samedi, 27 mars 2010
Il male atlantista
di Fabio Falchi
Fonte: fabiofalchicultura
L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale". |
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E' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.
Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).
E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".
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Géopolitiques de l'Argentine et du Chili
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989
Géopolitiques de l'Argentine et du Chili
Bertil HAGGMAN
Si le Canal de Panama est bloqué, le trafic maritime n'a d'autre alternative que d'emprunter la route qui passe par le Cap Horn. C'est pourquoi tant l'Argentine que le Chili ont une très grande importance géopolitique. A l'époque de la guerre froide, ces deux pays étaient des cibles privilégiées des tentatives de pénétration soviétique. Le long littoral de la côte argentine face à l'Atlantique Sud (1700 miles) fait de ce pays une puissance atlantique. De l'autre côté du cône austral de l'Amérique du Sud se trouve le Chili, dont la côte pacifique est longue de 2600 miles. Le territoire chilien s'étend sur une centaine de miles plus au Sud. Le Détroit de Drake entre la Péninsule Antarctique et le Cap Horn constitue une connexion vitale entre les Océans Pacifique et Atlantique. Il nous apparaît dès lors fort important de procéder à une étude de la géopolitique chilienne et argentine en Europe, afin que nous nous rendions bien compte de l'importance géostratégique et géopolitique vitale de cette région du monde.
La géopolitique argentine
En Argentine, on s'intéresse très fort à la géopolitique et on y consacre toutes sortes de recherches. La pensée géopolitique s'y est développée en deux étapes depuis 1940. La première étape a commencé vers 1940 et s'est poursuivie jusqu'au début des années 50. La première théorie géopolitique moderne d'Argentine semble être celle mise en œuvre par Emilo R. Isolas et Angel Carlos Buerras. En 1950, ils publient tous deux Introduccion a la geopolitica argentina. Nos deux auteurs y affirmaient que les doctrines géopolitiques conçues à l'étranger n'étaient pas toujours pertinentes pour l'Argentine. Ce sont eux également qui ont introduit la méthode d'inverser les cartes. Celles-ci, dans leurs travaux, étaient centrées sur l'Argentine et sur le “pivot de l'Antarctique”. Cette manière de jeter un regard sur le monde rappelle des tentatives similaires, réalisées au Canada et aux Etats-Unis, quand on cherchait, là-bas, à souligner l'importance de l'Arctique. L'importance de l'Antarctique a acquis progressivement une signification cardinale dans les théories géopolitiques argentines. Isolas et Buerras plaidaient pour le renforcement des liens entre l'Argentine et le Chili et pour le retour des Iles Malouines/Falklands à l'Argentine.
Plus d'une décennie s'est écoulée, avant que de nouvelles idées géopolitiques voient le jour, mais les thèses de Buerras et Isolas continuaient néanmoins à être étudiées et approfondies dans les universités, les écoles et les académies militaires. En 1966, Justo P. Briano, un Colonel qui avait enseigné au Collège Militaire en 1940-41 publie un ouvrage de très grand intérêt. Entre 1960 et 1964, il était devenu professeur de géopolitique à l'Institut de Science Politique de la Salvador University. Dans Geopolitica y geostrategia americana, il affirme que la géopolitique est une science. Elle est, affirme-t-il, un instrument inestimable pour les hommes politiques qui guident effectivement la nation. Briano militait pour l'unification du continent sud-américain. Il voulait ce que l'on appelait l'“intégration”, autour de l'Argentine et du Brésil, alliés des Etats-Unis dans un “groupe américain”.
Jorge Atencio, également Colonel et Professeur de géopolitique à l'Université Nationale de Cuyo (Mendoza) fut le successeur immédiat de Briano, en soumettant à ses élèves et ses collègues un nouvel ouvrage majeur de géopolitique, intitulé Que es geopolitica? Ce livre constitue une interprétation claire de la pensée géopolitique et en adapte les thèses d'un point de vue argentin. L'Argentine, explique Atencio, n'a nul besoin d'étendre son territoire mais doit le développer. Atencio inclut dans le territoire argentin les Iles Malouines et l'immense secteur argentin de l'Antarctique. Il affirme également que la mer est importante. Les Amériques du Nord et du Sud disposent d'énormes réserves territoriales et sont les dépositaires de larges territoires, en deuxième position par rapport à l'Asie. Atencio réclame de ses compatriotes qu'ils s'intéressent davantage à la mer et qu'ils déployent un maximum d'efforts pour développer les zones “vierges” de l'Argentine.
Fernando A. Milia, Amiral en retraite, était lié à l'Institut des Etudes stratégiques. Son livre Estrategia e poder militar (1965) est une tentative de créer une doctrine stratégique argentine. L'Amiral Milia prétend que la stratégie se limite aux exigences de la politique étrangère, de la politique intérieure et de l'économie. Le développement économique est nécessaire pour accroître le potentiel militaire. La théorie de Milia cherche à intégrer dans son concept stratégique l'entièreté ou des parties des territoires voisins. Cette volonté a été dénommée “intégrationniste”.
La pensée géopolitique contemporaine en Argentine est surtout liée à deux thématiques. La première est orientée vers la restauration du pouvoir et de l'influence de l'Argentine par le biais d'une forme ou une autre de politique “intégrationniste”, parfois d'inspiration nationaliste. L'autre thématique se retrouve dans des travaux dont l'orientation générale opte pour la coopération ou pour l'intégration économique et militaire (c'est l'intégrationnisme non nationaliste). Le schéma ci-dessous montre bien quels sont les objectifs de chacune des deux écoles:
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En 1975, Osiris Guillermo Villegas, Général à la retraite, publie Tiempo geopolitico argentino. Il y explique que l'Argentine a besoin d'un nouveau modèle national qui lui permette d'accélérer son développement. Les atouts qui lui permettraient de réaliser un tel programme sont: l'autonomie de décision, la rentabilisation économique de la région et la création d'une société développée, originale et créative. L'intégration nationale doit tout à la fois tabler sur les efforts du peuple et sur les forces armées, recommande le Général Villegas. Dans une annexe de son livre, Villegas donne 160 recommandations politiques originales, afin de réaliser ce nouveau modèle de société.
Le géopolitologue le plus péroniste des années 70 reste sans conteste Gustavo Cirigliano. Dans son livre Argentina triangular: geopolitica y projecto nacional (1975), , il affirme que l'Argentine est une puissance “triangulaire” et non pas circulaire. Elle s'est developpée selon deux axes: l'axe andéen et l'axe de la Plata et a ainsi englobé la Patagonie, les Malouines et le secteur argentin de l'Antarctique. Cirigliano a également suggéré un projet d'intégration continental, devant s'achever en 1990, incorporant le Canada en 1994 et l'Espagne en 1995. Le livre de Cirigliano a été critiqué, on l'a jugé trop utopique, mais on l'a également loué parce qu'il mettait l'accent sur l'intégration continentale.
Gomez Rueda, Professeur à l'Université de Cuyo, est proche de Villegas dans sa pensée. Son ouvrage Teoria y doctrina de la geopolitica (1977) démontre que la géopolitique est liée à la politique, la géographie et l'histoire et est fortement connectée à la stratégie. Rueda a forgé une nouvelle théorie géopolitique, la théorie relativiste. Rueda vise l'intégration continentale des dix pays de l'Amérique du Sud, afin de ne plus former qu'un seul pays. Il affirme aussi que l'Argentine est le centre géopolitique du Ters-Monde. Dans son livre, il subdivise l'Amérique du Sud en cinq régions géopolitiques; parmi celles-ci, la région biocénanique, comprenant le cône austral de l'Amérique du Sud, soit le Chili et l'Argentine.
José Felipe Marini est également un Colonel en retraite de l'Armée de Terre; il enseigne la géopolitique au Collège national de guerre et à l'Institut des Services étrangers. En 1980, il a publié trois ouvrages de géopolitique, dont certains avec un co-auteur. L'ouvrage principal de Marini date de 1978 et s'intitule Geopolitica argentina: Bases para su formulacion. Il y perçoit l'Argentine comme une île, séparée par de longues distances océaniques de l'Europe, de l'Afrique et de l'Australie. Il se fait l'avocat d'une étroite coopération avec le Chili, pays dont la position est similaire. L'Argentine doit peupler et développer les espaces vacants de son territoire et formuler des objectifs politiques sur le long termes (des périodes de 20 à 25 ans) afin d'assurer son développement.
Dans un livre intitulé El poder del Pan, Rodriguez Zia plaide pouru ne intégration complète de l'Argentine, de la Bolivie, du Paraguay et de l'Uruguay, afin d'amorcer une politique qui favorise à outrance la production de denrées alimentaires. Il affirme que cette région appelée à s'intégrer est la plus habitable de tout l'hémisphère sud. Le bassin de la Plata pourrait constituer une formidable réserve de production alimentaire. La théorie du Heartland de Mackinder ne survivra pas, prophétise Zia, car le véritable problème de l'avenir sera la faim. Le vrai pouvoir sera le “pouvoir du pain”.
L'Argentine a développé un véritable programme d'enseignement de la géopolitique dans ses collèges militaires et dans ses universités civiles. Même dans les écoles secondaires, la géopolitique est enseignée d'une manière relativement intensive. Après le retour d'un pouvoir civil dans les années 80, l'influence de la géopolitique s'est peut-être un peu amoindrie mais reste importante et ne cesse d'exprimer les intentions stratégiques et politiques du pays, sur le plan des politiques intérieure et extérieure.
La géopolitique en Argentine s'est étoffée au départ de l'“Instituto do Estudios geopoliticos” (IDEG) et de sa revue Geopolitica. Il y a également eu un “Instituto Argentino de Estudios Estratégicos y de las Relaciones Internacionales” (INSAR), à la tête duquel se trouvait le Général Guglialmelli. Cet institut publiait la revue Estrategia, qui a cessé de paraître. L'INSAR peut être considéré comme plus nationaliste, tandis que l'IDEG est plus intégrationniste.
La tradition géopolitique en Argentine remonte bien avant 1940, mais j'ai surtout voulu attirer l'attention de mes lecteurs sur la géopolitique moderne. Il me faut toutefois citer un ouvrage ancien, Interesa argentinos en el mar (1916), rédigé par l'Amiral Segundo R. Storni. L'intention de l'Amiral Storni était de réveiller l'intérêt des Argentins pour la mer. Storni combinait les concepts de Ratzel et de Mahan. Il estimait que l'Argentine devait se doter d'une vaste flotte marchande, de même que d'une flotte de pêche. Les forces navales étaient nécessaires pour protéger les navires civils. On considère aujourd'hui que Storni est le fondateur d'une géopolitique argentine orientée vers la mer.
La géopolitique chilienne
Le Chili a produit moins de textes géopolitiques que l'Argentine, toutefois, ce pays a la caractéristique d'avoir été gouverné à partir de 1973 par un Président géopolitologue et auteur d'un traité de géopolitique, Geopolitica. Ce Président, c'était Augusto Pinochet. Le Chili est une puissance navale dans l'Océan Pacifique, position qui a influencé toute sa conception de la stratégie et de la géopolitique. Comme en Argentine, les Chiliens s'intéressent énormément au continent Antarctique. Les débuts de la géopolitique moderne au Chili remonte aux années 40 et sont marqués par des livres aussi importants que Chile o une loca geografia (1940) et Tierra de Oceano (1946, tous deux de Benjamin Subercaseaux. En 1944, Oscar Pinochet de la Barra avait publié La Antartica chilena.
L'un des principaux géopolitologues chilien dans les années 30 et 40 a été le Général Ramon Canas Montalva. Ce militaire a avancé de nombreuses théories, parmi lesquelles nous retiendrons surtout la revendication chilienne d'une part du continent antarctique. Un décret présidentiel avait jadis délimité les revendications chiliennes dans cette aire: de 53° à 90° de longitude ouest. La première base chilienne sur ce continent a été établie en 1947. Dans un article paru en 1948, le Général Canas Montalva lance quatre nouveaux concepts géopolitiques:
1. L'ère du Pacifique commence, signalant que les ères méditerranéenne et atlantique viennent de prendre fin.
2. L'importance du lieu géographique dans toute géopolitique.
3. Le Chili détient une responsabilité d'ordre géopolitique dans la défense continentale et a un destin propre.
4. Le Chili est une puissance du Pacifique-Sud.
Les Amériques doivent dès lors devenir les continents de l'ère nouvelle. Par sa position géographique, le Chili doit être en mesure de contrôler les voies aériennes et maritimes dans la région. Dans un article ultérieur, intitulé Reflexiones geopoliticas (1), le Général Canas Montalva jette les bases de ses théories géopolitiques. Un an plus tard, il propose la fondation d'une “Confédération du Pacifique”, étape vers l'unification du continent.
Dans les années 50, Pablo Ihl a développé ces idées. Il plaide en faveur d'une solution “tiers-mondiste” pour le Chili, en association avec d'autres puissances du Pacifique et du continent sud-américain.
1. Le Chili doit proposer une union économique et commerciale entre le Chili, l'Argentine, le Brésil, la Bolivie, le Pérou, l'Equateur, le Paraguay, l'Uruguay, l'Australie, la Nouvelle-Zélande et les îles du Pacifique.
2. Le Chili doit travailler à l'avènement d'une grande nation sud-américaine, comprenant tous les pays de ce continent, ainsi que le Mexique et les Etats centre-américains.
Ihl voulait l'intégration d'autres nations sud-américaines. Comme le Général Canas Montalva dans les années 50, il réagit contre une menace argentine. Il réclame un “bloc pacifique” pour contrer les pressions de Buenos Aires. Vers 1960, Canas Montalva avait également attiré l'attention de ses compatriotes sur l'importance géostratégique du Canal de Beagle.
En 1968, Julio Cesar von Chrismar Escuti publie Geopolitica: Leyes que se deducen del estudio de la expansion de los Estados. Von Chrismar affirmait qu'il existe une série de “lois géopolitiques”. Il en a identifié 35 et les a analysées brièvement. Il met l'acent sur la sécurité et le développement, dans des termes que l'on retrouve dans les écrits géopolitiques d'Argentine et du Brésil. Ses vues reflètent surtout l'option de l'Académie de guerre, où le Général Augusto Pinochet Ugarte était professeur de géopolitique. C'est d'ailleurs lui qui écrira la préface du livre de von Chrismar. Ce dernier enseigne la géopolitique à l'Academia Superior de Seguridad Nacional.
La même année, Pinochet publie son livre Geopolitica, résultat de quinze années d'enseignement de cette discipline et de stratégie. Le point de départ de Pinochet est la théorie de Ratzel sur l'Etat comme organisme vivant. La croissance de l'Etat est l'étape la plus importante dans le cycle de vie d'une nation. Pinochet récapitule l'histoire de la pensée géopolitique depuis l'antiquité et le moyen-âge. Pinochet explique que pour comprendre la naissance, la croissance et le dépérissement des Etats, il faut être conscient du rôle qu'ont eu les réactions aux défis d'ordre spatial, ainsi que d'un nombre d'autres facteurs tels la géostratégie.
Augusto Pinochet et von Chrismar forment en quelque sorte une école distincte de la géopolitique chilienne. Ils présentent les lois et les concepts de la géopolitique de façon telle que les gouvernements sont appelés à les appliquer pour le bien de l'organisme Etat. Plus tard, dans les années 70, une géopolitique plus nationaliste voit le jour. Ainsi, Federico Manuel Bermudez se fait l'avocat d'une “mer chilienne” dans le Pacifique et veut étendre les eaux territoriales jusqu'à 200 miles. Cette “mer chilienne” devait avoir les limites suivantes: à partir de la frontière nord du Chili, les géopolitologues nationalistes tracent une ligne jusqu'à l'Ile de Pâques, puis la font descendre vers le Sud-Est jusqu'à la limite des revendications chiliennes dans l'Antarctique, soit 90° de longitude Ouest, pour revenir au territoire continental du pays. A l'Est, ils tracent une ligne à partir du Canal de Beagle, la prolongent vers l'Est, à travers l'Arc des Antilles australes jusqu'à la limite orientale des revendications chiliennes dans l'Antarctique. Cette délimitation de la “mer chilienne” aurait donné au Chili le cinquième de l'Océan Pacifique. Notons que le Chili n'a pas revendiqué une extension de sa souverainté sur toute cette zone.
Dans les années 80, le Chili a produit énormément de textes géopolitiques. Après 1973, émerge une “nouvelle géopolitique”. Elle prend des aspects à la fois nationalistes et intégrationnistes, mais ce sont nettement les formes nationalistes qui dominent. La “nouvelle géopolitique” a l'ambition politique de souligner le rôle du Chili en tant que puissance pacifique. En 1981, l'“Instituto Geopolitico de Chile” (IGC) est fondé. Son directeur est le Prof. Hernan Santis Arena (2). L'IGC produit toute une série de publications, ainsi qu'une revue, la Revista Chilena de Geopolitica. L'institut impulse d'importants débats en matières de géopolitique et promeut le développement de la science géopolitique dans cet important pays du cône austral de l'Amérique du Sud.
Bertil HAGGMAN.
(Paper no. 4, Geopolitics in South America, Part 1, The Cone: Argentina and Chile, 1989, Center for Research on Geopolitics, Helsingborg, Suède).
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vendredi, 26 mars 2010
Le "Plan Bernard Lewis"
Mansur KHAN (*) :
Le « Plan Bernard Lewis »
L’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.
Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).
Lors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).
Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ». C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.
Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).
Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.
Mansur KHAN.
(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).
Notes :
(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).
(1) Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.
(2) Ibidem, p. 303 & ss.
(3) William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.
(4) Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.
(5) Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.
(6) Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.
(7) Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.
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Comment s'agencera l'archipel-monde? Hypothèses au seuil des années 1990
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991
Comment s'agencera l'archipel-monde?
Hypothèses au seuil des années 1990
Robert STEUCKERS
Extrait mis à jour d'une conférence prononcée à la tribune du Cercle Kléber, animé par Pierre Bérard à Strasbourg en novembre 1991
Devant la fin de la bipolarisation et le morcellement du bloc oriental/communiste, le monde semble mûr, au début des années 90, pour prendre la forme d'un “archipel”. Michel Foucher, géopolitologue français, forge à ce moment-là, dans l'euphorie de la chute du Mur de Berlin et de la réunification allemande, le concept d'“archipel-monde”. La planète se scinde en ensembles distincts, mais fortement interdépendants. C'est précisément cette notion d'interdépendance qui fera la différence entre les pratiques qu'initieront les composantes de cet archipel-monde, d'une part, et ce qu'ont suscité les visions autarciques du passé (les Pan-Ideen de l'école de Haushofer).
Chez Michel Foucher, la prise en compte de cette interdépendance peut faire penser à l'éclosion d'une économie-monde, d'un grand marché global et unique. Tel n'est pourtant pas le cas: en dépit de l'interdépendance économique, la pluralité sera maintenue au XXIième siècle, pense Foucher. Mais sous quelle forme? Sous la forme de regroupements régionaux volontaires et non plus autoritaires à la mode soviétique ou coercitif comme sous la férule des armées allemande et japonaise en Europe et dans la “Sphère de co-prospérité est-asiatique”. Pour Foucher, l'Union du Maghreb, la zone baltique, la zone adriatique, l'ASEAN (Asie du Sud-Est), l'ALENA (Mexique, USA, Canada) sont des ensembles volontaires de cette nature. Ils apportent ponctuellement satisfaction et prospérité aux citoyens qui vivent en leur sein.
Toujours selon Foucher, trois grands centres —Washington, Tokyo et Bruxelles— se profileront, sans qu'il n'y ait plus une opposition Est/Ouest ou Nord/Sud, mais une dispersion généralisée des grands centres de décision, ne permettant plus aucun antagonisme binaire. En dépit de leur volonté de rester différents et de conserver leur autonomie, les trois centres imposeront une globalité croissante des règles, tout en respectant les volontés d'autonomie. Il s'agira de conjuguer ouverture et identité. La logique de ces regroupements ne sera plus une logique militaire, comme celle qui régentait l'idéologie du camp retranché brejnévien, ni même une logique exclusivement économique, tendance que l'on a trop souvent dû déplorer dans la construction européenne. Ce constat, un peu amer, ne signifie pas que nous postulons une évacuation de l'économie, celle-ci gardant tout son poids, mais que nous espérons un retour offensif du culturel, qui servira de ciment et de levain à ces ensembles pluriels.
Pour Zaki Laïdi, chercheur au CNRS, auteur notamment de L'URSS vue du Tiers-Monde, paru chez l'éditeur Karthala, a analysé les carences de la “grammaire léniniste” exportée en Afrique par les coopérants de l'ère brejnévienne. Laïdi nous demande d'imaginer cinq scénarios pour une multipolarité fonctionnante, c'est-à-dire des combinaisons régulatives circonstancielles, toujours temporaires:
1) Une alliance Russie/Etats-Unis, avec deux protagonistes majeurs habitués à la pratique du leadership. Ils possèdent tous deux de fortes armées mais ont pour faiblesses, l'un, un déficit pharamineux, l'autre, un technological gap problématique.
2) Une domination européenne sur le commerce mondial, assorti d'une aide à l'Est. La faiblesse de l'Europe reste la faiblesse de sa défense.
3) Une alliance Japon/Etats-Unis, garantissant la sécurité asiatique, assurant aux Etats-Unis un financement constant venu du Japon, permettant un leadership sur le commerce mondial.
4) L'avènement de la triade Japon/Etats-Unis/Europe.
5) L'avènement d'un “Quadrilatère Nord”, impliquant une alliance des Etats-Unis, du Japon, de l'Europe et de la Russie.
Ensuite Zaki Laïdi pose la question: quelles seront les valeurs fédérantes de ces ensembles? La fragmentation, l'archipélisation, induisent une dispersion du processus de fabrication des valeurs. Autant de valeurs, autant de stratégies vitales. On perçoit tout de suite le rôle-clef du combat culturel dans l'optique de Laïdi, alors que d'aucuns voulaient l'évacuer pour poursuivre de vaines chimères politiciennes ou pour mettre seulement les règles économiques à l'avant-plan ou pour hisser des slogans moralisants sans profondeur, tout de raideur, à la place des cultures cimentantes et liantes, dont la plasticité permet souplesse et réadaptations, contrairement à la rigidité des codes moralisants. Zaki Laïdi voit dans les identités des matrices fécondes, permettant sans cesse des jeux complexes de préservations et de renouveaux, en dépit des glaces idéologiques, des idéologies froides (pour paraphraser Papaioannou).
Mais les valeurs américaines sont toujours dominantes. Toutefois leur socle s'affaiblit: il est contesté par une gauche communautarienne et une droite qui veut imposer envers et contre tous les pragmatismes matérialistes et calculateurs, sourds aux valeurs, l'éthique de la moral majority. Les valeurs ou plutôt les contre-valeurs américaines sont curieusement plus vivaces ou virulentes dans leurs zones d'exportation, notamment en France, où les banlieues sont ravagées par le déracinement des populations, par la disparition des grands clivages idéologiques qui font que les profils politiques européens traditionnels (catholique, communiste, etc.) sont de moins en moins distincts. La réactivation des identités permettrait un travail de substitution et de reconquête. Aux valeurs américaines dominantes se substitueraient des valeurs diversifiées, permettant l'élaboration de modèles politiques divers, reposant sur des mécanismes acceptant et rentabilisant les différences. En économie, la diversification des modèles culturels et des modèles de vie enclencherait un processus de diversification des produits donc de réactivation de l'économie.
Deuxième question soulevée à l'aube des années 90 et toujours sans réponse: faut-il reprendre le rôle des deux superpuissances du temps de la guerre froide? Le tandem euro-japonais pourrait-il prendre le relais? Zbigniew Brzezinski souligne les faiblesses du Japon et de l'Europe. Cette dernière, dit-il, souffre surtout de son hétérogénéité: les grands courants idéologiques ont gelé des identités mais n'ont pas pour autant susciter un sens du destin de l'Europe. Exemples: 1) L'Internationale socialiste est elle-même hétérogène: on constate en son sein une grande différence d'approche entre ceux qui étaient neutralistes, notamment en Allemagne et en Italie, et ceux qui étaient atlantistes, comme la plupart des Français. 2) Dans le PPE (Parti Populaire Européen), regroupant les formations démocrates-chrétiennes, l'aile conservatrice ne dit pas la même chose que les ailes “progressistes”, et le poids du catholicisme dans ce PPE, en dépit de la participation de protestants hollandais et allemands, maintient un clivage confessionnel empêchant l'envol d'une vision européenne commune, comparable à celle qui faisait la force de l'idéal écouménique catholique juste avant la Réforme. Le carnage yougoslave a bien montré que la césure entre Rome et Byzance ne s'est nullement cicatrisée.
Pour Brzezinski, la faiblesse du Japon tient au fait qu'il veut garder ses traditions en dépit des défis de la modernité technologique. Le politologue américain opte là pour une analyse diamétralement opposée à celle de Zaki Laïdi.
Autre voix, celle de l'Indien Muckund Dubey. Celui-ci constate que l'atout militaire, propre des Etats-Unis et de la Russie, est économiquement affaiblissant (son analyse rejoint en cela celle du Prof. Paul Kennedy, in The Rise and Fall of the Great Powers). Face à ces deux puissances alourdies par leur fardeau militaire, l'Allemagne et le Japon n'ont pas intérêt à s'imposer dans le monde de la même façon que Washington et Moscou du temps de la guerre froide et de sa logique binaire. Leur politique doit dès lors consister à arrondir les angles, à se rendre indispensables pour effacer les aspérités de la bipolarité. L'Espagnol Juan Antonio Yañez partage peu ou prou la même opinion: il n'y a plus de dyarchie, ni remplacement d'une dyarchie par une autre. Il n'y a pas non plus d'oligarchie des grandes puissances, en dépit du G7, mais on voit poindre à l'horizon d'autres formes de coopération, sans exclusion.
François Heisbourg, directeur de l'“International Institute for Strategic Studies” à Londres, la multipolarité et l'archipelisation du monde contiennent un terrible risque, celui de voir se multiplier les conflits régionaux, comme par exemple celui qui oppose l'Inde au Pakistan, où les adversaires pourraient recourir à des armes nucléaires. Tout dérapage dans un éventuel conflit indo-pakistanais pourrait déclencher une succession en chaîne de conflits nucléaires locaux avec risques écologiques globaux. Dans l'optique américaine et britannique, que défend Heisbourg, c'est la volonté d'éliminer un risque de cette nature qui a justifié l'intervention dans le Golfe en 90-91. Mais, si le risque de conflits nucléaires localisés est sans doute réel, cela ne signifie pas, à nos yeux, qu'il faille perpétuer la stratégie anglo-saxonne de la balkanisation des grandes aires culturelles, car celle-ci aussi est très bellogène.
La vraie question qu'il conviendrait de poser est la suivante: qui restaurera l'équivalent de la pax turcica d'avant 1918/19 au Proche et au Moyen-Orient? La guerre Iran-Irak, le conflit palestinien, le risque d'une guerre de l'eau, le risque de voir les pétro-monarchies déstabilisées, la misère du peuple irakien après la défaite devant les armées onusiennes, montre clairement qu'il faut dans cette région une puissance gardienne de l'ordre, tablant sur une population suffisamment nombreuse et homogène culturellement, capable d'agir à la satisfaction du plus grand nombre. La Turquie, à la condition qu'elle abandonne ses prétentions à vouloir entrer dans l'Europe, l'Irak (représentatif du pôle arabe) et l'Iran sont autant de candidats potentiels. L'axe d'expansion interne de ce nouveau Moyen-Orient doit être Nord-Sud, et l'Europe apportera son soutien dans cette seule condition.
Francisco Rezek, ministre des affaires étrangères du Brésil, reprend à son compte l'idée gorbatchévienne de “maison commune”. Il estime que l'idée de “maison commune” exclut toute pratique de “verticalité” entre les Etats, donc tout hégémonisme. L'idée gorbatchévienne de “maison commune” a suggéré l'“horizontalité” des relations inter-étatiques et réitéré un projet formulé lors de la visite de De Gaulle en URSS, qui avait irrité les milieux atlantistes. Rezek voit la juxtaposition sur la planète de trois “maisons communes”, de trois aires économico-civilisationnelles: l'aire américaine (de l'Alaska à la Terre de Feu), l'aire euro-arabe à deux vitesses, l'une au nord de la Méditerranée, l'autre au Sud, du Maroc au Koweit; enfin, l'aire asiatique-orientale, reprenant plus ou moins l'idée japonaise d'une zone de co-prospérité est-asiatique.
Mohamed Sahnoun, conseiller diplomatique du Président Chadli (et aujourd'hui négociateur de l'ONU pour la région des Grands Lacs en Afrique), parie pour une logique eurafricaine, qui aura en face d'elle la tentative américaine de s'implanter dans le Golfe Persique et de contrôler la Corne de l'Afrique. Cette dynamique eurafricaine, plutôt euro-arabe, est appelée à dépasser le nationalisme, en tant que raisonnement politique appliqué à des espaces devenus aujourd'hui trop étroit, pour favoriser le “culturalisme”, c'est-à-dire un patriotisme animant de vastes aires culturelles. L'avènement de ces Kulturkreise (pour reprendre le vocabulaire du sociologie darwinien du XIXième siècle, Ratzenhofer) ou de ces Völkergemeinschaften (Constantin Frantz) ou de ces Großräume (Schmitt, Perroux, Haushofer) signale un processus d'élargissement des horizons qui n'induit pas nécessairement un déracinement. La culture d'un peuple ou plutôt d'une communauté de peuples prend le pas sur l'idéologie abstraite, universaliste dans ses intentions. La culture reconquiert le terrain que lui avait enlevé l'idéologie. L'organique, chassé par le faux pragmatisme, les mécanicismes méthodologiques, par les pratiques économicistes, revient au galop. Le mutilation mentale que constituait l'adhésion à une idéologie (Zinoviev) s'estompe, les valeurs redeviennent des refuges stabilisants. Pour restaurer ces valeurs, il faut agir dans la sphère culturelle. Il n'y aura pas nécessairement disparition pure et simple des Etats-Nations: les Etats-Nations qui acceptent le retour du culturel, qui acceptent le principe d'une imbrication dans une vaste sphère culturelle se fortifieront; les Etats-Nations qui refuseront ce primat du culturel imploseront ou exploseront.
Pour Mohamed Sahnoun, les relations Nord/Sud seront pendant longtemps ponctuées de conflits, en dépit de la nécessité de fédérer les énergies. Ces conflits seront d'ordre racial (à cause de l'explosion démographique, notamment dans le Maghreb, qui pousse à l'émigration dans des zones ethniquement différentes) et des reliquats de l'humiliation coloniale. Mais le défi écologique, les pollutions dramatiques, la disparition d'espèces animales, et surtout la déforestation de l'Amazonie et de l'Afrique, contraindront Nord et Sud à coopérer à l'échelle globale.
Moriyuki Motono, Conseiller de Nakasone, projette cette idée d'un futur “culturalisme”, d'une juxtaposition d'aires culturelles, surtout sur le grand bloc continental eurasiatique, où une Europe de l'Ouest (catholique et protestante), serait la voisine d'une Russie/CEI et partagerait avec elle une sorte de plage d'intersection slave-uniate-grecque-orthodoxe- roumaine; toutes deux seraient les voisines d'un vaste Islamistan, avec la Méditerrannée et l'ancienne Asie centrale soviétique comme zones d'intersection. Enfin, l'Hindoustan indien serait le pivot central de cette dynamique plurielle entre aires culturelles différentes, sur les rives de l'Océan Indien. A l'Est renaîtrait la sphère de co-prospérité est-asiatique.
L'intérêt de la vision de Moriyuki Motono réside dans le constat qu'il y aura des plages d'intersection entre les aires culturelles de demain, et qu'elles pourront être tout autant sources de conflit que zones de transition et facteurs d'apaisement. Motono reprend là la vieille idée géopolitique anglo-américaine des lignes de fracture en lisière du noyau continental eurasien et sur les rives océaniques; cette idée est issue d'une interprétation du rôle des “rimlands” entourant le “heartland” sibérien/centre-asiatique. Mais Motono ne prévoit aucune intervention américaine dans ces cinq zones culturelles: son Amérique est repliée sur la Grande Ile s'étendant de l'Alaska à la Terre de Feu, elle prend enfin la Doctrine de Monroe au sérieux. Elle est définitivement isolationniste. Motono précise l'idée de culturalisme par rapport à Sahnoun, rejoint en quelque sorte Rezek en n'évoquant aucune verticalité. L'idéal serait sans doute la présence d'un hegemon dans chacune de ces aires, d'une puissance-guide qui aurait la sagesse de travailler inlassablement à l'horizontalisation des relations au sein de sa propre aire et entre les différentes aires.
Pour Paul Lamy, qui a été directeur de cabinet de Jacques Delors à la Commission des Communautés Européennes, la pluralité d'aires culturelles implique une instabilité, une effervescence, qui pourrait à terme s'avérer dangereuse. Il y a donc nécessité d'une régulation, d'un management de l'interdépendance. L'intérêt premier de cette vision de Lamy, c'est qu'elle n'est pas iréniste; il reste quelque peu pessimiste et appelle à la vigilance. Lamy n'est pas un adepte de l'éthique de la conviction, qui croit naïvement à cette “paix perpétuelle” dont ont toujours rêvé les utopistes.
Cet ensemble de réflexions éparses, parfois contradictoires, nous conduit à penser le monde comme divisé entre un “Nouveau Monde” (les Amériques) et un “Ancien Monde” (les vieilles aires de civilisation toujours traversées par des dynamismes féconds). Cet “Ancien Monde” possède un appendice africain (ne représentant hélas pour lui que 2,5% des flux transactionnels de la planète) et un appendice australien-océanique, tiraillé entre une Asie en pleine croissance économique et une Amérique par solidarité anglo-saxonne.
Le “Nouveau Monde” est un monde conquis, l'“Ancien Monde”, un archipel d'aires matricielles, autochtones, autant de sols d'où sont jaillies des civilisations originelles. Le “Nouveau Monde”, de par sa nouveauté et sa qualité de conquête, permet davantage d'expérimentations politiques, de fonder de nouvelles communautés politico-religieuses comme le firent les Founding Fathers puritains, d'expérimenter à l'ère moderne-techniciste plus de projets pré-fabriqués, sans tenir compte des impératifs et des devoirs liés à tout “indigénisme”. L'“Ancien Monde” est la patrie des identités, des cultures telles que l'entrevoit le culturalisme de Sahnoun et Laïdi.
