianisme, de dialectique, de romantisme, etc. Je n'ai pas dit que Marx était fier d'ap­par­tenir aux aspects cucu de la culture allemande de son temps, au bric-à-brac Biedermeier, comme on disait à l'épo­que. Cette sous-culture, je le concède, il la vomissait. Ma position est analogue dans la Flandre d'aujourd'hui: qu'on ne me parle pas de cette fausse Flandre fabriquée par les cléricaux, où tous les Flamands seraient de pieux be­nêts bien chastes (vroom en kuis), humbles et souffrants sous les quolibets de leurs maîtres, décrits comme des per­vers impies. Mes modèles sont les Flamands combattants, entêtés, paillards, libertins, grands buveurs devant l'éter­nel, aventuriers et entreprenants.

 

Vous nous avez parlé de Léopold Flam. D'autres pro­fesseurs ont-ils influencé votre cheminement?

 

UD: Oui, sans doute avant tout Hubert Dethier. Ce phi­lo­sophe laïque s'inscrivait à ses débuts dans le filon de l'anti-humanisme français des années 60, qui entendait prendre le relais de Marx, quand il raillait, à la suite de Hegel, le culte des “belles âmes”. Dans le carnaval de la laïcité en Belgique, les dévots laïcards ont construit une vision tota­lement abstraite de l'homme, que critiquait Dethier, à la suite d'Althusser notamment. Mais Dethier est tombé dans le piège de la "nouvelle philosophie" des B. H. Lévy, des Glucksmann et consorts. Sa critique anti-humaniste a fait place à un mysticisme de Prisunic, où gargouillent tous les ingrédients de la vulgate dominante d'aujourd'hui. Je le dé­plo­re. Mais tant pis pour Dethier. Son anti-humanisme d'hier m'a aidé à me méfier des belles idées généreuses, qui ne camouflent généralement que du vide intellectuel ou des escroqueries véreuses. Hegel nous avait déjà averti, dans la dernière décennie du XVIIIième siècle, contre le cul­te des “belles âmes” (schöne Seelen). Ce culte est à la ba­se de toutes les abstractions morales ou éthiques qui veu­lent oblitérer la richesse infinie de l'homme vrai, de chair et de sang. Marx en riait. Je suis fidèle à son rire. Le formalisme philosophique de la VUB, mon université, a dé­bouché sur une triste philosophie de salon, un académisme infécond. Les pseudo-philosophes contemporains qui en sont issus et qui font des ravages dans les lycées et athé­nées se posent comme des "savants". Ils ne font que de la pa­raphrase, de la napraterij. Devant ce pandémonium, je me suis enfui à toutes jambes et j'ai abandonné mon poste de directeur de stages pour les professeurs de morale laï­que des athénées de la Région de Bruxelles.

 

Marxisme vulgaire et messianisme chez les trotskistes 

 

Parmi mes collègues, beaucoup venaient du trotskisme, ai­re idéologique où les militants, souvent, se sentent investis d'une mission, font montre d'une propension accentuée pour le messianisme. Ces personnages estimaient que leur mission était d'apporter aux masses, donc aux potaches, ce marxisme vulgaire (et non marxien!)  —justement celui qui épouvantait Flam—  afin qu'il devienne l'idéologie unique de la société, permettant ainsi de réaliser la parousie sur la terre. Mais, à l'analyse, leur internationalisme et leur pseu­do-solidarité sociale n'ont rien à voir avec Marx, avec son décryptage lucide des mécanismes du monde bourgeois. Le prêchi-prêcha internationaliste, on connaît. Tout le monde entonne la rengaine, y compris l'Eglise. C'est ainsi que la libre-pensée, sous la triple influence du marxisme vulgaire, du messianisme de nos trotskistes simplets et de la "nou­velle philosophie" des Lévy et consorts, est devenue un nou­veau cléricalisme. Il n'y a plus de différence fondamen­tale entre ce que nous racontent les curés et ce que nous se­rinent les libres penseurs. Tout est mêlé, mélangé dans une panade sans saveur.

 

Qu'entendez-vous, au fond, par “cléricalisme”? Chez vous, ce terme semble recouvrir davantage qu'une sim­ple critique de l'Eglise et de ses mécanismes de pouvoir et d'influence sur les esprits…

 

UD: Pour moi, la libre pensée, c'est tout à la fois le refus du paternalisme (d'être objet d'un paternalisme), de la tutelle (d'être mis sous tutelle), de la manipulation. C'est refuser que la population tout entière, ou une partie de la popu­la­tion, soit soumise à l'emprise d'une forme ou d'une autre de pa­ternalisme, de sollicitude artificielle, entraînant une dis­cri­mination, négative ou positive. Quand, en théorie, l'en­sem­ble de la population citoyenne (et par conséquent auto­ch­tone) a été émancipée des tutelles qui pesaient jadis sur elle, il a fallu inventer de nouvelles catégories d'“exclus”, à la fois afin d'avoir un prétexte pour relancer la dynamique de l'émancipation et de se donner un nouvel objet de pitié, d'apitoiement et de sollicitude, tous ingrédients dont les paternalistes désœuvrés ont un besoin pathologique. Cette nouvelle catégorie, ce sont les immigrés (et accessoirement les jeunes, les drogués, etc.). Les bourgeois à mauvaise cons­cience, les professionnels du paternalisme à tous crins et du charity business style dames patronnesses, ont trouvé dans ces strates plus récentes de nos populations urbaines de nouveaux objets de (fausse) sollicitude, qu'il faut choyer et paterner/materner, le cas échéant, en leur accordant des faveurs matérielles de toutes sortes, financées évidem­ment par le contribuable (cette fois sans discrimination).

 

Se venger des citoyens socialistes autochtones

 

On peut même avancer sans trop craindre de se tromper, que cette bourgeoisie, paternaliste en surface, égoïste dans le fond, qui a dû accorder des droits sociaux à nos pro­pres strates populaires et ouvrières, sous la pression des grèves et des mouvements syndicaux, cherche à se venger, consciemment ou inconsciemment, de notre peuple en ma­nipulant contre lui les catégories sociales issues de l'immi­gration (Il reste effectivement à faire la psychanalyse de cet engouement pro-immigrés, où les immigrés ont d'abord joué à leur insu le rôle de "jaunes", pour casser ou contour­ner les acquis sociaux des autochtones). Manipulation qui s'effectue par l'instrument de la "discrimination positive" (qui n'en reste pas moins une discrimination), par le chan­ta­ge moral, par l'exploitation du mal-vivre qu'engendrent la cohabitation de populations qui se connaissent mal et une intégration forcée qui ne se réalisera sans doute que lors­que les poules auront des dents, bien plantées dans de nou­velles maxillaires charnues, don providentiel de l'évolution (merci Darwin!).

 

Comment seront les dix prochaines années en Flandre à votre avis?

 

UD: Dans les dix prochaines années, l'emprise du néo-li­bé­ra­lisme se fera toujours plus pesante. Tout est déjà mar­ché. Et demain, ce sera encore pire. Notre société va bas­culer dans le consumérisme le plus forcené, entraînant l'ato­misation, l'aliénation absolue. Nous, militants identi­taires flamands, devront construire la réaction populaire contre ce désastre. Nous ne sommes pas la droite de l'ar­gent (du capitalisme), mais la droite des racines (celles que Camus et Flam ont découvertes dans la Provence du Lubé­ron, d'Henri Bosco et, pourquoi pas?, de Jean Giono). La droi­te des racines sera celle qui mènera en première ligne le combat contre l'aliénation. Elle devra clairement décla­rer la guerre au néo-libéralisme, idéologie de la globalisa­tion, donc de l'aliénation suprême. Certes, je suis conscient qu'en Flandre, aujourd'hui, le néo-libéralisme peut encore séduire: en apparence, il a réduit le taux de chômage; mais cette petite victoire, sans nul doute toute provisoire, n'ex­clut pas les très prochaines retombées tragiques de la glo­ba­lisation, dont l'immigration débridée et ses effets pervers ne sont qu'un aspect. Abattre les règles du protectionnisme me semble une aberration politique, car, quand les bar­rières régulatrices n'existent plus, nous tombons très vite dans la crise, au moindre choc conjoncturel.

 

Le libéralisme ne permet pas de réconcilier autochtones et immigrés

 

Le néo-libéralisme promet l'euphorie et la réconciliation en­tre les peuples; en bout de course, ce sera le contraire, l'affrontement, avec tout son cortège de tragédies. L'immi­gration, produit de la mondialisation en cours depuis plu­sieurs décennies, ne réconcilie pas les ouvriers autochtones et allochtones. Au contraire. On peut le déplorer, mais c'est ainsi: deux hommes issus de civilisations différentes se­ront les meilleurs amis du monde, si chacun possède un ter­ritoire, qu'il agence comme il l'entend, sur lequel il cons­truit la société de ses vœux, de ses aspirations pro­fondes ou perpétue celle de ses pères. Sur un même terri­toi­re, ces deux amis potentiels risquent de s'opposer, car leurs désirs se télescoperont et s'excluront mutuellement. Dans leurs usines, les ouvriers de chez nous parlent de leurs conquêtes féminines et de leurs libations. Difficile, dans ces deux domaines élémentaires, d'être sur la même lon­gueur d'onde avec un camarade issu d'une culture islami­que, où l'on ne parle pas des femmes de la même façon et où l'alcool est prohibé. Dans un tel contexte de mécom­pré­hension mutuelle, les hiatus se multiplient. Les uns et les au­tres se replient sur eux-mêmes. Le “sich-zu-Hause-Füh­len” disparaît du lieu de travail. Un puissant sentiment d'a­lié­nation naît. Et pas seulement à l'usine, sur le lieu du tra­vail. Aussi dans la rue. Psychologiquement, cette situation est très dure pour un large pourcentage de la population. Le sentiment d'insécurité en découle. Même les adversaires les plus acharnés de mon nouveau parti en conviendront, mais dissimuleront leur constat derrière un rideau d'hypo­cri­sies verbeuses, tenteront de maquiller la triste réalité que doivent vivre tant de nos contemporains.

