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dimanche, 30 janvier 2011

La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

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La balcanizzazione del Sudan: il ridisegno del Medio Oriente e Africa del Nord

Il Sudan è una nazione diversa e un paese che rappresenta la pluralità dell’Africa delle varie tribù, clan, etnie, gruppi religiosi. Tuttavia l’unità del Sudan è in questione, mentre si parla di nazioni unificanti e del giorno della creazione degli Stati Uniti d’Africa attraverso l’Unione africana.
La ribalta è per il referendum del gennaio 2011 in Sud Sudan. L’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente che sostiene la separazione del Sudan meridionale dal resto del Sudan.

La balcanizzazione del Sudan è quello che è veramente in gioco. Per anni i dirigenti ed i funzionari del Sud Sudan sono stati sostenuti dagli USA e dall’Unione europea.

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La politicamente motivata demonizzazione del Sudan

 

Una campagna di demonizzazione importante è in corso contro il Sudan e il suo governo. È vero, il governo sudanese di Khartoum ha avuto un record negativo per quanto riguarda i diritti umani e la corruzione dello stato, e nulla poteva giustificare questo.

Per quanto riguarda il Sudan, condanne selettive o mirate sono state attuate. Ci si dovrebbe, tuttavia, chiedere perché la leadership sudanese è presa di mira dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, mentre la situazione dei diritti umani in diversi clienti sponsorizzati dagli Stati Uniti tra cui l’Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, e l’Etiopia sono casualmente ignorate.

Khartoum è stato diffamata come una oligarchia autocratica colpevole di genocidio mirato sia in Darfur e Sud Sudan. Questa attenzione deliberata sullo spargimento di sangue e l’instabilità nel Darfur e nel Sud Sudan è politica e motivata dai legami di Khartoum con gli interessi petroliferi cinesi.

Il Sudan fornisce alla Cina una notevole quantità di petrolio. La rivalità geo-politica tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle forniture energetiche mondiali e africane, è il vero motivo per il castigo del Sudan e il forte sostegno dimostrato dagli Stati Uniti, dall’Unione europea e dagli ufficiali israeliani alla secessione nel Sud Sudan.

E’ in questo contesto che gli interessi cinesi sono stati attaccati. Ciò include l’attacco dell’ottobre 2006 alla Greater Nile Petroleum Company di Defra, Kordofan, da parte della milizia del Justice and Equality Movement (JEM).

Distorcere le violenze in Sudan

Mentre c’è una crisi umanitaria in Darfur e un forte aumento del nazionalismo regionale nel Sudan meridionale, le cause profonde del conflitto sono stati manipolate e distorte. Le cause di fondo della crisi umanitaria in Darfur e il regionalismo nel Sud Sudan sono intimamente collegate a interessi strategici ed economici. Se non altro, l’illegalità e i problemi economici sono i veri problemi, che sono stati alimentati da forze esterne.

Direttamente o tramite proxy (pedine) in Africa, gli Stati Uniti, l’Unione europea e Israele sono i principali architetti degli scontri e dell’instabilità sia in Darfur che in Sud Sudan. Queste potenze straniere hanno finanziato, addestrato e armato le milizie e le forze di opposizione al governo sudanese in Sudan. Esse scaricano la colpa sulle spalle di Khartoum per qualsiasi violenza, mentre esse stesse alimentano i conflitti al fine di controllare le risorse energetiche del Sudan. La divisione del Sudan in diversi stati è parte di questo obiettivo. Il Supporto al JEM, al Sud Sudan Liberation Army (SSLA) e alle altre milizie che si oppongono al governo sudanese da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e d’Israele è orientato al raggiungimento dell’obiettivo di dividere il Sudan.

E’ anche un caso che per anni, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, e l’intera UE, con la scusa dell’umanitarismo stiano spingendo al dispiegamento di truppe straniere in Sudan. Hanno attivamente sostenuto il dispiegamento di truppe NATO in Sudan sotto la copertura di un mandato di peacekeeping delle Nazioni Unite.

Si tratta della rievocazione delle stesse modalità utilizzate dagli Stati Uniti e dall’Unione europea in altre regioni, in cui i paesi sono stati suddivisi a livello informale o formale e le loro economie ristrutturate dai proxy installati da governi stranieri, sotto la presenza di truppe straniere. Questo è quello che è successo nella ex Jugoslavia (attraverso la creazione di numerose nuove repubbliche) e nell’Iraq occupato dagli anglo-statunitensi (attraverso la balcanizzazione soft tramite una forma di federalismo calcolato, volto a definire uno stato debole e de-centralizzato). Le truppe straniere e una presenza straniera hanno fornito la cortina per lo smantellamento dello stato e l’acquisizione estera delle infrastrutture, risorse ed economie pubbliche.

La questione dell’identità in Sudan

Mentre lo stato sudanese è stato dipinto come oppressivo nei confronti del popolo del Sud Sudan, va osservato che sia il referendum che la struttura di condivisione del potere del governo sudanese, rappresentano qualcos’altro. L’accordo per la condivisione del potere a Khartoum tra Omar Al-Basher, il presidente del Sudan, include il SPLM. Il leader del SPLM, Salva Kiir Mayardit, è il primo vicepresidente del Sudan e  presidente del Sud Sudan.

La questione etnica è stata anche portata alla ribalta dal nazionalismo regionale o etno-regionale che è stato coltivato in Sud Sudan. La scissione in Sudan tra i cosiddetti arabi sudanesi e i cosiddetti africani sudanesi è stata presentata al mondo come la forza principale del nazionalismo regionale che motivatamente chiede di fondare uno Stato in Sud Sudan. Nel corso degli anni, questa auto-differenziazione è stata diffusa e socializzata nella psiche collettiva delle popolazioni del Sud Sudan.

Eppure, le differenze tra i cosiddetti sudanesi arabi e i cosiddetti africani sudanesi non sono un granché. L’identità araba dei cosiddetti arabi sudanesi si basa principalmente sull’uso della loro lingua araba. Supponiamo anche che le identità etniche sudanesi sono totalmente separate. E’ ancora noto, in Sudan, che entrambi i gruppi sono molto eterogenei. L’altra differenza tra il Sud Sudan e il resto del Sudan è che l’Islam predomina nel resto del Sudan e non in Sud Sudan. Entrambi i gruppi sono ancora profondamente legati l’uno all’altro, tranne che per un senso di auto-identificazione, che è ben nel loro diritto avere. Eppure, sono proprio queste diverse identità su cui si è giocato da parte dei leader locali e delle potenze straniere.

La negligenza della popolazione locale di diverse regioni, da parte delle élites del Sudan, è la causa principale dell’ansia o dell’animosità realmente motivate tra le persone nel Sud Sudan e il governo di Khartoum, e non le differenze tra i cosiddetti arabi e i cosiddetti africani sudanesi.
Il favoritismo regionale ha operato in Sud Sudan.

La questione è anche aggravata dalla classe sociale. Il popolo del Sud Sudan crede che la sua condizione economica e tenore di vita migliorerà se formerà una nuova repubblica. Il governo di Khartoum e i sudanesi non-meridionali sono stati usati come capri espiatori per le miserie economiche del popolo del Sud Sudan e della loro percezione della povertà relativa da parte della leadership locale del Sud Sudan. In realtà, i funzionari locali del Sudan meridionale non miglioreranno le condizioni di vita delle popolazioni del Sud Sudan, ma manterranno uno status quo cleptocratico. [1]

Il progetto a lungo termine per balcanizzare il Sudan e i suoi collegamenti con il mondo arabo

In realtà, il progetto di balcanizzazione del Sudan è in corso dalla fine del dominio coloniale britannico nel Sudan anglo-egiziano. Sudan ed Egitto sono stati un paese solo per molti differenti periodi. Sia l’Egitto che il Sudan sono stati anche un paese, in pratica fino al 1956.

Fino alla indipendenza del Sudan, c’era un forte movimento per mantenere l’Egitto e il Sudan uniti come un unico stato arabo, che stava lottando contro gli interessi britannici. Londra, tuttavia, alimentò il regionalismo sudanese contro l’Egitto, e nello stesso modo il regionalismo è al lavoro nel Sud Sudan contro il resto del Sudan. Il governo egiziano è stato raffigurato nello stesso modo di come lo è oggi Khartoum. Gli egiziani sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi, come i sudanesi non-meridionali sono stati dipinti come sfruttatori dei sudanesi del sud.

Dopo l’invasione britannica di Egitto e Sudan, gli inglesi riuscirono anche a mantenere le loro truppe di stanza in Sudan. Anche mentre lavoravano per dividere il Sudan dall’Egitto, i britannici hanno lavorato per creare differenziazioni interne tra il Sud Sudan e il resto del Sudan. Ciò è stato fatto attraverso il condominio anglo-egiziano del 1899-1956, che costrinse l’Egitto a condividere il Sudan con la Gran Bretagna dopo le rivolte mahdiste. Alla fine, il governo egiziano avrebbe rifiutato di riconoscere il condominio anglo-egiziano come legale. Il Cairo avrebbe continuamente chiesto agli inglesi di porre fine alla loro occupazione militare illegale del Sudan e di smettere di impedire la re-integrazione di Egitto e Sudan, ma gli inglesi si rifiuteranno.

Sarà sotto la presenza delle truppe britanniche che il Sudan si sarebbe dichiarato indipendente. Questo è ciò che porterà alla nascita del Sudan come una stato arabo e africano separato dall’Egitto. Così, il processo di balcanizzazione è iniziato con la divisione del Sudan dall’Egitto.

Il Piano Yinon al lavoro in Sudan e nel Medio Oriente

La balcanizzazione del Sudan è legato anche al Piano Yinon, che è la continuazione dello stratagemma britannico. L’obiettivo strategico del Piano Yinon è quello di garantire la superiorità israeliana attraverso la balcanizzazione del Medio Oriente e degli stati arabi, in stati più piccoli e più deboli. E’ in questo contesto che Israele è stato profondamente coinvolto in Sudan. Gli strateghi israeliani videro l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo. È per questo che l’Iraq è stato delineato come il pezzo centrale per la balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo.The Atlantic, in questo contesto, ha pubblicato un articolo nel 2008 di Jeffrey Goldberg “Dopo l’Iraq: sarà così il Medio Oriente?” [2] In questo articolo di Goldberg, una mappa del Medio Oriente è stato presentato, che seguiva da vicino lo schema del Piano Yinon e la mappa di un futuro in Medio Oriente, presentato dal Tenente-colonnello (in pensione) Ralph Peters, nell’Armed Forces Journal delle forze armate degli Stati Uniti, nel 2006.

Non è neanche un caso che da un Iraq diviso a un Sudan diviso, comparivano sulla mappa. Libano, Iran, Turchia, Siria, Egitto, Somalia, Pakistan e Afghanistan erano presentati anch’esse come nazioni divise. Importante, nell’Africa orientale nella mappa, illustrata da Holly Lindem per l’articolo di Goldberg, l’Eritrea è occupata dall’Etiopia, un alleato degli Stati Uniti e d’Israele, e la Somalia è divisa in Somaliland, Puntland, e una più piccola Somalia.

In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, una per i musulmani sciiti e l’altra per i musulmani sunniti. Ciò è stato ottenuto attraverso la balcanizzazione morbida del federalismo nell’Iraq, che ha permesso al Governo regionale del Kurdistan di negoziare con le compagnie petrolifere straniere per conto suo. Il primo passo verso l’istituzione di ciò fu la guerra tra Iraq e Iran, che era discussa nel Piano Yinon.

In Libano, Israele ha lavorato per esasperare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane, nonché i drusi. La divisione del Libano in diversi stati è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono di dividere il Libano e la Siria in diversi stati sulla base dall’identità religiosa e settaria per i musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi.

A questo proposito, l’assassinio di Hariri e il Tribunale speciale per il Libano (STL) giocano a favore di Israele, creando divisioni interne nel Libano e alimentando il settarismo politico. Questo è il motivo per cui Tel Aviv è stato assaiu favorevole al TSL e l’appoggia assai attivamente. In un chiaro segno della natura politicizzata del TSL e dei suoi legami con la geo-politica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno anche dato al TSL milioni di dollari.

I legami tra gli attacchi contro i copti egiziani e il referendum in Sud Sudan

Dall’Iraq all’Egitto, i cristiani in Medio Oriente sono sotto attacco, mentre le tensioni tra musulmani sciiti e sunniti sono alimentate. L’attacco a una chiesa copta di Alessandria, il 1° gennaio 2011, o le successive proteste e rivolte copte non dovrebbero essere considerati isolatamente. [3] Né la furia successiva dei cristiani copti espressasi nei confronti dei musulmani e del governo egiziano. Questi attacchi contro i cristiani sono legati ai più ampi obiettivi geo-politica di Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e NATO sul Medio Oriente e sul mondo arabo.

Il Piano Yinon precisa che se l’Egitto viene  diviso, il Sudan e la Libia sarebbero anch’esse balcanizzate e indebolite. In questo contesto, vi è un legame tra il Sudan e l’Egitto. Secondo il Piano Yinon, i copti o cristiani d’Egitto, che sono una minoranza, sono la chiave per la balcanizzazione degli stati arabi del Nord Africa. Così, secondo il piano Yinon, la creazione di uno stato copto in Egitto (sud Egitto) e le tensioni cristiani-musulmani in Egitto, sono dei passi essenziali per balcanizzare il Sudan e il Nord Africa.

Gli attacchi ai cristiani in Medio Oriente sono parte delle operazioni di intelligence destinata a dividere il Medio Oriente e il Nord Africa. La tempistica degli attacchi crescenti ai cristiani copti in Egitto e il processo per il referendum nel Sud Sudan, non è una coincidenza. Gli eventi in Sudan ed Egitto sono collegati l’uno all’altro e sono parte del progetto per balcanizzare il mondo arabo e il Medio Oriente. Essi devono anche essere studiati in collaborazione con il Piano Yinon e con gli eventi in Libano e in Iraq, nonché in relazione agli sforzi per creare un divario sunniti-sciiti.

Le connessioni esterne di SSLA, SPLM e milizie nel Darfur

Come nel caso del Sudan, l’interferenza o l’intervento sono stati usati per giustificare l’oppressione dell’opposizione interna. Nonostante la  corruzione, Khartoum è stata sotto assedio per aver rifiutato di essere semplicemente un proxy. Il Sudan s’è giustificato sospettando le truppe straniere e accusando Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele di erodere la solidarietà nazionale del Sudan.  Per esempio, Israele ha inviato armi ai gruppi di opposizione e ai movimenti separatisti in Sudan. Ciò è stato fatto attraverso l’Etiopia per anni, fino a quando l’Eritrea è diventata indipendente dall’Etiopia, che ha fatto perdere all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso, e fatto sviluppare cattive relazioni tra gli etiopi e gli eritrei. In seguito le armi israeliane sono entrate nel Sud Sudan dal Kenya. Dal Sud Sudan, il People’s Liberation Movement del Sud Sudan (SPLM), che è il braccio politico del SSLA, avrebbe ceduto le armi alle milizie nel Darfur. I governi di Etiopia e Kenya, così come l’Uganda People’s Defence Force(UPDF), hanno anche lavorato a stretto contatto con Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele in Africa orientale.

Il grado d’influenza israeliana nell’opposizione sudanese e nei gruppi separatisti è significativo. Il SPLM ha forti legami con Israele e suoi membri e sostenitori regolarmente visitano Israele. È grazie a questo, che Khartoum ha capitolato e ha rimosso le restrizioni ai passaporti sudanesi per le visita in Israele, alla fine del 2009, per soddisfare il SPLM. [4] Salva Kiir Mayardit ha anche detto che il Sud Sudan riconoscerà Israele quando sarà separato dal Sudan.

The Sudan Tribune ha riferito, il 5 marzo 2008, che gruppi separatisti in Darfur e nel Sudan meridionale aveva uffici in Israele:
I sostenitori di Israele [del Movimento di liberazione del Popolo del Sudan ] hanno annunciato la costituzione della sede in Israele del Sudan People’s Liberation Movement, ha detto oggi un comunicato stampa. 
Dopo consultazioni con i leader della SPLM a Juba, i sostenitori del SPLM in Israele hanno deciso di istituire l’ufficio del SPLM in Israele”. Detto [sic.] un comunicato ricevuto via email da Tel Aviv, firmato dalla segreteria dell’SLMP in Israele. La dichiarazione ha detto che l’ufficio avrebbe  promosso le politiche e la visione del SPLM nella regione. Ha inoltre aggiunto che, in conformità con il Comprehensive Peace Agreement, lo SPLM ha il diritto di aprire uffici in qualsiasi paese, compreso Israele. Ha inoltre segnalato che ci sono circa 400 sostenitori dell’SPLM in Israele. Il leader dei ribelli del Darfur, Abdel Wahid al-Nur ha detto la scorsa settimana, che ha aperto un ufficio a Tel Aviv. [5]”

Il dirottamento del referendum del 2011 in Sud Sudan

Cosa è successo al sogno di un’Africa unita o di un mondo arabo unito? Il Panarabismo, un movimento di unità di tutti i popoli di lingua araba, ha avuto pesanti perdite, come nell’unità africana. Il mondo arabo e l’Africa sono stati costantemente balcanizzati.