Dans le “Nouveau Monde”, la logique peut être éventuellement unifiante, vu l'élimination des indigénats et des résistances qu'ils impliquent. Dans l'“Ancien Monde”, l'homme politique, le décideur, doit être capable de manipuler un arsenal très diversifié de logiques, d'affronter la pluralité, de tenir compte de niveaux multiples. Le type de logique à utiliser dans l'“Ancien Monde” est celui de la bio-cybernétique, où l'on tient compte des “rétro-actions”, des reculs éventuels, des stratégies vitales en apparence illogiques, etc. Le modèle économique du “Nouveau Monde” est celui du libéralisme absolu selon le modèle anglo-saxon défini par Michel Albert dans Capitalisme contre capitalisme. Les modèles économiques de l'“Ancien Monde” doivent être autant d'adaptations spatio-temporelles de ce capitalisme moins absolu qu'Albert définit comme “capitalisme rhénan”. Face à l'économie libérale absolue du “Nouveau Monde”, le “supplément d'âme” est fourni par l'“idéologie californienne”, même si aujourd'hui, le retour aux valeurs cimentantes est une réalité incontournable —et admirable— aux Etats-Unis. Dans l'“Ancien Monde”, valeurs cimentantes et (ré)armements spirituels sont fournis —ou devraient être fournis— par les traditions religieuses, les cultures traditionnelles, les idéaux du “sérieux de l'existence”.
Dans ce concert global, l'Europe, elle aussi, est multiplicité car elle compte trois espaces latins (ou plus), un espace orthodoxe, un espace scandinave, un espace britanniques (où s'affrontent celticité irlandaise, spécificités galloise et écossaise, un fond de “merry old England”, une modernité tout à la fois impériale et marchande), un espace germanique, héritier qu'il le veuille ou non du “Saint-Empire”. Entre certains de ces espaces, nous assistons à l'émergence de coopérations inter-régionales chevauchantes, comme Sarlorlux, Alpe-Adria, etc., préfigurant une Europe unie par un consensus civilisationnel, un “patriotisme de civilisation”, mais conservant ces innombrables facettes, réalités, modes de vie, etc. Il y a en Europe imbrication générale de toutes les matrices culturelles, sans pour autant qu'il y ait simultanément homogénéisation et panmixie. Les aires culturelles d'Europe demeurent mais se fructifient mutuellement, empruntent chez les voisins des linéaments utiles, en rejettent d'autres, enclenchant un processus culturel très effervescent que le poète ou le philosophe qualifieront tour à tour de “kaléidoscopique” ou de “rhizomique” (Deleuze). Des réseaux innombrables traversent les frontières en Europe: ils sont culturels, idéologiques, religieux, commerciaux, historiques. Aucune guerre interne au continent n'a pu les effacer, rien que les interrompre, très momentanément.
L'archipelisation du monde appelle aussi une réorganisation de l'Europe, une Europe capable de reconnaître et de gérer sa propre pluralité avant d'accepter et de chevaucher les pluralités d'ailleurs. C'est à ce titre que l'Europe deviendra réellement un pôle comme l'annonce Foucher, qu'elle fabriquera des valeurs originales capables de s'opposer efficacement aux valeurs matérialistes de l'idéologie californienne, comme le souhaite Laïdi, à notre époque où justement ce matérialisme californien est devenu le matérialisme le plus virulent depuis l'effondrement du grand récit soviétique. C'est à ce titre que l'Europe pourra dépasser ses anciens clivages affaiblissants, dont se réjouit Brzezinski, qu'elle se posera comme un véritable Kulturkreis, comme le souhaite Sahnoun, qu'elle deviendra une “maison commune” travaillée et animée par d'innombrables “horizontalités” fécondantes.
Robert STEUCKERS.
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mercredi, 24 mars 2010
Los corredores bioceanicos fluvio-ferroviarios en la integracion de Suramérica
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003
Los corredores bioceánicos fluvio-ferroviarios en la integración de Suramérica
Alberto Buela(*)
Desde hace más de tres años en el marco del Primer Encuentro de Pensamiento Estratégico de la Patria Grande(29-3-01 en Buenos Aires) y desde el marco de pertenencia de la CGT-disidente, venimos planteando la denominada Teoría del Rombo.
Vinieron luego, el Congreso de Trabajadores Bolivarianos en Caracas (2002); el Segundo Encuentro(2002); el Foro Social Mundial de Porto Alegre (2002); el Tercer Encuentro(2003) y múltiples congresos en el interior del país. Todos ellos con la participación de personalidades políticas, académicas y consulares de los países de América del Sur. Se realizaron además publicaciones de todo tipo para su difusión, incluso quedó plasmada en un libro Metapolítica y Filosofía (Buenos Aires, Theoría, 2002).
Todo esto para decir que cuando hablamos de la Teoría del Rombo lo estamos haciendo sobre algo medianamente conocido, estudiado y aceptado. Se denomina así porque es el pensamiento que busca expresar una Nueva Estrategia Suramericana y que en su formulación plantea la unión de cuatro vértices: Buenos Aires, Lima, Caracas y Brasilia, lo que forma un irregular rombo.
Esta teoría busca una complementación de Mercosur más Pacto Andino a través de la consolidación de un gran espacio en América del Sur, que reúne las características de bioceánico, económicamente autocentrado, tecnológicamente complementario, políticamente confederado e interconectado entre sí mediante el aprovechamiento de los 50.000 km. de ríos navegables en su corazón interior, en su heartland.
Corredores Bioceánicos
Existen potencialmente dos tipos de corredores bioceánicos en América del Sur; los fluviales combinados con los terrestres y los únicamente terrestres.
Nosotros creemos, y esta es nuestra tesis, que sólo los primeros son realmente viables y económicamente plausibles.
Las vinculaciones hidroviales que permiten una interconexión bioceánica son cuatro:
1.- El sistema Orinoco-Meta que vincula Puerto Buenaventura(Colombia) con Puerto Ordáz (Venezuela) con 1866 km. de vía fluvial y 779 km. de carretera.
2.- El sistema Amazonas- Putumayo que une el puerto de Belem do Pará(Brasil) con el de San Lorenzo(Ecuador) con 4535 km. de vía fluvial, 230 de carretera y 549 de ferrocarril.
3.- El sistema Amazonas-Marañón que une los puertos de Belem do Pará(Brasil) con el Chiclayo(Perú) con 4796 km. de vía fluvial y 700 Km. de carretera.
4.- La hidrovía Paraná- Paraguay que une los puertos de Sao Paulo(Brasil) con el puerto de Ilo en Perú con 3440 Km. de vía fluvial, vinculado al corredor vial de 570km. que une Puerto-Suarez(Bolvia)-Corumbá(Brasil) con Santa Cruz de la Sierra, que acaba de ser terminado con la cooperación de lal Unión Europea en Bolivia.
Desde Santa Cruz a Cochabamba con la construcción del pequeño tramo ferroviario a Aiquile, quedan unidas La Paz-Santa Cruz por vía férrea. Luego La Paz-Arica(Chile) o La Paz –Ilo(Perú).
Consideraciones geopolíticas
Es este el corredor bioceánico que nosotros, los argentinos, debemos privilegiar por varios motivos.
En primer lugar porque fortalece uno de los ejes interiores de la Teoría del Rombo, aquel que envuelve al heartland continetal por el lado sur. Permite una circulación rápida y económica de mercadería y gente, habida cuenta que los transportes fluviales y ferroviarios son los más baratos, al poder transportar grandes volúmenes. Son los menos contaminantes y los que tienen menor impacto ambiental.
La vinculación de los puertos de Santos(Brasil) e Ilo(Perú) o eventualmente Arica(Chile) evita y elimina de plano la teoría del arco, de la vieja estrategia brasileña, muy bien aprovechada por Chile, hasta ahora.
Esta teoría del arco fue denunciada por Perón en la Escuela Superior de Guerra en una conferencia de carácter reservado en noviembre de l953 cuando afirmó: tenemos que quebrar la estrategia del arco que va de Río a Santiago y crear una nueva para América del Sur” y proponía a renglón seguido un área de unión aduanera y libre comercio entre Argentina, Brasil y Chile denominada ABC.
Hoy como denuncia el brillante trabajo de Mario Meneghini: Con el eje Chile-China, se nos quiere imponer bajo ropajes nuevos la vieja teoría del arco, que se llevaría a cabo bajo la mascarada de un Proyecto de las Regiones Centro-Cuyo, que viene a cortar a la Argentina en dos para que puedan salir los productos brasileños por el puerto chileno de Coquimbo a través del paso de Aguas Negras en la provincia de San Juan. Todo ello bajo financiación china de 250 millones de dólares.
Hay que decirlo con todas la letras. Cualquier corte horizontal de la Argentina sólo se puede hacer por carretera vial y se haga por donde se haga, sólo beneficia exclusivamente a Chile y al comercio del sur de Brasil. Parte a la Argentina en dos dejando el Norte Grande librado a su suerte de ser siempre una gran región “del futuro”. Cuando en realidad, este Norte Grande cuenta con las mejores condiciones geoestratégicas para constituirse en un engranaje continental que alimente tanto a Brasil, Paraguay, Chile, Bolivia y Perú. Basta mirar el mapa y tomar nota detenida de distancias, accidentes geográficos y ventajas comparativos para darse cuenta que Puerto Suárez(Bolivia) y Corumbá(Brasil) dos ciudades separadas por el río Paraguay están a distancias equivalentes de La Paz, Brasilia, Sao Paulo, Asunción y Salta(Argentina), que forman entre ellas un rectángulo casi perfecto.
Nosotros defendemos y proponemos como el más beneficioso para América del Sur este corredor bioceánico mixto(marítimo, fluvial, ferro-vial) que tiene como gozne Corumbá-Puerto Suárez. En donde Argentina puede integrarse desde tanto desde Corrientes como de Salta.
El aporte de la Comunidad Económica Europea a Bolivia en la construcción del vínculo entre Puerto Suárez y Santa Cruz de la Sierra, nos está indicando una inteligencia sobre este asunto de vital importancia geoestratégica para nuestra región. Está en nosotros captarlo y redimensionarlo con un sentido propio y para beneficio nuestro. La construcción de un gran espacio autocentrado como son los 18 millones de kilómetros cuadrados suramericanos no es un chiste ni una idea baladí, es la construcción de un poder, y eso siempre despierta los celos y resistencias de aquellos que hoy lo tienen.
No tenemos ningún reparo, y forma parte de las relaciones bilaterales entre dos Estados, en que nuestras provincias limítrofes con Chile saquen por allí todas sus mercaderías, pero que no se disfracen dichas salidas, con la bandera de la integración suramericana. Por favor, que no se amañen falsas razones para que Argentina a su costo tenga que mantener 1200 km. de rutas para que transiten alegremente los camiones de Brasil y Chile, que no aportan ningún beneficio ni al Estado nacional ni a la comunidad argentina, ni a la integración.
La Confederación Suramericana va más allá de las buenas relaciones bilaterales entre Estados, pasa, más bien, por la integración de los grandes vértices de poder continental como lo son Buenos Aires, Brasilia, Caracas, que hoy tienen líderes políticos afines, y en menor medida Lima. Si nos desviamos del fortalecimiento de los ejes marcados por este rombo imaginario, creando artificiales e interesados corredores bioceánicos lo que vamos a lograr es, más bien, la desintegración de Suramérica.
(*) filósofo
buela@2vias.com.ar <mailto:buela@2vias.com.ar>
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mercredi, 17 mars 2010
L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986
L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)
Qui était le géopoliticien britannique Mackinder, génial concepteur de l'opposition entre thalassocraties et puissances océaniques? Un livre a tenté de répondre à cette question: Mackinder, Geography as an Aid to Statecraft, par W.H. Parker. Né dans le Lin-colnshire en 1861, Sir Halford John Mackinder s'est interessé aux voyages, à l'histoire et aux grands événements internationaux dès son enfance. Plus tard, à Oxford, il étu-diera l'histoire et la géologie. Ensuite, il entamera une brillante carrière universitaire au cours de laquelle il deviendra l'impulseur principal d'institutions d'enseignement de la géographie. De 1900 à 1947, il vivra à Londres, au coeur de l'Empire Britannique. Sa préoccupation essentielle était le salut et la préservation de cet Empire face à la montée de l'Allemagne, de la Russie et des Etats-Unis. Au cours de ces cinq décennies, Mackinder sera très proche du monde poli-tique britannique; il dispensera ses conseils d'abord aux "Libéraux-Impérialistes" (les "Limps") de Rosebery, Haldane, Grey et Asquith, ensuite aux Conservateurs regroupés derrière Chamberlain et décidés à aban-donner le principe du libre échange au profit des tarifs préférentiels au sein de l'Empire. La Grande-Bretagne choisissait une économie en circuit fermé, tentait de construire une économie autarcique à l'échelle de l'Empire. Dès 1903, Mackinder classe ses notes de cours, fait confectionner des cartes historiques et stratégiques sur verre destinées à être projetées sur écran. Une oeuvre magistrale naissait.
Une idée fondamentale traversera toute l'oeuvre de Mackinder: celle de la confrontation permanente entre la "Terre du Milieu" (Heartland) et l'"Ile du Monde" (World Island). Cette confrontation incessante est en fait la toile de fond de tous les événe-ments politiques, stratégiques, militaires et économiques majeurs de ce siècle. Pour son biographe Parker, Mackinder, souvent cité avec les autres géopoliticiens américains et européens tels Mahan, Kjellen, Ratzel, Spykman et de Seversky, a, comme eux, appliqué les théories darwiniennes à la géographie politique. Doit-on de ce fait rejetter les thèses géopolitiques parce que "fatalistes"? Pour Parker, elles ne sont nullement fatalistes car elles détiennent un aspect franchement subjectif: en effet, elles justifient des actions précises ou attaquent des prises de position adverses en proposant des alternatives. Elles appellent ainsi les vo-lontés à modifier les statu quo et à refuser les déterminismes.
L'intérêt qu'a porté Mackinder aux questions géopolitiques date de 1887, année où il pro-nonça une allocution devant un auditoire de la Royal Geographical Society qui contenait notamment la phrase prémonitoire suivante: "Il y a aujourd'hui deux types de conqué-rants: les loups de terre et les loups de mer". Cette allégorie avait pour arrière-plan historique concret la rivalité anglo-russe en Asie Centrale. Mais le théoricien de l'anta-gonisme Terre/Mer se révélera pleinement en 1904, lors de la parution d'un papier inti-tulé "The Geographical Pivot of History" (= le pivot géographique de l'histoire). Pour Mackinder, à cette époque, l'Europe vivait la fin de l'Age Colombien, qui avait vu l'ex-pansion européenne généralisée sans résistan-ce de la part des autres peuples. A cette ère d'expansion succédera l'Age Postcolom-bien, caractérisé par un monde fait d'un système politique fermé dans lequel "chaque explosion de forces sociales, au lieu d'être dissipée dans un circuit périphérique d'espa-ces inconnus, marqués du chaos du barba-risme, se répercutera avec violence depuis les coins les plus reculés du globe et les éléments les plus faibles au sein des orga-nismes politiques du monde seront ébranlés en conséquence". Ce jugement de Mackinder est proche finalement des prophéties énoncées par Toynbee dans sa monumentale "Stu-dy of History". Comme Toynbee et Spengler, Mackinder demandait à ses lecteurs de se débarrasser de leur européocentrisme et de considérer que toute l'histoire européenne dépendait de l'histoire des immensités conti-nentales asiatiques. La perspective historique de demain, écrivait-il, sera "eurasienne" et non plus confinée à la seule histoire des espaces carolingien et britannique.
Pour étayer son argumentation, Mackinder esquisse une géographie physique de la Rus-sie et raisonne une fois de plus comme Toynbee: l'histoire russe est déterminée, écrit-il, par deux types de végétations, la steppe et la forêt. Les Slaves ont élu domi-cile dans les forêts tandis que des peuples de cavaliers nomades règnaient sur les espa-ces déboisés des steppes centre-asiatiques. A cette mobilité des cavaliers, se déployant sur un axe est-ouest, s'ajoute une mobilité nord-sud, prenant pour pivots les fleuves de la Russie dite d'Europe. Ces fleuves seront empruntés par les guerriers et les marchands scandinaves qui créeront l'Empire russe et donneront leur nom au pays. La steppe cen-tre-asiatique, matrice des mouvements des peuples-cavaliers, est la "terre du milieu", entourée de deux zones en "croissant": le croissant intérieur qui la jouxte territo-rialement et le croissant extérieur, constitué d'îles de diverses grandeurs. Ces "croissants" sont caractérisés par une forte densité de population, au contraire de la Terre du Mi-lieu. L'Inde, la Chine, le Japon et l'Europe sont des parties du croissant intérieur qui, à certains moments de l'histoire, subissent la pression des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu. Telle a été la dynamique de l'histoire eurasienne à l'ère pré-colombienne et partiellement aussi à l'ère colombienne où les Russes ont pro-gressé en Asie Centrale.
Cette dynamique perd de sa vigueur au moment où les peuples européens se dotent d'une mobilité navale, inaugurant ainsi la période proprement "colombienne". Les ter-res des peuples insulaires comme les Anglais et les Japonais et celles des peuples des "nouvelles Europes" d'Amérique, d'Afrique Australe et d'Australie deviennent des bastions de la puissance navale inaccessibles aux coups des cavaliers de la steppe. Deux mobilités vont dès lors s'affronter, mais pas immédiatement: en effet, au moment où l'Angleterre, sous les Tudor, amorce la con-quête des océans, la Russie s'étend inexo-rablement en Sibérie. A cause des diffé-rences entre ces deux mouvements, un fossé idéologique et technologique va se creuser entre l'Est et l'Ouest, dit Mackinder. Son jugement rejoint sous bien des aspects celui de Dostoïevsky, de Niekisch et de Moeller van den Bruck. Il écrit: "C'est sans doute l'une des coïncidences les plus frappantes de l'histoire européenne, que la double expansion continentale et maritime de cette Europe recoupe, en un certain sens, l'antique opposition entre Rome et la Grèce... Le Germain a été civilisé et christianisé par le Romain; le Slave l'a été principalement par le Grec. Le Romano-Germain, plus tard, s'est embarqué sur l'océan; le Greco-Slave, lui, a parcouru les steppes à cheval et a conquis le pays touranien. En conséquence, la puissance continentale moderne diffère de la puissance maritime non seulement sur le plan de ses idéaux mais aussi sur le plan matériel, celui des moyens de mobilité".
Pour Mackinder, l'histoire européenne est bel et bien un avatar du schisme entre l'Empire d'Occident et l'Empire d'Orient (an 395), ré-pété en 1054 lors du Grand Schisme op-posant Rome et Byzance. La dernière croi-sade fut menée contre Constantinople et non contre le Turc. Quand celui-ci s'empare en 1453 de Constantinople, Moscou reprend le flambeau de la chrétienté orthodoxe. De là, l'anti-occidentalisme des Russes. Dès le XVIIème siècle, un certain Kridjanitch glo-rifie l'âme russe supérieure à l'âme cor-rompue des Occidentaux et rappelle avec beaucoup d'insistance que jamais la Russie n'a courbé le chef devant les aigles ro-maines. Cet antagonisme religieux fera pla-ce, au XXème siècle, à l'antagonisme entre capitalisme et communisme. La Russie opte-ra pour le communisme car cette doctrine correspond à la notion orthodoxe de fra-ternité qui s'est exprimée dans le "mir", la communauté villageoise du paysannat slave. L'Occident était prédestiné, ajoute Mac-kinder, à choisir le capitalisme car ses reli-gions évoquent sans cesse le salut individuel (un autre Britannique, Tawney, présentera également une typologie semblable).
Le chemin de fer accélerera le transport sur terre, écrit Mackinder, et permettra à la Russie, maîtresse de la Terre du Milieu si-bérienne, de développer un empire industriel entièrement autonome, fermé au commerce des nations thalassocratiques. L'antagonisme Terre/Mer, héritier de l'antagonisme reli-gieux et philosophique entre Rome et Byzan-ce, risque alors de basculer en faveur de la Terre, russe en l'occurence. Quand Staline annonce la mise en chantier de son plan quinquennal en 1928, Mackinder croit voir que sa prédiction se réalise. Depuis la Révo-lution d'Octobre, les Soviétiques ont en ef-fet construit plus de 70.000 km de voies ferrées et ont en projet la construction du BAM, train à voie large et à grande vitesse. Depuis 70 ans, la problématique reste identi-que. Les diplomaties occidentales (et surtout anglo-saxonnes) savent pertinemment bien que toute autonomisation économique de l'espace centre-asiatique impliquerait auto-matiquement une fermeture de cet espace au commerce américain et susciterait une réorganisation des flux d'échanges, le "crois-sant interne" ou "rimland" constitué de la Chine, de l'Inde et de l'Europe ayant intérêt alors à maximiser ses relations commerciales avec le centre (la "Terre du Milieu" proprement dite). Le monde assisterait à un quasi retour de la situation pré-colombienne, avec une mise entre parenthèses du Nouveau Monde.
Pour Mackinder, cette évolution historique était inéluctable. Si Russes et Allemands conjuguaient leurs efforts d'une part, Chinois et Japonais les leurs d'autre part, cela signifierait la fin de l'Empire Britannique et la marginalisation politique des Etats-Unis. Pourtant, Mackinder agira politiquement dans le sens contraire de ce qu'il croyait être la fatalité historique. Pendant la guerre civile russe et au moment de Rapallo (1922), il soutiendra Denikine et l'obligera à concéder l'indépendance aux marges occidentales de l'Empire des Tsars en pleine dissolution; puis, avec Lord Curzon, il tentera de construire un cordon sanitaire, regroupé au-tour de la Pologne qui, avec l'aide française (Weygand), venait de repousser les armées de Trotsky. Ce cordon sanitaire poursuivait deux objectifs: séparer au maximum les Allemands des Russes, de façon à ce qu'ils ne puissent unir leurs efforts et limiter la puissance de l'URSS, détentrice incontestée des masses continentales centre-asiatiques. Corollaire de ce second projet: affaiblir le potentiel russe de façon à ce qu'il ne puisse pas exercer une trop forte pression sur la Perse et sur les Indes, clef de voûte du système impérial britannique. Cette stratégie d'affaiblissement envisageait l'indépendance de l'Ukraine, de manière à soustraire les zones industrielles du Don et du Donetz et les greniers à blé au nouveau pouvoir bolchévique, résolument anti-occidental.
Plus tard, Mackinder se rendra compte que le cordon sanitaire ne constituait nullement un barrage contre l'URSS ou contre l'ex-pansion économique allemande et que son idée première, l'inéluctabilité de l'unité eurasienne (sous n'importe quel régime ou mode juridique, centralisé ou confédératif), était la bonne. Le cordon sanitaire polono-centré ne fut finalement qu'un vide, où Allemands et Russes se sont engouffrés en septembre 1939, avant de s'en disputer les reliefs. Les Russes ont eu le dessus et ont absorbé le cordon pour en faire un glacis protecteur. Mackinder est incontestablement l'artisan d'une diplomatie occidentale et conservatrice, mais il a toujours agi sans illusions. Ses successeurs reprendront ses ca-tégories pour élaborer la stratégie du "con-tainment", concrétisée par la constitution d'alliances sur les "rimlands" (OTAN, OTASE, CENTO, ANZUS).
En Allemagne, Haushofer, contre la volonté d'Hitler, avait suggéré inlassablement le rapprochement entre Japonais, Chinois, Rus-ses et Allemands, de façon à faire pièce aux thalassocraties anglo-saxonnes. Pour étayer son plaidoyer, Haushofer avait repris les arguments de Mackinder mais avait inversé sa praxis. La postérité intellectuelle de Mackinder, décédé en 1947, n'a guère été "médiatisée". Si la stratégie du "contain-ment", reprise depuis 1980 par Reagan avec davantage de publicité, est directement inspirée de ses écrits, de ceux de l'Amiral Mahan et de son disciple Spykman, les journaux, revues, radios et télévision n'ont guère honoré sa mémoire et le grand public cultivé ignore largement son nom... C'est là une situation orwellienne: on semble tenir les évidences sous le boisseau. La vérité serait-elle l'erreur?
Robert STEUCKERS.
W.H. PARKER, Mackinder. Geography as an Aid to Statecraft, Clarendon Press, Oxford, 1982, 295 p., £ 17.50.
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jeudi, 11 mars 2010
Le réveil du Vieux Monde
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990
Le réveil du Vieux Monde
par Louis SOREL
L'édifice diplomatico-stratégique s'écroule et l'Etablissement politique et médiatique n'en finit pas de jouer les prolongations. Ainsi, Thierry de Montbrial, docteur de l'IFRI, prêche le statu quo quand celui-ci n'existe plus, et Jacques Attali, sous couvert de prospective, fait dans le millénarisme soft (1). C'est donc avec bonheur que nous avons lu le dernier ouvrage de William Pfaff, Le réveil du Vieux Monde. Citoyen américain de souche rhénane, vivant à Paris, William Pfaff développe avec finesse et objectivité ses analyses sur l'ordre international de l'après-guerre. Son diagnostic est sévère et lucide: les héros (Etats-Unis et URSS) sont fatigués et les fissures du monde bipolaire laissent entrevoir un possible retour à la primauté pluriséculaire de l'Europe.
C'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).
Le «siècle américain» n'a pas
duré cinquante ans...
Quarante-cinq années après la clôture de cette guerre de trente ans, la bi-hégémonie américano-soviétique est remise en cause. «Le siècle américain n'aura pas duré cinquante ans» et W. Pfaff fait de l'idéologie américaine la cause majeure des revers extérieurs. De l'isolationnisme de l'Age classique à l'internationalisme de l'après-guerre, la politique extérieure des Etats-Unis se fonde en effet sur la présomption de supériorité morale; qu'il s'agisse de se préserver de ce monde corrompu ou de le convertir, avec pour postulat tacite de Washington à Bush: «L'Amérique ne serait en lieu sûr dans le monde que le jour où le monde lui ressemblerait d'assez près» (4).
Ce messianisme à base de calvinisme et de libéralisme n'a cessé de se heurter à la force des choses. L'Amérique s'est enthousiasmée pour les «Etats-Unis d'Europe» mais depuis le guerre commerciale fait rage et l'insipide technocrate qu'est Jacques Delors se surprend à hausser le ton! L'Amérique a cru l'Asie plus docile et ouverte à son influence mais elle n'en finit pas d'exorciser le spectre du Vietnam!
Et pourtant, le vieux vocabulaire de l'exceptionalisme américain persiste, faute d'autre philosophie politique: «Mise au défi de repenser la politique en Amérique centrale, la Commission Kissinger, groupe de réflexion à dominante conservatrice qui remit son rapport en 1984, ne trouva rien de mieux à proposer qu'un ambitieux programme d'assistance pour aider les populations centre-américaines à faire leur la vision de l'avenir que représentent nos idéaux».
Parallèlement, les anciennes sociétés culturellement autonomes d'Europe centrale et d'Eurasie auront survécu à la puissance soviétique et démontrent le caractère inéluctablement transitoire du communisme. Cette volonté de faire table rase du passé a généré la situation d'insécurité permanente de l'URSS.
Aujourd'hui l'Amérique souffre d'hypertrophie impériale et invoquer les mânes des Founding Fathers ne conjurera pas le déclin. De même, le retour de Lénine prôné par Gorbatchev ne peut légitimer un système à bout de souffle (5). Ironie de l'histoire, «de cette révolution, il (Gorbatchev) pourrait bien être le Kérenski!». La rétraction des deux protagonistes du jeu politique mondial n'est pas sans risques, mais la fin du «siècle américain» débouche sur un nouveau «siècle européen». De fait, le thème récurrent du Pacifique, Méditerranée du XXIième siècle, a pu dominer l'orée des années 80, la remarquable réussite d'un Japon fondamentalement autre n'a pas valeur paradigmatique, W. Pfaff se montrant circonspect quant à l'éveil de la Chine, tant la vigueur des cultures de frontière fait défaut à la civilisation centrale (6). Demeure donc au centre du monde l'Europe, dont le partage était l'enjeu de la guerre froide, les Etats-Unis ne pouvant s'en abstraire sans renoncer à la puissance.
Quelles destinées pour
la Grande Europe...?
«Lorsque le maître de la mer dispose d'un pareil atterrage, écrit Georges Buis, il ne le lâche pas». De bon gré, ajouterions-nous. Un temps déclassée mais bénéficiant des plus formidables antécédents historiques, «l'Europe pourrait même à l'avenir compter davantage que les Etats-Unis». Ecrivant ces lignes avant le jeu de domino de l'automne 1989, l'auteur n'envisage alors que le seul sort de la CEE; avec la fermeture de la parenthèse soviétique, les destinées de la Grande Europe sont manifestement autres que celles des Etats-Unis.
«Depuis la fin de la guerre, le privilège de l'irresponsabilité a été la qualité saillante de la situation en Europe» et, après quarante années de statu quo, l'espace paneuropéen est à organiser, la question centrale étant l'avenir de l'URSS. Constatant que l'occupation du glacis centre-européen n'a pu assurer la sécurité de l'Etat soviétique, W. Pfaff estime possible et nécessaire un arrangement russo-européen fondé sur la claire conscience du coût prohibitif et de l'irrationalité politique de toute nouvelle guerre en Europe. A cette fin, il réhabilite le statut de la Finlande acquis à la pointe de l'épée et injustement dénigré. «La vieille peur de la Russie, consciente de sa faiblesse et de son arriération, a toujours été la peur de l'encerclement», la neutralisation de l'Europe centrale pourrait l'en affranchir.
La guerre froide terminée, W. Pfaff n'entonne pas pour autant un Te Deum. Au terme d'une aventure politique et morale qui a commencé avec le voyage de Lénine dans un fourgon scellé, les étoiles sont mortes (intitulé du premier chapitre). «L'Amérique fut un empire éphémère» et l'Europe reste «le nœud de l'histoire contemporaine». L'histoire nous offre une page blanche: «L'aventure léniniste est terminée. La question capitale demeure: qu'est-ce qui a commencé?».
Louis SOREL.
William PFAFF, Le réveil du Vieux Monde. Vers un nouvel ordre international, Calmann-Lévy, 1990, 130 FF.
Notes
(1) Dans le Figaro du 5 octobre 1989, Thierry de Montbrial prétend vouloir favoriser leur (les peuples de l'Europe de l'Est) affranchissement de l'impérialisme soviétique, mais «sans bouleverser l'équilibre européen, car nous ne serions certainement pas prêts à en assumer les risques». Jacques Attali, pseudo-futurologue, prédit dans Signes d'horizon (Fayard, 1989) la fin de la crise par la généralisation de l'ordre marchand, un mode de vie universel, le triomphe de l'individu et du nomadisme...». Voir également John Naisbitt, Méga-tendances - 1990-2000 (éd. First).
(2) Cf. Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances, Payot, Paris, 1989. Cfr. Vouloir n°50/51. La version originale a suscité un important débat aux Etats-Unis.
(3) cf. Alain de Benoist, «Pensée politique: l'implosion», in Krisis, n°1, 1989.
(4) Sur la politique extérieure des Etats-Unis, voir Bernard Boëne, «La stratégie générale des Etats-Unis ou le jeu sans fin (?) de l'idéologie et du réalisme», in Stratégique, n°39/1988. Et l'essai de Michel Jobert, Les Américains (Albin Michel, 1987).
La prégnance de l'American Creed depuis deux siècles explique l'aspect "croisade messianique" et les caractères anti-clausewitziens des guerres américaines: les objectifs poursuivis -la capitulation sans condition de l'adversaire- et les moyens mis en œuvre sont disproportionnés par rapport aux enjeux initiaux.
(5) Contre la thèse aronienne du projet humanitaire dévoyé par Staline, lire Dominique Colas, Lénine et le léninisme, PUF, 1987. L'auteur y démontre avec rigueur le caractère intrinsèquement totalitaire du léninisme.
(6) W. Pfaff se réfère à Arnold Toynbee dont l'ouvrage majeur, L'Histoire (Bordas, 1981) a été recensé par Ange Sampieru dans Vouloir n°50/51.
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mercredi, 03 mars 2010
Le nouveau site d'Ayméric Chauprade
La géopolitique exposée par Aymeric Chauprade
Un nouveau site:
http://realpolitik.tv/
Aymeric Chauprade, dont Polémia a largement développé les mesures de disgrâce qu’ils l’ont frappé voilà un an, annonce le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus et audiovisuels. Déjà à la pointe de l’actualité internationale, on y trouve dès maintenant une excellente analyse Nouvelle doctrine de défence russe, sous la plume de Xavier Moreau, qui, en contrepoint des articles généralement destructeurs de la grande presse sur tout ce qui concerne la Russie, permet de comprendre mieux ce qui a amené la Russie à adopter sa nouvelle doctrine de défense en désignant comme ennemis principaux et immédiats les Etats-Unis et l’OTAN.
Polémia ne peut que conseiller à ses lecteurs, intéressés par la géopolitique, de mettre ce nouveau site dans la liste de leurs favoris et de le visiter régulièrement. Ils y trouveront des informations et des explications pertinentes aux grands événements mondiaux.
Polémia
J’ai le plaisir de vous annoncer le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus écrits et audiovisuels.
Les intervenants sont tous des spécialistes de géopolitique d’une aire géographique (Europe, États-Unis, Chine, Russie, Amérique Latine, Afrique…) ou d’un thème (questions maritimes, énergétiques…). Issus d’horizons variés, ils s’attachent à développer une pensée indépendante et attentive aux réalités des peuples et des civilisations. Le choix du terme realpolitik signifiant simplement que nous tentons de comprendre et d’expliquer le monde tel qu’il, non tel qu’on voudrait qu’il soit.
Le site n’est pas payant, et n’a pas vocation à le devenir. Il débute son activité, il est donc loin d’avoir atteint son plein régime et vous aurez bien conscience, lors de votre première consultation, que le contenu va s’enrichir de nombreux articles et de nombreuses vidéos. Vous pouvez nous adresser vos critiques et suggestions en nous écrivant directement à l’adresse contact@realpolitik.tv.
