L'Italia secondo Oswald Spengler
Andrea Virga
Ex: http://andreavirga.blogspot.com/
Questo articolo che porta avanti una breve analisi della storia italiana in un'ottica spengleriana, è uscito ad aprile 2012 sul numero 2 della rivista Antarés, edita da Bietti e gratuitamente diffusa su web e su carta.
Il titolo dell’articolo potrebbe apparire fuorviante: cosa c’entra con l’Italia il profeta germanico del Tramonto dell’Occidente, il teorico del socialismo prussiano, bollato come precursore del nazionalsocialismo, ma letto avidamente anche da Kissinger e Malcolm X?
A dire il vero, negli scritti di Oswald Spengler, manca un vero e proprio pensiero unitario, riguardo all’Italia, dal momento che altre erano le sue priorità, e tuttavia è possibile ricavare dalla sua opera non solo un giudizio coerente sulla storia italiana, ma anche chiavi di lettura che ci permettono di integrare quanto Spengler dice, sempre alla luce della sua Weltanschauung. Chiaramente, il giudizio spengleriano è problematico e richiede di essere discusso, ma nondimeno si rivela essere per certi versi molto acuto.
Ci si potrebbe inoltre chiedere se non si tratti di un mero esercizio filologico, quello di ricostruire questo giudizio. Sembrerebbe vano chiedere ad un autore tedesco morto 75 anni fa considerazioni interessanti per noi italiani di oggi. Non è così: Oswald Spengler, così come altri autori che militarono in quell’area di pensiero denominata “rivoluzione conservatrice” – basti citare menti del calibro di Martin Heidegger, Carl Schmitt, Ernst Jünger, Karl Haushofer –, ha ancora molto da dire alle generazioni successive, purché si sappia considerare il suo pensiero nella giusta cornice storico-filosofica.
Sarebbe ora fin troppo lungo citare i vari estimatori di Spengler nel corso del XX secolo, per cui mi limiterò a far risaltare la recente ondata di traduzioni in Russia, o lo pseudonimo di “Spengler”, assunto dall’economista ebreo David Goldman per la sua decennale (2000 – 2009) rubrica su Asia Times Online. Per l’Italia, cito il giudizio del medievista Franco Cardini, secondo il quale «una rimeditazione delle vecchie pagine di Spengler s’impone come insospettabilmente attuale e fruttuosa» (1).
I popoli faustiani
Il testo spengleriano più interessante ai nostri fini è sicuramente “Prussianità e socialismo” (1919), in cui riprende la storia della Kultur faustiana (cioè occidentale) e del suo decadere a Zivilisation – già esposta dettagliatamente nella sua opera più famosa e importante, “Il tramonto dell’Occidente” –, individuando al suo interno lo sviluppo storico di cinque popoli principali, che si sono susseguiti nell’egemonia culturale e politica, dunque anche spirituale, all’interno della Kultur occidentale. Si tratta, nell’ordine, di Italiani, Spagnoli, Francesi, Inglesi, Prussiani, ciascuno dei quali ha avuto una sua fase di predominio, prima di esaurirsi. A loro volta, ognuno di questi aderisce ad una o all’altra del contrasto interno alla Kultur faustiana, ovvero popoli anarchici e popoli socialistici, discordanti a livello d’istinto sociale e politico.
Per inciso, va sottolineato che Spengler non intende il termine “popolo” (Volk) in senso etnonazionalista, come molti suoi contemporanei, ma come unità culturale e spirituale, originata da un processo storico e divenuta essa stessa agente la Storia. Per questo, le popolazioni “marginali” (come possono essere Irlandesi, Olandesi, Portoghesi) non hanno sufficiente rilievo da costituire un popolo, in senso spengleriano, mentre viceversa all’interno di una medesima etnia possono sussistere componenti diversi.