La secessione e balcanizzazione in Africa orientale e nel mondo arabo sono nei piani degli Stati Uniti, d’Israele e della NATO.

L’insurrezione della SSLA è stata segretamente sostenuta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele dagli anni ’80. La formazione di un nuovo stato in Sudan non è destinata a servire gli interessi del popolo del Sud Sudan. Fa parte di un più ampio programma geo-strategico mirato al controllo del Nord Africa e del Medio Oriente.

Il conseguente processo di “democratizzazione” che porta fino al referendum del Gennaio 2011, serve gli interessi delle compagnie petrolifere anglo-statunitensi e alla rivalità contro la Cina. Questo avviene a detrimento della vera sovranità nazionale in Sud Sudan.

Mahdi Darius Nazemroaya è un ricercatore associato del Centre for Research on Globalization (CRG).

NOTE
[1] una cleptocrazia è un governo e/o stato che lavora per proteggere, estendere, approfondire, continuare e consolidare la ricchezza della classe dirigente.

[2] Jeffrey Goldberg, “After Iraq: What Will The Middle East Look Like?” The Atlantic, gennaio/febbraio 2008.

[3] William Maclean, “Copts on global Christmas alert after Egypt bombing”, Reuters, 5 gennaio 2011.
[4] “Sudan removes Israel travel ban from new passport”, Sudan Tribune, 3 ottobre 2009: 


[5] “Sudan’s SPLM reportedly opens an office in Israel – statement”, Sudan Tribune, 5 marzo 2008:

http://www.sudantribune.com/spip.php?page=imprimable&....

 

 

 

ALLEGATO: La mappa del “Nuovo Medio Oriente” del The Atlantic
Nota: la seguente mappa è stata disegnata da Holly Lindem per un articolo di Jeffrey Goldberg. E’ stata pubblicata su The Atlantic di gennaio/febbraio 2008. (Copyright: The Atlantic, 2008). 

Fonte: Global Research 

http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=22736 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.sudantribune.com/spip.php?iframe&page=impr...

 

 

 

di Mahdi Darius Nazemroaya - 27/01/2011

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

 

 

 

jeudi, 27 janvier 2011

Der Iran entsendet Kriegsschiffe ins Mittelmeer und ins Rote Meer

Der Iran entsendet Kriegsschiffe ins Mittelmeer und ins Rote Meer

Redaktion

 

Nur 24 Stunden nach dem Scheitern der Verhandlungen mit den sechs Weltmächten über das iranische Atomprogramm in Istanbul kündigte der Iran am vergangenen Sonntag an, einen Marineverband durch den Suezkanal zu einem Übungs- und Aufklärungseinsatz ins Mittelmeer und das Rote Meer zu entsenden. Der Verband soll aus drei bis vier Schiffen bestehen, darunter ein Zerstörer aus eigener Produktion. Quellen aus Militärkreisen erklären: Ein Teil des Verbandes soll an der Süd- und Westküste Israels eingesetzt werden.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/red...

 

 

mardi, 25 janvier 2011

Viel Blut für wenig Öl

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Viel Blut für wenig Öl

 Absurde Folge des Irakkriegs: Peking bekommt Zugriff auf irakisches Öl – Lange Gesichter in Washington

Ex.: http://www.preussische-allgemeine.de/

Außer Spesen nichts gewesen – das ist angesichts von mehr als 4400 eigenen Gefallenen noch eine milde Umschreibung der Bilanz des Irakkrieges aus US-amerikanischer Sicht. Nicht nur die islamistische Propaganda auf der ganzen Welt und das Regime in Teheran wurden gestärkt. Peking, der neue Hauptrivale Washingtons, bekam Zugriff auf Ölressourcen am Golf.

Es ist eine späte Ohrfeige für Amerikas Ex-Präsident George W. Bush: Mit dem Politiker und Hassprediger des Irak, Muktada al-Sadr, zieht dieser Tage ein erklärter und einflussreicher Erzfeind der Vereinigten Staaten in die irakische Regierung ein. Im Klartext bedeutet das, al-Sadr mit seinen engen Beziehungen zum Nachbarn Iran, wo er bis zu seiner im Irak gefeierten Rückkehr vor wenigen Tagen vier Jahre im Exil gelebt hat, wird alles daran setzen, dass die USA im Zweistromland keinen Fuß mehr auf den Boden bekommen.
Das Ziel des von Bush 2003 mit falschen Anschuldigungen angezettelten Golfkrieges, die großen Öl-Ressourcen des Landes militärisch zumindest vor einem Zugriff Dritter zu sichern, kann also nicht erreicht werden. Zudem wollte Bush verhindern, dass Saddams Gedanke, das Ölgeschäft vom Dollar abzukoppeln und auch auf den Euro zu stützen, Wirklichkeit werden konnte. Es gab Experten, die einen Wertverlust des Dollars von mehr als einem Drittel erwartet hatten, falls der Irak und weitere Ölnationen diesen Schritt gewagt hätten.
Auch die Zusammenarbeit der US-Ölmultis und der britischen BP mit den Militärs schon bei den Kriegsvorbereitungen hatte in diesem „Monopoly“ nichts genutzt. Von den angeblichen Massenvernichtungswaffen Saddams wurde nicht ein einziges Stück gefunden. Außer Milliarden-Spesen und noch höheren Schulden bei den Chinesen ist also nichts gewesen.
Die westlichen Multis rechneten nach dem Sturz Saddams schon für 2008 mit dem ganzen Kuchen. Die amerikanischen Truppen gehen, die amerikanischen Firmen kommen, so wurde damals erwaret. Doch diese Hoffnung platzte wie eine Seifenblase: Die feierliche Unterzeichnung der entsprechenden Vorverträge war bereits für Anfang Juni 2008 vorgesehen. Doch es kam anders. Ölminister Hussein al Scharistan verstand sich nicht als Glied einer Marionettenregierung an den Fäden des Weißen Hauses und ließ den Deal platzen, weil die Konzerne auf Öllieferungen als Bezahlung pochten. Scharistan kurz und bündig: „Wir teilen unser Öl nicht.“
Ironischerweise ist es nun die Volksrepublik China, deren Öl-Manager sich im Irak einnisten. Für den Iran war der Sturz Husseins in dem zu rund 60 Prozent von Schiiten bewohnten Irak in politischer Hinsicht wie ein Lottogewinn. Doch in wirtschaftlicher Hinsicht, darüber sind sich die Strategen des Ölbusiness einig, ist China der eigentliche Gewinner der amerikanischen Invasion. Die staatliche China National Petroleum Corporation (CNPC) der Volksrepublik war der erste Nutznießer der Post-Saddam-Epoche. Auch die malaysische Petronas  sowie Koreaner und British Petroleum erhielten Zuschläge. Die russischen Konzerne Lukoil und Gazprom sowie die norwegische Stat-oil ergatterten sich nach dem Abzug der US-Truppen den fettesten Happen, West Quarna, das größte Ölfeld des Irak. 15 weitere ausländische Bieter, darunter schon 2009 die italienische ENI, 2010 Shell und Angolas Sonangol, kamen zum Zug.
US-Firmen rangieren unter ferner liefen. Eine Bohrung wird Exxon Mobil niederbringen, Occidental ist an einem Konsortium beteiligt. Die bereits erschlossenen Felder werden von zwei Staatsunternehmen bewirtschaftet. 
Der Welt zweitgrößte und weltweit operierende Servicegesellschaft im Ölgeschäft, die US-amerikanische Halliburton Company im texanischen Huston, hatte schon fünf Monate vor dem Irakkrieg mit Vizepräsident Dick Cheney einen streng geheim gehaltenen Handel abgeschlossen. Die Vereinbarung wurde in den USA als „Sweetheart-Deal“ bezeichnet. Cheney war wegen einer fünfjährigen Amtszeit als „Chef Executive“ der Firma eng mit Halliburton verbandelt. Demnach war vorgesehen, dass das Unternehmen über seine Tochterfirma Kellog, Brown & Root die komplette Kontrolle über die irakischen Ölfelder erhalten sollte. Durch einen geschickten Schachzug im Zusammenwirken mit der italienischen ENI konnte sich Halliburton in die neue Ölfeldverteilung einklemmen. Sie wird bei 20 Bohrungen im wichtigen Ölfeld Zubair im Südirak ihr Wissen einbringen. Es ist, wie Experten konstatieren, ein Multi-Millionen-Deal. Ein weiteres Abkommen wurde mit der holländischen Shell für die 15 Quellen des Majnoon-Feld geschlossen – Wert des Kontrakts: 150 Millionen Dollar. Die 1919 gegründete Gesellschaft operiert in 70 Ländern und hat etwa 55000 Beschäftigte.
Die seinerzeitige Geheimabsprache mit Cheney liefert im übrigen ein zusätzliches Argument für die Absichten der Bush-Regierung, die Ölfelder mit Gewalt an sich zu bringen und dies notfalls mit einem Lügenkomplott von der Uno absegnen zu lassen.
Die USA, die sich nach dem Sieg im kurzen Golfkrieg ein mehr oder weniger uneingeschränktes Schalten und Walten erhofft hatten, um sich im Nahen Osten „das Herzblut der modernen Wirtschaft“ zu sichern, sind schon deswegen verschnupft, weil die jetzt vergebenen Lizenzen keine Gewinnbeteiligung, sondern nur einen Bonus je gepumpten Fasses vorsehen. Das ist ihnen zu wenig. Derzeit liegt die Fördermenge bei 2,3 Millionen Fass pro Tag – weniger als zu Zeiten des gestürzten Diktators Saddam Hussein. Sie soll baldmöglichst auf zwölf Millionen steigen. Nach Saudi Arabien und Kanada steht der Irak mit geschätzten 137 Milliarden Barrel an dritter Stelle bei den erkundeten Ölreserven.
 

Joachim Feyerabend

 

Veröffentlicht am 12.01.2011

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Saudi-Arabien will Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen

Udo Ulfkotte

 

Weil weder Israel noch die Vereinigten Staaten die Fortführung des iranischen Atomwaffenprogramms mit einem Militärschlag verhindert haben, will Saudi-Arabien nun seine Atomsprengköpfe aus Pakistan abziehen. Die Saudis haben auf dem südlich von Riad gelegenen geheimen unterirdischen Militärgelände von al-Sulaiyil alles für die Überführung ihrer Atomsprengköpfe vorbereiten lassen. Dort gibt es Tunnel für pakistanische Ghauri-II-Raketen, die eine Reichweite von 2.300 Kilometern haben. Saudi-Arabien ist seit vielen Jahren schon militärische Nuklearmacht, hatte die eigenen Waffen aber geschickt in Pakistan gelagert. So konnte man behaupten, nicht zu den Atomwaffenstaaten zu gehören.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo...

 

 

lundi, 24 janvier 2011

Ayméric Chauprade: géopolitique russe


Ayméric Chauprade:

Géopolitique russe

samedi, 22 janvier 2011

Vaarwel Amerika !

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Wereldorde -  De zon komt op in het Oosten

Vaarwel Amerika

Door: Marcel Hulspas & Jan-Hein Strop

Ex: http://www.depers.nl/

Zestig jaar lang was Europa militair en economisch nauw verbonden met de Verenigde Staten. Die verbintenis heeft haar tijd gehad. Europa moet de VS loslaten. Het liefst zo snel mogelijk.

Toen Winston Churchill in 1941 de Amerikaanse president Roosevelt ontmoette, om Amerikaanse steun te vragen in de strijd tegen Hitler-Duitsland, zou hij tegen Roosevelt hebben gezegd: ‘Give us the tools and we’ll finish the job.’ En dat is wat Roosevelt deed. Washington redde het failliete Groot-Brittannië en de VS werden ‘het arsenaal van de democratie’. Direct na de oorlog vormde het Amerikaanse leger de enige garantie tegen een Russische bezetting, en dankzij de miljarden dollars uit het Marshallplan kon West-Europa zich daarna economisch herstellen. Europa is de VS buitengewoon veel verschuldigd.

Maar nu, zestig jaar later, wordt het hoog tijd dat Europa de Verenigde Staten vaarwel zegt. Dat we de blik niet langer westwaarts richten, maar oostwaarts. De VS kampen met ernstige problemen, in binnen- en buitenland, in de economie én in de politiek. De American Century loopt ten einde. En als Europa wil overleven, moet het de banden snel verbreken, of in ieder geval veel losser maken.

Amerika’s grootste probleem is een intern probleem. Het alom geroemde regeringssysteem functioneert al geruime tijd niet meer. De volstrekt vergiftigde partijpolitieke tegenstellingen zorgen ervoor dat het Congres en het Witte Huis elkaar al zo’n twintig jaar voor de voeten lopen, en niet in staat zijn om hoogst noodzakelijke wetgeving door te voeren. Het landsbestuur gaat kapot aan partijpolitieke tegenstellingen.

Onoplosbaar probleem nummer één is het begrotingstekort van 1.300 miljard dollar, waardoor de staatsschuld in moordend tempo toeneemt. Minister Clinton van Buitenlandse Zaken bestempelde het begrotingsprobleem als ‘de grootste bedreiging voor de nationale veiligheid’, maar een weg uit het financiële moeras is verder weg dan ooit.

Keihard bezuinigen: not

Waar landen als Ierland, Griekenland en Portugal in staat zijn tot rigoureuze bezuinigingen, tegen alle publieke verontwaardiging in, staat het machtigste land ter wereld machteloos. De Congressional Budget Office voorspelt dat de rentelasten, bij voortzetting van het huidige beleid, tot 2020 zullen verdriedubbelen. De renteafdracht, als percentage van de belastinginkomsten, neemt toe van 9 procent nu tot 20 procent in 2020 en tot 58 procent in 2040.

Er blijft zo weinig geld over voor beleid, zodat één ding onvermijdelijk is: keihard bezuinigen. Maar snijden in populaire programma’s als Medicare, Medicaid en Social Security is net zo moeilijk als het terugdringen van het heilig verklaarde wapenbezit. Wat defensie betreft (naar schatting 700 miljard per jaar, en stijgende) bleek een uiterst bescheiden voorstel van minister Gates van Defensie om de stijging een beetje in te tomen al voldoende voor heftig verzet.

Extra belastingen om het tekort aan te pakken staan gelijk aan politieke zelfmoord. Sterker, de Republikeinen zijn vast van plan om het begrotingstekort in stand te houden. Onder de oude begrotingsregels (‘pay-as-you-go’) was een toename van bestedingen alleen toegestaan als er tegelijkertijd voor hetzelfde bedrag gesneden werd of extra inkomsten werden gegenereerd.

Maar vorige week, bij het aantreden van het nieuwe Huis van Afgevaardigden, heeft de Republikeinse meerderheid nieuwe begrotingsregels ingesteld, die een uitzondering maken voor het verlagen van de belastingen. Tax cuts mogen dus eindeloos gefinancierd worden zonder te bezuinigen. Hiermee hoopt de partij de belastingverlaging voor de allerrijksten, die in december tijdelijk is verlengd, straks permanent te kunnen maken. Met de tijdelijke verlaging wordt in vijf jaar al 900 miljard dollar toegevoegd aan het tekort.

Normaal gesproken wordt fiscaal onverantwoordelijke politiek bestraft met oplopende rentes op staatsobligaties. Maar de VS genieten al zestig jaar het privilege dat ze ’s werelds reservemunt drukken, en dat ze de geldpersen onbeperkt kunnen laten draaien. Daarmee koopt de Amerikaanse Centrale Bank haar eigen staatsobligaties op om de rente laag te houden, en verder (maar dat zal het nooit toegeven) zorgt dat drukken ervoor dat de waarde van de dollar daalt, wat de VS weer competitief maken op de wereldmarkt. Zo moet de Amerikaanse economie uit het slop worden getrokken. En snel.

Het experimentele monetaire beleid jaagt de wereld schrik aan. Veel landen, en vooral China, zitten met enorme dollarreserves (2,8 biljoen dollar) en zijn bang dat die reserves straks niets meer waard zijn. Als de dollar ineenzakt vóórdat de Amerikaanse economie opkrabbelt, brokkelt hun vertrouwen in de Amerikaanse kredietwaardigheid in hoog tempo af. Als dat gebeurt, is de grootste Amerikaanse crisis aller tijden een feit: de VS krijgen hun schulden alleen nog gefinancierd door nog meer dollars te drukken. Hyperinflatie is het waarschijnlijke gevolg.

De aandelenmarkten vinden het prachtig. Dat er met goedkoop geld een groot risico is op nieuwe bubbels, maakt politici niets uit: hun campagnekassen lopen vol, nu op Wall Street de bankiers zich met hun hoge bonussen weer suf lachen. Amerika gelooft nog steeds in het cowboy-kapitalisme, met zijn boom-bust-cyclus, in leven op krediet.

Europa heeft pakweg dertig jaar in die mallemolen meegedraaid. Het wordt tijd om eruit te stappen.

Wijsheid uit het Oosten

We moeten uit de buurt blijven van die onvermijdelijke crash. En dat kan. De huidige crisis is al een puur westerse crisis. Het zijn de westerse economieën die stagneren. Elders groeit de economie onstuimig door. Wereldwijd groeide de economie in 2010 met 7 procent. Europa kan daar bij aansluiten. Nobelprijswinnaar Joseph Stieglitz noemde het ‘bizar’ dat de wereld nog steeds denkt in dollars. ‘Dat zou het al zijn als de VS hun economie op orde hadden. Maar nu dat niet zo is, is die situatie absurd.’ Lang hoeft dat niet te duren. Als Europa zijn interne financiële problemen heeft opgelost, wordt de euro een aantrekkelijk alternatief. Dan moet Europa die kans ook grijpen.

