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lundi, 07 mars 2011

Kampf um das "Weisse Gold"

Kampf um das »Weiße Gold«

Michael Grandt

Rohstoffe werden immer begehrter und sowohl wirtschaftlich als auch strategisch immer wichtiger. Ausgerechnet Bolivien, das ärmste Land Südamerikas, sitzt auf einem riesigen Lithium-Schatz und könnte durch den Abbau zu ungeahntem Reichtum kommen. Doch die Regierung will sich von internationalen Multis nicht übers Ohr hauen lassen.

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Von der Weltöffentlichkeit beinahe unbemerkt vollzieht sich in Südamerika, genauer gesagt in Bolivien, ein Kampf um das »Weiße Gold«. Gemeint ist das seltene Alkalimetall namens Lithium. Dieses wird vor allem für den Bau von Lithium-Ionen-Akkumulatoren für viele elektronische und elektrische Geräte verwendet. Auch wegen seiner Energiedichte und hohen Zellspannung ist Lithium ein wertvoller Rohstoff für die Automobilproduktion.

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Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?

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“Romania: ponte eurasiatico o sentinella occidentale?”

Intervista a C. Mutti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

 Il nostro redattore Claudio Mutti è stato intervistato da Luca Bistolfi di “EaST Journal” a proposito della Romania, del suo ruolo storico in Europa e in Eurasia e delle sue miserie attuali. L’intervista originale, pubblicata con un titolo redazione da “EaST Journal”, si trova qui [1]. La riproduciamo di seguito.


***

 

 

Un’isola latina nel mare slavo dell’est Europa. La percezione generale della Romania non va oltre un paio di luoghi comuni e di tanta mancanza d’informazione.
La Romania, negli ultimi centocinquant’anni, ha attraversato momenti decisivi, incompresi e mal studiati. Uno dei pochissimi, in Italia, ad avere una visione ampia e completa della storia romena è Claudio Mutti, scrittore, editore, profondo conoscitore della storia, e molte altre cose. Lo abbiamo intercettato e gli abbiamo posto alcune domande per diradare la fitta nebbia che attorno a quella che Vasile Lovinescu chiamava la Dacia Iperborea, si è addensata come una maschera necessariamente imposta.

 

Che cosa è cambiato in Romania dopo gli avvenimenti di metà Ottocento? Come giudica quei passaggi fondamentali che, in certa misura, coincidono con il Risorgimento italiano?
In seguito all’Unione dei due principati valacco e moldavo, avvenuta due anni prima dell’Unità d’Italia, il nuovo regno di Romania attuò una serie di riforme politiche e sociali d’ispirazione democratico-borghese, che avrebbero agevolato lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti. Un ulteriore momento cruciale fu il 1877, quando la classe politica romena, accogliendo la pretestuosa parola d’ordine della “emancipazione dei popoli cristiani dell’Oriente”, dichiarò guerra alla Sublime Porta, subordinando il Paese agl’interessi plutocratici occidentali. La partecipazione alla guerra intereuropea a fianco dell’Intesa e la successiva adesione alla Piccola Intesa furono altri passi che fecero della Romania una delle sentinelle degl’interessi anglo-francesi nell’area balcanico-danubiana. Oggi, dopo la caduta del regime nazionalcomunista, la Romania è tornata a svolgere la funzione di sentinella dell’Occidente, ma di un Occidente che non è più rappresentato dall’Inghilterra e dalla Francia, bensì dagli Stati Uniti.

Qual è la Sua opinione sull’ingresso della Romania nell’Unione Europea?
L’Europa non è Europa se non comprende tutti i popoli europei, compreso quello che ha dato all’Europa personaggi come Eminescu, Brancuşi, Eliade e Cioran. L’Europa non è pensabile senza il Danubio, senza i Carpazi, senza la costa occidentale del Mar Nero. Anche se oggi la nostra patria europea è rappresentata da una “Unione” dominata da banchieri, burocrati liberali, politicanti traditori e collaborazionisti asserviti alla potenza d’Oltreatlantico, i “buoni Europei” di nietzschiana memoria non devono tuttavia rinunciare a sostenere la necessità di un’Europa degna di questo nome: una realtà unitaria e sovrana che, in stretta alleanza con gli altri grandi spazi del continente eurasiatico, concorra alla costruzione di un potente blocco continentale.

Dove colloca la Romania all’interno dell’idea eurasiatista?
Negli anni Trenta il geopolitico romeno Simion Mehedinţi scriveva che la Romania, trovandosi lungo una diagonale di navigazione privilegiata qual è il corso del Danubio, è predestinata dalla sua stessa posizione geografica a stabilire relazioni fra i paesi dell’Europa occidentale da una parte e quelli del Vicino Oriente dall’altra. A ciò possiamo aggiungere che la Romania, in virtù della sua appartenenza all’area ortodossa, è uno di quei paesi europei che (come la Bulgaria e la Serbia) potrebbe svolgere un ruolo analogo anche in direzione della Russia.

Sappiamo che questo Paese ha subito diversi duri colpi e oggi più che mai: a Suo avviso c’è una possibilità concreta per la Romania di risorgere? Di chi sono le principali responsabilità?
Date le condizioni in cui versa attualmente la Romania e dato il livello della sua attuale classe politica, è necessaria una notevole dose di ottimismo per prospettare una rinascita romena. Non si riesce infatti a intravedere la presenza di quelle forze che, in circostanze storiche analoghe, si assunsero le responsabilità di una riscossa nazionale.

Sappiamo che Lei è, tra le altre cose, un ottimo conoscitore del mondo islamico e della storia dell’Islam in Europa: qual è la Sua impressione sui rapporti tra l’Impero Ottomano e gli antichi principati romeni?
Nicolae Iorga ha mostrato come i principati romeni abbiano rivestito un ruolo egemone in relazione alle più importanti comunità cristiane dell’Impero Ottomano, dal Caucaso all’Egitto. Da parte loro, le autorità islamiche dell’Impero indicavano i Principi valacchi e moldavi come esempi paradigmatici per i capi della Cristianità. Oggi, in un momento in cui la Turchia sta recuperando la posizione che le compete, la Romania potrebbe far tesoro di questa eredità storica e riproporsi come tramite fra l’Europa e la potenza regionale turca.

Per approfondire l’opera di Mutti, consiglio di leggere alcuni dei numerosi articoli presenti sul suo sito [2] e quelli della rivista Eurasia [3], stampata dalle Edizioni all’insegna del Veltro [4], fondate dallo stesso Mutti.

dimanche, 06 mars 2011

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

US-Militärschlag gegen Gaddafi wegen Ungehorsam?

Wolfgang Effenberger

Nachdem am 26. Februar 2011 US-Präsident Barack Obama finanzielle Sanktionen gegen Libyen beschlossen hat, werden nun  auch militärische Optionen nicht mehr ausgeschlossen. Eine derart schnelle Reaktion war bisher nur zu beobachten, wenn wirklich handfeste US-Interessen auf dem Spiel standen. Das war zum Beispiel der Fall, als die Vereinigten Staaten Ende Oktober 1983 im Rahmen der Operation »Urgent Fury« die idyllische Karibikinsel Grenada handstreichartig besetzten und damit die ihnen nicht genehme Linksentwicklung des Landes beendeten. Am 20. Dezember 1989 fielen US-Streitkräfte in Panama ein. Die Operation »Just Cause« hatte das Ziel, den ungehorsam gewordenen panamaischen Machthaber, General Manuel Noriega, zu verhaften und ihn in die Vereinigten Staaten zu entführen. Dort wurde er wegen Drogenhandels und Geldwäsche angeklagt und am 10. Juli 1992 zu 40 Jahren Haft verurteilt. 

In vielen Fällen setzten die USA nicht nur direkte Aggression, Subversion und Terror als politische Waffe ein, sondern sie unterstützten auch derartige Methoden bei Satellitenstaaten. So führte das NATO-Mitglied Türkei massive ethnische Säuberungen und andere Terroraktionen durch, wobei die Regierung Clinton noch durch umfangreiche Waffenlieferungen dazu beitrug, als die Verbrechen gegen die Zivilbevölkerung ihren Höhepunkt erreichten. (1)

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Länder-Domino: Die Ölmärkte erwarten demnächst viele neue Kriege

Udo Ulfkotte

 

Während man sich in Deutschland mit einem zurückgetretenen Verteidigungsminister beschäftigt, ist die Weltpolitik mit Themen ganz anderer Dimension befasst: Obwohl Saudi-Arabien versprochen hat, alle libyschen Öl-Lieferausfälle auszugleichen, steigen die Preise jetzt wieder. Denn an den Ölmärkten erwartet man nicht nur weitere Revolutionen, sondern Krieg. Und beim großen Länder-Domino kommt jetzt auch revolutionäre Bewegung in die Ölexporteure am Kaspischen Meer. Und Saudi-Arabien hat nicht die geringste Chance, die drohenden Lieferausfälle auszugleichen. All das blenden wir derzeit gern noch politisch korrekt aus. Dafür werden wir bald alle gemeinsam einen hohen Preis zahlen müssen - nicht nur an den Tankstellen.

 

 

Die Funken der Revolution springen gerade auf die Ölexporteure am Kaspischen Meer über. Aserbaidschan ist einer der großen neuen Ölexporteure in dieser Region. In Baku bereitet sich die Jugend gerade darauf vor, das Regime hinwegzufegen. Länder wie Aserbaidschan, Turkmenistan und Kasachstan sind extrem wichtig für den westlichen Energiehunger. Es besteht kein Zweifel daran, dass es in Aserbaidschan gärt. Das Regime rüstet jetzt erst einmal auf. Auch in Turkmenistan rüstet sich die Jugend für die Revolte. Und in Kasachstan und Kirgisien wird es ebenfalls nicht mehr lange dauern, bis wir Bilder von blutigen Revolten im Fernsehen präsentiert bekommen. Das alles wird aus der Sicht eines durchschnittlichen Europäers völlig überraschend kommen, denn die Medien informieren uns ja nicht einmal über die Unruhen in Oman - ebenfalls ein Öl- und Gasexporteur. Es scheint, dass viele Journalisten beim Länder-Domino inzwischen schlicht den Überblick verloren haben.

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Giochi politici, intorno alla "Grande Circassia"

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Giochi politici, intorno alla “grande Circassia”

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Fonte: Strategic-culture.org [1]

Considerando il fatto che diversi centri di ricerca americani, stiano studiando il genocidio che si presume i circassi abbiano sofferto, è palese come stiano cercando di porre insieme, le basi per l’indipendenza della Circassia. Il “problema circassiano” compare sovente nell’agenda umanitaria di Washington. Un’analisi della storia di questo paese, dei suoi rapporti con la Russia, è stata effettuata dall’università Rutgers in New Jersey. Il centro universitario per lo Studio del Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani è volto verso molteplici conflitti – il genocidio dei curdi in Iraq, il genocidio degli ucraini, che si presume attuato dai russi, durante la carestia del 1933- che l’amministrazione americana considera ascrivibili allo status di genocidi. Come la tendenza generale, Washington percepisce primariamente, il genocidio in regioni dove pianifica un punto di appoggio. I curdi entrarono nella guerra americana contro S. Hussein, e i nazionalisti ucraini furono utilizzati dagli USA nei giochi politici contro la Russia.

Il sito internet del Centro di studio sul Genocidio, Soluzione di Conflitti, e Diritti Umani, offre una mappa della regione caucasica, con i confini circassiani, limitati in accordo con il piano di strategia americano.

(Nella foto in alto potete vedere come Washington desiderava che fosse la Circassia: mappa della Grande Circassia con accesso al Mar Nero.)

La costa del Mar Nero è un importante territorio. La sua configurazione al momento è complessivamente semplice. La Georgia, una repubblica con accesso al Mar Nero, è totalmente dipendente dagli Stati Uniti d’America e in cerca disperatamente, di diventare membro della NATO. Bulgaria, Romania e Turchia fanno già parte dell’alleanza. Fortunatamente per la Russia, recentemente le relazioni tra Ankara e Mosca si sono scaldate considerevolmente. La Turchia non vede più la Russia come nemica, ed ha (la Turchia) in passato fatto cadere il paese per una lista di potenziali minacce, rendendo più difficile per Washington pianificare contro la Russia, attraverso il Caucaso. Tuttavia, Ankara ha serie ambizioni ed aderisce alla politica di espansione umanitaria mirando soprattutto alla Crimea e Gagauzia (quest’ultima, entità territoriale autonoma della repubblica di Moldavia). Gli strumenti di tale politica, spaziano dalle quote per i caucasici nazionali che risiedono in Turchia, ai grandi investimenti nell’economia della Crimea e della Gagauzia. I Tartari della Crimea sono rappresentati dagli haugue- quartier generali delle nazioni non rappresentate e organizzazioni popolari, e questi possono chiedere al massimo una maggiore autonomia nel panorama ucraino. Nessun dubbio, per ciò che riguarda l’acquisto del loro status, che potrebbe immediatamente risolversi nell’espulsione del Mar Nero russo dalla loro base di Sevastopol.

L’organizzazione dei popoli non riconosciuti è attualmente osservata e vede l’Abkhazia come un potenziale. Considerando che la marina russa non accoglierà la Georgia e la grande Circassia, si alzerebbe una barriera tra la Russia e gran parte della costa del Mar Nero, nel tempo l’Abkhazia potrebbe divenire l’unico sbocco del Mar Nero russo. Perdendo ciò, la Russia si troverebbe costretta all’enclave della marina, conosciuto come il Mare di Azov, dove la marina (russa) può essere facilmente bloccata da forze distribuite in Crimea e nella grande Circassia. Il progetto rumeno scompone la situazione. Diffonde la sua influenza ad est e in molti modi assorbe la Moldavia e parte dell’Ucraina, il paese sta cercando di rafforzare le sue posizioni nel Mar Nero. Come oggi, il Mar Nero è l’unico mare aperto dove la marina statunitense non è presente in pianta stabile. Se il piano dell’ovest di costruire una grande Circassia si materializzasse, la repubblica da poco indipendente, pagherà con l’operazione di separazione della Russia dal Mar Nero. Seri sforzi di buttar giù il regime pro-russo, lungo la costa del Mar Nero, dovrebbero essere visti come un processo parallelo. Il disegno è conosciuto come “l’anello di anaconda”, un piano classico per la geopolitica Usa nell’Eurasia, volto ad escludere i Russi dai mari bloccandoli nell’entroterra. L’occidente evidentemente attribuisce la massima priorità al problema circassiano, essendo la rispettabile fondazione James Town, uno dei punti interessati. Il neo presidente della compagnia RAND, Paul Hansee della rinomata comunità statunitense d’intellgence immagina Paul Globe, che è considerato come il maggior contributo allo sviluppo del progetto Ugro-finnico di separatismo nella repubblica Russa, ugro-finnica. Prende parte negli eventi della fondazione James Town concentrati intorno alla Circassia.

Paesi anglo-sassoni danno attivo supporto agli attivisti circassiani come Khachi Bairam, il leader della diaspora circassiana in Turchia, Zeyaz Hajo un rappresentante circassiano negli USA, il presidente Iyad Youghar, un istituto culturale circassiano, etc.

Ad oggi il movimento circassiano nazionalista è tenuto dai servizi d’intelligence dell’ovest lungo lo spazio post- sovietico. La fratellanza circassiana mondiale ha il suo quartier generale a Los Angeles, un suo presidente Zamir Shukhov è stato fotografato sovente con la bandiera americana sullo sfondo. Un’ideologista circassiano Akhmat Ismagyil, autore della “Guerra Caucasica”, un libro pubblicato in Siria, si apre con l’intenzione di liberare il Caucaso dalla Russia. I circassiani stanno cercando di credere che qualcuno possa far pagare la Russia -materialmente e moralmente- per gli eventi che accaddero due secoli fa.

In Israele l’ideologia è confermata dal leader del gruppo ultra-azionista Bead Artseinu, fautore di un impero israeliano che va dal Nilo all’Eufrate, Shmulevic Avraham (originariamente Nikita Dyomin, un convertito al giudaismo nato in una famiglia, da padre russo e madre ebrea a Murmansk, Russia).

Il parlamento israeliano ha concesso a Shmulevich la cittadinanza onoraria israeliana nel 1984 per il suo attivismo ebraico in URSS. Israele ospita una lunga diaspora circassiana che Tel Aviv utilizza per i propri fini in stretto contatto con Washington.