Je vous en remercie par avance. Bienvenue dans le monde des réalités identitaires !
Aymeric Chauprade, directeur du site
Correspondance Polémia
25/02/2010
Polémia
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vendredi, 26 février 2010
El Estado iberoamericano entre 1810 a 1850
El Estado iberoamericano entre 1810 a 1850
Alberto BUELA
Cuando se produce el movimiento independentista americano alrededor de 1810 a propósito de la invasión napoleónica a España la única institución del poder político colonial que queda en pie y la que sirve al la transición de la monarquía a la república como forma de gobierno en América es el cabildo. Específicamente los cabildos locales con sus juntas ejecutivas. Hay que recordar siempre que los cabildos eran las únicas instituciones coloniales donde tenía cabida mayoritariamente el elemento criollo.
Mucho se ha escrito acerca de la independencia de los países americanos en el sentido si fue verdaderamente un movimiento que produjo la independencia deseada o, más bien, si nos enfeudó a Inglaterra, y en menor medida a Francia y Holanda, que terminaron por explotar a la América Criolla durante todo el siglo XIX y la primera mitad del siglo XX, de un modo más sutil pero más profundo del que lo hiciera España.
Pero el objeto de este trabajo no son las valoraciones político-económicas y culturales sino institucionales, en la forma más neutral que nos sea posible.
América, como dijimos, hereda de España el sistema de municipios y cabildos que acá son transformados en verdaderos foros de participación ciudadana y, más específicamente, criolla. Este régimen le da un todo a la organización política de toda Nuestra América, como gustaba decir José Martí.
La superestructura estatal no nace sino después de producido el deterioro del régimen municipal y de cabildos. Es por esto que con justa razón afirma Ernesto Quesada, el fundador de la sociología argentina: “que el federalismo argentino fue implantado artificialmente, por espíritu de imitación de los Estados Unidos, por Sarmiento que contribuyó a popularizar el error, afirmando – con el soberbio dogmatismo que lo caracterizó y tras el cual ocultaba magistralmente el vacío, a veces profundo, de su educación autodidacta y enemiga de las investigaciones penosas- que hay un vicio de juicio entre nosotros en materia de organización política” [1]
En el fondo todo el período de las guerras civiles en América no es otra cosa, desde el punto de vista institucional, que el amor tradicional a la descentralización administrativa por parte de las provincias y las fuerzas criollas enfrentadas al centralismo administrativo de los ilustrados citadinos y afrancesados, habitantes de las ciudades capitales.
Se impuso, finalmente, en todos nuestros países, el centralismo administrativo del “nacionalismo de patria chica” como lo fue el mitrismo en Argentina, por sobre el “nacionalismo de patria grande”, de las fuerzas populares y criollas del interior de nuestros países.
La gran anfibología institución al respecto se produce cuando la idea federal, que aunque el nombre sea moderno, estaba en la vida colonial por la naturaleza de las cosas, es adoptada por el centralismo administrativo de influencia francesa – Francia representa la quintaesencia del centralismo administrativo- y es interpretada como idea unitaria. De ahí que la mayoría de nuestros países hispanoamericanos (Bolivia era la excepción con su antigua constitución) declaren en sus respectivas constituciones el carácter de federales, pero sean en la práctica y de hecho “unitarias” por el peso absoluto que posee la capitalidad de cada uno de nuestros países. Repetimos la idea federal es interpretada en América como idea unitaria.
Así, a partir de mediados del siglo XIX se van estableciendo las distintas constituciones que fijan la forma de nuestros actuales Estados.
Esta latente y no resuelta contradicción entre estas dos tradiciones de pensamiento. La nacional y popular por un lado y la ilustrada y europeizante por el otro, ha dado lugar a la secuencia y sucesión de “revoluciones latinoamericanas” del siglo XX. Viene así a cuento, una vez más, la afirmación del gran polítólogo boliviano, teórico del MNR, don Carlos Montenegro: “debajo de la delgada capa de tierra del orden republicano yace la insobornable existencia del orden hispanoamericano”. Orden que se manifiesta en la primacía de la ecuación Nación-pueblo por sobre la de Estado-nación propia del Estado liberal-burgués de la Europa ilustrada. Es que somos entitativamente algo diverso y distinto de aquello que hemos adoptado para representarnos.
Y así, y esto es significativo a tener en cuenta, mientras el nacionalismo europeo se identifica con la idea de Estado-nación, el nacionalismo hispanoamericano tiende a identificarse con la idea de nación-pueblo., identificación que obedece a una doble exigencia histórica: a) a la integración étnica y cultural en la formación de nuestra identidad a través del mestizaje y b) el carácter revolucionario de nuestros propios pueblos expresado en la movilidad social y política que se da en Iberoamérica a diferencia de Europa.[2]
El Estado en Iberoamérica
Ante el fracaso rotundo del modelo neoliberal que desde hace ya una década se aplica en nuestro país, estamos obligados a proponer nuevos lineamientos para un modelo alternativo, y para ello debemos fijar previamente que entendemos por Estado-Nación su naturaleza, principios y fines específicos, dado que él es el marco de pertenencia a partir del cual adquieren sentido nuestras propuestas en los diferentes campos de acción pública.
Hoy asistimos a la crisis terminal del Estado-Nación, aquél a quien Max Weber reservaba el monopolio de la fuerza, pues ha sido superado por instancias mucho más poderosas. Conviene pues comenzar repensando la génesis, en nuestro caso americana, de dicho Estado para luego hablar de su naturaleza.
El Estado surge en Europa a partir de la nación mientras que, por el contrario, en Nuestra América el Estado crea la nación, pero la nación pequeña, Argentina, Bolivia, Chile, et alii. Así en Europa los movimientos lingüísticos y filosóficos de cepa romántica del siglo XVII aspiraban a formar estados nacionales. España es el primer Estado-Nación a partir de la unión de las naciones o reinos de Castilla y Aragón. Por el contrario, en América el movimiento se realizó a la inversa.
La finalidad de este Estado-nación americano, de carácter republicano y liberal creado a principios del siglo XIX, será la creación de las naciones. Este Estado-nación tendrá por ideología el nacionalismo “de fronteras adentro”, expresión de los localismos más irreductibles encarnados por las oligarquías vernáculas, impermeables a una visión continental. Los Estados independizados de España como repúblicas llegan luego de devastadoras luchas civiles recién a finales del siglo XIX a transformase en naciones. De ahí que la expresión histórica por antonomasia de este nacionalismo localista, hijo putativo de Inglaterra, liberal en economía y conservador en política sea el “nacionalismo mitrista” argentino.
Los nacionalismos europeos fueron imaginados sobre una base étnica, lingüística y geográfica común en tanto que los nacionalismos americanos fueron, paradójicamente, producto de una voluntad ideológica ajena a América, la del Iluminismo filosófico. Siendo sus gestores políticos Gran Bretaña y su Secretario de Estado George Canning quien se apresuró en l825 en reconocer la independencia de los nuevos Estados, luego del triunfo de Ayacucho (1824) sobre el último ejercito realista.
Vemos pues, como estos nacionalismos de “patrias chicas” son europeos dependientes tanto en su génesis como en su contenido. Ello explica en gran parte su fracaso político reiterado. Carecen de encarnadura popular. Y son elitistas no por méritos propios, ya que carecen de nobles, sino porque su ideología conduce a la exclusión del otro.
Estos nacionalismos de invención europea surgidos ante la quiebra de la cristiandad a causa de la reforma protestante, “han venido a llenar el vacío dejado por el debilitamiento de la religión cristiana y el sentido de seguridad de los pueblos en un mundo secularizado”(13).Ello explica el hecho, aparentemente curioso, que la mayor parte de estos Estados-nación republicanos surgieron antes en América que en Europa. Porque aquí se crearon Estados virtuales porque eran Estados sin naciones, lo que explica a su vez la carencia de soberanía nacional. Cambiamos el envase, las instituciones, sólo para pasar de un amo a otro, a Gran Bretaña en el siglo XIX y a los Estados Unidos en el siglo XX.
Este nacionalismo al ser un producto ideológico trasplantado desde Europa a América, carece en nosotros de genuinidad. Este nacionalismo es el que engendró las pocas guerras que tuvimos en Hispanoamérica. La guerra del Pacífico entre Perú, Chile y Bolivia(1879); la del Chaco entre Bolivia y Paraguay(1932/35); la de la Triple Alianza entre Brasil, Argentina y Uruguay por un lado y el Paraguay por el otro(1865-1870) donde al decir de Franz Josef Strauss “por primera vez en la modernidad el deseo del vencedor fue lograr una rendición incondicional - traducción moderna del clásico vae victis =¡ay! de los vencidos = la guerra de exterminio”- lo que condujo a un resultado abominable”(14).
La naturaleza de este Estado se concibió limitada a la normatividad jurídica y así se lo definió como la nación jurídicamente organizada siendo sus fines los propios del Estado liberal-burgués en tanto Estado-gendarme ocupado, fundamentalmente, de la seguridad de las personas y la propiedad. Fueron el radicalismo yrigoyenista, de facto, incorporando el principio de solidaridad ausente en dicho Estado y el justicialismo, de juri, modificando la Constitución del 53, quienes intentaron cambiar su naturaleza para el ámbito argentino.
Nuestra actual propuesta alternativa se funda en una distinta concepción del Estado-nación.
En primer lugar porque preferimos hablar de Nación desde el punto de vista de “Patria Grande” y de “Nacionalismo Continental” y no de patria chica y nacionalismo chauvinista de fronteras adentro. Tenemos que volver a pensarnos como “americanos” tal como lo hicieron San Martín y Bolívar.
En segundo término porque pensamos el Estado no como una “sustancia ética” a la manera del fascismo, ni como “un gendarme” a la manera de liberalismo, ni como “la máquina de opresión de una clase sobre otra” según el marxismo, sino que el Estado es, para nosotros, un “plexo de relaciones”. En una palabra, sólo existe en sus aparatos.
El Estado, entonces, no tiene un ser en sí mismo sino en otro, en sus aparatos que son, antes que nada, instituciones ejecutivas. Así el Estado es un órgano de ejecución con sus distintos ministerios, secretarías y direcciones(15)
La sana teoría del Estado, nos dice que tiene dos principios fundamentales el de solidaridad (viene de soldum=consistente) que hace que todos los miembros se encuentren “soldados” entre sí. Es el principio de unidad de pertenencia- la gran tarea de Yrigoyen fue que las grandes masas de inmigrantes incorporaran en sí mismas, a la Argentina como propia -. Y el principio de subsidiariedad, por el cual el Estado “ayuda a hacer” al que no puede solo con sus fuerzas- la gran tarea del peronismo fue ayudar a la gran masa de trabajadores a organizarse social y políticamente en la defensa de sus intereses -. Siendo el fin del Estado el logro del bien común, entendido como la felicidad del pueblo y la grandeza de la nación.
Así pues, el Estado es un medio y no un fin en sí mismo. Y por el hecho de ser medio, debe ser tomado como tal. De modo que está de más toda polémica acerca de estatista o privatista. Ello está determinado por las diferentes y cambiantes circunstancias históricas y queda librado a la prudencia política de los gobernantes.
Ello nos obliga a distinguir claramente, con el fin de fijar una mínima ingeniería política, entre gobierno, Estado y cuerpos intermedios. Así la naturaleza del gobierno es concebir; fijar los fines. La del Estado, como se ha dicho, ejecutar y la de las organizaciones libres del pueblo, ser factores concurrentes en los aparatos del Estado que les sean específicos para condicionar, sugerir, presionar, interferir de manera tal que el gobierno haga las cosas lo mejor posible(16).
Resumiendo entonces el Estado en sí, es una entelequia, no existe. Lo que existen son sus aparatos, que como tales son medios o instrumentos que sirven como gestores al gobierno para el logro del bien común. Por el hecho de ser medios tienen su fin en otro, y este otro es la Nación como proyecto de vida histórico de una comunidad política. De ahí que un Estado solo pueda ser un Estado nacional de lo contrario devendrá una nada de Estado.
Nota: Un párrafo aparte merece el tema de la crisis de representatividad de los partidos políticos, tema de una actualidad insoslayable.
De todas maneras quisiera dejar la siguiente idea: Nuestra crítica a al sistema de partidos políticos tal como se da en el estado demoliberal no encierra una crítica subrepticia a la democracia sino a la degeneración que de ésta última realizan los partidos cuando monopolizan la vida política usufructuando del Estado para su propio beneficio. Nuestra crítica va dirigida a la partidocracia que es una clara degeneración de la democracia cuando se reduce a “juego de partidos”.
1.- Hoy tenemos como ejemplo el caso de Ponsombilandia, como denominaba al Uruguay ese patriota historiador oriental que fue Washington Reyes Abadie, donde la compañía finlandesa Botnia se muestra más poderosa que el Estado uruguayo y no tiene en cuenta el pedido del presidente de ese país para detener las obras de la papelera que seguramente contaminará las aguas del río homónimo.
2.- Los italianos denominaro lo Stato, que significa: lo que está ahí, al aparato de poder superpuesto artificiosamente, mecánicamente a la vida orgánica, natural y espontánea de la ciudad, de la antigua Comuna.
3.- Bodin, Jean: Six livres sur la République(1576)
4.- Locke, John: Ensayo sobre el gobierno civil, cap.VII
5.- Mussolini, Benito: El espíritu de la revolución fascista, Bs.As., 1984, cap.IV.-
6.- Lenín: Sobre el Estado, Pekín, 1975. p-11 y 25.-
7.- Gamsci, Antonio: Sobre el Estado moderno, Bs.As., 1984, p.161.-
8.- Lenín: op.cit. p.25.-
9.- Sampay, Arturo: Constitución nacional 1949, Bs.As., Ed. Pequén, 1983, pp.35 y 36.-
10.- Lenín: op. cit. p.1.-
11.- Maritain, Jacques: El hombre y el estado, Bs.As., 1953, p.13.-
12.- Cfr. Perón, Juan : Política y estrategia, Ed.Pleamar, Bs.As., 1971, p. 166 y siguientes.-
13.- Pakkasvurta, Jussi: ¿Un continente, una nación?, Academia de la Ciencia de Finlandia, Helsinki, 1997, p.43.-
14.- Strauss, Franz Josef: Consideraciones sobre Europa, Buenos Aires, Pleamar, p. 134.-
15,. Cfr. Buela, Alberto: Aportes al pensamiento nacional, Bs.As., Ed. Cultura et Labor, 1987, pp. 93 a101; y, Metapolítica y filosofía, Bs.As., Ed. Theoría, pp.65 a 69.-
16.- Buela, Alberto: La idea de comunidad organizada, Bs.As., Ed. Cultura et labor, 1999.-
[1] Quesada, Ernesto: La época de Rosas, Buenos Aires, Plus Ultra, tomo 5, 1965, p.20
[2] Quien más en profundidad ha trabajado esta idea en América ha sido uno de los padres de la sociología indiana don Julio Ycaza Tigerino en su libro Perfil político y cultural de Hispanoamérica, Madrid, Ed. Cultura Hispánica, 1971
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jeudi, 25 février 2010
Breve nota sobre el Artico
BREVE NOTA SOBRE EL ÁRTICO
Tiberio Graziani *
Eurasia. Revista de estudios Geopolíticos
Los ciclos geopolíticos de la región Ártica
La historia geopolítica de la región Ártica –si se prescinde de las referencias de los Antiguos respecto a tal región y a las exploraciones de los Vikingos, que con cierta dificultad podemos valorar en términos típicamente geopolíticos –puede ser subdividida, en una primera aproximación, al menos en tres ciclos.
Un primer gran ciclo, que podríamos denominar el ciclo de las grandes exploraciones y de la primera maritimización ártica, puede situarse entre 1553, es decir, cuando el navegador Hugh Willoughby partió en busca del paso del Nordeste, y la segunda mitad de los años veinte del siglo XIX. Este primer ciclo –durante el cual se lleva a cabo el proceso de “maritimización” de la Orilla ártica, ejecutado mediante la construcción de puertos y la proyectación de rutas comerciales –encaja en el ámbito de la búsqueda de nuevas vías hacia Oriente, una empresa sostenida principalmente por las naciones europeas. Entre finales del Setecientos e inicios del Ochocientos los actores regionales son Dinamarca y los Imperios inglés y ruso. La rivalidad entre Rusia y Gran Bretaña, es decir, entre una potencia de tierra y una de mar, constituye la clave de lectura de las principales tensiones geopolíticas que tienen lugar en esta región en el curso de los primeros años del Ochocientos.
El acuerdo, firmado en 1826 entre San Petersburgo y Londres sobre la delimitación de las fronteras entre la Rusia llamada “americana” y las posesiones inglesas en América septentrional, inaugura una nueva fase histórica de la región polar. Tal acuerdo, destinado a reducir las fricciones entre las dos entidades geopolíticas, sin embargo, no triunfó en su intento. La tensión geopolítica entre los dos Imperios se atenuará, al menos en esta parte del planeta, sólo en 1867, cuando Rusia, con la finalidad de enfrentarse al asentamiento británico en la zona ártica, cederá Alaska por 7,5 millones de dólares a los emergentes Estados Unidos de América.
Lejos de ser la locura de Seward, como fue definida por el nombre del entonces secretario de Estado norteamericano, la adquisición de Alaska representaba, al menos para aquella época, el punto de llegada de la política “nórdica” de Washington. De hecho, los Estados Unidos, que tenían la intención de proyectar su poder hacia el polo ártico, habían entablado, en los mismos años, algunas negociaciones con Dinamarca con respecto a la adquisición de Groenlandia. Como se sabe, los EE.UU. alcanzaron el objetivo estratégico de controlar gran parte del círculo polar ártico sólo después de la Segunda Guerra Mundial, instalando, precisamente en Groenlandia, la base militar de Thule.
Con el ingreso del recién llegado en el club de las naciones circumpolares comienzan a germinar las fricciones que marcarán la posterior historia geopolítica de la región Ártica. Es este el ciclo de la soberanía o de las reivindicaciones territoriales, que empiezan precisamente en 1826 con una delimitación de las fronteras que termina en 1991, con la disolución de la URSS. Este se caracteriza por la enunciación de las teorías sobre la división de la región y de su creciente militarización, que, puesta en marcha en el curso de las dos guerras mundiales, fue, sin solución de continuidad, proseguida e intensificada en el contexto de la “guerra fría”. La importante función geoestratégica del área ártica que hace de ella, todavía hoy, una de las principales plataformas de disuasión nuclear, fue plenamente reconocida por los principales actores regionales, en primer lugar por los EE.UU. y por la URSS y, secundariamente, por Canadá, e incluida en las respectivas doctrinas geopolíticas del momento.
El tercer ciclo, que podríamos definir de la identidad regional ártica o del multilateralismo y que podemos situar entre 1990 y los primeros años del siglo actual, está marcado por el escaso compromiso de Moscú –geopolíticamente replegado sobre sí mismo tras el colapso del edificio soviético –en el sostenimiento de sus intereses regionales, por las renovadas tensiones entre Canadá y los Estados Unidos, por una tímida presencia de la Unión Europea, que enuncia la llamada política de la Dimensión Nórdica, y, en particular, por algunas iniciativas internacionales o multilaterales. Estas últimas, que se basan principalmente en la común identidad ártica, en la idea del “mediterráneo ártico”, en el respeto de las minorías y del medioambiente y en el llamado desarrollo sostenible tienden tanto al refuerzo de la internacionalización del área como a la atenuación de las tiranteces surgidas dentro del restringido club de las naciones circumpolares con respecto a la soberanía. Sin embargo, hay que observar que en el plano de las relaciones de fuerza reales, en particular las referentes a los ámbitos militares y geoestratégico, los EE.UU. ostentan, en el curso de este breve ciclo, la primacía de nación hegemónica de toda la zona, ya sea directamente, o a través de la alianza atlántica; los otros actores recitan el papel marginal de simples comparsas.
El Ártico en el escenario multipolar
El Ártico es actualmente, en el marco de la estructuración del nuevo sistema multipolar, una de las áreas más diputadas del planeta, no sólo por los recursos energéticos y minerales presentes bajo su banco de hielo, por su particular posición geoestratégica y por los efectos que el calentamiento global podría producir respecto a su mayor practicabilidad, sino, sobre todo, debido al retorno de Rusia como actor global.
Considerado durante mucho tiempo de limitado interés geopolítico, a causa de su inaccesibilidad, el círculo polar ártico, de hecho, ha llegado a ser –desde el 2 de agosto de 2007, cuando la tripulación de dos submarinos colocaron la bandera tricolor rusa en los fondos del Océano Glacial Ártico, a 4200 metros de profundidad –una zona de crecientes choques entre los países circumpolares y de gran interés para China y Japón. Esta fecha, que muy probablemente celebra el inicio de una nueva era geopolítica para la historia de la región ártica, evidencia, ante todo, el renovado interés de los Rusos en la defensa de su espacio continental y costero, así como la determinación perseguida por el Kremlin de competir en la constitución de un nuevo orden planetario, después de la larga fase del bipolarismo y el breve, y geopolíticamente catastrófico, “momento unipolar”.
La “reivindicación” rusa del espacio ártico se inserta, por tanto, plenamente en la Doctrina Putin destinada a reestablecer, en una perspectiva multipolar, el justo peso de Rusia en todo el complejo tablero mundial. Una “reivindicación”, o más bien, una asunción de responsabilidad en referencia al nuevo escenario mundial, que también el presidente Medvedev, actual inquilino del Kremlin, parece sostener con convicción.
Moscú, después de haber adquirido nuevamente prestigio en el Cáucaso y en Asia central, reanudado las relaciones con China y, sobre todo, limitado, en la medida de lo posible, la descomposición de su “exterior próximo”, se dirige ahora hacia el Norte.
Esto no debe sorprender en absoluto, siendo el territorio ruso, como nos recuerda Pascal Marchand, el resultado de un proceso histórico distinguido por dos caracteres geográficos: la continentalidad, es decir, la expansión en la masa continental eurasiática y la nordicidad, es decir, la expansión hacia el Ártico.
Estas dos directrices, además del impulso hacia el Océano Índico, marcarán una vez más el destino de Rusia en el nuevo Gran Juego del siglo XXI.
En este marco de referencia el Ártico, la mítica morada de los pueblos védicos según los estudios efectuados por el político e intelectual indio Bal Gangadhar Tilak, se convertirá en una de las principales puestas en juego de los próximos veinte años.
* Director de Eurasia –Rivista di studi geopolitici– y de la colección Quaderni di geopolitica (Edizioni all’insegna del Veltro), Parma, Italia. Cofundador del Istituto Enrico Mattei di Alti Studi per il Vicino e Medio Oriente, Ha dictado cursos y seminarios de geopolítica en universidades y centros de investigación y análisis. Docente del Istituto per il Commercio Estero (Ministerio de Asuntos Exteriores italiano), dictando cursos en distintos países, como Uzbekistán, Argentina, India, China, Libia. – e-mail: direzione@eurasia-rivista.org
(Traducido por Javier Estrada)
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mardi, 23 février 2010
Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region
Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region
Tiberio Graziani
Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici
The geopolitical cycles of the Arctic
The geopolitical history of the Arctic – leaving aside ancient references to the region and the Viking explorations, that cannot easily be evaluated in typically geopolitical terms – can be divided, in a preliminary approximation, into at least three cycles.
A first great cycle, which we can call the cycle of great exploration and of the initial Arctic maritime activity (maritimisation) can be defined starting around 1553, that is, when the English navigator Hugh Willoughby began searching for a North-East passage, and going to the second half of the 1820s. This first cycle – during which the “maritimisation” process of the Arctic basin took place, set off by the construction of ports and the planning of commercial routes – falls under the heading of the search for new routes to the Orient, an undertaking supported mainly by European nations. At the end of the eighteenth century and the beginning of the nineteenth the regional actors were Denmark and the British and Russian empires. The rivalry between Russia and Great Britain, that is, between a great land-based and a great sea power, is the key to understanding the principal geopolitical tensions in this region in the course of the first years of the nineteenth century.
The agreement signed in 1826 between St. Petersburg and London delimiting the frontier between the so-called “American” Russia and the English possessions in North America inaugurated a new phase in the history of the polar region. Even though that agreement was aimed at reducing frictions between the two geopolitical entities, it wasn’t successful in its intent. The geopolitical tension between the two empires in this part of the planet was mitigated only in 1867, when Russia, in order to block the British from taking root in the Arctic, ceded Alaska to the emerging United States of America for $7.5 million.
Far from being Seward’s Folly, as it was called after the then-Secretary of State, the acquisition of Alaska represented, for the era, the arrival of Washington’s “Nordic” policy. In fact, the US, intending to project its power toward the Arctic pole, had entered into negotiations with Denmark to acquire Greenland. As noted, the USA reached its strategic objective of controlling the majority of the arctic circle only after the Second world War, installing the Thule military base in Greenland.
With the new entrant in the circum-polar navigation club, frictions arose that marked the successive phase of the geopolitical history of the Arctic. This is the cycle of sovereignty or territorial claims, which began in 1826 with the delimitation of the frontier and terminated in 1991 with the dissolution of the USSR. It was characterized by the expression of theories on the partition of the region and its growing militarization, which, started over the course of two World Wars, was, without interruption continued and intensified in the context of the Cold War. The area’s important geostrategic function, which it still plays today, as one of the main platforms for nuclear dissuasion, was fully recognized by the main regional actors, particularly the US and the USSR, and also Canada, and it was fully integrated in the respective geopolitical doctrines of the time.
The third cycle, which we can define as Arctic regional identity or multilateralism, placed between 1990 and the first years of this century, is marked by Moscow’s slight commitment – geopolitically fallen back into itself after the collapse of soviet structure – in supporting its own regional interests, by the renewed tensions between Canada and the US, by the timid presence of the European Union, which states the so-called policy of the Nordic Dimension, and, in particular, by some international or multilateral initiatives. These initiatives, based principally on the common Arctic identity, on the idea of an “Arctic Mediterranean,” with regard to minorities and the environment and the so-called sustainable development, are aimed both at reinforcing the internationalisation of the area, and at attenuating the frictions that have emerged in the restricted club of the circum-polar nations regarding sovereignty. It must still be observed that on the plane of real power relationships, especially those concerning military and geostrategic settings, the USA holds, in this brief cycle, the position of dominant nation in the entire zone, both directly and through the Atlantic alliance. The other actors play a marginal cameo role.
The Arctic in the multipolar scenario
The Arctic is now, in the structuring of the new multipolar system, one of the most contested areas of the planet, not only because of its energy and mineral resources under the ice pack, but for its particular geostrategic position, the effects that global warming could produce regarding its practical use, and especially because of the return of Russia as a global actor.
Considered for a long time to be of limited geopolitical interest, mainly because of its inaccessibility, the Arctic circle has in fact become – as of August 2, 2007, when the crew of two submarines set the Russian tricolour on the Arctic ocean floor at a depth of 4200 metres – an area of increasing conflict among circum-polar countries and of great interest to China and Japan. This date, which probably marks the opening of a new geopolitical era for the Arctic region, highlights first of all the renewed interest of Russia to defend its continental and coastal territory as well as the determination followed by the Kremlin to participate in the constitution of a new planetary order after the long period of bipolarism and the shorter, geopolitically catastrophic “unipolar moment.”
The Russian “claim” on the Arctic space is fully included in the Putin Doctine aimed at re-establishing, in a mulipolar prospective, the due weight of Russia in the entire and complex world space. This is one “claim,” or rather an assumption of responsibility regarding the new world scenario, that President Medvedev, currently in the Kremlin, seems to support with conviction.
Moscow, after having reacquired prestige in the Caucasus and in Central Asia, renewed its relationship with China and, especially limited, as much as possible, the crumbling of its “near abroad”, is now turning toward the North.
This shouldn’t in fact be surprising, with the Russian territory, as Pascal Marchand reminds us, being the result of a historical process marked by two geographical natures: continentality, that is, expansion on the Eurasian continent, and nordicity, expansion towards the Arctic.
These two policies, beyond the push toward the Indian Ocean, indicate again Russia’s destiny in the new great 21st century.
In the frame of reference the Arctic, mythical home of Vedic peoples according to studies carried out by the Indian politician and intellectual Bal Gangadhar Tilak, will become one of the main places in play in the next twenty years.
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vendredi, 19 février 2010
A l'assaut de l'Eurasia
A l'assaut de l'Eurasie
Du prométhéisme au Heartland
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jeudi, 18 février 2010
Lesrévolutions de couleur à l'assaut du Heartland
Les révolutions de couleur à l’assaut du Heartland
Grèce 2008 : des manifestations estudiantines paralysent la Grèce à la suite du meurtre d’un jeune homme de 15 ans par un policier. Rapidement des casseurs font leur apparition. Ils ont été recrutés au Kosovo voisin et acheminés par autobus. Les centres-villes sont saccagés. Washington cherche à faire fuir les capitaux vers d’autres cieux et à se réserver le monopole des investissements dans les terminaux gaziers en construction. Une campagne de presse va donc faire passer le gouvernement Karamanlis pour celui des colonels et entrainer un changement de premier ministre pour permettre la nomination de Papandreaou.
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mercredi, 17 février 2010
Islamfundamentalismus, öl und angelsächsische Weltmächte
Robert STEUCKERS:
Islamfundamentalismus, Öl und angelsächsische Weltmächte
Auszug aus einer Rede - Gehalten in Bayreuth für die Gesellschaft für Freie Publizistik (April 2006)
Eine erste Idee, um das Thema „Sturm auf Europa“ hier einzuleiten: Dem Rest der Welt gegenüber, sagen einige falschen Propheten Europas, sollte man die Strategie des Igels wählen. Das könnte zwar eine gute Idee sein, um seine Kräfte zu versammeln, ohne messianisch wie die VSA, anderen Völkern unsere Prinzipien oder politischen Modellen aufpropfen zu wollen und dabei unsere Grenzen zu verriegeln, um eine gefürchtete „Umvolkung“ zu vermeiden. Aber gezwungen sind wir alle doch, festzustellen, dass es dem Igel an Bewegungskraft fehlt. Genauso wie Admiral Tirpitz und der Geopolitiker Ratzel einst sagten, brauchen die Kontinentalmächte schwimmen zu können, also sich der Weite der Weltozeanen zu öffnen. Jetzt brauchen sie auch fliegen zu können, d. h. ihre Luftwaffekapazitäten zu entwickeln, und eben auch sehr hoch zu fliegen, bis zu den stratosphärischen Ebenen, da Gesamteuropa strategische Trabanten ziviler und militärischer Nützlichkeit braucht, um in der künftigen Welt konkurrenzfähig zu werden.
Eine zweite Idee, um das heutige Thema nochmals einzuleiten: Die Notwendigkeit, die Sachlage kühl, sachlich, ohne Floskelngefühle jeder Art zu analysieren. Die Hauptfrage zu beantworten kann wirklich ohne Panik oder Schadenfreude passieren. Es genügt zu fragen: Wie funktioniert dieser „Sturm“? Die Antwort sollte aus Sachen, Fakten und ohne fromme Wünsche bestehen. Hier ein Paar Beispiele:
- Die Immigration aus afrikanischen bzw. arabisch-islamischen Ländern ist zwar ein Problem ungeheueren Umfangs, sie bleibt trotzdem ein Problem zweiten Ranges, da sie nicht als ein Phänomen an sich betrachtet werden sollte, sondern als das effizientste Instrument des Hauptfeindes. Darf man also wie Samuel Huntington von einem Gegeneinanderprallen von Kulturen sprechen? Meine Antwort ist : Jein! Gegen diejenigen, die Huntington banalisieren oder vulgarisieren, sage ich, dass ein solches Gegeneinanderprallen der Kulturen immer schon da war, und hat, was Europa und den Islam betrifft, fast ein Jahrtausend gedauert. Nur diejenigen, die kein historisches Gedächtnis mehr haben, werden der „Clash“ Huntingtonscher Prägung, als eine Neuheit empfinden. Gegen diejenigen, die Huntingtons Hauptthese total im Namen des politisch-korrekten Universalismus ablehnen und als „neo-Spenglerisch“ oder als „neokonservativer Parafaschismus“ bestempeln, sage ich, dass es eben Amerika ist, die diesen „Clash“ heute inszeniert, um Europa und Russland der islamischen Welt gegenüber zu schwächen. Ich will hier einen Mittelweg suggerieren: Der Begriff des „Clash of Civilizations“ zwischen Europa oder Russland einerseits und der islamischen Welt andererseits, ist zwar eine nicht zu leugnende Wirklichkeit, aber der Ursprung dieses Konfliktes heute befindet sich nicht im Islam selbst sondern wird von Pentagon-Strategen ferngesteuert. Der Islam ist ein Feind Europas und Russlands heute geworden, aber nur indem er ein Bundgenosse des Hauptfeindes Amerika ist.
- Hauptfeind bleibt noch immer Amerika, als Seemacht, als neues Karthago, wie Carl Schmitt so treffend analysiert hat. Warum? Weil Amerika noch stets Territorien oder Seeräume in Europa besetzt. Weil Amerika Satelliten im Weltall schickt, um unsere militärische und zivile Tätigkeiten zu beobachten und zu spionieren. Weil Strategien der Charakterwäsche noch immer in Deutschland wie überall in Europa angewendet werden, wie damals Caspar von Schrenck-Notzing sie meisterhaft entlarvt hatte. Die weltweite Medienmanipulation macht es unmöglich, einen unabhängigen Blick auf die Weltereignisse zu werfen. Die Mediendominanz Amerikas, mit CNN und andere mächtige Presseagenturen, erlaubt die einzig gebliebene Supermacht, Greuelpropaganda zu verbreiten, damit spontan die Ziele Washingtons als das Gute schlechthin angenommen werden. Beispiele gibt es in Hülle und Fülle: Die Massaker von Timisoara/Temeschburg zur Zeit des Ceaucescu-Sturzes, wo die gezeigten Leichen aus den Kühlschränken des Uni-Krankenhauses oder aus frischen Gräbern kamen; die Flüchtlinge, die im Kosovo ständig vorbeipassierten und die eigentlich immer die gleichen Bilder und Menschen waren, die aus anderen Winkeln technisch-filmisch aufgenommen wurden; die von serbischen Schergen angeblich gegrabenen Massengräber, die kein medischer UNO-Ausschuss je gefunden hat; die Säuglinge, die die Soldaten Saddam Husseins in Kuweit angeblich massakriert hätten, indem sie die elektrischen Stecker der Brutinstrumente ausgerissen hatten. Die Liste ist selbstverständlich hier weit unvollständig. Solange solche Manipulationen inszeniert werden oder bloss möglich bleiben, um die Interessen Europas oder Russlands zu torpedieren, bleiben unsere Völker unfrei, ihr weiteres Schicksal zu gestalten. Die europäischen Staaten sind unfähig, ihre eigene Ziele und Interessen ihren eigenen Bürgern in einer eigenen Mediensprache deutlich zu machen. Deshalb, und solange eine solche Sachlage herrscht, kann man kühl und sachlich feststellen, dass ihr Status den Status von Marionnetten-Staaten ist. Wir sind die Hampelmännchen und -frauen von Marionnetten-Staaten und keine Bürger von normal funktionierenden Staatswesen.