De Chinezen zijn behoedzame spelers op de financiële wereldmarkt. Ze beschikken over voldoende dollars om de VS op de knieën te dwingen, maar zullen er alles aan doen om een handelsoorlog te voorkomen. Maar je hoeft geen rocket scientist te zijn om te zien waar deze groeiende reus zijn groeikansen ziet. Over twintig jaar zijn niet de VS, maar is China de grootste economie ter wereld. De opkomende landen als China, India, Rusland en Brazilië zijn gezamenlijk nu al economisch machtiger dan het Westen. En de EU is op dit moment China’s grootste afzetmarkt.

Omgekeerd wordt China voor de EU als exportland steeds belangrijker. Een kwart van de Rotterdamse haven is nu al in gebruik voor de Chinese im- en export. China is dus zeer gebaat bij Europese stabiliteit, en Peking heeft diepe zakken gevuld met dollars, die voor de stabilisatie van de euro kunnen zorgen. Zij heeft beloofd met die enorme dollarreserves de eurozone bij te staan, door staatsschulden van landen als Griekenland, Spanje en Portugal op te kopen. Daarmee koopt China politieke invloed en belangen in industrieën. Japan heeft zich vorige week overigens ook bereid getoond de eurozone met serieuze bedragen te helpen.

Het Oosten heeft vertrouwen in Europa. Wat nog ontbreekt, is Europees vertrouwen in het Oosten. In de VS worden Chinese investeerders bijna het land uitgejaagd; hier in Europa worden ze met enig wantrouwen gadegeslagen. Ten onrechte. Ze zijn onze grote kans om aan de omarming van de wankele Amerikaanse reus te ontsnappen. En dat moet. Voordat dat land in de greep komt van een permanente politieke én financiële crisis.

Er is een andere uitstekende reden om zo snel mogelijk aan die Amerikaanse greep te ontkomen: energie. Ooit was Europa net zo verslaafd aan Arabische olie als de VS. Toen liepen de geopolitieke belangen parallel. Maar dat doen ze allang niet meer. Amerikanen zijn nog steeds verslaafd aan Arabische olie, en daaraan zal in de komende decennia weinig veranderen. Terwijl Europa het niet alleen veel zuiniger aan doet, maar ook dringend op zoek is naar alternatieven. Europa moet wel. Het heeft altijd voorrang gegeven aan een misschien minder spectaculaire, maar in ieder geval stabiele economische groei.

Dat vereist stabiele energieprijzen. Maar dankzij Amerikaanse militaire interventies is het Midden-Oosten één grote brandhaard, en is olie uit het Midden-Oosten buitengewoon onaantrekkelijk geworden. De voortdurende conflicten in de regio, en het daardoor oplaaiende terrorisme, zullen de VS hoogstwaarschijnlijk verleiden tot nieuwe militaire avonturen, zoals een aanval op Iran. Avonturen die de regio alleen maar nóg instabieler zullen maken. En dat zal de leverantie alleen maar nog onbetrouwbaarder maken.

Rusland

Maar er is ook een kans dat de VS zich de komende jaren juist terug zullen trekken uit de internationale politieke arena (zie kader.) Dat is goed nieuws voor het Midden-Oosten (met uitzondering van Saoedi-Arabië en Israël) en belangrijk nieuws voor de opkomende industriestaten, die op eigen kracht hun economische belangen zullen moeten gaan beschermen. Europa is geen militaire grootmacht en moet dat ook niet worden. Maar als het zijn welvaart wil behouden, zal het in dit spel een hoofdrol moeten spelen. Alweer een reden om verder te kijken dan het oude, atlantische bondgenootschap

Inzet van het beleid is een duurzaam evenwicht. Wat Europa nodig heeft, is een slimme combinatie van energieleveranciers en van energiebronnen: duurzame energiebronnen (nucleair, zon, wind, biomassa) én het flexibele, schone aardgas. Dat laatste betekent een nauwere band met Rusland. Nu al zijn er innige banden tussen Nederland en het Russische Gazprom. Gasunie neemt deel in Nordstream, de gaspijpleiding door de Oostzee. Als het om energie gaat, hebben we allang voor het Oosten gekozen. Daar groeit een compleet nieuwe markt, met compleet andere spelers. China heeft recent een overeenkomst gesloten voor de levering van Russisch gas. Ook hier gaan de belangen steeds meer parallel lopen.

Een nieuwe wereldorde

De American Century spoedt naar zijn einde. Het land is economisch in het slop geraakt en politiek volstrekt verlamd. Iedereen roept er om hervormingen, om nieuw elan, om eenheid. En al die idealen zijn verder weg dan ooit. Het land staat voor een ongekende zware, dubbele crisis. Europa moet te allen tijde voorkomen dat het daarin wordt meegesleurd. Het zal zo snel mogelijk aansluiting moeten zoeken bij de opkomende industrielanden.

Diezelfde landen zijn dringend op zoek naar een nieuwe economische wereldorde. Een systeem waarbinnen de ooit almachtige Verenigde Staten een bescheidener rol spelen, en waarin diezelfde VS niet meer in staat zullen zijn de wereldeconomie hun wil op te leggen. Economisch en financieel is de basis voor die nieuwe orde al gelegd. China wil zijn krachten bundelen met de nieuwe spelers, met energiegigant Rusland én met het rijke, gistende Europa.

Alles en iedereen staat klaar voor de Grote Sprong Oostwaarts. Iedereen, alleen de politiek huivert. We mogen hopen dat Europa zijn kans ziet, en benut, voordat het zinkende schip Amerika ons naar beneden trekt.

vendredi, 21 janvier 2011

CIA Touts Mediterranean Tsunami of Coups

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Ex.: http://tarpley.net/2011/01/16/tunisian-wikileaks-putsch/

Tunisian Wikileaks Putsch: CIA Touts Mediterranean Tsunami of Coups

Libya, Egypt, Syria, Algeria, Jordan, Italy All Targeted
US-UK Want New Puppets to Play Against Iran, China, Russia

Obama Retainers Cass Sunstein, Samantha Power, Robert Malley, International Crisis Group Implicated in Destabilizations

Webster G. Tarpley
TARPLEY.net
January 16, 2011

Washington DC, January 16, 2011 - The US intelligence community is now in a
manic fit of gloating over this weekend's successful overthrow of the
Tunisian government of President Ben Ali. The State Department and the CIA,
through media organs loyal to them, are mercilessly hyping the Tunisian
putsch of the last few days as the prototype of a new second generation of
color revolutions, postmodern coups, and US-inspired people power
destabilizations. At Foggy Bottom and Langley, feverish plans are being made
for a veritable Mediterranean tsunami designed to topple most existing
governments in the Arab world, and well beyond. The imperialist planners now
imagine that they can expect to overthrow or weaken the governments of
Libya, Egypt, Syria, Jordan, Algeria, Yemen, and perhaps others, while the
CIA's ongoing efforts to remove Italian Prime Minister Berlusconi (because
of his friendship with Putin and support for the Southstream pipeline) make
this not just an Arab, but rather a pan-Mediterranean, orgy of
destabilization.

Hunger revolution, not Jasmine revolution

Washington's imperialist planners now believe that they have successfully
refurbished their existing model of CIA color revolution or postmodern coup.
This method of liquidating governments had been losing some of its prestige
after the failure of the attempted plutocratic Cedars revolution in Lebanon,
the rollback of the hated IMF-NATO Orange revolution in Ukraine, the
ignominious collapse of June 2009 Twitter revolution in Iran, and the
widespread discrediting of the US-backed Roses revolution in Georgia because
of the warmongering and oppressive activities of fascist madman Saakashvili.
The imperialist consensus is now that the Tunisian events prefigure a new
version of people power coup specifically adapted to today's reality,
specifically that of a world economic depression, breakdown crisis, and
disintegration of the globalized casino economy.

The Tunisian tumults are being described in the US press as the "Jasmine
revolution," but it is far more accurate to regard them as a variation on
the classic hunger revolution. The Tunisian ferment was not primarily a
matter of the middle class desire to speak out, vote, and blog. It started
from the Wall Street depredations which are ravaging the entire planet:
outrageously high prices for food and fuel caused by derivatives
speculation, high levels of unemployment and underemployment, and general
economic despair. The detonator was the tragic suicide of a vegetable vendor
in Sidi Bouzid who was being harassed by the police. As Ben Ali fought to
stay in power, he recognized what was causing the unrest by his gesture of
lowering food prices. The Jordanian government for its part has lowered food
prices there by about 5%.

Assange and Wikileaks, Key CIA Tools to Dupe Youth Bulge

The economic nature of the current unrest poses a real problem for the
Washington imperialists, since the State Department line tends to define
human rights exclusively in political and religious terms, and never as a
matter of economic or social rights. Price controls, wages, jobless
benefits, welfare payments, health care, housing, trade union rights,
banking regulation, protective tariffs, and other tools of national economic
self-defense have no place whatsoever in the Washington consensus mantra.
Under these circumstances, what can be done to dupe the youth bulge of
people under 30 who now represents the central demographic reality of most
of the Arab world?

In this predicament, the CIA's cyberspace predator drone Julian Assange and
Wikileaks are providing an indispensable service to the imperialist cause.
In Iceland in the autumn of 2009, Assange was deployed by his financier
backers to hijack and disrupt a movement for national economic survival
through debt moratorium, the rejection of interference by the International
Monetary Fund, and re-launching the productive economy through an ambitious
program of national infrastructure and the export of high technology capital
goods, in particular in the field of geothermal energy. Assange was able to
convince many in Iceland that these causes were not nearly radical enough,
and that they needed to devote their energies instead to publishing a series
of carefully pre-selected US government and other documents, all of which
somehow targeted governments and political figures which London and
Washington had some interest in embarrassing and weakening. In other words,
Assange was able to dupe honest activists into going to work for the
imperialist financiers. Assange has no program except "transparency," which
is a constant refrain of the US UK human rights mafia as it attempts to
topple targeted governments across the developing sector in particular.
"Yes we can" or "Food prices are too damn high!"

Tunisia is perhaps the first case in which Assange and Wikileaks can make a
credible claim to have detonated the coup. Most press accounts agree that
certain State Department cables which were part of the recent Wikileaks
document dumps and which focused on the sybaritic excess and lavish
lifestyle of the Ben Ali clan played a key role in getting the Tunisian
petit bourgeoisie into the streets. Thanks in part to Assange, Western
television networks were thus able to show pictures of the Tunisian crowds
holding up signs saying "Yes we can" rather than a more realistic and
populist "Food prices are too damn high!"

Ben Ali had been in power for 23 years. In Egypt, President Mubarak has been
in power for almost 30 years. The Assad clan in Syria have also been around
for about three decades. In Libya, Colonel Gaddafi has been in power for
almost 40 years. Hafez Assad was able to engineer a monarchical succession
to his son when he died 10 years ago, and Mubarak and Gaddafi are trying to
do the same thing today. Since the US does not want these dynasties, The
obvious CIA tactic is to deploy assets like Twitter, Google, Facebook,
Wikileaks, etc., to turn key members of the youth bulge into swarming mobs
to bring down the gerontocratic regimes.

CIA Wants Aggressive New Puppets to Play Against Iran, China, Russia

All of these countries do of course require serious political as well as
economic reform, but what the CIA is doing with the current crop of
destabilizations has nothing to do with any positive changes in the
countries involved. Those who doubt this should remember the horrendous
economic and political record of the puppets installed in the wake of recent
color revolutions - people like the IMF-NATO kleptocrat agents Yushchenko
and Timoshenko in Ukraine, the mentally unstable warmongering dictator
Saakashvili in Georgia, and so forth. Political forces that are foolish
enough to accept the State Department's idea of hope and change will soon
find themselves under the yoke of new oppressors of this type. The danger is
very great in Tunisia, since the forces which ousted Ben Ali have no visible
leader and no visible mass political organization which could help them
fight off foreign interference in the way that Hezbollah was able to do in
checkmating the Lebanese Cedars putsch. In Tunis, the field is wide open for
the CIA to install a candidate of its own choosing, preferably under the
cover of "elections." Twenty-three years of Ben Ali have unfortunately left
Tunisia in a more atomized condition.

Why is official Washington so obsessed with the idea of overthrowing these
governments? The answer has everything to do with Iran, China, and Russia.
As regards Iran, the State Department policy is notoriously the attempt to
assemble a united front of the entrenched Arab and Sunni regimes to be
played against Shiite Iran and its various allies across the region. This
had not been going well, as shown by the inability of the US to install its
preferred puppet Allawi in Iraq, where the pro-Iranian Maliki seems likely
to hold onto power for the foreseeable future. The US desperately wants a
new generation of unstable "democratic" demagogues more willing to lead
their countries against Iran than the current immobile regimes have proved
to be. There is also the question of Chinese economic penetration. We can be
confident that any new leaders installed by the US will include in their
program a rupture of economic relations with China, including especially a
cutoff of oil and raw material shipments, along the lines of what Twitter
revolution honcho Mir-Hossein Mousavi was reliably reported to be preparing
for Iran if he had seized power there in the summer of 2009 at the head of
his "Death to Russia, death to China" rent-a-mob. In addition, US hostility
against Russia is undiminished, despite the cosmetic effects of the recent
ratification of START II. If for example a color revolution were to come to
Syria, we could be sure that the Russian naval presence at the port Tartus,
which so disturbs NATO planners, would be speedily terminated. If the new
regimes demonstrate hostility against Iran, China, and Russia, we would soon
find that internal human rights concerns would quickly disappear from the US
agenda.

Key Destabilization Operatives of the Obama Regime

For those who are keeping score, it may be useful to pinpoint some of the
destabilization operatives inside the current US regime. It is of course
obvious that the current wave of subversion against the Arab countries was
kicked off by Secretary of State Hillary Clinton in her much touted speech
last week in Doha, Qatar last week, when she warned assembled Arab leaders
to reform their economies ( according to IMF rules) and stamp out
corruption, or else face ouster.

Given the critical role of Assange and Wikileaks in the current phase, White
House regulations czar Cass Sunstein must also be counted among the top
putschists. We should recall that on February 24, 2007 Sunstein contributed
an article entitled "A Brave New Wikiworld" to the Washington Post, in which
he crowed that "Wikileaks.org, founded by dissidents in China and other
nations, plans to post secret government documents and to protect them from
censorship with coded software." This was in fact the big publicity
breakthrough for Assange and the debut of Wikileaks in the US mainstream
press - all thanks to current White House official Sunstein. May we not
assume that Sunstein represents the White House contact man and controller
for the Wikileaks operation?

Every Tree in the Arab Forest Might Fall

Another figure worthy of mention is Robert Malley, a well-known US
left-cover operative who currently heads the Middle East and North Africa
program at the International Crisis Group (ICG), an organization reputed to
run on money coughed up by George Soros and tactics dreamed up from Zbigniew
Brzezinski. Malley was controversial during the 2008 presidential campaign
because of the anti-Israeli posturing he affects, the better to dupe the
Arab leaders he targets. Malley told the Washington Post of January 16, 2011
that every tree in the Arab forest could now be about to fall: "We could go
through the list of Arab leaders looking in the mirror right now and very
few would not be on the list." Arab governments would be well advised to
keep an eye on ICG operatives in their countries.

Czar Cass Sunstein is now married to Samantha Power, who currently works in
the White House National Security Council as Special Assistant to the
President and Senior Director (boss) of the Office of Multilateral Affairs
and Human Rights - the precise bureaucratic home of destabilization
operations like the one in Tunisia. Power, like Malley, is a veteran of the
US intelligence community's "human rights" division, which is a past master
of using legitimate beefs about repression to to replace old US clients with
new puppets in a never-ending process of restless subversion. Both Malley
and Power were forced to tender pro forma resignations during the Obama
presidential campaign of 2008 - Malley for talking to Hamas, and Power for
an obscene tirade against Hillary Clinton, who is now her bureaucratic
rival.

Advice to Arab Governments, Political Forces, Trade Unions

The Arab world needs to learn a few fundamental lessons about the mechanics
of CIA color revolutions, lest they replicate the tragic experience of
Georgia, Ukraine, and so many others. In today's impoverished world of
economic depression, a reform program capable of defending national
interests against the rapacious forces of financial globalization is the
number one imperative.