Lasciateci immaginare che -per quanto incredibile possa sembrare- la repubblica circassiana guadagni l’indipendenza dalla Russia. Il futuro sarebbe simile a quello della Cecenia sotto J.Dadaev, una regione separatista manipolata da Washington, Londra, Ankara, Karachi e Riyad. Tutto ciò, i ceceni ordinari, lo videro come risultato di un combattimento feroce sul proprio suolo. Il piano della grande Circassia muoverebbe semplicemente l’intero Caucaso di un passo più vicino alla stessa situazione.

(Traduzione di Giulia Vitolo)

mardi, 22 février 2011

NATO-Politik und die inneren Probleme Russlands

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„Wir haben keine Angst vor anderen“

Duma-Abg. Rodnina zur NATO-Politik und den inneren Problemen Rußlands

Ex: http://www.zurzeit.at/

Was sind die größten Herausforderungen, die Medwedew in den nächsten Jahren zu bewältigen haben wird?

Rodnina: In erster Linie wird Medwedew die sozialen Probleme – Bildung, Gesundheit, leistbare Wohnungen – zu bewältigen haben, die in Rußland sehr groß sind. Außerdem ist das Lebensniveau sehr unterschiedlich, von den städtischen Zentren entfernt sehr niedrig, sodaß wir etwas unternehmen müssen. Außerdem gehört zu den wichtigsten Zielen die Modernisierung der Industrie und der Wirtschaft insgesamt. Wir sind mit dem Erbe der Sowjetunion konfrontiert, in den letzten 20 Jahren ist kaum etwas geschehen, und ich denke, daß es an der Zeit ist, einen wirklichen Durchbruch zu schaffen wie etwa nach der Revolution oder nach dem Zweiten Weltkrieg, wo alles mobilisiert wurde, um das Land auf Vordermann zu bringen.

Rußland ist stark von einem Bevölkerungsrückgang betroffen. Welche Folgen wird diese demographische Entwicklung für Rußland haben?

Rodnina: Die Demographie hängt sehr eng mit den sozialen Problemen zusammen. Wenn die Löhne niedrig, die Wohnsituation schlecht ist und das Gesundheitssystem zu wünschen übrig läßt, von welcher Familienplanung sollen wir da reden? Das Gesundheitssystem hängt auch mit der fehlenden Infrastruktur zusammen. Bei uns scherzt man oft: „Rußland hinter dem Ural wird nie von jemanden erobert werden, weil es einfach keine Straßen gibt, wo die Eroberer hinkommen“. Aber ich kann Ihnen bestätigen, daß dort moderne Gesundheitszentren, Geburtskliniken errichtet werden. Darüber hinaus ist noch ein großes Problem für unser Land, daß die meisten Männer nicht einmal ihr Pensionsalter erreichen.

Wegen Alkoholmißbrauchs?

Rodnina: Das hängt nicht nur mit dem hohen Alkoholkonsum zusammen, sondern mit den allgemeinen schlechten Lebensbedingungen. Außerdem ist das Drogenproblem aktuell, weil wir in der Mitte der Drogenrouten von Zentralasien nach Europa liegen. Und ganz schlimm finde ich es, daß die Menschen das Interesse verloren haben, in diesem Land zu leben. Sehr viele sind, besonders nach dem Zerfall der Sowjetunion, ausgewandert, sie sehen in Rußland keine Perspektive mehr und haben deshalb kein Interesse mehr, auf ihre Gesundheit zu achten.

In der Ukraine kommt es zu einem Wechsel im Präsidentenamt. Wird es mit dem Ende der Ära Juschtschenko auch zu einem Ende der Einkreisung Rußlands durch die NATO kommen?

Rodnina: Es hängt nicht davon ab, wer in der Ukraine regiert, weil die russische Position so bleibt wie sie ist. Wir haben keine Angst vor der NATO, sondern es geht darum, daß sich die NATO, wenn man es so sagen will, unanständig benimmt. Diese Allianz dürfte vergessen haben, wofür sie 1949 gegründet wurde, und das, was sie in den letzten 20 Jahren zu machen versucht, weicht unglaublich stark von ihrem eigenen Statut ab. Um Klartext zu reden: Das ist ihre Psychologie, weil sie jemanden braucht, den sie bekämpfen kann. Aber wenn sich in einer Gesellschaft die Waagschale zugunsten den Militärs neigt, dann ist das ein Problem. Außerdem ist die NATO ein Bündnis, wo ein Gast (die USA, Anm. d. Redaktion), über Europa bestimmen will.

Wenn ich Sie richtig verstehe, dann werfen Sie den Europäern Schwäche gegenüber den USA vor.

Rodnina: Ja, das kann man so sagen. Die Amerikaner haben sich in den letzten hundert Jahren nicht nur unanständig benommen, sondern ich gehe so weit zu sagen, die USA waren eine politische Prostituierte in der Weltpolitik. Und noch etwas: die Amerikaner haben unzählige Kriege geführt, aber eigentlich nirgendwo gewonnen. Sie sind ein Land, das während des Zweiten Weltkrieges zum Unterschied von den meisten europäischen Ländern nicht zerstört wurde, das so gut wie keine Opfer getragen hat, darüber hinaus haben sie sehr viel durch den Zweiten Weltkrieg verdient, und dann kann man natürlich leicht groß und stark sein. Aber ich glaube auch, daß die USA die Fehler der Sowjetunion wiederholen. Sie wissen ja, wie die Geschichte ausgegangen ist, als die Sowjetunion versuchte, auf Europa Druck auszuüben. Die USA sehen sich gerne als ein Weltgendarm, aber um diese Funktion auch auszuüben, genügt es nicht, sich nur so zu nennen, sondern man muß auch danach handeln. Allerdings muß ich auch betonen, daß ich zehn Jahre in den USA gelebt habe und dieses Land liebe.

Präsident Medwedew möchte eine multipolare Weltordnung schaffen. Ist dieses Konzept verwirklichbar oder besteht die Gefahr, daß Rußland zwischen dem euro-atlantischen Block auf der einen und China auf der anderen Seite aufgerieben wird?

Rodnina: Wir haben keine Angst davor, weil wir in der Geschichte schon immer zwischen China und Europa waren. Das ist einfach unsere Art zu leben, und der Wunsch, unabhängig und souverän zu sein, hat mit der Mentalität der russischen Bürger zu tun. Und darüber hinaus gibt s noch eine vierte Macht, die islamische Welt.

Aber wann immer in der Geschichte versucht wurde, von unserem großen Land ein Stückchen des russischen Kuchens abzuschneiden, haben wir uns gewehrt. Wir haben viel und sind zufrieden damit und wollen gute Nachbarn sein, aber was uns gehört, das gehört uns.

 
Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

Bernard Lugan: la différence entre le Maroc et l'Algérie

Bernard Lugan:

la différence entre le Maroc et l'Algérie

 

lundi, 21 février 2011

Scholl-Latour: "Ägyptens Moslembrüder an der Macht beteiligen"

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„Ägyptens Moslembrüder an der Macht beteiligen“

Ex: http://www.zurzeit.at/

Nahostexperte Peter Scholl-Latour über die Ereignisse in Ägypten, den Stellenwert islamistischer Bewegungen, das zweifelhafte türkische Vorbild sowie über die Folgen für die gesamte Region und für Europa

Herr Dr. Scholl-Latour, Sie kennen die arabische Welt bereits seit Jahrzehnten. Hat Sie der Umsturz zuerst in Tunesien und dann auch in Ägypten überrascht?

Peter Scholl-Latour: In Tunesien hat es mich absolut überrascht, weil es eines der friedlichsten Länder des Maghreb ist und die Tunesier auch keine großen Kämpfer sind. In Ägypten, wo ich mich vor kurzem aufgehalten habe, hat sich auch keine Spur eines Aufruhrs gefunden, aber ich habe von syrischer Seite Warnungen bekommen, daß sich da revolutionäre Vorgänge vorbereiteten.

Was sind die Ursachen? Ist es die Unzufriedenheit der jeweiligen Bevölkerung mit den korrupten Regimen?

Scholl-Latour: Es ist die Armut, eine zunehmende soziale Diskrepanz und eine schamlose Bereicherung einer kleinen Elite. Aber das, was die Revolte ausgemacht hat – und das ist immer so bei Revolutionen – sind ja nicht die ärmsten Volksschichten, die Darbenden, sondern eine aufstrebende Mittelschicht, eine neue Bourgeoisie, sowie die Jugendlichen. Es war ja auch die Französische Revolution keine Revolution des Proletariats oder des armen Bauerntums, sondern es war eine Revolution der Bürger, die nicht zum Adel zugelassen wurden. Und bei den jetzigen Revolutionen ist ein neues Phänomen hinzugetreten, nämlich die Kommunikation durch die elektronischen Medien, durch Facebook und Twitter. Das hat offenbar die Jugend, die sich leidenschaftlich dafür interessiert, dazu angetrieben, Verbindungen zwischen Leuten herzustellen, die sich vorher nicht kannten.

Rechnen Sie damit, daß es auch in anderen Ländern der Region zu Umstürzen bzw. zu Umsturzversuchen kommen wird?

Scholl-Latour: Das hängt davon ab, wie die Ereignisse in Ägypten ausgehen werden. Derzeit rumort es gewaltig in Jordanien, und vielleicht ist Jordanien in mancher Beziehung sogar zerbrechlicher als Ägypten. Man sagt sogar, daß sich im Gazastreifen die Bevölkerung gegen die Alleinherrschaft der Hamas auflehnt, aber da sind auch fromme Wünsche dabei. Ähnliches wie in Ägypten ist auch in Saudi-Arabien vorstellbar. In diesem Land, weil das Land aus Oasen besteht, die wie Inseln im Meer liegen und hier deshalb den neuen Kommunikationsmitteln eine besondere Bedeutung zukommt. Und in Saudi-Arabien kann sogar die amerikanische Armee militärisch intervenieren, wenn für die USA die Lage bei diesem Verbündeten vollkommen aus dem Ruder zu laufen droht.

Aber auch im Maghreb kann noch etwas passieren: Algerien ist in einen Bürgerkrieg gestürzt worden, nachdem eine islamische Partei die Wahlen ganz eindeutig gewonnen und das Militär geputscht hat. Damals hatten Amerika und Europa stillgehalten und im Grunde nur tief aufgeatmet, daß nicht eine damals noch sehr friedliche islamistische Partei an die Macht gekommen ist, die dann allerdings um ihren Wahlsieg betrogen gefühlt und sich radikalisiert hat, was zu einem Bürgerkrieg mit 50.000 Toten geführt hat.

Weil Sie gerade die Islamisten angesprochen haben: Welche Rolle spielt heute in Ägypten die Moslembruderschaft und wird sie ihren Einfluß steigern können?

Scholl-Latour: Die Muslimbruderschaft, wie man sie in Ägypten kennt, ist vor allem für die soziale Sicherheit der Bevölkerung da. In den einfachen Nildörfern lebt man beinahe nur nach der Scharia, nach der koranischen Gesetzgebung, die im muslimischen Glauben verankert ist. Die Muslimbrüder sind die einzige organisierte Kraft, die neben der Nationaldemokratischen Partei von Mubarak, die sich durch Wahlbetrug die Macht sichert, das Terrain beherrscht.

Immer wird behauptet, die Islamisten könnten sich an der Türkei und an der türkischen Regierungspartei AKP ein Beispiel nehmen. Halten Sie das für möglich?

Scholl-Latour: Das ist eine Hoffnung, das sie sich an der Türkei orientieren. Aber das türkische Modell ist noch nicht ausgereift, und die Türkei ist heute trotz Wahlen islamischer als sie noch vor Jahren gewesen ist. Der türkische Ministerpräsident Erdogan hat sehr geschickt taktiert, und das könnte ein Modell sein. Aber im Vergleich zu Ägypten hat sich in der Türkei ein Entwicklungsstand, ein Bildungsstand und auch ein Wohlstand eingestellt, der erst eine Gestalt wie Erdagon ermöglichen konnte.

Allerdings kann es durchaus sein, daß sich innerhalb der Moslembrüder, die längst nicht so radikal sind, wie es die Amerikaner und Europäer darstellen, sondern sich seit ihrer Gründung gemäßigt haben, ähnliches möglich ist. Ich erinnere nur daran, daß Präsident Sadat, der mit Israel Frieden geschlossen hat, in jungen Jahren ein eifriger Moslembruder gewesen ist – das ist eine Kraft, die man im Grunde, wenn man klug ist, an der Macht beteiligen sollte, wenn man keine Militärdiktatur haben will.

Wenn man das aber nicht tut, dann würde man in die Moslembruderschaft einen gefährlichen Radikalismus hineintreiben.

Washington überweist jährlich 1,3 Milliarden Dollar an Militärhilfe an Kairo. Was bedeutet die Entwicklung in Ägypten daher für die USA?

Scholl-Latour: Die USA haben ein Protektorat über den Nahen Osten und müssen gewaltige Rückschläge hinnehmen. Die Kontrolle über den Irak ist ihnen weitgehend entglitten, und in der Auseinandersetzung mit dem Iran müssen sie zusehen, wie sich im Südirak ein schiitisch ausgerichteter Staat entwickelt, der enge Beziehungen zu Teheran hat. Und sowohl im Irak als auch im Afghanistan sind die Pläne, demokratische Staaten nach Vorbild der USA aufzubauen gescheitert, wie die neuen Partisanenkriege zeigen.

Halten Sie es für möglich, daß die USA in Ägypten direkt oder indirekt in die Ereignisse eingreifen, wenn es nicht wunschgemäß verläuft?

Scholl-Latour: In ein Land mit 80 Millionen Einwohnern getraut sich keiner mehr rein. Außerdem müßten die USA mit dem erbitterten Widerstand der ägyptischen Armee rechnen, die immerhin Erfolge gegen Israel – siehe Sinai – erreicht hat. Ein militärisches Eingreifen kann man ausschließen, aber massive politische und diplomatische Interventionen sind möglich.

Und wie soll Europa mit der sich verändernden Lage im Nahen Osten und im Maghreb umgehen?

Scholl-Latour: Vielleicht entdeckt jetzt Europa endlich, daß man zu seiner wirklichen Nachbarschaft ein neues Verhältnis herstellen muß und nicht die eigenen Vorstellungen von Demokratie aufoktroyiert. Diese Länder müssen sich selbst entwickeln, zumal es Anzeichen gibt, daß sich der Islam von innen heraus liberalisieren will.

Welche Anzeichen für eine Liberalisierung des Islam gibt es?

Scholl-Latour: Ich habe mit verschiedenen führenden Persönlichkeiten gesprochen, die im Westen als Radikale und als Terroristen gelten und diese haben von einer Diskussion über eine vorsichtige Neuinterpretation des Islam und eine größere Anpassung an die Moderne berichtet.

 
Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

dimanche, 20 février 2011

Les révoltes dans le monde arabe

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Les révoltes dans le monde arabe...

Par Hervé Coutau-Begarie*

Valeurs actuelles

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

Les événements actuels au Maghreb et au Machrek ont indéniablement une immense portée historique. On s’était habitué à des régimes politiques arabes dictatoriaux qui se maintenaient indéfiniment au pouvoir en combinant corruption, répression et nationalisme. Aucun pays arabe, en mettant à part le cas particulier du Liban, n’est une démocratie.

 

Certains régimes sont capables d’une relative efficacité économique, comme en Tunisie, alors que d’autres sont à la fois corrompus et inefficaces, comme en Algérie. Certains affirment leur nationalisme mais en laissant en paix leurs minorités, comme la Syrie. D’autres persécutent leurs minorités, spécialement les chrétiens, pour donner des gages aux islamistes, comme l’Égypte.

 

Aucun de ces régimes n’est vraiment défendable au regard de nos critères démocratiques. Le plus présentable est celui du Maroc, avec une monarchie qui réussit, en profitant de l’appartenance du roi à la descendance du Prophète, à contrôler le jeu des partis politiques. Partout ailleurs, c’est le règne du parti unique, éventuellement flanqué de quelques satellites sans consistance. Personne ne versera des larmes sur le sort de Ben Ali ou de Moubarak, ou de Saleh au Yémen. Nos intellectuels de gauche retrouvent leur fibre révolutionnaire et se félicitent de la révolte de la rue. Libération célèbre en gros titres, à propos de l’Égypte, « Le jour du peuple », tandis que le Monde salue le « dialogue historique» entre le pouvoir égyptien et les Frères musulmans.

 

Tout le monde souhaite l’avènement de gouvernants compétents, attentifs aux besoins de leur peuple et ouverts à la démocratie. Reste à savoir s’il ne s’agit pas d’une alternative imaginaire plutôt que d’un futur plausible. Les envolées lyriques de certains commentateurs rappellent un peu trop les emballements des mêmes à l’annonce de la révolution islamique iranienne. Le chah était le pire des dictateurs et la démocratie islamique était à portée de la main. Michel Foucault publiait, dans le Nouvel Observateur, un article consternant d’aveuglement, dont même ses thuriféraires parlent aujourd’hui avec embarras. Bien entendu, l’histoire n’est pas obligée de se répéter. Mais il faut bien reconnaître que les obstacles sur la voie de la démocratie et du progrès sont nombreux.