- Die Energiepolitik der Vereinigten Staaten zielte immer darauf, eine Maximisierung des Öl-Konsums zu erreichen. Man kann es die „Politik des Nur-Öls“ nennen. Diese Option hat als Ursprung das blosse Fakt, dass das konsumierte Öl in der Welt bis 1945 hauptsächlich aus den Vereinigten Staaten kam. Die VSA waren also die Hauptlieferanten dieses Rohstoffes in der Welt und verstanden daraus, dass dieser Rohstoff ihr besseres Instrument werden könnte, um allerlei strategische Vorteile zu gewinnen. Lange Zeit haben die Vereinigten Staaten ihr eigenes Öl als Reserve bewahrt, um strategische Trümpfe im Falle von Weltkriegen zu halten. Ziel der Propagandafeldzüge jeder Schattierung wurde stets, es zu vermeiden, dass andere Mächte solche Reserven oder Reserven anderer Art aufstapelten. Die „Nur-Öl-Politik“ Washingtons war gegen jede energetische Diversifikation gerichtet. Wenn Völker ihre Energie-Quellen vervielfachen, schaffen sie die Bedingungen einer Unabhängigkeit, die die Vereinigten Staaten nicht tolerieren können, da sie für immer Hauptlieferanten auf dieser Erde bleiben wollten. Jetzt stellt sich die Frage über die reale oder angebliche Ölknappheit in der heutigen Welt. Werden wir bald einen „pick“ erleben, nachdem die Reserven sich allmählich ausschöpfen werden? Gibt es Reserven etwa in Mittelafrika oder in Alaska, die die Wichtigkeit der saudischen Reserven bald relativieren wurden? Die Frage bleibt selbstverständlich offen. Sicher ist aber das die Amerikaner so viele Ölfelder in den Händen ihrer eigenen Ölgesellschaften sehen wollen, um Meister dieser Rohstoffsquellen so lang wie möglich zu bleiben und die Wirtschaftslage der trabantisierten Völker zu kontrollieren und, wenn nötig, zu erdrosseln. Würden diese Völker energetisch durch Diversifikation unabhängig und frei, wäre eine solche Erdrosselung nicht möglich.
- Sehr früh, sofort es sicher war, dass die Ölreserven der arabischen Halbinsel die umfangreichsten der Welt waren, hat die amerikanischen Führung unter Franklin Delano Roosevelt ein Bündnis mit dem saudischen König Ibn Saud geschmiedet. Der US-Präsident und der arabische König trafen sich am Bord des US-Kriegsschiffes USS Quincy im Roten Meer. Dort wurde schon vor der deutschen Niederlage eben dieses Bündnis mit einem fundamentalistisch-wahhabitischen Königreich Wirklichkeit. Die geistige Lage in diesem Königreich war ganz anders als im mehr oder weniger islamisierten oder schiitischen Persien oder als im Ottomanischen Reich. Beide Reiche waren alte staatliche Strukturen, die religiös bunt waren und die auch Elemente aus anderen Quellen als aus denjenigen arabisch-islamischer Herkunft eingebürgert oder Formen des Islams wie der Sufismus oder die Mystik entwickelt und gefördert hatten. Für die wahhabitischen Saudi-Araber waren alle diese Beimischungen zoroastrisch-persischer, byzantinisch-griechischer oder schamanisch-zentralasiatisch-türkischer Herkunft ketzerisch oder unrein. Diese kulturtragenden Beimischungen wurden durch den Wahhabismus abgelehnt, zur Gelegenheit zerstört oder systematisch als Ketzerei abgetan. Nach Roosevelt und Nachfolger, sei dabei doch ironisch erwähnt, hätten alle Völker der Erde die Menschenrechte volens nolens übernehmen sollen (besonders in ihre spätere San-Francisco-Verfassung des Jahres 1948), nicht als tatkräftige eingewurzelte Rechte historischen Ursprungs sondern als auflösende Keime gegen jede geschichtlich gewachsene nicht amerikanisierte Institution (dieser letzte Terminus benutze ich hier im Sinne Arnold Gehlens); diese Menschenrechte sollten in einer zweiten Stufe dazu dienen, in aller Ecken der Welt eine amerikanisierte nicht heimatliche Pseudo-Demokratie zu stützen, und diese sollte überall gelten, nur nicht in Saudi-Arabien. Der Fall zeugt von einer evidenten Doppelmoral: Die amerikanische Führung glaubt nicht an den Menschenrechte als ob diese eine Art ziviler Ersatzreligion wären, sondern benutzen diese Ideologie, um feindliche oder konkurrierende Staaten zu schwächen, und tolerieren die grobsten Kränkungen dieser Menschenrechte, wenn ihre Interessen damit gedient werden.
- Die Allianz zwischen den Vereinigten Staaten und dem Saudi-Islamismus basiert sich auf einer „Insurgency-Strategie“. Mit saudischen Geldern werden Erhebungen islamitischer Ideologie veranstaltet sowie im Afghanistan gegen das Regime, das die Sowjets damals unterstützten, oder in Bosnien und Kosovo, zur Zeit Clintons und Albrights, um Unruheherde in Europa permanent zu schaffen, oder in Tschetschenien, um Russland im Gebiet des Nordkaukasus auszuschalten. Jedesmal gab es saudische Gelder, um die afghanischen Mudschahiddin oder Talibane, die bosnischen Verbände oder die UCK-Milizionäre oder die tschetschenischen Terroristen zu finanzieren. Auf jedem Kampfgebiete fanden Beobachter saudische Kriegsherren oder Freiwilligen. Die Ziele dieser Insurgency-Kämpfe entsprachen immer die geopolitischen Stossrichtungen die Washington sich wünschte. Die islamfundamentalistische Gefahr entspricht also schlicht ein Instrument des US-Imperialismus. Ohne amerikanische Deckung des saudischen-wahhabitischen Systems, hätten diese Erhebungen nie stattgefunden. Afghanistan wäre ein Trabant der Sowjetunion bzw. Russland geblieben. Serben und Kroaten hätten sich Bosnien geteilt. Der Kosovo-Krieg hätte nie stattgefunden. Tschetschenien und Daghestan wären ruhig geblieben. Bin Laden war letztes Endes ein Söldner Amerikas; deshalb vielleicht konnte er so einfach verschwinden, derweil sein Mitkämpfer der Mullah Omar mit einem Motorrad entwischen konnte, ohne dass die Satteliten der amerikanischen Streitkräfte oder der allwissenden NSA-Agentur, die uns hier alle sehen können, dieses verdammte Motorrad mit dem bösen Mullah drauf entdecken konnten! Vielleicht eine unerwartete Panne, eben am diesen Tag!
Bin Laden, der Mullah Omar, der Bassajew in Tschetschenien und die vielen anderen treiben also was man im militärischen Jargon seit Lawrence of Arabia eine „Insurgency“ auf abseitigen Gebieten um den Hauptfeind zu destabilisieren. Die Immigration innerhalb der europäischen Staaten heute dient dazu, und nur dazu, einen künftigen Insurgency-Krieg im Herzen unseres Kontinents zu leiten. Die breiten Massen entwurzelten junge Muslims, die hier ohne Arbeit herumlaufen, machen es möglich, dass eine solche „Insurgency“-Strategie hier künftig inszeniert werden könnte. Die These wird ganz au sérieux in Frankreich genommen und der Hauptreferent in dieser Sache ist der französische Politikwissenschaftler algerischer Herkunft Ali Laïdi. Dieser stellt ganz sachlich fest, dass die aufgehetzten Köpfe in den Randstädten rund Paris, Lyon oder Marseille, systematisch von Geistlichen fanatisiert werden, die irgendwie von saudisch-finanzierten Gremien abhängen. Solche Geistlichen predigen überhaupt nicht die Integration, sondern einen rückwärtsorientierten Islam, wobei weite Teile dieser arabisch-mahomedanischen Bevölkerungsgruppe der Leitkultur völlig entfremdet und, schlimmer noch, ihr tiefer und tiefer befeindet werden, sowie die fanatischen wahhabitischen Krieger der arabischen Halbinsel die kulturreiche Islam-Synthese Persiens oder des Ottomanischen Reiches entfremdet wurden. In dieser verschwächten Bevölkerungsgruppe herrscht von jetzt ab ein Misstrauen, wobei alles was man als Europäer sagt, stillschweigend oder vehement abgelehnt wird. Intoleranz taucht inmitten eines langweiligen Toleranz-Diskurses.
Geschichte des Islamfundamentalismus
◊ 1. Erklärung der Begriffe
Der sogenannte Islamfundamentalismus hat seine Wurzeln in verschiedenen Denkschulen, die im Laufe der Geschichte in islamischen Ländern entstanden sind. Die heutigen Strömungen des Islamfundamentalismus finden ihre Quellen eben in diesen Denkschulen. Es scheint mir deshalb wichtig, diese fundamentalistischen Richtungen und ihre Folgen zu kennen.
- Die erste Denkschule ist der Hanbalismus. Gründer dieser Schule sind Achmad Ibn Hanbal (780-855) und später, in einer zweiten Stufe der Entwicklung dieser Schule, Taqi Ad-Dinn Ibn Taymijah (1263-1328). Die vier Hauptgrundrichtungen dieses Denkens sind : 1) Eine Reaktion gegen die Verwendung philosophischer Begriffe griechischer oder persischer Prägung im Raum des Islams. Die Reaktion ist also anti-europäisch; 2) Eine buchstäbliche Interpretation des Korans, wobei keine Innovationen toleriert werden; 3) Der Muslim darf keine persönliche Urteilskraf und keine theologische Spekulationen entwickeln. Opfer dieser strengen Restriktion wurde der Mystiker Ibn Arabi, einer der gründlichsten Denker unseres Mittelalters (wobei der Begriff ‘Mittelalter” für den Islam überhaupt nicht passt); 4) Die Feindschaft gegen den Sufismus, d. h. gegen breitdenkenden Schulen, die ihre Ursprung im iranischen Raum fanden.
- Der zweite Denkschule ist der bekanntste Wahhabismus, von Muhammad Ibn Abd Al-Wahhab gegründet. Al-Wahhab wurde ungefähr 1703 in Naschd-Provinz in der Arabischen Halbinsel geboren. Die Merkmale seines rigoristischen Systems sind: 1) Er ist unmittelbar ein Anhänger der hanbalistischen Tradition; er will deren Strengheid im späteren saudischen Raum wieder erwecken; 2) Al-Wahhab behauptet, der Kultus sei unrein geworden, weil zuviele Devotionalien den reinen Geist des Islams besuddeln; er will jeden Rückkehr zu vorislamischen Riten bekämpfen, da diese Riten im arabischen Halbinsel wieder üblich geworden waren, weil das Land weit von den Zentren des islamischen Hauptkultur entfernt war; 3) Al-Wahhab rechtfertigt die systematische Anwendung von Terror gegen Andersdenkenden, wie, zum Beispiel, Schiiten oder andere “Abweichler”. Terror wird Mittel zum Zweck; 4) Al-Wahhab behauptet auch, daß das Besuchen von heiligen Stätte ketzerisch sei; Objekte wie Rosenkränze, das Rauchen, die Musik, das Tanzen werden also verboten; Männer sollten immer auch Bart tragen.
- Die dritte Denkschule ist die Ichwan-Bewegung. Nach eine langen Zeit des Wirrens, erobert der Neschd-König Ibn Saud die arabische Halbinsel. Seine Truppen —die Ichwan-Verbände— werden von den Wahhabiten fanatisiert. Ibn Saud, ein schlauer König, weiss aber, daß das Nomadentum die Araber der Halbinsel schwächt. Er will sie seßhaft machen und militarisieren. Deshalb gründet er eine Bewegung von Soldaten-Kolonisten, die streng wahhabitisch erzogen werden. Diese Militarisierung durch Religion ist eine Grundtendenz des heutigen Fundamentalismus und hat, u. a. Bin Laden inspiriert. Die Geschichte der Ichwan-Bawegung, d. h. die Bewegung der Bruderschaft, zwingt uns, die Geschichte Saudi-Arabiens besser zu kennen und zu verstehen.
- Die vierte Denkschule ist die Bewegung der Islam-Bruderschaft oder Muslim-Bruderschaft in Ägypten. Gründer der Bewegung war Hassan Al-Banna, der sie Ende der 40er Jahre ankurbelte. Hauptidee war, daß die arabisch-muslimischen Völker den Westen nicht knechtisch nachahmen sollten. Er plädierte für eine allgemeine Reislamisierung und gründete deshalb auch eine paramilitärische Organisation, die Kata’ib (die Phalange). Al-Banna wurde 1949 in offener Strasse von ägyptischen Polizisten erschossen, nachdem Demonstranten englische Soldaten gelyncht hatten. Es ist merkwürdig zu notieren, dass am Anfang seiner Laufbahn Al-Banna ein liberaler verwestlicher Intellektuelle war. Er hatte in den Vereinigten Staaten studiert. Nach seiner Rückkehr nach Ägypten, lehnte er die westlichen Ideen ab und wurde streng islamitisch. In der ersten Phase der Bewegung, unterstützte Al-Banna die “Freien Offiziere” Nassers, aber danach, entstand eine totale Opposition gegen Nasser mit Hilfe der Kommunisten. Die Tätigkeiten der Islam-Bruderschaft hat systematisch das Nasser-Regime geschwächt. Insofern har die Bewegung die Amerikaner und Israelis geholfen, Ägypten als auftauchende Macht innerhalb der arabischen Welt auszuschalten, besonders nach der Niederlage von Juni 1967. In 1955, wurde die Bewegung für das erste Mal von den ägyptischen Behörden aufgelöst und verboten. Die ersten Hinrichtungen von Bruderschaftsaktivisten finden statt. Sayyib Qutb (1906-1966) wurde dann der Nachfolger Al-Bannas. Er entwickelte die Bewegung weiter und gab sie eine islamistisch-sozialistische Orientierung, wiederholte und rekapitulierte die hanbalistische Dimension seiner Islamsvision; die eigentliche Neuheit war, dass er den Dschihad, den heiligen Krieg, gegen ungenügende, zu tolerante oder ketzerische muslimische Regierungen. Zwischen 1954 und 1964, flog er manchmals ins Gefängnis. 1966 wird er endlich hingerichtet.
Die geschichtlichen Kenntnisse sollten auch mit geographischen Kenntnissen erweitert werden. Die Bühne, wo alles entstanden ist, ist selbstverständlich das heutige Territorium Saudi-Arabiens. Mohammed in seiner Zeit war ein kluger Geopolitiker: Er hat die Halbinsel geeinigt und der Netz der Karawanen-Straßen gegen alle Einflüsse von ausserhalb der arabischen Halbinsel sichergestellt. Nichts läßt vermuten, daß er weitere Länder erobern wollte. Aber einige Jahre nach seinem Tod, war der Kontext völlig anders. Mohammed wurde im Jahre 570 geboren, also im sogenannten Huluban-Jahr oder Elefanten-Jahr, wenn abyssinische Truppen im Dienst des byzantinischen Reiches Arabien vom jemenitischen Süden erobert hatten, um die Perser von den Ufern des Roten Meeres fernzuhalten. Mohammed wollte es nicht, dass die Halbinsel und die Karawanen-Straßen Bühne eines Krieges zwischen raumfremden Mächten wurde. Nach seinem Tode, kämpften Perser und Byzantiner weiter, mit als Verbündeten die semitisch-aramäiche Stämme des heutigen Jordaniens und Iraks. Die Nachfolger des Propheten zerschlugen unerwartet byzantinische Verbände im Raum Südjordaniens und Palästinas. Später werden auch persische Truppen zerrüttet. Die semitisch-aramäischen Völker, die von diesem ständigen Krieg müde waren, bekehren sich zum Islam. Die Zeit war gekommen, um ein riesengrosses Islam-geprägtes Reich zu gestalten.
Die arabische Halbinsel bestand und besteht noch heute aus hauptsächlich vier Hauptgebieten : Das Hedschas-Gebiet, das Neschd, das Assir und die Hassa-Provinz.
Das Hedschas-Gebiet wird von nicht-wahhabitischen Sunniten beherrscht und ist der Ort der heiligen Stätte des Islams, wo die Pilger sich begeben. Im 1916-17, organisiert der britische Offizier Lawrence die Hedschas-Stämme rund dem Häuptling Hussein, der damals ein Feind Sauds war. Die Hedschas-Stämme sind Bundgenossen der Briten, die Stämme unter der Führung Sauds aber den Briten gegenüber sehr misstrauisch und spâter Amerika-hörig.
Das Neschd-Gebiet ist das zentralgelegene Gebiet der Halbinsel, aus dem die Anhänger des Wahhabismus und später die verbündeten Stämme des Sauds ihre Eroberungszüge anfangen werden. Im berühmten Buch des ehemaligen Vichy-Minister und Historiker des deutschen Militärwesen Benoist-Méchin, wird das Neschd-Gebiet sehr genau beschrieben. Die eigentliche Urheimat der semitischen Völker befindet sich im heutigen Jemen und Assir-Gebiet, die bis spät ein eher reiches und furchtbares Land mit sesshaften Stämmen, die eine effiziente Landwirtschaft entwickelt hatten. Die Römer sprachen von „Arabia felix“, d.h. „Glückliches Arabien“. Es ist also falsch zu behaupten, dass die semitischen Völker alle ursprünglich Nomaden waren. Wenn das fruchtbare Land Jemens zu viele Kinder erzeugte, mussten die notgezwungen nordwärts auswandern, und eine kriegerische nomadische Kultur im Neschd-Gebiet zu schaffen. Im dürren Norden entstanden also nach einem langen Voklswerdungsprozess eben diese Krieger-Stämme, die den Islam und viel später den Wahhabismus ihre ersten Impulse gaben. Wir finden deshalb im Kern der arabischen Halbinsel die übliche Dialektik Zentrum-Peripherie, wobei das dürre unfruchtbare Zentrum nicht das zeitlich erste Element des dialektischen Prozesses ist, sondern das Produkt einer reichen Peripherie, die später nach einer mehr oder weniger langen Reifungsprozess das Entstehungsgebiet einer eigenartigen geistigen Revolution geworden ist. Dieses Modell ist nicht einzig in der Geschichte des Islams: Auch das dürre steppische Zentralasien als Urheimat oder als Sprungbrett der Türkvölker in Richtung der bunten Reichsgebiete des sogenannten „Rimländer“ (Persien, Byzanz und das indische Gupta-Reich) kann als eine Zentrum zweiter dialektischen Hand betrachtet werden.
Das dritte Gebiet der Halbinsel ist das Assir, das von Jemeniten bewohnt wird, die stark schiitisch geprägt sind. Assir ist ein Bergland mit feuchterem Klimat. Die Stämme im Assir haben sich immer gegen diejenigen des Neschds gewehrt.
Das vierte Gebiet ist die Hassa-Provinz, die sich der Ostküste der Halbinsel entlang befindet, wo die Ölfelder liegen. Die arabisch-semitische Urbevölkerung war dort ursprünglich schiitisch und pflegte enge Bände mit den Schiiten Iraks.
Die Geschichte des Wahhabismus
Im 18. Jahrhundert, nachdem das Ottomanische Reich und sein Verbündeter der französischen „Sonnen-König“ endgültig durch den Prinzen Eugen im Schach gehalten wurden, war der Islam weltmächtig auf dem Ruckzug. Das türkisch-ottomanische Hegemon konnte sich Europa gegenüber nicht mehr behaupten. In diesem Kontext entwickelte der Geistliche Al-Wahhab in einem abgelegenen Ort im Neschd seine rigoristische Lehre, um den Islam wieder kampffähig zu machen und das türkische Hegemon durch ein neues arabisches zu ersetzen. Um dieses Ziel zu erreichen, schmiedet er 1744 ein Bündnis mit dem Stammeskönig Mohammed Ibn Saud, Gründer der noch heute herrschenden Dynastie. Die Allianz zwischen dem Geistlichen und dem Krieger erlaubte in einer ersten Phase die komplette Eroberung des Neschd, wo alle Feinde ausgeschaltet bzw. ausgerottet wurden. Während dieser langen Auseinandersetzungen wurde die schiitische Pilgerstadt Kerbala im heutigen Irak erobert und völlig zerstört, weil die Wahhabiten die Reliquien der Martyrer und die Volksfrömmigkeit rund diesen religiösen Überlieferungen als ketzerisch und Götzenanbetung betrachteten. Hier liegt die Wurzel der Erzfeindschaft zwischen Schiiten und Saudi-Wahhabiten, die heute durch die Ereignisse im Irak wieder angekurbelt wird, wobei die amerikanischen Geheimstrategien des „divide ut impera“ (Teile und Herrsche“) eine erhebliche Rolle spielen. Die Kriegszüge Al-Wahhabs und Mohammed Ibn Sauds führten damals auch westwärts mit schweren Angriffen gegen die Hauptkultstätte von Mekka und Medina, wo auch Schreine und Kultortschaften in Namen des religiöse Rigorismus der Wahhab-Lehre zerstört wurden. Hier liegen dann die Keime der späteren Feindschaft zwischen Neschd-Stämmen und Hedschas-Stämme.
Am Anfang des 19. Jahrhunderts im Kontext der Napoleontischen Kriege, wurden de facto die wahhabitischen Stämme in ihrer Feindschaft der Ottomanen gegenüber die Bundgenossen Frankreichs, weil einfach weil die Machtkonstellation damals die folgende war: Das Ottomanische Reich sowie Persien waren die Verbündeten Englands. Wenn aber Napoleon in Russland 1812 besiegt wird, verminderte das Interesse Englands an diesen fernen exotischen Bundgenossen. Die Ottomanen und die Ägypter, unter der Leitung des Albaners Mehmet Alis und dessen Sohn Ibrahim Pascha, versammelten ihre Kräfte, um die Wahhabiten auszuschalten. Das Neschd-Königreich wurde unerbärmlich zerstört, eben die Quellen in diesem Wüstengebiet wurden trocken gelegt, um jede Logistik und jede Bewegung weiten Umfangs zu verhindern. Nach den Racheoperationen Mehmet Alis und Ibrahims, herrschte in der Halbinsel eine Zeit der Wirren, wo sich Stämme gegen Stämme einander bekriegten. Der zweite Ibn Saud (1880-1953) beginnt erneut die Eroberung des Neschd-Zentralgebietes, diesmal mit der anfänglichen Unterstützung Englands. Die Operationen entwickelten sich mit der extremsten Gewalt. Grausame Ereignisse und Ströme Blutes erschütterten Arabien. Wenn der Erste Weltkrieg in Europa ausbricht, versuchen die Briten sofort Verbündeten in der Halbinsel, um die Ottomanen auf ihrer südlichen Flanke einzukreisen. Das Kairo Büro mit Lawrence suggerierte ein Bündnis mit Hussein und Feisal im Hedschas-Gebiet, aber das Bombay Büro mit Shakespear wählte eher Ibn Saud als Verbündeter. Lawrence bekommt die Kredite, ganz einfach weil er schneller die Hedschas-Stämme in Akaba bringen könnte, um eine Küstenstreife frei für eine britische Landung am Endpunkt der Damas-Jerusalem-Akaba-Eisenbahn sicherzustellen, und auch komischerweise weil er akzeptierte, einen arabischen Kopftuch statt einer Offizier-Mütze europäischer Art zu tragen, was Shakespear immer hartnäckig und schneidig abgelehnt hatte. In seinen Notizen über seine arabischen Feldzüge, spricht Lawrence ausführlich darüber, dass Araber tief davon schockiert und gekränkt werden, wenn Europäer in ihrer Anwesenheit Hüte oder Mützen tragen.
In den 20er Jahren, als die Sprösse der Hedschas-Häuptlinge über Jordanien und den Irak mit britischer Unterstützung herrschen, wiederholte der zweite Ibn Saud seine frühere Feldzüge bis er endlich wieder die ganze Halbinsel kontrollierte. Um dieses Ziel zu erreichen, bediente er sich dem Instrument der Ichwan-Bewegung, die er dann, sofort er gesiegt hatte, auflösen liess. Mit der Macht fest in den Händen und nachdem Ölfelder auf seinem Hoheitsgebiet entdeckt wurden, konnte Ibn Saud II. 1945 mit Roosevelt verhandeln und seine britische Feinde im Kampf um das Öl ausschalten. 1953 stirbt der Beduinen-Herrscher nachdem die Bedingungen des Bündnisses mit Amerika fest und endgültig festgelegt wurden. Hier beginnt wirklich die Geschichte der engen Zusammenarbeit zwischen Washington und Riad.
(weitere Auszüge später).
00:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : islam, fondamentalisme, wahhabisme, wahhabites, pétrole, arabie saoudite, péninsule arabique, monde arabo-musulman, géopolitique, politique internationale, empire britannique, etats-unis, théologie | | del.icio.us | | Digg | Facebook
vendredi, 22 janvier 2010
L'Iran, futur allié des Etats-Unis et d'Israël?
L’Iran, futur allié des États-Unis et d’Israël ?
Ex: http://lalettredulundi.fr/
La République Islamique d’Iran intervient indirectement depuis trois décennies dans de très nombreux conflits au Liban, en Palestine, en Turquie, en Arabie Saoudite, en Jordanie, en Syrie, en Égypte, aux Émirats. Ces interventions prennent place sur fond de rivalité historique entre la Perse et le monde arabe qui l’entoure ; elles sont marquées, bien sûr, par l’opposition, historique elle aussi, entre musulmans chiites et musulmans sunnites. Comment cette situation peut-elle évoluer après l’élection de Barack Obama à la présidence des États-Unis et la formation probable du gouvernement de Benyamin Netanyahu, très marqué à droite, en Israël ?
Commençons par rappeler quelques données historiques de ces interventions iraniennes et des relations irano-américaines.
Les Gardiens de la Révolution, la « Garde Révolutionnaire », sont un bras armé, au sens propre du terme, de l’Iran, indépendants de l’armée et du Président, rattachés directement à l’Imam Khomeini puis à son successeur l’Imam Khamenei. Il s’agit d’une véritable armée qui a joué un rôle très important avec ses jeunes kamikazes (chez les chiites, le sacrifice est un acte valorisé) dans la guerre contre l’Irak (1980-1988), arrêtée après le constat par les généraux iraniens qu’ils n’avaient pas les moyens en armements pour la gagner.
Pendant cette guerre, la fourniture par certains pays occidentaux à l’Irak d’armements sophistiqués, alors que l’Iran était sous embargo occidental, ainsi que le silence occidental sur l’utilisation par l’Irak d’armes chimiques interdites, a engendré chez les dirigeants iraniens un profond ressentiment à l’égard des États-Unis et de leurs alliés. L’embargo occidental est toujours en vigueur. Sa suppression pourrait servir de monnaie d’échange dans le grand marchandage Iran-pays occidentaux que l’élection de Barack Obama rend envisageable.
En 1982, lorsque Israël a envahi le Liban, l’Imam Khomeini, plutôt que d’intervenir directement dans les combats, a ordonné à la Garde Révolutionnaire d’aider les chiites libanais (les Iraniens sont majoritairement chiites) en assistant le Hezbollah dans le recrutement et l’entraînement de ses soldats. Cette assistance a débouché sur un succès militaire : Israël a dû quitter le Liban en 2000. De surcroît, les Iraniens ont durablement étendu leur influence sur le Hezbollah libanais et ses « filiales » syrienne, irakienne et jordanienne.
En utilisant les mêmes méthodes (assistance technique, aide financière et fourniture d’armements sans intervention directe visible), les Gardiens de la Révolution ont développé le Hamas et le Djihad islamique (pourtant sunnites tous les deux) en Palestine, eux-mêmes initialement suscités par les Frères musulmans (sunnites) égyptiens. Ils ont soutenu le PKK kurde en Turquie et en Irak, sans doute pour mieux le contrôler et éviter une contagion de sécession des Kurdes iraniens.
En Irak, après la défaite de Saddam Hussein par la coalition occidentale, ils ont soutenu puissamment les milices chiites de l’Armée du Mahdi, dont le chef est aujourd’hui réfugié en Iran, sous influence iranienne par conséquent. Dans le petit émirat de Bahrein, l’emprise iranienne sur la population majoritairement chiite est patente, le chef de l’État ne conservant son pouvoir que grâce à la proximité protectrice de l’armée saoudienne.
Tous ces mouvements de résistance menacent les pouvoirs en place de pays alliés des États-Unis : Égypte, Arabie Saoudite, Jordanie, Turquie, Israël, Émirats. La situation en Syrie est moins bien connue publiquement sur ce plan.
D’un autre côté, la volonté attribuée à l’Iran de se doter d’un armement nucléaire inquiète tous ses voisins et les pays déjà détenteurs de ces armements. L’Iran affirme ne préparer qu’un nucléaire civil. Mais la construction avérée de milliers de centrifugeuses lui permettrait de fabriquer de l’uranium enrichi, dont le seul usage est militaire. La partie de cache-cache avec l’AIEA (Agence internationale de l’énergie atomique) se poursuit depuis une dizaine d’années. Le renoncement par l’Iran à l’armement nucléaire ou sa mise sous contrôle international concomittament à celui d’Israël serait une autre monnaie d’échange.
Dans ce climat d’opposition frontale, à deux reprises au moins depuis 1982, l’Iran a collaboré avec les Américains :
- Une première fois dans les années 1980 au Liban, occupé par Israël. L’Iran a accepté d’user de son influence sur le Hezbollah pour faire libérer des otages américains, en échange d’une promesse d’un geste américain en retour. Ce geste ne serait jamais venu, augmentant le ressentiment iranien contre les USA ;
- Une seconde fois, au début des années 2000, en Afghanistan, alors entièrement occupé par les talibans afghans sauf la vallée du Panchir tenue par l’Alliance du Nord du commandant Massoud. Après l’assassinat de Massoud, Iraniens et Américains ont aidé l’Alliance du Nord a reconquérir la capitale Kaboul et à chasser (provisoirement !) les talibans du pays.
Le Président Obama, l’Imam Khamenei, le futur Président de l’Iran, le futur Premier ministre israélien peuvent-ils en 2009 trouver un terrain d’entente ? Dans cette hypothèse, celui-ci pourrait comporter plusieurs axes :
- Fin de l’embargo occidental (qui empêche notamment la maintenance des avions civils iraniens et gène l’Iran dans la modernisation de ses installations pétrolières) en échange du renoncement de l’Iran à l’armement nucléaire, simultanément avec Israël (mais quid du Pakistan et de l’Inde, puissances nucléaires de cette région ?) ;
- Reconnaissance d’une place de grande puissance pour l’Iran (un siège permanent dans un organisme international ou, solution plus radicale, gouvernance confiée à l’Iran de la partie de l’Irak qu’il contrôle de fait) contre renoncement iranien (contrôlé par qui ?) à armer les mouvements révolutionnaires ;
- Nouvelle coopération militaire entre les États-Unis et l’Iran pour chasser définitivement les talibans d’Afghanistan et du Pakistan ;
- Alliance secrète entre l’Iran, les États-Unis et Israël. L’Iran y gagnerait en puissance face aux Arabes, ennemis historiques de la Perse. Israël se protègerait du risque iranien et n’aurait à gérer que les menaces des pays arabes. Les États-Unis trouveraient là un renfort pour résoudre le péril taliban en Afghanistan.
N’est-il pas temps pour les Occidentaux de regarder l’Iran comme une des solutions aux problèmes que pose la République islamique à ses voisins et au monde, en associant les Iraniens à la recherche de solutions ? Le président Obama aura-t-il cette audace et cette puissance ?
Mardi
© La Lettre du Lundi 2009
Sources : débats radio et TV (janvier et février 2009) ; Robert Baer, Iran, l’irrésistible ascension ; BBC et France 3, L’Iran et l’Occident : un État marginalisé (1982-2001), Le défi nucléaire (2001-2008)
00:20 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : iran, moyen orient, politique internationale, géopolitique, asie, affaires asiatiques | | del.icio.us | | Digg | Facebook
jeudi, 21 janvier 2010
Un autre regard sur l'Iran
Un autre regard sur l’Iran
par Georges FELTIN-TRACOL
2010 : année de l’attaque de l’Occident (ou des États-Unis ou d’Israël) contre l’Iran ? Nul ne peut l’affirmer pour l’instant même si Téhéran reste sur le devant de la scène diplomatique avec la question de son nucléaire, les péripéties subversives de sa « révolution colorée » qui semblent redoublées de violence et d’illégalité et l’« affaire Clotilde Reiss ». Un fait est néanmoins certain : le grand public ne connaît pas la République islamique et cette méconnaissance, voire cette ignorance quasi-complète, est habilement utilisée par les médias peu scrupuleux.
Sorti quelques semaines avant l’élection présidentielle de juin 2009, le n° 5 de la Revue française de géopolitique (R.F.G.) dirigée par Aymeric Chauprade entend faire découvrir un autre Iran, un Iran réel et non fantasmé. Afin de comprendre les enjeux et les ambitions de la « république des mollah », Aymeric Chauprade n’hésite pas à faire appel à des spécialistes qui ne craignent pas d’aller à contre-courant des certitudes ambiantes.