Accordingly, Arab governments must immediately expel all officials of the
International Monetary Fund, World Bank, and their subset of lending
institutions. Arab countries which are currently under the yoke of IMF
conditionalities (notably Egypt and Jordan among the Arabs, and Pakistan
among the Moslem states) must unilaterally and immediately throw them off
and reassert their national sovereignty. Every Arab state should
unilaterally and immediately declare a debt moratorium in the form of an
open-ended freeze on all payments of interest and principal of international
financial debt in the Argentine manner, starting with sums allegedly owed to
the IMF-World Bank. The assets of foreign multinational monopolistic firms,
especially oil companies, should be seized as the situation requires. Basic
food staples and fuels should be subjected to price controls, with draconian
penalties for speculation, including by way of derivatives. Dirigist
measures such as protective tariffs and food price subsidies can be quickly
introduced. Food production needs to be promoted by production and import
bounties, as well as by international barter deals. National grain
stockpiles must be quickly constituted. Capital controls and exchange
controls are likely to be needed to prevent speculative attacks on national
currencies by foreign hedge funds acting with the ulterior political motives
of overthrowing national governments. Most important, central banks must be
nationalized and reconverted to a policy of 0% credit for domestic
infrastructure, agriculture, housing, and physical commodity production,
with special measures to enhance exports. Once these reforms have been
implemented, it may be time to consider the economic integration of the Arab
world as an economic development community in which the foreign exchange
earnings of the oil-producing states can be put to work on the basis of
mutual advantage for infrastructure and hard commodity capital investment
across the entire Arab world.

The alternative is an endless series of destabilizations masterminded by
foreigners, and, quite possibly, terminal chaos.

Bernard Lugan: les crises africaines

Bernard Lugan:

les crises africaines

mercredi, 19 janvier 2011

Philippe Conrad présente "2030, la fin de la mondialisation" d'Hervé Coutau-Bégarie


Philippe Conrad présente "2030, la fin de la mondialisation" d'Hervé Coutau-Bégarie

lundi, 17 janvier 2011

Comment l'Europe et la Russie pourront subsister à l'avenir

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Comment l’Europe et la Russie pourront subsister à l’avenir

Vladimir Poutine, Premier ministre russe, présente des projets de coopération

par Karl Müller

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

Il y a 20 ans, le 21 novembre 1990, les représentants gouvernementaux de 32 pays européens – y compris l’Union soviétique d’alors – ainsi que des Etats-Unis et du Canada signaient dans le cadre de la Conférence sur la sécurité et la coopération en Europe (CSCE – aujourd’hui OSCE) la Charte de Paris. C’était une déclaration publique en vue de la création d’un ordre pacifique en Europe après la réunification des deux Etats allemands et la fin de l’affrontement entre l’Est et l’Ouest (cf. Horizons et débats no 1 du 11/1/10)

A la suite du président Dimitri Medvedev, qui avait soumis une proposition fin 2009 en faveur d’un Accord européen de sécurité, reprenant ainsi les objectifs sécuritaires de la Charte de Paris, c’est au tour du Premier ministre du pays, Vladimir Poutine, de mettre en avant les dimensions économiques d’une possible coopération dans toute l’Europe (y compris la partie asiatique de la Russie – donc de Lisbonne à Vladivostock), en soumettant une proposition (cf. p. 4).
La Charte de Paris ne s’était pas contentée de promouvoir une coopération dans la politique sécuritaire au sens étroit du terme, mais aussi – sachant combien les deux domaines se recouvrent – pour un ordre économique inter étatique et une plus forte coopération économique dans toute l’Europe.
Le Premier ministre russe a soumis cette proposition à la «Süddeutsche Zeitung», en vue d’un débat organisé par cette dernière les 25 et 26 novembre à Berlin sous le titre de «IVe rencontre de dirigeants de l’économie», rassemblant 40 hommes politiques, dirigeants d’entreprises et scientifiques, en tant que conférenciers et participants à la Table ronde, de même que 300 personnes invitées.

La crise de 2008 est structurelle

Présentant ses propositions concrètes, le Premier ministre russe a constaté que «l’éclatement de la crise mondiale en 2008 n’était pas seulement dû au gonflement des «bulles» et à l’échec de la régulation des marchés mais qu’il était de nature structurelle». Selon lui «le problème central consiste dans l’accumulation de déséquilibres mondiaux. Le modèle selon lequel un centre régional multiplie les emprunts et consomme des biens sans frein alors que l’autre produit des marchandises bon marché et rachète des dettes a échoué. En outre, la répartition de la prospérité est extrêmement inégale aussi bien entre les différents pays qu’entre les différentes couches de population, ce qui a ébranlé la stabilité de l’économie, provoqué des conflits locaux et paralysé l’aptitude au consensus de la communauté internationale dans le débat sur les problèmes urgents.» Poutine réclame donc de s’engager dans une nouvelles voie, «de procéder à des réexamens, à évaluer les risques et à réfléchir à de nouvelles évolutions fondées non sur des valeurs virtuelles mais réelles.»

L’activité économique peut protéger la dignité humaine

En jetant un coup d’œil honnête sur les 20 années passées, on ne peut qu’approuver ce diagnostic. Les objectifs fixés dans la Charte de Paris par tous les gouvernements européens, mais aussi par ceux des Etats-Unis et du Canada, de promouvoir «une activité économique qui respecte et protège la dignité humaine, de développer des économies de marché «en vue d’une croissance économique durable, de la prospérité, de la justice sociale, du développement de l’emploi et de l’utilisation rationnelle des ressources économiques», de mettre l’accent sur le fait qu’il «est important et conforme à notre intérêt à tous que le passage à l’économie de marché réussisse dans les pays qui font des efforts en ce sens, afin que cette réussite nous permette de partager les fruits d’un accroissement de la prospérité auquel nous aspirons tous ensemble», ne furent pas pris sérieusement en compte et donc pas atteints.
On n’accorda pas suffisamment d’attention à l’exigence de «prendre en compte les intérêts des pays en développement» lors d’une coopération économique accrue au sein du processus CSCE.
Bien au contraire: au cours des derni­ères 20 années, les «vainqueurs» de la guerre froide ont tenté de transformer les Etats du Conseil d’assistance économique mutuelle (Comecon) en économies de marché, autrement dit de leur imposer une forme de capitalisme qui ne répondait pas à la volonté des peuples. Ce fut le sort de tous les peuples de l’Europe centrale orientale, de l’Europe du Sud-Est et de l’Est.

L’indépendance économique fait partie de la dignité humaine

C’est ce que durent vivre les Allemands de l’ancienne RDA, qui ne sont toujours pas considérés comme des citoyens de valeur égale dans un Etat commun. Car on ne leur accorda pas une des conditions fondamen­tales de liberté égale, soit l’autonomie économique (cf. Karl-Albrecht Schachtschneider: «Plaidoyer pour la citoyenneté», Horizons et débats n° 47 du 6 décembre; ainsi que Peter Ulrich: «Integrative Wirtschaftsethik», p. 278 sqq: «Wirtschaftsbürgerrechte als Grundlage realer Freiheit für alle»). Encore 20 ans plus tard, la majorité des habitants de l’Est du pays dépendent encore de l’aide pécuniaire de l’Etat. On ne leur laissa pas le droit d’un gagne-pain sur place, c’est-à-dire là où vit leur famille, où ils ont leurs amis, dans leur environnement. Les 30 entre­prises qui, selon l’ouvrage intitulé «Die Blaue Liste» [La liste bleue] de Wolfgang Schorlau, devaient leur rester sous forme de coopératives n’ont plus de valeur que comme mémorial de l’éthique économique. Alors qu’après 1990 presque l’entière structure économique de la RDA fut traitée comme une masse en faillite et qu’elle ne servit plus que d’ateliers pour les grandes entreprises ouest-allemandes, on n’a toujours pas réussi – ou peut-être ne l’a-t-on pas voulu – de mettre en place une structure économique saine, indépendante et offrant des emplois sûrs.
Il faut prendre conscience que n’est pas forcément fausse la thèse selon laquelle cette tragédie n’est pas qu’interallemande, mais bien une part d’un plus grand projet dans l’intérêt du capital financier, que donc l’Est de l’Allemagne, comme d’ailleurs l’ensemble de l’Europe centrale orientale, de l’Europe du Sud-Est et de l’Europe de l’Est devait être désindustrialisé et dépendre directement (par l’accumulation des dettes privées) ou indirectement (par l’accumulation des dettes publiques) de l’industrie de la finance.
Le Premier ministre russe parle, en se référant à l’UE, des «fruits pourris d’une désindustrialisation qui dure depuis de longues années» et du risque réel «d’un affaiblissement de ses positions sur les marchés industriels et de la haute technologie».

Renforcer l’économie réelle plutôt que de produire des bulles financières

C’est pourquoi on comprend que Poutine propose une «politique industrielle commune» et demande de mettre en place une marche à suivre pour savoir «comment faire déferler une nouvelle vague d’industrialisation sur le continent européen» avec «la mise en œuvre de programmes communs de soutien aux PME opérant dans l’économie réelle».
En vérité: la décadence des Etats-Unis et de la Grande Bretagne et la montée de la Chine et de l’Inde est l’image même du mensonge que fut la prétention des 20 dernières années qu’il fallait tout miser sur la finance. Cela provoqua une dépendance du capital financier et des lieux de production dans les pays lointains. C’est doublement dangereux. Car personne ne peut garantir que la monnaie dont nous croyons pouvoir encore disposer aujourd’hui gardera demain sa valeur et nous permettra encore de faire nos achats. L’argent ne nourrit pas.
Tout comme la formation et les sciences, une fourniture d’énergie sûre, en quantité suffisante et financièrement équilibrée sont de première importance pour l’avenir de l’Europe et de la Russie. Ces deux aspects sont aussi inclus dans la proposition de Poutine.

Des zones de libre-échange entre Etats qui se respectent sont aussi une garantie de paix

Lorsque Poutine écrit que «l’état actuel de la collaboration entre la Russie et l’UE ne correspond absolument pas aux défis auxquels nous sommes confrontés», il ressort que le Premier ministre vise une étude approfondie des forces en présence et des dangers dans la politique et l’économie du monde.
En août de cette année, lors de sa visite en Suisse, le président Medvedev avait proposé, de commun accord avec ses hôtes, de mettre en place une zone de libre-échange entre la Russie et l’AELE. Les négociations devront commencer dès janvier prochain, selon le secrétaire de l’AELE Kaare Bryn lors d’une interview le 22 novembre (www.nachhaltigkeit.org).
Cette proposition du Premier ministre russe pour une zone de libre-échange entre la Russie et l’UE fait partie d’une vision pour toute l’Europe, au profit des deux parties, assurant de surcroît la paix.

Réactions positives de l’industrie et des banques européennes

Les propositions du Premier ministre russe doivent être suivies de près. Comment expliquer les réticences de la chancelière allemande et de la bureaucratie de l’Union européenne? Il ne s’agit sûrement pas de pressions venant de l’industrie et des banques européennes, car elles saluent les propositions de Poutine, d’autant plus que ce sont elles qui ont contribué au développement des échanges commerciaux entre l’UE et la Russie depuis l’an 2000 – l’année de crise 2009 n’ayant été qu’une parenthèse – passant de 86 milliards d’euros en 2000 à 282 milliards en 2008 (selon les indications d’Eurostat [76/2010] du 28 mai 2010). La Russie est, après les Etats-Unis et la Suisse le troisième partenaire commercial de l’UE. Il y a toutefois encore beaucoup de possibilités de développement.
Le Premier ministre russe dénonça le système de visa entre la Russie et l’UE comme frein à la coopération, mettant en cause la politique et non pas l’économie. Il affirma lors d’un entretien avec des entrepreneurs allemands que «les autorités allemandes semaient les obstacles sur le chemin des investisseurs russes. (Ria Novosti du 29 novembre)
La proposition actuelle du Premier ministre russe mérite qu’on s’y arrête, tout comme ce fut le cas de celle concernant un Traité européen de sécurité. Les dégâts causés en Europe au cours des 20 dernières années sur les plans politique, économique et social exigent une vision nouvelle. Le Premier ministre russe a soumis ses propositions, aux Européens de répondre de manière constructive.    •

dimanche, 16 janvier 2011

Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie


Ayméric Chauprade: l'Europe et la Turquie

samedi, 15 janvier 2011

Philippe Conrad présente "L'Amérique solitaire?" de Hervé Coutau-Bégarie

Philippe Conrad présente "L'Amérique solitaire?" de Hervé Coutau-Bégarie

jeudi, 13 janvier 2011

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

mercredi, 05 janvier 2011

Sur la Chine

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Robert STEUCKERS :

 

Sur la Chine

 

Conférence prononcée à Gand, le 21 avril 2010, àla tribune de l'association étudiante KASPER

 

Mesdames, Messieurs, Chers amis,

 

Je suis un peu honteux de venir prononcer ici une brève conférence sur la Chine, alors que dans l’espace linguistique néerlandais, nous avons deux éminents spécialistes de la question : le Professeur Koenraad Elst et Alfred Vierling. Tous deux auraient accepté votre invitation et vous auraient fourni une conférence passionnante. Ce sont eux qui auraient dû se trouver à ma place ce soir. Vous me dites qu’ils sont indisponibles et que je dois les remplacer : je tenterai donc de faire du mieux que je puis en vous donnant les clefs nécessaires pour comprendre les ressorts philosophiques, idéologiques et politiques de ce géant qui défie aujourd’hui la superpuissance américaine. Pour donner corps à mes arguments, je me référerai aux ouvrages de Jean-François Susbielle, géopolitologue français contemporain, auteur de plusieurs ouvrages, dont Les Royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale (First Editions, 2008). Dans ce livre consacré aux grandes puissances effectives et émergentes (dont le Brésil), Susbielle décrit de manière particulièrement didactique les linéaments profonds de l’histoire chinoise, le passage de la Chine maoïste à celle de Deng Xiaoping, prélude au formidable développement économique chinois auquel nous assistons aujourd’hui. Je serai donc, ce soir, le simple porte-paroles de Susbielle, dont je recommande vivement trois ouvrages consacrés à la Chine ou aux rapports entre la Chine et les autres puissances mondiales : celui que je viens de citer puis Chine-USA : la guerre programmée et La morsure du dragon.

 

La première chose qu’il convient de dire en parlant de la Chine, c’est qu’elle possède une histoire très longue, qui s’étend sur une période entre trois et cinq millénaires. La mémoire chinoise est donc très profonde, bien plus profonde que celle de l’Occident, qui a trop souvent érigé l’oubli et l’amnésie historique au rang de vertus. Ma tâche n’est donc pas aisée et il va falloir me montrer très succinct.

 

« La Chine, c’est quoi ? »

 

Première question : la Chine, c’est quoi ?

C’est un monde en soi, bien balisé, parfois volontairement hermétisé par rapport à son environnement. Ce monde souvent clos, qui pratique l’ouverture seulement quand ses intérêts immédiats le postulent, est doté de quelques valeurs bien spécifiques, mises en exergue par une historienne des religions, Karen Armstrong, dont l’ouvrage The Great Transformation s’est inspiré de la méthode du philosophe allemand Karl Jaspers (1). Ce dernier avait forgé le concept de « période axiale » de l’histoire (Achsenzeit der Geschichte). Toute « période axiale » de l’histoire est une période, selon Karl Jaspers et Karen Armstrong, où émergent les valeurs structurantes et impassables d’une civilisation, celles qui lui donnent ses caractéristiques principales. Pour la Chine, selon Karen Armstrong, ces principales caractéristiques sont :

-          le culte des ancêtres, donc de la continuité, chaque Chinois se sentant dépositaire d’un héritage qu’il doit conserver ou enrichir, sous peine de perdre la face devant ses ascendants, qui le jugent depuis un au-delà ;

-          la centralité de la Chine dans le monde (2) ;

-          une culture essentiellement paysanne, où les sciences et les technologies ne jouent qu’un rôle secondaire ;

-          l’absence de toute vision linéaire de l’histoire : tout recommence ou recommencera un jour pour répéter une fois de plus ce qu’il y a toujours eu auparavant ; la Chine ne connaît donc pas de ruptures brutales, de césures irréversibles dans le temps, en dépit des apparences, des radicalités révolutionnaires comme la révolte de Tai Ping, le mouvement des Boxers, la révolution moderniste de Sun Ya Tsen, la prise du pouvoir par les communistes de Mao ou la révolution culturelle des années 60, suivie par la rupture tout aussi radicale, bien que plus douce, de Deng Xiaoping face à l’établissement maoïste.

 

Toujours pour répondre à notre question initiale, « La Chine, c’est quoi ? », passons maintenant aux caractéristiques géopolitiques de la Chine en tant qu’espace géographique sur la planète Terre. Pour le général autrichien Jordis von Lohausen, la Chine, c’est :

Sur le plan géographique :

-          la masse géographique la plus compacte d’Asie orientale ;

-          la plaque tournante entre a) le Japon et l’Inde ; b) entre la Russie et l’Australie ; c) entre le désert de Mongolie et l’archipel malais ;

Sur le plan stratégique, elle est une forteresse naturelle entre :

-          la forêt vierge au sud ;

-          les glaciers du Tibet ;

-          les déserts du nord et de l’ouest ;

-          l’océan à l’est ;

Cette situation particulière dans l’espace est-asiatique explique pourquoi la Chine demeure inchangée dans le fond, en dépit des transformations superficielles de nature idéologique. Elle a en permanence à faire face aux défis que lance cet espace naturel.

 

Sur le plan politique, la Chine est (ou était) :

-          la principale puissance représentant la race jaune dans le monde ;

-          la puissance prépondérante des peuples de couleur qui défiaient l’ordre mondial blanc, au temps de Mao (et aujourd’hui, sous d’autres oripeaux idéologiques, en Afrique noire) ;

-          la puissance principale du tiers-monde (aujourd’hui la notion de « tiers-monde » n’a plus la même signification que dans les années 60 ou 70 du 20ème siècle) ;

-          la puissance sur le territoire de laquelle se déroulait la « révolution villageoise » (au nom de l’idée de « civilisation paysanne » née à la période axiale de l’histoire chinoise).