Infatti, ai tempi in cui scriveva, secondo Spengler, non rimanevano ormai che due soli popoli, irrimediabilmente contrapposti tra loro in senso politico, sociale ed economico: Prussiani e Inglesi. All’animo prussiano corrisponderebbe il “socialismo prussiano”, vale a dire un capitalismo gerarchico, produttivo, nazionale, con una comunità d’intenti tra lavoratori e imprenditori (in altre parole il cosiddetto modello “renano”), mentre all’animo inglese corrisponderebbe il “capitalismo” propriamente detto (che sarebbe poi per Spengler la forma inglese di “socialismo”), ovvero finanziario, internazionale, concorrenziale. Si tratterebbe non solo quindi d’interessi contrastanti ma di una vera e propria divergenza d’istinti.
Con l’avvenuto passaggio dell’Occidente alla fase di Zivilisation, i popoli vanno per così dire dissolvendosi, lasciando posto a masse sradicate, per cui anche le varie anime italiana, spagnola, francese perdono d’importanza e di vigore, davanti al contrasto ultimo tra spirito prussiano e spirito inglese, a loro volta incarnati in veri e propri partiti politici ed economici. Come afferma Spengler: «La questione non può essere decisa tra due popoli. Oggi è penetrata all’interno di qualsiasi popolo […]. Oggi in ogni Paese ci sono un partito economico inglese ed uno prussiano.» (2). Questo è il quadro in cui si troverebbero le nazioni occidentali, secondo il filosofo tedesco.
La nascita degli Italiani
Il popolo italiano, d’istinto anarchico, è il primo ad emergere tra i popoli faustiani. Il suo sviluppo avviene in un periodo di transizione tra due fasi della Kultur occidentale: ovvero quella giovanile (il tardo Medioevo) e quella matura (il primo evo moderno), tra XV e XVI secolo. In questa fase è ancora problematico parlare di nazioni e popoli, assenti nel periodo gotico, e più autenticamente faustiano. Il Rinascimento italiano e poi il Rococò francese, dopo l’interruzione del Barocco spagnolo, segnano invece la sconfitta dell’universalismo “socialista” gotico da parte del particolarismo anarchico delle nazioni mediterranee (Francia e Italia), le più vicine, per eredità e paesaggio, al mondo classico, interpretato da Spengler come essenzialmente atomistico, particolaristico, corporeo, compiuto.
La città fulcro e simbolo del popolo italiano è, perciò, non Roma, ma Firenze, laddove c’era già un forte sostrato etrusco. Nei suoi frammenti sulla preistoria (3), Spengler individua, infatti, già nella cultura etrusca, la base anarchica e particolaristica del popolo italiano. Questi istinti, questi caratteri sono fisiognomicamente legati al paesaggio. Nella geofilosofia spengleriana, le ampie distese marine o selvose del Nord Europa gotico e faustiano si contrappongono così alle conchiuse isole e valli del Mediterraneo classico e anarchico. L’umanesimo poi, come ripresa di stilemi e forme classiche, si spiega con l’affinità d’istinto tra l’antichità classica e la modernità italiana.
Le repubbliche e i comuni mercantili italiani, con la loro politica legata ad interessi limitati e particolari, costituiscono e rappresentano quindi una vera e propria rivolta particolaristica contro lo spirito gotico e faustiano incarnato dalle pretese universalistiche di dominio cavalleresco o sacerdotale dell’Impero e della Chiesa. Per dirla con Spengler: «Nel XV secolo l’anima di Firenze si rivoltava contro lo spirito gotico […] con la sua immane tendenza verso l’illimitato […]. Quello che noi chiamiamo Rinascimento, è la volontà antigotica di un’arte composta e di una formazione intellettuale raffinata; è assieme alla gran quantità di Stati predoni, alle repubbliche, ai condottieri, alla politica del “momento per momento” descritta nel classico libro di Machiavelli, al ristretto orizzonte di tutti i disegni di potenza – compresi quelli del Vaticano in quel periodo – una protesta contro la profondità e la vastità della coscienza cosmica faustiana. A Firenze è nato il tipo del popolo italiano.» (4).