 

Votre conclusion?

 

UD:  En dépit de tout, la lutte première à mener est la lut­te contre l'aliénation. Ce fut mon combat hier. C'est mon com­bat aujourd'hui. Ce sera mon combat demain.

 

(propos recueillis par Robert Steuckers).          

 

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vendredi, 11 avril 2008

R. Steuckers: intervention au colloque d'Eurorus

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Intervention de Robert Steuckers lors du colloque « Euro-Rus » de Termonde, 15 mars 2008

Mesdames, Mesdemoiselles, Messieurs, chers amis et camarades,

Rassurez-vous, je ne serai pas long et je ne répéterai pas, en d’autres termes, les arguments et les faits qui ont été évoqués par mes prédécesseurs à cette tribune. En guise de préambule, je répondrai toutefois à la question récurrente qui nous est si souvent posée, lorsque nous évoquons la possibilité et la nécessité d’un tandem euro-russe sur l’échiquier international. Cette question récurrente est la suivante : Comment cela se fait-il que vous adoptiez cette position favorable à la Russie, alors que, naguère, cette option a généralement été celle des gauches, tandis que vous passez pour les héritiers de la « révolution conservatrice » ? Cette question, que je n’hésite pas à qualifier d’inepte, reflète la confusion incapacitante qui a été sciemment mise dans la tête des Européens de l’Ouest pendant les quatre décennies de la Guerre Froide. Avant cette parenthèse et avant celle du pouvoir bolchevique à partir de 1917, la Russie était considérée comme le bastion de la ‘réaction’ contre les idées de la révolution française en Europe, c’est-à-dire contre les effets dissolvants de l’idéologie libérale, y compris dans sa version anglo-saxonne, smithienne et manchesterienne. Arthur Moeller van den Bruck, figure de proue de la révolution conservatrice allemande après le Traité de Versailles de 1919, traducteur de Dostoïevski et partisan d’une alliance germano-russe suite aux accords de Rapallo entre Rathenau et Tchitchérine (1922), avait écrit que le bolchevisme, en dépit de ses aspects déplaisants, incarnait la même attitude anti-libérale que la Russie tsariste et traditionnelle, mais sous d’autres oripeaux. Ces oripeaux ont été réduits en lambeaux au fil de sept décennies de communisme, jetés aux orties sans état d’âme, si bien que la Russie est redevenue aujourd’hui un bastion de résistance contre l’idéologie libérale de l’américanosphère.

Pour venir au vif du sujet de cet après-midi, abordons maintenant la question du Sud-Est européen. Jean Parvulesco, au beau milieu de la crise balkanique de 1999, me disait que les régions sud-orientales de l’Asie et de l’Europe étaient vitales pour le développement de ces deux continents. L’Indochine, où les principaux fleuves venus du cœur de l’Asie himalayenne viennent se jeter dans l’Océan Pacifique, et les Balkans, entre le cours inférieur du Danube et l’Egée, sont des territoires tremplins, permettant à la principale puissance centre-européenne, comme hier l’Empire d’Alexandre, l’Empire romain, l’Autriche puis l’Allemagne, de se projeter, militairement ou pacifiquement, vers le Proche-Orient, le Golfe Persique, l’Egypte (et le Nil), la Mer Rouge et l’Océan Indien. Pour Parvulesco, il n’y a pas de développement naturel et harmonieux de l’Europe sans une maîtrise pleine et complète de l’espace balkanique, comme il ne pourrait y avoir d’indépendance asiatique réelle sans une maîtrise pleine et complète des cours inférieurs des fleuves qui jaillissent du flanc oriental de l’Himalaya, pour se jeter dans le Pacifique face à l’archipel indonésien, riche en caoutchouc et en pétrole et anti-chambre de l’Australie. Dans son langage vert et rabelaisien, Parvulesco disait textuellement : « S’ils tiennent le sud-est, ils nous tiennent par les couilles ! ». L’histoire nous l’enseigne : il n’y a pas d’Europe puissante possible si des « raumfremde Mächte », des puissances étrangères à notre espace, occupent ou contrôlent, directement ou indirectement, l’ensemble balkanique.

L’Empire ottoman a tenu l’Europe en échec aussi longtemps qu’il a tenu les Balkans. Mais l’occupation ottomane a eu au moins un mérite : celui de donner un sens et un objectif à l’Europe combattante. De Jean Sans Peur, Duc de Bourgogne et Comte de Flandre, aux nationalistes balkaniques des guerres de 1912 et 1913, en passant par le Prince Eugène de Savoie-Carignan, l’Europe, à l’exception de la France, a ressenti comme un devoir de croisade et de reconquista la nécessité de bouter l’Ottoman hors de la péninsule balkanique.

L’Empire ottoman considérait la maîtrise des Balkans comme une étape en vue de conquérir l’Europe entière, à commencer par la « Pomme d’Or », Vienne, que ses armées assiègeront deux fois, en 1529 et en 1683. En vain. Le sursaut, in extremis, a été chaque fois admirable et nous ne sommes pas devenus turcs. L’objectif ottoman était de remonter le Danube, de Belgrade à Budapest et de Budapest à Vienne, puis, sans doute, de Vienne à Linz et au cœur de la Bavière pour faire tomber l’ensemble de l’Europe dans son escarcelle. Aujourd’hui les Etats-Unis installent leur principale base militaire sur le site même de la victoire ottomane de 1389, soit au Kosovo, à partir duquel les Turcs avaient commencé leur conquête de l’Europe.

Les Balkans sont donc un tremplin géostratégique de première importance depuis le Macédonien Alexandre le Grand, depuis les Romains dans leur marche vers l’Anatolie, corps territorial constitutif majeur de l’actuelle Turquie. Dans la perspective actuelle, qui est toujours celle du géopolitologue britannique Halford John Mackinder, théorisée en 1904, la maîtrise des Balkans permet la maîtrise de l’Anatolie, qui permet à son tour de maîtriser le Croissant Fertile et, partant, le Golfe Persique et la Mer Rouge et d’obtenir ainsi une fenêtre de premier ordre sur l’Océan Indien. La maîtrise des Balkans équivaut de ce fait à joindre solidement la « Terre du Milieu » à l’ « Océan du Milieu ». Cette volonté, qui est aussi celle de joindre l’Europe romano-germanique, la Russie néo-byzantine, la Perse et l’Inde, dans un sorte de « chaîne d’Empires » sur le « rimland » méridional de l’Eurasie, a été l’objectif de toutes les « grandes politiques » de l’histoire européenne : de César, qui le théorise avant de succomber sous les coups des Sénateurs romains aux Ides de Mars de 44 av. J. C., de Trajan qui le concrétise près de deux siècles après, de Julien dit l’Apostat qui ira mourir au combat en Mésopotamie, aux Croisades d’Urbain II et Godefroy de Bouillon à l’idée secrète de l’Ordre de la Toison d’Or créé par Philippe le Bon.

A la fin du 19ième siècle, les Européens, dont les Serbes, triomphent enfin de la présence ottomane en Europe orientale. Malheureusement, bien vite, les vainqueurs se déchireront entre eux, créant des animosités inter-européennes qui n’ont cessé de perdurer et qu’exploiteront habilement tous ceux qui voudront contrôler les Balkans, après 1914. Quant aux Turcs, ils essaieront toujours de revenir dans les Balkans, par le biais de l’OTAN, en soutenant les minorités musulmanes de Bulgarie, de Bosnie, d’Albanie et du Kosovo, en créant, comme on l’apprend, des réseaux de lycées turcs en Bosnie. C’était le rêve de Türgüt Özal, qui voulait faire émerger un pôle panturc de l’Adriatique à la Muraille de Chine. C’est le rêve d’Erdogan qui cherche à réaliser les mêmes objectifs mais cette fois par le biais d’un panislamisme dominé par la Turquie. Son discours récent, en février 2008, à Cologne, est très révélateur des intentions d’Ankara. Ne confondons toutefois pas le kémalisme et le pantouranisme. Le Général Mustafa Kemal, que les Turcs surnommeront affectueusement « Atatürk », le « Père de tous les Turcs », se voulait, au départ, sincèrement Européen, dans la mesure où il voulait imposer un mythe hittite à la Turquie défaite et dépecée, qu’il souhaitait par ailleurs désislamiser et désarabiser. Ce mythe hittite faisait explicitement référence à un peuple indo-européen, ayant vécu à la charnière de la proto-histoire et de l’histoire, venu d’Europe, via les Balkans, pour faire face à un environnement non européen en Anatolie et pour pousser sa puissance en direction du ‘dos’ du Croissant Fertile, aux confins septentrionaux de l’actuelle Syrie. De ce mythe, il reste, à Ankara, un impressionnant « Musée hittite », fondé par Atatürk lui-même. Outre ce musée, le mythe hittite de Mustafa Kemal n’a laissé aucune trace dans les projets politiques et géopolitiques de la Turquie contemporaine.

Le pantouranisme exalte une autre orientation géostratégique, si bien qu’on ne peut du tout le confondre avec le kémalisme. Dans le mythe pantouranien, l’Etat turc n’est pas posé comme l’héritier des Hittites qui avancent de l’Egée vers le Croissant Fertile mais l’héritier des hordes seldjoukides venues du fin fond de l’Asie pour s’élancer vers l’Egée, l’Adriatique et le Danube. Le pantouranisme prend forme, au niveau intellectuel, dès le début du 20ième siècle mais atteint son apogée pendant la seconde guerre mondiale, en 1942, quand une large fraction de l’élite politique et militaire turque croit à une victoire prochaine de l’Allemagne hitlérienne en Russie, victoire qui apportera, croit-elle, l’indépendance aux peuples turcophones de l’Asie centrale soviétique. Parmi les jeunes officiers séduits à l’époque par ce pantouranisme ou panturquisme, nous trouvons le futur leader MHP, le Colonel Türkes, dit le « Bazboug », le chef. Les pantouraniens, qui plaçaient leurs espoirs en une victoire allemande, seront jugés en 1945, quand la Turquie, qui avait senti le vent tourner, s’alignait sur les Etats-Unis. Jugement purement formel : quelques semaines après leurs lourdes condamnations, les panturquistes rentrèrent au foyer.