 

D’abord parce qu’il n’y a pas vraiment de solution de rechange. Des décennies de dictature ont étouffé toute vie politique normale. En Égypte, aucune figure n’émerge pour remplir le vide du pouvoir. Mohamed el-Baradei est un technocrate compétent, prix Nobel, bien considéré à l’étranger, mais très peu connu dans son pays. Que la censure soit abolie demain et l’on assistera à la prolifération anarchique de partis sans programme, sans cadres formés, qui seront le plus souvent des instruments au service de l’ambition de tel ou tel. C’est la suite logique de toute révolution. Le temps entraîne un écrémage, mais ici, il n’est pas certain que l’on puisse compter sur lui.

 

Car, à côté des démocrates, il y a toujours les islamistes, qui restent en embuscade. On objectera, souvent avec raison, que la menace islamiste a été exagérée par les régimes en place pour justifier la répression policière. Ou que les islamistes ne représentent pas la masse de la population, notamment la jeunesse qui, à travers Internet, s’est ouverte au monde et aspire à la démocratie. Cela n’est nullement évident. L’impact des islamistes est très réel dans la population. Ils sont à peu près les seuls à disposer d’un minimum d’organisation et d’un programme immédiatement applicable. Dans un premier temps, on les verra, comme les communistes hier sous d’autres cieux, proposer des alliances et avancer avec un profil bas (en 1979, les ayatollahs proposaient aux femmes iraniennes une “tenue islamique légère”). Une fois au pouvoir, l’islamisation rampante commencera et, lorsque les démocrates se décideront enfin à faire taire leurs divisions, il sera probablement trop tard.

 

Si l’on peut supposer que les rois du Maroc et de Jordanie ont encore les moyens de contrôler les événements, si l’on peut espérer que la classe moyenne tunisienne est suffisamment solide pour résister à la tentation islamiste, il est permis d’avoir davantage de doutes sur l’avenir de l’Égypte. C’est le plus peuplé des pays arabes, c’est lui qui a signé la paix avec Israël et il est l’un des piliers de la politique américaine au Moyen-Orient. Si le régime bascule vers un islamisme imprévisible, les conséquences géopolitiques seront immenses. Pour Israël d’abord, qui devrait réévaluer sa relation avec son puissant voisin. Pour les États-Unis, dont l’alliance de fait avec le monde musulman serait sérieusement écornée. Pour l’Europe, qui devrait cohabiter avec un régime islamiste à ses portes, contrôlant un pays de plus de 80 millions d’habitants. Tout cela impose une grande prudence. L’Europe n’a guère de moyens d’intervenir dans ce grand ébranlement du monde arabe. Elle ne peut que suivre, encourager les forces démocratiques, si cela se peut, en se gardant de les compromettre. Elle doit surtout rester lucide face à un risque de dérapage qui ne peut jamais être exclu.

 

 

(*) Hervé Coutau-Bégarie est directeur de recherches en stratégie au Collège interarmées de défense. Il est, entre autres, l’auteur d’un Traité de stratégie qui fait autorité.

samedi, 19 février 2011

Nieuwe Arabische revoluties?

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Nieuwe Arabische revoluties?

Pieter Van Damme

Ex: http://n-sa.be/

Sinds enkele weken trekt er een golf van publiek protest door een aantal Arabische landen. Het vuur werd aan de lont gestoken door de zelfverbranding van Mohamed Bouazizi in Tunseië, halverwege december 2010. Dit leidde tot de Jasmijnrevolutie die in januari de val van het bijna 25-jarige bewind van Zine Ben Ali tot gevolg had. De volksopstand sloeg over naar Egypte waar massaal protest al weken het openbare leven in de grote steden verlamt. Voorlopig blijft dictator Hosni Moebarak nog op post, ondanks zware druk vanwege de Egyptische bevolking. Z'n Tunesische collega Ben Ali vluchtte met zijn familie naar Saoedi-Arabië. Ook in landen als Jordanië en Algerije broedt al jaren een volkswoede tegen het heersende regime.

Wat moeten wij voor ogen houden bij deze gebeurtenissen? Twee zaken: wat is positief of negatief voor Europa bij deze veranderingen en wat zijn de oorzaken die leidden tot deze volksopstanden? De oorzaken voor deze wijd verspreidde volkswoede in de Arabische wereld zijn niet ver te zoeken: het reeds decennialange liberale wanbeleid op economisch vlak, gecombineerd met een dictatoriaal beleid op politiek vlak waarbij corruptie en clan-verrijking het steeds weer halen op het algemeen belang, stevig omkaderd met een omvangrijk repressieapparaat. Het is geen toeval dat de volkswoede in de Arabische wereld vooral daar bloeit waar pro-Westerse regimes sinds jaren de lakens uitdelen. Presidenten zoals Moebarak en Ben Ali hebben hebben op sociaal-economisch vlak een beleid gevoerd dat bestaat uit verregaande liberaliseringen, het aantrekken van multinationale ondernemingen, uitbouw van massatoerisme,... terwijl de gewone man er de facto niet veel beter van werd. Meer nog, terwijl er een beperkte rijke bovenlaag ontstond die profiteerde van dit wanbeleid, steeg de werkloosheid voor de bevolking. Familiale verrijking voor die bovenlaag woekert door het afromen van winsten op massatoerisme en afdrachten die aan multinationals opgelegd worden verdwijnen in familiefortuinen in plaats van de staatskassen.

Ben Ali heeft sinds 1987 in Tunesië een ultraliberale politiek gevoerd. Tunesië heeft de voorbije jaren steevast de extremistische aanbevelingen van het IMF nauwgezet opgevolgd, onder applaus van multinationals, de EU, het Franse regime... Nog in het najaar van 2010 verklaarde de als sociaal-democraat vermomde liberaal Strauss-Kahn dat het economische beleid van Tunesië gezond en als voorbeeldig mocht aanzien worden voor andere "opkomende landen". Het feit dat de voormalige Ben Ali-knecht Ghannouchi nu na de vlucht van z'n president de macht probeert te behouden via een voorlopige regering van nationale eenheid, komt het Westen goed uit. Ze vreesden immers dat de Jasmijnrevolutie zou voortgaan en de belangen van de multinationals en de profiterende financiële elite onder druk zou zetten. Hogere lonen, wettelijk vastleggen van sociale rechten, het verhelpen van de Derde Wereld-toestanden op het platteland... zouden deze belangen (lees: winsten) aantasten.
Ben Ali heeft zijn dictatuur steeds gerechtvaardigd met het excuus van een "islamistisch gevaar" ook al is de aanhang van o.a. de religieuze Nahda-partij (vergelijkbaar met de Turkse AKP) in Tunesië beperkt. Premier Ghannouchi verkondigde de voorbije dagen al in vraaggesprekken dat oude getrouwen van het Ben Ali-regime op economische functies op post blijven om de geplande economische hervormingen gewoon door te laten gaan.
In Egypte voerde Moebarak eveneens een beleid van voortschrijdende economische liberaliseringen die uiteraard op geen enkel vlak ten goede kwamen aan de jonge bevolking. Vele Egyptenaren moeten zien rond te komen met 1 euro per dag of minder. Er heerst massale werkloosheid en de voedselprijzen swingen net als in de rest van de Arabische wereld de pan uit. Moebarak maakte er een gewoonte van diverse verworvenheden en creaties van voormalig president Nasser ongedaan te maken via een neoliberaal beleid: devaluatie van de Egyptische Pond, privatisering van overheidsbedrijven, beperking van subsidies en sociale voorzieningen, afbraak van het overheidsapparaat. Dit ging samen met subsidies aan de private sector (vnl. multinationals en investeringen in economische sectoren die Egypte op de wereldkaart moesten zetten: massatoerisme, nieuwe media en infrastructuur) en een stelselmatige besparing op het publieke onderwijs. Met als gevolg dat de zich ontwikkelende, groeiende middenklasse uiteenviel in een kosmopolitische liberale bovenlaag die mee profiteerde op de rug van de gewone bevolking, en een verarmde lagere middenklasse.

Ondertussen kreeg Moebarak jarenlang aanzienlijke financiële en militaire steun vanuit de USA als gevolg van het vredesakkoord dat hij afsloot met de terreurstaat israël in 1979. Het regime van Moebarak betekende voortaan een verlamming van het rechtvaardige Arabische protest tegen de bezetting van het Palestijnse land en een levensverzekering voor de zionistische entiteit. Het hoeft dan ook niemand te verbazen dat israël zich de voorbije week als enige uitdrukkelijk pro-Moebarak uitsprak en de Europese landen net als Noord-Amerika opriep tot actieve steun aan zijn regime. Bovendien was het regime van Moebarak een verzekering dat de controle over het Suez-kanaal "in goede handen" bleef. In ruil verkreeg Moebarak gigantische hoeveelheden Amerikaanse wapens (bijna achthonderd M1 Abrams tanks, de Egyptische luchtmacht werd na de USA en israël de derde grootste gebruiker van F-16 straaljagers ter wereld...) en bouwde hij met Amerikaans-israëlisch toezicht een omvangrijke oproer- en veiligheidspolitie uit. In de jaren '90 werd deze op grote schaal ingezet tegen het Moslimbroederschap dat al decennia een belangrijke speler in de Egyptische oppositie is, alsook tegen andere islamistische groepen. Als trouwe bondgenoot van de VS beloofde Moebarak na 11 september 2001 alle hulp in de strijd tegen het terrorisme. De Egyptenaren doorzien dan ook de hypocrisie van de USA die halfslachtig aandringt op "democratisering" vanwege de gehate Moebarak terwijl ze op straat beschoten worden met traangasgranaten waarop "made in USA" vermeld staat. De moslimextremisten waren voor Moebarak een argument om de macht stevig in handen te houden via ondermeer massale verkiezingsfraude. Zonder hem zouden de radicale islamieten het land overnemen, zo verdedigde hij zich net zoals Ben Ali in Tunesië steeds tegen kritiek vanuit Westerse landen die hem de hand boven het hoofd hielden en houden.

Vanuit Europees perspectief hebben wij hoe dan ook nood aan een stabiele Arabische wereld waar goede relaties mee onderhouden worden. De belangrijkste redenen zijn de grondstoffen die Europa nodig heeft. En een noodzakelijke remigratiepolitiek die in de toekomst miljoenen vreemdelingen laat terugkeren naar hun landen van herkomst via bilaterale akkoorden met deze landen van herkomst. Deze remigratiepolitiek moet omkaderd worden met een heroriëntering van de ontwikkelingshulp, een realistische tijdsplanning, het afleveren van zoveel mogelijk geschoolde remigranten aan die landen van oorsprong en een beleid dat vrijwillige gescheiden volksontwikkeling aanmoedigt in onze eigen Europese landen.

Het hoeft geen betoog dat een stabiel Arabisch schiereiland en Noord-Afrika onmogelijk zijn, zo lang de staat israël blijft bestaan. De creatie en het voortbestaan van israël is gebaseerd op morele chantage (schuldgevoel jegens de Joden na WO2), etnische zuivering (het verjagen van honderdduizenden Palestijnse Arabieren), permanente financiële stromen als gevolg van lobbywerk (vooral ten nadele van de Amerikaanse belastingbetaler) en het cultiveren van morele chantage (het schuldgevoel als basis voor schadevergoedingen) alsook permanente racistische discriminatie (Arabieren met israëlisch staatsburgerschap hebben minder rechten dan Joden met israëlisch staatsburgerschap). Rechtse partijen en groepen (bijvoorbeeld de PVV van Geert Wilders, de VB-strekking rond Filip Dewinter, Pro Deutschland, de FPÖ...) die vanuit welke beweegreden dan ook een wereldwijde kruistocht tegen "de islam" steunen, bemoeilijken in ernstige mate elk terugkeerbeleid van Arabische/Noord-Afrikaanse vreemdelingen naar de landen van oorsprong omdat zij een conflictueuze relatie met deze landen op het oog hebben. De islam hoort niet thuis in Europa, maar wel in die gebieden waar zij cultureel ingebed is, waaronder Noord-Afrika en het Midden-Oosten.

Welke nieuwe regimes in de Arabische wereld zullen ontstaan, valt af te wachten en zou volledig een zaak van de Arabieren moeten zijn, zonder de Amerikaanse bemoeizucht en de zionistische intriges. De EU verschuilt zich in de voorbije weken weer in een houding die getuigt van slapheid, besluiteloosheid en morele angst als gevolg van jarenlange chantage. Steun aan het seculiere volksverzet is gerechtvaardigd en in het belang van Europa, dat eens de Arabische sociaal-nationalisten inspireerde. De problemen van de Arabieren in hun dagelijkse leven alsook in hun mogelijkheden om welvarende staten op te bouwen aan het begin van de 21ste eeuw, bewijzen dat nationale én sociale vernieuwingen het antwoord kunnen bieden. Religieuze dictatuur of Westers gezinde plutocratie kunnen dit geenszins. Gelet op de voorlopig succesvolle pogingen om de oude regimes in hun macht te herstellen (Tunesië via regering van nationale eenheid) of ze aan de macht te houden (de financiële machten achter Moebarak die aanhangers betalen om protest gewelddadig te lijf te gaan) is het vooralsnog de vraag of er wel van Arabische revoluties kan gesproken worden.

Wird aus dem Währungskrieg ein Rohstoffkrieg?

Wird aus dem Währungskrieg ein Rohstoffkrieg?

Michael Grandt / Alexander Strauß

Jeder große Industriestaat versucht seine Währung künstlich niedrig zu halten, um die eigene Wirtschaft anzukurbeln. Doch das hat auch Auswirkungen auf die globale Nahrungsmittelversorgung.

Als Brasiliens Finanzminister Guido Mantega kürzlich davor warnte, dass der weltweite »Währungskrieg« bald in einen »Handelskrieg« ausarten könnte, lag er sicherlich nicht falsch.

In Lateinamerika haben verschiedene Länder Schritte unternommen, eine Aufwertung gegenüber dem Dollar zu verhindern. Die Folgen eines Währungskrieges könnten tatsächlich schwerwiegend sein und sich global ausbreiten. Die »Spiele«, die die Regierungen gerade an den Devisenmärkten spielen, könnten immer mehr Länder dazu veranlassen, Handelseinschränkungen gegen Importe zu erlassen. Das wäre das Ende des Weltwirtschaftssystems, wie wir es kennen. Eine Deglobalisierung würde unseren Lebensstandard vermindern und unseren Wohlstand bedrohen.

Im Zentrum jener lateinamerikanischen Staaten, die ihre eigene Währung unter allen Umständen schützen wollen, steht Brasilien. Dort sind die Staatsausgaben in den letzten beiden Jahren wahrlich in die Höhe geschossen. Im gleichen Zeitraum, wie auch die Rohstoffpreise explodierten, ist auch die Inflationsrate gestiegen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mic...

vendredi, 18 février 2011

Schweres Zerwürfnis zwischen den USA und Saudi-Arabien: Abdullah steht zu Mubarak und wendet sich Teheran zu

Schweres Zerwürfnis zwischen den USA und Saudi-Arabien: Abdullah steht zu Mubarak und wendet sich Teheran zu

Redaktion

 

Wie Quellen aus dem Nahen Osten berichten, gehört das Gespräch zwischen US-Präsident Barack Obama und dem saudischen König Abdullah vom Dienstag, dem 10. Februar, zu den heftigsten Gesprächen, die ein amerikanischer Präsident jemals mit einem arabischen Herrscher führte. Die Auswirkungen der ägyptischen Krise hatten den saudischen König dermaßen verärgert, dass er einen überraschenden Herzanfall erlitt. Gerüchte seines Todes erschütterten die weltweiten Finanz- und Erdölmärkte, wurden aber von einem Berater der Königsfamilie dementiert. Andere Quellen berichten, er habe bereits in der Vergangenheit Herzanfälle erlitten.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

 

 

jeudi, 17 février 2011

Teilung Ägyptens: Droht ein militärisches Eingreifen der USA, Israels oder der NATO?

 

Teilung Ägyptens: Droht ein militärisches Eingreifen der USA, Israels oder der NATO?

