mercredi, 21 avril 2010
La Russia chiave di volta del sistema multipolare
di Tiberio Graziani
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.
Considerazioni sullo scenario attuale
Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.
Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.
Gli attori egemoni
Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.
La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.
La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:
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le politiche di modernizzazione;
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le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;
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la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.
Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.
I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.
In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.
Gli attori emergenti
La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).
Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.
Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.
Gli inseguitori-subordinati e i subordinati
La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.
Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).
L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.
Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).
Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.
Gli esclusi
Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.
Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.
La riscrittura delle nuove regole
I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.
Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.
È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.
Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.
Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.
A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.
La centralità della Russia
La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.
Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.
Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa
Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:
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riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;
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contenimento delle spinte secessionistiche;
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uso “geopolitico” delle risorse energetiche;
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politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;
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costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;
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tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;
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costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).
Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.
La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).
Chiave di volta del nuovo ordine mondiale
In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.
Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo
Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.
Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.
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1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.
2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.
3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.
4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.
5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.
6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.
7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.
8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.
9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.
10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.
11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).
12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.
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Quelles alliances dans le monde islamique?
Archives de Synergies Européennes - 1997
Quelles alliances dans le monde islamique?
Sur le plan religieux, au sens étymologique du terme, c'est-à-dire dans le sens latin de re-ligere, soit de lier les membres d'une communauté politique par des valeurs et un héritage culturel communs, notre position est claire: l'Europe est une pluralité de peuples et de paysages, de climats et de végétations, qui impliquent qu'entre les hommes s'instaurent des modalités de vivre-en-commun chaque fois différentes selon les paramètres. Modalités et variations révèlent de la sorte un polythéisme des valeurs, qu'il s'agit d'harmoniser. Les religions monothéistes sont issues, dans leur quintessence, du désert, avec son uniformité sublime qui force à penser l'absolu, le Tout-Autre. En disant cela, nous n'entendons pas dénigrer les spiritualités du désert ni ceux qui en sont les porteurs: avec Ludwig-Ferdinand Clauss qui a pensé simultanément l'esprit de la forêt (nord-européenne) et l'esprit du désert chez les Bédouins, qui est considéré comme un Juste par les Juifs, nous constatons deux modalités du spirituel qui ne se sont pas nécessairement opposées dans l'histoire (cf. les figures de Parsifal et de Feirefiz) mais qui impliquent néanmoins que l'on manie des jeux d'institutions politiques différents, pour être en symbiose avec notre environnement immédiat.
La vie dans le désert implique des codes rigoureux, la vie dans les forêts ou dans les lisières défrichées implique des codifications plus souples. Chez le Bédouin ou l'Arabe, la douceur de l'oasis lève souvent la rigueur des codes, et il rejoint là la souplesse des terres à jardins. En Europe, le jardin, d'abord potager puis floral, l'orangerie, la douceur des potagers et des fruits méditerranéens ou la sérénité des vergers centre-européens ou nord-européens, le vieux culte européens des fruits impliquent au fond une moindre rigueur, en dépit des jansénismes ou des puritanismes. Les libres-penseurs ne nous contrediront pas: Voltaire n'a-t-il pas dit et répété, «Cultivons notre jardin», signifiant par là que la variété des essences que nous y cultivons nous procure la sérénité et nous conduit au chemin de la tolérance (mais, hélas, aujourd'hui, la tolérance, dans la bouche des vitupérateurs médiatiques, n'est plus cette sérénité, mais, au contraire, le prétexte à édifier des codes rigides, plus rigides que tous les codes religieux du passé, parce qu'abstraits et désincarnés).
Aujourd'hui, la revendication religieuse la plus véhémente est sans conteste celle de l'islamisme radical. Mais quel islamisme? Celui du FIS, de la République Islamique d'Iran, du Soudan, des Frères musulmans, des Talibans de Kaboul, des extrémistes égyptiens qui prennent les cars de touristes pour cibles, d'Erbakan en Turquie? Dans ces multiples facettes de l'islamisme radical d'aujourd'hui, il s'agit pour nous de faire le tri. Non pas en vue d'une conversion qui serait insolite ou marginale. Mais parce qu'en dépit du processus qui s'opère actuellement, c'est-à-dire le regroupement des peuples dans des sphères civilisationnelles axées sur les options religieuses (cf. le recension du livre de Samuel Huntington par W. Strauss dans ce n°30 de NdSE), le dialogue inter-civilisationnel ne s'arrêtera pas pour autant. Si ces regroupements impliquent un certain repli sur soi, —pour que les peuples revoient enfin clair et se dégagent des philosophades simplistes de l'occidentisme— les périphéries continueront néanmoins à dialoguer entre elles pour gérer des zones géographiques contigües ou même pour vider des conflits par les armes (car la guerre, en dépit de ce que racontent les irénistes, est une forme de dialogue).
Guido A. Del Valle, lors de notre université d'été de 1996 en Lombardie, avait démontré que les principales puissances musulmanes d'aujourd'hui étaient de fidèles alliées des Etats-Unis et, qu'à ce titre, elles étaient instrumentalisées contre l'Europe. Ce constat est juste, hélas, et nous l'acceptons, même si nous aurions préféré un dialogue inter-civilisationnel sur le mode que nous avait préconisé le Juste Ludwig-Ferdinand Clauss, dont Julius Evola admirait tant les œuvres. En effet, l'Egypte, clef du canal de Suez, de la Mer Rouge et de la Méditerranée orientale, est une alliée des Etats-Unis. La Turquie, formidable puissance militaire classique à la charnière de l'Europe et de l'Asie, entre la Mer Noire russo-ukrainienne et la Méditerrannée orientale, est le principal atout américain dans la région. Très nettement, cette puissance joue contre l'Europe et contre la Russie dans les Balkans, en Mer Noire, dans le Caucase, en Asie centrale, à Chypre et dans les vallées du Tigre et de l'Euphrate. Enfin, l'Arabie Saoudite, formidable puissance financière et pétrolière, est entièrement sous la coupe de Washington. En Algérie, la guerre civile empêche une réorganisation du pays, qui pourrait devenir un complément agricole pour l'Europe surpeuplée. La Libye de Khadafi, Etat plus laïc que religieux dans sa structure, est condamnée à faire du sur-place à cause du blocus imposé par Washington. Le Pakistan sert de base arrière aux Talibans qui font la guerre aux Russes et aux Tadjiks, pour empêcher que la plus grande puissance slave ne s'installe par gouvernements locaux interposés sur les rives de l'Océan Indien et n'opère une jonction avec l'Inde, ne réalise un axe Moscou-Dehli. Seul l'Iran, puissance impériale sur la masse continentale eurasiatique, à côté des impérialités euro-germanique, russe, chinoise, japonaise et ottomane (défunte), a une politique anti-américaine et anti-impérialiste cohérente. L'Islam chiite à la mode iranienne est donc un allié potentiel de l'Europe et de la Russie sur la scène internationale. Washington tente de nous le faire oublier, par une propagande remarquablement bien orchestrée, que gobent tous les politiciens à la petite semaine qui peuplent nos ministères des affaires étrangères.
Washington a admirablement joué sa carte musulmane. Tous ces coups ont été des coups de maître. S'il existait en Europe des diplomates et des services spéciaux aussi efficaces que ceux qui agissent à Washington, que feraient-ils?
- Ils dénonceraient le blocus anti-libyen, aideraient Khadafi (ou ses successeurs) à réaliser les plans germano-italiens de 1940-43 de fertilisation du désert de Tripolitaine et de Cyrénaïque afin d'avoir une réserve de céréales et d'agrumes aux portes de l'Europe.
- Ils tableraient sur des mouvements néo-nassériens en Egypte, afin d'obtenir le contrôle du Canal de Suez et de la Mer Rouge.
- Ils soutiendraient la politique néo-musulmane et néo-ottomane d'Erbakan en Turquie contre le laïcisme des militaires à la solde de l'Occident libéral. Ils forceraient Serbes et Croates à affronter de concert la menace turque dans les Balkans. Ils aideraient Roumains, Bulgares, Ukrainiens, Russes, Géorgiens et Arméniens à faire de la Mer Noire un lac exclusivement européen, de façon à organiser en synergie fleuves ukrainiens et bassin du Danube, afin d'avoir une voie fluviale non contrôlée par la VIième flotte US et d'y échanger les produits finis centre-européens et les matières premières (blé, pétrole) d'Ukraine et du Caucase. Ils se poseraient en protecteurs de la Syrie et de l'Irak contre la politique des barrages turcs qui assèchent la région en monopolisant dès la source les eaux du Tigre et de l'Euphrate. Ils imposeraient à Washington et à Ankara le tracé russe des oléoducs venant du Caucase, qu'ils coupleraient ensuite au complexe danubien. Ils vieilleraient à la bonne exécution de ces politique en intégrant Chypre à l'UE et en faisant de cette belle île une base aéronavale inexpugnable, où l'armée et la marine grecques auraient un rôle primordial à jouer. Ils réserveraient à Ankara un rôle de premier plan, un rôle impérial, au Proche-Orient, de Mossoul à Aden. La Turquie actuelle n'a de toute façon par de moyens propres suffisants pour faire une autre politique.