Les mythes hittite et pantouranien ne sont pas des vues de l’esprit, des coquetteries intellectuelles sans grande consistance. Elles reflètent des intentions politiques et stratégiques essentielles, suivies d’effets toujours bien concrets. Ainsi, dans ses multiples ouvrages, essais et articles, Zbigniew Brzezinski, grand stratégiste américain contemporain, auteur du livre programmatique « Le Grand Echiquier », cherche à mâtiner l’idéal pantouranien et un idéal « mongoliste », où il maintient en quelque sorte deux fers au feu : il utilisera le pantouranisme pour séduire les Turcs et détacher le cœur central de l’Asie de l’hégémonie russe, de le balkaniser et de le satelliser pour séparer la Russie de l’Iran et de l’Inde, où pour créer une unité éphémère, ‘gengiskhanide’, toujours remise en question de par sa mobilité incessante et de par les querelles d’héritage, une unité fragile, plutôt une instabilité chronique, qui aurait eu pour fonction de neutraliser les anciens empires de la région, à commencer par le persan ; mais dans cet espace, ce ne sera ni un étatisme ottoman ni un étatisme kémaliste qui devra avoir, in fine, le dessus, mais un « mongolisme », non pas tant animé par la sagesse de Gengis Khan, mais à la façon très négative de Tamerlan, fossoyeur de la Perse si fascinante des 12ième, 13ième et 14ième siècles. L’Asie centrale, faute d’être pleinement satellisable par les Etats-Unis, devra devenir un espace de chaos, un espace « tamerlanisé » ad infinitum, déstructuré faute d’être structuré par une idée impériale solide, visant la durée, la pérennité, à la romaine ou à la persane, à la Witte ou à la Stolypine. C’est une façon de réactualiser les stratégies d’un Richelieu et d’un Vauban, qui avaient cherché tous deux à ‘démembrer’ les frontières de leurs adversaires impériaux ou espagnols ou à plonger ‘les Allemagnes’ dans le chaos, entre une France stabilisée d’une main de fer par le nouvel absolutisme, après la Fronde et la répression des révoltes populaires, et son allié ottoman, bien campé sur le cours du Danube. Dans la perspective actuelle, il s’agit de plonger dans le chaos un vaste espace, correspondant peu ou prou au territoires dominés jadis par Gengis Khan, entre une Union Européenne stable mais ouverte et pénétrée sur le plan commercial et une Chine mise dans l’impossibilité de se trouver des alliés sur la masse continentale eurasienne et prête, dès lors, à accepter à terme une ouverture au commerce américain (projet bien concocté depuis 1848, quand la guerre du Mexique laissait prévoir le statut bi-océanique des Etats-Unis, pierre angulaire de leur puissance planétaire).

A cette imitation, mutatis mutandis, de la stratégie ‘démembrante’ de Richelieu par Brzezinski en Asie centrale correspond la stratégie américaine équivalente dans les Balkans, à l’époque du tandem Clinton/Albright, qui ont créé de toutes pièces les questions bosniaque et kosovare ; cette dernière rebondit aujourd’hui avec la proclamation unilatérale d’indépendance de Thaçi à Pristina. Le Kosovo est la région qui se trouve exactement au milieu de l’ouest de la péninsule balkanique, à l’ouest du massif des Monts Rhodope ; plus exactement de l’ensemble formé par l’Albanie, la Serbie et le Monténégro ; qui tient cette région, comme les Ottomans l’ont tenue, tient l’ensemble de la péninsule et contrôle les routes qui mènent à Belgrade et au Danube, via les vallées de l’Ibar (à Mitrovica) et de la Morava, plus à l’est. Exactement comme la puissance qui tient sous sa coupe la Bosnie tient, à terme, la côte adriatique, qu’elle surplombe, menace l’Italie et domine le cours de la Save qui mène aux frontières de l’Autriche et de la Vénétie. La stratégie américaine a donc réussi à créer, en pariant sur le fondamentalisme musulman et sur certains réseaux mafieux albanais, deux entités politiques hostiles à  -et en marge de-  leur environnement slave, grec et chrétien-orthodoxe, deux entités à la dévotion des Etats-Unis, de la Turquie et de leurs financiers saoudiens. L’atout stratégique qu’aurait pu constituer des Balkans unis est ainsi perdu pour l’Europe, avec, rappelons-le, la bénédiction d’une intelligentsia médiacratique (et médiocratique…) parisienne, qui, à l’époque de la crise bosniaque, professait un multiculturalisme irréaliste en faveur d’une Bosnie pluri-confessionnelle, posé comme le futur modèle incontournable de l’Europe entière ; en débitant ces discours, cette brochette d’intellos creux camouflait le fait, pourtant patent pour qui sait déchiffrer la ‘novlangue’ des fabriques d’opinion, qu’elle prenait ses ordres, en réalité, de Washington, pour briser, par matraquage médiatique, la solidarité spontanée pour la Serbie qui aurait animée la France.

Dans le Kosovo, la firme Halliburton, où Dick Cheney a de solides intérêts, a construit la plus grande base américaine d’Europe, ce qui confirme bien la volonté américaine de s’y maintenir pendant longtemps. L’objectif est de contrôler les oléoducs et gazoducs qui transitent ou transiteront dans la région ou à proximité, en provenance des rives de la Mer Noire et en direction de l’Adriatique, donc de l’Italie, Etat fondateur de la CEE, pour que gaz et pétrole soient distribués partout dans l’UE. La coopération euro-russe en matière énergétique serait ainsi soumise à une épée de Damoclès permanente. Le Kosovo se trouve légèrement en surplomb par rapport à la vallée de la Morava, entre la ville serbe de Nis et la capitale macédonienne Skopje, à mi-chemin entre Belgrade sur le Danube et Thessalonique sur l’Egée. Les vallées de la Morava (de Skopje à Belgrade) et de l’Axios (de Skopje à Thessalonique) forment donc la voie terrestre la plus courte entre le Danube et l’Egée, donc entre la Méditerranée orientale et l’Europe centrale. Cette zone est donc de la plus haute importance stratégique : une puissance planétaire se doit dès lors de la contrôler pour tenir ses éventuels concurrents en échec. L’enjeu consiste donc à contrôler les oléoducs et les gazoducs et cette ligne Belgrade-Thessalonique, comme le firent les Ottomans dans les siècles passés. Ce n’est pas un hasard s’ils ont évacué cette ligne au tout dernier moment : en 1912 quand ils avaient affaire et aux peuples balkaniques et à l’Italie. Le double contrôle de la ligne des oléoducs et gazoducs et de la ligne Belgrade-Thessalonique : tels sont donc les buts réels. Et c’est justement dans les Balkans, donc en Europe et contre l’Europe, que les Etats-Unis enregistrent aujourd’hui le meilleur succès dans leurs stratégies, avec des alliés musulmans, alors que l’islam combattant est présenté partout ailleurs comme l’ennemi de l’Occident américanisé. Les naïfs, y compris dans certains mouvements identitaires, croient benoîtement, que le Kosovo musulman ne peut en aucun cas être téléguidé par les services américains puisqu’il est tout simplement musulman, donc posé erronément comme allié aux auteurs réels ou présumés des attentats du 11 septembre 2001 à New York. C’est cette fable que croient et ânonnent les canules atlantistes, grand Béotiens en matière d’histoire, laquelle est effacée de leurs têtes, et en géographie, car apparemment aucun d’entre eux n’est capable de déchiffrer une simple carte physique d’école primaire, contrairement à leurs maîtres américains.

Ailleurs, les Etats-Unis ne rencontrent pas le même franc succès. Dans cette Asie centrale que Brzezinski voulait satelliser et ‘tamerlaniser’, Russes et Chinois, qui ont clairement perçu le danger, ont mis sur pied le « Groupe de Shanghai », alternative heureuse au chaos artificiel qu’avaient espéré et programmé les experts du Pentagone. Le « Groupe de Shanghai » est aujourd’hui la principale entrave à l’expansion planétaire des projets de Washington. Il rend caduque la volonté de Brzezinski de plonger cet espace, occupé par les ex-républiques soviétiques à majorité musulmane, dans un chaos à la Tamerlan.

Dans le Caucase, la tentative de former une série de sécessions en chaîne n’a pas entièrement réussi, comme dans les Balkans, même si le problème tchétchène est loin d’être résolu, reste un abcès purulent collé au flanc caucasien de l’espace géopolitique russe. Si le Kosovo se trouve au milieu d’une péninsule située entre l’Adriatique et la Mer Noire, la Tchétchénie se trouve, elle, au milieu d’un large isthme, forcément à double littoral, entre la Mer Noire et la Caspienne, où doivent logiquement passer les oléoducs et gazoducs amenant le brut des gisements de Bakou en Azerbaïdjan et des nouveaux champs de pétrole et de gaz du pourtour de la Caspienne. Le sécessionnisme tchétchène, lit-on dans la presse, a été animé, dès son éclosion, par des nationalistes locaux mais aussi par un djihadiste venu de Jordanie. Pourquoi de Jordanie ? Parce que dans ce pays arabe vit depuis un exode de Tchétchènes, fuyant l’avance des armées russes au 19ième siècle, une forte minorité de ceux-ci, dite « circassienne », ayant conquis bon nombre de postes importants dans l’armée et l’administration du royaume hachémite, ancien satellite britannique. Ce djihadiste arabisé n’a fait qu’un retour au pays de ses aïeux, pour aller y pratiquer les habituelles « guerres de base intensité » ou « stratégies lawrenciennes »   -notamment celle qui a donné naissance au Royaume de Transjordanie-   dans les zones pétrolifères que souhaitent contrôler les « Sept Sœurs », soit les grands consortiums britanniques ou américains des hydocarbures (sur l’apport démographique tchétchène, lire : Yo’av Karny, « De Kaukasus », Uitgeverij Atlas, Amsterdam/Antwerpen, 2003-2005).