Mahdi Darius Nazemroaya

 

Die Proteste in Tunesien haben in der arabischen Welt einen Domino-Effekt ausgelöst. Das größte arabische Land, Ägypten, ist durch die weitverbreiteten Proteste, die auf den Sturz des Mubarak-Regimes in Kairo abzielen, wie elektrisiert. Es stellt sich die Frage, welche Folgen könnte dies haben? Werden die Vereinigten Staaten, Israel und die NATO einfach nur zuschauen, wie das ägyptische Volk eine freie Regierung einsetzt?

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mah...

 

 

Geopolitica della Romania

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Aleksander G. Dughin:

Geopolitica della Romania

  1. I geni romeni e l’identità romena
  2. 

La Romania ha dato al mondo, specialmente nel XX secolo, tutta una pleiade di geni di livello mondiale : Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran, Eugen Ionescu, Ştefan Lupaşcu, Jean Pârvulescu, Vasile Lovinescu, Mihail Vâlsan e molti altri.

Per quanto sia un piccolo Paese dell’Est europeo, sul piano intellettuale la Romania ha dato un contributo significativo alla civiltà, paragonabile a quello delle grandi nazioni europee e per poco non le ha superate. L’intellettualità romena ha di caratteristico che essa riflette lo spirito del pensiero europeo ed è indissolubilmente legata allo spirito tradizionale, traendo le proprie origini dalla terra e affondando le proprie radici nell’Antichità e in nell’Ortodossia di un immutato Oriente europeo.

Nel suo saggio su Mircea Eliade e l’unità dell’Eurasia, riferendosi alla natura eurasiatica della cultura romena, Claudio Mutti cita Eliade : « Mi sentivo il discendente e l’erede di una cultura interessante perché situata fra due mondi : quello occidentale, puramente europeo, e quello orientale. Partecipavo di questi due universi. Occidentale per via della lingua, latina, e per via del retaggio romano, nei costumi. Ma partecipavo anche di una cultura influenzata dall’Oriente e radicata nel neolitico. Ciò è vero per un Romeno, ma sono sicuro che sia lo stesso per un Bulgaro, un Serbo-Croato – insomma per i Balcani, l’Europa del Sud-Est – e per una parte della Russia » (M. Eliade, L’épreuve du Labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, pp. 26-27).

L’identità romena presenta una simbiosi tra vettori di civiltà orientali e occidentali, senza che gli uni prevalgano sugli altri. In ciò consiste l’unicità della Romania come società e come territorio e dei Romeni come popolo. La Romania e i Romeni si sono trovati divisi tra gl’imperi dell’Oriente (l’impero ottomano) e dell’Occidente (l’impero austro-ungarico), appartenendo alla chiesa ortodossa di rito bizantino e alla famiglia dei popoli di lingua neolatina.

Per gli eurasiatisti russi, questo è solo uno dei punti di approccio possibili, poiché essi prendono in considerazione una combinazione di coordinate occidentali ed orientali nella cultura e nella storia russa, dichiarando una specifica identità del popolo russo e dello Stato russo.

Quindi, nel quadro del dialogo culturale romeno-russo dovrebbe esser considerata la dottrina dell’eurasiatismo, la quale è autonoma, però, grazie alle varietà e alle proporzioni di cui essa dispone, ci offre una solida base per un mutuo approccio, ed una comprensione e un’amicizia reciproche.

Perciò la traduzione in romeno del libro I fondamenti della geopolitica, che contiene il programma della scuola geopolitica russa dell’eurasiatismo, può essere considerata un’opera di riferimento. Confido nel fatto che i Romeni, entrando in familiarità con la dottrina geopolitica dell’eurasiatismo di scuola russa, comprendano il paradigma del pensiero e dell’azione di Mosca sia in relazione al passato, sia in relazione al presente.

  1. La Romania e la struttura delle opzioni geopolitiche (euroatlantismo ed eurocontinentalismo)
  2. 

Adesso, alcune parole sulla geopolitica della Romania. Nelle condizioni attuali, l’espressione « geopolitica della Romania » non è molto appropriata, se prendiamo in considerazione la Romania come soggetto di geopolitica. Nell’architettura del mondo contemporaneo un soggetto del genere non esiste. Ciò è dovuto alla logica della globalizzazione, nella quale il problema si presenta in questi termini : o ci sarà un solo « Stato mondiale » (world state), con un governo mondiale guidato e dominato direttamente dall’ « Occidente ricco », in primo luogo dagli USA, oppure si stabilirà un equilibrio tra i « grandi spazi » (Grossraum) dei « nuovi imperi », i quali integreranno quelli che finora abbiamo conosciuto come « Stati nazionali ». Nel nostro mondo, o si passerà dagli Stati nazione sovrani (come nell’Europa tra il XVI e il XX secolo) al governo mondiale (mondo unipolare) o avrà luogo il passaggio verso un nuovo impero (mondo multipolare).

In entrambi i casi, la dimensione della Romania come Stato non ci consente di dire – nemmeno in teoria – che la Romania possa diventare un « polo » ; perfino la Russia, col suo potenziale nucleare, le sue risorsde naturali e il suo messianismo storico, si trova in una situazione analoga.

In tali condizioni, la « geopolitica della Romania » costituisce una sezione della « geopolitica dell’Europa unita ». Questo non è soltanto un dato politico attuale, essendo la Romania un Paese membro dell’Unione Europea, ma è un fatto inevitabilmente connesso alla sua situazione geopolitica. Anzi, la stessa « geopolitica dell’Europa unita » non è qualcosa di garantito e sicuro. Perfino l’Europa presa nel suo insieme, l’Unione Europea, può basare la sua sovranità solo su un mondo multipolare ; solo in un caso del genere l’Europa sarà sovrana, sicché la Romania, in quanto parte dell’Europa, beneficierà anch’essa della sovranità. L’adozione del modello americano unipolare di dominio, che rifiuta all’Europa la sovranità, coinvolge anche la Romania in quanto parte dell’Europa.

Perciò la familiarità con le questioni geopolitiche non è qualcosa di necessario e vitale, ma l’argomento va preso in considerazione quando si tratta di allargare l’orizzonte intellettuale.

In verità, se prendiamo in considerazione quello che abbiamo detto più sopra ikn relazione al contributo dei Romeni alla scienza ed alla cultura dell’Europa, la geopolitica potrebbe essere una base molto importante per determinare il ruolo e le funzioni della Romania nel contesto europeo. Non è quindi casuale il fatto che le prospettive geopolitiche occupino una parte significativa nei romanzi di quell’Europeo esemplare che  stato l’eccellente scrittore franco-romeno Jean Pârvulescu, saggista, poeta e pensatore profondo.

Il dilemma della geopolitica europea può essere ricondotto a una scelta fra l’euroatlantismo (riconoscimento della dipendenza da Washington) e l’eurocontinentalismo. Nel primo caso l’Europa rinuncia alla sua sovranità in favore del « fratello maggiore » oltremarino, mentre nel secondo caso essa insiste sulla propria sovranità (fino a organizzare un modello geopolitico e geostrategico proprio). Questa opzione non è completamente definita e sul piano teorico dipende da ciascuno dei Paesi dell’Unione Europea, quindi anche dalla Romania. Per questo motivo, che ha a che fare con la geopolitica della Romania nel senso stretto del termine, nel contesto attuale si rende necessaria una partecipazione consapevole e attiva nella scelta del futuro dell’Europa : dipendenza o indipendenza,  vassallaggio o sovranità, atlantismo o continentalismo.

Una geopolitica del « cordone sanitario »

Nella questione dell’identità geopolitica dell’Europa è possibile individuare il modello seguente : ci sono i Paesi della « Nuova Europa » (New Europe), paesi est-europei che tendono ad assumere posizioni russofobiche dure, aderendo in tal modo all’orientamento euroatlantico, delimitandosi ed estraniandosi dalle attuali tendenze continentali della Vecchia Europa, in primo luogo la Francia e la Germania (la Gran Bretagna è tradizionalmente alleata degli USA).

Questa situazione ha una lunga storia. L’Europa dell’Est è stata continuamente una zona di controversie tra Europa e Russia : ne abbiamo un esempio tra il secolo XIX e l’inizio del secolo XX, quando la Gran Bretagna usò deliberatamente questa regione come un « cordone sanitario » per prevenire una possibile alleanza tra la Russia e la Germania, alleanza che avrebbe posto fine al dominio anglosassone sul mondo. Oggi si verifica ancora la stessa cosa, con la sola differenza che adesso viene messo l’accento sui progetti energetici e nei Paesi del « cordone sanitario » si fa valere l’argomento secondo cui si tratterebbe anche di una rivincita per l’ »occupazione sovietica » del XX secolo. Argomenti nuovi, geopolitica vecchia.

La Romania è uno dei Paesi della « Nuova Europa » e quindi fa oggettivamente parte di quel « cordone sanitario ». Di conseguenza, la scelta geopolitica della Romania è la seguente : o schierarsi dalla parte del continentalismo, in quanto essa è un Paese di antica identità europea, o attestarsi su posizioni atlantiste, adempiendo in tal modo alla funzione di « cordone sanitario » assegnatole dagli USA. La prima opzione implica, fra le altre cose, la costruzione di una politica di amicizia nei confronti della Russia, mentre la seconda comporta non solo un orientamento antirusso, ma anche una discrepanza rispetto alla geopolitica continentalista dell’Europa stessa, il che porta a un indebolimento della sovranità europea in favore degli USA e del mondo unipolare. Questa scelta geopolitica conferisce a Bucarest la più grande libertà di abbordare i problemi più importanti della politica internazionale.

La Grande Romania

Come possiamo intendere, in questa situazione, il progetto della costruzione geopolitica nazionalista della Romania, progetto analogo a quello noto col nome di « Grande Romania » ? In primo luogo si tratta della tendenza storica a costruire lo Stato nazionale romeno, tendenza sviluppatasi in condizioni storiche e geopolitiche diverse. Qui possiamo richiamarci alla storia, a partire dall’antichità geto-dacica e citando Burebista e Decebalo. In seguito sorsero i principati di Moldavia e di Valacchia, formazioni statali che esistettero in modo indipendente fino alla conquista ottomana.

Bisogna menzionare anche Michele il Bravo, che agli inizi del secolo XVII realizzò l’unione di Valacchia, Moldavia e Transilvania. Fu solo nel secolo XIX che la Romania conquistò la propria statualità nazionale, la quale venne riconosciuta nel 1878 al Congresso di Berlino. Il peso strategico della Romania è dipeso, anche nelle condizioni della conquista dell’indipendenza, dalle forze geopolitiche circostanti. Fu una sovranità relativa e fragile, in funzione dell’equilibrio estero di potenza, tra Sud (impero ottomano), Ovest (Austria-Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra) ed Est (Russia). Di conseguenza, l’obiettivo “Grande Romania” rimase una “utopia geopolitica nazionale”, anche se ricevette un’espressione teorica integrale coi progetti di realizzazione di uno Stato romeno tradizionalista dei teorici della Guardia di Ferro (Corneliu Zelea Codreanu, Horia Sima), mentre nel periodo seguente la Realpolitik di Bucarest fu obbligata, da forze di gran lunga superiori al potenziale della Romania, a operare una scelta: Antonescu fu attratto verso la Germania, Ceausescu verso l’Unione Sovietica.

Per rafforzare l’identità nazionale, l’”utopia nazionale” ed anche l’”utopia geopolitica”, è estremamente importante non rinunciare in nessun caso al progetto “Grande Romania”, ma non si prendono in considerazione gli aspetti concreti dell’immagine della carta geopolitica, poiché un appello all’”ideale” potrebbe essere un elemento di manipolazione, tanto più che la Romania non dispone, nemmeno di lontano, della capacità di difendere, in queste condizioni, la sua sovranità sulla Grande Romania nei confronti dei potenziali attori geopolitici a livello globale e regionale (USA, Europa, Russia).

5. La strumentalizzazione del nazionalismo romeno da parte dell’atlantismo

Una delle forme più evidenti di strumentalizzazione dell’idea di “Grande Romania” si manifesta ai giorni nostri, quando una tale idea viene utilizzata negli interessi dell’atlantismo. Ciò ha uno scopo evidente: il nazionalismo romeno (perfettamente legittimo e ragionevole di per sé) nella Realpolitik fa appello all’idea di integrazione della Repubblica di Moldavia. Sembrerebbe una cosa del tutto naturale. Ma questo legittimo desiderio dell’unione di un gruppo etnico in un solo Paese, nel momento in cui la Romania è membro della NATO, sposterebbe ulteriormente verso la Russia le frontiere di questa organizzazione e, in tal caso, le contraddizioni tra Mosca e l’Unione Europea – e l’Occidente in generale -  si esacerberebbero. In altri termini, l’utopia nazionale della “Grande Romania” si trasforma, nella pratica, in una pura e semplice estensione del “cordone sanitario”, la qual cosa non avverrebbe a beneficio dell’Unione Europea, bensì degli USA e dell’atlantismo. In questo contesto, il progetto atlantista mira in fin dei conti a privare l’Europa della sua sovranità, mostrando indirettamente il suo carattere antieuropeo o, quanto meno, anticontinentalista.

All’integrazione della Repubblica di Moldavia si aggiunge anche la Transnistria, che per la Russia rappresenta una posizione strategica in questa regione. Dal punto di vista strategico la Transnistria è molto importante per Mosca, non solo in quanto si tratta di una leva su cui essa può agire nelle relazioni a lungo termine con la Repubblica di Moldavia, ma, fatto più importante, nella prospettiva del probabile crollo dell’Ucraina e della sua divisione in due parti (orientale e occidentale), che prima o poi si verificherà per effetto della politica di Kiev successiva alla “rivoluzione arancione”. Nei Fondamenti della geopolitica c’è un capitolo sulla disintegrazione dell’Ucraina. Il capitolo in questione è stato scritto all’inizio degli anni NOvanta, ma, dopo la “rivoluzione arancione” del 2004, questa analisi geopolitica è diventata più esatta, più precisa. In una certa fase, la Transnistria diventerà un’importantissima base della Russia nella regione. In questa prospettiva, la Grande Romania diventa un ostacolo, cosa che gli strateghi atlantisti hanno previsto fin dall’inizio.

Le frizioni tra Romania e Ungheria, così come alcune frizioni con l’Ucraina, non sono importanti per gli atlantisti e questo aspetto del nazionalismo romeno non avrà il sostegno dell’atlantismo, a meno che ad un certo momento gli USA non pensino di poterlo utilizzare per destabilizzare la situazione secondo il modello della disintegrazione jugoslava.

Puntando sui sentimenti patriottici dei Romeni, gli operatori della geopolitica mondiale si sforzeranno di raggiungere il loro specifici obiettivi.

6. La Romania nel quadro del Progetto Eurasia

Adesso è possibile presentare, in poche parole, il modello teorico della partecipazione della Romania al Progetto Eurasia. Questo progetto presuppone che nella zona settentrionale del continente eurasiatico si stabiliscano due unità geopolitiche, due “grandi spazi”: quello europeo e quello russo. In un quadro del genere, l’Europa è concepita come un polo, come un’area di civiltà. A sua volta, la Russia comprende il Sud (Asia centrale, Caucaso) e l’Ovest (Bielorussia, Ucraina orientale, Crimea). Il momento più importante in un’architettura multipolare è l’eliminazione del “cordone sanitario”, questo perpetuo pomo della discordia controllato dagli Anglosassoni che è in contrasto sia con l’Europa sia con la Russia. Di conseguenza questi Paesi e questi popoli, che tendono oggettivamente a costituire la Nuova Europa, dovranno ridefinire la loro identità geopolitica. Tale identità si deve fondare su una regola principale: contemporaneamente accanto all’Europa e accanto alla Russia. L’integrazione in Europa e le relazioni amichevoli con la Russia: questo è il ponte che unisce i due poli di un mondo multipolare.

Tre Paesi dell’Europa orientale, possibilmente alleati degli altri, potrebbero adempiere a questo compito meglio di altri Paesi: la Bulgaria, la Serbia e la Romania. La Bulgaria è un membro dell’Unione Europea, è abitata da una popolazione slava ed è ortodossa. La Serbia non è un membro dell’Unione Europea, è abitata da Slavi, è ortodossa e tradizionalmente simpatizza per la Russia. Infine la Romania: Paese ortodosso, con una sua missione metafisica ed una accresciuta responsabilità per il destino dell’Europa. Alla stessa maniera, ma con certe varianti, si potrebbe parlare della Grecia. In tal modo la Romania potrebbe trovare una posizione degna di lei nel Progetto Eurasia, sviluppando qualitativamente lo spazio culturale e sociale che collega l’Est (Russia) con l’Ovest (Europa), spazio che assumerebbe l’identità dei Paesi ortodossi dell’Europa, mentre le caratteristiche distintive nazionali e culturali resterebbero intatte, vale a dire non si dissolverebbero nel mondo stereotipato del globalismo né si troverebbero sotto l’influenza del modo di vita americano, che annulla tutte le peculiarità etniche. Integrandosi nell’Unione Europea e stabilendo stretti legami con la Russia, la Romania potrà assicurare il proprio sviluppo economico e potrà conservare la propria identità nazionale.