Soucieux de s’inscrire dans la longue durée chère à Fernand Braudel et considérant que le présent demeure inintelligible sans l’aide de l’histoire, il revient à Philippe Conrad d’expliquer le XXe siècle tumultueux de l’ancienne Perse. Le pays traverse des révolutions (de la constitutionnaliste de 1906 à l’islamique de 1979 en passant par l’échec nationaliste de Mossadegh) qui la marquent durablement. Conscient de son très long passé de grande puissance régionale, l’Iran, meurtri par la période d’affaiblissement voulu par les Anglo-Saxons, entend renouer avec des moments plus glorieux. Grâce aux contributeurs de ce numéro de la R.F.G., on comprend que Téhéran dispose d’indéniables atouts.
Outre de substantielles informations sur l’émancipation féminine en cours, les structures bancaires, le cas des fondations (vaqf et bonyad) ou le rôle de la diaspora iranienne malgré l’inorganisation volontaire, les analyses les plus percutantes tournent autour des relations de l’Iran avec son voisinage, immédiat ou non. Au risque de se mettre à dos la bonne conscience, Aymeric Chauprade explique « Pourquoi l’Amérique veut “ casser ” l’Iran et pourquoi l’Iran n’est pas seul ? » Bien qu’encerclée par les troupes étatsuniennes en Irak, en Afghanistan et en Arabie, la République islamique cultive un ardent sentiment national qui se mêle à la culture martyrologique du chiisme duodécimain. Cela n’empêche pas Téhéran de conduire une habile politique arabe en renforçant son alliance avec la Syrie baasiste contrôlée par la minorité chiite alaouite, en soutenant activement le Hezbollah libanais et le Hamas palestinien, en suivant au plus près les affaires irakiennes, en nouant d’utiles et fructueux liens commerciaux avec Dubaï, etc. Il s’agit aussi pour l’Iran d’exprimer vers l’opinion arabe son intransigeance envers Tel-Aviv, son opposition aux menées du terrorisme sunnite djihadiste et sa volonté de contenir l’influence saoudienne.
La diplomatie iranienne ne se limite pas au seul monde arabo-musulman. Elle noue de fructueuses relations avec le Venezuela, la Chine, la Russie et, plus surprenant pour l’observateur européen, l’Inde. Or l’histoire montre Téhéran et La Nouvelle-Delhi ont souvent été soumis aux mêmes maîtres. Par ailleurs, les zoroastriens d’Iran – que le régime reconnaît – n’ont jamais rompu le contact avec les Parsis de Bombay. Il est ainsi logique que « l’Inde participe […] à un des projets d’équipement les plus importants de l’Iran : la création d’un port en eau profonde à Chah-Bahar. Il sera le pendant du port de Gwadar réalisé au Pakistan avec l’aide chinoise », rappelle Denis Lambert. Il aurait pu préciser que ces liens datent des origines de la République et se recoupent avec l’attachement de l’ayatollah Khomeiny pour l’Inde. En effet, vers la fin du XVIIIe siècle, ses ancêtres quittèrent le Khorassam pour, suivant les sources familiales, l’Uttar Pradesh ou le Cachemire. C’est le grand-père du futur ayatollah qui revint s’installer en Perse après un pélerinage. Dans sa jeunesse, Khomeiny signait ses poèmes Hindi (l’Indien). Il y a aussi l’espace caucasien. Téhéran l’islamiste apporte une aide précieuse à l’Arménie chrétienne contre l’Azerbaïdjan turcophone et chiite duodécimain alors même le Guide suprême, Ali Khamenei, et le président Ahmadinejad sont d’origine azérie… Par ce positionnement géopolitique original, l’Iran veut ainsi empêcher tout irrédentisme azéri dans sa propre région d’Azerbaïdjan au profit final d’Angora (Ankara).
On peut cependant critiquer l’absence de tout ensemble cartographique qui aurait été souhaitable. Regrettons par ailleurs qu’aucun article ne traite de l’hétérogénéité ethnique du territoire iranien. Depuis la dynastie safavide, le chiisme sert de ciment à l’unité nationale car, avec les Azéris et les Kurdes, les autres minorités nationales sont les Arabes chiites du Khouzistan ou les sunnites du Sistan-Baloutchistan. Cette dernière, proche du Pakistan et de l’Afghanistan, est depuis quelques temps en proie à des menées séparatistes proto-talibanes orchestrées par quelques services spéciaux pakistanais, saoudiens et yanquis…
Un des prétextes qu’utiliseraient des États occidentaux pour justifier une intervention militaire serait d’exciper une soi-disant atteinte au droit des minorités à disposer d’elles-mêmes par le gouvernement islamique « totalitaire » avec le risque majeur d’une déflagration planétaire… Effectivement, « ne pouvant compter sur des Européens de l’Ouest, plus soumis que jamais à Washington, Moscou va renforcer ses liens avec la Chine, l’Iran, le Venezuela, le Hamas, le Hezbollah… Bref l’ensemble des forces nationalistes dressés contre le mondialisme américain, avertit Aymeric Chauprade. L’Iran n’est pas seul. » La thèse de l’isolement international ne tient donc pas, surtout que « l’Iran d’aujourd’hui – face à un monde arabe qui n’en finit pas de digérer sa phase post-ottomane et post-impérialiste et face à une Amérique plombée par le conflit israélo-palestinien et enlisé en Irak et en Afghanistan, explique Philippe Conrad – peut prétendre accéder au rang de grande puissance régionale, appelée à retrouver la place qui a été la sienne dans un passé apparemment lointain mais qui ne l’est pas jamais vraiment – la Chine le montre aujourd’hui de manière éclatante – pour les peuples qui ont été capables de conserver leur longue mémoire ». Ces facteurs objectifs invitent à plaider « pour la réintégration de l’Iran dans la communauté des nations » comme le fait Jean-François Cuignet qui invite les Occidentaux de cesser de se crisper dans leur défense d’intérêts qui ne sont ni français, ni européens.
En plus de sept recensions d’ouvrages de géopolitique, saluons pour finir le très remarquable article de Christophe Kuntz sur « Un nouveau choc États-Unis / Russie : l’indépendance de la Transnistrie ? » qui soulève de très nombreuses interrogations sur l’adéquation (géo)politique entre la pérennité d’une minorité localement majoritaire, l’intangibilité supposée des frontières et la persistance de l’État-nation.
Un numéro à lire et à méditer pour l’excellence des études publiées !
Georges Feltin-Tracol
• « L’Iran réel. Des spécialistes civils et militaires décryptent librement la question iranienne », Revue française de géopolitique, n° 5, 2009, 192 p., 21 €.
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lundi, 18 janvier 2010
Caucaso, la frontiera instabile d'Europa
Caucaso, la frontiera instabile d`Europa
Fabrizio Fiorini
L’espressione geografica “Caucaso” ha subito nel corso degli anni una trasposizione per cui, dall’originale denominazione della catena montuosa estesa dal Mar Nero al Mar Caspio, è passata a indicare una vasta area comprendente diversi Paesi e numerose etnie. Fondamentale distinzione d’obbligo è quella tra Transcaucasia e Ciscaucasia: la prima si estende sulle repubbliche post-sovietiche di Georgia, Armenia e Azerbaidžan, nonché sulle neo-indipendenti repubbliche di Abchazija e Ossetija meridionale; la seconda compresa all’interno dei confini meridionali della Federazione Russa e comprendente le repubbliche autonome di Adigezia, Karacai-Cerkessk, Kabarda-Balkarija, Ossetija settentrionale, Cecenia, Ingušcetija e Dagestan.
Non si può stabilire con esattezza il periodo di inizio di una “questione caucasica”, dato che l’area è costantemente stata terreno di scontro politico e religioso, di revanscismo etnico e di istanze indipendentiste nazionali. Le stesse macchinose ma funzionali regole dell’ingegneria istituzionale sovietica difficilmente riuscirono a venire a capo delle questione e a pacificare l’area in modo stabile. Nella sua opera Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Stalin pose le basi del legame tra etnia e territorio; nonostante ciò, l’ordinamento istituzionale dell’Urss (Stato che, tra repubbliche federate, repubbliche autonome, regioni autonome e territori contava ben cinquantatre divisioni amministrative ma in cui le etnie censite erano più del doppio) dovette giocoforza adeguarsi a dei criteri standardizzati al fine della ripartizione amministrativo-territoriale dell’Unione. Tali criteri furono: a) la maggioranza linguistica e culturale di una data regione; b) la necessità di scongiurare il separatismo a favore di Stati confinanti; c) la necessità di dividere al proprio interno etnie che in epoca pre-rivoluzionaria avevano sviluppato un’identità più marcata, al fine di tutelare l’autonomia dello Stato centrale e di assicurare il funzionamento lineare dell’amministrazione periferica1. L’Unione Sovietica, quindi, lontana dal configurarsi come un melting-pot, fu piuttosto una incubatrice di Stati indipendenti che tuttavia si portarono dietro le imperfezioni che caratterizzavano lo stesso sistema che li avrebbe generati.
Tornando al Caucaso dell’epoca sovietica, infatti, alcune contingenze storiche andarono a intaccare la meticolosa prassi amministrativa di Mosca. Una di queste fu, ad esempio, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, la ricerca di un alleanza coi turchi: tale asse bolscevico-kemalista, infatti, fece spostare l’ago della bilancia, nella tuttora irrisolta questione dell’Alto Karabakh, a favore dell’Azerbaidžan etnicamente affine e politicamente vicino ai turchi; Stalin in persona si prodigò in tal senso. Un’ulteriore destabilizzazione si ebbe durante il secondo conflitto mondiale quando, per reprimere e punire i popoli che avevano boicottato la guerra sovietica propugnando istanze indipendentiste in nome della propria identità islamica o in nome di una alleanza col Terzo Reich nazionalsocialista2, intere unità amministrative vennero sciolte o degradate a un rango di autonomia inferiore; centinaia di migliaia di cittadini vennero inoltre colpiti dalle deportazioni. Per tutto il secondo dopoguerra, fino allo scioglimento dell’Urss, la questione Caucaso rimase latente e ‘anestetizzata’ dalla classe dirigente locale del Partito. Ma la tensione nelle stanze del potere restava alta, e gli echi dei giochi caucasici di sentivano fino a Mosca, fino a ripercuotersi nel politburo e nel Comitato Centrale.
Poi il disastro dell’era elciniana, con la Federazione Russa che continuava inesorabilmente a disgregarsi sia al proprio interno (tracollo dell’autorità dello Stato, rottura di ogni vincolo sociale tra cittadini e tra questi e il potere, violenta crisi finanziaria, perdita di ogni parvenza di sovranità economica in favore di potentati non autoctoni, declino della produzione industriale, sbandamento delle forze armate e crescita esponenziale della criminalità), sia nel suo ruolo di potenza internazionale e sia sui propri confini meridionali – e segnatamente caucasici – con la disfatta cecena e con la destabilizzazione del Dagestan. Nelle tre repubbliche transcaucasiche, svincolatesi da Mosca, tornavano a bruciare le polveri. Ma il Karabakh (etnicamente armeno ma interno ai confini dell’Azerbaidžan) riusciva a difendersi e a tutelare la propria autonomia; in Georgia fallivano i tentativi del governo di Tbilisi di sottomettere l’Abchazija e l’Ossetija del sud che, da regioni autonome, passarono a conseguire un’indipendenza di fatto; nonostante la difficile situazione in cui si trovava, la Russia fu determinante per l’intermediazione e il mantenimento della pace nella regione per parecchi anni, anche attraverso la conduzione di una missione militare della neo costituita Comunità degli Stati Indipendenti.
Alla riedificazione della Russia e alla riaffermazione della stessa come superpotenza, conseguentemente alla elezione di Putin a guida della Federazione nel 2000, seguì primariamente il ribaltamento della situazione cecena attraverso una serrata campagna militare che permise di ripristinare nella disgraziata repubblica caucasica l’autorità dello Stato e una pur precaria sicurezza civile, a tutt’oggi in fase di consolidamento. Il risultato politico della vicenda aumenta la propria incidenza se si considera il foraggiamento e il sostegno su cui la guerriglia poteva contare dall’estero: dall’appoggio logistico georgiano alle manovre “diplomatiche” di Londra.
Fuori dai confini della Federazione, in Transcaucasia, la situazione era invece ancora lontana dal poter fare ipotizzare una stabilizzazione e una pacificazione. La causa di ciò è da ricercarsi nella - pur contestuale al ripristino dell’azione politica russa - interferenza sempre più marcata degli Stati Uniti nella regione. Interferenza sia di natura politica (accerchiamento della Russia, conquista dello spazio centroasiatico, allargamento del Patto Atlantico, rivoluzioni colorate, ONG, sostegno al separatismo) che di natura economica, riconducibile sostanzialmente alla politica degli oleo-gasdotti. In base a tale politica le vie di transito energetiche sarebbero dovute transitare al di fuori dei confini della Russia e dell’Iran (e dell’Armenia, che con questi ha conservato una vicinanza strategica); esempio ne è stato la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan, che riesce quindi a unire il mar Caspio al Mediterraneo transitando solo sul territorio di Paesi politicamente vicini a Washington3.
L’apice del coinvolgimento occidentale nelle vicende caucasiche si è registrato la scorsa estate con il sostegno attribuito alla Georgia nella brutale aggressione della repubblica separatista dell’Ossetija del sud, politicamente vicina a Mosca ed etnicamente affine all’omologa repubblica settentrionale interna ai confini della Federazione Russa. In tale spregiudicata e sprovveduta mossa politica - esasperata dai tamburi della propaganda e dalle armi di Tel Aviv – però, come spesso accade, “i pifferi di montagna andarono per sonare, ma furono sonati”. Non solo: la Russia non si è limitata alla difesa della Repubblica di Ossetija del sud e della sua popolazione, vittima della sproporzionata violenza di Tbilisi, ma ne ha riconosciuta l’indipendenza, unitamente a quella della Repubblica di Abchazija. Verosimilmente Mosca sarebbe stata molto più incline al pragmatismo, almeno fino alla rottura degli schemi internazionali conseguenti l’indipendenza del Kosovo. Verosimilmente avrebbe preferito un governo amico a Tbilisi piuttosto che l’indipendenza forzata dell’Ossetija. Insomma, avrebbe messo in atto la normale, normalissima politica di una superpotenza consapevole del suo peso internazionale, che non si è mai sognata il diritto divino di “esportare la democrazia”. Ma – sembra questo il motto che ha animato l’agenda politica del Cremlino – “dove non vale più la forza della ragione valgano le ragioni della forza”.
16 Novembre 2009 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=8
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dimanche, 17 janvier 2010
Jemen: Tummelplatz für "al Qaida" oder geopolitischer Engpass für Eurasien
Jemen: Tummelplatz für »al Qaida« oder geopolitischer Engpass für Eurasien
Am 25. Dezember 2009 wurde in den USA der Nigerianer Abdulmutallab verhaftet, weil er versucht hatte, ein Flugzeug der »Northwest Airlines« auf dem Flug von Amsterdam nach Detroit mit eingeschmuggeltem Sprengstoff in die Luft zu sprengen. Seitdem überschlagen sich die Medien, von CNN bis zur »New York Times«, mit Meldungen, es bestehe der »Verdacht«, dass er im Jemen für seine Mission ausgebildet worden sei. Die Weltöffentlichkeit wird auf ein neues Ziel für den »Krieg gegen den Terror« der USA vorbereitet: Jemen, ein trostloser Staat auf der arabischen Halbinsel. Sieht man sich jedoch den Hintergrund etwas genauer an, dann scheint es, als verfolgten das Pentagon und der US-Geheimdienst im Jemen ganz andere Pläne.
Seit einigen Monaten ist die Welt Zeuge einer immer offener zutage tretenden militärischen Einmischung im Jemen, einem trostlosen Land, das im Norden an Saudi-Arabien, im Westen an den Golf von Aden und im Süden an das Arabische Meer grenzt. An der gegenüberliegenden Küste liegt ebenfalls ein trostloses Land, das in jüngster Zeit Schlagzeilen macht, nämlich Somalia. Alles deutet darauf hin, dass das Pentagon und der US-Geheimdienst dabei sind, die Meerenge Bab el-Mandeb, einen strategischen Engpass für die Ölversorgung der Welt, zu militarisieren. Den Vorwand dafür bieten die Übergriffe somalischer Piraten und die angebliche neue Bedrohung durch al Qaida aus dem Jemen. Außerdem finden sich im Grenzgebiet zwischen dem Jemen und Saudi-Arabien unerschlossene Ölvorkommen, die zu den größten der Welt zählen sollen.
Der 23-jährige Nigerianer Abdulmutallab, dem der vereitelte Bombenanschlag zur Last gelegt wird, hat angeblich erzählt, er sei von der »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« (AQAP) im Jemen auf seine Mission vorbereitet worden. Dementsprechend richtet sich nun die Aufmerksamkeit der Welt auf den Jemen als neues Zentrum der angeblichen Terrororganisation al Qaida.
Passend dazu schrieb Bruce Riedel, der 30 Jahre für die CIA tätig gewesen war und Präsident Obama in der Frage der Truppenverstärkung in Afghanistan beraten hatte, in seinem Blog über die angeblichen Verbindungen des Bombers von Detroit zum Jemen: »Der Versuch, am Weihnachtstag das Flugzeug der Northwest Airlines auf dem Flug 253 von Amsterdam nach Detroit in die Luft zu sprengen, ist ein erneuter Beweis für den wachsenden Ehrgeiz von al Qaidas Ableger im Jemen, der mittlerweile nicht mehr nur Ziele im Jemen verfolgt, sondern seit dem vergangenem Jahr bei der weltweiten islamischen Jihad mitmischt … Die schwache jemenitische Regierung von Präsident Ali Abdallah Salih, die das Land nie wirklich in den Griff bekommen hat und jetzt mit wachsenden Problemen konfrontiert ist, wird im Kampf gegen AQAP signifikante amerikanische Unterstützung benötigen. (1)
Grundzüge der Geopolitik im Jemen
Bevor wir mehr über den jüngsten Zwischenfall sagen können, lohnt es sich, die Lage im Jemen genauer unter die Lupe zu nehmen. Hier gibt es einige Auffälligkeiten im Lichte des von Washington erhobenen Vorwurfs, al Qaida werde auf der Arabischen Halbinsel wieder aktiv.
Anfang 2009 begannen sich die Figuren auf dem jemenitischen Schachbrett zu bewegen. Tariq al-Fadhli, ein ursprünglich aus dem Jemen stammender früherer Jihad-Führer, kündigte nach 15 Jahren seine Allianz mit der jemenitischen Regierung von Präsident Ali Abdullah Saleh auf und erklärte, er werde sich der als Southern Movement (SM) bekannten breiten Oppositionskoalition anschließen. Al-Fadhli hatte Ende der 1980er-Jahre den Mudschaheddin in Afghanistan angehört. Über sein Zerwürfnis mit der Regierung wurde im April 2009 in den arabischen und jemenitischen Medien berichtet. Al-Fadhlis Bruch mit der Diktatur im Jemen gab der Southern Movement neuen Auftrieb. Heute gehört er der Führung dieser Allianz an.
Der Staat Jemen selbst ist ein synthetisches Gebilde, das im Jahr 1990 entstand, als die südliche Demokratische Volksrepublik Jemen nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion ihren wichtigsten ausländischen Unterstützer verlor. Die Vereinigung der Arabischen Republik Jemen im Norden und der Demokratischen Volksrepublik Jemen im Süden weckte kurzfristig Hoffnungen, denen jedoch 1994 ein kurzer Bürgerkrieg ein Ende bereitete. Damals organisierten Teile der Armee des Südens einen Aufstand gegen die Herrschaft von Präsident Ali Abdullah Saleh, den sie als Handlanger des Nordens betrachteten. Saleh hat seit 1978 als Alleinherrscher regiert, zunächst als Präsident der Arabischen Republik Jemen im Norden und ab 1990 als Präsident der neuen vereinigten Republik Jemen. Der Aufstand scheiterte, weil Saleh al-Fadhli und andere konservative islamistische Salafisten und Jihadisten für den Kampf gegen die ehemals marxistischen Kräfte der Jemenitischen Sozialistischen Partei im Süden gewinnen konnte.
Vor 1990 hatten Washington und Saudi-Arabien Saleh und seine Politik der Islamisierung als Mittel zur Eindämmung des kommunistischen Südens unterstützt. (2) Seitdem stützt Saleh seine Einmann-Diktatur auf eine starke salafistisch-jihadistische Bewegung. Dass nun al-Fadhli mit Saleh bricht und sich der südlichen Oppositionsgruppe seiner ehemaligen sozialistischen Widersacher anschließt, bedeutet für Saleh einen herben Rückschlag.
Kurz nachdem sich al Fadhli der Southern-Movement-Koalition angeschlossen hatte, gab es am 28. April 2009 in den südjemenitischen Provinzen Lahj, Dalea und Hadramout Protestkundgebungen. Zehntausende ehemalige Militärangehörige und Zivilangestellte demonstrierten für bessere Bezahlung und Zuschüsse. Solche Proteste hatte es bereits seit 2006 immer häufiger gegeben. Bei den Demonstrationen im April trat al-Fadhli zum ersten Mal öffentlich in Erscheinung. Das gab der lange vor sich hin dümpelnden sozialistischen Bewegung im Süden Auftrieb für eine breitere nationalistische Kampagne. Auch Präsident Saleh wurde dadurch aufgeschreckt und rief Saudi-Arabien und die anderen Mitgliedsstaaten des Gulf Cooperation Council auf, zu helfen, denn andernfalls werde die gesamte Arabische Halbinsel unter den Folgen zu leiden haben.
Das Bild in dem Land, das manche auch als »gescheiterten Staat« bezeichnen, wird dadurch noch komplizierter, dass Saleh im Norden mit einer Rebellion der schiitischen al-Houthi-Gruppe konfrontiert ist. Im September 2009 warf Saleh den Führer der schiitischen Opposition im Iran und Irak Muktada al-Sadr vor, die zaydischen schiitischen Huthi-Rebellen im Norden zu unterstützen. Bei einem Fernsehinterview mit Al Jazeera, das ausgerechnet am 11. September ausgestrahlt wurde, erklärte Saleh: »Wir können die offizielle Seite im Iran nicht beschuldigen, aber die Iraner haben sich an uns gewandt und sich zur Vermittlung bereit erklärt. Also haben die Iraner doch Kontakte zu ihnen [den Houthis], wenn sie zwischen der jemenitischen Regierung und ihnen vermitteln wollen. Auch Muktada al-Sadr in Najaf im Irak hat sich als Vermittler angeboten. Das heißt, es bestehen Verbindungen.« (3)
Die jemenitischen Behörden haben nach eigenem Bekunden Lager von im Iran hergestellten Waffen entdeckt, während die Houthis behaupten, sie hätten jemenitische Ausrüstung mit saudi-arabischer Aufschrift gefunden; sie werfen Sanaa vor, als Stellvertreter Saudi-Arabiens zu operieren. Der Iran hat die Meldungen, wonach iranische Waffen im Nordjemen gefunden worden seien, dementiert, es gebe, anders als diese behaupteten, keine Unterstützung für die Rebellen. (4)
Was ist mit al Qaida?
Es entsteht das Bild von Präsident Saleh als einem desperaten, von den USA gestützten Diktator, dem nach zwei Jahrzehnten despotischer Herrschaft über den nunmehr vereinigten Jemen zunehmend die Kontrolle entgleitet. Wirtschaftlich geht es im Land steil bergab, nachdem der Ölpreis 2008 drastisch gefallen ist. Etwa 70 Prozent der Einkünfte des Jemen stammen aus dem Verkauf von Öl. Die Zentralregierung von Präsident Saleh hat ihren Sitz in Sanaa im ehemaligen Nordjemen, die Ölquellen liegen im Südjemen. Trotzdem hat Saleh die Kontrolle über die Einkünfte aus dem Ölexport. Doch angesichts zurückgehender Erlöse wird es für Saleh immer schwerer bis unmöglich, die Oppositionsgruppen wie gewohnt einfach zu kaufen.
In diese chaotische innenpolitische Lage platzte im Januar 2009 die auf ausgewählten Internetseiten veröffentlichte Ankündigung, al Qaida, die angebliche Terrororganisation des von der CIA ausgebildeten Saudi-Arabers Osama bin Laden, habe im Jemen eine eigene Abteilung aufgebaut, die im Jemen selbst und in Saudi-Arabien aktiv werden wolle.
Am 20. Januar 2009 veröffentlichte al Qaida auf jihadistischen Online-Foren eine Erklärung von Nasir al-Wahayshi, der die Bildung einer eigenständigen al-Qaida-Gruppe auf der Arabischen Halbinsel unter seiner Führung ankündigte. Nach seinen Angaben sollte die neue Gruppe, die »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« aus seiner früheren al-Qaida-Gruppe im Jemen und Mitgliedern der nicht mehr aktiven al-Qaida-Gruppe in Saudi-Arabien bestehen. Laut dieser Presseerklärung sollte der saudi-arabische Staatsangehörige und ehemalige Guantanamo-Häftling Abu-Sayyaf al-Shihri Wahayshis Stellvertreter werden.
Wenige Tage später tauchte im Internet ein Video von al-Wahayshi auf, das den alarmierenden Titel trug: »Wir fangen hier an und treffen uns in al Aqsa«. Mit al Aqsa ist die al-Aqsa-Moschee in Jerusalem gemeint, der Ort, den die Juden als Stätte des zerstörten Tempels Salomons und die Muslime als Al Haram Al Sharif kennen. Das Video enthält Drohungen gegen muslimische Staatsführer, darunter der jemenitische Präsident Saleh, die saudische Königsfamilie und der ägyptische Staatspräsident Mubarak. Man werde die Jihad vom Jemen nach Israel bringen, um die muslimischen heiligen Stätten und Gaza zu »befreien« – ein Vorhaben, das wahrscheinlich zum Dritten Weltkrieg führen würde, wenn jemand so verrückt wäre, es in die Tat umzusetzen.
In dem Video tauchte neben al-Shihri, der als Guantanamo-Häftling Nr. 372 vorgestellt wurde, auch eine Erklärung von Abu-al-Harith Muhammad al-Afwi auf, der als Feldkommandeur und angeblicher Guantanamo-Häftling Nr. 333 bezeichnet wurde. Da Foltermethoden bekanntlich völlig ungeeignet sind, um wahrheitsgemäße Geständnisse aus den Opfern herauszupressen, ist bereits spekuliert worden, die CIA- und Pentagon-Vertreter, die seit September 2001 die Gefangenen in Guantanamo verhört haben, hätten in Wirklichkeit die Aufgabe gehabt, vermittels aversiver Techniken Schläfer oder sogenannte Manchurian Candidates auszubilden, die bei Bedarf vom US-Geheimdienst aktiviert werden können – ein Vorwurf, der sich nur schwer beweisen oder widerlegen lässt. Wenn nun allerdings zwei prominente Guantanamo-Insassen in der neuen al-Qaida-Gruppe im Jemen auftauchen, dängen sich schon Fragen auf.
Offenbar wollen al-Fadhli und die gewachsene Massenorganisation Southern Movement mit der al Qaida im Jemen nicht zu tun haben. In einem Interview erklärte al-Fadhli: »Ich halte enge Verbindungen zu den Jihadisten im Norden und im Süden, eigentlich überall, aber nicht zu al Qaida.« (5) Trotzdem erklärt Saleh, die Southern Movement und al Qaida seien ein und dasselbe, ein Trick, mit dem er sich die Unterstützung Washingtons sichern will.
Nach Einschätzungen in US-amerikanischer Geheimdienstberichten gibt es insgesamt etwa 200 al-Qaida-Mitglieder im südlichen Jemen. (6)
Bei einem Interview im Mai 2009 hat sich al-Fadhli von al Qaida distanziert und erklärt: »Wir waren [im Südjemen] vor 15 Jahren Opfer einer Invasion und leben jetzt unter einer brutalen Besatzung. Wir haben also genug mit unserer eigenen Lage zu tun und können uns nicht um die übrige Welt kümmern. Wir wollen unsere Unabhängigkeit und ein Ende dieser Besatzung.« (7) Ob zufällig oder nicht: al Qaida erklärte sich am gleichen Tag solidarisch mit dem Anliegen des südlichen Jemen.
Am 14. Mai betonte al Wahayshi, der Führer der »al Qaida auf der Arabischen Halbinsel« in einer im Internet verbreiteten Audio-Botschaft seine Unterstützung für die Menschen in den südlichen Provinzen und deren Versuch, sich gegen die »Unterdrückung zu wehren«. Er sagte: »Was in Lahaj, Dhali, Abyan und Hadramut und den anderen Provinzen im Süden geschieht, ist nicht zu tolerieren. Wir müssen [die Menschen im Süden] unterstützen und ihnen helfen.« Er versprach Vergeltung: »Eure Unterdrückung wird nicht straflos hingenommen … Die Morde an Muslimen auf den Straßen sind ein ungerechtfertigtes schweres Verbrechen.« (8)
Das merkwürdige Auftauchen einer winzigen, aber von den Medien sehr stark herausgestellten al Qaida im südlichen Jemen inmitten einer offenbar gut in der Bevölkerung verankerten Front der Southern Movement, die mit den radikalen weltweiten Plänen von al Qaida nichts zu tun haben will, verschafft dem Pentagon eine Art casus belli, um die militärischen Aktionen der USA in dieser strategisch wichtigen Region verstärken zu können.
Tatsächlich hat Präsident Obama zunächst erklärt, die internen Auseinandersetzungen im Jemen seien eine innere Angelegenheit des Landes, und dann doch Luftschläge angeordnet. Nach Angaben des Pentagon wurden bei den Angriffen am 17. und 24. Dezember drei führende al-Qaida-Vertreter getötet; für diese Angaben gibt es jedoch keine Beweise. Jetzt erhält Washingtons »Krieg gegen den Terror« nach dem Bomberdrama von Detroit am Weihnachtstag neuen Auftrieb. Obama hat inzwischen der jemenitischen Regierung von Präsident Saleh Unterstützung angeboten.
Wie auf Kommando: die Piraten in Somalia eskalieren ihre Angriffe
Während die Schlagzeilen in CNN von der neuen Bedrohung durch Terrorismus aus dem Jemen beherrscht werden, haben die Angriffe somalischer Piraten auf die Handelsschifffahrt im Golf von Aden und dem Arabischen Meer – also genau der Region südlich des Jemen – wie auf Kommando wieder drastisch zugenommen, nachdem sie durch die internationalen Patrouillen zunächst stark eingedämmt worden waren.
Am 29. Dezember 2009 berichtete RIA Novosti aus Moskau, somalische Piraten hätten im Golf von Aden vor der Küste von Somalia ein griechisches Handelsschiff gekapert. Am selben Tag war bereits ein unter britischer Flagge fahrender, mit Chemikalien beladener Tanker ebenfalls im Golf von Aden gekapert worden. Mohamed Shakir, der Kommandeur der Piraten, erklärte – offensichtlich im Umgang mit westlichen Medien sehr gewandt – der britischen Zeit The Times am Telefon: »Gestern Abend haben wir im Golf von Aden ein Schiff mit britischer Flagge gekapert.« Die US-Geheimdienstagentur Stratfor berichtet, die Times, die zur Verlagsgruppe von Rupert Murdoch, dem Unterstützer der Neokonservativen, gehört, werde manchmal vom israelischen Geheimdienst genutzt, um nützliche Berichte zu platzieren.
Durch die beiden jüngsten Vorfälle ist die Zahl der Kaperungen und Entführungen im Jahr 2009 auf ein Rekordniveau gestiegen. Bis zum 22. Dezember gab es nach Angaben des International Maritime Bureau’s Piracy Reporting Center 2009 im Golf von Aden und vor der Küste Somalias 174 Angriffe von Piraten, dabei wurden 35 Schiffe entführt und 587 Besatzungsmitglieder als Geiseln genommen. Es stellt sich die Frage, wer die somalischen »Piraten« mit Waffen und Logistik versorgt, sodass sie trotz internationaler Patrouillen von mehreren Ländern erfolgreich operieren können?
Bemerkenswerterweise erhielt Präsident Saleh am 3. Januar einen Telefonanruf des somalischen Präsidenten Sharif Sheikh Ahmed, bei dem dieser Saleh über die jüngsten Entwicklungen in Somalia unterrichtete. Sheikh Sharif, der in Mogadischu über so wenig Unterstützung verfügt, dass er manchmal als Präsident des Flughafens von Mogadischu verspottet wird, erklärte Saleh, er werde ihn über sämtliche terroristische Aktivitäten informieren, die von somalischem Boden aus gegen die Stabilität und Sicherheit des Jemen und der gesamten Region geplant würden.
Engpass für das Öl und andere schmierige Angelegenheiten
Die strategische Bedeutung des Seegebiets zwischen dem Jemen und Somalia ist auch aus geopolitischer Sicht erkennbar. Die Meerenge Bab el-Mandeb wird von der US-Regierung zu den sieben strategisch wichtigen Engpässen für den Öltransport gezählt. Nach Aussage der staatlichen amerikanischen Energy Information Agency »könnten Tanker nach einer Schließung von Bab el-Mandeb den Komplex Suezkanal/Sumed Pipeline nicht mehr erreichen und müssten den Umweg um die südliche Spitze von Afrika nehmen. Die Meerenge Bab el-Mandeb stellt einen Engpass zwischen dem Horn von Afrika und dem Nahen Osten und eine strategisch wichtige Verbindung zwischen dem Mittelmeer und dem Indischen Ozean dar.« (9)
Zwischen dem Jemen, Dschibuti und Eritrea gelegen, verbindet Bab el-Mandeb den Golf von Aden mit dem Arabischen Meer. Öl und sonstige Exporte aus dem Persischen Golf müssen die Bab el-Mandeb passieren, bevor sie in den Suezkanal einfahren. 2006 gab das Energieministerium in Washington bekannt, täglich gelangten schätzungsweise 3,3 Millionen Barrel Öl durch diesen engen Seeweg nach Europa, in die USA und nach Asien. Das meiste Öl, etwa 2,1 Millionen Barrel, geht nach Norden durch Bab el-Mandeb zum Suez/Sumed-Komplex und weiter ins Mittelmeer.