- Ils soutiendraient les partis russophiles en Afghanistan, de façon à contrôler, de concert avec l'Iran, toute la côte de l'Océan Indien, d'Aden aux frontières de l'Inde, prélude au grand axe Berlin-Vienne-Moscou-Téhéran-Dehli-Tokyo, résurrection de cinq des grandes impérialités eurasiennes, auxquelles se joindrait rapidement la Chine.
Dans le jeu subtil et intéressé de la diabolisation globale de l'“extrémisme islamique”, il s'agit surtout de garder la tête froide, de ne pas raisonner avec passion, mais avec froideur, en toute vraie logique politique. Car les zones incluses aujourd'hui dans la “civilisation musulmane” sont les zones-clefs de l'histoire: ceux qui les contrôlent sont maîtres du monde; ceux qui les ignorent sont condamnés à mariner misérablement dans le jus de leur égocentrisme stérile. Je me permets de rappeler aux isolationnistes étriqués qui veulent édifier des murs entre l'Europe et le monde musulman, que ces murs n'ont jamais existé (ni au temps antiques de l'élan des peuples indo-européens vers la Cappadoce, les hauts plateaux iraniens et l'Inde ni aux temps des croisades et de Marco Polo). Pour employer une métaphore agricole, dans l'esprit des jardins de Voltaire: les isolationnistes sont des consommateurs de fruits confits et de confitures, sans doute faute de mieux; les “dialoguistes inter-civilisationnels”, les héritiers de Frédéric II de Hohenstaufen, mordent dans les fruits frais gorgés de soleil, à pleines dents!
Revenons au concret et à l'actualité: dans le monde islamique, nous avons des alliés et des ennemis. Nos alliés sont les adversaires de Washington, parce que Washington veut torpiller toute véritable unification européenne. Nos ennemis sont tous les extrémistes qui agissent pour le compte des Etats-Unis. Tout le reste est littérature, boniments et propagande médiatique. Washington ne fait pas la fine bouche quand il s'agit de choisir ses hommes de main dans les montagnes afghanes, dans les Balkans, le Caucase ou le bled algérien. Pourquoi l'Europe resterait-elle paralysé devant les discours tenus par des ignorants (ou de faux ignorants dûment stipendiés) dans les gazettes bien-pensantes ou sur les ondes de télévisions commerciales? Un synergétiste averti en vaut deux.
Gilbert SINCYR.
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vendredi, 09 avril 2010
Pas d'Europe unie sans la Russie!
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004
Pas d'Europe unie sans la Russie
Article de Vladimir Simonov,
commentateur politique de RIA-Novosti, 24 février 2004.
Les ultimatums posés à la Russie dans l'histoire contemporaine n'ont jamais aidé leurs auteurs à atteindre leurs objectifs.
La déclaration conjointe adoptée lundi à Bruxelles à la rencontre des chefs des diplomaties des pays membres de l'Union européenne rappelle beaucoup un ultimatum. L'Union européenne évoque devant la Russie les "graves conséquences" qu'entraînerait son refus d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération conclu en 1997 aux nouveaux pays qui adhéreront à l'UE le 1er mai.
Moscou souhaite revoir cet accord, car la Russie a des échanges commerciaux avec les pays d'Europe de l'Est, nouveaux membres de l'Union européenne en vertu de traités dont les délais n'expireront pas vers mai prochain, loin s'en faut.
L'UE s'y oppose catégoriquement. Selon la déclaration adoptée à Bruxelles, l'Accord de partenariat et de coopération doit s'étendre automatiquement aux nouveaux membres du club européen. Bruxelles laisse entendre par là que l'élargissement de l'Union européenne est une affaire intérieure de l'organisation et qu'elle le restera même si cela ne plaît pas à Moscou. Mais le problème est ailleurs: les belles formules de la "Stratégie générale de l'UE à l'égard de la Russie", document fondamental adopté en juin 1999 par le Conseil de l'Europe à Cologne, garderont-elles leur sens après l'élargissement de l'UE? Ce document mentionne maintes fois des objectifs stratégiques de l'UE comme "l'intensification de la coopération avec la Russie", la création d'une "Russie prospère", d'une "économie de marché florissante dans l'intérêt de tous les peuples de la Russie", etc.
Cependant, Bruxelles ne peut pas ne pas comprendre que l'extension automatique des normes de l'Accord de partenariat et de coopération à 10 nouveaux membres de l'UE portera un coup dur aux intérêts économiques de la Russie. Les dizaines de traités et d'accords commerciaux et économiques qui sont aujourd'hui en vigueur seront résiliés. L'exportation d'aluminium, de céréales, d'engrais chimiques et de combustibles nucléaires vers l'Europe centrale et en Europe de l'Est se heurtera à une multitude de facteurs négatifs.
Bref, selon les estimations des experts russes et occidentaux, l'élargissement d'après la variante que Bruxelles essaie d'imposer à Moscou causera à l'économie russe un préjudice d'au moins 300 millions d'euros, ce qui permet de juger des propos sur le souci de créer une "Russie prospère".
Il est à remarquer qu'en refusant à Moscou le droit de défendre ses intérêts contre les conséquences négatives de l'élargissement de l'UE, ses membres n'ont pas l'intention de sacrifier leurs propres droits à l'autodéfense.
Ainsi, 14 des 15 membres de l'Union européenne adoptent en hâte, ces derniers mois, toutes sortes de lois et de normes qui leur permettraient de réduire considérablement l'arrivée d'immigrés des pays qui adhéreront au club européen le 1er mai. La Belgique introduit des restrictions sur l'octroi des permis de travail qui seront en vigueur pendant les deux années suivant l'élargissement de l'UE, sans donner d'éclaircissements à ce sujet. L'Allemagne prévoit de prolonger ces restrictions jusqu'à 7 ans. Les Pays-Bas établissent le quota de 22 000 ouvriers immigrés par an pour ceux qui arrivent des pays d'Europe de l'Est. La Grande-Bretagne les prive de la plupart des allocations sociales.
Personne n'a l'intention d'étendre automatiquement aux nouveaux membres de l'Union européenne les règles conformes à la situation précédant le 1er mai 2004.
Se rendant compte de l'absence de logique des exigences présentées à Moscou d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération à 25 pays (aujourd'hui, il concerne 15 pays), Bruxelles veut noyer cette iniquité dans son mécontentement face à la politique intérieure des autorités russes.
Dans la même déclaration conjointe, les ministres des Affaires étrangères de l'UE rappellent la violation des droits de l'homme en Tchétchénie, "l'imperfection du système électoral russe", ils proposent à Moscou de ratifier dans les plus brefs délais le protocole de Kyoto sur le réchauffement du climat global et de récupérer les immigrés illégaux russes expulsés par les pays de l'UE.
Moscou connaît ses côtés faibles mieux que n'importe quel critique. La Russie est prête à accepter graduellement les valeurs européennes, mais, pour l'instant, elle déploie ses efforts principaux en vue de remplacer l'économie centralisée par l'économie de marché. La Russie traverse une période transitoire dramatique et voudrait compter sur la compréhension, la coopération et le partenariat de l'UE, et pas seulement sur les observations critiques formulées sur un ton sans appel à son adresse.
Pour l'instant, Moscou soupçonne de plus en plus que l'élargissement de l'Union européenne dans sa variante actuelle représente probablement une tentative de créer un espace européen sans la participation de la Russie, ou bien une zone géopolitique où le rôle réservé à la Russie serait secondaire, celui de pays de seconde zone.