En conclusion, les entités étatiques « indépendantes », que veulent imposer à la communauté internationale les puissances thalassocratiques, financières et pétrolières anglo-saxonnes, en pariant sur tribus dissidentes, mafias locales, sécessionnistes douteux, zélotes religieux, etc., ne sont pas acceptables dans la situation actuelle, surtout qu’elles concourent à installer des abcès de fixation musulmans, des enclaves islamisées, au cœur de territoires européens, avec, qui pis est, une dimension mafieuse et narco-trafiquante, pourtant dûment dénoncée par bon nombre d’institutions internationales. Ces enclaves musulmanes ne peuvent qu’aviver ou conforter le « choc des civilisations », annoncé dès 1993 par Samuel Huntington. Comme le soulignait récemment le Dr. Koenraad Elst dans les colonnes de « ‘t Pallieterke », le Kosovo n’est jamais qu’un instrument des Américains, qui, in fine, contrôlent tout le processus indépendantiste, et des Wahhabites saoudiens, qui visent une reconquista de toutes les terres qui furent, à un moment ou un autre de l’histoire, islamisées. Ni l’une ni l’autre de ces options ne vont dans le sens des intérêts de l’Europe.

La première étape d’une révolution métapolitique, qui ouvrirait les yeux des Européens afin qu’ils se rendent compte des manipulations médiatiques orchestrées depuis quantité d’officines d’Outre Atlantique (le « soft power »), serait de se doter d’une élite capable de lire des cartes et d’utiliser des atlas historiques (comme ceux de l’Ecossais Colin McEvedy). Cette lecture de carte, permettant de saisir d’un simple coup d’œil, les dynamiques de l’histoire, toujours récurrentes, a été l’un des objectifs de « Synergies Européennes ». J’invite tout un chacun à poursuivre ce travail, pour donner vigueur à toutes nos initiatives européistes et identitaires.

Robert Steuckers.  

 

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Pourquoi les civilisations s'auto-détruisent-elles?

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Pourquoi les civilisations s'autodétruisent-elles?

(WHY CIVILIZATIONS SELF-DESTRUCT)

 

Analyse d'un livre écrit par Elmer Pendell,  édité aux Etats-U­nis en 1977.  Pour informations s’a­dres­ser à : Howard Al­len Enterprises, Inc., Box 76, Cape Canaveral FL 32920. Etats-Unis.

 

La partie du livre qui nous intéresse ici, est celle qui couvre strictement la thèse développée par l’auteur :  POURQUOI LES CIVILISATIONS S’AUTO-DÉTRUISENT. L’avant-dernier cha­­­pi­tre du livre traite des mesures préconisées pour cor­riger ce  phénomène d’auto-destruction aux Etats-Unis.  Com­me ce chapitre ne fait pas partie de l’argumentation sou­tenant la thèse, son contenu n’a pas été considéré ici.

 

L’auteur est présenté en ces termes : «Elmer Pendell, est un des experts en populations de premier plan; détenteur de la ‘’Purple Heart’’ et de la ‘’Distinguished Service Cross’’, il est diplômé B.S. de l’Université de l’Oregon, M.A. de l’Université de Chicago, L.L.B. de l’Université Geor­ge Washington, et Ph.D. à Cornell.

 

Le Dr. Pendell a enseigné aux Universités du Nevada, de l’Ar­kansas et de l’Oregon, ainsi qu’à l’Université de l’État de Jacksonville et à Cornell.  Durant toute sa vie, son inté­rêt s’est porté sur les taux de propagation humaine et de son influence sur l’environnement.  En qualité de co-auteur de Society Under Analysis, Population Roads to Peace or War  et,  Human Breeding and Survival, et auteur de Popu­lation on the Loose, The Next Civilization ainsi que Sex VERSUS Civilization, il a œuvré longtemps et brillamment pour trouver des solutions, aussi bien à court terme qu’à long terme, aux problèmes de population.

 

Dans ce dernier livre  —certainement le plus significatif—  le Dr. Pendell a consacré beaucoup d’efforts au problème dé­mographique crucial de notre temps: le déclin accéléré de nos institutions et de notre mode de vie, causé par le taux élevé de reproduction, de ceux qui devraient se re­pro­duire le moins.  Sa contribution sans doute la plus impor­tan­te à l’esprit moderne —une contribution qui ressort fortement dans ce volume— est le lien qu’il établit entre les pulsions sociales innées des individus, et la tolérance uni­verselle, étendue aux taux différentiels de naissances socialement intolérables».

 

* * *

 

Voici donc dans les grandes lignes, la thèse développée dans ce livre.  (Le texte ci-dessous pourrait être mis pres­que entièrement entre guillemets, car il reflète fidèle­ment le contenu de l’ouvrage.  Pour des raisons pratiques, cela n’a toutefois été fait que pour des citations spécifi­ques, et traduites de l’anglais.)

 

Ce qui est fascinant dans la marche des civilisations, c’est leur nature rythmique et cyclique.  Elles naissent, se dé­velop­pent, atteignent de hauts niveaux d’accomplissements et puis disparaissent. Le plus souvent sans grands sou­bre­sauts, mais comme atteints d’une grande torpeur.  Lord By­ron disait dans Childe Harold’s Pilgrimage : D’abord la Li­ber­té et puis la Gloire. Viennent ensuite la Richesse, le Vi­ce, la Corruption, et à la fin la Barbarie.

 

Des auteurs et historiens réputés ont donné des expli­ca­tions multiples, souvent complexes et hypothétiques sur la dis­parition des civilisations.  Les causes invoquées sont tou­jours d’ordre environnemental. C’est l’originalité de Pen­dell, d’avoir investigué le facteur hérédité.  Mais il reprend d’abord, l’opinion de quelques auteurs, historiens, ou cher­cheurs.

 

Voltaire: Lorsque les peuples s’amollissent ils invitent à leur conquête.

 

Louis Wallis:  (An Examination of Society)  La concen­tra­tion de la propriété foncière affecte défavorablement le sens moral.

 

Eric Fisher:  (The Passing of European Age)  Les vieilles cul­tu­res ne peuvent s’adapter aux nouvelles conditions.

 

Tom B. Jones : (Ancient Civilizations)  Comme en architec­ture ou tout autre domaine, l’achèvement d’un modèle con­duit à une seule orientation possible: vers le bas.

 

Et aussi :  Les matériaux bruts sont d’abord exportés, puis uti­lisés à l’intérieur, ensuite importés jusqu’à ce qu’on n’aie plus les moyens de se les procurer.

 

W.C. Lowdermilk : (Conquest of the Land Through Seven Thousand Years)  Lorsque l’agriculture échoue, la civilisa­tion échoue.

 

Brooks Adams : (The Law of Civilization and Decay)  La con­centration du pouvoir et de la prise de décisions blesse mortellement l’organisation sociale.

 

Willis J. Ballinger : (By Vote of the People)  Il partage l’o­pi­nion de B. Adams.

 

Oswald Spengler : (The decline of the West)  Les civilisa­tions sont comparées à un organisme qui évolue selon les quatre saisons.  Au printemps éclôt l’agriculture, lors­qu’arrive l’automne, les énergies sont largement consa­crées à la production industrielle, et à la construction d’im­men­ses vides culturels dénommés Villes Universelles.  En­sui­te vient l’hiver, et c’est la fin.

 

Carle Zimmerman : (Family and Civilization)  Lorsque les liens familiaux se relâchent, la civilisation tombe en déca­dence.

 

J.D. Unwin :  (Anthropologue social britannique) (Sex and Culture)  Pour une civilisation, des mœurs permissives se tra­duisent par une perte d'énergie et ses réalisations dimi­nuent.

 

Pendell traduit cela en ces termes: «Dans le contexte ac­tuel, cela veux dire que nos pulsions innées pour la recher­che de nourriture, sexe, attention, etc., peuvent être quel­que peu apaisées par un intérêt pour des réalisations so­ciales.  Cependant, lorsque ces ‘pulsions innées’ sont im­mé­diatement satisfaites, il ne reste plus d’envie, de dy­namisme pour les relations sociales».

 

Pour Unwin, lorsqu’une nation réussit, elle devient de plus en plus sexuellement permissive, avec pour résultat, la per­te de sa cohésion, de son élan et de sa détermination.  Il nous prévient aussi : «Aucune société et aucun groupe à l’in­térieur d’une société n’a jamais toléré la monogamie pen­dant longtemps.  Chaque société qui l’a adoptée, a soit aban­donné la monogamie, ou bien a constamment révisé sa méthode de régulation des relations entre les sexes; et au cours de cette révision —parfois semble-t-il sans intention consciente— l’opportunité sexuelle a été étendue».

 

Harold H. Smith dans une chronique du Saturday Review (8 janv. 1955), estime que la complexité et les connaissances croissantes ont un effet de ‘Tour de Babel’.  L’opinion de Smith est que : «Entre une multiplication des inventions et une structure qui se ‘pyramidalise’, l’individu est confronté à un étalage de problèmes de plus en plus complexes.  Sous les torrents d’informations qui lui tombent dessus, l’é­va­lua­tion de la signification de chaque élément devient de plus en plus superficielle.  Il en résulte que la personne ty­pi­que comprend de moins en moins les faits réels, tandis que l’idée qu’elle se fait du monde extérieur devient im­pressionniste et souvent chaotique».

 

Pour Nathaniel Weyl et Stephan Possony (The Geography of Intellect), la surpopulation a causé la disparition de certai­nes civilisations, particulièrement celles dépendant de l’ir­ri­gation. Le danger de surpopulation dans une région don­née avait également été reconnu par Guy Irving Burch et l’auteur dans Population Roads to Peace or War. W.B. Pit­kins dit qu’une vaste population freine les réalisations in­dividuelles.