Senza alcun dubbio, questo progetto richiede un’analisi attenta e deve costituire il risultato di uno sforzo intellettuale particolarmente serio da parte dell’élite romena, europea e russa.

7. Correzioni all’opera I fondamenti della geopolitica

Il libro è stato scritto per lettori russi, ma, come dimostrano le sue numerose traduzioni e riedizioni in altre lingue – specialmente in turco, arabo, georgiano, serbo ecc. – esso ha destato interesse anche al di fuori delle frontiere della Russia. Non bisogna dimenticare che esso è stato scritto negli anni Novanta del secolo scorso per quei Russi che, nel clima e nella confusione generale di riforme liberali e di espansione dell’Occidente, avevano perduto l’ideale nazionale; per lo più, infatti, esso riflette le realtà internazionali di quel periodo. Al di là di tutto questo, però, l’opera contiene riferimenti essenziali alle costanti della geopolitica – le quali sono identiche in ogni epoca – e, in modo particolare, allo spazio eurasiatico.

I principi enunciati nei Fondamenti della geopolitica sono stati sviluppati ed applicati alle nuove realtà storiche dei primi anni del XXI secolo e si ritrovano nelle mie opere successive: Progetto Eurasia, I fondamenti dell’Eurasia, La geopolitica postmoderna, La quarta teoria politica ecc.

I fondamenti della geopolitica si distingue per la presentazione del metodo geopolitico di base applicato al caso dell’Eurasia.

In diversi momenti successivi alla sua pubblicazione, il testo dei Fondamenti della geopolitica è stato riveduto, ogni volta sotto l’influenza degli eventi in divenire, e ciò ha indotto a chiarire certi punti di vista. In primo luogo, l’autore ha riveduto la sua posizione nei confronti della Turchia, posizione inizialmente negativa a causa dell’appartenenza della Turchia alla NATO, nonché dell’azione svolta negli anni Novanta dagli attivisti turchi nei Paesi della CSI. Verso la fine degli anni Novanta, però, la situazione della Turchia ha cominciato a cambiare, poiché alcuni membri dei gruppi kemalisti degli ambienti militari, così come l’élite intellettuale e molti partiti e movimenti politici si sono resi conto che l’identità nazionale turca è minacciata di scomparsa qualora Ankara continui ad eseguire gli ordini di Washington nella politica internazionale e regionale. Questi circoli sollevano un grande interrogativo, perfino per quanto concerne l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea, proprio a causa dei timori relativi alla perdita dell’identità turca. I Turchi stessi parlano sempre più di Eurasia, vedendo in quest’ultima il luogo della loro identità, così come già fanno i Russi e i Kazaki. Per adesso i pareri sono discordi, non solo nell’élite politica, ma anche presso la popolazione. Ciò si riflette anche nel caso di alcuni dirigenti politici turchi (ad esempio il generale Tuncer Kilinc), che considerano la possibilità di ritirare la Turchia dalla NATO e di avvicinare la Turchia alla Russia, all’Iran e alla Cina nel nuovo contesto multipolare.

Di questa evoluzione della politica turca non c’è traccia nei Fondamenti della geopolitica; a tale argomento è completamente dedicato il recente lavoro L’Asse Mosca-Ankara. Nonostante i brani antiturchi, i Turchi hanno mostrato interesse nei confronti dei Fondamenti della geopolitica, che sono diventati un testo di riferimento ed un vero e proprio manuale per i dirigenti politici e militari, aprendo loro una nuova prospettiva sul mondo, non solo verso l’Occidente, ma anche verso Est.

Parimenti, nel libro non sono presi in esame la vittoria di Mosca in Cecenia, i fatti di New York dell’11 settembre 2001, i tentativi di creare un asse Parigi-Berlino-Mosca al momento dell’invasione americana in Iraq, la secessione del Kosovo e la guerra russo-georgiana dell’agosto 2008.

Ciononostante, il lettore attento dei metodi presentati nei Fondamenti della geopolitica avrà la possibilità di effettuare la propria analisi in relazione al Progetto Eurasia. La geopolitica è in grado di rispondere alle domande “che cosa” e “dove”, facendo sì che le risposte siano precise quanto più possibile. Ma, per quanto concerne un determinato momento del futuro, si capisce bene che le previsioni non possono essere altrettanto rigorose. La geopolitica descrive il quadro di manifestazione degli eventi in relazione con lo spazio, ma anche le condizioni e i limiti dei processi in divenire. Come sappiamo, la storia è una questione sempre aperta, per cui gli eventi che possono aver luogo nel loro quadro avverranno e si manifesteranno in modi diversi. Certo, gli eventi seguono il vettore della logica geopolitica, per allontanarsene qualche volta o addirittura per spostarsi su una direzione contraria. Ma anche questi allontanamenti recano in sé un senso e una spiegazione geopolitica, implicando tutta una serie di forze, ciascuna delle quali tende ad assumere i processi e gli avvenimenti a proprio vantaggio. Per questo si usano metodi diversi, al di fuori dell’esercito, che nei decenni passati aveva un ruolo essenziale, mentre adesso un ruolo più efficiente viene svolto dalla “rete” armata (guerra delle reti); quest’ultima ha l’obiettivo di stabilire un controllo sull’avversario ancor prima del confronto diretto, attraverso la cosiddetta “azione degli effetti di base”. In questa “guerra delle reti” la conoscenza o l’ignoranza delle leggi della geopolitica (e ovviamente di tutti gli effetti connessi) è determinante.

Quindi non c’è da meravigliarsi se proprio coloro che traggono il massimo vantaggio dai frutti della geopolitica dichiarano, rispondendo alla domanda circa la serietà di quest’ultima, che essi in linea di principio non si sottopongono ai suoi rigori.

(Trad. di C. Mutti)

* Aleksandr G. Dugin (n. 1962), dottore in filosofia e in scienze politiche, è rettore della Nuova Università, direttore del Centro Studi Conservatori dell’Università di Stato di Mosca, nonché fondatore del Movimento Eurasia. Il testo qui tradotto è la Prefazione scritta da A. Dugin per l’edizione romena dei Fondamenti della geopolitica (Bazele geopoliticii, Editura Eurasiatica, Bucarest 2011).

mercredi, 16 février 2011

"Egypte" zorgt voor Amerikaans-Saoedische ruzie

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"Egypte" zorgt voor Amerikaans-Saoedische ruzie

       
WASHINGTON 10/02 (DPA/BELGA) = De crisis in Egypte heeft volgens de Britse
krant The Times van donderdag voor spanningen gezorgd tussen de
Verenigde Staten en hun Saoedische bondgenoten. Koning Abdullah van
Saoedi-Arabië zou president Barack Obama in een telefoongesprek er
uitdrukkelijk voor gewaarschuwd, een prompte regimewissel in Egypte te
eisen. Volgens de krant, die diplomaten in Riyad aanhaalt, vond het
gesprek in een verhitte stemming plaats. 

Het gesprek dateert van enkele dagen na het begin van de volksopstand.
Abdullah dreigde ermee, zich achter de Egyptische dictator te
scharen. De Saoedische koning waarschuwde Obama, Moebarak niet te
vernederen en hem een eervolle exit aan te bieden. 

Ook de Amerikaanse dreiging, de jaarlijkse (militaire) hulp van
anderhalf miljard dollar aan Egypte bij gebrek aan "democratische
hervormingen" in te houden, lokte kritiek van de Saoedische vorst uit.
Mocht Washington overgaan tot financiëlec sancties, dan zou Riyad met
het geld over de brug komen, waarschuwde Abdullah. 

De door de krant aangehaalde diplomaten hebben het over de
ernstigste beuk tussen beide landen sinds de oliecrisis van begin de jaren
zeventig. Het regime van Abdullah wordt, net als dat van Moebarak,
vaak bestempeld als "gematigd" omdat de dictaturen een pro-Westerse
houding hebben. MAE/

mardi, 15 février 2011

Rivoluzione d'Egitto - Distruzione creativa per un "Grande Medio Oriente"?

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Rivoluzione d’Egitto – Distruzione creativa per un “Grande Medio Oriente”?

 

Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23131 [1]

Velocemente sulla scia del cambiamento di regime in Tunisia, s’è alzato il movimento di protesta popolare lanciato il 25 gennaio contro l’ordine radicato di Hosni Mubarak in Egitto. Contrariamente all’impressione coltivata con cura secondo cui l’Amministrazione Obama sta cercando di mantenere l’attuale regime di Mubarak, Washington, infatti, sta orchestrando i cambiamenti di regime egiziano e regionali, dalla Siria allo Yemen, alla Giordania e ben oltre, in un processo cui alcuni si riferiscono come “distruzione creativa”.

Il modello per tale cambiamento di regime sotto copertura è stata sviluppata dal Pentagono, dalle agenzie di intelligence degli Stati Uniti e dai vari think-tank come la RAND Corporation. nel corso di decenni, a partire dalla destabilizzazione del maggio 1968 della Presidenza de Gaulle in Francia. Questa è la prima volta dal cambiamento di regime sostenuto dagli USA in Europa orientale, circa due decenni fa, che Washington aveva avviato con operazioni simultanee in molti paesi di una regione. Si tratta di una strategia che nasce dalla disperazione e certo non è senza rischi significativi per il Pentagono e per l’agenda a lungo termine di Wall Street. Cosa ne risulterà per i popoli della regione e per il mondo, non è ancora chiaro.

Eppure, mentre il risultato finale della sfida delle proteste di piazza al Cairo e in tutto l’Egitto e il mondo islamico non è chiaro, le grandi linee di una strategia occulta degli Stati Uniti sono già chiare.

Nessuno può mettere in discussione le motivare genuine rimostranze di milioni di persone scese per le strade, a rischiare la vita. Nessuno può difendere le atrocità del regime di Mubarak e la tortura e la repressione del dissenso. Nessuno può contestare l’aumento esplosivo dei prezzi alimentari, ad opera degli speculatori di materie prime di Chicago e Wall Street, e la conversione dei terreni agricoli americani per la folle coltivazione del mais per l’etanolo combustibile, che ha fatto schizzare i prezzi del grano. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo, in gran parte dagli Stati Uniti. I futures del grano di Chicago sono aumentati di uno sbalorditivo 74% tra giugno e novembre 2010, portando ad un inflazione dei prezzi alimentari egiziani di circa il 30%, nonostante i sussidi governativi.

Ciò che è largamente ignorato da CNN, BBC e altri media occidentali, nella loro copertura degli eventi in Egitto, è il fatto che tutto qualsiasi siano i suoi eccessi interni, l’egiziano Mubarak costituisce un ostacolo rilevante all’interno della regione, alla maggiore agenda degli Stati Uniti.

Dire dei rapporti tra Obama e Mubarak sono stati congelati fin dall’inizio non è esagerato. Mubarak è stato fermamente contrario alle politiche di Obama sull’Iran e su come trattare il suo programma nucleare, sulle politiche di Obama verso gli Stati del Golfo Persico, la Siria e il Libano, nonché verso i palestinesi. [1] E’ stato una spina formidabile ai grandi ordini del giorno di Washington per l’intera regione, il progetto di Washington del Grande Medio Oriente, recentemente riproposta col meno inquietante titolo di “Nuovo Medio Oriente”.

Reale come i fattori che stanno spingendo milioni in piazza in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente, ciò che non può essere ignorato è il fatto che Washington sta decidendo i tempi e come li vede, cercando di plasmare il risultato finale in un cambiamento di regime globale destabilizzazione tutto il mondo islamico. Il giorno delle straordinariamente ben coordinate manifestazioni popolari che chiedevano a Mubarak le dimissioni, i membri chiave del comando militare egiziano, incluso il capo di Stato Maggiore Gen. Sami Hafez Enan, erano tutti a Washington in qualità di ospiti del Pentagono. Neutralizzando opportunamente la forza decisiva dell’esercito nel fermare la protesta anti-Mubarak, crescente nei primi giorni critici [2].

La strategia era in vari dossier del Dipartimento di Stato e del Pentagono da almeno un decennio o più. Dopo che George W. Bush ha dichiarato la Guerra al Terrore, nel 2001, ciò è stato chiamato programma per il Grande Medio Oriente. Oggi è noto come il meno minaccioso titolo di progetto per il “Nuovo Medio Oriente“. Si tratta di una strategia per spezzare gli Stati della regione dal Marocco all’Afghanistan, la regione definita dall’amico di David Rockefeller, Samuel Huntington nel suo infame saggio Lo Scontro di Civiltà apparso su Foreign Affairs.

Egitto in ascesa?

Lo scenario attuale per l’Egitto del Pentagono si legge come uno spettacolo Hollywoodiano di Cecil B. DeMille, solo che questo ha un cast di milioni di giovani ben addestrati fanatici di Twitter, reti di operatori della Fratellanza musulmana, che operano con militari addestrati dagli USA. Nel ruolo di protagonista della nuova produzione, al momento, non è altro che un premio Nobel della Pace che convenientemente appare tirare tutti i fili dell’opposizione all’ancien régime, in quello che appare come una transizione senza problemi in un Egitto di nuovo sottoposto a un auto-proclamata rivoluzione liberal-democratica.

Alcuni retroscena sugli attori sul terreno sono utili, prima di guardare a ciò che sul piano strategico a lungo termine di Washington, potrebbe accadere al mondo islamico dal Nord Africa al Golfo Persico e, infine, alle popolazioni islamiche dell’Asia centrale, ai confini di Cina e Russia.

Le ‘rivoluzioni‘ soft di Washington

Le proteste che hanno portato al brusco licenziamento dell’intero governo egiziano da parte del Presidente Mubarak, sulla scia del panico per la fuga dalla Tunisia di Ben Ali, verso un esilio saudita, non sono affatto “spontanee“, come la Casa Bianca di Obama, il Dipartimento di Stato della Clinton, o CNN, BBC e altri media importanti dell’Occidente pretendono siano.

Sono stati organizzati nello stile high-tech elettronico ucraino, con grandi reti di giovani collegato tramite internet a Mohammed ElBaradei e ai torbidi e clandestini Fratelli Musulmani, i cui legami con servizi segreti e alla massoneria britannici e statunitensi, sono ampiamente indicati. [3]

A questo punto il movimento anti-Mubarak sembra tutt’altro che una minaccia per l’influenza statunitense nella regione, anzi. Ha tutte le impronte di un altro cambio di regime appoggiato dagli USA, sul modello delle rivoluzioni a colori del 2003-2004 in Georgia e in Ucraina, e della fallita Rivoluzione verde contro l’Iran di Ahmadinejad, nel 2009.

La richiesta di uno sciopero generale egiziano e del giorno della rabbia del 25 gennaio, che ha scatenato le proteste di massa che esigono le dimissioni di Mubarak, sono state lanciate da una organizzazione basata su Facebook e che si fa chiamare Movimento 6 aprile. Le proteste erano così consistenti e ben organizzate che hanno costretto Mubarak a chiedere al suo governo di dimettersi e di nominare un nuovo vice-presidente, il generale Omar Suleiman, ex ministro dell’Intelligence.

Il 6 aprile è guidato da un tale Ahmed Maher Ibrahim, un ingegnere civile di 29 anni, che ha configurato il sito di Facebook per sostenere l’appello ai lavoratori per lo sciopero del 6 aprile 2008.

Secondo il New York Times, dal 2009 circa 800.000 Egiziani, la maggior parte giovani, erano già allora membri di Facebook o Twitter. In un’intervista con la Carnegie Endowment di Washington, il capo del movimento 6 aprile Maher, ha dichiarato: “Essendo il primo movimento giovanile in Egitto ad avere l’uso delle modalità di comunicazione basate su Internet come Facebook e Twitter, ci proponiamo di promuovere la democrazia, incoraggiando il coinvolgimento del pubblico nel processo politico.”[4]

Maher ha inoltre annunciato che il suo Movimento 6 aprile sostiene l’ex capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) delle Nazioni Unite, capo e dichiarato candidato presidenziale egiziano, ElBaradei assieme alla coalizione di ElBaradei, l’Associazione Nazionale per il Cambiamento (NAC). Il NAC include tra gli altri George Ishak, leader del Movimento Kefaya, e Mohamed Saad El-Katatni, presidente del controverso blocco parlamentare Ikhwan o Fratelli Musulmani [5].