Multipliant les prétentions et les exigences adressées à Moscou, Bruxelles méprise en même temps les intérêts nationaux de la Russie. L'exigence d'étendre automatiquement l'Accord de partenariat et de coopération aux nouveaux membres de l'UE ne fait que mettre en lumière un problème plus important. Le mémorandum du ministère russe des Affaires étrangères envoyé fin janvier à la Commission européenne en parle de manière plus détaillée. L'élargissement de l'Union européenne serait moins douloureux, laisse entendre ce document, si les milieux dirigeants de Bruxelles comprenaient mieux ce que la Russie veut obtenir de l'UE.
Elle ne veut rien d'extraordinaire et, d'autant moins, rien d'injustifié du point de vue des intérêts nationaux réels de la grande puissance européenne qui assure 36 % des livraisons de gaz et 10 % de celles de pétrole aux pays de l'UE.
La Russie voudrait participer plus dignement à l'adoption de décisions au sein de l'Union européenne, à plus forte raison après l'adhésion à cette organisation des pays d'Europe centrale et d'Europe de l'Est, ses partenaires économiques traditionnels. Moscou saluerait les tarifs commerciaux plus équitables de l'UE pour l'acier, les produits pharmaceutiques, le matériel aéronautique et les technologies nucléaires russes.
La Russie ne comprend pas non plus pourquoi l'Union européenne hésite à inviter l'Estonie, surtout la Lettonie, c'est-à-dire ses nouveaux membres, à garantir l'accès aux valeurs européennes pour la minorité russophone de ces pays, notamment la liberté d'étudier et de développer sa culture en langue maternelle.
Moscou compte sur une attitude moins indifférente de Bruxelles vis-à-vis du problème du transit de Kaliningrad et, dans un avenir prévisible, envers les voyages sans visas entre la Russie et l'UE.
Le problème principal se profile derrière cette avalanche de souhaits, de prétentions et de remarques critiques qui s'accroît dans les rapports entre la Russie et l'Union européenne: dans quelle mesure Bruxelles est-il prêt au partenariat stratégique réel, et non déclaratif, avec Moscou, partenariat décrit d'une manière si attrayante dans l'Accord de 1997 ? D'ailleurs, il ne faut pas oublier un axiome: il est impossible de créer la communauté paneuropéenne sans la présence de la Russie.
Vladimir SIMONOV.
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mercredi, 07 avril 2010
La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
È giusto buttare via il bambino insieme all’acqua sporca?
Dal momento che la geopolitica ha un’origine in gran parte tedesca, e poiché è servita a razionalizzare, in parte, gli obiettivi di guerra della Germania nelle due guerre mondiali, la cultura liberaldemocratica oggi dominante l’ha sdegnosamente rigettata, insieme ai vecchi e lugubri armamentari del nazismo.
Tuttavia, a parte il fatto che le potenze liberaldemocratiche - Stati Uniti e Gran Bretagna in testa - perseguono, con altri nomi e sotto alte maschere, un obiettivo strategico globale molto simile a quello che la geopolitica, tedesca e non, indicava come proprio oggetto di studi, ci sembra che molta confusione ipocrita e molta voluta ambiguità siano alla radice di questa operazione di rifiuto e di radicale rimozione dal salotto buono della cultura odierna.
Fra parentesi, osserviamo che si tratta della stessa confusione ipocrita e della stessa voluta ambiguità che hanno presieduto all’abbandono degli studi geopolitici in Italia, dopo che essi avevano ricevuto un impulso originale fra il 1939 e il 1942, ad opera della omonima rivista e degli studiosi Giorgio Roletto ed Ernesto Massi dell’Università di Trieste. Caduto il fascismo, anche la geopolitica italiana è stata gettata nel cestino della storia, come un lontano cugino impresentabile, di cui doversi vergognare tra la gente “per bene”.
Dunque: in primo luogo, la geopolitica non è solo di origine tedesca, ma anche inglese e americana; anzi, a fondarla è stato uno studioso svedese, Rudolf Kjellen, nel 1904. E la sua idea fondamentale, ossia la contesa naturale ed incessante fra le potenze marittime o talassocratiche e quelle continentali, deriva dal libro di uno studioso inglese, Sir Halford Mackinder, «The Geographical Pivot of History».
In secondo luogo, anche la geopolitica tedesca non è affatto un prodotto del nazismo e la si può benissimo immaginare anche senza Hitler. Il terreno è stato preparato dalla geografia politica di Friedrich Ratzel (1844-1904) e il suo massimo esponente è stato Karl Haushofer (1869-1946) che non era nazista, anzi che ebbe un figlio giustiziati dai nazisti, ma era piuttosto un militare conservatore della vecchia scuola, le cui idee fondamentali si concretizzarono fra due eventi che precedettero entrambi l’avvento del nazismo: da un lato il “Drang nach Osten”, la “marcia verso Oriente” della Germania guglielmina, che sembrò concretizzarsi con la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad; dall’altro la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e il fortissimo sentimento di frustrazione nazionale che si impadronì allora della Germania, sotto il peso del punitivo trattato di Versailles.
La Germania è una potenza continentale e sempre i suoi governi hanno ragionato in termini di politica continentale. La corsa all’accaparramento delle colonie, nel 1884, fu una eccezione alla regola, concessa da Bismarck per dare un contentino agli ambienti della Marina e a taluni settori industriali e finanziari; ma la rivendicazione delle colonie perdute non sarebbe stato che un elemento del tutto secondario nel disegno rivendicazionista di Hitler.
Viceversa, la Gran Bretagna è sempre stata una potenza marittima il cui obiettivo è quello di impedire che, sul continente europeo, si affermi una potenza egemone, ciò che metterebbe in forse i suoi interessi commerciali e strategici; per questo essa ha sempre profuso grandi somme di denaro per armare delle coalizioni contro la potenza egemone del momento, che fosse la Francia di Luigi XIV o di Napoleone, oppure la Germania di Guglielmo II e, poi, di Hitler.
Altrettanto evidente che, per Mackinder, il potere talassocratico fosse di segno positivo, mentre per Haushofer era quello continentale a rappresentare il “bene”: ciascuno vede la verità secondo il proprio specifico angolo visuale. Le potenze marittime sono isole e arcipelaghi (Gran Bretagna, Giappone) o penisole (Italia); quelle continentali sono al centro dei continenti (Germania) o, spingendosi da una costa all’altra, appaiono in grado di unificarli (Russia, poi Unione Sovietica; Stati Uniti; e, oggi, anche la Cina).
Per questo la Gran Bretagna non voleva né poteva rinunciare a Gibilterra, a Suez, ad Aden, a Singapore e Hong Kong, a Città del Capo e alle Isole Falkland: perché solo per mezzo di quelle basi strategiche avrebbe potuto stringere in una morsa le potenze continentali. E per questo la Germania, in entrambe le guerre mondiali, ha puntato a est, al grano dell’Ucraina, al petrolio della Romania e poi del Caucaso, al ferro della Svezia, alle immense steppe dell’Asia centrale: perché solo così avrebbe potuto spezzare l’accerchiamento marittimo e l’inevitabile strangolamento economico cui, con il dominio inglese dei mari, era inevitabilmente esposta.
Ma una cosa è certa: che, mentre per la Gran Bretagna la posta in gioco era la conservazione dell’impero coloniale e, quindi, del benessere legato allo sfruttamento di immense risorse mondiali e alla penetrazione commerciale nei più lontani mercati, per la Germania invece (o, prima di essa, per la Francia e, dopo di essa, per l’Unione Sovietica) la posta in gioco era, in un certo senso, la pura e semplice sopravvivenza. Perciò, a dispetto di tutte la apparenze, le guerre di Napoleone contro le varie coalizioni finanziate dall’Inghilterra erano essenzialmente difensive, come lo furono quelle di Hitler, ivi compreso l’attacco all’Unione Sovietica, spada continentale dei banchieri della City Londinese (e di Wall Street); mentre le guerre condotte e soprattutto finanziate dalla Gran Bretagna, nel corso di oltre due secoli, contro la potenza continentale di turno, a partire dalla Guerra dei Sette anni (1756-63), furono guerre prettamente offensive.
Entrambe le guerre mondiali possono essere considerate come un gigantesco scontro geopolitico fra le potenze talassocratiche e quelle continentali.
Nella prima, la potenza marittima egemone (Gran Bretagna), alleata con due potenze continentali marginali dell’area euroasiatica (Francia e Russia) e con due potenze extraeuropee, una continentale ed una marittima (Stati Uniti e Giappone), nonché con una potenza marittima europea (Italia), ha avuto la meglio sulle due potenze continentali europee (Germania e Austria-Ungheria) e su una potenza continentale marginale (Impero Ottomano).