 

Hérédité, génétique et chute des civilisations

 

Ce qui est curieux constate Pendell, c’est que nulle part n’est mentionné le facteur "hérédité", c’est que personne a­vant lui n’ait fait référence à la part jouée par la géné­tique humaine dans la chute des civilisations. Pendell ne pré­tend ni ne suggère, que la détérioration de l’hérédité constitue la seule et unique cause de la destruction des ci­vi­lisations.  Plusieurs causes —et celles citées ci-dessus en font partie— doivent être considérées. Parfois même, l’hé­ré­dité est tout à fait étrangère au désastre.  Il n’en demeu­re pas moins que, pour Pendell,  «chaque civilisation possè­de normalement un mécanisme intérieur d’auto-destruction qui assure que la moitié la moins capable de chaque géné­ration devient génitrice de plus de la moitié de la généra­tion suivante».  Et c’est à cela, c’est-à-dire à la submersion des classes les plus évoluées par une masse de gens intel­lectuellement moins avancés, qu’il faut attribuer la mort des civilisations, nonobstant l’existence ou non de nom­breux autres facteurs. Ce point de vue constitue l’idée cen­trale de ce livre.

 

A partir des premières civilisations connues, soit, la sumé­rien­ne, les phases successives de celle d’Égypte, de la Val­lée de l’Indus ainsi que celles de Babylone, d’Assyrie et de Perse, celles de la Chine, des Olmèques, des Mayas, Aztè­ques, Incas, jusqu’à celles de Grèce, de Rome, ou de l’Em­pire Britannique, ce que toutes ces civilisations ont en com­mun, dit-il c’est que: «les personnes de haute intel­ligence ont des intérêts tellement variés et intenses, absor­bant tellement de leur énergie, que cela limite le nombre de leurs enfants, et donc, réduit l’intelligence disponible pour le maintien de la civilisation.  Conséquemment, tandis que le segment le moins favorisé de la population prolifère, chaque civilisation dissipe le génie de ses organisateurs».

 

A propos de Rome par exemple, l’auteur cite Charles De­wing, expert en démographie qui écrivit: «Il y a quelque cho­se de régulier dans ces anciennes civilisations, le timing est remarquablement similaire... La cité en expansion atti­rait l’attention d’autres peuples qui n’avaient pas construit de cité; elle était perçue comme une montagne dans le dé­sert.  Plusieurs de ces peuples migraient vers la cité.  Étant donné que cette immigration persistait, bien sûr, les ta­lents qui établissaient la cité allaient bientôt être dilués et en­suite subordonnés... La civilisation de la cité devait bais­ser.  La chute allait donc être due à quelque chose de très ap­parenté à ce peu aimable mot: ‘dégénérescence’».

 

Sur l’effondrement de l’Empire Britannique, l’analyse du Dr. Robert Gayre, éditeur de Mankind Quarterly dans Rise and Fall of Nations : Genetic Impoverishment  est due à l’ef­fet que: «Pendant des siècles, le service d’outre-mer avait été dysgénique, puisque ses effets adverses avaient frappé de façon disproportionnée l’élite des nations for­mant le Royaume-Uni.  Ceci était particulièrement le cas à par­tir du dix-neuvième siècle... Au cours des multiples cam­pagnes menées, non seulement une génération était-elle virtuellement exterminée, mais cela s’est fait d’une fa­çon sélective, touchant le commandement dans toutes les classes».

 

Pour montrer l’importance de l’hérédité dans la désin­té­gra­tion  —mais aussi dans la naissance— des civilisations, le Dr. Pendell a cette belle image: «Quiconque essaie de com­prendre la naissance ou la chute des civilisations sans por­ter attention à l’évolution biologique, s’engage dans un la­by­­rinthe sans ‘indications ni épée’» (without a clue or a sword).

 

Réagir à l'intolérance des behavioristes

 

Pendell parle de l’existence d’un mécanisme génétique, d’a­bord créateur, et qui devient ensuite destructeur des ci­vi­li­sations.  Ce mécanisme, il le démonte pièce par pièce, et tous ses rouages sont scrutés un à un à la lumière des exi­gences de l’évolution du vivant. Cependant, il  reconnaît aussi que, si dans ce livre, l’emphase est mise sur l’hé­rédité, «il faut comprendre cela comme une réaction cons­tructive et nécessaire à l’intolérance des behavioristes qui ont presque réussi a rendre illégale l’étude scientifique de l’hérédité».

 

L’état d’une civilisation —disons sa mise au monde, sa crois­sance et aussi son déclin— dépend en grande partie de l’esprit des individus pense Pendell qui dit aussi: «la struc­ture de notre esprit est tout autant un produit de l’évolu­tion que nos os, glandes et muscles. L’esprit et le corps ont évolué ensemble et ils travaillent ensemble». Une gran­de par­tie du livre est justement consacrée au proces­sus évo­lutif, c’est-à-dire à savoir comment l’homme est devenu ce qu’il est, et plus particulièrement au point de vue de sa struc­ture mentale.

 

Ego et "appétit social"

 

C’est ainsi que nous apprenons comment il se fait que l’es­prit humain est divisé entre les motivations glorifiant l’ego d’une part, et les dispositions sociales que Pendell appelle aussi ‘l’appétit social’, d’autre part.  Chacune de ces moti­va­tions a été nécessaire pour la survie de notre espèce.  El­les sont d’ailleurs déjà présentes parmi de nombreuses es­pè­ces animales.

 

Concernant l’ego, Pendell développe très largement le con­cept de la conscience de soi, "siège de notre auto-importance.". Le niveau de conscience dépend de l’intel­ligence. La conscience consiste dit–il, à «organiser, orga­ni­ser, organiser».  Elle est héréditaire et une partie de sa tâ­che est accomplie par le subconscient.  La conscience et l’in­stinct semblent avoir été reliés dès les débuts de l’évo­lution  organique.  La perception de l’inconfort et de la dou­leur auraient déclenché ce que nous appelons aujour­d’hui l’instinct. Sans instinct, aucun organisme n’aurait sur­vécu. L’orientation auto-centrée engendre les quatre désirs suivants: désir de sécurité, désir de reconnaissance (con­sidération de la part des pairs), désir d’efficacité (besoin d’obtenir des résultats), et désir de domination. A propos de ce der­nier désir, Vance Packard (The Status Seekers) dit: «La stra­tification existe partout dans notre société».  Ce qui, re­connaît Pendell, n’est pas du tout conforme à la doc­trine éga­litaire américaine.

 

Enfin, on peut constater, «qu’en plus de veiller à nos be­soins égocentriques et corporels les plus immédiats, la cons­cience se limite pour certains à ce que toute leur at­ten­tion soit monopolisée strictement sur le déroulement de leur vie, tandis que pour la plupart, elle est de donner plus de sens à leur vie.’’

 

Les dispositions sociales elles, sont nées du besoin de com­pagnonnage et sont, elles aussi, héréditaires.  Les chances de survie individuelle sont fortement accrues par l’unité du groupe, surtout lorsque les conditions de vie sont difficiles, tandis que les sentiments altruistes aident à la survie du groupe.  Des standards de vie en groupe se sont développés durant 200 millions d’années, et des sentences de mort fu­rent appliquées par le groupe contre les individus qui dé­viaient trop du modèle admis par le groupe.  Ces dispo­si­tions sont profondément imprimées dans notre code gé­né­tique; elles étaient là depuis des millions d’années, et seuls ceux imprégnés de cet ‘appétit social’, devenu une part in­tégrale de la condition humaine, ont survécu.

 

La vie tribale avait été le berceau de l’appétit social.  Celui-ci, se limitait toutefois au groupe; une amitié éten­due à toute l’humanité n’aurait eu aucune valeur de survie pour des êtres qui évoluaient par groupes.  Comme l’intelli­gence allait croissant —de plus en plus de problèmes se trou­vant résolus— les hommes comprirent les avantages qu’il y avait à utiliser chacun aux tâches qui lui conve­naient le mieux, d’où la division du travail et autres prati­ques qui sont à la base d’une civilisation.  Dans une grande partie du monde, la civilisation mit ainsi un terme à la vie tri­bale.

 

La loi de la dynamique des populations

 

Le constat de Pendell, c’est que les peuplades tribales qui ont créé leur civilisation, ont su tirer profit de la cruelle et longue sélection naturelle. C’est au moment de la naissan­ce d’une civilisation, que l’efficacité générale est à son ma­xi­mum. Une fois la civilisation bien en place, le proces­sus évolutif faiblit, et il le fait dans la mesure où la civi­li­sation s’impose.  De la lecture du passé, Pendell tire que la détérioration accompagne la prolifération, c’est dit-il la ‘loi de la dynamique des populations’

 

Cette loi repose sur des constatations ayant trait au pro­ces­sus évolutif biologique d’une part, et aux instincts sociaux d’autre part.

 

Le point de vue biologique d’abord :

 

1. L’évolution tend à éliminer dans une proportion quelque peu plus grande, les individus inefficaces par rapport aux in­dividus efficaces.

2. Une augmentation considérable de la population humai­ne dans une région, annonce une application plus limitée du processus de séparation.  Cela est dû par exemple, à une amélioration de l’habitat ou de l’habillement, ou à de meilleures méthodes d’entreposage.

3. Lorsqu’un groupe prolifère, les survivants comprennent des individus situés plus bas dans l’échelle de l’efficacité.

4. Lorsque la croissance d’un groupe s’accélère soudaine­ment, cela se traduit par moins de mortalités par mille nais­sances que d’habitude, et donc, par moins de rejets (weeding out) que d’habitude.

5. Puisque les naissances sont normalement plus nom­breu­ses parmi la moitié la moins efficace de n’importe quel grou­pe spécifique, il y a une plus grande proportion de sur­vivants parmi la moitié la moins efficace lorsque le groupe augmente en nombre.

 

Selon les travaux de Robert Klark Graham (The Future of Man) cette loi de la dynamique des populations, était déjà à l’œuvre dans les temps préhistoriques.  Graham suggère que le point tournant dans l’évolution de l’espèce humaine se situe à l’époque des peuples Cro-Magnon. «Ce point tour­nant fondamental, c’est le moment où la sélection na­tu­relle fût affaiblie au point où les influences détério­rantes commencèrent à prédominer sur les influences amélioran­tes».  Il faut noter que contrairement au discours usuel, Gra­ham parle ici de l’espèce et non de l’individu.