Aujourd’hui, la Chine ne revêt plus entièrement cet aspect de puissance principale des races non blanches ou du tiers-monde. Elle représente un capitalisme dirigé (différent du capitalisme du libre marché tel qu’on le connaît dans l’américanosphère occidentale), expurgé de toutes velléités d’interpréter ou de déformer le monde tel qu’il est par le biais d’une idéologie trop rigide ou trop caricaturale, que cette idéologie soit le marxisme à la Mao ou l’idéologie américaine et cartérienne des « droits de l’homme ». L’exagération maoïste en matière de slogans idéologiques a été corrigée par le pragmatisme confucéen de Deng Xiaoping : la Chine ne vise plus à transformer les structures traditionnelles des peuples, en plaquant sur des réalités non chinoises des concepts maoïstes ; elle ne cherche pas non plus à imiter les Américains qui veulent imposer leur propre vision de la « bonne gouvernance » à tous les peuples du monde. La Chine laisse à chacun le soin de gérer son pays à sa guise : elle se borne à entretenir des rapports diplomatiques de type classique et à avoir de bonnes relations commerciales avec un maximum de pays dans le monde. La Chine est désormais sevrée des messianismes d’inspiration communiste ou de ce que l’on appelait dans les années 60 et 70 du 20ème siècle, des messianismes du tiers monde.

 

Pour définir la Chine et répondre encore une fois à notre question initiale, mettons en exergue la différence majeure entre l’Europe et la Chine :

-          L’Europe est une entité centrifuge, sans unité durable, tiraillée entre une multitudes de pôles régionaux ; elle est devenue un espace civilisationnel privé de valeurs « orientantes » communes ;

-          La Chine est une unité, protégée par la nature : face à la Russie, des montagnes et des déserts la protègent ; face au Sud indien (également centrifuge), des montagnes et une zone de forêts vierges la protègent ; face à l’Amérique, c’est l’immensité de l’Océan Pacifique qui la protège, tout autant que sa propre profondeur territoriale, une profondeur territoriale que ne possédait pas le Japon lors de sa confrontation aux Etats-Unis pendant la seconde guerre mondiale.

 

Une succession de grandes dynasties

 

Dans ce pays protégé par la nature, une histoire particulière va se dérouler.

L’histoire de la Chine est surtout l’histoire de grandes dynasties, comme le souligne très opportunément Jean-François Susbielle.

Au début de l’histoire chinoise, nous n’avons pas d’unité mais une juxtaposition conflictuelle de « royaumes combattants » qui s’affrontent dans des guerres interminables (comme en Europe !). Cette période s’étend de 500 à 221 avant J.C. C’est à cette époque, comme en Grèce ou en Judée, qu’émerge la fameuse « période axiale » de l’histoire chinoise, selon Karen Armstrong. C’est aussi l’époque où trois grands penseurs chinois écrivent leurs œuvres :

-          Confucius (Kong Fuzi) qui dit que la vertu doit régner et qu’un Etat fonctionne de manière optimale s’il favorise une véritable méritocratie (il n’y a dès lors pas de système de classes dans l’idéal de Confucius) ;

-          Lao Tzi (Lao Tsö), fondateurs des filons taoïstes et auteur du Tao Te King ;

-          enfin, Sun Tzu, auteur de l’Art de la guerre, préconisant la ruse.

On oublie généralement Han Fei, auteur d’un manuel pour le Prince. Les principales valeurs de la société chinoise émergent à cette époque, avant l’apparition de l’empire proprement dit, en réaction au chaos généré par les hostilités permanentes entre « royaumes combattants ». Ce chaos et cette désunion seront dès lors les modèles négatifs à ne pas imiter, à proscrire. Notons, avec Karl Jaspers et Karen Armstrong, que la période axiale de l’histoire chinoise est contemporaine de Socrate et de Platon en Grèce et de Bouddha en Inde. La République de Platon et les conseils de Han Fei au Prince méritent une lecture parallèle.

 

Après la période anarchique des « royaumes combattants », le premier empereur surgit sur la scène chinoise : Qin Shi Huang Di (-221 à -207). Il donne son nom à la Chine : « Qin » se prononce « Tchine ». Son œuvre est d’avoir uni les sept royaumes combattants, d’avoir commencé les travaux de la Grande Muraille, d’avoir introduit l’écriture et un système de poids et de mesures, d’avoir énoncé les premières lois. Il s’oppose aux disciples de Confucius, dont il fait brûler les textes, exactement comme le feront les adeptes de Mao lors de la « révolution culturelle » dans les années 60 du 20ème siècle.

 

De -207 à 220 après J.C., vient la période Han. Ce seront 400 années d’expansion, où la Chine atteindra les dimensions qu’elle a actuellement, excepté le Tibet et le Sinkiang. Après cette période de développement, viennent quatre siècles d’anarchie, sans plus aucune unité. C’est le retour des « royaumes combattants ».

 

Carte_Chine_Tang.gifLa restauration vient avec la dynastie Tang, de 618 à 907, véritablement âge d’or de la civilisation chinoise. Les empereurs sont alors les alliés des Ouïghours contre les autres peuples turcs. L’influence chinoise s’étend jusqu’en Ouzbékistan. Elle s’exerce aussi sur la Corée, le Vietnam et le Cambodge. De 907 à 960 survient une nouvelle période de chaos, mais qui ne sera que de courte durée.

 

En 960, par un coup d’Etat, les Song arrivent au pouvoir, rétablissent l’unité et inaugurent une ère de prospérité généralisée, où les sciences chinoises inventent la machine à imprimer, la boussole et certains navires de haute mer. La Chine a bien failli devenir une puissance maritime dès cette époque. En 1279, cette ère de prospérité prend fin par l’invasion mongole.

 

china-yuan-large.pngDe 1279 à 1368, c’est la domination d’une dynastie mongole, les Yuan. Pékin devient la capitale de l’empire sous Qubilaï Khan. Entre 1274 et 1281, les Mongols avaient tenté d’inclure le Japon dans leur orbe mais les vents du Pacifique, les kamikazes, s’étaient levés et avaient détruit la flotte mongole en mer, évitant au Japon une conquête violente et préservant, du coup, sa spécificité en Asie orientale. Les Mongols douteront dorénavant de leur propre invincibilité et les Japonais acquerront un sentiment d’invulnérabilité qu’ils garderont jusqu’en 1945.

 

Après la dynastie mongole des Yuan, vient la dynastie des Ming (1368-1644). Elle acquiert le pouvoir suite à une révolte paysanne contre les Mongols, donc à une insurrection de la substance han autochtone face à un pouvoir étranger. Ming, chef de cette insurrection générale des populations rurales chinoises, devient empereur et règne sur environ 100 millions de sujets. Comme il n’y a plus de danger qui vient du Nord, la Chine des Ming se tourne alors vers la mer : Yong Ze envoie l’Amiral Zheng He sur les mers en 1405. Ce Zheng He est un géant de deux mètres de haut ; il est musulman et eunuque. Les arsenaux de l’Empire lui fournissent des navires de 150 mètres de long (ceux de Colomb n’en avaient que 30). L’objectif est-il la conquête de terres ? Non. C’est une entreprise de « relations publiques » : Zheng He doit présenter la Chine et ses richesses dans le vaste monde. Cette orientation maritime sera de courte durée : dès 1433, l’Empereur décide d’interdire la construction de navires. Car les Mongols reviennent à la charge : toutes les ressources de l’Empire doivent dès lors être mobilisées pour conjurer ce danger venu du nord.

 

Carte_Chine_Ming.gifLes fonds alloués aux immenses navires de Zheng He sont consacrés à la Grande Muraille, à l’agriculture, aux champs de riz, à l’irrigation, aux canaux. La Chine n’aura plus de grands projets mondiaux : elle revient à ses valeurs paysannes, nées lors de la période axiale de son histoire. Durant l’ère Ming, des contacts auront lieu entre Européens et Chinois par l’intermédiaire de l’Ordre des Jésuites. Matteo Ricci, jésuite italien, amorce une politique de conversion, faisant, dès ce moment-là, du christianisme un facteur qui compte en Chine. C’est aussi l’époque où notre compatriote, le Père Verbist, deviendra le principal astronome de la cour chinoise. Pour convertir la Chine, il aurait fallu forger un syncrétisme. Le Pape a refusé. L’Empereur n’a pas compris ce refus pontifical. Le christianisme sera interdit en 1724.

 

Le siècle de la honte

 

Après les Ming, ce sera la dynastie Qing qui règnera sur la Chine, de 1644 à 1911. Les Qing sont Mandchous. Ils font fermer les ports pour mettre la Chine à l’abri des pirates du Pacifique. La Chine se ferme en même temps à tout commerce extérieur. En 1800, elle compte déjà 350 millions d’habitants. Elle connaît pour la première fois dans son histoire le problème de la surpopulation, entrainant des tensions sociales et infléchissant le pays dans son ensemble vers une phase de déclin. Le 19ème siècle sera ainsi, pour les Chinois, le « siècle de la honte ». En 1793, Georges III d’Angleterre veut inaugurer des relations avec l’Empire chinois : il envoie un certain Lord MacCartney pour négocier à Pékin. Mais cet ombrageux Ecossais refuse de se prosterner devant l’Empereur, qui, ensuite, refuse d’entretenir des relations avec l’Angleterre. Les Anglais vont venger l’affront fait à la dignité de leur ambassadeur en faisant entrer de l’opium en contrebande en Chine, où la consommation de cette drogue était interdite. L’objectif était de briser la volonté chinoise d’autarcie en pourrissant la population, en lui ôtant tout ressort. Les Anglais vendent tant d’opium qu’une majorité de Chinois sombre dans la toxicomanie. Petit à petit la balance commerciale penche en faveur de la Grande-Bretagne. En 1839, les Chinois réagissent : le haut fonctionnaire impérial Lin Zexu fait détruire les stocks d’opium qui se trouvent à Canton et fait arrêter des négociants étrangers : les Anglais déclarent la guerre. Ce sera la première guerre de l’opium. Elle durera trois ans et se soldera par une victoire britannique. En 1842, Hong Kong est cédé pour 99 ans à la Couronne britannique. Celle-ci se ménage également des facilités dans un grand port comme Shanghai (où le quartier européen jouit d’extra-territorialité). En 1858, Français et Anglais mènent la deuxième guerre de l’opium, forçant, après leur victoire, la Chine à libéraliser son commerce et à s’ouvrir aux missions catholiques françaises (nous ne sommes pas encore à l’époque de la IIIème République maçonnique). Les soldats des deux puissances européennes pillent le palais d’été de Pékin et détruisent la bibliothèque impériale. 

 

Taiping2.png

Pour affaiblir encore le pouvoir impérial, Français et Anglais favorisent le soulèvement des Tai Ping. De 1853 à 1864, à l’appel d’un leader converti à une sorte de christianisme protestant, de larges strates de la population se soulèvent contre les empereurs mandchous, entendent abolir toutes les formes d’esclavage et toutes les modes jugées désuètes (comme l’atrophie des pieds des filles et les longs cheveux pour les hommes) et introduire comme idéologie d’Etat un fondamentalisme chrétien et protestant. Cette guerre civile fera vingt millions de morts, soit 5% de la population. En fin de compte, les Français et les Anglais volent au secours de l’Empereur, dès le moment où le pouvoir éventuel des révolutionnaires s’avère anticipativement plus dangereux que celui, écorné, de la dynastie mandchoue. Les Occidentaux abandonnent leur golem. Plus tard, les Boxers reprennent le relais : ils ne sont plus chrétiens, comme les adeptes de Tai Ping, ils s’adonnent aux arts martiaux chinois et cultivent une xénophobie sourcilleuse, y compris contre les importations utilitaires des Européens, comme le chemin de fer et le télégraphe. La Chine ne connaît pas une « Ere Meiji » comme le Japon à partir de 1868. En 1911, la Chine devient une république, mais l’avènement de cette république sera suivi de trente-sept années de chaos, de guerres civiles, sur fond d’occupation japonaise. Les nationalistes s’opposeront aux communistes, mais tous s’entendront pour se débarrasser du dernier représentant de la dynastie mandchoue, Pu Yi.

 

 

 

 

 

De la prise du pouvoir par les communistes à l’alliance américaine

 

En 1949, la Chine devient communiste sous la houlette de Mao Tse Toung, qui met un terme aux luttes entre factions, en exilant les derniers partisans de Tchang Kai Tchek sur l’île de Formose, qui deviendra Taiwan. En 1958, les troupes de Mao envahissent définitivement le Tibet dont la conquête progressive avait commencé quelques années plus tôt. 1958 est aussi l’année de la rupture avec l’Union Soviétique. Le pouvoir de Mao étant battu en brèche par d’autres forces à l’intérieur du PC chinois, le « Grand Timonier » déclenche une « révolution culturelle » en 1966, qui s’inspire partiellement de la révolte de Tai Ping (les maoïstes disent « oui » à ses tentatives de modernisation mais « non » à son christianisme) et de la révolte des Boxers (les maoïstes refusent l’anti-modernisme technophobe des Boxers mais acceptent leur refus de toute influence étrangère). En 1968 et 1969, les armées chinoises s’opposent aux armées soviétiques en Mandchourie, le long du fleuve Amour. Les Chinois ont le dessous et songent à changer d’alliance : les Soviétiques sont accusés systématiquement de « révisionnisme », de propager un marxisme édulcoré, dépouillé de sa vigueur révolutionnaire. En 1972, la Chine renoue avec les Etats-Unis et devient l’alliée de revers de Washington contre l’URSS de Brejnev. Les règles de la géopolitique triomphent dès cette année-là des discours idéologiques.

 

Les problèmes actuels de la Chine sont :

1)     Le Tibet, qui fut, à certains moments de l’histoire, un grand empire qui comprenait également de vastes territoires han, dans l’est de la Chine proprement dite. Le Tibet possède donc une identité différente de la Chine et celle-ci recèle dans ses provinces orientales des éléments qui ne sont pas purement han.

2)     Le Sinkiang, ou « Turkestan chinois », où vivent les Ouïghours turcophones et musulmans, anciens alliés des empereurs Tang, aujourd’hui ennemis du pouvoir établi à Pékin (qui considère dès lors cette volteface ouïghour comme une trahison  à l’endroit de l’histoire chinoise).

Les problèmes du Tibet et du Sinkiang sont des problèmes réels, indubitablement, mais ils servent surtout, dans le contexte actuel, à miner la cohésion de la partie centrale de l’Eurasie. L’indice le plus patent de cette stratégie de fractionnement est la présence d’agitateurs fondamentalistes wahhabites au Sinkiang. Le conflit entre les Etats-Unis et les réseaux de Ben Laden est peut-être réel dans la péninsule arabique ou en Afghanistan mais complètement fictif ailleurs, quand il s’agit d’affaiblir la Russie, la Chine ou leurs alliés en Asie centrale. En Tchétchénie, au Daghestan et au Sinkiang, les réseaux wahhabites travaillent bel et bien pour la stratégie de balkanisation de l’Eurasie, voulue par Washington. C’est potentiellement le cas en Tatarie et en Bachkirie aussi.

 

La réforme de Deng Xiaoping : une perestroïka sans glasnost

 

Le sinologue et géopolitologue français Jean-François Susbielle analyse le rôle de Deng Xiaoping dans le renouveau chinois, après la parenthèse maoïste. Dès 1977, Deng Xiaoping tolère que s’expriment des voix critiques et abolit le culte de la personnalité qui avait quelque peu ridiculisé le maoïsme. Deng Xiaoping se veut surtout un pragmatique. Jugeons-en par ces quelques citations que Susbielle met en exergue :

« Il n’est pas important que le chat soit blanc ou gris : il doit capturer les souris ». Cette citation montre que Deng Xiaoping ne juge pas l’idéologie importante : seules comptent la pratique et l’efficacité.

« La pratique est le seul critère de vérité ».

« Pas de débat : c’est là mon invention ».

« Il faut traverser la rivière en tâtant chaque pierre du pied ».

Sun Tzu : « Dissimuler ses intentions et ses forces ».

 

L’entrée de la Chine dans l’ère postcommuniste est différente que celle qu’avait préconisé Gorbatchev en URSS, rappelle fort opportunément Susbielle. Celui-ci avait annoncé la « glasnost » (la transparence) et la « perestroïka » (la restructuration). La Chine, elle, a opté pour la « perestroïka » sans la « glasnost ». Par conséquent, elle a échappé à la crise russe qui a sévi pendant dix ans avant que Poutine ne prenne les choses en mains. Les Chinois semblent meilleurs disciples de Carl Schmitt que les Russes : ils évitent toute culture stérile du débat, de la discussion interminable (Donoso Cortès), et maintiennent les arcanes de leur politique à l’abri des regards (le secret selon Schmitt). L’objectif de Deng Xiaoping est de revenir à la situation optimale de la Chine à la fin du 18ème siècle. A cette époque, la Chine, l’Inde et le Japon comptaient à trois pour 50% de l’économie mondiale. La Chine, en outre, représentait 35% de la population mondiale et 28% de la production.