Si potrebbe obiettare come già le Repubbliche Marinare di Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, Ragusa, oppure le casane astigiane o ancora le avventure delle dinastie italiane, come gli Aleramici o gli Altavilla, alle Crociate, avessero anticipato queste tendenze. Tuttavia, secondo Spengler, il momento decisivo per la nascita della nazione italiana e il passaggio alla fase matura della Kultur occidentale non giunge prima del Quattrocento, quando tutti gli elementi – il passaggio generale dal Comune alla Signoria, la riscoperta della classicità, la ricchezza mercantile, il tramonto dei progetti universali guelfi o ghibellini – si fondono nel Rinascimento fiorentino. Dante Alighieri, con la sua polemica contro le fazioni e gli intrighi fiorentini e italiani, ha ancora, per Spengler, un’anima profondamente gotica.
L’Italia moderna
Le osservazioni di Spengler su questo carattere anarchico e particolaristico del popolo italiano non riescono affatto nuove peraltro a chiunque conosca la storia italiana. Fino all’Ottocento, si trattò della storia di singoli Stati dinastici più o meno soggetti a potenze straniere o indipendenti, in lotta tra loro, ma senza tendenze unitarie. Con il Sacco di Roma del 1527, infatti, termina il periodo “italiano”, in favore di quello spagnolo, cui si deve attribuire il possente movimento religioso e politico della Controriforma – l’ultramontanismo clericale come “socialismo” spagnolo. Ora possiamo andare avanti in questa analisi, lasciandoci alle spalle la lettera di Spengler, e applicando invece il suo metodo.
L’Italia è terreno di lotta tra Spagna e Francia – cui poi si aggiungeranno l’Austria asburgica (dunque spagnola) e l’Inghilterra (allo spirito inglese si deve attribuire, secondo Spengler, la stessa epopea napoleonica) –, condotta anche attraverso la preminenza dell’uno o dell’altro partito negli Stati italiani. Basti pensare all’esempio del Piemonte sabaudo, passato da una politica “francese” durante il regime madamista ad una politica “spagnola” influenzata dal feldmaresciallo imperiale Eugenio di Savoia, o ancora alla politica “inglese” rivelata a fine ‘700 dall’influenza dell’illuminismo giuridico nel Granducato di Toscana o dalla flotta britannica in appoggio ai Borbone di Napoli.
L’Unità d’Italia non ha però mutato questa situazione. La stessa unificazione nazionale è stata condotta, infatti, in nome d’interessi parziali e con resistenze interne piuttosto significative. Al particolarismo tutto italiano dei Savoia, intenzionati più ad espandere i propri domini che non a realizzare una vera integrazione nazionale, si sovrappongono gli interessi dei vari partiti stranieri, corrispondenti non più ad entità politiche, quanto a tendenze ideologiche: l’ultramontanismo “spagnolo” della Roma papale e della Vienna imperiale, il radicalismo democratico “francese” di Garibaldi e Mazzini, il liberalismo “inglese” di Napoleone III e Cavour.
Questo particolarismo e queste ristrettezze di vedute, sono restate una costante della politica estera dell’Italia unita e sovrana. Ancora, nella Prima Guerra Mondiale, emerge con chiarezza la differenza tra gli obiettivi di egemonia globale perseguiti da nazioni socialistiche come l’Inghilterra e la Germania prussiana, e invece gli interessi assai più limitati dell’Italia, frutto di uno spirito anarchico, concernenti sostanzialmente l’annessione di territori irredenti confinanti (Trento e Trieste, oppure Nizza e Savoia). Esattamente lo stesso vale per la Seconda: da una parte, il Lebensraum, dall’altra il «pugno di morti» per sedersi «al tavolo delle trattative».
L’Italia fascista
Tornando ora al giudizio espresso da Spengler, occorre vedere come egli vede invece l’Italia fascista, a sé contemporanea. A questo fine, dobbiamo rileggere un’altra importante opera del filosofo tedesco: “Anni della decisione” (5), e fare innanzitutto alcune precisazioni. Secondo Spengler, nell’epoca di Zivilisation in cui ormai ci troviamo, i partiti politici, rappresentanza ideologica e sociale d’interessi economici, tipica dell’epoca di transizione tra Kultur e Zivilisation, sono destinati ad essere superati e sostituiti da nuove figure di potere cesaristiche in lotta tra di loro per il potere su interi Stati. Il cesarismo riconduce così la politica a dominare l’economia, così come avvenuto già per l’Impero romano al termine della classicità.