Ein Vorwand für eine Militarisierung der Gewässer in der Umgebung von Bab el-Mandeb durch die USA oder die NATO brächte Washington seinem Ziel der Kontrolle über aller sieben großen Engpässe für den Öltransport auf der Welt ein gutes Stück näher. Dadurch könnten die USA in Zukunft China, die EU und jede andere Region oder jedes Land, das sich der amerikanischen Politik in den Weg stellt, von der Ölversorgung abschneiden. Da erhebliche Mengen saudi-arabischen Öls Bab el-Mandeb passieren, diente eine US-Militärpräsenz an dieser Stelle auch als Warnung an Riad, falls das saudische Königreich mit der Ankündigung erst machen sollte, Öllieferungen an China und andere Länder nicht mehr in Dollar abzurechnen, wie der britische Journalist Robert Fisk kürzlich in der Zeitung Independent geschrieben hatte.
Washington könnte damit die Öllieferungen von dem gerade nördlich von Bab el-Mandeb gelegenen Port Sudan am Roten Meer nach China bedrohen: Diese Verbindung ist für die Deckung des chinesischen Energiebedarfs lebenswichtig.
Zusätzlich zu der geopolitischen Position als Engpass für den weltweiten Öltransport verfügt der Jemen Berichten zufolge auch über einige der größten unerschlossenen Ölreserven der Welt. Das Masila-Becken und das Shabwa-Becken enthalten nach Angaben der internationalen Ölgesellschaften »Weltklasse-Funde« (10). Die französische Total sowie einige kleinere internationale Ölgesellschaften sind an der Entwicklung der Ölproduktion im Jemen beteiligt. Vor etwa 15 Jahren hat mir ein sehr gut unterrichteter Insider in Washington bei einem privaten Treffen erzählt, im Jemen gebe es »genug unerschlossene Reserven, um den Ölbedarf der ganzen Welt für die nächsten 50 Jahre zu decken«. Vielleicht steckt ja doch mehr dahinter, wenn sich Washington in jüngster Zeit solche Sorgen um den Jemen macht, als eine al-Qaida-Truppe, deren Existenz als weltweit agierende Terrororganisation von erfahrenen Islam-Experten ohnehin angezweifelt wird.
__________
Quellen:
1 Bruce Riedel, »The Menace of Yemen«, 31. Dezember 2009, unter http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-12-31/the-menace-of-yemen/?cid=tag:all1.
2 Stratfor, »Yemen: Intensifying Problems for the Government«, 7. Mai 2009.
3 Zitiert in Terrorism Monitor, Artikel: »Yemen President Accuses Iraqs’ Sadrists of Backing the Houthi Insurgency«, Jamestown Foundation, Band 7, Ausgabe 28, 17. September 2009.
4 NewsYemen, 8. September 2009; Yemen Observer, 10. September 2009.
5 Albaidanew.com, 14. Mai 2009, zitiert in Jamestown Foundation, a.a.O.
6 Abigail Hauslohner, »Despite U.S. Aid, Yemen Faces Growing al-Qaeda Threat«, Time, 22. Dezember 2009, unter www.time.com/time/world/article/0,8599,1949324,00.html#ixzz0be0NL7Cv.
7 »Tariq al Fadhli, in Al-Sharq al-Awsat«, 14. Mai 2009, zitiert in Jamestown Foundation, a.a.O.
8 Interview mit al-Wahayshi, al Jazeera, 14. Mai 2009.
9 US Government, Department of Energy, Energy Information Administration, »Bab el-Mandab«, unter http://www.eia.doe.gov/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Full.html.
10 Adelphi Energy, »Yemen Exploration Blocks 7 & 74«, unter http://www.adelphienergy.com.au/projects/Proj_Yemen.php.
Dienstag, 12.01.2010
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Michel Collon nous parle du Venezuela
Michel Collon nous parle du Venezuela |
J’ai eu le plaisir de me rendre à Annemasse, en France, près de Genève, afin de rencontrer et d’écouter le journaliste belge Michel Collon qui, dans la lignée de Noam Chomsky et de William Blum, pratique depuis de nombreuses années un journalisme de recherche de la vérité en investiguant sur les nombreux mensonges des médias – Kosovo, Irak, Amérique Latine, Israël… Michel Collon commence sa conférence par son expérience du Venezuela où il a pu observer que la pauvreté est étonnamment présente dans le pays en dépit du fait que ce dernier est l’un des plus grands producteurs de pétrole du monde depuis plus d’un siècle. Si tant de Vénézuéliens vivent dans des taudis, sans eau, sans électricité, sans ressources… où est parti l’argent ? En direction d’une toute petite élite et au profit de quelques multinationales. Comment cela s’est il produit ? Un certain nombre de mécanismes se sont mis en place qui permettent cela et placent les pays d’Amérique Latine en état de dépendance à l’égard des multinationales d’Amérique du Nord et d’Europe. D’abord au moyen des conquistadors au service de l’Espagne dès le XVIe siècle et jusqu’au XXIe siècle en passant par le commerce triangulaire, l’esclavage et la doctrine Monroe. Michel Collon décrit ce mécanisme qu’il nomme “les 7 fléaux de l’Amérique Latine” :
1. pillage des ressources naturelles (or, pétrole, gaz, agriculture, biodiversité) 2. pillage de la main d’œuvre (travailleurs sous-payés, conditions de travail difficiles, insalubrité, travail dangereux, etc.) 3. assassinat de l’agriculture par l’importation de produits étrangers subventionnés par les USA ou l’EU 4. vente du pays par ses propres élites 5. dette (instrument de chantage incitant par la force aux “réformes” ultralibérales) 6. privatisation (plus de 1000 sociétés publiques privatisées depuis 1989 !) 7. vol de cerveaux (et non fuite) – médecins, techniciens, personnes formées, autant de forces vives du savoir et de l’économie qui ont reçu une excellente formation au pays mais qu’on en fait sortir une fois leur diplôme en poche pour servir des intérêts privés ou étrangers.
Ces sept péchés se retrouvent dans d’autres pays du Sud, en Afrique notamment. Michel Collon critique de manière générale la forte migration du Sud vers le Nord qui appauvrit les pays du Sud et amène une pression salariale énorme sur les travailleurs du Nord : il faut une vraie solidarité Nord-Sud qui ne soie pas fondée sur l’exploitation. Sans cela, il est à craindre que le système des multinationales qui mène le monde n’amène à des guerres entre le Nord et le Sud, ainsi qu’à une tiers-mondialisation des pays occidentaux. Michel Collon oppose ces sept fléaux aux “sept péchés capitaux d’Hugo Chavez”, titre de son dernier livre. Ces fléaux ont pour résultat d’amener le pays-cible à une dépendance à l’égard de l’étranger. Ils ne peuvent se résoudre un par un, mais uniquement comme un tout, afin de briser ces liens malsains et d’acquérir l’indépendance politique et économique de ces nations. C’est ce qu’un Hugo Chavez au Venezuela ou un Evo Morales en Bolivie ont commencé à faire. Michel Collon raconte ensuite les événements qui ont amené Hugo Chavez au pouvoir. Après une longue période d’exploitation du Venezuela par ses élites et les multinationales étasuniennes et l’appauvrissement de la population locale, celle-ci à manifesté son mécontentement envers le Président d’alors, Carlos Andres Perez, qui fit réprimer la contestation de manière très brutale – plus de 3000 morts et pratiquement sans aucune mention dans nos médias occidentaux à géométrie, intérêts et intégrité variables... Ces événements ont consommé le divorce entre le peuple et ses élites. Malgré l’échec du coup d’Etat de 1992 de l’armée – dont les troupes et les officiers proviennent des classes populaires – mené par Chavez, ce dernier, une fois libéré en 1994, a gagné les élections présidentielles de 1998 à la surprise générale. A en croire les sondages sur le taux de satisfaction de la population, ce changement fut ressenti comme une bonne chose peur 70% des citoyens. Une fois au pouvoir, Hugo Chavez, sans grande expérience et héritant malgré lui d’une administration bureaucratique et corrompue, engagea rapidement des réformes fondamentales en faveur de la population :
- changer la constitution, la rendre plus démocratique, donner plus de droits aux citoyens, notamment la possibilité de demander un référendum révocatoire à mi-mandat pour les élus ; - utiliser les revenus du pétrole pour aider le développement et financer les programmes sociaux ; - faire participer le Venezuela à l’ALBA, une organisation qui a pour but de promouvoir le commerce équitable entre pays d’Amérique Latine ; - prendre de mesures d’urgence contre la pauvreté ; - mettre en place de programmes de lutte contre l’analphabétisme et des programmes d’alphabétisation qui ont fait passer l’illettrisme à 0% selon l’UNESCO ; - améliorer les programmes de santé (opération Milagro pour la vue, etc.)
Ces programmes ont des résultats spectaculaires qui ont fortement réduit la pauvreté et apporté la démocratie populaire à tous les niveaux de la société – même si c’est parfois de manière un peu confuse. Bref, l’expérience chaviste est intéressante et nombre d’autres pays du tiers monde s’en inspirent de plus en plus : Bolivie, Equateur, etc. Ceci déplait fortement aux multinationales et aux Etats-Unis, notamment aux immenses et puissants groupes pétroliers qui n’hésitent pas à influencer les médias et les politiques pour diaboliser le “communiste” Chavez, notamment au moyen de fausses informations, de calomnies et de montages erronés. Le coup d’état de 2002, financé et organisé par la CIA, qui échoua après 48 heures, a révélé de nombreux exemples de manipulation dans les télévisions et les journaux. Le lien entre le Venezuela et la Palestine est fait par l’histoire de l’industrie du pétrole et des multinationales qui gèrent son exploitation et sa distribution. Michel Collon décrit la doctrine Kissinger qui planifie le contrôle des pays producteurs de pétrole et qui s’appuie sur Israël pour dominer le Moyen-Orient. Dans ce contexte, la Palestine est une épine douloureuse dans le pied de ces stratèges car, par la résistance de la population palestinienne, elle est très dangereuse. La Palestine fait preuve à la fois d’une vraie opposition et d’un vrai sens démocratique qui ennuient fortement les dirigeants des régimes du Moyen-Orient qui sont obligés par leur allégeance envers les Etats Unis et à qui doivent toutefois ménager la rue en soutenant – en paroles seulement – le combat des Palestiniens contre l’occupation israélienne dans les territoires occupés. Michel Collon revient sur l’image très forte d’Hugo Chavez qui, selon lui, ne bénéficie pas d’un culte de personnalité mais est la manifestation d’une affection sincère du peuple pour son président. Un dirigeant sans son peuple n’est rien ; un peuple sans dirigeant ne peut appliquer les idées qui l’animent ni ne peut arriver à changer la société. Pour conclure, il encouraga à recréer le lien social (lien si cher a Soral, à Livernette et à nous autres d’Unité Populaire) et à la participation populaire dans la politique locale pour forcer les élus à pratiquer enfin la justice sociale. Il rejoint à cet égard les théories de William Blum sur la responsabilité que les citoyens ont de protéger le droit souverain des nations et le droit qu’ils sont à prendre l’initiative d’expériences alternatives au modèle ultralibéral. Pour plus d’informations, voir l’excellent site : www.michelcollon.info
pour Unité Populaire, Piero Falotti
un texte de Michel Collon : La Bolivie - et Ceux qui Voudraient l’Asservir |
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samedi, 16 janvier 2010
Machtpoker entlang der historischen Seidenstrasse
Machtpoker entlang der historischen Seidenstraße
Knapp drei Wochen vor der Londoner Afghanistan-Konferenz berichten die Medien über den Kursstreit zwischen Außen- und Verteidigungsminister. (1) Während Westerwelle aus seiner Ablehnung für weitere Truppenzusagen keinen Hehl macht, steht zu Guttenberg allen Wünschen aus Washington sehr pragmatisch gegenüber. Aber auch die Kanzlerin möchte sich profilieren. Obwohl bei einer vergleichbaren Afghanistan-Tagung in Paris nur die Außenminister geladen waren, möchte die soeben vom Time-Magazine zur »Frau Europa« gekürte Kanzlerin in London eine Rede halten. Dabei wäre es im Vorfeld dieser Konferenz angebracht, eine hinreichende Antwort auf die Gretchenfrage zu finden: Warum wird entlang der historischen Seidenstraße getötet und gestorben?
Eine seriöse Antwort findet sich beim US-Geostrategen Ariel Cohen – Mitarbeiter des renommierten Davis Institute for International Studies der Heritage Foundation. Bereits im Juli 1997 erschien von ihm ein bemerkenswerter Artikel über den Aufbau einer »Neuen Seidenstraße« zur Erhöhung der US-ökonomischen Prosperität. (2) Dazu sei in der ersten Hälfte des 21. Jahrhunderts der adäquate Zugang zu den kaukasischen und zentralasiatischen Öl- und Erdgasreserven zu sichern. (3) Mit den reichlichen Ressourcen im postsowjetischen Raum hätten die USA eine Lösung für die gegenwärtigen Herausforderungen und würden sich vom instabilen Nahen Osten unabhängig machen. Neben dem Zugang zum Öl und Erdgas der Kaspischen Meerregion verbinden die USA nach Cohen mit Eurasien weitere geostrategische Interessen. So würden mache US-Politiker das Entstehen eines neuen russisches Imperiums zunehmend mit Sorge betrachten. Russland könnte versucht sein, die amerikanischen Pläne zu durchkreuzen und selbst die exklusive Kontrolle über die Kaspi-Region gewinnen. Als nicht weniger bedrohlich wird das radikale islamische Regime im Iran gesehen und dessen potenzieller Einfluss auf die islamischen zentralasiatischen Staaten. Auch China hätte das Potenzial, in diesem großen Spiel verwickelt zu werden.
In vorderster Front der besorgten US-Politiker steht der geostrategische Vordenker und ehemalige Sicherheitsberater von US-Präsident Jimmy Carter, Zbigniew Brzeziński. Anfang der 1980er-Jahr hat er die nach Carter benannte Doktrin (4) zur Kontrolle über den Persischen Golf entworfen und dazu die militärische Sicherheitsarchitektur gezimmert: das zentrale US-Kommando CENTCOM. Erst diese Voraussetzung ermöglichte es US-Präsident Bush (senior), 1991 den ersten Krieg gegen Saddam Hussein zu führen. Während die USA siegreich den Golfkrieg beendeten, zerfiel die Sowjetunion und der von ihr geführte Warschauer Vertrag. Nun sollte nach dem Willen des damaligen US-Präsidenten eine »Neue Weltordnung« errichtet werden.
Dazu definierte Brzeziński mit bemerkenswerter Offenheit die Prämissen, mit denen die USA ihre Politik in Eurasien auf das Ziel globaler Vorherrschaft ausrichten sollten: Europa im Westen Eurasiens als »demokratischer Brückenkopf« und mit dem Hauptverbündeten Japan im Osten als »fernöstlicher Anker«. Russland solle als das »Schwarze Loch« und der Kaukasus und Zentralasien als der »Eurasische Brückenkopf« behandelt werden. (5)
Im Vergleich zu den früheren Weltmächten beschreibt Brzeziński in seinem richtungsweisenden Buch den Geltungsbereich der heutigen Weltmacht Amerika als einzigartig. Die Vereinigten Staaten kontrollieren nicht nur sämtliche Ozeane und Meere, sondern verfügen auch über die militärischen Mittel, ihrer Macht politische Geltung verschaffen zu können: »Amerikanische Armeeverbände stehen in den westlichen und östlichen Randgebieten des eurasischen Kontinents und kontrollieren außerdem den Persischen Golf.« Somit »ist der gesamte Kontinent von amerikanischen Vasallen und tributpflichtigen Staaten übersät, von denen einige allzu gern noch fester an Washington gebunden wären.« (6)
»Das Buch von Zbigniew Brzezinski wird ohne Zweifel eine wichtige Rolle spielen bei der Diskussion über die Struktur einer künftigen dauerhaften und gerechten Weltordnung« (7), schreibt der langjährige deutsche Außenministers Hans-Dietrich Genscher in seinem sechsseitigen Vorwort zu deutschen Ausgabe. Die UNO wird von Genscher im Rahmen der »gerechten Weltordnung« nicht mehr erwähnt. »Aber genau diese Sicht betrifft den Hauptinhalt und das Wesen dessen, was die Politiker der einzigen Weltmacht USA und die ihrer tributpflichtigen Vasallen mit dem Begriff Neue Weltordnung meinen.« (8) Anderthalb Jahre später muss sich die UN anlässlich des Jugoslawienkrieges mit der Statistenrolle begnügen.
Dankbar waren die visionären geostrategischen Ideen des ehrbaren Zbigniew Brzezinski noch im gleichen Jahr vom Kongress aufgenommen worden. (9) Am 12. Februar 1998 befasste sich ein Unterkomitee des Repräsentantenhauses mit der Rolle der USA in diesem »new great game«. Die seit 1991 unabhängigen ehemaligen zentralasiatischen Sowjetrepubliken Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan hätten phänomenale Reserven an Öl und Erdgas und wären bestrebt, Beziehungen zu den Vereinigten Staaten herzustellen. Das Komitee empfahl, die Unabhängigkeit dieser Staaten und ihre Verbindungen zum Westen zu fördern; Russlands Monopol über Öl- und Gastransportwege zu brechen; die westliche Energiesicherheit durch diversifizierte Lieferanten zu fördern; den Bau von Ostwest-Pipelines unter Umgehung des Irans zu ermutigen und Irans gefährlichen Einfluss auf die zentralasiatischen Länder streitig zu machen. (10)
Nur fünf Tage vor Beginn der 78-tägigen Bombardierung Jugoslawiens verabschiedete der US-Kongress am 19. März 1999 das sogenannte Seidenstraßen-Strategiegesetz (»Silk Road Strategy Act«). Mit diesem Gesetz gossen sich die USA ein grundlegendes Dokument ihrer langfristig angelegten imperialen Geostrategie in Blei. Unverblümt werden die umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen der USA in einer riesigen Region definiert, die sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt. (11)
Militärisch knapp werden in zahlreichen Unterpunkten Feststellungen getroffen und Handlungsanweisungen gegeben: Die südlichen Länder des Kaukasus mit ihren säkularen moslemische Regierungen würden ein näheres Bündnis mit den Vereinigten Staaten suchen – was auch engere diplomatische und kommerzielle Beziehungen zu Israel bedeuten würde. Die Region des Südkaukasus und Zentralasiens produziere Öl und Gas in ausreichender Menge. Das würde die Abhängigkeit der USA von der unberechenbaren persischen Golfregion reduzieren. Dazu unterstützen die USA die notwendige infrastrukturelle Entwicklung für Kommunikation, Transport, Erziehung, Gesundheit, Energie und Handel in einer Ost-West-Achse, um starke internationale Beziehungen und Handel zwischen jenen Ländern und den stabilen, demokratischen und marktorientierten Ländern von der euroatlantischen Gemeinschaft zu bauen. (12)
Dieses Gesetz lässt die Handschrift von Brzezinski erkennen. In Übereinstimmung mit seinem geostrategischen Konzept zur Beherrschung des eurasischen Kontinents zielt die Seidenstraßen-Strategie darauf ab, die Wettbewerber der USA im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und die gesamte Region vom Balkan und dem Schwarzen Meer bis an die chinesische Grenze in einen Flickenteppich amerikanischer Protektorate zu verwandeln. (13)
Wie alle Weltmächte zuvor sehen sich die USA gezwungen, ihre durch Weltbank, Internationalem Währungsfonds (IWF) und Welthandelsorganisation (WTO) regulierten Märkte auch militärisch abzusichern. In alter angelsächsischer Tradition stützen sie sich auf die Beherrschung der Meere und auf ein System militärischer Stützpunkte. Hinzu gekommen ist die absolute Lufthoheit und der rapide angestiegene Einsatz sogenannter Drohnen (unbemannter Flugzeuge). Weiter wird an einer Raketenabwehr mit dem Ziel einer »Full Spectrum Dominanz« gearbeitet.
Thomas Friedman, früherer Assistent der US-Außenministerin Madelaine Albright, hat dieses System sehr anschaulich so beschrieben: »Damit die Globalisierung funktioniert, dürfen die Vereinigten Staaten nicht zögern, als die unbesiegbare Weltsupermacht zu agieren, die sie sind. Die unsichtbare Hand des Marktes funktioniert nicht ohne die sichtbare Faust.« (14)
Daneben agierte in den 1990-er Jahren die von der US-Administration gesteuerte Non-Profit-Organisation National Endowment for Democracy (NED) (15) sehr erfolgreich. Die farbenfrohen Revolutionen unter dem Banner der Menschenrechte dürften jedem in Erinnerung sein. Doch bald nach dem 11. September 2001 schien der Terrorismusbegriff zur Kriegsrechtfertigung viel geeigneter als der Begriff der Menschenrechte zu sein (16), wie es die jüngsten Ereignisse im Jemen beweisen.
Sofort nach dem Angriff auf New York begann die US-Regierung ihre »vorderen Basen« in Asien auszubauen. Am 7. Oktober 2001 wurde Afghanistan unter dem Vorwand, Osama bin Laden nicht sofort ausgeliefert zu haben, mit Cruise Missiles und Marschflugkörper des US-amerikanischen und britischen Militärs angegriffen. Hauptangriffsziele waren Kabul und Khandahar.
Treffend bemerkte die damalige stellvertretende Außenministerin Elizabeth Jones: »Wenn der afghanische Konflikt vorbei ist, werden wir Zentralasien nicht verlassen. Wir haben langfristige Pläne und Interessen an dieser Region.« (17) Heute können die USA von Basen aus dem Irak, Afghanistan, Pakistan, Usbekistan, Turkmenistan, Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan und Georgien agieren. Als Gegenkraft hat sich die Shanghaier Organisation für Zusammenarbeit (SOZ) (18) gebildet. In ihr sind vor allem Russland und China bestrebt, eine regionales Gegenstück zur US-Silk-Road-Strategy zu bilden.
Wie würden sich die USA im umgekehrten Fall verhalten?
Ein Meilenstein in der Seidenstraßen-Strategie ist die 2005 fertiggestellte Pipeline BTC, die von Baku am Kaspischen Meer über Georgiens Hauptstadt Tbilisi zum türkischen Mittelmeerhafen Ceyhan führt. Die 1.770 Kilometer lange Leitung ist die erste (größere) auf dem Gebiet der früheren Sowjetunion, die Russland umgeht. Erfolgreich konnte der Einfluss Russlands und Irans auf die Anrainer des Kaspischen Meeres zurückgedrängt werden. Am 13. Juli 2009 unterschrieben Österreich, Ungarn, Rumänien, Bulgarien und die Türkei in Ankara den Vertrag für den Bau der etwa 3.300 Kilometer langen Nabucco-Pipeline, die ebenfalls an Russland vorbeiführen wird. »Nabucco ist damit ein wahrhaft europäisches Projekt«, so EU-Kommissionspräsident José Manuel Barroso in Ankara. Nabucco öffne aber auch die Tür für eine neue Ära in den Beziehungen zwischen der Europäischen Union und der Türkei. Als Berater fungiert der ehemalige deutsche Außenminister Joseph Fischer.
Noch liegen nicht alle Karten in diesem »Großen Spiel« auf dem Tisch. Sicher scheint nur zu sein, dass sich die USA nur durch verlorene Kriege oder einen Staatsbankrott von ihrer Seidenstraßen-Strategie abbringen lassen werden. Der Sieg über Saddam Hussein spielte den USA die nach Saudi-Arabien, Kanada und Iran viertgrößten Ölvorräte in die Hände. Der Zugang zu diesen Reserven wird von ExxonMobil, Shell, BP und Chevron erschlossen. Auch künftig wird es permanente US-Basen im Irak geben. Sie sind notwendig, um glaubwürdig kommerzielle Forderungen im Irak und den umliegende Nahostländer Nachdruck zu verleihen.
Am 22. September 2009 traf sich Außenminister Hillary Clinton im New Yorker Plaza Hotel mit Gurbangulu Berdimuhamedov, dem Präsidenten von Turkmenistan. Auf dieses öl- und gasreiche zentralasiatische Land richten sich die Wünsche der US-Energiegesellschaften, während die US-Regierung Hilfe im Afghanistan-Krieg erhofft. Artig bedankte sich Clintons Sekretär Robert O. Blake für Überflugrechte und bescheidene Aufbauprogramme in Afghanistan. Dann wies Blake den turkmenischen Präsidenten auf die wichtige Rolle seines Landes bezüglich der Nabucco-Pipeline hin. Gas aus Zentralasien und auch möglicherweise aus dem Irak solle unter Umgehung Russlands, aber mithilfe Turkmenistans nach Europa transportiert werden. Zu gleichen Zeit führte das turkmenische Fernsehen im Hotel Interviews mit Rex Tillerson, Vorstand von ExxonMobil, mit Jay Pryor, Chevrons Vizepräsident, und dem ehemaligen US-Außenminister Henry Kissinger. Letzterer sprach sich für die Pipeline von Turkmenistan über Afghanistan nach Indien und Pakistan aus. Auch Blake hält diese Option für durchaus real. Doch die Energiekonzerne werden erst dann investieren, wenn die Lage in Afghanistan »stabil« geworden ist. Eine Exit-Strategie scheint es nur zur Beruhigung der Bevölkerung zu geben – es ist höchstens der vage Wunsch des Pentagons, dass die Afghanen eines Tages zur Vernunft kommen könnten. (19) Im Gegensatz dazu hoffen nicht nur die Afghanen, dass die amerikanische Bevölkerung dem globalen Streben ein Ende setzt. Das mutige Buch Rules of Disengagement (20) der amerikanischen Juristinnen Majorie Cohn, Präsidentin der National Lawyers Guild, und Kathleen Gilberd, stellvertretende Vorsitzende der Guild's Military Law Task Force, gibt Hoffnung. Darin scheuen sich die Juristinnen nicht, die US-Invasion von Afghanistan als ebenso illegal zu bezeichnen wie die Invasion des Iraks. Den nach Afghanistan abkommandierten Soldaten empfiehlt der US-Journalist Nick Mottern, die Teilnahme abzulehnen oder zumindest das Buch der beiden Damen zu lesen. (21)
Doch vorerst wird die tiefe Tragödie bleiben. Es darf befürchtet werden, dass nach dem 28. Januar 2010 das immense Maß Tod und Leid in dieser Region noch gesteigert wird. Eine Militäraktion gegen den Iran könnte die Situation im eurasischen Balkan zur Explosion bringen. Für die Pentagon-Strategen erscheint er immer noch verlockend, wäre doch der Iran als bedeutender Machtfaktor in der Region ausgeschaltet. Die USA erhielten auf der einen Seite eine (kosten-)günstige Verbindung zwischen Kaspischem Meer und Persischem Golf. Der bevorstehende Beitritt des Iran zur SOZ wäre verhindert und eine vergrößerte Operationsbasis für weitere Aktionen in Mittelasien gewonnen. Zugleich könnten die bedeutenden Wirtschaftspartner des Irans – Russland und Frankreich – erheblich geschwächt werden.
Auf der anderen Seite würde ein entfesselter »eurasischer Balkan« auf ganz Eurasien ausstrahlen.
__________
Anmerkungen:
(1) Gebauer, Matthias: »Afghanistan-Strategie entzweit Westerwelle und Guttenberg«, Spiegel Online vom 8. Januar 2010 unter http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,670657,00.html.
(2) Cohen, Ariel: »U.S. Policy in the Caucasus and Central Asia: Building A New ›Silk Road‹ to Economic Prosperity vom 24. Juli 1997«, unter http://www.heritage.org/Research/RussiaandEurasia/BG1132.cfm.
(3) For an earlier discussion of this subject, see Ariel Cohen, »The New Great Game: Oil Politics in the Caucasus and Central Asia«, Heritage Foundation Backgrounder No. 1065, January 25, 1996. See also »Major Setbacks Looming for American Interests in the Caucasus Region«, Staff Report, Committee on International Relations, U.S. House of Representatives, September 6, 1996, p. 7.
(4) Jimmy Carter: State of the Union Address 1980, January 23, 1980. – »Jeder Versuch einer auswärtigen Macht, die Kontrolle über den Persischen Golf zu erlangen, wird als Angriff auf die vitalen Interessen der USA betrachtet und … mit allen erforderlichen Mitteln, einschließlich militärischer, zurückgeschlagen werden.« Vgl. http://www.jimmycarterlibrary.org/documents/speeches/su80jec.phtml.
(5) Brzeziński, Zbigniew: »A geostrategy for Eurasia«, Foreign Affairs, Sept./Oct. 1997, pp. 50-64; Brzeziński, Zbigniew: »The Grand Chessboard, American Primary and Its Geostrategic Imperatives«, New York 1997.
(6) Brzeziński, Zbigniew: Die einzige Weltmacht, Weinheim, Berlin 1997, S. 41.
(7) Ebenda, S. 14.
(8) Woit, Ernst: »Kolonialkriege für eine Neue Weltordnung«. Vortrag zum 7. Dresdner Symposium »Für eine globale Friedensordnung« am 23. November 2002; Print-Veröffentlichung: DSS-Arbeitspapiere, Heft 64-2003, S. 7–18.
(9) April 24, 1997: Full Committee Hearing on Conventional Armed forces in Europe Treaty, and Revisions of the Flank Agreement; May 5, 1997: Subcommittee on European Affairs Hearing on The Foreign assistance Program to the Former Soviet Union and Central and Eastern Europe; July 21, 1997: Subcommittee on European Affairs and Subcommittee on Near Eastern and South Asian Affairs Joint Hearing on US Foreign Policy Interests in the South Caucasus and Central Asia; October 22, 1997: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing on US Economic and Strategic Interests in the Caspian Sea Region, Policies and Implications; February 24, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Sea Oil Pipeline; June 16, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Pipeline; and March 3, 1999: Subcommittee on International Economic policy, Export and Trade Promotion Hearing on Commercial Viability of a Caspian Sea Main Energy Pipeline …
(10) Anhörung des SUBCOMMITTEE ON ASIA AND THE PACIFIC im US-Repräsentantenhaus vom 12. Februar 1998, »ONE HUNDRED FIFTH CONGRESS, SECOND SESSION: U.S. INTERESTS IN THE CENTRAL ASIAN REPUBLICS« unter http://commdocs.house.gov/committees/intlrel/hfa48119.000/hfa48119_0.htm.
(11) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 391.
(12) Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152 -106th Congress) vom 19. März 1999, Offizieller Titel: »To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries oft he South Caucasus and Central Asia«, unter http://ftp.resource.org/gpo.gov/bills/106/h1152ih.txt.
(13) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 392 f.
(14) Nach Jean Ziegler, »Der Terror und das Imperium«, in Junge Welt, Berlin, vom 21.05.2002, S. 10.
(15) NED wurde 1983 von Reagan als halbstaatlicher Arm der Außenpolitik gegründet. Das ermöglicht der US-Regierung Mittel an Nicht-US-Organisationen über einen Dritten weiterzugeben.
(16) J. Ross, »Arbeit am neuen Weltbild«, in Die Zeit, Hamburg, Nr. 45 vom 31.10.2001, S. 16.
(17) Monbiot, George: »World Views: A wilful blindness«, in Daily Times vom 12. März 2003, unter http://www.dailytimes.com.pk/default.asp?page=story_12-3-2003_pg4_6.
(18) Der SOZ gehören an Volksrepublik China, Russland, Usbekistan, Kasachstan, Kirgistan und Tadschikistan.
(19) ISAF-Oberkommandierender General Stanley McChrystal will durch den Einsatz von Spezialkommandos zum Ausschalten führender Taliban diesem Ziel näher kommen; Stars and Stripes, 02.01.2010, unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=66983.
(20) Cohn, Majorie und Gilberd, Kathleen: Rules of Disengagement: The Politics and Honor of Military Dissent, Sausalito 2009.
(21) Mottern, Nick: »Killing and Dying in ›the New Great Game‹«. A Letter to Members of the US Military on Their Way to Afghanistan, Thursday, 22. October 2009, unter http://www.truthout.org/10220910.
Mittwoch, 13.01.2010
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L'Europe: une maison commune
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991
L'Europe: une Maison Commune
par Dario DURANDO
Pour la première fois dans l'histoire, il n'y a plus d'opposition politique et militaire entre Slaves et Germains en Europe centrale et dans la plaine russe. Envisager une politique unitaire ne relève plus de l'utopie.
Un déluge de paroles a envahi les mass-media occidentaux à la suite de la «seconde révolution russe» du 21 août 1991. Mais cette gigantesque logorrhée ne doit pas nous empêcher d'examiner méticuleusement les aspects les plus cruciaux de ces événements, qui déterminent encore et toujours la vie politique de la République russe, héritière de feu l'URSS.
Premier aspect à prendre en considération: la réalité proprement politique. Son examen requiert une grande rigueur scientifique. Et sans les moyens d'investigation que nous offre la politologie contemporaine, nous ne pouvons pas véritablement prendre acte de toute la complexité des mécanismes à l'œuvre en Russie aujourd'hui ni apercevoir les embûches que pourrait nous tendre cette «révolution».
Second aspect: le problème des nationalités. Ce problème semble aujourd'hui passionner l'opinion publique occidentale, dont l'attention est attirée en permanence par l'émergence de huit ou dix nouveaux Etats.
Une approche réaliste, post-idéologique, de ces questions anthropologiques fondamentales, nous oblige à reconnaître que le sens de l'appartenance ethnico-culturelle est, dans une large mesure, «fondateur», puisque l'individu se perçoit comme lié à un lieu dans le monde, comme doté d'une identité propre qui le distingue des «autres». L'ethnie, la culture qui découle de l'appartenance ethnique, les traditions qui s'y réfèrent, en un mot, les «racines», constituent le milieu naturel dans lequel évolue l'homme, dans lequel il agit dans le monde. Ce constat du rôle déterminant des appartenances est, bien sûr, extensible à des milieux d'autre type, comme le milieu professionnel, la classe sociale, la religion. Le mondialisme, idéologie dominante et niveleuse, le cosmopolitisme qui croit pouvoir se passer de racines et est l'expression idéologique naturelle de l'économie de type capitaliste, sont donc destructeurs de différences, de spécificités ethniques, sont des ennemis redoutables des patrimoines culturels où sont imbriqués les individus; en ultime instance, ils déclarent la guerre à la personnalité la plus intime de ceux-ci. Par conséquent, nous devons considérer comme hautement positif le fait que de vastes groupes humains se réapproprient leur identité nationale et réclament, en toute logique, l'autonomie politique et la souveraineté.