 

Deng-Xiaoping.jpgAtteindre l’objectif que s’est fixé Deng Xiaoping passe par une restructuration des relations entre peuples de la masse continentale eurasienne. L’instrument de cette restructuration est le « Groupe de Shanghai », d’une part, et le BRIC (Brésil, Russie, Inde, Chine), d’autre part. Face à ces relations inter-eurasiennes ou eurasiennes/latino-américaines, l’américanosphère table sur une instrumentalisation militante et offensive de l’idéologie des droits de l’homme. Pour l’idéologie occidentale, qui s’estime affranchie de toute croyance de nature religieuse, les droits de l’homme sont des principes intangibles au même titre que ceux des théologiens fondamentalistes chrétiens ou musulmans. En réalité, derrière cette nouvelle religion occidentale, rigide parce que refusant toute interprétation différente ou toute adaptation pragmatique, se profile un cynisme mu par des intérêts économiques et géopolitiques. Le Président américain Jimmy Carter avait recréé cette idéologie de toutes pièces pour miner la cohésion de l’URSS ou pour subvertir tous les Etats hostiles aux Etats-Unis et tous les régimes insuffisant dociles. La Chine a toujours bien perçu cette nouvelle idéologie occidentale comme un instrument d’immixtion permanente dans les affaires des autres pays. Elle a riposté en estimant que chaque aire dominée par un hégémon particulier (ou chaque espace civilisationnel) devait pouvoir interpréter les droits de l’homme à sa manière, selon ses propres critères et donc, in fine, selon des critères nés lors de la « période axiale » de l’histoire spécifique de cette aire civilisationnelle. La Chine a opté pour le polycentrisme des valeurs et pour la pluralité des interprétations des droits de l’homme. Ceux-ci ne peuvent servir à subvertir les fondements des civilisations autres que l’Occident.

 

Dans l’Océan Pacifique, la Chine nouvelle du capitalisme dirigé cherche à s’emparer de Formose (Taiwan) et des îles de la Mer de Chine méridionale : elle risque là une confrontation directe avec l’Amérique. Face à l’Inde, autre géant économique potentiel au marché intérieur immense, la Chine garde un contentieux dans l’Himalaya. En 1962, une guerre sino-indienne avait tourné à l’avantage des Chinois, maîtres du Tibet, qui occupent depuis lors une partie du territoire indien, située très haut dans la chaine de l’Himalaya. L’Inde, quand elle était entièrement dominée par le Parti du Congrès, était un allié tacite de l’URSS, qui lui fournissait des armes contre le Pakistan musulman allié des Etats-Unis et contre la Chine, hostile au « révisionnisme » soviétique. L’Inde reçoit toujours des armes russes mais elle commence depuis peu à en recevoir des Etats-Unis. Le Pakistan, ennemi héréditaire de l’Inde, reste un allié de la Chine même si le fondamentalisme islamiste menace les intérêts chinois dans le Sinkiang. En Afrique, la Chine risque aussi une confrontation directe avec les Etats-Unis, car les deux puissances briguent les richesses minérales du continent noir et les richesses halieutiques de ses mers (dont l’Europe a également besoin). Avec la Russie, tout va bien pour le moment mais il y a un risque potentiel : la conquête progressive de l’espace sibérien par le trop-plein démographique chinois. Certes, la Chine et la Russie subissent un déclin démographique ; la Chine n’a jamais eu l’intention de conquérir la Sibérie mais la donne peut changer sous la pression des faits.

 

Sur le plan économique, l’accroissement démesuré de l’industrie chinoise crée une pollution de grande ampleur, contraire à l’éthique chinoise traditionnelle de gestion optimale et mesurée de l’environnement. Actuellement la Chine pollue plus que les Etats-Unis. Pour l’Europe, le danger chinois vient de la délocalisation et du dumping qui en découle. Mais là la balle est dans notre camp : c’est à nous à prendre des mesures contre les délocalisations (en Chine et ailleurs), contre ceux qui les pratiquent au détriment de nos propres tissus sociaux.

 

Conclusion : l’histoire de la Chine démontre la récurrence potentielle de tous les problèmes qui peuvent affecter une civilisation. L’histoire de la Chine est centripète, tandis que celle de l’Europe est centrifuge. Malgré ses faiblesses passagères, comme celle qui l’a marquée profondément pendant le « siècle de la honte », la Chine a tous les réflexes mentaux pour retomber sur ses pattes. L’Europe est dépourvue d’une telle force. L’anarchie et le chaos règnent dans les esprits en Europe. L’Europe attend toujours son Qin Shi Huang Di. Il aurait pu être Charles-Quint mais ce ne fut pas le cas car l’Empereur né en 1500 dans les murs de cette bonne ville de Gand a été torpillé par son rival François I, par les émeutiers protestants et les manigances du pape Clément. En attendant, malgré l’illusion que procure une UE sans projet, l’Europe n’a toujours pas dépassé le stade des guerres entre « duchés combattants ».

 

Robert STEUCKERS.

 

Notes :

(1)    Karl Jaspers patronnera également la thèse d’Armin Mohler sur la « révolution conservatrice » allemande entre 1918 et 1932. Armin Mohler parle, tout comme le promoteur de sa thèse de doctorat, de « période axiale » de l’histoire, où les valeurs dominantes, en l’occurrence celles de la révolution française et des Lumières qui l’ont précédée, sont battues en brèche par de nouvelles valeurs, qui appelle de nouvelles formes politiques.

(2)    La centralité de la Chine dans le monde implique que les Chinois estiment ne pas avoir d’ancêtres dans d’autres parties du monde. Sur le plan de la raciologie, cette prise de position actuelle, découlant tout naturellement de l’idée de la centralité de la Chine née à la période axiale de l’histoire chinoise, implique le polygénisme. Les Chinois n’acceptent donc pas la théorie monogéniste de l’émergence de l’homme en Afrique, au départ de « Lucy ».

 

Bibliographie :

-          Jean-François SUSBIELLE, Les royaumes combattants – Vers une nouvelle guerre mondiale, First Editions, Paris, 2008.

-          Jordis von LOHAUSEN, Mut zur macht – Denken in Kontinenten, Vowinckel, Berg am See, 1979.

-          Karen ARMSTRONG, The Great Transformation – The World in the Time of Buddha, Socrates, Confucius and Jeremiah, Atlantic Books, London, 2006.

-          SPIEGEL SPECIAL, China – Die unberenchenbare Supermacht, Nr. 3/2008.

-          COURRIER INTERNATIONAL, n°995 (26/11 au 02/12 2009).

lundi, 03 janvier 2011

Vers l'intégration transatlantique?

Andrea PERRONE :

Vers l’intégration transatlantique ?

 

Les Etats-Unis cherchent à intégrer l’Union Européenne dans un espace économique et juridique sous leur entière hégémonie

 

europe_usa-274x300.jpgLes Etats-Unis planifient l’intégration de l’Union Européenne dans leur propre espace économique et juridique, en accord avec les législateurs de Bruxelles et de Strasbourg. Washington espère ainsi construire un marché puissant de 800 millions de citoyens sous le régime normatif et hégémonique du seul droit américain.

 

Lors d’une réunion commune entre Américains et Européens dans le cadre du « Conseil Economique Transatlantique » (CET), les Etats-Unis et l’UE ont mis au point un projet pour élaborer des critères communs dans de nouveaux secteurs comme le développement de la production technologique, la nanotechnologie et les automobiles électriques. Réunion qui a suscité un grand enthousiasme chez les fonctionnaires américains…

 

Les Etats-Unis et l’Union Européenne ont décidé de développer un « système d’alerte précoce », grâce auquel tant Bruxelles que Washington s’échangeront des connaissances sur les nouveaux systèmes de régulation en chantier, en particulier pour tout ce qui concerne les produits de haute technologie.

 

Les règles ne seront pas d’emblée les mêmes pour les deux parties concernées, mais celles-ci ont néanmoins décidé d’arriver à « une coopération accrue sur le plan normatif ». Au cours de la réunion, les parties se sont mises d’accord sur une série de principes communs qui devront encadrer la réglementation future : cette série comprend la transparence, la participation publique et la réduction au minimum des charges pour les entreprises. Les parties se sont également penchées sur « une approche sur base scientifique » des futures réglementations concernant les nouvelles technologies. Un forum commun continuera à travailler sur le développement des principes communs et sur les pratiques qui serviront à établir ultérieurement les réglementations, afin d’arriver à un accord sur la question en février 2011.

 

L’objectif est de permettre aux experts d’identifier où les parties veulent en venir dans le projet, comment elles pourront collaborer dans l’élaboration de règles, de normes et de procédures. Les Etats-Unis, pour leur part, fourniront à leurs partenaires un projet de réglementation dans les jours prochains. L’UE devra y répondre dans les plus brefs délais. Les progrès enregistrés dans la création d’un grand marché transatlantique ont été favorisés par l’action d’un institut euro-américain, le « Transatlantic Policy Network » (TPN), fondé en 1992. Cet institut réunit des parlementaires européens, des membres du « Congrès » américain et des entreprises privées afin que, de concert, ils puissent œuvrer à la création d’un bloc euro-américain aux niveaux politique, économique et militaire. Cette stratégie d’intégration reçoit l’appui de nombreuses « boites à penser » (think tanks) comme l’Aspen Institute, l’European-American Business Council, le Council of Foreign Relations, le German Marshall Fund et la Brookings Institution. Plusieurs multinationales américaines et européennes soutiennent financièrement le projet comme Boeing, Ford, Michelin, IBM, Microsoft, Daimler Chrysler, Pechiney, Siemens, BASF, Deutsche Bank et Bertelsmann. Le but du soutien politique et économique au projet est donc la naissance d’un grand marché transatlantique, fondé sur la suprématie du droit américain. En mai 2008, le Parlement Européen a approuvé une résolution qui légitime le projet pour l’année 2015 et vise à l’élimination de toutes les barrières imposées jusqu’ici au commerce, comme les douanes ou autres balises de nature technique ou procédurière ; cette résolution vise également à libéraliser les marchés publics, les droits de propriété intellectuelle et certains investissements. L’accord prévoit l’harmonisation progressive des normes et des règles sur les deux rives de l’Atlantique, afin de sanctionner une fois de plus la domination absolue des Etats-Unis sur l’Europe.

 

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu ; article tiré de « Rinascita », Rome, 22 décembre 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

dimanche, 02 janvier 2011

Russie/Inde: énergie nucléaire et clairvoyance géopolitique

Pietro FIOCCHI :

Russie/Inde : énergie nucléaire et clairvoyance géopolitique

 

La Russie est favorable à un siège indien au Conseil de Sécurité de l’ONU

 

Medvedev_in_India.jpgLe chef du Kremlin, Dimitri Medvedev s’est rendu récemment à Nouvelle Delhi pour une visite de quelques jours durant lesquels, disent les sources gouvernementales indiennes, les partenaires russes et indiens signeront de nombreux contrats, pour une valeur totale de 30 milliards de dollars, surtout dans les domaines de la défense et de l’énergie nucléaire.

 

La Russie et l’Inde ont conclu divers accords relatifs à la construction de deux réacteurs nucléaires de technologie russe, qui seront installés dans l’Etat de Tamil Nadu. Le porte-paroles du ministère indien des affaires étrangères, Vishnu Prakash, a déclaré « qu’il ne s’agissait pas d’un simple accord commercial, car les parties contractantes cherchent à développer des projets liés à la recherche, au développement et à la production commune ». Le ministre des affaires étrangères indien, S. M. Krishna, a indiqué que, parmi les thèmes inscrits à l’ordre du jour, il y a également la lutte contre le terrorisme et la situation dans la région actuellement en ébullition, à cheval sur l’Afghanistan et le Pakistan.

 

Sur le plan plus strictement politique, une nouveauté émerge, qui était déjà dans l’air : la Russie, désormais, est entièrement favorable à un siège indien permanent au Conseil de Sécurité de l’ONU. Medvedev, à la fin d’une cérémonie tenue à l’occasion de la signature de onze accords et memoranda bilatéraux, a déclaré que « l’Inde mérite pleinement d’être candidate à un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU, dès que l’on aura pris la décision de réformer cet organisme ».

 

La visite de Medvedev en Inde coïncide avec le dixième anniversaire de la Déclaration de Delhi, qui avait consacré le partenariat stratégique entre les deux pays. Une période pendant laquelle « les liens entre les deux Etats ont permis d’atteindre de nouveaux stades, y compris sur le plan des principes », a dit Aleksandr Kadakin, ambassadeur russe en Inde. Les liens ont sextuplé en l’espace d’une décennie et le niveau désormais atteint par les échanges économico-commerciaux est notable. Cette fois-ci, cependant, le bond en avant ne doit être attribué aux échanges de matières premières mais à toutes les innovations qu’autorise une coopération accrue.

 

Les exportations russes consistent principalement en armes de haute technologie, à des infrastructures destinées au lancement de satellites et à des équipements pour centrales atomiques. Les projets de haute technologie, comme celui des avions de chasse de la cinquième génération ou celui du système de navigation satellitaire Glonass, sont le fruit de recherches conjointes entre Russes et Indiens. A cela s’ajoute un accroissement de la coopération entre les deux pays en matière de recherche spatiale, notamment de projets lunaires, de missions spatiales habitées et d’un satellite baptisé « Youth Sat ». Tous ces projets ne sont que les fleurons de la coopération industrielle entre Nouvelle Delhi et Moscou.

 

Pietro FIOCCHI.

( p.fiocchi@rinascita.eu ; article tiré de « Rinascita », Rome, 22 décembre 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ). 

Peter Scholl-Latour über Demokratie und Willkür

 

Peter Scholl-Latour über Demokratie und Willkür

vendredi, 31 décembre 2010

Türkei und China auf Schmusekurs

Türkei und China auf Schmusekurs

MIchael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

China-Tuerkei.jpgDie Türkei war jahrzehntelange Hätschelkind der US-Außenpolitik, das die Vereinigten Staaten zu gerne auch als EU-Mitgliedsstaat gesehen hätten. Jetzt wird die Entwicklung des kleinasiatischen Staates jenseits des Ozeans mit steigendem Mißmut betrachtet.

Ein Grund dafür ist die chinesisch-türkische Annäherung, die Michael Auslin, Leiter für Japanstudien am American Enterprise Institute, in einem Artikel für die  einflußreiche, als konservativ und wirtschaftsliberal geltende Tagezeitung Wall Street Journal unter dem bezeichnenden Titel analysiert: „Kommt eine türkisch-chinesische Achse? Ankara wendet sich von Israel ab und schmeichelt sich bei China ein“.

Ausgangspunkt der Betrachtungen Auslins sind die Folgen der seit einiger Zeit gestörten israelisch-türkischen Beziehungen und die Hinwendung der Türkei zu „aufstrebenden, selbstbewußten Regimen“, darunter eben auch China, das nicht nur bemüht sei, im entlegenen Afrika eine größere Rolle zu spielen, sondern auch in anderen geopolitisch wichtigen Staaten.

Die türkisch-israelische Kooperation

Auslin gibt dann einen Überblick über die Entwicklung der israelisch-türkischen Beziehungen, angefangen bei der Anerkennung des Staates Israel durch die Türkei im Jahre 1948, bis hin zur Kooperation der beiden Staaten in Sicherheitsfragen, zum Beispiel gegenüber Staaten wie dem Iran und Syrien, in den Achtziger und Neunziger Jahren; dazu gehörte auch die Unterstützung Israels bei der Modernisierung türkischer Waffensysteme. Israel konnte im Gegenzug zum Beispiel türkische Luftwaffenstützpunkte nutzen.

Wendepunkt Gaza-Hilfsflotte

All das ist mittlerweile Geschichte: Zwar habe der türkische Premierminister Recep Tayyip Erdoğan anfänglich mit Israel kooperiert, so Auslin, dann aber begann er sich Staaten wie Syrien oder dem Iran zuzuwenden. Als Argumente für die sich abkühlenden Beziehungen zu Israel gab Erdoğan dessen Vorgehen im Gazastreifen im Jahre 2008 und vor allem die Vorgänge um die „Gaza-Hilfsflotte“ Mitte des Jahres an, bei der acht türkische Staatsbürger durch israelische Einwirkung ums Leben kamen. Seitdem liegen die Beziehungen zwischen der Türkei und Israel auf Eis.

Konsequenzen für die NATO

Erdoğans Annäherung an eine weitere „autoritäre Macht“, gemeint ist China, tangiere nun allerdings auch die Interessen der USA, konstatiert Auslin, und zwar spätestens seit der Einladung Ankaras an die chinesische Luftwaffe, am Luftwaffenstützpunkt Konya gemeinsame Manöver abzuhalten. Damit erwüchsen ernste Zweifel daran, ob es bei den engen Beziehungen der Türkei zu „liberalen Nationen“ wie den USA und Israel bleibe.

In diesem Zusammenhang spiele nicht nur eine Rolle, daß die „strategische Partnerschaft“, die Erdoğan und Chinas Staatspräsident Hu Jintao vereinbart hätten, eine Steigerung des Handelsvolumens von derzeit 17 Milliarden Dollar auf 100 Milliarden Dollar im Jahre 2020 vorsehe.