Il fascismo italiano è però considerato da Spengler un fenomeno spurio, ancora legato a quest’epoca di transizione, lontano da quello che è il vero cesarismo: «Come nell’età dei Gracchi, anche nel fascismo si afferma il fenomeno dei due fronti – la sinistra della massa inorganica di città, e la destra della Nazione articolata in nessi organici, dai ceti rurali sino ai ceti dirigenti della società –, ma questa situazione risulta dominata dall’energia napoleonica di un individuo. Il contrasto non è né può essere risolto […]. Anche il fascismo rappresenta un momento di transizione. Si è sviluppato dalla massa di città come partito di massa, con chiassosa agitazione e discorsi di massa […]. E fino a quando nutre ambizioni di riconoscimenti “sociali”, e afferma di esistere per volontà del “lavoratore”, facendo proseliti in piazza e rendendosi “popolare”, una dittatura rimane una forma intermedia e provvisoria. Il Cesarismo dell’avvenire combatte solo per la potenza, per un Reich e contro qualsiasi genere del partito.» (6).
Inoltre, aggiunge (in nota) che «in un Paese meridionale, caratterizzato da un tipo di vita semitropicale e da una “razza” conforme – nonché da una industria debole, quindi da un proletariato non sviluppato –, il contrasto risulta privo di quell’asprezza che lo distingue invece nei Paesi settentrionali.» Vale a dire che la soluzione temporanea di questo contrasto tramite il fascismo è stata possibile per via delle circostanze culturali e sociali dell’Italia, e, in generale, (potremmo aggiungere) degli altri Paesi dell’Europa orientale e meridionale dove regimi parafascisti, o comunque autoritari, si sono affermati.
Oltre all’implicita polemica contro il nazionalsocialismo appena salito al potere, in questo passo si rivela una presa di posizione di Spengler, nei confronti del fascismo, decisamente reazionaria (al punto da accusare poco più avanti il fascismo di avere «la tendenza a rispettare poco la proprietà altrui»). Tuttavia, egli coglie subito, nel regime fascista, il contrasto tra frange di sinistra intellettuali, popolari e movimentistiche – che avversa – e frange di destra monarchiche, militari, clericali e borghesi, che esploderà nei momenti di crisi, come appunto hanno mostrato gli eventi del 25 luglio 1943, nonché la lunga storia del neofascismo dal 1945 ad oggi. Di fatto, il fascismo non ha saputo risolvere questo contrasto rilevato dal filosofo tedesco.
Viceversa, il punto di forza del fascismo italiano, ovvero quello che anticipa già il futuro, è la figura del suo capo. Contrariamente al disprezzo riservato ad Adolf Hitler e ai suoi seguaci, Spengler nutrì sempre una forte ammirazione per Benito Mussolini, tra l’altro ricambiata dall’interesse con cui il capo di governo fascista seguì e fece diffondere le proprie opere, contro il parere contrario di ampia parte del mondo intellettuale italiano, in primis Croce, al punto da fargli affermare che «Non si può pretendere che l’Italia di Farinacci possa apprezzare la cultura di Spengler» (7). Altrettanto lusinghiero è il giudizio del filosofo tedesco, che considera il Duce una figura cesaristica, al pari di Lenin e di Cecil Rhodes, dotata di un carattere prettamente italiano, ma al tempo stesso più affine al “partito” prussiano che a quello “inglese”:
«L’elemento che anticipa il futuro non è la realtà effettuale del fascismo in quanto partito, ma unicamente la figura del suo autore. Mussolini non è un leader di partito – anche se è stato leader di lavoratori –, ma il signore del proprio Paese […]. Mussolini è prima di tutto uno statista: freddo, scettico, realistico, diplomatico. In realtà, egli governa da solo. Vede tutto – la capacità più rara in un dominatore assoluto […]. Mussolini è uomo di carattere autoritario, come i condottieri del Rinascimento: in sé ha la scaltrezza meridionale della sua razza, e perciò sa combinare nel modo più adeguato il teatro delle sue azioni con il carattere dell’Italia – la patria dell’Opera – senza che ciò determini in lui da cui nemmeno Napoleone fu esente del tutto, e che per esempio mandò in rovina Rienzi. Mussolini aveva ragione di richiamarsi al modello prussiano: egli è più vicino a Federico il Grande, e perfino al padre di questi, che non Napoleone, per tacere di esempi minori.» (8).