Bien sûr, ce processus a des limites; il ne doit pas déboucher sur l'agressivité pure, sur une volonté de puissance pathologique; dans ce cas, on ne doit pas parler d'un retour à l'identité mais d'un «nationalisme tribal», dont les tendances conduisent au «micro-impérialisme».
Pour donner un exemple: le cas de l'expansionisme grand-serbe (non seulement celui du néo-communiste Milosévic mais aussi celui des monarchistes et des orthodoxes regroupés autour du néo-tchetnik Draskovic). Mais ce jugement négatif à l'égard des Serbes ne nous conduit pas à partager intégralement, sans critique, l'excitation philo-croate qui domine dans l'Italie d'aujourd'hui.
Quant à l'ex-empire intérieur soviétique, sa désintégration, l'effondrement du pouvoir central, étaient déjà bien prévisibles —la soviétologue Hélène Carrère d'Encausse l'avait prévu— vu l'incorporation par coercition de peuples et de territoires dans l'Union entre 1918 et 1922. La multiplication improvisée de structures étatiques à bases nationales n'est a priori ni négative ni positive. Quels phénomènes doit-on juger négatifs? La balkanisation, la fragmentation de l'espace situé à l'Ouest de l'Oural, qui pourrait conduire à la création d'entités étatiques non viables, parce qu'économiquement non auto-suffisantes. Il est clair, en effet, que l'impossibilité d'un développement autonome, dans le chef de ces nouveaux Etats, provoquera des velléités agressives voire des affrontements violents.
Par ailleurs, on peut, du moins sur le plan théorique, émettre l'hypothèse contraire et parier pour le regroupement pacifique des nouvelles entités étatiques au sein d'organisations régionales, inserrées à leur tour dans des structures pan-européennes plus vastes que celles qui existent actuellement. C'est la thèse soutenue à Paris par Pierre Béhar (cf. Autriche-Hongrie, idée d'avenir. Permanences géopolitiques de l'Europe centrale et balkanique, 1991), un germaniste qui enseigne à l'Université de Limoges.
Inutile d'ajouter que si la «maison commune européenne» devait se subdiviser en de tels regroupements, il faudrait que les juristes et les constitutionnalistes imaginent une forme suffisamment souple et englobante d'«autonomie régionale», ou, plus précisément, d'«auto-gouvernement» pour les minorités, capable de résoudre les innombrables situations très complexes qui règnent dans les régions ethniquement hétérogènes et qui empêchent les ethnies d'affirmer sans détours leurs specificités. Prenons trois exemples: les 48% de Russes de Lettonie, les 10% de Russes en Ukraine et les 33% de Russes, d'Ukrainiens, de Turcs et de Gagaouzes de Moldavie, une nouvelle république qui n'aspire pas à l'indépendance mais à la fusion avec la «mère-patrie» roumaine. On n'imagine pas qu'au seuil du troisième millénaire on puisse résoudre les problèmes des zones mélangées en expulsant massivement des populations minoritaires. Par conséquent, il faut inventer des instruments politiques et juridiques pour protéger les minorités alloglottes, y compris celles qui sont nombreuses.
Le Grand Espace
Il s'agit donc, en définitive, d'étendre à l'Europe orientale le concept d'«Europe des autonomies», qui, dans la partie occidentale de notre continent, fait l'objet d'un travail théorique intense, préfigurant le dépassement définitif de l'Etat-Nation de mouture jacobine, tant vers le haut, par le transfert de pans toujours plus importants de souveraineté en direction d'organes supranationaux, que vers le bas, par délégation, à plus ou moins grande échelle, de pouvoirs aux communautés représentatives des cultures locales et aux «micronationalités» (Ecosse, Pays de Galles, Bretagne, Corse, Euzkadi,... et, dans un avenir proche, aux régions de l'Italie septentrionale, qui montrent leur impatience face à une identité italienne officielle qui se veut de plus en plus méditerranéenne).
La logique, qui sous-tend le développement de ces nouvelles entités politiques à fondement ethnique, veut se dégager de la cangue idéologique imposée par le nationalisme du XIXième siècle. Cette volonté et ce processus sont bien visibles: un Etat nouveau, régionalisé, va naître, ou une entité politique souveraine nouvelle, de dimensions régionales; ces entités nouvelles, de quelque type qu'elles soient, vont s'inserrer dans des organisations supra-régionales, lesquelles, à leur tour, vont participer à une «confédération», regroupant plusieurs dizaines d'entités supra-régionales de même nature, «confédération» qui sera la grande structure commune pan-européenne, dont l'embryon déjà existant pourrait parfaitement s'identifier à la CSCE. L'objectif étant la collaboration au niveau continental entre les innombrables ethnies et réalités nationales qui composent la mosaïque européenne.
Le concept-clef, dans cette logique très actuelle, est évidemment le «continent» ou, plus précisément, le «grand espace». Comme le XIXième siècle a été l'époque des nationalités au sens romantique, comme le XXième siècle a été caractérisé par un cortège de violences justifiées au nom des idéologies et par deux grandes guerres civiles européennes, le XXIième siècle sera le théâtre d'une compétition non guerrière, mais non moins âpre, entre des grands blocs, non plus unis par l'idéologie, mais bien plutôt par les impératifs géopolitiques et géo-économiques.
Or, justement, le troisième aspect de la crise soviétique est d'ordre géopolitique et géo-économique.
Si l'effondrement cataclysmique du IIIième Reich a discrédité pour toujours une certaine géopolitique instrumentale, manipulée à des fins d'expansion impérialiste et de domination raciale, comme l'atteste le travail formidablement bien documenté de Michel Korinman (Quand l'Allemagne pensait le monde. Grandeur et décadence d'une géopolitique, Paris, Fayard, 1990), cela ne signifie pas pour autant que les approches géopolitiques, et, partant, géo-économiques, doivent être considérées comme dépassées. Korinman montre comment la corporation des géographes allemands s'est efforcée de marquer la géopolitique du sceau de l'opprobe, démarche expiatoire qu'ils jugeaient nécessaire pour défendre leur discipline contre toutes les accusations de compromissions avec le pouvoir national-socialiste. Et Korinman pose une question opportune: «La réflexion (géopolitique), en tant que telle, peut-elle trouver bénéfice de l'institutionnalisation de ce tabou?» (p. 327). La réponse doit évidemment être «non», puisque la géopolitique et la géo-économie ne sont rien d'autre que l'étude des influences qu'exercent, sur les choix politiques et économiques des Etats et des populations, la position géographique et la configuration morphologique de leurs territoires respectifs. Dans ce cas, la géopolitique n'est rien d'autre que l'un des instruments à la disposition des policy-makers (et, rétrospectivement, des historiens) pour acquérir des connaissances utiles. En conséquence, l'approche géopolitique de la dynamique des relations internationales peut encore aujourd'hui, au-delà de tout déterminisme d'origine positiviste, s'avérer féconde. J'en veux pour preuve, par exemple, l'utilisation efficace des catégories de la géopolitique que l'on trouve dans le chapitre intitulé précisément «Il fattore geopolitico» (= Le facteur géopolitique) d'un ouvrage récent La politica estera di una media potenza. L'Italia dall'Unità ad oggi, dû à la plume de Carlo M. Santoro; il y traite du dilemme géo-stratégique fondamental de la politique extérieure italienne: l'Italie est-elle une «île» dans la Méditerranée, appelée, en toute logique, à exercer son hégémonie sur cette mer du milieu, ou, à l'inverse, est-elle un territoire exposé à toutes sortes de menaces venues de diverses directions, ou encore, est-elle une péninsule du continent européen (voire une péninsule du vaste continent eurasien), et, en tant que telle, géopolitiquement périphérique?
Dès que l'on affirme la légitimité du recours à des notions géopolitiques ou géo-économiques pour définir les lignes de force dans les processus de réorganisation territoriale et économique qui ont surgi à la suite de l'écroulement de l'imperium soviétique, il est évident que l'espace géopolitique à prendre en considération est le continent eurasiatique dans son ensemble, depuis le Cap Finistère (en Galice ou en Bretagne, au choix, ndt) jusqu'au Détroit de Bering.
Notons au passage que l'un des premiers théoriciens de la géopolitique, le Britannique Mackinder (1861-1947), basait sa recherche sur l'intuition d'une dichotomie incontournable, celle qui oppose la terre à la mer, la masse continentale aux ensembles littoraux et maritimes, le Heartland au Coastland. En tant que sujet britannique, impliqué dans les affaires et la politique de l'Empire, Mackinder craignait l'apparition et l'affirmation d'une puissance continentale capable de dominer le Heartland, et donc, en vertu du syllogisme qu'il énonçait, le monde entier.
Or, le Heartland, tel qu'il découle de la réflexion de Mackinder, a changé plusieurs fois de contours, tout en demeurant, fondamentalement, quelque part au milieu du continent eurasiatique, à l'exception de la «péninsule européenne»; ensuite, comme le constate Pierre Gallois dans son très bel ouvrage, Géopolitique. Les voies de la puissance (Paris, Plon, 1991): «force est de reconnaître que les frontières du "bloc soviétique" ont été presque les mêmes que celles du "Heartland"» (p. 253).
Que peuvent dès lors nous apprendre les conceptions de Mackinder, 80 ou 90 ans après avoir été pensées? Sans nul doute, ceci: en premier lieu, que la dialectique économique et politique entre les espaces continentaux intérieurs et les espaces littoraux ou insulaires océaniques ne peut pas être supprimée par décret ou d'un coup de baguette magique, parce qu'elle est déterminée par la géographie, soit ce qu'il y a de plus permanent et de plus fixe dans la biosphère. En second lieu, que l'Eurasie constitue, géopolitiquement et géo-économiquement parlant, une unité, un seul et unique «continent».
Traduite en termes actuels et à la lumière de la disparition de la superpuissance URSS, cette conception géopolitique implique, d'une part, que l'Eurasie se pose nécessairement comme concurrente de l'espace atlantique (l'Amérique) et de l'espace pacifique (le Japon, l'Australie, les pays de l'ASEAN et même la Chine, dont la modernisation économique et politique serait impensable sans une coopération directe avec le Japon), et, d'autre part, que les confins occidentaux du Heartland ne se trouvent plus sur les rives de la Vistule, comme l'imaginait Mackinder, mais sur le littoral de la Manche, par l'effet du processus d'intégration européenne, qui, sur le plan économique, lie tous les pays de la «péninsule Europe», y compris l'Italie périphérique, à la puissance allemande, aujourd'hui déséquilibrée sur son flanc oriental.
Les «unions» à la carte
Si l'on examine la situation présente au départ d'une autre perspective, on tirera peu ou prou les mêmes conclusions. Les relations internationales ont évolué au cours de ces dernières années en direction d'un modèle pentapolaire, où les Etats-Unis, l'URSS, la CEE, la Chine et le Japon sont les protagonistes majeurs. L'avenir sera déterminée par cette pentapolarité.
Comme nous venons de le voir, il est évident, surtout depuis les événements de la Place Tien An Men en 1989, que la République Populaire de Chine et le Japon ne pourront jouer un rôle mondial que s'ils mettent leurs forces en commun, s'ils intègrent leurs économies respectives parce qu'elles sont complémentaires, les Chinois offrant un marché immense et d'énormes ressources naturelles et les Japonais, une redoutable technologie et des capacités de gestion à toute épreuve. De cette façon, Chinois et Japonais projetteront leur puissance sur tout le Pacific rim. De même, la disparition de l'URSS force les Russes, peuple porteur de l'impérialité tsariste puis soviétique, s'ils souhaitent demeurer des sujets actifs de l'histoire mondiale et conserver une bonne dose de souveraineté, à accepter et à vouloir une sorte de compénétration avec la deuxième force non asiatique de l'espace eurasien, la CEE (qui, en fin de compte, est synonyme de «Grande Allemagne»).
Pour nous résumer: puisque le rideau de fer a été liquidé en peu d'années, puisque la confrontation militaire et la division politique n'existent plus, l'unité de l'Europe «de l'Atlantique à l'Oural», comme le prophétisait le Général De Gaulle —mais il serait plus juste de dire: l'unité de l'Eurasie de l'Atlantique au Pacifique— est déjà une réalité! Les peuples de l'ex-imperium soviétique, non seulement ceux de l'Europe centrale mais aussi les Russes, les Biélorusses et les Ukrainiens, sont déjà «revenus à l'Europe». Le grand espace eurasiatique, en tant que concept économique, est déjà en mesure d'orienter, oriente déjà, la politique des investissements pratiquée par les Etats d'Europe occidentale.
Peu importe, dans cette optique, si le projet d'union à la carte sera ou non entériné par le Congrès des députés du Peuple de Moscou (l'article date d'octobre 1991, ndt), projet qui prévoit, rappelons-le, un jeu de très lâches confédérations, dispersées au travers de trois cercles concentriques, avec des républiques encore unies à titre fédératif, des républiques confédérées et des républiques associées économiquement; il n'est pas important non plus de savoir si, avec le temps, un pouvoir pan-russe et traditionnel se stabilisera ou non, légitimé par une forme ou une autre de démocratie plébiscitaire et par les capacités mobilisatrices de la renaissance religieuse.
Ce qui compte, c'est que toutes les régions habitées ou colonisées par les Slaves, incapables dans les circonstances présentes de parfaire une mission impériale de façon autonome, soient de fait inserrées dans le grand espace économico-social européen, et fassent partie, ainsi, d'une immense unité eurasiatique, qui restera toutefois, dans un premier temps, embryonnaire.
Ce «grand espace eurasiatique» naissant ne pourra effectivement représenter une force vive, en mesure d'affronter la politique impérialiste américaine voire la future réédition pacifique de la «sphère de co-prospérité asiatique», que s'il se laisse organiser et structurer sur le plan économique, coordonner et guider, par l'inévitable hégémonie de la Grande Allemagne, à peine sortie de sa division mutilante (avec beaucoup de lucidité, le prof. Franco Cardini l'a souligné, juste avant le putsch d'août 1991 à Moscou, dans Il Sabato, l'hebdomadaire du mouvement néo-catholique Communione e liberazione du 13 juillet 1991).
Les observateurs les plus fins voient déjà l'émergence d'un grand espace où s'exercera la prédominance économique germanique —cet espace est en train de se constituer à grande vitesse en Pologne, en Tchécoslovaquie, en Croatie et en Ukraine— ce qui accélèrera le processus d'intégration des territoires ex-soviétiques dans la «maison commune européenne».
Seuls les capitaux allemands, la technologie allemande, la culture organisatrice allemande pourront de fait tirer l'ex-URSS de l'ornière, la sortir de son retard économique et de son sous-développement; en même temps, l'Europe ex-soviétique offre de nouveaux débouchés, une main-d'œuvre potentielle relativement qualifiée et une surabondance de ressources naturelles à l'économie allemande, qui acquiert ainsi un supplément de puissance incalculable.
Aujourd'hui donc, en substance, le projet de coopération pan-européen est devenu partiellement et potentiellement une donnée concrète sur l'échiquier mondial, et n'est plus un simple instrument didactique dans le discours de Gorbatchev: il s'incarne dans la réalité européenne autour de son pivot central, autour de l'Allemagne réunifiée, à laquelle feront contrepoids la France à l'Ouest de la «péninsule Europe», la nouvelle Russie nationaliste à l'Est et l'Italie dans le bassin méditerranéen.
Si les choses évoluent dans cette direction, le monde sera tel que Mackinder l'entrevoyait dans ses cauchemars: un axe Berlin-Moscou capable de contrôler tout le continent eurasiatique et de menacer l'hégémonie planétaire des puissances maritimes. En réalité, nous n'en sommes pas là et l'alliance potentielle entre Russes et Allemands ne s'est pas constituée pour «conquérir le monde»: ceux qui affirment cela tombent dans la fantasmagorie politique. Un tel scénario est plus qu'improbable, vu que, pendant longtemps encore, confusions et déséquilibres affecteront l'espace sis entre Bonn et Vladivostok.
N'oublions pas non plus que c'est la première fois dans l'histoire qu'il n'existe plus d'opposition politique ou militaire entre Slaves et Germains en Europe centrale et dans les plaines russe et ukrainienne. Et qu'il n'existe plus dans ces vastes régions de barrières insurmontables ni dans les Monts Ourals ni en Sibérie. Toutes les conditions sont ainsi réunies pour stabiliser les relations entre les deux pôles de puissance et pour inaugurer une ère de paix durable, entre tous les peuples d'Europe et d'Eurasie. Cette paix ouvrira évidemment une période de progrès économique et social et, potentiellement, permettra l'envol d'un âge d'or culturel pour toutes les ethnies de ce grand continent. Ce qui signifie, si on regarde les choses avec un zeste d'optimisme, un accroissement potentiel de pouvoir pour tous les Etats qui souhaitent agir sur la scène mondiale sans s'assujettir à la volonté des Etats-Unis et sans s'intégrer au «nouvel ordre mondial» de Bush.
Cette perspective n'a rien d'utopique: elle relève d'un processus et d'une évolution qui ont lieu maintenant et actuellement, sous nos yeux, et qui dévoileront sans doute tous leurs effets au début du IIIième millénaire; nous avons donc parlé d'un processus qui est à l'œuvre, déterminé par des facteurs irrésistibles d'ordre géopolitique et économique et qui aura une incidence sur le destin et la vie de tous les Européens. La révolution de 1989, et celle de 1991, signifient bien plus que la fin sans gloire du communisme, et bien plus encore que la fin de l'histoire que d'aucuns philosophes imprudents annoncent sur les rives du Potomac!
Dario DURANDO.
(texte tiré d'Elementi, n°6, Ottobre 1991; adresse: Elementi, Via Rovere 2A/B, I-41.034 Finale Emilia (Mo), Italie).
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jeudi, 14 janvier 2010
Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico
Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico
Ahmadinejad e Berdymukhamedov inaugurano un gasdotto in Turkmenistan
Pietro Fiocchi
Dopo aver riscosso un certo successo in Tajikistan, dove il presidente Rakhmon ha garantito sostegno al programma nucleare civile di Teheran, Ahmadinejad era ieri in Turkmenistan. Nella capitale Ashgabat ha incontrato il leader dell’ex repubblica sovietica Gurbanguly Berdymukhamedov, con il quale si è congratulato per la sua politica imparziale, approccio saggio per assicurare pace e stabilità nella regione.
A detta dello stesso Ahmedinejad, tra i governi dei due Paesi centroasiatici ci sarebbe una perfetta sintonia su una serie di questioni di carattere locale e internazionale. Posizioni vicine sulla questione Afghanistan. Il presidente iraniano è tornato a scandire concetti ormai noti: “l’Iran incoraggia soluzioni ai problemi della regione che siano giusti per tutti i Paesi e per tutti i popoli”.
Berdymukhamedov, forse per restare fedele alla sua fama di saggia neutralità, non ha fatto eco al suo ospite. In ogni caso, in precedenza aveva fatto sapere di non essere favorevole a interventi militari sul fronte afghano. Posizioni molto vicine a quelle di Mosca e di tutti gli altri cinque membri dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione, in cui Teheran è osservatore e aspirante membro. Ashgabat con questa organizzazione non ha niente a che fare, ma di recente ha riscoperto con il Cremlino l’antica amicizia e concluso vari accordi nel settore energetico.
Non è verosimile che il Turkmenistan si abbandoni a colpi di testa e si privi della simpatia di due alleati strategici come la Russia e l’Iran, così ben disposti. Quindi l’Eurasia, quella che conta, è compatta nel proporre compromessi che escludano l’uso della forza, tanto per Kabul quanto per l’intera Asia Centrale. Difficile che sia altrimenti: tra vicini di casa sono preferibili le buone maniere.
Discorsi sulla sicurezza a parte, il punto forte dei tre giorni di Ahmadinejad in Turkmenistan è l’inaugurazione, oggi, di un nuovo gasdotto. Lungo 30,5 chilometri, il gasdotto permetterà di aumentare le forniture destinate a Teheran fino 14 miliardi di metri cubi di gas all’anno, per raggiungere in seguito i 20 miliardi. Non sarà un problema: Ashgabat ne produce 80 miliardi l’anno, di cui 30 vanno in Russia e 6 in Cina. A quanto pare in tema di idrocarburi l’Iran per un po’ potrà stare tranquillo. C’è inoltre la banca del Qatar, che finanzierà prossimamente, con la cifra iniziale di 400 milioni di euro, lo sviluppo del giacimento petrolifero di Esfandiar, nel Golfo.
Sempre in tema di affari e prospettive c’è una novità: con l’anno nuovo è in vigore l’Unione doganale di Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un gigante economico, una nuova realtà politica, di cui l’alleato Iran saprà amichevolmente approfittare.
06 Gennaio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=261
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mardi, 05 janvier 2010
Limes 6/2007 - Pianeta India
Limes 6/2009 in edicola e in libreria dal 31 dicembre
Pianeta India
EDITORIALE - IL GIGANTE BUONO
Francesca MARINO - Esiste l’India?
Le riforme economiche degli ultimi vent’anni hanno prodotto tassi di crescita invidiabili, persino in piena recessione globale. Ma centinaia di milioni di indiani sopravvivono ancora con uno o due dollari al giorno. La stabilità politica e la questione delle caste.
Una grande famiglia per la più grande democrazia del mondo, dove le cariche si tramandano per via parentale. Dal padre del primo capo del governo indiano fino al figlio di Sonia, una storia di potere, influenza e nepotismo.
Le tappe storiche del movimento naxalita in uno degli Stati più poveri e martoriati della Federazione Indiana. Auge e declino dei ‘nemici’ marxisti. La debole risposta dello Stato. Chi vincerà le prossime elezioni?
La guerriglia naxalita guadagna terreno nelle immense campagne dell’India, escluse dalla modernizzazione. L’ideologia non c’entra niente: a spingere i contadini alla rivolta è la miseria. E decenni di politica corrotta e incompetente.
Malgrado le pressioni americane e i successi dell’intelligence indiana, Islamabad continua a sostenere il terrorismo jihadista. La strage di Mumbai dimostra che, ormai, la minaccia va ben oltre il Kashmir. La mappa del rischio. Le risposte di Delhi.
Viaggio nel Jharkhand tribale, epicentro di un territorio ingovernabile conteso da etnie, movimenti ribelli, grandi industrie a caccia di materie prime. L’efficienza dei maoisti. Una campagna elettorale tra miseria, corruzione e India Shining.
Lo Stato dell’India occidentale è nelle mani del primo ministro Narendra Modi. Implicato nei massacri del 2002, deve la sua forza al rigore morale e alle capacità amministrative. Strumenti che presto potrebbero portarlo alla guida del paese.
Lo Stato per il quale il Mahatma si era battuto e che aveva tanto amato oggi calpesta i princìpi del maestro. Corruzione, povertà, indifferenza e ignoranza rispecchiano il fallimento del progetto originario. Le basi del risorgimento gandhiano.
Città dalle mille anime, la capitale dell’India è un concentrato di stranezze e contraddizioni. Nella sua storia tragica e grandiosa è racchiusa l’essenza di una nazione in bilico fra passato e futuro. Che non ha paura del mondo. Ma ha imparato a temere se stessa.
In India fioriscono le megalopoli, dove si concentrano in modo stridente le contraddizioni fra le punte ipermoderne dell’industria e la miseria delle baracche. Trecentodieci milioni di anime in cinquemila città: l’urbanizzazione indiana procede senza sosta.
Dai servi per debiti ai grandi manager, l’India ha esportato nel mondo le sue due facce. Dopo esser stati mal considerati, oggi gli emigrati sono premiati con alte onorificenze. I casi della Birmania, dell’Africa Orientale, del Golfo e delle Figi. Le rimesse e il Kerala.
L’industria della cellulosa di Delhi ha saputo negli anni superare i confini nazionali e imporsi nel mondo. Grazie al Middle Cinema, sintesi perfetta tra le pellicole di Bollywood e i film d’autore, e alle cifre d’incasso. Ma l’Italia non se ne èaccorta.
La relazione fra il primo leader indiano e la moglie dell’ultimo viceré britannico sarà al centro di un film che già scatena polemiche internazionali. Un rapporto speciale che favorì l’India nella partizione del Punjab.
PARTE II NON (ANCORA?) UNA GRANDE POTENZA
Parag KHANNA - Il futuro dell’India è tra i grandi del mondo
Conversazione con Parag KHANNA, direttore della Global Governance Initiative e Senior Research Fellow presso l’American Strategy Program della New America Foundation di Washington, a cura di Fabrizio MARONTA
Negli ultimi mesi sono riesplose le dispute geopolitiche e le antiche rivalità fra Delhi e Pechino. La ricognizione di una frontiera mai definita evidenzia i rischi di un nuovo conflitto fra le due potenze nucleari. Il caso Tibet e la questione dell’Arunachal Pradesh.
Messi da parte i princìpi gandhiani e considerata la minaccia della coppia Cina-Pakistan, dagli anni Sessanta Delhi ha lavorato al nucleare militare. Il ruolo decisivo di Indira Gandhi. Le ambigue concezioni strategiche delle Forze armate indiane.
Delhi considera l’Indiano come un vastissimo mare nostrum e sta attrezzando la sua Marina per sostenere tale ambizione. I porti strategici e la produzione in proprio di portaerei. Fantastrategie antiamericane.
Le linee tracciate frettolosamente da Londra in Asia meridionale, in specie fra India e Pakistan, sono all’origine dei contenziosi frontalieri nella regione. Conflitti spesso illogici, ma che alimentano potenti warfare States. La disputa sino-indiana.
Il caso del monastero di Tawang, nell’estremo Nord dell’India, dove potrebbe reincarnarsi la guida spirituale tibetana. Un altro motivo di tensione nei rapporti fra Pechino e Delhi. Se l’Oceano di Saggezza si sdoppia.
PARTE III AFPAK: UNA GUERRA INDO-PAKISTANA
Nirupama SUBRAMANIAN e Pervez HOODBHOY - Gemelli diversi
Dopo gli attentati di Mumbai l'Indiasi interroga su quale atteggiamento tenere con il suo turbolento vicino. Spente le luci di una possibile distensione, prevale la prudenza. Meglio un Pakistan democratico ma instabile o la relativa affidabilità dell’esercito? Un’opinione indiana e una pakistana a confronto.
Solo il concorso di tutti gli attori regionali potrebbe, forse, stabilizzare il baricentro degli equilibri centrasiatici dopo il ritiro definitivo delle truppe Usa. Ma le geometrie immaginate a Islamabad e Delhi, sorrette da paure e ambizioni contrapposte, si elidono l’una con l’altra. Un analista pakistano e uno indiano ci spiegano i rispettivi perché.
L’assassinio di Fazal Haq Qureshi, leader dei musulmani kashmiri favorevoli al dialogo con Delhi, riapre lo scontro nella regione contesa fra India e Pakistan. Dalla partizione ad oggi, la tormentata storia del conflitto indica che la pace è ancora lontana.
liMesIN PIÙ
John C. HULSMAN - No, he can’t
Dalla disputa israelo-palestinese all’Afghanistan e all’Iran, per il presidente Usa la forbice tra aspettative e risultati si è pericolosamente allargata. Gli eccessi retorici e le aporie strategiche del miglior leader di cui l’America disponga. Qualche suggerimento per far meglio.
La pace fredda, al massimo tiepida, non ha alternative in quel che resta del paese spartito tra croati, serbi e bosgnacchi. Con i soldi altrui e sotto il protettorato internazionale, le tre etnie dominanti si sono arroccate nei rispettivi territori.
Nonostante un certo ammodernamento, il paese asiatico resta isolato dal resto del mondo. Una cortina d’acciaio, fatta di controllo serrato, autocensura e austerità, è stesa con sapienza dal potere che la lascia penetrare solo dagli aiuti umanitari.
Gli articoli del volume elencati in questo sommario sono disponibili solo nella versione di Limes su carta, acquistabile in edicola e in libreria fino all'uscita del volume successivo (e dopo presso l'ufficio arretrati). Sul sito invece è possibile leggere articoli, commenti e (video)carte sul tema della rivista nelle settimane immediatamente successive, oltre poi ai normali contenuti su tutti gli argomenti geopolitici pubblicati quotidianamente su www.limesonline.com.
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mercredi, 30 décembre 2009
Turquia-Israel: una "alianza estrategica"
Turquía-Israel: una “alianza estratégica”
Turquía fue el primer país musulmán que reconoció al Estado de Israel y el primero también en establecer relaciones diplomáticas con él. Sin embargo, más acusadamente tras el bombardeo de Gaza, dichas relaciones se encuentran deterioradas por una escalada de gestos ofensivos que las han tensado. ¿Significa esto el fin de una de las relaciones diplomáticas más estables, con altibajos, de Oriente Próximo?
La “alianza periférica”
El régimen republicano turco reconoció al Estado de Israel en 1949 y estableció relaciones diplomáticas con él en 1952. De ese modo, Turquía escenificaba su opción prioritaria por Occidente, al tiempo que daba la espalda a la antigua porción árabe del Imperio otomano, corroborando la ruptura con el pasado imperial que había comenzado con el triunfo de Atatürk. Por otra parte, las relaciones entre el sionismo y el Imperio en la época en que Palestina formaba parte de éste nunca habían sido malas, y de algún modo los otomanos habían mantenido como mínimo una neutralidad benévola durante las dos primeras aliyot [olas de inmigración judía a Israel].
Para Israel, estas relaciones tenían un interés fundamental, pues suponían una ruptura del cerco árabe. Ben Gurion, el fundador del Estado, ya había desarrollado la teoría de la “periferia estratégica”, que suponía anudar relaciones con entidades no árabes de Oriente Próximo (Turquía, Irán, maronitas libaneses, kurdos de Irak…) Uno de sus frutos fue un pacto secreto (“pacto periférico”) de 1958 entre ambos Estados. Sus términos no se conocen exactamente (incluso los signatarios niegan su existencia), pero se supone que su núcleo era el intercambio de información de seguridad y militar, así como el compromiso por parte turca de actuar de portavoz de Israel ante Estados Unidos y la OTAN.
Este pacto tuvo escasa duración, pues en torno a 1960 Ankara inició un acercamiento a la Unión Soviética y los países árabes de Oriente Próximo, hacia los que Turquía mantuvo una posición de apoyo, no muy enérgico, en su conflicto con Israel, tanto con ocasión de la nacionalización del canal de Suez y la guerra de los Seis Días como recibiendo a Yasir Arafat y autorizando la apertura de una oficina de la OLP en Ankara (1979). De hecho, desde la proclamación de la capitalidad de Jerusalén, Turquía disminuyó la actividad de su representación diplomática con Israel (1980-1985).
Con todo, no cesó la cooperación militar, sobre todo desde el golpe de Estado de 1980. Es preciso tener en cuenta que los militares turcos, que se consideran depositarios del legado de Atatürk, son los principales valedores de las relaciones con Israel, sea por razones ideológicas –Israel está firmemente anclado en Occidente– como prácticas: el israelí es el primer Ejército de la región en los planos armamentístico, de cualificación profesional y de servicios de inteligencia.
La “alianza estratégica”
Esta relación se profundizó y adquirió nuevas dimensiones a partir del colapso de la Unión Soviética (1990). Para Turquía supuso un cambio de paradigma, pues si por una parte su posición estratégica como defensora del flanco sur de la OTAN había perdido buena parte de su valor, la disolución de la URSS abría nuevos terrenos a su actuación política y económica en dirección a las repúblicas ex soviéticas de los Balcanes y, sobre todo, las turcófonas de Asia Central. Ello significaba asimismo mejorar su capacidad militar para cubrir sus propios flancos: con Grecia, con la que mantenía un antiguo contencioso aún latente a pesar de los acuerdos de buena vecindad; con Chipre, con la presencia militar en la República Turca del Norte; y con Siria, que mantenía una política de apoyo al PKK kurdo.
Parcialmente liberada de las servidumbres de la guerra fría, Turquía estaba en condiciones de ejercer de potencia regional. Israel, por su parte, tenía mucho que ganar en su alianza con Turquía: la profundidad estratégica que le daba contar con el espacio aéreo turco para entrenamiento de su aviación y como corredor hacia Siria, Irán e Irak, un excelente mercado, especialmente para su industria militar, y un proveedor de materias primas.
El instrumento de esta nueva situación fue la elevación al rango de embajadas de las representaciones diplomáticas en 1991. De ese modo, a partir de 1992 se prodigaron las visitas bilaterales de alto nivel: las de los presidentes israelíes Herzog (1992) y Weizmann (1994, 1996) y las del turco Demirel (1996, 1999), así como las de los primeros ministros Tansu Çiller (1994) y Barak (1999).
Estas visitas hablan de unas relaciones de particular densidad, que quedaron plasmadas en una catarata de acuerdos, iniciados en 1992 con un protocolo de cooperación de defensa, precedente del Acuerdo Secreto de Seguridad de 1994, y de los más amplios y decisivos Acuerdos de Cooperación y Capacitación Militares de febrero de 1996 y Acuerdo de Cooperación de Industria Militar de agosto, así como un acuerdo de libre comercio a finales del mismo año, ratificado en los primeros meses de 1997. El seguimiento de estos instrumentos se realiza a través de encuentros bimestrales.
Estos acuerdos, que contaron con el beneplácito de Estados Unidos y con la crítica de los países árabes de la región e Irán, dieron lugar a una relación de interdependencia asimétrica que colocaba a Israel en mejores condiciones, como proveedor de tecnología militar para la modernización de las fuerzas armadas turcas (1) y de seguridad avanzada para la lucha contra el PKK (es sabido que agentes del Mossad actúan en el Kurdistán), con capacidad de entrenar en el uso de ambas y con la fuerza que le da su íntima alianza con Estados Unidos, que a través de Israel ha hecho llegar armamento moderno a Turquía, superando de ese modo las limitaciones parlamentarias debidas a la mala situación de los derechos humanos en el país euroasiático.
En este sentido, son ilustrativas las declaraciones de un portavoz del Departamento de Estado de EE UU en mayo de 1997, de que era un “objetivo estratégico” de Estados Unidos que Turquía e Israel ampliaran sus relaciones políticas y su cooperación militar.