Nella seconda, una potenza continentale e due potenze marittime dell’area euroasiatica (Germania, Italia e Giappone) hanno tentato, fallendo, di spezzare l’accerchiamento del maggiore potenziale integrato, marittimo e terrestre, che esistesse a livello mondiale (Gran Bretagna e Stati Uniti), alleato - per l’occasione - con l’altra potenza continentale (Unione Sovietica; la Francia essendo stata eliminata già nelle primissime fasi del conflitto).
Insomma, si arriva sempre alla medesima conclusione: che il dominio dei mari, alla lunga, assicura la vittoria, perché consente lo sfruttamento delle maggiori fonti di ricchezza mondiali; ma che le potenze marittime, per strappare la decisione finale, devono o allearsi con delle potenze terrestri, di cui si servono come di altrettante spade continentali, oppure devono trasformarsi esse stesse anche in potenze continentali: come è stato il caso della Gran Bretagna, che, attraverso colonie-continenti come l’Australia, ha decentrato i propri gangli vitali; tanto che è stato osservato come neppure l’invasione tedesca dell’Inghilterra, nel 1940, l’avrebbe costretta alla resa, poiché essa avrebbe potuto benissimo continuare la lotta trasferendo il proprio governo nel Canada e potendo contare sull’appoggio sempre più deciso degli Stati Uniti.
Infine potremmo dire che, negli ultimi decenni, la superpotenza americana (continentale, ma divenuta anche marittima per le necessità della sua politica imperiale), dopo aver avuto la meglio sulla superpotenza sovietica (anch’essa continentale, e anzi bicontinentale, improvvisatasi marittima per ragioni strategiche globali), deve ora fronteggiare l’ascesa irresistibile di una potenza squisitamente continentale, la Cina - e, in prospettiva, anche l’India - divenuta erede dello slogan panasiatico lanciato dai Giapponesi durante la guerra del Pacifico.
Ma sarà bene delineare, adesso, un rapido profilo della figura e dell’opera del controverso “padre” della geopolitica, Karl Haushofer, servendoci della penna di un valente studioso italiano.
Ha scritto Alessandro Corneli, esperto di relazioni internazionali e strategia, nel suo volume «Geopolitica è. Leggere il mondo per disegnare scenari futuri» (Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2006, pp. 123-27):
«Karl Haushofer (1869-1946) è il pensatore geopolitico tedesco per eccellenza, ma il suo nome è Anche legato alla parabola nazista. Ufficiale di carriera senza particolari meriti, in missione diplomatica in Estremo Oriente Giappone e Manciuria, scrive le sue impressioni, restando particolarmente colpito dalla corsa alla modernizzazione dell’Impero del Sol Levante. Durante la partecipazione alla prima guerra mondiale legge “Lo Stato come organismo” dello svedese Kjellén e apprende il significato della geopolitica: scienza dello Stato in quanto organismo geografico, così come si manifesta nello spazio; lo Stato inteso come Paese, come territorio, e come impero. Convinto che la guerra in corso sia una guerra di annientamento della Germania, vuole che il suo paese sia una potenza mondiale. Così, all’indomani della sconfitta, ormai cinquantenne, fa il professore , il conferenziere, e dà vita alla “Rivista di geopolitica”, imponendosi come un’autorità intellettuale.
Nel 1919 aveva conosciuto il giovane Rudolf Hess (1894-1987). Hess, volontario nella prima guerra mondiale, si era arruolato nel reggimento List, in cui combatteva anche un ancora oscuro caporale di origine austriaca, Adolf Hitler, che lo convinse a entrare in politica, nel 1920, abbandonando l’università di Monaco dove stava per laurearsi in filosofia. Stretta amicizia con Hermann Göring (1893-1946, che durante la guerra aveva acquistato fama di grande aviatore e fu poi il creatore della’armata aerea tedesca, anche se fallì l’impresa contro la Royal Air Force inglese nella Battaglia d’Inghilterra), Hess partecipò al fallito putsch nazista di Monaco nel 1923, e fu arrestato insieme a Hitler. In carcere, Hess aiutò il futuro Führer a scrivere il “Mein Kampf” (“La mia battaglia”), opera destinata a diventare il testo sacro del nazismo. Da quel momento egli divenne uno dei più stretti collaboratori di Hitler, tanto da esserne considerato il suo delfino (che in gergo politico indica il successore alla guida di un partito). Hess, ma non era il solo, coltivava studi esoterici. Per il tramite di Hess, Haushofer incontrò Hitler almeno una dozzina di volte tra il 1922 e il 1938, ma non ne resta traccia documentaria. E soprattutto nasce il suo rapporto ambiguo con il nazismo. Dapprima, almeno fino al 1939, lo studioso riconosce al Führer il merito di avere ristabilito l’ordine, di avere unificato tutti i tedeschi in un solo Stato (Reich), di avere rimediato alle ingiustizie che il trattato di Versailles aveva imposto alla Germania vinta, considerata anche colpevole di avere scatenato la guerra. Ma la sua natura d’intellettuale un po’ distaccato dalla realtà, in difficoltà a capire i politici e i loro giochi tortuosi, di strenuo difensore della coerenza delle sue teorie, non gli permise di integrarsi nel sistema, tanto è vero che non ebbe mai la tessera del partito. In fiondo, egli era rimasto un nazionalista conservatore, un esponente della società tedesca guglielmina, aristocratica e gerarchica, , di cui erano espressione le alte cariche dell’esercito, diffidente nei confronti dei “parvenus” un po’ plebei che affollavano il mondo nazista. Nel 1939 ci fu anche uno screzio profondo: nel libro “Le frontiere “ aveva sollevato la questione della popolazione tedesca del Tirolo meridionale, annesso all’Italia nel 1919, e la cosa doveva turbare i rapporti tra Hitler e il suo principale alleato, Benito Mussolini,.
L’inizio della guerra fece registrare un progressivo isolamento di Haushofer. La moglie, di discendenza non ariana, era stata salvata per amicizia politica; uno dei figli, Albrecht, si trovò implicato, nell’aprile 1941q, in un complotto per arrivare a una pace separata; il 10 maggio dello stesso anno, il suo amico e protettore, Hess, compì il misterioso volo in Inghilterra e venne catturato dagli inglesi; la “Rivista di geopolitica” si dibatteva tra molte difficoltà, tra la necessità di giustificare la politica hitleriana e il pensiero del suo fondatore, che nell’ottobre 1945 dichiarerà che dopo il 1933, cioè dopo l’ascesa di Hitler al potere, la rivista stessa era sempre stata “sotto pressione”. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Haushofer venne sospettato e incarcerato: il figlio Albrecht era stato già giustiziato in aprile. Arrestato dagli americani dopo la resa della Germania (8 maggio 1945), Haushofer fu ascoltato come testimone durante il processo di Norimberga: messo a confronto con Hess, questi dichiarò di non conoscerlo. Il 10 maggio 1946 Haushofer e la moglie si suicidarono.
Affrontiamo adesso gli elementi fondamentali del suo pensiero geopolitico, dicendo anzitutto che è figlio della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale: il problema era a quel punto di andare oltre la conoscenza di sé, chiesta da Ratzel, e di fondare un progetto politico ricavandolo dalla geopolitici, perché la geopolitica, come affermava Haushofer, rappresenta il ponte tra il sapere e il potere, una specie di autocoscienza che conduce alla decisione.
Il lavoro dei precedenti studiosi viene utilizzato a fondo. Anzitutto la nozione di spazio vitale aggravato dalle ingiustizie del trattato di Versailles. In secondo luogo, e questo è un suo contributo originale, l’insistenza sulle idee globali o “pan-idee”, come il pangermanesimo, il panslavismo o il panasiatismo. Sono queste idee in grado di costruire vasti consensi, al di là di quelli che si possono costruire intorno a un piccolo stato, e anzi sono, rispetto ai confini statali, transfrontaliere, disegnando grandi complessi continentali. L’Impero Britannico, secondo Haushofer, è destinato a essere stritolato da queste pan-idee: l’India, per esempio, non si riconoscerà in un pan-britannismo. L’Unione Sovietica, invece, potrà far leva, data la sua estensione su due continenti, sulle idee panasiatica ed euroasiatica; gli Stati Uniti, a loro volta, sulle idee panamericana e pan pacifica.