 

La dynamique des populations vue sous l’angle cette fois des instincts sociaux se résume dit Pendell comme suit :

1. L’appétit social encourage la coopération.

2. La coopération peut être suffisamment élaborée et in­ten­se pour former une civilisation.

3. La division du travail cache l’importance ou l’inutilité d’in­dividus dans leurs rôles variés.

4. Certains individus ne possèdent pas la capacité de par­ti­ciper utilement au processus de production.

5. L’incapacité peut être physique et/ou mentale.

6. L’appétit social des capables permet aux incapables de bé­néficier du "produit national brut".

7. Lorsque la civilisation est jeune, le fardeau du partage n’est pas lourd

8. Ceux qui ont relativement peu d’intérêts et relativement peu de sentiments de responsabilité auront vraisemblable­ment un contrôle plus limité de leurs instincts, et auront donc une progéniture plus nombreuse.

9. Dans une civilisation en déclin, un taux de mortalité plus élevé des personnes capables constitue un type de désordre fonctionnel.

10. La prépondérance des moins compétents sur les plus com­pétents produira éventuellement des interférences avec les procédures et les processus fondamentaux de la ci­vi­lisation, jusqu’au point où celle-ci cessera de fonction­ner.

 

Un parallèle avec la seconde loi de la thermodynamique

 

Pendell observe —comme d’autres l’ont souvent fait dans l’étude des questions humaines— un intéressant parallèle entre la loi de la dynamique des populations et la seconde loi de la thermodynamique.  Cette dernière peut être énon­cée simplement en ces termes :

 

«Tout système isolé, et libre de le faire, passera toujours d’un état plus organisé à un état moins organisé, jusqu’à ce qu’il atteigne éventuellement et demeure dans l’état de dé­sordre maximum possible, qui est l’état d’équilibre ther­mique».

 

Or, la civilisation exprimée en termes de la deuxième loi de la thermodynamique est un système isolé dit Pendell.  Lors­que le processus évolutif échoue à maintenir le nécessaire niveau d’intelligence, le système passe d’un état de plus grande organisation à un état de moindre organisation, car les individus les moins intelligents forment une plus grande proportion de la population.

 

Appliquant cette thèse à la réalité historique, Pendell dé­crit brièvement plusieurs cultures en commençant par celle de Neandertal, puis celle de Cro-Magnon, qui toutes deux ont démontré des hauts niveaux d’intelligence a leur dé­but.  La prolifération de ces peuples fut accompagnée de leur détérioration.  A propos de ces peuples anciens, Ro­bert Klark Graham explique :  «Nous savons que la grosseur du cerveau et l’intelligence tendaient à augmenter sous l’ef­fet des conditions sévères de sélection naturelle impo­sées par la cueillette et la chasse.  Nous savons que cette aug­mentation cessa apparemment avec l’apparition de l’a­gri­culture mixte.  Il n’est pas difficile de voir pourquoi cela s’est passé ainsi, puisque la production de la nourriture per­mettait à des millions ayant de plus faibles cerveaux de survivre alors qu’ils ne se seraient pas qualifiés pour la sur­vie sous la sélection plus rigoureuse durant la phase chasse­resse».

 

Pendell considère que l’histoire des villes anciennes de Jar­mo dans le Nord de l’Irak, ou de Çatal Hüyük en Anatolie, re­présente en miniature la croissance et la chute d’une ci­vi­lisation. Une des plus anciennes civilisations connues fleu­ri voici plus de 8000 ans, dans cette ville très cultivée et très développée de Çatal.  Sa durée s’étendit sur 32 géné­rations, dont les dix dernières témoignent d’un manque de créativité, jusqu’à ce qu’elle disparaisse.  Çatal peut être con­sidérée dit-il, comme une application très ancienne du prin­cipe d’auto-destruction.  Un archéologue a dressé à lui seul, 66 villes et villages similaires à Çatal, en Anatolie seu­lement.  «Le fait que des douzaines voire des centaines —en tous cas beaucoup— de civilisations ont pris le même che­min de l’oubli devrait éveiller quelque suspicion sur le mo­dèle qu’elles ont suivi. La suspicion que, nous aussi, qui suivons la même route, puissions faire quelque chose d’er­ro­né, avec des conséquences mortelles».

 

Sommes-nous devenus les serviteurs des "faux-bourdons"?

 

Suit une description avec de nombreuses références, sur la si­tuation de l’éducation aux Etats-Unis.  La conclusion peut se résumer à l’opinion émise par le Dr. Max Rafferty, Doyen de l’École de l’Éducation de l’Université Troy State et ex Principal du Département de l’Éducation de Californie: «les examens standardisés présentés aux élèves des écoles pri­maires portent à soutenir la thèse selon laquelle les diffé­ren­tielles de naissance causent une détérioration du Q.I. na­tional».

 

Comme on pouvait s’y attendre, dit Pendell, toutes les théo­­ries avancées pour trouver les causes de ce déclin ont été relatives à l’environnement, mais dit-il, «ces capacités d’ap­prentissage en baisse pourraient faire partie d’une his­toire plus grande et plus tragique, dans laquelle la biologie joue un rôle dominant».  Il termine cette analyse de l’édu­ca­tion dans son pays par ces mots: «Il n’y a pas de forme plus mortelle d’auto-destruction que de forcer les éléments va­lables d’une civilisation à devenir les serviteurs des ‘faux-bourdons’ (drones)».

 

Le monde, dit plus loin le Dr.Pendell «a connu bien plus de civilisations que celles dévoilées par Arnold Toynbee dans A Study of History.  Si nous combinions nos nouvelles connais­sances au sujet du nombre de civilisations qui ont été ex­ter­minées, avec nos nouvelles connaissances au sujet de la mé­canique de détérioration génétique, peut-être pourrons-nous imaginer des mesures qui feront que notre propre civi­lisation ne suive le chemin pris par toutes celles passées».

 

* * *

Chapitres du livre :

1 L’individu sur la scène centrale.

2 Le legs de l’instinct.

3 L’appétit social.

4 La parole :  l’outil de la sociabilité.

5 Contraintes sur l’appétit social.

6 La mort – servante de la vie.

7 L’évolution à l’époque glaciaire.

8 L’appétit social versus l’évolution.

9 La chute des civilisations.

10 Le facteur héréditaire.

11 Le gaspillage du génie.

12 Le principe de l’auto-destruction à l’œuvre aux Etats-Unis.

13 Un cric pour la reproduction.

14 L’auteur rencontre ses commentateurs critiques.

 

(résumé de Vincent Andriessen).

 

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jeudi, 10 avril 2008

Quête spirituelle: au coeur du labyrinthe

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Christophe Levalois: «Au cœur du labyrinthe». Méditations sur la Quête spirituelle

 

Fort élégant et sobre, dans le sens traditionnel de ces ter­mes, tant par la présentation que par le choix de la typo­gra­phie, c'est un substantiel volume de poèmes que nous offre Christophe Levalois, qui a déjà publié plusieurs remarqua­bles études, traduites en plusieurs langues, sur différents as­pects des doctrines traditionnelles.

 

Retenons principalement: un petit ouvrage d'une rayonnante clarté sur le symbolisme du Pôle (Nord) (l), et l'origine my­thique d'une terre correspondante, dans les expressions du divin d'Orient ou d'Occident. Plusieurs études sur la royauté (2) dans son acception la plus élevée, une participation passionnante à une Enquête sur la Tradition aujourd'hui (3), un ouvrage capital par sa densité et sa concision sur la crise du monde moderne (4) à l'aune des principes des diverses formes du Sacré, et un volume sur les mythes et traditions du loup (5) où la rigueur de l'exposition des données histo­ri­ques ne le cède en rien à celui de la connaissance des cou­tumes, des légendes et des symboles de cet animal noble, so­lidaire et courageux qui, nous dit l'auteur, «servit de modè­le aux redoutables confréries guerrières indo-européennes».

 

Notre époque a bien du mal à apprécier la poésie, sans doute parce qu'elle a autant de difficulté à appréhender de façon orthodoxe l'intériorité des doctrines traditionnelles. Préférant leur substituer soit de laborieux exercices de lan­ga­ge, soit les fadaises du New Age . Rien de cela ici, et nous n'irons pas par quatre chemins pour dire ce que nous a­vons ressenti à la lecture méditative de ces pages magni­fi­ques où se mêle avec bonheur la moelle de l'authenticité du message au miel harmonieux du style et du choix des mots. Cette quête, telle un rayon solaire immanent à la Vérité, re­joint le centre du flamboiement et étincelle par les arabes­ques qu'elle tisse sur l'être et l'univers.

 

Questionnement du Sphinx

 

Précipitez-vous auprès de l'éditeur, car comme bien des re­cueils de poésie le tirage est limité, et nous ne saurions trop insister sur la belle et nue qualité de ces textes, qui vous feront entrer dans le prochain millénaire, un peu plus serein et avec, chevillé au cœur, la sensation d'avoir franchi com­me un pont sur l'invisible. Quatre parties, qui sont comme les balises du travail alchimique, respectivement intitulées, «I, Retournement, II, Mort et rectification, III, Cheminement, et IV, La lumière du cœur », l'ensemble couronné par une ou­verture ou un «portique», —à l'image du célèbre questionne­ment du Sphinx—, et des citations des plus beaux écrits de mystiques, pour entrer en douceur dans la quête spirituelle et au cœur de «ce» labyrinthe.

 

Comme l'avait écrit Frithjof Schuon dans un hommage au Shaykh Ahmad al-Alawî décédé: «Il arrive parfois, à notre é­poque où le doute et l'esprit utilitaire s'étendent en une cou­che uniforme toujours plus envahissante, que nous ayons des contacts avec des mondes dont la vie coule encore, sem­blables aux lourds fleuves d'Asie, selon des rythmes sé­culaires» (6). Le poème «L'Anneau d'or » par exemple, nous mets en relation immédiate avec ces mondes dont Schuon nous parle, tout en secouant l'acédie, le relâchement qui sans cesse nous guette, cf., «Naître une deuxième fois», «Re­composer dans l'harmonie», et appeler à notre vigilance autant qu'à notre sens du discernement entre l'Absolu de Dieu et la relativité de notre humaine condition. Or le rythme «sé­culaire» ou pérenne, est le lieu possible où se déploie la parole, levain de la langue parce que nativité du Réel inté­gral. Il y a ici une alternance des modes qui métamorphose le «métal» du mental dans l'or de la quête où se transfigure l'être profond.