Viel schwerwiegender seien die Konsequenzen für die NATO. Wie weit nämlich könnte die chinesisch-türkische Zusammenarbeit gehen? Auslin nennt hier ein konkretes Beispiel: Die Türkei gehört unter anderem zu einem Konsortium, das am Bau des ersten Tarnkappen-Mehrzweckkampfflugzeuges Lockheed Martin F-35 Lightning II beteiligt ist. Wird die Türkei China einladen, dieses Flugzeug zu inspizieren oder gar Probe zu fliegen? Welche anderen Waffengeschäfte könnte die Türkei mit China vereinbaren?

Türkei droht Isolation

Es sei jedenfalls eine Notwendigkeit, das westliche Analytiker damit begönnen, sich nicht nur mit den Auswirkungen der chinesisch-türkischen Annäherung, sondern auch mit dem wachsenden Netzwerk antiwestlicher Staaten zu beschäftigen. Mit Blick auf Erdoğan konstatiert Auslin, falls der türkische Premier weiter Alliierte bei den „autoritären Staaten“ suche, werde er die Türkei von der liberalen westlichen Welt isolieren.

Das Gewicht der Türkei vergrößern

Auslins Artikel ist in mancherlei Hinsicht instruktiv: So spiegelt er zum Beispiel die Irritation der USA im Hinblick auf das Ausgreifen Chinas in Regionen, die die USA als ihre angestammte Einflußsphäre betrachten. Erdoğan sieht sich in der angenehmen Lage, aufgrund der Heraufkunft des neuen „global players“ China mit dem geopolitischen Pfund der Türkei zu wuchern. Der Konsens der „westlichen Wertegemeinschaft“ interessiert ihn dabei herzlich wenig; sein Ziel besteht ganz offensichtlich darin, das internationale Gewicht der Türkei weiter zu erhöhen.

Mit der Türkei bekommen die USA ganz konkret vorgeführt, daß ihre Position als „einzige Supermacht“ Geschichte ist. Ab jetzt steht mit China ein ernsthafter Herausforderer im Ring, der jede Schwachstelle, die die westliche Führungsmacht bietet, nutzen wird. Zu diesen Schwachstellen gehört, das zeigt sich mehr und mehr, die einseitige Option für Israel.

mercredi, 29 décembre 2010

Russie, Chine, Inde: une voie trilatérale vers un monde multipolaire

Russie, Inde, Chine : une voie trilatérale vers un monde multipolaire

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Une semaine après que le président américain Barak Obama eut annoncé son soutien à l’Inde qui revendique un siège permanent au Conseil de sécurité de l’ONU, les ministres des Affaires étrangères de la Russie, de l’Inde et de la Chine (RIC) se sont réunis à Wuhan en Chine, les 14 et 15 novembre.

Les réformes de l’ONU faisaient partie des questions internationales les plus pressantes abordées par S.M. Krishna (Inde), Yang Jiechi (Chine) et Sergei Lavrov (Russie). Mais New Delhi est resté sur sa faim : la rencontre s’est clôturée par un communiqué conjoint en faveur des réformes mais n’allant pas au-delà d’une « appréciation positive du rôle joué par l’Inde dans les affaires internationales » .

La Russie a fortement appuyé la candidature indienne à un siège permanent, mais la Chine a refusé de clarifier sa position, mettant ainsi en évidence une compétition d’ambitions et de projets entre les deux membres pourvus du droit de véto au Conseil de sécurité – Chine et Russie – et le pays qui aspire à les rejoindre à la grande table.

Ces dissonances sur les questions décisives versent de l’eau au moulin des sceptiques qui considèrent que la RIC n’est qu’un club de parlote de plus. Cette conclusion est pourtant erronée. Ce qui compte ici, c’est l’importance croissante de la consultation au sein du trio des puissances émergentes qui détiennent les clés de l’ordre changeant du XXIe siècle.

 

De façon significative, la dixième rencontre trilatérale à Wuhan s’est tenue une semaine après que l’Association des nations de l’Asie du Sud-Est (ANASE [ou ASEAN]) eut approuvé l’admission des États-Unis et de la Russie au sommet de l’Asie orientale. Au lendemain aussi d’une rencontre entre les dirigeants indiens et chinois à Hanoï, dans un contexte tendu.

Pour conclure, la triade a réitéré son appel à un ordre mondial multipolaire, tout en insistant, dans le même mouvement, qu’ « aucun pays tiers » n’était visé (un euphémisme pour les États-Unis).

L’Inde, la Russie et la Chine ont manifesté des inquiétudes communes à propos de l’Afghanistan, mais leur coopération sur ce point n’a pas avancé. La triade a résolu d’intensifier la coopération antiterroriste mais il semble que Pékin ait bloqué la proposition indienne d’inclure une référence à l’élimination des « refuges » pour les terroristes, allusion au Pakistan pour son rôle en Afghanistan.

Ces différences d’approche et de point de vue des trois puissances émergentes sont naturelles, et c’est exactement pour cela que l’idée de cette triade avait été proposée il y a plus de dix ans par le Premier ministre russe Evgueny Primakov, afin de contrebalancer l’hégémonie de Washington.

La triade encourage aussi l’approfondissement de la coopération dans des domaines divers : agriculture, santé, changements climatiques, catastrophes naturelles et problèmes économiques mondiaux, qui peuvent transformer la vie des populations. La proposition de relier les centres d’innovation des trois grandes économies (Bangalore et Skolkovo par exemple), noyau de la croissance mondiale, est l’une de ces idées qui mêle l’ambition d’une renaissance nationale partagée par les trois pays à leur désir collectif d’avoir plus de poids dans les questions internationales.

Trois, c’est peut-être un de trop, mais dans ce cas-ci, le trio n’a d’autre choix que de gérer ses divergences car chacun des trois pays a plus d’intérêts que de désavantages dans les progrès réalisés par les deux autres. Alors que l’idée d’un G2 est une chimère et tandis que la réforme du Conseil de sécurité de l’ONU reste une perspective à long terme, le RIC représente un microcosme d’une ère asiatique en gestation qui accentue la nécessité de renforcer la confiance entre les trois piliers d’un monde multipolaire.

La Russie d’Aujourd’hui

Turkey "wants to repair ties with Israel"

Ex : http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-12079727

Turkey 'wants to repair ties with Israel'

Turkey-Israel.jpgTurkey's foreign minister says he wants to repair ties with Israel, damaged
when Israeli troops killed eight Turks and a Turkish-US national amid
clashes on a pro-Palestinian aid ship in May.

Ahmet Davutoglu reiterated that Israel must apologise for the deaths, which
led Turkey to withdraw its ambassador.

Israel, which insists the commandos fired in self-defence, said it was also
seeking better relations with Ankara.

Meanwhile, crowds have welcomed the ship, Mavi Marmara, back to Istanbul.

The two nations have had 15 years of good relations, including a number of
military and trade pacts, and have held talks in Geneva recently to try to
restore ties.

But the talks foundered, reportedly because Israel refused to apologise for
the 31 May raid.
'Unchanged goal'

"Turkish citizens have been killed in international waters, nothing can
cover up this truth," said Mr Davutoglu.

"We want to both preserve relations and defend our rights. If our friendship
with Israel is to continue, the way for it is to apologise and offer
compensation."

He said Turkish attempts to repair ties - including helping Israel tackle
devastating forest fires - had not been reciprocated.

Israeli foreign ministry spokesman Yigal Palmor said improving the
relationship was an "unchanged goal".

He said Israel's record in sending humanitarian aid to Turkey "speaks in a
much more truthful and friendly manner than this statement by the Turkish
foreign minister".

The Mavi Marmara, which has been undergoing repairs, sailed back to its home
port of Istanbul on Sunday afternoon.

Large crowds, including family members of the nine killed activists, greeted
the vessel in a ceremony organised by the activists who sent it.

The Mavi Marmara was part of an aid flotilla which was trying to break the
Israeli naval blockade of the Gaza Strip.

A blockade has been imposed on the Gaza Strip by Israel and Egypt since the
Islamist militant group, Hamas, seized control in 2007.

In the wake of the outcry over the raid, Israel began allowing most consumer
items into Gaza, but still maintains a complete air and naval blockade,
limits the movement of people, and bans exports.

Israel says the measures are needed to stop weapons being smuggled to
militants, but the UN says they amount to collective punishment of Gaza's
1.5 million people.

mardi, 28 décembre 2010

Peter Scholl-Latour : Krieg ohne Ende

 

Peter Scholl-Latour: Krieg ohne Ende

Una nuova geopolitica indiana?

map_indian_ocean.jpg

Una nuova geopolitica indiana?

Daniele GRASSI

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.

Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.

Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.

Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.

Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.

 

 

 

La politica estera indiana dopo l’indipendenza

 

Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.

La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.

 

L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.

Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.

Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.

Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.

Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.

 

Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.

Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.

Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.

Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.

 

 

L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv

Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.

Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.

 

La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.

L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.

La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.

New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.

Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.

 

 

 

Riposizionamento strategico?

 

Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.

Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.

L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.

In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.

I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.

La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.

Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.

Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.

L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.

L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.

Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.

La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.

 

Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.

L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.

Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.

Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.

 

 

 

L’India strizza l’occhio all’Iran

 

Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.

Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.

Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.

La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.

Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.

 

La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.

 

La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.

Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.

L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.

Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.

L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.

Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.

Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.

Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.

Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.

Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.

I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.

Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

China und Russland schaffen den Dollar ab

China und Russland schaffen den Dollar ab

Michael Grandt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

China und Russland haben beschlossen, den US-Dollar als Sicherheit für den bilateralen Handel aufzugeben und auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Zudem will Peking Russland helfen, sich wieder als Großmacht zu etablieren.

Chinesische Experten sagten aus, dass die engeren Beziehungen zwischen Peking und Moskau nicht gegen den Dollar gerichtet seien, sondern die eigenen Volkswirtschaften schützen soll.

Im Zuge von Handelsvereinbarungen hatten die beiden Staaten unlängst beschlossen, auf ihre eigenen Währungen zurückzugreifen. Im chinesischen Interbankenmarkt wurde bereits damit begonnen, den Yuan gegen den russischen Rubel zu handeln; umgekehrt soll dies mit der chinesischen Währung auch bald in Russland möglich sein.

Beide Länder hatten ihren bilateralen Handel bisher hauptsächlich mit dem Dollar getrieben. Doch im Zuge der Finanzkrise begannen hochrangige Beamte beider Länder, andere Möglichkeiten zu eruieren.

Sun Zhuangzhi, leitender Forscher an der chinesischen Akademie der Sozialwissenschaften, stellte fest, der neue Modus der Geschäftsabwicklung zwischen China und Russland folge einem globalen Trend, nachdem die Finanzkrise die Fehler eines vom Dollar dominierten Weltfinanzsystems aufgezeigt habe. Pang Zhongying, die in der Renmin University of China auf internationale Politik spezialisiert ist, sagte, der Vorschlag fordere den Dollar nicht heraus, sondern richte sich auf die Vermeidung der Risiken, die der Dollar darstelle.

Die neue Zusammenarbeit zwischen China und Russland soll vor allem in den Bereichen Luftverkehr, Eisenbahnbau, Zoll, Schutz des geistigen Eigentums und der Kultur stattfinden. Inoffiziellen Verlautbarungen nach will Peking zudem zwei Atomreaktoren aus Russland kaufen.

Der chinesische Ministerpräsident Jiabao Wen sagte, die Partnerschaft zwischen Peking und Moskau habe »ein beispielloses Niveau« erreicht und versprach, die beiden Länder »werden sich nie mehr verfeinden. China wird dem Weg der friedlichen Entwicklung folgen und die Renaissance Russlands als Großmacht unterstützen«.

Peking ist außerdem bereit, mit Moskau in Zentralasien und der asiatisch-pazifischen Region zusammenzuarbeiten. Ebenso soll in den wichtigen internationalen Organisationen und Mechanismen eine »faire und vernünftige, neue Ordnung« in der internationalen Politik und Wirtschaft angestrebt werden.

 

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Quelle:

http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-11/24/content_115...

lundi, 27 décembre 2010

L'incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina piu vicine

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L’incubo geopolitico di Washington: Russia e Cina più vicine

Fonte: “

Reseau Voltaire [1]

Qualsiasi siano i conflitti in corso all’interno delle mura del Cremlino fra Medvedev e Putin, ci sono ultimamente chiari segnali che sia Pechino sia Mosca si stiano muovendo con decisione, dopo un lungo periodo di esitazione, al fine di rafforzare la cooperazione strategica economica a fronte del palese sgretolarsi del ruolo d’unica superpotenza degli USA. Se questa tendenza si rafforzasse, si verificherebbe il peggiore incubo geopolitico di Washington: una massa continentale eurasiatica riunita, in grado di sfidare l’egemonia economica globale dell’America.


Parafrasando il proverbio cinese, potremmo affermare di vivere senza dubbio in «tempi interessanti». Non appena sembrava che Mosca si stesse avvicinando a Washington nel corso della Presidenza di Medvedev, accettando di cancellare la vendita all’Iran di un controverso sistema di difesa missilistica S-300 e iniziando a cooperare con Washington sui progetti della NATO, incluso forse lo scudo antimissile, Mosca e Pechino si sono accordati su una serie di misure che possono avere grosse implicazioni geopolitiche, non ultime per il futuro della Germania e quello dell’Unione Europea.

Nel corso d’incontri di vertice tenutisi a San Pietroburgo, il primo ministro cinese Wen Jiabao e la sua controparte russa, Vladimir Putin, hanno fatto una serie d’annunci passati relativamente inosservati nei principali mezzi di comunicazione occidentali, temporaneamente ossessionati dai dubbi scandali legati a “Wikileaks”. È già la settima volta che i dirigenti dei due paesi si incontrano quest’anno, e certamente questo significa qualcosa.

Ad oggi non ci sono stati molti investimenti cinesi nel mercato russo e quelli che si sono verificati, avevano forma prevalente di prestiti. Il valore degli investimenti diretti e di portafoglio in progetti concreti rimangono insignificanti, così come il livello di investimento della Russia in Cina: la situazione è destinata però a cambiare. Alcune società russe sono già quotate alla Borsa di Hong Kong ed esiste un numero di progetti di investimento russo-cinesi per la creazione di tecnoparchi sia in Russia sia in Cina.

Lasciando cadere il dollaro

I due Primi Ministri hanno annunciato, fra l’altro, di aver raggiunto un accordo per rinunciare al dollaro nel loro commercio bilaterale utilizzando al suo posto le proprie valute. Inoltre hanno raggiunto accordi potenzialmente di vasta portata su energia, commercio e modernizzazione economica delle remote regioni del vasto spazio euroasiatico dell’Estremo Oriente russo.

Fonti cinesi hanno rivelato alla stampa russa che questa mossa rifletterebbe relazioni più strette fra Pechino e Mosca e lo scopo non sarebbe quello di sfidare il dollaro. Putin ha allegramente annunciato: «Per quanto riguarda la compensazione commerciale, abbiamo deciso di usare le nostre valute». Egli ha aggiunto che la moneta cinese yuan ha cominciato ad essere scambiata col rublo russo nel mercato interbancario cinese, mentre il renminbi, fino ad ora solo moneta domestica e non convertibile, avrà presto una parità col rublo in Russia.

Ad oggi il commercio fra i due paesi avveniva in dollari. In seguito allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 e l’estrema volatilità del dollaro e dell’euro, entrambe le nazioni hanno cercato nuovi modi di evitare l’uso della valuta statunitense nel commercio, tentativo potenzialmente importante per il futuro della stessa. Al fine di ottimizzare lo sviluppo e la struttura del commercio, i due governi hanno creato la Camera di Commercio russo-cinese per i macchinari e prodotti tecnologici. Il Greenwood World Trade Center a Mosca, attualmente in costruzione da una società cinese, sarà nel 2011 un centro espositivo e commerciale di prodotti cinesi in Russia e servirà da piattaforma per incrementare gli scambi non governativi tra i due paesi.

Allo stato attuale il commercio fra Russia e Cina è in rapida crescita. Nei primi 10 mesi di quest’anno, il volume del commercio bilaterale ha raggiunto circa 35 miliardi di euro, un incremento su base annua del 45%. Quest’anno si prevede che gli scambi totali supereranno i 45 miliardi, portandosi così vicini al livello precedente alla crisi finanziaria. Entrambe le parti hanno intenzione di aumentare il volume degli scambi in maniera significativa nei prossimi anni e alcuni analisti russi credono che potrebbe anche raddoppiare nel giro d’un triennio. L’esclusione del dollaro non è cosa da poco e, se seguita da altri Stati dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (il gruppo di sei paesi eurasiatici instaurato da Cina e Russia nel 2001) potrebbe indebolirne il ruolo di valuta di riserva mondiale.

Dal Trattato di Bretton Woods nel 1944 il dollaro è stato posto al centro del sistema di commercio globale e l’egemonia statunitense si è basata su due pilastri indispensabili: il dominio degli Stati Uniti come potenza militare insieme al ruolo esclusivo del dollaro come valuta di riserva mondiale. La combinazione di potenza militare e ruolo di riserva della propria valuta per tutto il commercio di petrolio, altre materie prime essenziali e prodotti finanziari, ha permesso a Washington di finanziarsi concretamente le sue guerre per il dominio globale col “denaro degli altri”.