Bisogna riconoscere a Haushofer una fantasia non priva d’illuminazioni anticipatrici, , anche se egli generalizza l’dea di alcuni fatti concreti, quali l’idea di “sfera di coprosperità asiatica” con cui il Giappone giustificava il proprio espansionismo o addirittura l’idea di una Comunità Economica Europea lanciata, tra il 1940 e il 1944, dal ministero dell’economia e presidente della Reichsbank e sostenuta dal mondo industriale tedesco: una comunità, beninteso, di cui la Germania sarebbe stata il fulcro. Ma non è ciò che sta accadendo adesso per via pacifica?
Ciò che i geopolitici tedeschi aborrivano sopra ogni altra cosa era il modello imperiale britannico e, accanto a coloro che sostenevano la possibilità di distruggerlo con una guerra vittoriosa, c’erano altri che pensavano di aggirarlo e in qualche modo disgregarlo. La seconda strada, per esempio, era alla base del progetto della ferrovia che, iniziata nel 1903, avrebbe dovuto collegare Berlino con Baghdad passando per Istanbul e che doveva coronare il sogno orientale di Guglielmo II, protagonista di un celebre viaggio a Gerusalemme e di un incontro con il gran muftì., al quale l’imperatore aveva promesso tutto il suo appoggio contro il sionismo, considerato lo strumento di penetrazione della Gran Bretagna in Medio oriente. Se il disegno fosse riuscito, analogamente alla spedizione di Napoleone in Egitto, , sarebbe stato spezzato l’accerchiamento britannico che andava dall’Africa (Gibilterra) all’Asia del sud-est (Singapore, Hong Kong).
Molte di queste idee sono proliferate dopo la seconda guerra mondiale. A patte la linea antisionista, antiamericana e antiamericana ben radicata in tutto il mondo islamico, specie nel Medio Oriente, idee come “l’Asia agli asiatici” o “l’Africa agli africani”, e lo stesso movimento dei “non allineati” o terzomondisti, e recentemente l’opposizione alla globalizzazione, considerata il nuovo strumento di dominio mondiale da parte degli anglo-americani, trovano molti spunti nell’opera dei geopolitici tedeschi e in particolare di Haushofer.
Quando la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin firmarono il patto Molotov Ribbentrop (23 agosto 1939), che prevedeva la spartizione della Polonia e quindi l’inizio della guerra tedesca per la conquista a est della spazio vitale, Hashofer vide che l’incubo di Mackinder, cioè la concentrazione dell’Heartland a spese delle potenze marittime, si era realizzato e definì quel’evento il più grande e importante cambiamento nella politica mondiale. Entusiasmo prematuro, non solo perché il Giappone non condivideva l’alleanza russo-tedesca, mirando a erodere la presenza russa in Asia, ma soprattutto perché a meno di due anni da quella firma la Germania attaccò l’Unione Sovietica.
Un Paese inoltre Haushofer sottovalutò, come del resto Hitler: gli Stati Uniti, , considerati come una potenza che si era chiusa nell’isolazionismo, gelosa del proprio benessere (nonostante la crisi devastante del 1929), soprattutto una società così impregnata di individualismo che non sarebbe stata in gradi di esprimere una forte volontà. Secondo Hitler una plutocrazia giudeizzata, concentrata sugli affari, priva di virtù guerriere, non era portata per la guerra. Un abbaglio reso possibile dai pregiudizi, come spesso accade. Eppure, proprio gli Stati Uniti avevano a loro vantaggio, a guerra scoppiata, fattori determinanti: la sicurezza del loro territorio, una straordinaria capacità industriale, produttiva e organizzativa, e poi due alleati all’interno dello stesso Heartland che la Germania aveva pensato di avere posto sotto il proprio controllo: la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica.»
L’obiezione più forte che i moderni studiosi di tendenza liberaldemocratica muovono all’idea stessa della geopolitica è che, nelle condizioni proprie seguite alla seconda guerra mondiale e alla fine della “guerra fredda”, è anacronistico pensare ancora la politica come lotta per l’espansione territoriale, dato che i sistemi democratici non punterebbero all’ingrandimento del proprio territorio, ma all’espansione di pacifiche relazioni commerciali e alla libertà dei mari.
Tutte queste buone intenzioni sono state compendiate nella cosiddetta Carta Atlantica, sottoscritta dal capo del governo inglese Churchill e dal presidente statunitense Roosevelt nel 1941 (quando, si noti, gli Stati Uniti d’America e i governi dell’Asse non erano ancora formalmente in stato di guerra gli uni contro gli altri).
Tuttavia, vi sono pochi dubbi sul fatto che dietro quelle formule si celava, da un lato, la tenace, rancorosa volontà di Churchill di punire la Germania e l’Italia e di conservare a ogni costo l’Impero britannico, l’India specialmente (anche se, poi, le cose sono andate altrimenti); e, dall’altro lato, la determinazione americana di rilanciare la propria economia - mai uscita dalla crisi del 1929, nonostante l’apparato propagandistico del New Deal - ed anche il proprio ruolo politico mondiale, mediante la colonizzazione finanziaria del mondo intero.
C’è, poi, bisogno di notare che molte idee, e persino molti uomini, della geopolitica nazista, sono passati, quatti quatti, proprio nei meccanismi strategici del Pentagono dopo il 1945, tanto che si può parlare di una autentica ripresa di quei temi e di quelle concezioni in chiave liberaldemocratica? Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, su questo stesso sito (intitolato «Da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich», pubblicato in data 01/02/2008), per cui rimandiamo il lettore a quelle riflessioni.
È davvero insopportabile l’ipocrisia del totalitarismo democratico: il quale, mentre respinge con orrore tutto ciò che la cultura politica tedesca (e italiana) ha prodotto negli anni del fascismo, contemporaneamente si serve di gran parte del suo armamentario ideologico, rivisto e riverniciato, per perseguire sempre più spregiudicatamente i propri disegni di dominio mondiale.
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L'Europe à la croisée des chemins
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004
L'EUROPE A LA
CROISEE DES CHEMINS
Trouvé sur : http://www.mr-bretagne.org/
Comme il était prévisible, l'attaque américaine contre l'Irak a eu lieu, sans l'accord de l'ONU dont l'importance et le rôle réels apparaissent à leur juste mesure : dérisoires.
Nous ne faisons pas nôtre l'opposition "onusiste" et pacifiste à la guerre, parce que nous ne sommes pas pacifistes et que nous ne croyons pas à la possibilité qu'une organisation internationale telle l'ONU puisse pacifier définitivement la planète. L'ONU peut permettre de régler certains conflits marginaux à condition que les puissances concernées s'accordent sur un mode de règlement, mais elle ne peut pas mettre fin à des différends entre grandes puissances (c'est l'équilibre des puissances militaires qui a empêché qu'un conflit éclate entre les USA et l'URSS, pas l'ONU), ni empêcher une grande puissance d'agresser un petit pays (comme c'est le cas en Irak).
Si nous sommes opposés à l'attaque américaine, c'est parce que nous n'acceptons pas qu'un Etat nie la souveraineté d'un autre Etat, même au nom de principes qui se veulent généreux. L'argument des américains qui afforment vouloir libérer l'Irak d'un dictateur parfaitement odieux n'est pas satisfaisant parce qu'il n'y a que cinquante démocraties sur la planète et cent cinquante dictatures ; pourquoi s'en prendre d'abord à l'Irak, si ce n'est parce que le sous-sol de cet Etat recèle des quantités importantes d'or noir ? Nous reconnaissons bien là l'hypocrisie de la politique américaine qui revêt toujours ses actions militaires d'un voile moral, même quand elles sont motivées par des intérêts économiques ou géopolitiques.
Nous refusons l'idée qu'un ou plusieurs Etats décident d'imposer à l'ensemble des peuples une culture et une civilisation uniques : celles de l'occident américain en l'occurrence. Les peuples doivent choisir librement leur mode de vie et leur organisation politique et économique, telle est la règle essentielle de notre vision du monde ; nous sommes radicalement hostiles à toute forme d'impérialisme et de colonialisme, y compris bien sûr de la part des Etats européens.
Notons au passage que la volonté affichée par les Etats-Unis de démocratiser l'Irak est puérile car la démocratie ne se décrète pas de l'extérieur ; la démocratie ne peut surgir que des profondeurs culturelles d'un peuple.