 

Devenir un souffle

 

Pour franchir la porte —entre toute au cœur du labyrinthe— qua­trième et qui clôt (momentanément) le livre, une citation en provenance du Mahâbhârata: «Là nul n'était supérieur aux autres, tous avaient même luminosité (...)». Comment ac­quérir cette luminosité? Dans «Ici et là» l'auteur nous murmure qu'il faut: «Avoir des certitudes qui meurent, Et se renouvellent à chaque instant. Se débarrasser de l'être, Il finit par encombrer. Devenir un souffle».

 

Il n'est pas assuré, avec le nivellement du mode de vie mo­derne, que tous comprennent la signification d'une pareille sentence, comme nous l'enjoint le Mahâbhârata, et selon l'ex­pression miroitée et métaphorique de Christophe Leva­lois. Peut-être pourrait-on se risquer au commentaire sui­vant: c'est par leur participation originelle à la dimension pro­prement miraculeuse de l'existence que «les créatures, quel­les qu'elles soient, sont rigoureusement égales. L'existence, ou encore, comme dit Frithjof Schuon, la non-inexistance, con­stitue une différentielle radicale d'avec le néant. De ce point de vue, il n'y a pas de plus ou de moins» (7). Néan­moins, il est de la nature de l'homme de transcender l'œuvre au noir dont il est composé, et c'est ce que confirme le poè­me «Du visible à l'invisible », qui nous propose «d'Etre un pont», afin que «Rayonne un anneau d'or, (...) soigneuse­ment déposé, (...) [que] l'on ne regarde pas avec l'œil du premier corps» («L'Anneau d'Or»), [mais] «Par les ailes de l'es­prit, Où il n'y a finalement plus rien» («Du cœur de l'être»), et où l'on peut, «Rassembler le tout, Et le laisser. Pour un presque rien, Qui est plus que tout» («Rassembler ce qui est épars»).

 

Bien des sons et des accents de ces poèmes, gorgé de ma­gie polaire, de la tendresse simple et altière des sous-bois, nous ont rappelé le grand écrivain norvégien Tarjei Vesaas et son Palais de glace (8).

 

Ce petit volume étincelant, s'achève (ou s'ouvre à nouveau?) sur ce splendide extrait d'une des Odes mystiques de cet É­veillé qu'était Djalâl-od-Dîn Rûmî: «Quand tu auras trans­cendé la condition de l'homme, tu deviendras, sans nul dou­te, un ange. Alors, tu en auras fini avec la terre; ta demeure sera le ciel. Dépasse même la condition angélique; pénètre dans cet océan, afin que ta goutte d'eau puisse devenir une mer».

 

Supplément au n°4, de la revue Tradition, ce volume est à com­mander auprès du Cercle «SOL INVICTUS», c/o, M. Arnaud Guyot-Jeannin, 1 rue du Bois-de-Boulogne, F-92.200 Neuilly-sur-Seine, France. Prix: FF 60.- frais d'envoi en plus.

 

© Olivier DARD, Genève, décembre 1999.

 

(1)  Voir La Terre de lumière, le Nord et l'origine, Bordeaux, Éditions PCL, 1985.

(2) Entre autre, Symbolisme de la décapitation du roi, Éditions Guy Trédaniel, Paris, 1992; Principes immémoriaux de la royauté, Éditions Le Léopard d'Or, Paris, 1989.

(3) Publiée sous la direction d'Arnaud Guyot-Jeannin, Enquête sur La Tradition aujourd'hui, Éditions Guy Trédaniel, Paris, 1996.

(4) Les temps de confusion: essai sur la fin du monde moderne, Éditions Guy Trédaniel, Paris, 1991. Par ses citations extraites des meilleu­res sources, ce livre met utilement et avec une bienheureuse effica­cité les «pendules à l'heure», dans la perspective ouverte par Re­né Guénon, Julius Evola ou Ananda K. Coomaraswamy, en ce qui con­cerne toutes sortes de divagations et d'erreurs dans lesquelles sont tombées les sociétés occidentales depuis l'avènement de «l'Age som­bre» encore appelé Kali-Yuga par les Hindous.

(5) Le loup, mythes et traditions, Éditions Le Courrier du Livre, Paris, 1997.

(6) ...Rahimahu Allah («Qu'Allah lui soit miséricordieux!») in: revue Les Cahiers du Sud, août-septembre 1935.

(7) Jean Borella, «Logique du Non-Dualisme», page 20, in: Connais­sance des religions, Vol. III/n°4, mars 1988.

(8) Traduit du norvégien par Élisabeth Eydoux, introduction et chro­no­logie par Régis Boyer, Editions Garnier-Flammarion, n°423, Paris, 1985.  

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De Machiavel à Clausewitz

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L'art de la guerre de Machiavel à Clausewitz

 

Les Presses Universitaires de Namur ont publié un beau li­vre de Bruno Colson sur L'art de la guerre de Machiavel à Clau­sewitz. René Noël écrit dans sa préface: «Somptueuse est la galerie des traités, mémoires militaires, ouvrages de doc­trine de cette époque que les collections de la Biblio­thèque universitaire Moretus Plantin offrent à visiter. Ma­chia­vel l'ouvre avec éclat par le nombre et la qualité des édi­tions anciennes qui le représentent. Sa pensée tranche: la guerre compte dans les actes de gouvernement. Lui-mê­me n'en a pas fait profession, mais les quinze années qu'il a pas­­sées au service de la république de Florence l'ont con­vain­cu de sa nécessité pour qui commande un Etat. Sa lu­ci­di­té d'acier a fait le reste. Un prince  —terme générique et ap­proximatif—  veut durer? Il a besoin de clairvoyance et de for­ce: "Etre renard pour connaître les pièges et lion pour ef­frayer les loups". Parmi les moyens à sa disposition, la guerre, à condition de la réussir et, pour cela, de la con­duire "en bonne discipline". Ce qui exige un talent de chef et des qualifications acquises par l'expérience comme dans les hauts métiers  —les artes—  de Florence. La pratique ne suf­fit pas. Doit s'y ajouter l'étude des principes et de l'or­ga­ni­sation militaires: un "exercice de l'esprit" que seule as­su­re la lecture des anciens. A l'autre bout de la galerie, un Prus­sien du début du XIXe siècle, Clausewitz, déplace le point de vue. Ses références vont aux stratèges modernes et ses exemples proviennent surtout de l'histoire récente. Si la guerre doit rester "une continuation de la politique", elle se mène avec d'autres moyens, depuis que la Révo­lu­tion et Napoléon ont armé le peuple et l'ont jeté au combat en mobilisant des passions. Mais comment les "mouvements de pensée" qui devraient régir les conflits pourront-ils fonc­tionner désormais?» (P. MONTHÉLIE).

 

Bruno COLSON, L'art de la guerre de Machiavel à Clau­se­witz, Presses Universitaires de Namur (Rempart de la Vier­ge 8, B-5000 Namur), 1999, 280 pages abondamment illus­trées.

 

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mercredi, 09 avril 2008

A.Mohler, disciple de Sorel

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Dr. Karlheinz WEISSMANN:

Armin Mohler : disciple de Sorel et théoricien de la vie concrète

 

Le “mythe” ou la “peinture d'une bataille”, naît spontanément et exerce un effet mobilisateur sur les masses, leur insuffle une “foi” et les rend capables d'actes héroïques, fonde une nouvelle éthique: telles sont les pierres angulaires de la pensée de Georges Sorel (1847-1922). Ce théoricien po­liti­que, par ses articles et ses livres, publiés avant la première guerre mondiale, a exercé une influence dérangeante tant sur les socialistes que sur les nationalistes. Toutefois, son in­térêt pour le mythe et sa foi en une morale ascétique ont toujours été  —et restent encore malgré le temps qui pas­se— des pierres d'achoppement pour la gauche, dont il se revendiquait. On peut encore lire cette réticence dans les ou­vrages publiés sur Sorel à la fin des années 60. Tandis que certains courants de la nouvelle gauche se sont revendiqués expressément de Sorel et considéraient que son apologie de l'action directe et ses conceptions anarchisantes réclamant l'avènement de petites communautés de “producteurs libres” étaient des anticipations de leurs propres visions, la majorité des groupes de gauche ne voyait en Sorel qu'une tête folle se réclamant de Marx à mauvais escient et apportant à la gau­che dans son ensemble plus de déboires que de bien­faits. Jean-Paul Sartre, évidemment, se comptait ainsi parmi les adversaires de Sorel, leur apportant la caution de sa no­to­riété et donnant ipso facto du poids à leurs arguments.

 

Lorsque Armin Mohler, entièrement en dehors des débats agitant les gauches, a affiché son grand intérêt  pour l'œuvre de Sorel, ce n'est pas parce qu'il voyait en lui le “prophète des poseurs de bombes” (Ernst Wilhelm Eschmann), ni par­ce qu'il croyait, comme Sorel l'espérait dans le contexte de son époque, que le prolétariat détenait une force de régéné­ration ni parce qu'il estimait que cette vision messianique du prolétariat avait encore une quelconque activité. Pour Moh­ler, Sorel était un exemple à méditer dans la lutte contre les effets et les vecteurs de la décadence. Mohler voulait utiliser le “pessimisme puissant” de Sorel contre un “pessimisme fai­ble”, répandu dans les rangs de la bourgeoisie.

 

Très tôt, Mohler a critiqué la “conception jardinière du con­ser­vatisme”. En relisant Sorel, il a compris qu'il est parfai­te­ment  absurde de vouloir tout “conserver”, alors que les si­tua­tions ont partout changé. La droite intellectuelle ne doit pas se contenter de prêcher simplement le bon sens contre les excès d'une certaine gauche, ni de prêcher les Lumières aux partisans de l'idéologie des Lumières; non, elle doit se mon­trer capable de forger elle-même sa propre idéologie, de comprendre les procès de décadence qui se déploient en son propre sein, et de s'en débarrasser, avant d'ouvrir véri­ta­blement la voie à une traduction concrète de ses propres po­sitions.