Cooperazione energetica

Accordi interessanti sono stati siglati anche nell’ambito della cooperazione energetica bilaterale. È chiaro che i due colossi euroasiatici hanno in programma di espandere il commercio bilaterale al di fuori del dollaro in modi interessanti, includendo in maniera significativa l’energia, dove la Cina ha enormi deficit e la Russia enormi sovrappiù e non solo nel petrolio e nel gas.

Le due parti espanderanno la cooperazione nell’energia nucleare a partire dall’aiuto offerto dalla Russia alla Cina per la costruzione di centrali nucleari e di progetti congiunti russo-cinesi al fine di arricchire l’uranio in linea con le normative AIEA e produrlo in paesi terzi ed inoltre per costruire e sviluppare una rete di raffinerie petrolifere in Cina. È già in essere il primo progetto, Tianjin. Un accordo prevede l’acquisto di due reattori nucleari russi da parte della centrale nucleare cinese di Tianwan, il complesso più avanzato di energia nucleare in Cina. Così pure l’esportazione del carbone dalla Russia alla Cina dovrebbe superare i 12 milioni di tonnellate nel 2010, ed è destinata ad aumentare.

Le compagnie petrolifere cinesi forniranno anche gli investimenti necessari per aggiornare i progetti per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti d’idrocarburi e la raffinazione del petrolio, in joint venture con società statali e private russe. In aggiunta, un gasdotto russo-cinese diventerà operativo a fine anno. Un punto importante ancora da sistemare è l’ammontare del prezzo del gas russo alla Cina: l’accordo è previsto nei prossimi mesi. La Russia chiede un prezzo per la fornitura di gas Gazprom che sia uguale a quello per i clienti europei, mentre Pechino richiede uno sconto.

I maggiori progetti di sviluppo industriale

Ci saranno intensi e reciproci investimenti industriali nelle remote regioni lungo i 4200 km di frontiera in comune, in particolare fra la Siberia e l’Estremo Oriente russi ed il Dungbei cinese, dove negli anni ’50 e ’60, prima dell’incrinarsi delle relazioni fra Unione Sovietica e Cina, l’URSS aveva costruito centinaia di impianti industriali leggeri e pesanti. Quest’ultimi sono stati modernizzati e rimpiti di nuove tecnologie cinesi o d’importazione, ma le solida fondamenta industriali d’epoca sovietica sono ancora là.

Questo – sostengono alcuni analisti russi – conferirà alla cooperazione regionale un livello tecnologico più elevato, soprattutto fra i territori di Chabarovsk e Primor’e, le regioni di Čita e Irkutsk, la Transbaikalia, tutta la Siberia, l’Heilongjiang ed altre province cinesi.

Nel 2009 Cina e Russia firmavano un programma con scadenza 2018 per lo sviluppo congiunto di Siberia, Estremo Oriente russo, e province nord orientali della Cina, attraverso un chiaro piano d’azione che comprendeva dozzine di progetti di cooperazione tra le specifiche regioni per sviluppare 158 strutture nelle aree di confine, nel settore del legno, chimica, infrastrutture stradali e sociali, agricoltura e diversi progetti di esportazione di energia.

Il viaggio di Wen segue la visita di tre giorni del Presidente Medvedev in Cina a settembre, durante la quale assieme al presidente Hu Jintao ha lanciato il da tempo discusso gasdotto trans-frontaliero da Skovorodino, nella parte orientale della Siberia, a Daqing, nel nord est della Cina. Entro la fine del 2010 il petrolio russo inizierà a fluire verso la Cina al ritmo di 300.000 barili al giorno per i prossimi vent’anni, grazie ad un accordo di tipo “credito in cambio di petrolio” da 20 miliardi di euro, stipulato lo scorso anno.

La Russia sta cercando di espandersi all’interno del crescente mercato energetico asiatico e in particolar modo in quello cinese, e Pechino vuole migliorare il suo approvvigionamento energetico diversificando rotte e fonti. Il gasdotto raddoppierà l’esportazione di petrolio russo in Cina, oggi trasportato principalmente tramite una lenta e costosa rotta ferroviaria, e farà della Russia uno dei suoi primi tre fornitori di greggio alla Cina, assieme a Arabia Saudita e Angola; un importante realizzo geopolitico per entrambi.

Il premier cinese Wen durante una conferenza stampa a San Pietroburgo ha affermato che la partnership fra Pechino e Mosca ha raggiunto «livelli di cooperazione senza precedenti» e ha promesso che i paesi «non diventeranno mai nemici». È dalla rottura sino-sovietica durante la Guerra Fredda che la geopolitica di Washington cerca di creare una profonda spaccatura tra i due paesi per rafforzare la sua influenza sul vasto dominio eurasiatico.

Come ho affermato in precedenza, l’unica potenza del pianeta che in teoria potrebbe ancora offrire un deterrente nucleare credibile a Washington è la Russia, per quanti problemi economici possa avere. La capacità militare cinese è ancora distante anni da quella russa, ed è principalmente difensiva. Sembra essere la Cina l’unica potenza economica in grado di rappresentare una sfida per il declinante gigante statunitense. La complementarità fra i due sembra essere stata pienamente compresa. Forse le prossime rivelazioni di Wikileaks “scopriranno” dettagli imbarazzanti su questa cooperazione; dettagli convienti per l’agenda geopolitica di Washington. Per il momento, però, la crescente cooperazione economica sino-russa rappresenta il peggior incubo geopolitico di Washington in un momento in cui la sua influenza globale è chiaramente in declino.

(Traduzione di Eleonora Ambrosi)


* F. William Engdahl, economista e co-direttore di “Global Research”, fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

Article printed from eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org

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dimanche, 26 décembre 2010

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

Wikileaks, geopolitische Absichten und South Stream

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Die Flut von internen Botschaftsberichten, die Julian Assange, der geheimnisumwobene Gründer der Internetplattform Wikileaks, jüngst in die Öffentlichkeit gebracht hat, gehört zu den eher seltsamen Vorfällen aus der Welt der Geheimdienste. Doch sind diese Enthüllungen für das State Department oder die US-Außenpolitik allgemein gar nicht so unangenehm wie behauptet. Denn bei dem, was da bekannt wurde, handelt es sich um einen Mix aus langweiligen und zumeist unbedeutenden Einzelheiten, die Botschaftsmitarbeiter aus aller Welt melden, und »gezielten« Lecks, wie sie der ehemalige US-Sicherheitsberater Zbigniew Brzezinski nennt.

 

 

So werden in einer internen Mitteilung Putin und Medwedew als »Batman und Robin« bezeichnet – witzig, aber doch nicht gerade wichtig. Wie sich herausstellt, war kein einziges dieser Dokumente als »streng geheim« klassifiziert. Etwa 40 Prozent der 250.000 Seiten stehen überhaupt nicht unter Verschluss.

Zu den Dokumenten, die Brzezinski als mit »gezielten« Tatsachen »platziert“ bezeichnet, um den »Absichten eines Geheimdiensts zu dienen«, gehören Mitteilungen über Verhandlungen, die Moskau und die italienische Berlusconi-Regierung über den Bau der geopolitisch wichtigen South-Stream-Gaspipeline geführt haben.

Im Dezember 2009 war der russische Präsident Medwedew zur Unterzeichnung eines Abkommens über die geplante Erdgas-Pipeline South Stream nach Rom gereist. Wie jetzt enthüllt wurde, hat US-Außenministerin Hillary Clinton eine genaue Überprüfung der Beziehungen zwischen Rom und Moskau angeordnet, besonders im Hinblick auf South Stream. Washington setzt nämlich auf ein anderes Pferd: das extrem teure »Nabucco«-Projekt, dessen Wirtschaftlichkeit bisher mangels ausreichender Einspeisung nicht gesichert ist.

In den letzten Monaten hat der Streit Nabucco gegen South Stream die Dimensionen der scharfen amerikanisch-sowjetischen Auseinandersetzungen angenommen, die während des Kalten Krieges in der Reagan-Ära über die Energieversorgung in Europa geführt wurden. Dabei steht weit mehr auf dem Spiel als nur der finanzielle Gewinn aus Gasverkauf oder Pipelinebau. Es geht vielmehr um die Zukunft Westeuropas und die Zukunft der eurasischen Geopolitik – auf den ersten Blick nicht unbedingt ersichtlich.

Eurasische Pipeline-Geopolitik

Mit der Auflösung der Sowjetunion und dem Zusammenbruch des Militärbündnisses des Warschauer Pakts war 1991 der Kalte Krieg, zumindest aus Moskauer Sicht, beendet. Moskau hatte die weiße Flagge gehisst. Überfordert durch den Rüstungswettlauf mit den USA und geschwächt durch den niedrigen Ölpreis, lag die Wirtschaft am Boden. Für den niedrigen Ölpreis war das State Department verantwortlich, das Druck auf Saudi-Arabien ausgeübt hatte, um Moskau von den Deviseneinnahmen abzuschneiden, die 1986/87 durch Ölexporte erzielt worden waren. Zwei Jahre später willigte Michail Gorbatschow ein, die Berliner Mauer einzureißen. Manche Beobachter sprachen damals von der größten fremdfinanzierten Übernahme (»leveraged buyout«) der Geschichte.

Das einzige Problem liegt darin, dass Washington keinerlei Veranlassung gesehen hat, den Kalten Krieg von amerikanischer Seite zu beenden. Anstatt die feierlichen Versprechungen einzuhalten, die man Gorbatschow im Rahmen der Gespräche über die deutsche Wiedervereinigung gemacht hatte, wonach die USA die Länder des ehemaligen Warschauer Pakts nicht in die NATO einbeziehen würde, nutzte Washington in den 1990er-Jahren Russlands Schwäche und dehnte die NATO bis direkt vor Moskaus Haustür aus. Mit Polen, Ungarn und Rumänien, Bulgarien und den baltischen Staaten hatte die NATO Russland 2003 eingekreist. Gleichzeitig verlangte der IWF als Teil der »Schocktherapie« von der russischen Regierung die Privatisierung der Staatsbetriebe. Russlands strategische Rohstoffe und andere unschätzbare Vermögenswerte gingen in westliche Hände über.

Doch im Laufe des Jahres 2003 hatte sich Präsident Wladimir Putin fest im Amt etabliert und den verschiedenen russischen Oligarchen zu verstehen gegeben, dass er die Ausbeutung russischer Vermögenswerte durch den Westen nicht weiter ausdehnen wollte. Der entscheidende Warnschuss erfolgte im Oktober 2003 mit der Verhaftung des politisch ambitionierten Michael Chodorkowski, dessen Yukos-Sibneftoil-Konzern kurz davor stand, bis zu 40 Prozent der Anteile an dieser größten privaten russischen Ölgesellschaft an ExxonMobil oder Chevron zu verkaufen. Eingefädelt hatten das Geschäft George H. W. Bush und die einflussreiche Carlyle Group aus Washington. Chodorkowski verstieß damit gegen ein Versprechen, das Putin den russischen Oligarchen abverlangt hatte: sie würden die Vermögenswerte, die sie dem Staat bei der vom IWF verordneten Privatisierung in der Jelzin-Ära buchstäblich gestohlen hatten, nicht weiter veräußern.

2003 wurde auch die Einkreisung Russlands dramatisch vorangetrieben, als die vom State Department finanzierte »Rosen-Revolution« in Georgien und die »Orange«-Revolution in der Ukraine

Washingtons Widerstand gegen die russische South-Stream-Pipeline ist Ausdruck eines geopolitischen Machtkampfs um die Vorherrschaft in Europa.

ausbrachen. Dadurch wurden zwei Marionetten Washingtons ins Amt gehievt, die sich verpflichtet hatten, ihre Länder in die NATO zu führen. Damals brachte Russland die einzige Waffe ins Spiel, über die das Land noch verfügte: die Kontrolle über die weltweit größten Erdgas-Reserven. Außerdem gab es den Gazprom-Konzern, zu dessen Vorstand Medwedew gehört hatte, bevor er in die Putin-Regierung eintrat.

Putin handelte mit der deutschen Schröder-Regierung das politisch bedeutsame Nord-Stream-Pipelineprojekt aus. Die Nord Stream, über die kürzlich das erste russische Gas nach Deutschland und in die EU gepumpt wurde, löste in Washington und bei der Regierung des NATO-Lands Polen wütende Proteste aus. Doch trotz des immensen Drucks wurde der Bau vorangetrieben.

Jetzt wird vom russischen Gazprom-Konzern die South-Stream-Pipeline gebaut. Über die Pipeline soll Gas von den russischen Gasfeldern aus der Region des Kaspischen Meeres über den Grund des Schwarzen Meeres und den Balkan bis nach Süd- und Norditalien gepumpt werden. Die Europäer sind die größten Abnehmer von russischem Gas.

Selbst England plant, ab 2012 erstmals Gas aus Russland direkt über die Nord-Stream-Pipeline zu pumpen. Streitereien zwischen Russland und der Ukraine, die offensichtlich ermuntert wurden, als Wiktor Juschtschenko, Washingtons Mann-in-Orange, noch Präsident der Ukraine war, hatten in Italien und anderen europäischen Ländern zu Engpässen bei der Gasversorgung geführt. Vor diesem Hintergrund erklärte der italienische Regierungschef Berlusconi: »Wir wollen erreichen, dass die South Stream nicht über ukrainisches Gebiet verlegt wird. Deshalb unternehmen wir jede Anstrengung, von der Türkei die Zusicherung zu erhalten, dass die South Stream durch ihre territorialen Gewässer verlegt werden kann.« Der französische Energiekonzern EDF verhandelt zurzeit über eine 10-prozentige Beteiligung an dem Projekt.

Im Dezember 2009 haben der italienische Energiekonzern ENI und Gazprom vereinbart, dass die South Stream bis Italien geführt wird. Ein technisch-wirtschaftliches Gutachten über das South-Stream-Projekt wird im Februar 2011 vorgelegt. Bis Ende 2015 soll die Pipeline in Betrieb genommen werden. Mit Bulgarien, Serbien, Ungarn, Slowenien und Kroatien hat Russland bereits Verträge über den Bau über Land unterzeichnet.

Die EU-Kommissionssprecherin für Energie, Marlene Holzner, verlangte eine Änderung des russisch-bulgarischen Vertrags über das Gaspipeline-Projekt South Stream, sodass auch andere EU-Länder Zugang zur Pipeline erhielten. Eine Fraktion in der EU unterstützt Washingtons Alternative Nabucco. Während der EU-Kommissar nach außen darauf besteht, dem South-Stream-Projekt eine faire Chance einzuräumen, arbeitet er de facto an dessen Sabotage, zugunsten von Nabucco. Holzner wird in der Presse mit den Worten zitiert: »Europäische Vertreter hatten Einwände dagegen, dass Bulgarien durch den Vertrag mit Russland zur vollständigen und ungehinderten Durchleitung russischen Gases über das eigene Staatsgebiet verpflichtet war […] Für uns liegt die Priorität bei Nabucco, weil damit die Quellen für die Gasversorgung leichter diversifiziert werden können.«

Die Wikileaks-Enthüllungen über die Beziehungen zwischen Berlusconi und Putin entsprechen Brzezinskis Definition von »gezielten« Lecks. De facto lassen sie Berlusconi als Spielball der Moskauer Energie-Geopolitik erscheinen. In den Mitteilungen ist von Berlusconis »ungewöhnlich engen Beziehungen« zu Wladimir Putin die Rede; über die South-Stream-Gaspipeline heißt es, sie errege in Washington »erhebliches Misstrauen«.

Eindeutig soll die ohnehin bedrängte Berlusconi-Regierung mit dem gezielten Leck in politische Verlegenheit gebracht werden, und zwar genau zu dem Zeitpunkt, wo der extravagante Premierminister mit einer Flut von persönlichen Skandalen und Rücktritten in seiner Koalition zu kämpfen hat.

Bisher sieht es allerdings nicht danach aus, als beeinträchtigten die Enthüllungen die Energie-Kooperation zwischen Moskau und Rom. Unbeeindruckt von den Wikileaks-Veröffentlichungen ist der russische Präsident Medwedew soeben im Rahmen der erweiterten russisch-italienischen Regierungsgespräche im russischen Skiort Krasnya Polyana an der Schwarzmeerküste mit Silvio Berlusconi zusammengetroffen. Am Rande der Gespräche unterzeichneten der russische Stromkonzern RAO und die italienische Enel-Gruppe eine Absichtserklärung für eine Partnerschaft.

Die Vereinigten Staaten werden heute nicht nur in Moskau, sondern in immer breiteren westeuropäischen Kreisen als Supermacht betrachtet, die vor dem endgültigen Abstieg steht. Angesichts der schlimmsten Wirtschaftsdepression seit den 1930er-Jahren, bei der kein Ende in Sicht ist, und der Unfähigkeit Obamas und der US-Außenpolitik zu einer für die EU günstigen Zusammenarbeit bemüht sich eine wachsende Fraktion in der politischen und wirtschaftlichen Elite von Frankreich über Italien bis Deutschland um engere Wirtschaftsbeziehungen mit Russland und eurasischen Staaten, die als Markt der Zukunft gelten. Das löst in Washington natürlich nicht gerade Jubelgeschrei aus. Vor diesem geopolitischen Hintergrund sollten die Wikileaks-»Enthüllungen« über Italien und Russland gesehen werden.