Les mérites de la deuxième crise irakienne
Les récents évènements concernant le règlement de la question irakienne ont eu le mérite de mettre en évidence un certain nombre de réalités du plus grand intérêt : l'incohérence et l'inexistence politique de l'Europe (des quinze et des vingt-cinq) et l'impossibilité éclatante d'une action diplomatique commune ; l'opposition entre l'opinion des peuples et celle des élites politiques dans de nombreux pays européens (Espagne, Italie…) ; l'attitude agressive des Etats-Unis vis-à-vis des pays qui refusent de s'aligner sans discussion sur leurs positions ; l'attitude des Allemands qui, pour la première fois depuis 1945, s'opposent frontalement aux Américains ; le refus concerté de la France, de l'Allemagne et de la Russie d'accepter la politique unilatérale agressive des USA ; la facticité de l'ONU (à quoi sert une organisation qui ne peut prendre aucune décision opposée à la volonté de la superpuissance du moment ?) et l'obsolescence de l'OTAN qui n'a plus de raison d'être compte tenu de la disparition de l'Union soviétique, qui ne sert plus qu' à maintenir les pays d'Europe centrale dans le giron américain et qui, de plus, est désormais profondément divisée. Par ailleurs, elle a permis de pointer les pays et les personnalités inconditionnellement soumis aux volontés américaines.
Ainsi Messieurs Blair et Aznar peuvent être dé-sormais considérés comme des personnages néfastes d'un point de vue européen ; il semble que ce dernier envisage de devenir Président de l'Union Européenne, avec l'appui des USA sans doute qui s'assureraient ainsi du contrôle de l'Europe ! (Notons que l'ineffable Madelin a montré à cette occasion son vrai visage qui est celui d'un harki des Américains et des multinationales; le Financial Times l'a consacré du titre de "plus sûr des hommes politiques français" !).
Par ailleurs, la plupart des Etats d'Europe centrale ont eu l'occasion d'afficher leur inféodation aux Etats-Unis, ce qui pose un problème majeur : celui de l'impossibilité de construire une Europe politique dotée d'une diplomatie et d'un système de défense autonomes avec ces Etats dans l'état actuel des choses. Le cas de la Pologne, par exemple, qui après avoir marchandé son entrée dans l'UE, a commandé des avions de guerre aux Etats-Unis avant de s'aligner sur les choix diplomatiques américains, illustre parfaitement la problématique de la construction européenne.
Pour un monde multipolaire
Le refus d'un monde dominé par une superpuissance est un des impératifs prioritaires ; il est plus que jamais évident qu'une autorité "morale" telle que l'ONU , sans soubassement populaire ni puissance autonome, n'est qu'une fiction intellectuelle qui ne résiste pas à l'épreuve des faits. Depuis la disparition de l'Union Soviétique, l'ONU est l'exécutrice des volontés américaines ; le "machin" qu'évoquait le Général de Gaulle ne peut être le garant de la paix, seul l'équilibre des puissances peut la permettre tout en autorisant l'indépendance des peuples. C'est à la construction d'un monde multipolaire d'inspiration gaullienne qu'il faut œuvrer afin de réduire l'unilatéralisme américain ; le mythe d'un pouvoir supra-étatique s'avère être, pour la seconde fois, une farce (la première expérience de ce type fût la SDN qui s'acheva comme l'on sait).
Messianisme mou et messianisme dur
Le refus français de s'aligner sur la politique américaine a surpris tout le monde et nous a fait plaisir mais il ne nous satisfait pas dans la mesure où il s'appuie sur une conception juridique et morale des relations internationales ; or comme nous l'avons déjà dit, cette conception conforme à l'esprit des Lumières a toujours été battue en brèche par la réalité brutale. La conception des radicaux-socialistes Chirac et Villepin en matière de politique internationale est un messianisme mou dont la France, avant-garde de l'idéologie universaliste, serait le porte-voix. Ce messianisme mou, qui pense pacifier le monde et convaincre tous les peuples de la planète d'adopter la civilisation libéralo-occidentale à coups de sermons moralisateurs, s'oppose mollement au messianisme dur professé par les Etats-Unis ; ces deux messianismes ont le même but : créer un monde unifié, libéral, occidentalisé, individualiste et universaliste. La seule divergence réside dans la méthode: le discours moral et juridique chez les Français, la guerre chez les Américains.
Plutôt que de faire des discours aussi creux que moralisateurs, Chirac et Villepin (dont l'action en Côte d'Ivoire a été couronné du succès que l'on sait !) feraient mieux de réfléchir aux moyens de doter l'Europe d'un système militaire efficace et dissuasif. La propension des hommes politiques européens, et français en particulier, à cultiver les rêveries kantiennes est un signe du déclin du courage et de la volonté.
La vision du Général
Au cours d'une conférence de presse qui eût lieu le 29 mars 1949, le Général de Gaulle dit : "Moi je dis qu'il faut faire l'Europe avec pour base un accord entre Français et Allemands (…). Une fois l'Europe faite sur ces bases, alors, on pourra se tourner vers la Russie. Alors, on pourra essayer une bonne fois pour toutes de faire l'Europe tout entière avec la Russie aussi, dut-elle changer son régime. Voilà le programme des vrais Européens. Voilà le mien". Ce point de vue prophétique dut sembler alors utopique et même fou, mais aujourd'hui, sa concrétisation est rendue possible par la disparition du calamiteux communisme soviétique et par l'intelligence géopolitique du Président Poutine qui est sans nul doute le plus intéressant des hommes politiques européens actuels.
Poutine ou le retour de la Russie en Europe
Au cours d'un discours remarquable prononcé en allemand devant le Bundestag le 25 septembre 2001, le Président Poutine disait : "Je crois que l'Europe ne peut à long terme affermir sa réputation de puissant et indépendant centre de la politique mondiale seulement si elle unifie ses moyens avec les hommes, les territoires et les ressources naturelles russes ainsi qu'avec le potentiel économique, culturel et de défense de la Russie”. Le Président russe nous a fait une proposition inespérée qu'il serait déraisonnable de refuser, tant il est évident que les ressources énergétiques et minérales d'une part (la Russie est le deuxième producteur de pétrole et le premier producteur de gaz au niveau mondial) , les compétences techno-scientifiques de la Russie d'autre part (3600 scientifiques et ingénieurs pour 100000 habitants en Russie, pour 2600 en France) contribueraient à faire de la Grande Europe l'ensemble géopolitique le plus puissant et le seul à pouvoir être quasiment autarcique.
La réalisation du rêve "grand-européen" est désormais à notre portée mais comme le dit Emmanuel Todd (Ouest-France du 28/3/2003) : "Tout dépendra de l'entente des Européens, qui détiennent la puissance économique, et des Russes, qui possèdent la réserve énergétique et la capacité stratégique nucléaire. De la capacité des Européens à comprendre que la Russie n'est plus une menace, mais un partenaire".
Construction européenne : il faut changer de cap
Le processus de construction européenne en cours est ordonné à une vue-du-monde fondamentalement libérale et par conséquent universaliste et individualiste. La vision de l'Europe qui prévaut à Bruxelles est celle d'un espace économique ouvert à tous les flux et pouvant à terme absorber tout ou partie de la planète . L'Europe que nous construisent les eurocrates n'est pas une union des peuples européens afformant sa puissance et son indépendance, mais l'embryon d'une utopique cité mondiale. L'actuel projet européen tend à créer un "ventre mou" sans volonté de puissance et inféodé aux Etats-Unis (l'adhésion des pays d'Europe centrale va renforcer le poids des pro-américains qui seront majoritaires après 2004). Ce projet européen reposant sur une utopie moralisatrice et mondialiste, nous le rejetons.
Nous n'adhérons pas à cette utopie et nous souhaitons qu'elle avorte rapidement ; les premiers signes d'un échec prévisible sont déjà perceptibles tant du point de vue économique (montée sans fin du chômage, délocalisations innombrables) que politique (l'affaire des signataires du manifeste des Etats pro-américains par exemple).
Nous doutons de la capacité de la Convention sur la réforme des institutions européennes à sortir l'Union Européenne de l'ornière dans laquelle elle est enlisée et nous pensons qu'il serait plus réaliste de changer de cap en tirant un trait sur les derniers traités (Maastricht, Amsterdam et Nice) et en limitant l'objectif de l'Union à celle d'une union économique appliquant le principe de la préférence communautaire qui figure dans le Traité de Rome et pratiquant un protectionnisme mesuré.