Oggi Kefaya è al centro degli attuali avvenimenti egiziani. Non lontano, sullo sfondo vi sono i più discreti Fratelli Musulmani.

ElBaradei, a questo punto viene proiettato come figura centrale in un futuro cambiamento democratico parlamentare egiziano. Curiosamente, anche se egli non ha vissuto in Egitto negli ultimi 30 anni, ha avuto l’appoggio di ogni parte immaginabile dello spettro politico egiziano che va dai comunisti ai Fratelli Musulmani, da Kefaya ai giovani attivisti del 6 aprile.[6] A giudicare dal comportamento calmo che presenta ElBaradei in questi giorni verso gli intervistatori CNN, anche lui ha probabilmente il sostegno dei principali generali egiziani contrari al dominio di Mubarak per qualche motivo, così come di alcune persone molto influenti a Washington.

Kefaya è al centro delle mobilitazioni delle manifestazioni di protesta egiziane che supportano la candidatura di ElBaradei. Kefaya di traduce “basta!

Curiosamente, i progettisti della National Endowment for Democracy (NED) di Washington [7] e delle ONG connesse alla rivoluzione colorate, sono apparentemente prive di creatività riguardo degli accattivanti nuovi nomi per la loro Color Revolution egiziana. Nel novembre 2003 per al loro Rivoluzione delle Rose in Georgia, le ONG finanziate avevano scelto una parola attraente, Kmara! Al fine di identificare il movimento giovanile per il cambiamento di regime. Kmara!, anche in georgiano significa “basta!”

Come Kefaya, Kmara in Georgia è stata costruita da consiglieri del NED finanziati da Washington e di altri gruppi come la mal denominata Albert Einstein Institution di Gene Sharp, che utilizza ciò che Sharp aveva una volta identificato come “la non-violenza come metodo di guerra.” [8]

Le diverse reti giovanili in Georgia come in Kefaya sono stati accuratamente addestrate come libera e decentrata rete di cellule, evitando deliberatamente una organizzazione centrale che poteva essere distrutto portando il movimento ad una battuta d’arresto. La formazione degli attivisti alle tecniche di resistenza non-violenta venne fatta in impianti sportivi, facendola apparire innocua. Gli attivisti erano stati assegnati a corsi di formazione in marketing politico, relazioni con i media, tecniche di mobilitazione e reclutamento.

Il nome formale di Kefaya è Movimento egiziano per il cambiamento. E’ stato fondata nel 2004 selezionando intellettuali egiziani presso Abu’ l-Ala Madi, leader del partito Al-Wasat, un partito creato dai Fratelli Musulmani [9]. Kefaya è stato creato come movimento di coalizione unito solo dall’appello per la fine del dominio di Mubarak.

Kefaya come parte dell’amorfo Movimento 6 aprile, ha capitalizzato subito i nuovi media sociali e la tecnologia digitale come suoi principali mezzi di mobilitazione. In particolare, i blog politici, che postano senza censure videoclip e immagini fotografiche su youtube, sono molto abilmente e professionalmente utilizzati. In un raduna già effettuato nel dicembre 2009, Kefaya aveva annunciato il sostegno alla candidatura di Mohammed ElBaradei per le elezioni egiziane del 2011 [10].

RAND e Kefaya

Non di meno un centro di riflessione della dirigenza della difesa statunitense, quale la RAND Corporation, ha condotto uno studio dettagliato su Kefaya. Lo studio su Kefaya come la RAND nota, è stato “promosso da Ufficio del Segretario della Difesa, Stati Maggiori riuniti, Comandi Operativi Unificati, Dipartimento della Marina Militare, Corpo dei Marines, organismi della difesa, e la la comunità d’intelligence della difesa“. [11]

Un gruppetto di simpatici signori e donne più democraticamente orientati difficilmente potrebbe essere trovato.

Nella loro relazione del 2008 al Pentagono, i ricercatori della RAND ha rilevato quanto segue in relazione a Kefaya dell’Egitto:

Gli Stati Uniti hanno professato un interesse a una maggiore democratizzazione nel mondo arabo, in particolare dopo gli attentati del settembre 2001 da parte di terroristi provenienti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Libano. Questo interesse fa parte di uno sforzo per ridurre dei destabilizzanti violenza politica e terrorismo. In qualità di presidente, George W. Bush ha sottolineato in un discorso del 2003 al National Endowment for Democracy, “Finché il Medio Oriente rimane un luogo dove la libertà non fiorisce, rimarrà un luogo di stagnazione, risentimento e violenza pronta all’esportazione” (The White House, 2003). Gli Stati Uniti hanno utilizzato mezzi diversi per perseguire la democratizzazione, compreso un intervento militare che, anche se è stato lanciato per altri motivi, ha avuto l’installazione di un governo democratico come uno dei suoi obiettivi finali. Tuttavia, i movimenti di riforma indigeni sono nella posizione migliore per far avanzare la democratizzazione del proprio paese.“[12]

I ricercatori della RAND hanno speso anni per perfezionare le tecniche di cambio di regime non convenzionale sotto il nome di “brulichio“, un metodo di diffondere masse folli di gioventù collegata per via digitale e attuare forme di protesta mordi-e-fuggi, muovendosi come sciami di api [13].

Washington e la scuderia di ONG dei “diritti umani“, della “democrazia” e “non violenza” che sovrintende, negli ultimi dieci anni o più, ha sempre più fatto affidamento su sofisticati movimenti di protesta indigena locale spontanei e che si “autoalimentano“, per creare un cambiamento di regime filo-Washington e far progredire l’agenda globale della Full Spectrum Dominance del Pentagono. Così lo studio della RAND afferma, nelle sue raccomandazioni conclusive del Pentagono, che Kefaya:

Il governo degli Stati Uniti già sostiene gli sforzi di riforma attraverso organizzazioni come l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale e il United Nations Development Programme. Data la corrente opposizione popolare contraria agli Stati Uniti nella regione, il sostegno degli Stati Uniti alle iniziative di riforma è meglio effettuato attraverso organizzazioni non governative e istituzioni senza scopo di lucro.“[14]

Lo studio del 2008 della RAND era ancora più concreto sul futuro sostegno degli Stati Uniti al governo egiziano e gli altri movimenti di “riforma“:

“Il governo degli Stati Uniti dovrebbe incoraggiare le organizzazioni non governative offrendo una formazione ai riformatori, tra cui una guida per la costruzione della coalizione e come trattare le differenze interne nel perseguimento delle riforme democratiche. Istituzioni accademiche (o anche organizzazioni non governative associate a partiti politici statunitensi, come l’International Republican Institute o il National Democratic Institute for International Affairs) potrebbero effettuare tale formazione, equipaggiando i leader delle riforme, nel conciliare le loro divergenze in modo pacifico e democratico.

In quarto luogo, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare i riformatori ad ottenere e utilizzare le tecnologie dell’informazione, magari offrendo incentivi alle società statunitensi per investire nelle infrastrutture delle comunicazioni e nelle tecnologie dell’informazione regionali. aziende tecnologiche dell’informazione USA potrebbero anche contribuire a garantire che i siti dei riformatori possano rimanere in funzionamento, e potrebbero investire in tecnologie come l’anonymizer, che potrebbero offrire qualche riparo dal controllo del governo. Questo potrebbe essere raggiunto anche con l’impiego di tecnologie di sicurezza per impedire ai regimi di sabotare i siti web dei riformatori.“[15]

Come la loro monografia su Kefaya afferma, è stata preparata nel 2008 dalla “RAND National Security Research – Divisione per di iniziativa strategica alternativa”, patrocinata dal Rapid Reaction Technology Office presso l’Ufficio del Sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione, la tecnologia e la logistica.

La iniziativa strategica alternativa, proprio per sottolineare il punto, comprende “la ricerca su un uso creativo dei media, della radicalizzazione dei giovani, dell’impegno civile per arginare la violenza settaria, la fornitura di servizi sociali per mobilitare settori danneggiati delle popolazioni indigene e, tema di questo volume, i movimenti alternativi.”[16]

Nel maggio del 2009 poco prima del viaggio al Cairo di Obama per incontrare Mubarak, la segretaria di Stato statunitense Hillary Clinton ha ospitato una serie di giovani attivisti egiziani a Washington, sotto gli auspici della Freedom House, un’altra ONG dei “diritti umani” con sede a Washington e una lunga storia di coinvolgimento in cambi di regime sponsorizzati dagli USA, dalla Serbia alla Georgia all’Ucraina e ad altre rivoluzioni colorate. Clinton e l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, Jeffrey Feltman, hanno incontrato sedici attivisti al termine di una ‘visita‘ di due mesi organizzata dal programma New Generation della Freedom House [17].

Freedom House e la ONG dei cambi di regime, finanziata dal governo di Washington, National Endowment for Democracy (NED), sono al centro delle rivolte che ora attraversano il mondo islamico. Esse si adattano al contesto geografico di ciò che George W. Bush ha proclamato, dopo il 2001, come il suo Progetto di Grande Medio Oriente per portare la “democrazia” e una riforma economica “liberale e per il libero mercato” nei paesi islamici, dall’Afghanistan al Marocco. Quando Washington parla di introdurre la “riforma liberale del libero mercato” la gente dovrebbe guardare fuori. E’ poco più di un codice per portare quelle economie sotto il giogo del sistema del dollaro, e di tutto ciò che esso comporta.

La NED di Washington fa parte di un’agenda più grande

Se facciamo un elenco dei paesi della regione che sono sottoposti a movimenti di protesta di massa dagli eventi tunisino ed egiziano, e li riportiamo su una mappa, troviamo una quasi perfetta convergenza tra i paesi oggi coinvolti nelle proteste e la mappa originale del progetto di Washington per un Grande Medio Oriente che fu per prima presentato durante la presidenza di George W. Bush, dopo il 2001.

La NED di Washington era tranquillamente impegnata nella preparazione di un ondata di destabilizzazioni dei regimi in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, dopo l’invasione militare degli Stati Uniti, nel 2001-2003, di Afghanistan e Iraq. L’elenco dei luoghi dove la NED è attiva, è rivelatore. Il suo sito web elenca Tunisia, Egitto, Giordania, Kuwait, Libia, Siria, Yemen e Sudan e, curiosamente, Israele. Casualmente questi paesi sono quasi tutti soggetti oggi a “spontanee” insurrezioni popolari per un cambio di regime.

L’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs citati dal documento della RAND su Kefaya sono organizzazioni affiliate alla National Endowment for Democracy, di Washington e finanziata dal Congresso USA.

La NED è l’agenzia di coordinamento di Washington per la destabilizzazione e il cambiamento dei regimi. E’ attiva dal Tibet all’Ucraina, dal Venezuela alla Tunisia, dal Marocco al Kuwait nel ridisegnare il mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in quello che George HW Bush, in un discorso del 1991 al Congresso, proclamò trionfalmente essere l’alba di un Nuovo Ordine Mondiale. [18] Mentre l’architetto e primo capo del NED, Allen Weinstein ha detto al Washington Post nel 1991 che, “molto di quello che facciamo oggi è stato fatto di nascosto 25 anni fa dalla CIA“. [19]

Il Consiglio di Amministrazione della NED comprende o ha incluso, l’ex Segretario alla Difesa e vice capo della CIA, Frank Carlucci del Carlyle Group, il generale in pensione della NATO Wesley Clark; il neo-conservatore Warhawk Zalmay Khalilzad, che fu architetto dell’invasione afghana di George W. Bush e più tardi ambasciatore in Afghanistan, nonché nell’occupato Iraq. Un altro membro del consiglio della NED, Vin Weber, ha co-presieduto una task force indipendente importante sulla politica degli Stati Uniti verso le riforme nel mondo arabo, con l’ex Segretaria di Stato statunitense Madeleine Albright, e fu uno dei membri fondatori dell’ultra-aggressivo think-tank Progetto per un Nuovo Secolo Americano con Dick Cheney e Don Rumsfeld, che auspicava un forzato cambio di regime in Iraq, già nel 1998 [20].

La NED si suppone sia una fondazione privata, non governativa, senza scopo di lucro, ma riceve uno stanziamento annuale per i suoi lavori internazionali dal Congresso degli Stati Uniti. Il National Endowment for Democracy dipende dal contribuente statunitense per il finanziamento, ma perché la NED non è un ente governativo, non è soggetta alla normale supervisione del Congresso.

Il denaro della NED è incanalato ai paesi di destinazione attraverso quattro “basi centrali“, il National Democratic Institute for International Affairs, legato al Partito Democratico, l’International Republican Institute legato al Partito Repubblicano, l’American Center for International Labor Solidarity legata alla federazione del lavoro statunitense AFL-CIO e al Dipartimento di Stato statunitense, e il Center for International Private Enterprise legato alla liberista libero Camera di Commercio statunitense.

La defunta analista politica Barbara Conry aveva osservato che, “La NED ha approfittato del suo presunto status privato per influenzare le elezioni all’estero, attività che è oltre la portata dell’AID o della USIA, e sarebbe altrimenti possibile solo attraverso una operazione segreta della CIA. Tali attività, si può anche notare, sarebbero illegali per dei gruppi esteri che operassero negli Stati Uniti.”[21]

Significativamente la NED dettaglia i suoi vari attuali progetti nei paesi islamici, tra cui oltre all’Egitto, Tunisia, Yemen, Giordania, Algeria, Marocco, Kuwait, Libano, Libia, Siria, Iran e Afghanistan. In breve, la maggior parte dei paesi che attualmente sentono gli effetti del terremoto delle proteste per una riforma radicale in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, è un obiettivo della NED [22].

Nel 2005 il presidente statunitense George W. Bush ha pronunciato un discorso alla NED. In un lungo discorso incoerente che equiparava il “radicalismo islamico“, con il malvagio comunismo, quale nuovo nemico, e usando un termine più volutamente morbido di “più vasto Medio Oriente” invece di Grande Medio Oriente, che aveva suscitato molto disturbo nel mondo islamico, Bush aveva dichiarato,

Il quinto elemento della nostra strategia nella guerra al terrore è quello di negare future reclute ai militanti, sostituendo l’odio e il risentimento con la democrazia e la speranza attraverso un più vasto Medio Oriente. Si tratta di un lungo e difficile progetto, ma non c’è nessuna alternativa ad esso. Il nostro futuro e il futuro di quella regione sono collegate. Se il più vasto Medio Oriente viene lasciato crescere nell’amarezza, se i paesi rimangono in miseria, mentre i radicali suscitano il risentimento di milioni, allora quella parte del mondo sarà una fonte infinita di conflitto e pericoli montanti, per la nostra generazione e per quella successiva. Se i popoli di quella regione potranno scegliere il proprio destino, e far avanzare la loro energia, con la partecipazione di uomini e donne liberi, gli estremisti saranno marginalizzati, e il flusso del radicalismo violento verso il resto del mondo sarà rallentato, e alla fine finito… Stiamo incoraggiando i nostri amici in Medio Oriente, compreso l’Egitto e l’Arabia Saudita, a prendere la strada delle riforme, per rafforzare la propria società nella lotta contro il terrorismo, rispettando i diritti e le scelte del proprio popolo. Appoggiamo i dissidenti e gli esiliati contro i regimi oppressivi, perché sappiamo che i dissidenti di oggi saranno i leader democratici di domani… “[23]

Il Progetto degli Stati Uniti per un ‘Grande Medio Oriente’

La diffusione di operazioni di cambio di regime di Washington dalla Tunisia al Sudan, dallo Yemen all’Egitto e la Siria, sono assai ben visti, nel contesto della lunga strategia del Pentagono e del Dipartimento di Stato verso l’intero mondo islamico da Kabul in Afghanistan, a Rabat in Marocco.

I rozzi lineamenti della strategia di Washington, in parte basata sulle sue riuscite operazioni di cambio regime nell’ex Patto di Varsavia, il blocco comunista dell’Europa orientale, sono state elaborate dall’ex consulente del Pentagono e neo-conservatore Richard Perle, e poi dall’assistente di Bush Douglas Feith, in un Libro bianco elaborato per l’allora nuovo regime del Likud israeliano di Benjamin Netanyahu, nel 1996.

Tale raccomandazione politica è stata intitolata Un taglio netto: Una nuova strategia per assicurare il Reame. Fu la prima che uno scritto del think-tank Washington chiedeva apertamente la rimozione di Saddam Hussein in Iraq, un atteggiamento militare aggressivo nei confronti dei palestinesi, di colpire la Siria e gli obiettivi siriani in Libano. [24] Secondo quanto riferito, il governo Netanyahu in quel momento seppellì la relazione di Perle Feith, in quanto troppo rischioso.