Ora, questo giudizio parrebbe ingeneroso nei confronti del fascismo italiano, la cui importanza e incisività egli riduce alla sola figura di Mussolini, tuttavia anche qui l’occhio di Spengler si rivela acuto. Non si può negare, infatti, che il fascismo abbia avuto un ruolo politico in Italia, soprattutto grazie al suo Duce, il quale si era imposto come figura carismatica sia nei confronti del suo partito, temperandone i contrasti, sia nei confronti della popolazione italiana, suscitandone gli entusiasmi. Anche presso altri osservatori esteri, poi, da Hitler a Churchill, è stato Mussolini a riscuotere la maggioranza dell’interesse e della stima nutrita verso il regime fascista. Infine, ancora oggi, tra la maggior parte dei nostalgici del fascismo, non sono tanto i programmi ideologici e politici, quanto la figura del Duce, elevata a livelli semi-mitici, a destare la maggior ammirazione. Basta pensare al gran numero di “pellegrini” che si reca tuttora a Predappio, caso del tutto unico tra i politici italiani contemporanei, oppure ai tanti italiani, non fascisti, pronti a sostenere che l’unico errore di Mussolini sia stata l’alleanza con Hitler e la guerra.
Si può quindi concordare in questo senso col giudizio spengleriano, vale a dire che il carattere “socialistico” del fascismo italiano – ovvero il suo costituire un partito “prussiano”, di contro al partito “inglese” degli ambienti antifascisti o della corte sabauda – sia stato tuttavia superficiale, e non sia riuscito a penetrare effettivamente la popolazione italiana, né in quelle che Spengler definisce “masse”, né in quelli che designa come “ceti organici”. Il consenso al regime, per quanto coinvolgente la stragrande maggioranza della popolazione, si è rivelato perciò meramente condizionale a uno stato di benessere ed efficienza, ma difficilmente sentito nell’intimo dagli italiani, come poi è stato mostrato dalla sua repentina caduta.
L’Italia contemporanea
La storia recente del nostro Paese, dalla caduta del fascismo ad oggi, parrebbe confermare ancora di più il giudizio di Spengler sull’istinto anarchico del popolo italiano, esemplificato dal celebre motto popolare “O Franza o Spagna, purché se magna”. A livello politico, il predominio di vari partiti, ciascuno espressione di precisi interessi e clientele, riflette chiaramente il particolarismo e l’egoismo degli italiani. Inoltre, terminata con Mussolini ogni tendenza “prussiana”, è rimasto padrone del campo, al di là della tendenza di fondo anarchica italiana, il partito “inglese”. Possiamo quindi sostenere che, in questa fase proto-cesaristica, ancora scossa dagli scontri tra fazioni e partiti politici, dell’Occidente, la storia italiana possa essere letta – stando alle chiavi di lettura spengleriane – come lo scontro tra queste due tendenze: la prima autoctona, anarchica e particolaristica (“italiana”), la seconda internazionale, socialistica e liberale (“inglese”), ma entrambe, a mio parere, negative.
La prima tendenza si è espressa non solo nel clientelismo democristiano e poi craxiano, con un gattopardesco conservatorismo in politica interna unito ad un minimo d’autonomia (ma forse sarebbe meglio dire: egoismo) in politica estera, ma anche nel populismo e nel sindacalismo della sinistra comunista e socialista, asserragliati in difesa di uno Stato sociale, spesso degenerato in assistenzialismo o parassitismo. Riemerge nei cortei della scuola e negli scioperi di categoria, tanto quanto nel localismo di sindaci e imprenditori leghisti; nelle proteste ecologiste delle comunità locali contro le “Grandi Opere”, così come nei favoritismi al proprio collegio elettorale da parte di deputati neoeletti o nell’evasione fiscale e nell’assistenzialismo alle imprese. In tutti questi casi, si palesa un’attenzione radicalmente volta al proprio interesse personale, e ai propri privilegi o comodità, prima ancora che al bene o all’interesse comune.