Dans cette perspective, l'objectif serait de mettre de côté le projet fédéraliste qui n'est pas réaliste dans l'immédiat (sauf à prendre le risque de construire un ensemble incohérent aux plans politique et diplomatique) tant les divergences de point de vue en matière de politique internationale sont inconciliables pour l'instant, et de construire une Europe en plusieurs cercles : un cercle économique constitué par l'actuelle Union revue et corrigée (voir ci-dessus) qui pourrait passer des accords de coopération avec les pays d'Europe centrale et la CEI en attendant leur intégration future, un cercle techno-scientifique permettant de mener des programmes communs de recherche fondamentale ou appliquée, un cercle industriel concernant des programmes tels Airbus ou Ariane, un cercle diplomatique et de défense construit autour d'un Pacte Européen se substituant au Traité de l'Atlantique Nord qui pourrait rassembler dans un premier temps la France, l'Allemagne et la Russie (l'axe Paris-Berlin-Moscou décrit par Henri de Grossouvre) et ceux des Etats plus petits qui seraient prêts pour une telle entreprise ; ainsi la Belgique et le Luxembourg.
Ce cercle de défense comprendrait un volet techno-scientifique et industriel visant à développer des matériels militaires spécifiquement européens. A ces quatre cercles, il conviendrait d'ajouter un cercle culturel visant à développer des programmes télévisuels et cinématographiques pan-européens mais aussi à promouvoir nos origines communes et la grandeur de notre civilisation à la fois une et diversifiée.
Le projet européen devrait se limiter à la "Grande Europe" définie par Yves Lacoste, laquelle comprend tout les pays situés au nord de la Méditerranée ainsi que les pays slaves (y compris la Russie, l'Ukraine et la Biélorussie), à l'exclusion de la Turquie qui n'est pas de culture européenne. Les Etats européens seraient libres d'adhérer à tous les cercles ou seulement à certains d'entre eux et ils auraient la possibilité de s'en retirer.
Ce dispositif aurait l'avantage de permettre la création d'une association d'Etats viable reposant sur une volonté résolue de construire une puissance européenne diplomatique et militaire, en permettant aux pays qui souhaitent rester indépendants d'une organisation militaire et diplomatique strictement européenne de le faire tout en participant au renforcement de l'Europe économique qui est déjà la première puissance économique de la planète. L'impossibilité de construire une Europe politique et militaire à quinze ou à vingt-cinq devient si évidente qu'à la fin mars, les autorités luxembourgeoises ont proposé de créer une association de défense commune rassemblant la France, l'Allemagne, la Belgique et le Luxembourg. Michel Barnier, membre de la Convention chargée de la réforme des institutions européennes, a clairement dit le 3 avril 2003 sur France Culture qu'une Union militaire et politique à quinze est rigoureusement impossible. Valéry Giscard d'Estaing, quant à lui, souhaite annexer au projet de constitution auquel il travaille, une déclaration d'indépendance de l'Europe (cette indépendance concerne d'abord les relations avec les Etats-Unis) ; ce faisant, il sait très bien que les Etats américanophiles ne pourront la signer, ce qui implique que l'Europe politique et militaire qu'il souhaite construire ne concernera qu'une partie de l'Europe de l'Ouest et du Centre (minoritaire sans doute).
Cette Europe en anneaux olympiques pourrait être une première étape vers une Europe plus intégrée ; peu ambitieux en terme d'intégration, ce projet aurait l'avantage de permettre des avancées importantes en terme de construction d'un pôle militaire et diplomatique spécifiquement européen, laquelle est une nécessité absolue parce que l'Europe doit devenir une grande puissance politique et militaire indépendante des Etats-Unis.
Puissance impériale et puissance tranquille
Les Etats-Unis qui croient avoir une mission divine consistant à imposer au monde entier leur civilisation et leur culture, ont entrepris de le faire par la force quand cela est nécessaire. Ce projet qui est à la fois totalitaire et psychopathe, ne pourra pas aboutir parce qu'en fait les USA surestiment leur force et sous-estiment leurs faiblesses.
Comme l'a mis en évidence Emmanuel Todd, les USA ne sont capables d'affronter que des petites armées du Tiers-Monde sous-équipées d'une part et d'autre part ils sont rongés par des maux bien visibles : affaiblissement scientifique et technique interne (le pourcentage de diplômés bac+3 et plus ne cesse de diminuer aux Etats-Unis depuis vingt ans), endettement des particuliers et des entreprises, déficit du commerce extérieur gigantesque et croissant (50 milliards de dollars en 1990 ; 450 milliards en 2002 ; plus de 500 milliards en 2003) qui traduit la surconsommation américaine, faible productivité, problèmes de cohésion sociale liés à la multi-ethnicité, dérive oligarchique enfin (une oligarchie liée aux milieux industriels d'une part et aux sectes protestantes fondamentalistes d'autre part maîtrise le pouvoir politique). Pour Todd, les Etats-Unis sont un colosse aux pieds d'argile qui finira par s'effondrer. Notre sociologue compare la situation des Etats-Unis à celle de la Rome finissante et en effet, comme la Rome du troisième siècle, les Etats-Unis ont besoin des ressources matérielles de l'Empire pour assurer le pain et les jeux à des citoyens jouisseurs qui ne sont même plus capables de se battre (pour cette guerre contre l'Irak, les Etats-Unis ont massivement fait appel à des mercenaires mexicains auxquels ils ont promis d'octroyer la nationalité américaine !).
Quel que soit le devenir des Etats-Unis, l'Europe ne peut rester indifférente à leur entreprise totalitaire et culturicide. Face à la volonté hégémonique américaine, nous devons répliquer en construisant une organisation militaire européenne indépendante et farouchement opposée à tout empiètement américain (ou autre).
Cette puissance européenne devrait être, comme le disait récemment Tsvetan Todorov sur France Culture, une " puissance tranquille", suffisamment puissante pour imposer le respect aux au-tres puissances mais sans volonté expansionniste et impérialiste d'une part et respectant la diversité des cultures et des civilisations d'autre part. Cette Europe cultivant son jardin (autocentrée en fait) mais disposant de moyens militaires importants et toujours prête à se défendre énergiquement, pourrait être, selon Todorov, un modèle à opposer à l'anti-modèle américain.
Notons que Todorov a affirmé au cours de cette émission radiophonique du 3 avril dernier, que le maintien d'une culture européenne spécifique passe nécessairement par la mise en place de frontières européennes suffisamment étanches . Il fallait oser le dire ; merci Monsieur Todorov !
Mikael Treguely.
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lundi, 05 avril 2010
Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003
Les Etats-Unis et l'Eurasie :
fin de partie pour l'ère industrielle
Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.
Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.
Les fins et les moyens de la géopolitique
Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.
Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.
L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environnement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières décennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.
La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).
Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.
Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.
A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).
Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.
Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.
La psychologie et la sociologie de la géopolitique
Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.
Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.
Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.
Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.
L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu
En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.
Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.
Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.
Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il, “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].
L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].
Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].
Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être domestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.
A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.
Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.
Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.
Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe
A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.
Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.
Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.
Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].
Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».
Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.
Insubordination dans les rangs
La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.
Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.
Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.
Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.
En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.
Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.
Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.
Le dilemme américain
Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.
Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.
Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].
Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.
Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.
La puissance du dollar est remise en question
Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].
Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.
Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].
Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.
Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.
Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].
Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.
Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.
Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.
Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.
Qui contrôlera l’Eurasie ?
Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.
Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.
Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.
La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.
Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.
Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP
Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.
Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.
Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.
Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.
C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.
NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.
Notes:
[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.
[2] Ibid., p. 31.
[3] Ibid., p. 36.
[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.
[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.
[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.
[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.
[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast
[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.
[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).
Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,
http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).
[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].
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samedi, 03 avril 2010
Le Corridor 8: Où est passé le huitième corridor?
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999
Le CORRIDOR 8 : Où est passé le huitième corridor ?
7 juin 1999
Je vous le donne en mille : le huitième corridor passe par Skopje, en Macédoine, à quelques kilomètres du Kosovo. Pourquoi n'en n'avons-nous jamais entendu parler, puisque nous vivons en démocratie, que nous nous permettons de bombarder des télévisions et des radios, de tuer des journalistes (coupables de faire de la propagande, et nous de l'information), pourquoi n'avons-nous jamais entendu parler des corridors VIII, X, IV et "dalmatien" ? Pourquoi ces projets, qui sont au cœur des politiques de tous les pays des Balkans, qui concernent directement le développement économique de l'Europe, nous ont-ils été cachés ? Pourquoi cet élément vital, dans la décision des peuples à entrer en guerre, a-t-il été occulté ?
Le corridor VIII relie le port albanais de Durres à Varna (Bulgarie) via Tirana, Kaftan, Skopje, Deve Bair, Sofia, Plovdiv et Burgas. Le corridor IV joint Dresde (Allemagne) à Istanbul (Turquie) en passant par Prague, Bratislava, Gjor, Budapest, Arad, Krajova, Sofia et Plovdiv. Des embranchements relient Nuremberg, Vienne, Bucarest et Constantza au tronçon principal.