Con gli eventi dell’11 settembre 2001 e il ritorno a Washington degli ultrafalchi neoconservatori del gruppo di Perle, l’amministrazione Bush diede priorità assoluta alla versione allargata del piano di Feith-Perle, chiamandolo Progetto per un Grande Medio Oriente. Feith fu nominato da Bush Sottosegretario della Difesa.

Dietro la facciata delle annunciate riforme democratiche dei regimi autocratici in tutta la regione, il Grande Medio Oriente era ed è un progetto per estendere il controllo militare degli Stati Uniti e spezzare le economie stataliste in tutto l’arco degli stati dal Marocco fino ai confini della Cina e della Russia.

Nel maggio 2003, prima che le macerie del bombardamento statunitense di Baghdad fossero tolte, George W. Bush, un presidente che non sarà ricordato come un grande amico della democrazia, proclamò la politica di “diffondere la democrazia” in tutta la regione ed aveva esplicitamente sottolineato cosa ciò significava: “La creazione del Medio Oriente come area di libero scambio con gli Stati Uniti entro un decennio.” [25]

Prima del Summit dei G8 del giugno 2004 a Sea Island, Georgia, Washington aveva pubblicato un documento di lavoro, “G8-Greater Middle East Partnership“. Sotto la sezione intitolata opportunità economiche vi era un drammatico appello di Washington per “una trasformazione economica simile, in grandezza, a quella intrapresa dai paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale”.

Il documento statunitense aveva detto che la chiave di ciò era il rafforzamento del settore privato come strada per la prosperità e la democrazia. E sosteneva, in modo fuorviante, che ciò sarebbe stato fatto attraverso il miracolo della microfinanza, come il documento chiariva, “solo 100 milioni di dollari all’anno per cinque anni saranno creerebbero 1.2 milioni di imprenditori (750.000 dei quali donne), uscendo dalla povertà, attraverso prestiti di 400 dollari a ciascuno.”[26] (Et Voilà, ecco il perché del nobel a Muahmmad Yunus, ideatore della microfinanza per i poveracci… NdT)

Il piano statunitense prevedeva l’acquisizione di banche regionali e finanziarie da parte delle nuove istituzioni apparentemente internazionale ma, come la Banca Mondiale e il FMI, di fatto controllate da Washington, tra cui il WTO. L’obiettivo del progetto a lungo termine di Washington, è quello di controllare completamente il petrolio, controllare completamente i flussi di entrate dal petrolio, controllare completamente le intere economie della regione, dal Marocco fino ai confini della Cina, e tutto ciò che sta in mezzo. E’ un progetto ardito quanto è disperata.

Una volta che il documento del G8 degli Stati Uniti era trapelato nel 2004, su Al-Hayat, l’opposizione ad essa si diffuse in tutta la regione, con una grande protesta per la definizione statunitense del Grande Medio Oriente. Un articolo del francese Le Monde Diplomatique di aprile 2004, aveva osservato che “oltre ai paesi arabi, si estende a Afghanistan, Iran, Pakistan, Turchia e Israele, il cui unico comune denominatore è che si trovano nella zona in cui l’ostilità verso gli Stati Uniti è più forte, in cui il fondamentalismo islamico nella sua forma anti-occidentale è più diffuso.”[27] Va notato che la NED è attiva anche all’interno di Israele, con un certo numero di programmi.

In particolare, nel 2004 vi è stata la veemente opposizione da due leader del Medio Oriente, l’egiziano Hosni Mubarak e il re dell’Arabia Saudita, che hanno costretto i fanatici ideologi dell’amministrazione Bush a mettere temporaneamente il progetto per il Grande Medio Oriente nel dimenticatoio.

Funzionerà?

In questo scritto non è chiaro quale sia il risultato cui porterà finale delle ultime teleguidate destabilizzazioni USA in tutto il mondo islamico. Non è chiaro quale sarà il risultato per Washington e i sostenitori di un Nuovo Ordine Mondiale dominato dagli USA. La loro agenda è chiaramente sia la creazione del Grande Medio Oriente sotto la presa salda degli Stati Uniti, come un maggior controllo dei futuri flussi di capitali e flussi di energia verso Cina, Russia e Unione Europea, che potrebbero portare, uno di questi giorni, all’idea di allontanarsi da questo ordine statunitense.

Essa ha enormi implicazioni potenziali per il futuro di Israele. Come un commentatore statunitense ha ammesso, “Il calcolo israeliano di oggi è che se ‘Mubarak se ne va’ (che di solito viene indicato con ‘Se gli USA permettono che Mubarak vada via’), l’Egitto andrà via. Se va via la Tunisia (stessa storia), anche il Marocco e l’Algeria andranno. La Turchia è già andata (per la quale gli israeliani devono solo incolpare se stessi). La Siria è andata (in parte perché Israele ha voluto escluderla dall’accesso all’acqua del mare di Galilea). Gaza è andata ad Hamas e l’Autorità palestinese potrebbe presto pure andarsene (con Hamas?). Lasciando Israele tra le rovine della politica del dominio militare della regione.” [28]

La strategia di Washington di “distruzione creativa“, sta chiaramente causando notti insonni non solo nel mondo islamico, ma anche a Tel Aviv, e infine da ora anche a Pechino e a Mosca e in tutta l’Asia centrale.


* F. William Engdahl è autore di Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order. Il suo libro A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order è stato appena ristampato in una nuova edizione. È membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”.



Note

[1] DEBKA, Mubarak believes a US-backed Egyptian military faction plotted his ouster, February 4, 2011, www.debka.com/weekly/480/. DEBKA Debka è aperto circa i sua buoni legami con l’intelligence e le agenzie di sicurezza di Israele. Mentre i suoi scritti devono essere letti con questo in mente, alcuni rapporti che pubblica spesso inducono a interessanti ulteriori indagini.

[2] Ibid.

[3] The Center for Grassroots Oversight, 1954-1970: CIA and the Muslim Brotherhood ally to oppose Egyptian President Nasser, www.historycommons.org/context.jsp?item=western_support_for_islamic_militancy_202700&scale=0. Secondo il defunto Miles Copeland, un funzionario della CIA di stanza in Egitto durante il periodo di Nasser, la CIA si alleò con i Fratelli Musulmani che si opponevano al regime laico di Nasser, così come all’opposizione dell’ideologia nazionalista alla fratellanza pan-islamica.

[4] Jijo Jacob, What is Egypt’s April 6 Movement?, 1 Febbraio 2011, http://www.ibtimes.com/articles/107387/20110201/what-is-egypt-s-april-6-movement.htm

[5] Ibidem.

[6] Janine Zacharia, Opposition groups rally around Mohamed ElBaradei, Washington Post, 31 gennaio 2011, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/01/31/AR2011013103470_2.html?sid=ST2011013003319.

[7] National Endowment for Democracy, Middle East and North Africa Program Highlights 2009, in http://www.ned.org/where-we-work/middle-east-and-northern-africa/middle-east-and-north-africa-highlights.

[8] Amitabh Pal, Gene Sharp: The Progressive Interview, The Progressive, 1 marzo 2007.

[9] Emmanuel Sivan, Why Radical Muslims Aren’t Taking over Governments, Middle East Quarterly, December 1997, pp. 3-9

[10] Carnegie Endowment, The Egyptian Movement for Change (Kifaya), http://egyptelections.carnegieendowment.org/2010/09/22/the-egyptian-movement-for-change-kifaya

[11] Nadia Oweidat, et al, The Kefaya Movement: A Case Study of a Grassroots Reform Initiative, Prepared for the Office of the Secretary of Defense, Santa Monica, Ca., RAND_778.pdf, 2008, p. iv.

[12] Ibidem.

[13] Per altre discussioni dettagliate sulle tecniche del “brulichio” della RAND: F. William Engdahl, Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order, edition.engdahl, 2009, pp. 34-41.

[14] Nadia Oweidat et al, op. cit., p. 48.

[15] Ibid., p. 50.

[16] Ibid., p. iii.

[17] Michel Chossudovsky, The Protest Movement in Egypt: “Dictators” do not Dictate, They Obey Orders, 29 gennaio 2011, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22993

[18] George Herbert Walker Bush, State of the Union Address to Congress, 29 gennaio 1991. Nel discorso, Bush a un certo punto ha dichiarato con aria trionfante di celebrazione del collasso dell’Unione Sovietica, “Ciò che è in gioco è più di un paese piccolo, è una grande idea, un nuovo ordine mondiale …

[19] Allen Weinstein, quoted in David Ignatius, Openness is the Secret to Democracy , Washington Post National Weekly Edition, 30 Settembrw 1991, pp. 24-25.

[20] National Endowment for Democracy, Board of Directors, http://www.ned.org/about/board

[21] Barbara Conry, Loose Cannon: The National Endowment for Democracy , Cato Foreign Policy Briefing No. 27, 8 Novembre 1993, http://www.cato.org/pubs/fpbriefs/fpb-027.html.

[22] National Endowment for Democracy, 2009 Annual Report, Middle East and North Africa, http://www.ned.org/publications/annual-reports/2009-annual-report.

[23] George W. Bush, Speech at the National Endowment for Democracy, Washington, DC, 6 ottobre 2005, http://www.presidentialrhetoric.com/speeches/10.06.05.html.

[24] Richard Perle, Douglas Feith et al, A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm , 1996, Washington and Tel Aviv, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, www.iasps.org/strat1.htm

[25] George W. Bush, Remarks by the President in Commencement Address at the University of South Carolina, White House, 9 Maggio 2003.

[26] Gilbert Achcar, Fantasy of a Region that Doesn’t Exist: Greater Middle East, the US plan, Le Monde Diplomatique, 4 Aprile 2004, http://mondediplo.com/2004/04/04world

[27] Ibid.

[28] William Pfaff, American-Israel Policy Tested by Arab Uprisings, http://www.truthdig.com/report/item/american-israeli_policy_tested_by_arab_uprisings_20110201/


Traduzione di Alessandro Lattanzio

vendredi, 11 février 2011

Israels Eifersucht

Israels Eifersucht

Michael Grandt

Der jüdische Staat brüstet sich gerne damit, die einzige Demokratie im Nahen Osten zu sein. Nach den Ereignissen in Ägypten könnte sich das aber vielleicht bald ändern. Vielen »freiheitsliebenden« Israelis wäre es deshalb lieber, wenn der ägyptische Diktator weiter an der Macht bleiben würde.

Es mutet skurril an: Politisch Verantwortliche aller Couleur propagierten allenthalben »Freiheit für alle«. Doch wie sich jetzt im Falle Ägyptens herausstellt, meinten sie das nur halbherzig und verspüren, nur weil es sich um Araber handelt, mehr Angst als Freude, wenn ein ganzes Volk einen Diktator abschütteln und freie Wahlen haben will.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mic...

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Ägypten vor Militärputsch: Amerikanische Kriegsschiffe im Suezkanal

Redaktion

Ägypten steht vor dem wirtschaftlichen Zusammenbruch. Die Lage ist so angespannt, dass eine Machtübernahme des Militärs nicht länger als Bedrohung, sondern als einzige Hoffnung gesehen wird, das Land vor einem wirtschaftlichen Kollaps zu bewahren. Ein amerikanischer Marineverband mit sechs Kriegsschiffen und einem Hubschrauberträger ist in den Suezkanal eingelaufen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

Pierre Vial: Obama et la Turquie (avril 2009)

Pierre Vial : Obama et la Turquie (avril 2009)


jeudi, 10 février 2011

Analyse des relations entre Turquie et Israël


Analyse des relations entre Turquie et Israël

lundi, 07 février 2011

Le Bassin du Levant assiégé par Israël

Le Bassin du Levant assiégé par Israël

Ressources énergétiques : l’exploitation déjà confiée à des sociétés états-uniennes

Ex: http://www.polemia.com/

bassin-levant-130111.jpgA la fin de l’année 2012, Israël commencera à pomper du gaz dans le gisement offshore de Tamar, confié à un consortium international chapeauté par la société états-unienne Noble Energy. Celle-ci apportera ce mois-ci une seconde plate-forme de forage (Pride North America) pour étendre les prospections dans le Bassin du Levant. Dans cette zone de la Méditerranée orientale -estime l’agence gouvernementale états-unienne U.S. Geological Survey- se trouvent des réserves de gaz se montant à 3.500 milliards de m3, et des réserves de pétrole pour 1,7 milliards de barils. On se prépare donc à de grandes affaires : en une année, l’indice énergétique de la Bourse de Tel Aviv a augmenté de 1.700 %.

Partage des zones d’exploitation : nouvelle source de contentieux et de… conflits

Mais il y a un problème : les réserves énergétiques du Bassin du Levant n’appartiennent qu’en partie à Israël. Les gisements de gaz Tamar et Léviathan se trouvent à environ 100 Kms des côtes, hors des eaux territoriales israéliennes qui s’étendent jusqu’à 22 Kms de la côte. Toutefois, selon la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer, Israël peut exploiter les réserves offshores de gaz et de pétrole dans une zone allant jusqu’à 370 Kms de la côte. Mais il en va de même pour les autres pays riverains. Il est donc déterminant de définir les zones respectives.

Dans les eaux libanaises, d’après la compagnie norvégienne Petroleum Geo-Services, il y a de gros gisements de gaz et pétrole. A ce propos, le ministre des affaires étrangères Ali Shami a demandé le 4 janvier au Secrétaire Général des Nations Unies d’empêcher que ces gisements soient exploités par Israël. La réponse ne s’est pas faite attendre : le jour suivant, le porte-parole onusien Martin Nesirsky a rejeté la requête en déclarant que les Nations Unies ne sont pas préparées pour intervenir dans la dispute. Même réponse de la part de l’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) : le porte-parole Andrea Tenenti a déclaré au quotidien libanais The Daily Star (6 janvier) qu’ « une frontière maritime n’a jamais été établie » et que « la ligne de bouées dans la zone de Naqoura, non reconnue par le gouvernement libanais, a été instaurée unilatéralement par Israël ». Puis, le coordinateur spécial pour le Liban, Michael Williams, a diplomatiquement déclaré qu’« il pourrait y avoir un rôle pour les Nations Unies, mais nous devons en discuter avec nos juristes à New York » (The Daily Star, 11 janvier).

Israël a les mains libres

En réalité, donc, l’ONU laisse les mains libres à Israël dont le gouvernement a prévenu qu’il n’hésitera pas à employer la force pour protéger « ses » gisements. Comme le parlement libanais a approuvé une loi sur l’exploration des réserves énergétiques offshore et allouera les premières concessions au début de 2012, s’ouvre ainsi un contentieux qui pourra facilement conduire à une nouvelle guerre israélienne contre le Liban.

Qu’entend faire l’Italie, qui joue un rôle de premier plan dans l’Unifil, d’un point de vue naval aussi ? Attendra-t-elle que les navires de guerre israéliens bombardent les côtes libanaises, comme ils le firent déjà en 2006, pour s’emparer des réserves offshore du Liban ?

Il est plus difficile encore que les Palestiniens réussissent à exploiter les réserves énergétiques de leurs Territoires. Il résulte de la carte établie par U.S. Geological Survey que la plus grande partie des gisements de gaz se trouve dans les eaux côtières et dans le territoire de Gaza. L’Autorité palestinienne en a confié principalement l’exploitation à la compagnie British Gas, qui a creusé deux puits, Gaza Marine-1 et Gaza Marine-2, qui ne sont cependant jamais entrés en fonction.

Les Palestiniens sont écartés

Le gouvernement israélien a d’abord rejeté toutes les propositions, présentées par l’Autorité palestinienne et par British Gas, d’exporter le gaz en Israël et en Égypte. Elle a ensuite ouvert une négociation directe avec la compagnie britannique, qui détient la majorité des droits d’exploitation, pour arriver à un accord excluant les Palestiniens. Ce n’est pas un hasard si la négociation a été lancée en juin 2008, ce même mois où commençait (selon ce qui est admis même par des sources militaires israéliennes) la préparation de l’opération « Plomb durci » lancée contre Gaza en décembre 2008 (voir l’article par Michel Chossudovsky «La guerre et le gaz naturel : l’invasion israélienne et les gisements de Gaza en mer», Mondialisation.ca, le 12 janvier 2009, NdA). L’embargo qui a suivi, blocus naval compris, a de fait exproprié les Palestiniens du droit d’exploiter leurs propres réserves énergétiques, dont Israël veut s’emparer d’une façon ou d’une autre.