 

Une aversion commune contre les excès de l'éthique de la conviction

 

Quand Mohler croque son premier portrait de Sorel dans les colonnes de la revue Criticón en 1973, il écrit sans ambi­guïtés que les conservateurs allemands devraient prendre ce Français hors du commun comme modèle pour organiser la résistance contre la “désorganisation par l'idéalisme”. Moh­ler partageait l'aversion de Sorel contre les excès de l'é­thique de la conviction. On a vu celle-ci exercer ses ravages dans la France des années 1890 à 1910, avec le triomphe des Dreyfusards et l'incompréhension des Radicaux pour les véritables fondements de la Cité et du Bien Commun; on l'a vue aussi à la fin des années 60 dans la République Fé­dé­ra­le, lors de la grande fièvre “émancipatrice”, assortie de la vo­lon­té de jeter bas tout continuum historique en criminalisant systématiquement le passé allemand, toutes tares qui ont également touché le “centre” de l'échiquier politique.

 

Outre ces nécessités du moment, Mohler avait d'autres rai­sons, plus essentielles, pour redécouvrir Sorel. L'anti-libéra­lis­me et le décisionnisme de Sorel avaient impressionné Mohler, plus encore que l'absence de clarté qu'on reproche à la pensée sorélienne. Mohler pensait au contraire que cet­te absence de clarté était le reflet exact des choses elles-mê­mes, ce qui n'est jamais le cas, finalement, quand on use d'une langue trop descriptive et trop analysante. Surtout “quand il s'agit de saisir des éléments ou des évènements très divergents les uns des autres ou de capter des courants contraires, souterrains et porteurs”. Sorel a formulé pour la première fois une idée qui ne se laisse que très difficilement conceptualiser: les pulsions de l'homme, surtout les plus no­bles, ne s'expliquent que difficilement, car les solutions con­ceptuelles toutes faites et toutes proprettes, que l'on propose généralement, faillissent dans leur application; les modèles explicatifs du monde, qui ont la prétention d'être absolument complets, ne poussent pas les hommes en avant, mais, au contraire, ont un effet paralysant.

 

Ernst Jünger, disciple allemand de Georges Sorel

 

Mohler s'est également senti attiré par le style de la pensée de Sorel, par la puissance associative de ses explications. Il était aussi convaincu que ce style était inséparable de la “chose” mentionnée. Il a tenté de définir cette pensée soré­lien­ne avec plus de précision à l'aide de concepts comme la “construction organique” ou le “réalisme héroïque”. Ces deux nouveaux concepts révèlent l'influence d'Ernst Jünger que Mohler compte parmi les “disciples allemands” de Sorel. Chez Sorel, Mohler a retrouvé ce qu'il avait antérieurement découvert chez le Jünger des manifestes nationalistes et de la première version du Cœur aventureux: la détermination à surmonter les pertes endurées et, en même temps, à oser quelque chose de nouveau, à faire confiance à la force de la décision créatrice et de la volonté de donner forme à l'in­for­mel, contrairement aux utopies des gauches. Dans un tel é­tat d'esprit, en dépit de l'enthousiasme débordant des ac­teurs, ceux-ci restent conscients des conditions spatio-tem­po­relles concrètes et opposent à l'informel ce que leur créa­tivité a formé.

 

L'“affect nominaliste”

 

Ce qui agissait en filigrane, tant chez Sorel que chez Jünger, Mohler l'a appelé l'“affect nominaliste”, c'est-à-dire l'hostilité à toutes les “généralités”, à tout cet universalisme de quatre sous, qui veut toujours être récompensé pour ses bonnes in­tentions, l'hostilité à toutes les rhétoriques ampoulées et am­phi­gouriques, qui n'ont plus rien à voir avec la réalité concrè­te. C'est donc l'“affect nominaliste” qui a éveillé l'intérêt de Mohler pour Sorel. Jamais plus Mohler n'a cessé de se pré­oc­cuper des théories et des idées de Sorel.

 

En 1975, Mohler fait paraître un petit ouvrage bref, considéré comme une “bio-bibliographie” de Sorel, mais contenant aus­si un court essai sur le théoricien socialiste français. Moh­ler a utilisé l'édition d'un fin volume dans une collection pri­vée de la Fondation Siemens, consacré à Sorel et dû à la plu­me de Julien Freund, pour faire paraître ces trente pages (im­primées de manière si serrée qu'elles sont difficiles à lire!), présentant pour la première fois au public allemand une liste quasi complète des écrits de Sorel et de la litté­ra­ture secondaire qui lui est consacrée. A cette liste s'ajoutait une esquisse de sa vie et de sa pensée.

 

Dans ce texte, Mohler  a d'abord voulu présenter un synop­sis des phases successives de l'évolution intellectuelle et po­litique de Sorel, pour pouvoir bien mettre en exergue la po­sition idéologique excentrée de cet auteur. Ce texte avait été conçu à l'origine pour devenir une monographie de Sorel, où Moh­ler aurait mis en forme l'énorme documentation qu'il avait rassemblée et travaillée. Malheureusement, il n'a ja­mais pu terminer ce travail. Finalement, Mohler s'est décidé à couler le résultat de ses investigations dans un essai as­sez complet, qui est paru en trois parties dans les colonnes de Criticón en 1997. Les résultats de l'analyse mohlérienne peuvent se résumer en cinq points.

 

Une nouvelle culture qui n'est ni de droite ni de gauche

 

◊ Quand on parle de Sorel comme d'un des pères fonda­teurs de la Révolution conservatrice, on reconnaît son rôle de premier plan dans la genèse de ce mouvement intellec­tuel, qui, comme son nom l'indique clairement, n'est “ni de droi­te ni de gauche”, mais tente de forger une “nouvelle cul­ture”, qui prendra la place des idéologèmes usés et galvau­dés du 19ième siècle. Par ses origines, ce mouvement révolu­tionnaire-conservateur est essentiellement intellectuel: il ne peut pas être compris comme rejetant simplement le libéra­lis­me et l'idéologie des Lumières.

 

◊ En principe, on considère que les fascismes romans ou le national-socialisme allemand  ont tenté de réaliser ce con­cept, mais ces idéologies sont des hérésies, qui omettent de prendre en considération l'un des aspects les plus fonda­men­taux de la “Révolution conservatrice”:  la réticence à l'en­droit des idées qui évoquent la bonté naturelle de l'hom­me ou croient en la “faisabilité” du monde. Cette réticence de la RC est un héritage provenant du vieux fond de la droite clas­sique.

 

◊ La fonction de Sorel était en première instance une fonc­tion catalytique, mais, dans sa pensée, on retrouve tout ce qui a été travaillé ultérieurement dans les diverses familles de pensée de la RC: le mépris pour la “petite science” et la valorisation extrême des pulsions irrationnelles de l'homme, le scepticisme à l'égard de toute abstraction et l'enthou­sias­me pour la concrétude, la conscience qu'il n'existe rien d'i­dyl­lique, le goût de la décision, la conception que toute vie pai­sible ne vaut rien et le besoin de “monumentalité”.

 

Il n'y a pas de “sens” qui existe par lui-même

 

◊ Dans ce même ordre d'idées, nous trouvons aussi cette con­viction  que l'existence est dépourvue de sens (sinnlos) ou, mieux: la conviction qu'il est impossible de reconnaître avec certitude le sens de l'existence. De cette conviction dé­cou­le l'idée qu'on ne fait jamais que “trouver” le sens de l'existence en le forgeant graduellement soi-même, sous la pression des circonstances et des aléas de la vie ou de l'histoire, et qu'on ne le “découvre” pas comme s'il était tou­jours déjà là, caché derrière l'écran des phénomènes ou des épiphénomènes. Dès lors, le sens n'existe pas par lui-même, car seules quelques rares et fortes personnalités sont capa­bles de le fonder, et seulement à de rares époques charniè­res de l'histoire. Le “mythe”, lui, constitue toujours le noyau central d'une culture et la compénètre entièrement.

 

◊ Tout dépend finalement de la conception que Sorel se fait de la décadence  —et tous les courants de la droite, aussi différents soient-ils les uns des autres, en ont unanimement conscience—  conception qui diffère des modèles habituels, qui sont l'idée d'entropie ou celle de la cyclicité du temps, la doctrine classique de la succession constitutionnelle ou l'af­firmation du déclin organique de toute culture. Dans Les illu­sions du progrès, Sorel affirme: “C'est de la charlatanerie ou de la naïveté de parler d'un déterminisme historique”. La décadence équivaut toujours à la déperdition de la struc­tu­ration intérieure, à l'abandon de toute volonté de régénéra­tion. Sans aucun doute, la présentation de Sorel, que nous a donnée Mohler, a été rendue plus mordante par son esprit cri­tique.

 

Une théorie de la vie concrète immédiate

 

Pourtant, des pans entiers de la pensée sorélienne n'ont ja­mais intéressé Mohler. Notamment les lacunes de la pensée so­rélienne, pourtant patents, surtout quand il s'est agi de définir les processus qui auraient dû animer la nouvelle so­cié­té prolétarienne portée par le “mythe”. Mohler a égale­ment omis d'investiguer la plurivocité de bon nombre de con­cepts utilisés par Sorel. Mais Mohler a découvert chez Sorel des idées qui l'avaient lui-même préoccupé: on ne peut donc pas nier le parallèle entre les deux auteurs. Les affinités in­tel­lectuelles existent  entre les deux hommes, car Mohler com­me Sorel, ont cherché “une théorie de la vie concrète im­médiate” (pour reprendre les mots de Carl Schmitt).

 

Dr. Karlheinz WEISSMANN.

(article tiré de Junge Freiheit, n°15/2000; http://www.jungefreiheit.de ;  Le Dr. Weissmann est historien et directeur des études dans un ly­cée. Le texte ci-dessus est une version abrégée d'une étude qu'il fera pa­raître ce prochain automne dans le volume d'Armin Mohler, Georges Sorel. Perspektiven, Ed. Antaios, Frankfurt a. M.).

 

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