Dall’altra parte, la seconda tendenza si è espressa nell’ideologia liberalsocialista dell’azionismo, molto più influente a livello culturale che non a livello immediatamente politico, ma anche nel marxismo del PCI, specie a partire da Berlinguer – si ricordi che per Spengler, il marxismo altro non è che «il capitalismo della classe operaia» (9). È sempre questa tendenza che si manifesta in quei progetti politici e ideologici ad ampio respiro che guardano verso l’estero: l’europeismo, dal Manifesto di Ventotene fino all’imposizione parlamentare dei Trattati di Maastricht e Lisbona; il sovietismo di Togliatti e Longo e il maoismo dei giovani contestatori; fino all’atlantismo delle destre, divenuto patrimonio dopo il 1991 delle stesse sinistre. È sempre il partito “inglese”, infine, che è alla base degli sciagurati interventi militari in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, sulla base dell’ideologia universalista e liberale dei diritti umani.
In questi anni più recenti, risulta evidente come l'istinto anarchico italiano abbia trovato felicemente espressione nel nuovo pseudo-cesarismo berlusconiano. Silvio Berlusconi, a compenso della propria grave inferiorità politica e umana rispetto a Mussolini, può contare però su un istinto politico, del tutto in linea con il particolarismo italiano. Milioni d'italiani, di fatto, farebbero anch'essi le leggi ad personam e i festini privati. Questo spiega perché, nonostante la propria mediocrità individuale e una forte campagna mediatica nei suoi confronti da parte del mondo intellettuale e culturale, per tacere degli attacchi giudiziari, Berlusconi abbia goduto in questo ventennio di un consenso sconosciuto ai suoi colleghi e avversari politici.
D'altra parte, i suoi avversari, nella parabola PCI-PDS-DS-PD, agli occhi di Spengler, rappresentano indubbiamente l'istinto politico inglese, sia dal punto di vista ideologico, avendo fuso post-comunismo e liberalismo, sia dal punto di vista geopolitico, data la loro saldatura con le oligarchie finanziarie e politiche euroatlantiche ancora più stretta che non nel centrodestra. Ciò si era già visto, con la fine della Prima Repubblica, quando ai vecchi partiti, auspice un vero e proprio golpe giudiziario eterodiretto, erano subentrati nuovi governi tecnici, che avevano avviato un programma di privatizzazioni e liberalizzazioni, del tutto contrarie agli interessi nazionali. In questo stesso senso, l'attuale governo Monti, ispirato a logiche del tutto tecnocratiche e capitalistiche, realizzante un vero e proprio “socialismo delle banche”, costituisce il culmine del partito “inglese” in Italia.
Come si è visto, le chiavi di lettura e gli strumenti che ci suggerisce il filosofo della storia tedesco ci possono venire utili per capire, anche solo parzialmente, non solo la storia, ma anche l'attualità del nostro Paese. Se sarebbe superficiale prendere per oro colato questo tipo d'analisi, tuttavia non può essere neanche trascurata a cuor leggero, il che conferma ancora una volta la grandezza del pensiero di Spengler, e come rimanga anch'esso del tutto attuale.
NOTE
(1) F. Cardini, Spengler, Profeta del XXI secolo, in “Avvenire”, 1 settembre 2008.
(2) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1994, p. 41.
(3) O. Spengler, Albori della storia mondiale, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova 1996–, 3 voll.
(4) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 68.
(5) O. Spengler, Anni della decisione, a cura di C. Sandrelli, trad. di F. Freda, Ar, Padova 1994.
(6) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., p. 158.
(7) Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, introduzione di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1990, p. 594.
(8) O. Spengler, Anni della decisione, op. cit., pp. 159-160.
(9) O. Spengler, Prussianesimo e socialismo, op. cit., p. 93.