Aun siendo las más relevantes, la cooperación militar no es la única: a ella debe unirse la política, que implica un apoyo mutuo. En ese sentido, Israel y el lobby judío de Estados Unidos, por ejemplo, impidieron en todos los foros posibles una condena de Turquía por el genocidio armenio, y Turquía ha actuado de interlocutor para Israel en distintas instancias internacionales, comenzando por la OTAN y haciendo un hueco al Estado sionista en la política regional a través de la Iniciativa de Cooperación de Estambul, promovida por la OTAN para mejorar el diálogo mediterráneo, especialmente en materia de seguridad.
En el aspecto económico ha habido logros significativos: las transacciones comerciales entre ambos países han pasado de 2.000 millones de dólares en 2000 a 3.300 en 2008, el volumen más elevado de la región. Por otra parte, el capital israelí ha encontrado en Turquía una nueva tierra de promisión y, asociado al capital local, se ha embarcado en un ambicioso programa de conquista de los mercados centroasiáticos, con especial hincapié en el campo de la energía. Turquía es asimismo el destino predilecto del turismo israelí, con 700.000 visitas anuales.
Dos aspectos de esta colaboración destacan nítidamente: la busca por Israel de nuevas fuentes de energía exteriores. El petróleo y el gas encontrarían un vehículo idóneo en los dos oleoductos, procedentes del Caspio y de Asia Central, que se dirigen al puerto turco de Cehyan y que podrían tener un ramal que llegara hasta Ashkelon (sur de Israel). La otra es el agua, bien escaso y controvertido en Israel (buena parte de los acuíferos se encuentran en los territorios ocupados). En 2004 se firmó un acuerdo por el que Turquía aportaría 50 millones de metros cúbicos de agua anuales durante veinte años.
Síntomas de desapego
A partir de fines de 2000, coincidiendo con la segunda Intifada, esta luna de miel en cierto modo contra natura empezó a mostrar síntomas de agotamiento: incluso los mismos militares comenzaron a mostrar su preocupación por el hecho de que el alto nivel de intercambio pudiera debilitar a Turquía en una situación de cambio de alianzas, por ejemplo, un acuerdo entre Israel y Siria. Este cambio, que ya detectó Arabic News, órgano de la Liga Árabe, en marzo de 2001, se plasma en la suspensión del acuerdo de modernización de los carros de combate turcos por parte de Israel, en visitas y maniobras conjuntas, así como en el aumento del tono de la prensa turca respecto a la violación por parte de Israel de los derechos humanos en Gaza y Cisjordania. Para los militares turcos, no se trataba tanto de una ruptura como de una “congelación” de las relaciones estratégicas entre ambos países. Lo cierto es que, según los politólogos Kessler y Kochlender, «el sector industrial militar israelí reconoce que las exportaciones a Turquía disminuyen… reemplazadas por otras de Estados Unidos y de Europa, especialmente italianas».
Las contradicciones se agudizaron a partir de la subida al poder del AKP postislamista. El AKP mantenía desde hacía tiempo buenas relaciones con Hamas, organización a la que defendió en instancias internacionales con el argumento nada complicado –para alguien que no sea un político occidental– de que Hamas era indispensable para avanzar en la paz en Oriente Próximo. Con todo, la política de Tayyip Erdogan no está pensada tanto “contra” Israel como a favor de estrechar los lazos con los árabes, lo que, no cabe duda, conlleva un alejamiento, siquiera retórico, de un Israel excesivamente prepotente. Este juego se manifestó en 2004: mientras se firmaba el acuerdo sobre el agua citado anteriormente, el Gobierno turco protestaba airadamente por el asesinato “selectivo” del dirigente de Hamas Ahmed Yasin en Gaza.
Con todo, no debe dejar de señalarse que durante estos años se produjo un acercamiento entre Turquía y diversos países árabes, como Siria, una vez resuelta la discrepancia sobre el PKK y encarrilado el asunto de los recursos hídricos; Egipto, con el que se ha firmado un acuerdo de libre cambio, y Arabia Saudí. Actualmente los hombres de negocios turcos están presentes en todas las áreas de las economías de la región, incluida Palestina: en 2005 se constituyó el llamado Foro de Ankara, que reúne a hombres de negocios turcos, israelíes y palestinos con el propósito de canalizar inversiones hacia zonas industriales instaladas en Gaza y Cisjordania.
Esta proyección regional permitió a Turquía proponerse como mediadora entre Israel y Siria, una iniciativa que el Estado sionista aceptó de mala gana a pesar de su plausibilidad.
El invierno de Gaza: ¿un punto de inflexión?
El 17 de noviembre de 2008 se celebró la séptima reunión del Foro de Ankara en la capital turca. La ocasión estuvo revestida de particular solemnidad, pues el presidente israelí, Shimon Peretz, se dirigió al Parlamento turco; era el primer mandatario de ese país que lo hacía. En diciembre, el primer ministro israelí, Ehud Olmert, era recibido calurosamemnte en Ankara.
Pocos días más tarde de esta última visita, Israel lanzó sobre Gaza la operación Plomo Fundido, una invasión de la franja precedida de una meticulosa destrucción, no ya de la estructura militar, sino de todo el país. La brutalidad y el desprecio a las leyes de la guerra e incluso a la más elemental humanidad levantó un clamor universal de repulsa. Estas manifestaciones fueron particularmente masivas en Turquía, donde a la presencia en las calles se unieron tomas públicas de posición, ciberataques e incluso suspensiones de partidos de baloncesto.
La diplomacia turca se mostró muy activa en la búsqueda del fin de la agresión: se destacó a un alto funcionario en Israel mientras se multiplicaban los contactos con Egipto, Damasco e incluso la Conferencia Islámica, así como las presiones en las Naciones Unidas. Como primera medida, Ankara canceló su mediación con Damasco.
El 29 de enero de 2009 se reunía el Foro de Davos. Durante él se produjo un violento choque dialéctico entre Shimon Peretz y Tayyip Erdogan, que abandonó la reunión.
En la reacción de Erdogan se reflejan distintas circunstancias: el sincero horror ante lo que él mismo había calificado de «crimen contra la humanidad» y «salvajada», más cuando afectaba a una organización de algún modo «hermana»; el rechazo a una actitud discriminatoria hacia él por parte del moderador del encuentro, David Ignatius; la sensibilidad hacia la opinión pública de su país, y sobre todo la sensación de que los israelíes –hacía poco que se había celebrado la séptima sesión del Foro de Ankara y que Olmert había sido recibido con solemnidad en la capital turca– habían actuado sin prevenirlos de sus proyectos, menospreciando a los turcos y dando al traste con sus esfuerzos mediadores.
A partir de entonces se han producido una escalada de declaraciones y gestos que no han hecho sino enrarecer el ambiente, cuyo mejor exponente ha sido la suspensión por parte de Turquía de las maniobras Águila Anatolia, por la presencia, junto a Italia y Estados Unidos, de la aviación israelí, que debían celebrarse en septiembre de 2008.
Por parte israelí se multiplicaron las declaraciones hostiles: cancelación de viajes turísticos a Turquía con ocasión de las vacaciones del Pésaj (segunda pascua), protestas oficiales por la proyección en Turquía de un filme en el que se veía a soldados israelíes matando a un niño palestino («se pretende dar la impresión de que los soldados israelíes asesinan a niños», afirmó hipócritamente el portavoz israelí). La situación llegó al extremo de que el Ministerio de Exteriores turco se vio obligado a pedir a los funcionarios israelíes que «actuaran con sentido común en sus declaraciones y actitudes».
Lampedusa en el Levante
Esta escalada, aún fundamentalmente verbal, ¿significa el preludio de un cambio en las relaciones entre Ankara y Tel Aviv? Sí y no: sí en cuanto que ha roto la unidad de acción entre ambas capitales de forma definitiva («Turquía [no] se privará de hablar duramente de los errores cuando se cometan», en palabras de Abdullah Gül, presidente de Turquía), hasta el punto de que el ministro turco de Exteriores, Ahmet Davutoglu, afirmó que las relaciones entre ambos países dependían del «cese de la tragedia humanitaria» en Gaza. Las recientes visitas de Erdogan a Irak, y sobre todo a Irán –donde llegó a acusar a Israel de querer «devastar» el país y afirmó que Ahmadineyah era un «pacifista»–, así como la normalización de las relaciones con Armenia, parecen sugerir una mayor autonomía en las opciones diplomáticas.
Por parte israelí, la nueva actitud de Turquía, más que producir una autocrítica por los errores propios, ha servido para definir una nueva actitud de Ankara. Así, el Jerusalem Post afirmaba el 14 de agosto: «Como Rusia con Putin, Turquía… ha escondido su rápida transformación desde una democracia imperfecta pero prooccidental bajo los anteriores Gobiernos hacia un régimen antioccidental y, en el caso de Turquía, islamista».
Esta idea de un cambio en la política exterior turca aparece también en un reciente artículo del prestigioso ex director de Le Monde Jean-Marie Colombani, en el que habla de «deriva» para definirla. El diplomático Shlomo Ben-Ami sugiere en un artículo en El País (septiembre de 2008) que los «serios dilemas de identidad» de Turquía suponen para Israel que «su futuro en Oriente Medio no reside en alianzas estratégicas con las potencias no árabes de la región, sino en la reconciliación con el mundo árabe».
Sin embargo, a pesar de ello y de la torpeza diplomática israelí (2), no han faltado por ambas partes las declaraciones apaciguadoras, que, en última instancia, reflejan los límites del enfrentamiento: Israel sabe que no puede ir más lejos («Turquía es muy importante para el entrenamiento de nuestra aviación en espacios abiertos», según el ex comandante de la fuera aérea israelí Ben Eliyahu); en ese sentido, Ehud Barak, ministro de Defensa del anterior Gobierno de Tel Aviv, afirmó: «A pesar de los altibajos, Turquía sigue siendo un elemento central en nuestra región. No podemos dejarnos llevar por declaraciones encendidas». Y el influyente ministro de Industria, Ben Eliécer, aseguró: «Tenemos un conjunto de intereses estratégicos comunes de gran importancia. Debemos actuar con gran sensibilidad para que no se materialicen los pronósticos más sombríos».
Ankara, en cambio, ha optado por un tono más firme, lo que pone de manifiesto un mayor equilibrio en la relación de fuerzas entre ambos: «Turquía es el único país amigo de Israel en la región… Por ello se debe dar mucha importancia a que el Estado judío busque el apoyo de Ankara para sus políticas regionales» (el politólogo Erçan Citioglu en declaraciones a al-Yazira). Según el ministro de Exteriores, Davotuglu, «tenemos la esperanza de que mejore la situación en Gaza y que eso cree un nuevo ambiente para las relaciones turco-israelíes» (Hurriyet, 13 de octubre de 2008).
Conclusión: entre el republicanismo y el neootomanismo
Muchos observadores de la política exterior turca han hablado de una supuesta tensión en las relaciones exteriores turcas entre el republicanismo –anclaje firme en Occidente, desdén por la política regional– y el neootomanismo, o tendencia a convertirse en protagonista de la política próximo oriental, como había sucedido en el pasado. Los garantes de la primera opción serían los militares y el aparato del Estado; los de la segunda, los islamistas –tanto en la etapa de Erbakan, bruscamente interrumpida por los militares, como en la del AKP– y los proislamistas de Gobiernos anteriores.
Desde mi punto de vista, se trata de un falso debate: ni los militares han dejado de apoyar una menor interdependencia con Israel, por ejemplo, ni los islamistas han abandonado el eje fundamental de su política exterior: el ingreso en la Unión Europea y la OTAN; de algún modo, la nueva política exterior en relación con Oriente Próximo es una forma de hacer valer su nuevo papel estratégico ante sus aliados occidentales; los islamistas, por otra parte, son lo suficientemente conscientes de la profundidad de las relaciones turco-israelíes como para causarles un daño irreparable. Además, una excesiva dureza con Israel pondría en cuestión su papel mediador, por mucho que le mereciera simpatías entre la opinión árabe.
El nuevo Gobierno israelí ¿puede ahondar las actuales diferencias? No es fácil saberlo, teniendo en cuenta la escasa sutileza de su diplomacia. Sin embargo, es de suponer que terminará imponiéndose la cordura: en estos momentos, Israel es importante para Turquía. Pero sin duda Turquía lo es mucho más para Israel.
Alfonso Bolado
Notas:
(1) Turquía gastará 150.000 millones de dólares hasta 2020 en la modernización de su Ejército. Una parte importante de este dinero está destinada a Israel: modernización de los aviones F-4, F-5 y F-16, así como de los carros M-60; producción conjunta de misiles de medio alcance (Arrow y Delilah) y compra de otros (Popeye I), adquisición de 150 helicópteros estadounidenses (que se llevaría a cabo por intermediación israelí).
(2) La rudeza de la diplomacia israelí, consecuencia en parte de su carácter militante, en parte del complejo de superioridad moral característico del sionismo, es proverbial. El episodio turco no es único: los desplantes a políticos extranjeros que no son de su agrado –como sucedió con el enviado de la Unión Europea, Miguel Ángel Moratinos–; la sistemática denuncia de cualquier actitud, real o supuesta, de antisemitismo; la altanería con la que se dirige a las autoridades de los países huéspedes en estos casos (el Gobierno español y el catalán la han padecido con ocasión de los bombardeos de Gaza); la agresividad de las comunicaciones con la prensa internacional… la hacen antipática. Sorprende por ello la debilidad de las respuestas, que no hace sino retroalimentar esos comportamientos.
Extraído de CSCA.
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La Doctrine Brzezinski et le Caucase
Lorenzo MOORE :
La Doctrine Brzezinski et le Caucase
Malgré la relève de la garde à Washington, depuis l’accession d’Obama au pouvoir, le Caucase reste une « région stratégique » dans la tentative américaine de contrôler totalement ou en partie les anciennes zones d’influence russe en Asie centrale, région riche en matières premières. Sur ce front rien n’a changé en fait : c’était clair depuis la première décision prise par la nouvelle présidence d’augmenter les effectifs américains destinés à renforcer la guerre d’occupation en Afghanistan.
La partie est mortelle entre les massacres de Grozny et de Beslan
Durant la présidence néoconservatrice de Bush, le Caucase avait à nouveau fait parler de lui avec le double attentat aérien contre deux avions de ligne russes et avec la monstrueuse séquestration des enfants de Beslan, où quelques dizaines de guérilleros tchétchènes avaient pris des écoliers et des parents d’élèves en otage dans un établissement scolaire de la ville principale de la république autonome d’Ossétie du Nord, appartenant à la Fédération de Russie. La confrontation entre Russes et Tchétchènes n’est pas le seul conflit en cours dans la région qui fait le pont entre l’Europe et l’Asie. En Géorgie, le président Mikhaïl Saakashvili, après avoir fait plier la république sécessionniste d’Adjarie, entre la Géorgie et la Turquie, a ensuite mené une attaque, vite avortée, contre l’Ossétie du Sud, dont la population est ethniquement et culturellement la même qu’en Ossétie du Nord mais dont le territoire, jadis autonome en Géorgie, est aujourd’hui indépendant après une intervention russe.
L’Ossétie du Sud est indépendante de facto depuis 1993, lorsque les indépendantistes sud-ossètes ont obtenu la victoire lors d’une brève guerre de sécessions contre les Géorgiens, peu de temps après l’effondrement de l’URSS. Les Russes avaient appuyé cette sécession et, grâce aux mouvements indépendantistes d’Ossétie, d’Abkhazie et d’Adjarie, ils ont pu revenir dans la région au sud du Caucase. Dans les petites républiques indépendantes grâce aux efforts des troupes de maintien de la paix, les Russes ont pu construire des bases militaires, leur territoire étant soustrait au contrôle de Tbilissi. Avec l’appui des Etats-Unis, Saakashvili avait réussi en décembre 2003 à chasser du pouvoir Chevarnadze. Ce fut le premier épisode dans le processus de reformulation du projet nationaliste géorgien visant à récupérer les territoires cédés dans les années 1991-93. Ce projet nationaliste géorgien n’est possible qu’avec l’appui des Etats-Unis et d’Israël, qui comptent quelques centaines de militaires sur le terrain, officiellement pour contrer le terrorisme mais en réalité pour entrainer l’armée géorgienne.
L’appui de Washington ne provient pas d’un amour subi pour la Géorgie en butte avec ses ethnies rebelles, ossètes et abkhazes, mais d’une volonté de chasser définitivement la Russie de la zone où seront transportés vers l’Europe les hydrocarbures de la Mer Caspienne.
Le nouveau président géorgien s’est engagé à construire l’oléoduc Bakou/Ceyhan destiné à acheminer le pétrole de la Caspienne et de l’Azerbaïdjan vers le port turc, en traversant le territoire géorgien. Cet oléoduc mettrait hors jeu le tracé menant au port russe de Novorossisk sur la Mer Noire. Ajoutons que cet oléoduc russe passe par le territoire de la Tchétchénie. On voit dès lors clairement pourquoi le conflit en Tchétchénie revêt une importance stratégique cruciale dans les rapports Etats-Unis/Russie et pourquoi Washington se mobilise (en vain) pour inciter les Géorgiens à éliminer les deux petites républiques rebelles et à chasser les bases russes hors du Caucase méridional. La construction d’un oléoduc entièrement contrôlé par la Géorgie, au moment où l’oléoduc concurrent est continuellement menacé de sabotage par la guérilla tchétchène, garantirait par ricochet le contrôle exclusif par les Américains des ressources pétrolifères du Sud de la Caspienne, tout en isolant la Russie de l’Europe et en complétant l’encerclement de l’Iran.
C’est dans ce contexte qu’il faut analyser la guerre qu’a déclenché la Géorgie contre l’Ossétie et l’appui récurrent de Tbilissi à la guérilla tchétchène. Saakashvili avait espéré déclencher une guerre de courte durée pour faire plier les Ossètes, pour provoquer leur fuite vers le territoire de la Fédération de Russie et pour contrôler à nouveau le territoire de peuplement ossète. Les Ossètes savaient bien qu’en cas de défaite ils devaient s’attendre à une « purification ethnique » des plus féroces, visant la « géorgianisation » de leur pays, surtout que les Ossètes n’ont pas oublié les 20.000 morts (presque tous des civils) que leur population a subis lors de la guerre de sécession avec la Géorgie.
Les Russes, pour leur part, savent que, s’ils sont chassés de leurs bases d’Ossétie et d’Abkhazie, ils seront mis hors jeu dans le Caucase et que les rébellions au sein des nombreuses républiques autonomes de la Fédération se multiplieraient. C’est ce qui explique la riposte militaire russe, rapide et soudaine, contre l’agression géorgienne. Cette action a donné de facto l’indépendance à l’Ossétie du Sud.
La question de l’oléoduc est centrale dans ce conflit : c’est elle qui a failli amener la Russie et les Etats-Unis à un conflit chaud, même si c’eut été par tiers acteurs interposés.
Qui souffle sur les braises ? Les patrons et les parrains de l’indépendantisme tchétchène !
L’assaut donné contre l’école de Beslan et les massacres qui s’ensuivirent, où les guérilleros tchétchènes ont tué un grand nombre d’otages, des enfants, des enseignants et des parents, suite à l’attaque du bâtiment scolaire par les forces spéciales russes, s’inscrivent dans cette seule et même guerre qui dévaste le Caucase depuis la fin de l’URSS. Il est peut-être vrai, comme aiment à le rappeler les commentateurs des médias occidentaux, que la guerre coloniale russe contre les Tchétchènes a commencé dans la première moitié du 19ème siècle, à une époque où l’expansion de la Russie atteignait les régions méridionales du Caucase. Cette guerre n’a jamais pris fin. Mais il est tout aussi vrai que la nouvelle flambée indépendantiste tchétchène a commencé en 1991, avec la déclaration d’indépendance de la petite république autonome du Caucase septentrional et avec la guerre voulue et perdue par Eltsine qui s’ensuivit de 1994 à 1996. Cette phase nouvelle du conflit russo-tchétchène a les mêmes « sponsors » et les mêmes parrains que le renouveau nationaliste géorgien qui a déclenché l’agression contre l’Ossétie méridionale en août 2008. L’indépendantisme tchétchène moderne était laïque au départ et animé par d’anciens officiers soviétiques, bien décidés à profiter du déclin de la Russie après les journées de confusion de l’automne 1991. Ces hommes voulaient affirmer l’indépendance d’un territoire qui aurait pu compter sur les dividendes du transit pétrolier pour assurer sa prospérité.
Mais dans les années qui ont suivi l’affirmation de ce premier indépendantisme tchétchène, les Américains ont ressorti la fameuse doctrine Brzezinski, préalablement appliquée en Afghanistan pour chasser le gouvernement laïque pro-russe. Pour y parvenir, les Etats-Unis ont financé des intégristes islamistes, les talibans, et un mystérieux réseau, Al-Qaeda, construit de toutes pièces sous l’égide américaine en utilisant les services de l’extrémiste wahhabite Osama Ben Laden. Dans le Caucase également, les Américains ont bien veillé à éliminer progressivement tous les leaders laïques pour leur substituer une direction religieuse d’obédience wahhabite. Le financement de ces nouvelles équipes vient en premier lieu de la monarchie saoudienne, désireuse d’étendre sa propre influence politique sur tous les territoires à majorité musulmane, par le biais d’une exportation de la version la plus réactionnaire et la plus obscurantiste de la religion islamique, née dans la péninsule arabique au 18ème siècle et adoptée par la dynastie des Saoud qui régnait à cette époque sur les bédouins du Nadjd qui étaient en conflit permanent avec tous les autres royaumes de l’Arabie péninsulaire et avec les shérifs de La Mecque dont provient la dynastie hachémite (à laquelle appartiennent les rois actuels de la Jordanie).
Dans les régions du Caucase septentrional, le wahhabisme saoudien a islamisé l’indépendantisme tchétchène et l’a transformé en une guérilla féroce, qui fait feu de tous bois: attentats suicides, massacre d’otages, guerre ouverte, infiltration sur le territoire russe, etc. Mais le wahhabisme n’agit pas seul: à ses côtés se tient l’une des principales compagnies pétrolières mondiales, la Chevron-Texaco, dont la conseillère pour l’espace caucasien et la responsable pour les politiques locales de cette zone de turbulences, est une dame que le monde entier a appris à connaître au cours de ces dernières années: Condoleeza Rice, déjà ministre de la Sécurité nationale sous la présidence de Bush junior.
La présence parmi les guérilleros tchétchènes de volontaires wahhabites, issus des nationalités les plus disparates (il y a parmi eux des Arabes de la péninsule, des Algériens, des Egyptiens, des Afghans, des ressortissants du Bengla Desh, etc.) indique, en outre, que le recrutement de ces effectifs wahhabites inclus dans les forces rebelles tchétchènes s’est effectué depuis le début des années 90 sous le patronnage de l’ISI, le fameux service secret pakistanais, inventeur et soutien majeur du régime des talibans en Afghanistan et responsable de l’organisation politique et militaire des militants wahhabites et déobandistes (les déobandistes relèvent d’une autre école islamiste, aux orientations très réactionnaires, née au 19ème siècle parmi les musulmans d’Inde).
Finalement, comme en Afghanistan, on voit fonctionner la synergie entre pétrodollars et idéologie religieuse saoudienne, logistique et formation pakistanaises et supervision géopolitique et géoéconomique par le complexe économico-politique américain. L’intérêt des multinationales américaines dans le développement et le maintien de la guérilla tchétchène est évident: mettre hors jeu toutes les concurrences européennes et asiatiques dans le transport du brut de la Caspienne, et, simultanément, couper l’herbe sous les pieds des monopoles russes. Ces objectifs sont poursuivis en même temps qu’un soutien toujours plus marqué aux oligarchies qui gouvernent sur le mode autocratique les Etats asiatiques issus de la désintégration de l’Union Soviétique: en premier lieu, l’Azerbaïdjan qui possède des gisements aux infrastructures déjà bien rodées. Dans ce contexte, par la création de toutes sortes de menées agressives, les intérêts pétroliers et géopolitiques des Etats-Unis cherchent à saboter les tracés anciens des oléoducs transportant le brut azéri, tracés construits à l’époque soviétique et qui mènent tous vers l’intérieur des terres russes.
Si l’on tient compte de ce point de vue, tant l’insurrection tchétchène sur le territoire qui mène au port pétrolier de Novorossisk sur la Mer Noire que la guerre avortée déclenchée par la Géorgie de Saakashvili, ont été in fine concoctées par Washington afin de multiplier les incidents, de déstabiliser la région pour aboutir à un contrôle exclusivement américain des flux d’hydrocarbures. Les présidences américaines successives, qu’elles aient été démocrates ou républicaines, de Carter à Obama, ont poursuivi inlassablement cette politique dont l’intention finale est d’empêcher la Russie de devenir une puissance autonome face aux Etats-Unis. Une Russie autonome serait parfaitement capable de poursuivre l’ancienne politique soviétique de s’opposer au leadership unique des Etats-Unis dans le monde. Les Etats-Unis visent aussi à créer les conditions qui feront de l’immense pays qu’est la Russie un objet pour les spéculations de la finance internationale, téléguidées depuis l’Amérique.
Par ailleurs, dans ses visées coloniales sur la Russie, les Etats-Unis ont trouvé en Russie même la collaboration intéressée de cette nouvelle classe composée d’anciens fonctionnaires du parti communiste recyclés en oligarques grâce aux positions clefs qu’ils occupent dans le petit monde des capitalistes de la “nouvelle Russie”. Leur action s’avère destructrice du point de vue du développement de la production industrielle russe mais, en même temps, extrêmement habile pour générer des profits chez les financiers. Ce sont eux qui ont fait gonfler au maximum la bulle financière russe qui a explosé en 1998, entraînant la disparition de l’épargne nationale tout en sauvegardant les immenses fortunes que cette nouvelle classe de capitalistes sans entreprises avait accumulées au cours des années précédentes.
La guerre en Tchétchénie a toujours été une bonne affaire pour cette nouvelle classe dominante: même si nous faisons abstraction des profits réalisés par la contrebande et le commerce des armes avec l’ “ennemi” tchétchène, la guérilla islamiste du Caucase septentrional est devenue un excellent prétexte pour dévier le mécontentement russe vers un objectif extérieur et pour décider, finalement, du destin politique de la Russie au 21ème siècle. Pour atteindre ces objectifs, Eltsine lui-même et sa bande ont été définitivement sacrifiés à la suite d’une offensive terrible des guérilleros tchétchènes qui ont placé des bombes à Moscou et occupé des hôpitaux au Daghestan en 1999 (toutes ces actions ont été menées par un chef notable, Bassaïev, concurrent du président tchétchène en exil Makhadov; Bassaïev est également le responsable de l’horrible massacre de Beslan).
Après Eltsine, Poutine a pris le pouvoir, en se présentant à la nation comme le président de la renaissance russe. Les règles du jeu ont alors changé, Washington a été tenu en échec, tandis que les oligarques ont été soit expropriés soit contraints à l’exil. Poutine a pu avancer dans la mise en oeuvre d’un capitalisme national russe, capable de développer ses propres infrastructures de production et de renforcer ses liens commerciaux et politiques avec les pays européens. Cette politique a été rendue possible grâce à l’exclusion de cette classe d’oligarques liée étroitement au capital financier américain et à la vente à l’encan des matières premières du pays.
Derrière cette attaque indirecte contre la Russie, nous voyons se profiler une alliance en apparence bigarrée entre les intérêts stratégiques américains, les intérêts économiques des multinationales américaines du pétrole, du néo-nationalisme géorgien, du fondamentalisme wahhabite téléguidé par l’Arabie Saoudite et de l’oligarchie financière russe repliée à l’étranger. L’objectif de cette alliance est d’abord de démontrer que Poutine n’est pas en mesure de défendre la Russie en y suscitant un climat qui permettrait à terme de lui substituer un autre homme, plus faible et plus enclin à servir les intérêts de la haute finance internationale en Russie et à l’étranger. Cet objectif ne s’est pas réalisé. Et ce n’est donc pas un hasard si le ministre russe des affaires étrangères, Sergueï Lavrov a déclaré, en critiquant directement les pays occidentaux: “[l’Occident] est indubitablement responsable de la tragédie qui frappe le peuple tchétchène parce qu’il donne l’asile politique aux terroristes. Lorsque nos partenaires occidentaux nous disent que nous devons réviser notre politique, qu’ils appellent ‘tactique’, je les invite à ne pas intervenir dans les affaires intérieures de la Russie”. Lavrov faisait directement référence aux décisions prises par les Etats-Unis et l’Angleterre de donner l’asile politique à deux chefs du séparatisme tchétchène, Ilyas Akhmadov et Akhmed Zakaïev, qui vivent aujourd’hui, l’un à Londres, l’autre à Washington.
Il suffit de faire quelques recherches sommaires sur la stratégie préconisée par les milieux libéraux-impérialistes d’Angleterre et des Etats-Unis pour déchiffer aisément la stratégie atlantiste qui visait jadis et vise encore aujourd’hui à soustraire toute la région caucasienne à l’influence russe, parce que cette région est riche en pétrole. Cette stratégie a été remise en selle et en pratique, et à toute vapeur, en 1999 et qui s’inscrit plus généralement dans le fameux “Plan Bernard Lewis”, mis en oeuvre dans les années 70. Ce plan proposait de “miner” toutes les régions se situant au sud du territoire de l’URSS et de les transformer en un “arc de crises”. L’objectif principal envisagé dans ce plan était de déstabiliser à long terme cet ensemble de régions en misant surtout sur le fondamentalisme islamique. Les deux points principaux, où devait se concentrer les attaques indirectes, étaient la Tchétchénie et l’Afghanistan.
On ne s’étonnera pas dès lors que, parmi les architectes de ces provocations organisées actuellement dans le Caucase, nous retrouvons Zbigniew Brzezinski, conseiller de Carter pour la “sécurité nationale” et qui fut le premier à adopter les plans géopolitiques mis au point par Lewis pour le compte de l’ “Arab Bureau” de Londres. Brzezinski et Lewis comptaient utiliser le radicalisme islamiste contre le communisme soviétique.
D’après une revue fort bien informée, Executive Intelligence Review, la notion d’arc de crise, théorisée par Lewis et Brzezinski, fut reprise en bloc par les présidences Reagan et Bush à partir de 1981. Ce fut en bonne partie grâce aux bons offices du directeur de la CIA William Casey et du chef des services français, Alexandre de Maranches. La promotion des moudjahhidins est ainsi devenue un projet cher aux néoconservateurs, qui l’ont introduit au Pentagone et au Conseil de Sécurité nationale à l’époque de Reagan, notamment sous l’impulsion de Douglas Feith, Michael Ledeen et Richard Perle.
En 1999, un centre de coordination destiné à orchestrer les déstabilisations est mis en place: les néoconservateurs justifieront son existence au nom de l’idéologie des droits de l’homme. Quant à la “Freedom House”, fondée par Leo Cherne, elle lance un organisme baptisé “American Committee for Peace in Chechnya” (ACPC), dont l’objectif déclaré est d’intervenir dans les affaires intérieures de la Russie, en avançant l’excuse et le prétexte que la “guerre dans l’aire caucasienne” doit être résolue “pacifiquement”.
Mais lorsqu’on consulte la liste de ces pacifistes autoproclamés de l’ACPC, on reste bien perplexe. Les fondateurs de ce caucus sont Brzezinski, Alexander Haig (le secrétaire d’Etat qui avait dit, “c’est moi qui suis aux commandes” quand Reagan fut victime d’un attentat en 1982) et l’ex-député Stephen Solarz. Parmi les membres, nous trouvons: Elliot Abrams, Kenneth Adelman, Richard Allen, Richard Burt, Elliot Cohen, Midge Decter, Thomas Donohoue, Charles Fairbanks, Frank Gaffney, Irving Louis Horowitz, Bruce Jackson, Robert Kagan, Max Kampelman, William Kristol, Michael Ledeen, Seymour Martin Lipset, Joshua Muravchik, Richard Perle, Richard Pipes, Norman Podhoretz, Arch Puddington, Gary Schmitt, Helmut Sonnenfeldt, Caspar Weinberger et James Woolsey. L’ACPC se sert des structures de la “Freedom House” mais aussi de celles de la “Jamestown Foundation”, un centre d’études sur la guerre froide dirigé par Brzezinski et Woolsey, dont le but est de promouvoir des opérations de “démocratisation” dans les Etats “totalitaires”. Ce centre d’études édite une “newsletter”, Chechnya Weekly, pour le compte de l’ACPC, de même que d’autres bulletins de propagande dirigés contre la Chine, la Corée du Nord et d’autres pays européens ou asiatiques qui sont dans le collimateur de Washington.
Ce sont les Britanniques qui ont recruté les terroristes du Caucase!
Les gouvernants russes savent très bien qu’au moment où, aux Etats-Unis, on créait l’ACPC, le gouvernement britannique offrait une aide toujours plus directe aux milieux terroristes.
Dans un série de documents datant du 21 janvier 2000 et adressés à Madeleine Albright, alors secrétaire d’Etat, nous trouvons une missive intitulée: “L’Angleterre doit être mise sur la liste des Etats qui promeuvent le terrorisme”. L’Executive Intelligence Review rapporte comment les autorités britanniques ont facilité le recrutement de certains éléments du djihadisme en Angleterre pour les transporter ensuite clandestinement en Tchétchénie. Dans un document de l’ Executive Intelligence Review (sur: http://www.movisol.org/ ), nous pouvons lire, parmi d’autres révélations: “Le 10 novembre 1999, le gouvernement russe avait déjà présenté ses protestations diplomatiques formelles via son ambassade à Londres, pour les attaques perpétrées contre des journalistes russes et pour l’hospitalité offerte au cheikh Omar Bakri Mohammed, chef d’Al Muhajiroon, aile politique de l’organisation de Ben Laden, qui était le groupe recrutant des musulmans en Angleterre pour les envoyer combattre en Tchétchénie contre l’armée russe. L’organisation de Bakri travaillait librement au départ de bureaux situés dans le faubourg londonien de Lee Valley —deux pièces dans un centre informatique— et géraient une entreprise offrant des connections à internet. Bakri a admis que des officiers de l’armée ‘en congé’ entraînaient les nouvelles recrues à Lee Valley, avant de les envoyer dans des camps en Afghanistan ou au Pakistan ou avant de les faire entrer clandestinement en Tchétchénie”.
Lorenzo MOORE.
(article issu du quotidien romain “Rinascita”, jeudi 11 juin 2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
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