Le plan prévoit de relier, à travers un gazoduc sous-marin, les puits palestiniens de Gaza au port israélien d’Ashqelon, où, à partir de 2012, arrivera le gaz du gisement de Tamar. À une dizaine de kilomètres, au sud, il y a Gaza où les autorités israéliennes laissent passer au compte-gouttes le combustible pour la centrale électrique : ce qui provoque de continuels black-out qui, en laissant hôpitaux et stations d’épuration sans énergie, augmentent les victimes de l’embargo.

Manlio Dinucci
géographe.
il manifesto
12 janvier 2011

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio pour Mondialisation.ca,

dimanche, 06 février 2011

Russie, alliance vitale

Bientôt en librairie : "Russie, alliance vitale" de Jean-Bernard PINATEL

Ex: http://theatrum-belli.hautetfort.com/

Les grandes inflexions dans le système international peuvent être perçues, bien avant qu'elles ne se produisent, par les observateurs qui disposent d'une grille de lecture et qui fondent leurs réflexions sur les faits en se débarrassant de tout a priori idéologique ou sentiment partisan. Ainsi cet essai soutient des thèses et fournit une analyse des événements internationaux qui sont éloignés de la pensée dominante actuelle d'inspiration essentiellement américaine. 

pinatel001.jpgCette vision a été élaborée en utilisant une méthodologie fondée sur de nombreux emprunts aux enseignements de Marcel Merle (1), à la méthode prospective d'Hugues de Jouvenel et à l'œuvre d'Edgar Morin avec lesquels j'ai eu la chance de partager des réflexions dans le cadre de Futuribles et de la Fondation pour les études de défense à l'époque où elle était présidée par le général Buis. 

Ce n'est pas la première fois que je propose une vision prospective différente de celle communément admise. Dès les années 1970 déjà, j'avais pressenti que le temps de l'affrontement Ouest-Est fondé sur l'équilibre des forces nucléaires et classiques était révolu et qu'il serait remplacé par une forme nouvelle d'affrontement entre le Nord et le Sud. Je caractérisais ma vision de la nature différente de la "guerre" que nous connaîtrions dans le futur par le concept de "guerre civile mondiale". Pour ce faire je reçus l'aide précieuse et critique de mon amie Jacqueline Grapin qui était, à l'époque, journaliste au Monde et proche collaboratrice de Paul Fabra. 

La publication par Calman-Levy en 1976 de notre livre (2) fit l'effet d'une bombe dans les milieux politico-militaires puisqu'il soutenait que les guerres futures prendraient plus la forme d'une « guerre civile » Nord-Sud que celles d'un affrontement entre deux puissantes armées conventionnelles sous menace nucléaire auquel on se préparait. Nous écrivions : "À y regarder d'un peu près, le concept d'une guerre civile mondiale cerne assez étroitement la réalité. Il transpose, à l'échelle de la planète désormais ressentie comme un monde fini, l'idée du combat fratricide que se livrent les citoyens d'un même État. Et il est bien exact que le système international actuel est le premier à avoir une vocation mondiale, sans échappatoires possibles à ses blocages et à ses conflits. Il implique une guerre sans fronts, qui déborde les frontières et dépasse les militaires, pour défendre des enjeux vitaux dans un processus qui peut aller jusqu'à la mort... À force de détournements d'avions et d'actes terroristes, les Palestiniens ont essayé d'impliquer le monde entier dans leur cause, et le monde dans leur ensemble est devenu leur champ de tir". 

Le système international, qui évolue rapidement sous nos yeux, sera dominé dans les prochaines années par deux grands acteurs, les États- Unis et la Chine, qui interagissent dans une relation d'"adversaire- partenaire" : adversaires quand il s'agit d'enjeux ou d'intérêts vitaux à protéger, partenaires pour conquérir de nouveaux espaces et marchés et, surtout, pour empêcher de nouveaux acteurs d'acquérir une autonomie qui pourrait remettre en cause leur sphère d'influence et le partage du monde qu'ils préconisent implicitement ou explicitement. Un exemple récent en est l'accueil condescendant qui a été réservé par les grandes puissances à l'initiative de la Turquie et du Brésil pour apporter une solution à la crise iranienne. 

L'élaboration de cette vision s'appuie sur l'analyse et la hiérarchisation des intérêts permanents, vitaux ou majeurs, de ces grands acteurs, et sur l'évaluation de la marge de manœuvre, souvent limitée, que peuvent acquérir par leur charisme les dirigeants de ces pays. C'est ce qui explique les difficultés rencontrées par Barack Obama pour mettre en œuvre sa vision généreuse des rapports internationaux. Elle heurte de plein fouet les intérêts du complexe militaro-industriel américain qui s'est arrogé depuis longtemps le monopole de la désignation des menaces et de la défense des "intérêts permanents" des États-Unis et du "monde libre". 

C'est au Premier ministre de la reine Victoria, Benjamin Disraeli (1804-1881), qu'il est généralement convenu d'accorder la paternité de ce concept. En considérant que les États n'ont ni amis ni ennemis mais des "intérêts permanents", il introduisait pour la première fois les enjeux économiques dans la compréhension des relations internationales. Ce concept s'est étendu progressivement à d'autres dimensions comme la dimension culturelle. Ainsi le maintien de liens étroits entre les États francophones fait partie des intérêts permanents de la France car cela lui permet de peser plus que de par son poids dans les instances internationales (3). 

Dans les pays démocratiques c'est la perception de ces "intérêts permanents" par les citoyens qui est essentielle. Car il n'est de légitimité que reconnue par l'opinion publique. Ainsi la construction d'une Europe politique disposant de pouvoirs fédéraux ne deviendra un "intérêt permanent" pour les Européens que lorsque la grande majorité de la population des nations qui la composent en auront compris l'importance. Cette construction fait déjà partie des intérêts permanents de la France puisque la majorité des forces politiques y est favorable. La crise financière récente que nous avons traversée a montré la faiblesse d'une Europe fondée sur le plus petit commun dénominateur. De même, la présence des forces armées allemandes en Afghanistan est très critiquée par une majorité des forces politiques et de la population qui n'en comprennent pas les enjeux (4). Ces "intérêts permanents" sont rarement explicités par les dirigeants en dehors de cénacles restreints. Le maintien d'une incertitude sur leur définition précise constitue un atout dont les États auraient tort de se priver dans la compétition mondiale. 

Avec l'apparition de l'arme nucléaire, est apparue la notion d'"intérêts vitaux", au nom desquels un État se réserve le droit d'utiliser en premier l'arme nucléaire (5). Là encore, l'ambiguïté et l'imprécision font partie de la logique dissuasive, aucune puissance nucléaire ne déclarant ce qu'elle considère comme ses intérêts vitaux. 

Il est cependant possible d'évaluer les "intérêts permanents" des États en analysant les facteurs déterminants de leurs forces et de leurs vulnérabilités. Ainsi dans la Guerre civile mondiale (6) publiée en 1976, en pleine Guerre froide, nous nous interrogions sur la réalité de la menace militaire soviétique comme vecteur de la propagation du communisme, qui a été un des facteurs déterminants du système international entre 1945 et 1989. 

À l'époque, analystes et leaders d'opinion s'alarmaient à longueur de pages sur la menace que représentaient les 167 divisions militaires russes, sans jamais analyser les vulnérabilités de l'URSS qui pouvaient légitimer cet effort militaire. Prenant à contre-pied ces analyses, nous mîmes en relief plusieurs facteurs qui offraient un autre éclairage sur la menace soviétique : 

  • une relative faiblesse en nombre : rapportée à la superficie de l'URSS et, d'un point de vue défensif, cette force militaire "ne représentait plus que 12 militaires de l'armée de terre au km2 contre 60 en France" ;
  • une immensité de frontières à défendre : "L'URSS est le plus proche voisin de toutes les puissances actuelles et potentielles. À l'Est, l'URSS n'est séparée de l'Alaska américain que par les 30 km du détroit de La Pérouse, au Sud, elle a 7.000 km de frontières avec la Chine, 2.000 km avec l'Afghanistan, 2.500 avec l'Iran, 500 avec la Turquie..." ;
  • un manque de cohésion intérieure : "Mosaïque de 95 nationalités, d'ores et déjà l'URSS connaît un problème musulman avec la hausse de la natalité des populations islamisées qui représenteraient en 1980 72% de la population contre 52% en 1970 dans les cinq républiques d'Asie centrale" ;
  • et une "faiblesse de peuplement à l'Est de l'Oural".
  • Nous concluions : "L'URSS a de nombreuses vulnérabilités qui peuvent la pousser à s'armer au moins autant que les objectifs offensifs avancés par tous les observateurs".

Cet essai vise ainsi à éclairer d'un jour nouveau les intérêts permanents de l'Europe et de la Russie dans la gestion des menaces et des crises qui se développent à leurs frontières. Il soutient que l'insécurité qui règne à nos frontières sert directement les intérêts du complexe militaro-industriel américain au point de faire penser que les crises qui s'y enracinent ne sont pas le résultat d'erreurs stratégiques des dirigeants américains, mais proviennent d'options mûrement pesées par des conseillers qui en sont issus. Tout se passe en effet comme si la politique américaine visait à maintenir une insécurité permanente dans la région du Moyen-Orient et de la Caspienne. Elle viserait ainsi à freiner le développement économique de nos proches voisins tout en s'appropriant leurs ressources et, par contrecoup, à pénaliser la croissance de l'Europe et de la Russie en les privant de débouchés pour leurs produits et, enfin, à empêcher par tous les moyens la création d'une alliance stratégique de Dunkerque à l'Oural, qui constituerait un troisième acteur du système international capable de s'opposer à leurs ambitions. 

Jean-Bernard PINATEL

Editions CHOISEUL

178 pages, 17 euros

Général (2S) et dirigeant d'entreprise, J.-B. Pinatel est un expert reconnu des questions géopolitiques et d'intelligence économique. Docteur en études politiques et diplômé en physique nucléaire, il est breveté de l'École supérieure de guerre et ancien auditeur de l'IHEDN.

Sommaire :

  • Préface, p7
  • Avant-propos, p 13
  • Introduction, p 19
  • La montée en puissance de l'impérialisme chinois, p 23
  • Les relations sino-américaines à l'heure de l'interdépendance économique, p 43
  • La stratégie américaine d'"adversaire-partenaire", p 63
  • Les États-Unis face à l'Europe : éviter l'unification du "Heartland", maintenir la suprématie du "Rimland", p 77
  • Les pièges fondamentaux de la politique étrangère américaine, p 99
  • Pour un partenariat stratégique entre l'Europe et la Russie, p 119
  • La Russie, acteur clé dans la résolution des conflits et dans la lutte contre le terrorisme au Moyen-Orient, p 133
  • Irak et Afghanistan : pour une implication accrue de l'Europe et de la Russie, p 149
  • Conclusion, p 167

Notes :  

1. Sociologie des relations internationales (1987).

2. La Guerre civile mondiale, Paris, Calmann-Levy, 1976.

3. Forte d'une population de plus de 803 millions et de 200 millions de locuteurs de français de par le inonde, l'Organisation internationale de la Francophonie (01F) a pour mission de donner corps à une solidarité active entre les 70 États et gouvernements qui la composent (56 membres et 14 observateurs) — soit plus du tiers des États membres des Nations unies.

4. Le président allemand Horst Köhler, qui occupe une fonction principalement honorifique, a créé la surprise en annonçant sa démission le 31 mai 2010 après avoir déclenché un tollé politique suite à ses déclarations légitimant la participation accrue de son pays aux combats en Afghanistan par des raisons économiques. Il a jugé dans une déclaration à une radio cet effort « nécessaire pour maintenir nos intérêts, comme par exemple libérer les routes commerciales ou prévenir des instabilités régionales qui pourraient avoir un impact négatif sur nos perspectives en termes de commerce, d'emplois et de revenus » allemand sont déplacés, car ils suscitent méprise et malentendu. De fait, il est compréhensible qu'Horst Köhler, qui occupe une fonction symbolisant l'image de l'Allemagne, démissionne de son poste honorifique après les violentes réactions contre ses propos controversées sur une importante mission de son pays à l'étranger.

5. L. Mandeville, "Barack Obama peine à imposer sa doctrine", Le Figaro, 2/3/2010 : "Spécialistes du Pentagone et de la Maison Blanche ferraillent encore sur plusieurs points cruciaux de doctrine. Ainsi l'administration Obama devrait-elle refuser de souscrire au "non-emploi en premier" de l'arme nucléaire pour rester dans l'ambiguïté actuelle, contrairement à ce que les partisans du désarmement nucléaire espéraient, à en croire le quotidien new-yorkais".

6. J. Grapin, J.-P. Pinatel, op. cit., p. 256 et ssq.

samedi, 05 février 2011

Teilung des Sudans - Eine Tragödie ohne Ende?

Teilung des Sudans – Eine Tragödie ohne Ende?

Wolfgang Effenberger

Der Südsudan strebt die Unabhängigkeit vom Zentralstaat an. Er verfügt über große Ölreserven, doch nur der Norden hat die Raffinerien und die dafür notwendige Infrastruktur. Streit scheint vorprogrammiert. Erstaunlicherweise steht die Selbstständigkeit des Südsudans im Weißen Haus ganz oben auf der Tagesordnung. Außenministerin Hillary Clinton forderte den sudanesischen Vizepräsidenten Ali Osman Taha und den politischen Führer des autonomen Südens, Salva Kiir, in Telefonaten auf, das Friedensabkommen umzusetzen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/wol...

lundi, 31 janvier 2011

Militaire topman NAVO: het tij is gekeerd in Afghanistan

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Militaire topman Navo: het tij is gekeerd in Afghanistan

       
BRUSSEL 27/01 (BELGA) = Het hoofd van het militair comité bij de NAVO, de admiraal Giampaolo Di Paola, heeft donderdag alles uit de kast gehaald om te onderstrepen dat de internationale troepenmacht in Afghanistan de bovenhand gehaald heeft op de Taliban. "Ik geloof oprecht dat het tij gekeerd is", benadrukte hij na een ontmoeting van de NAVO-stafchefs. De Italiaan schuwde zelfs een vergelijking met de Tweede Wereldoorlog niet.

Tijdens een NAVO-top eind vorig jaar beslisten de NAVO-leiders om de macht in Afghanistan tegen 2014 volledig aan de Afghaanse autoriteiten over te dragen. Deze lente nog moet die evolutie zich al in enkele provincies voltrekken. Niet alle waarnemers geloven echter dat
de Afghaanse veiligheidstroepen daar klaar voor zullen zijn. 

"Het zal niet makkelijk zijn. Het wordt echt geen wandeling door het park, maar de situatie gaat wel degelijk vooruit", onderstreepte Di Paola. Om ook de twijfelaars over de streep te trekken, trok hij vervolgens een vergelijking met de Tweede Wereldoorlog. Zo was de  lucht in 1942 nog "erg donker" voor de geallieerden en werd ook nadien nog hevig gevochten, maar de eindoverwinning werd wel degelijk binnengehaald.

Vraag blijft echter of een vergelijking met het Vietnam van 1957 niet beter opgaat. De eigen veiligheidstroepen vielen toen in nauwelijks enkele weken volledig uit mekaar, waarop een jarenlange uitzichtloze oorlog volgde. "Die parallel gaat niet op", oordeelde admiraal Di Paola. De grote internationale inzet en de intensieve opleiding van Afghaanse troepen maken volgens hem het verschil. KNS/RBR/

dimanche, 30 janvier 2011

Afghanistan - "Totenacker der Imperien"?

Afghanistan – »Totenacker der Imperien«?

Gedanken zur Verlängerung des Afghanistan-Mandates

Wolfgang Effenberger

 

Mitte Januar 2011 beschloss die Bundesregierung, das Afghanistan-Mandat vorerst bis Ende 2011 zu verlängern. Dann soll der Abzug beginnen, sofern »die Lage dies erlaubt«. Weder dürften die verbleibenden deutschen Soldaten, noch die »Nachhaltigkeit des Übergabeprozesses» gefährdet werden. Die seit Jahren übliche Rhetorik, die üblichen Worthülsen. Diese schwammigen Formulierungen sind eine Farce. Viel wichtiger als der Beginn eines scheinbaren Abzuges – man erinnere sich an den »Abzug« der US-Kampfbrigaden im Irak im Sommer 2010 (1) – ist das definitive Ende mit der Rückkehr des letzten Soldaten. Diesen Mut hat die Sowjetunion bewiesen und den Rückzug aus Afghanistan fest terminiert: Am 15. Februar 1989 überquerte mit General Boris Gromow der letzte sowjetische Soldat die Termez-Brücke am Grenzfluss Amu Darja.

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Quelle: http://gesellschaftsspiegel.de/wordpress/wp-content/uploads/brz158.jpg