Le corridor X traverse Salzbourg (Autriche), Ljubljana, Zagreb, Belgrade, Nis, Skopje, Veles et Thessalonique (Grèce). Des embranchements relient Graz, Maribor, Sofia, Bitola, Florina, Igoumenitza au tronçon principal.
Ces trois corridors de transport pan-européen (Pan-European Transport Corridors) font partie d'un projet plus global visant au développement des anciens pays du bloc soviétique, et à leur intégration à l'économie européenne. Au total, ce projet représente 18.000 kilomètres de routes, 20.000 kilomètres de lignes ferroviaires, 38 aéroports, 13 ports maritimes, 49 ports fluviaux. Le budget estimé, d'ici l'année 2015, est de 90 milliards d'euros La seule partie concernant les Balkans est estimée à 10,5 milliards d'euros. (Il s'agit ici d'estimations basses : les projets de développement à l'est sont répartis, au niveau européen, en de nombreux chapitres, et il est difficile d'en tirer rapidement vue globale ; de plus, cela concerne uniquement la partie financée par l'Union européenne, sans compter les Américains, très impliqués, les Turcs, ainsi que divers fonds privés ; ces chiffres sont donc certainement sous-évalués de beaucoup.) Ces chiffres sont éloquents : on parle ici de travaux pharaoniques à l'échelle d'un continent. En termes politiques, sociaux, économiques, il s'agit d'un des principaux projets de développement en Europe.
Evoquons, de plus, le projet grec de corridor "dalmatien", reliant le port italien de Trieste à la ville d'Igoumenista (Grèce), longeant la côte via l'Albanie, la Yougoslavie, la Bosnie et la Croatie, projet proposé à la mi-98, estimé à 3 milliards de dollars.
Pour finir, il faut parler d'un autre projet similaire aux corridors pan-européens, cette fois dans le Caucase et en Asie centrale, le programme TRACECA, lui aussi à l'échelle d'un continent. Son intérêt repose, pour l'économie occidentale, sur la jonction entre ce projet et l'Europe ("It had been recognised that one the weaknesses of the TRACECA route, in the context of the EU Tacis programme, was the lack of linkage between the western end and the European market", remarque formulé à Helsinky en 1997); ce lien repose donc sur les corridors IV et VIII, via le port de Varna. Ainsi les projets de développement des vingt prochaines années du continent européen reposent sur la réalisation de corridors traversant les Balkans. Sur le plan, vous remarquerez que le nœud central reliant les corridors VIII, X et IV est un triangle formé par Nis, Skopje et Sofia, dont le centre géographique se situe en plein Kosovo. Une instabilité persistante du Kosovo, de la Serbie et, de fait, de l'Albanie et de la Macédoine, serait fatale à l'un des plus importants projets humains en cours. Ah oui, j'oubliais : les débuts des travaux sont prévus pour... maintenant (les financements du corridor VIII sont quasiment bouclés, les études européennes représentent déjà des dizaines de millions d'euros, de nombreux tronçons sont en cours de réalisation).
Alors pourquoi avoir totalement occulté l'importance économique de ce conflit ? Les démocraties sont-elles si faibles qu'il faille un alibi purement humanitaire, l'argument du développement humain de tout un continent serait-il apparu, à nos yeux, moins légitime ? Pourquoi présenter les travaux qui commencent en ce moment en Albanie comme une "reconstruction" et un soutien pour "bons et loyaux services", alors qu'il ne s'agit que du début du corridor VIII, conçu et financé de longue date ? Pourquoi dire : "si les Serbes veulent des crédits pour leur reconstruction, ils doivent se débarrasser de Milosevic", alors qu'en réalité, "nous avons besoin, pour notre propre développement, de construire des infrastructures en Serbie et, pour en assurer la viabilité, nous devons nous débarrasser de Milosevic" (c'est le problème exactement inverse) ?
J'insiste : pourquoi nous a-t-on expliqué que cette région n'avait aucun intérêt économique (on nous a bien dit qu'il n'y avait pas de pétrole, preuve que nos intentions étaient plus pures qu'en Irak), pourquoi ne nous a-t-on jamais parlé du huitième corridor (que la presse albanaise qualifie de "célèbre corridor 8"), pourquoi avoir totalement occulté le projet de transport pan-européen (que tous les gouvernements de la région placent au centre de leurs décisions économiques) ? Est-ce qu'on ne nous prendrait pas un peu pour des cons ?
(Source : http://www.scarabee.com/EDITO2/index.shtml ?070699 )
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vendredi, 02 avril 2010
La nouvelle doctrine de l'OTAN: l'immixtion globale
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999
La nouvelle doctrine de l’OTAN : l’immixtion globale
Que l’on ne se fasse pas d’illusions : la guerre dans les Balkans n’est qu’un début. Les « interventions humanitaires », comme celle qui vient d’avoir lieu en Yougoslavie seront monnaie courante dans l’avenir. Ces interventions tous azimuts constituent vraisemblablement la nouvelle doctrine de l’OTAN, qui fête ainsi son cinquantième anniversaire. Pourtant, il y a un demi siècle, l’Alliance Atlantique se voulait exclusivement un pacte de défense, fondé pour contrer la menace communiste. Aujourd’hui ce principe de défense est caduc, faute de communisme. Les nuées de chars d’assaut de l’Est, prompts, disait-on, à foncer vers l’Atlantique en 48 heures, n’existent plus. Que fait l’OTAN, devant cette nouvelle donne ? Elle se mue en gendarme du monde !
Le glas sonne pour l’ONU
Le principe de défense n’est plus qu’une référence marginale dans la nouvelle doctrine de l’OTAN. Les stratèges de Bruxelles et du Pentagone pensent désormais en de nouvelles catégories et élaborent de nouveaux scénarii. Pour l’avenir, il suffira de constater des « actes de terreur », des « sabotages », une « interruption dans le trafic de ressources vitales » ou des « mouvements incontrôlés de grands nombres de personnes, surtout s’ils sont la conséquence de conflits armés », pour mobiliser l’Alliance. Dans le futur, l’OTAN entend entrer en action pour « éviter » et « apaiser » des situations de crise. Mieux : la simple « stabilisation et la sécurité de l’espace euro-atlantique » suffisent comme motifs d’intervention. C’est un blanc-seing pour intervenir dans tous les coins du globe. Rien de plus, rien de moins.
Jusqu’ici, il fallait, du moins formellement, un mandat des Nations-Unies pour autoriser l’intervention de l’Alliance. Cette restriction est désormais également caduque. Dans le texte fondant la nouvelle stratégie de l’OTAN, présenté à Washington en avril, les interventions de l’Alliance doivent simplement se référer aux principes de bases de la Charte de l’ONU et être en accord avec ceux-ci. Mais cette stipulation n’est pas contraignante. L’ONU ou l’OSCE ne doivent plus servir que comme « baldaquin » à des opérations communes, selon les cas qui se présentent. L’important, c’est que tous les pays membres de l’OTAN marquent leur accord. En conséquence de quoi, l’Alliance, en pratique, peut frapper à tout moment n’importe quel pays-cible. A juste titre, l’irénologue de Hambourg, Hans J. Giessmann, écrit dans le quotidien berlinois taz, que « le glas a sonné pour l’ONU » et avertit ses lecteurs : «Ceux qui affaiblissent le baldaquin juridique qu’est l’ONU, sont co-responsables des conséquences. L’OTAN (…) pourra certainement empêcher certains Etat de faire ce qu’elle se réserve, elle, le droit de faire. Si la naissance de la nouvelle OTAN signifie l’enterrement de l’ONU, la conséquence, pour le monde, c’est qu’il n’y aura pas davantage de sécurité au niveau global, mais moins ».
On peut en conclure que l’objectif actuel de l’OTAN n’est pas d’augmenter la sécurité sur la surface de la planète. Partout où l’OTAN est intervenue ces dix dernières années sous l’impulsion déterminante des Etats-Unis, nous n’avons pas un bonus en matière de sécurité, mais un malus ; la stabilité est en recul, l’insécurité en croissance. Quant aux « droits de l’homme », prétextes de la guerre en Yougoslavie, il vaut mieux ne pas en parler.
Terreur contre les populations civiles
Prenons l’exemple de l’Irak : ce pays était l’un des plus progressistes du monde arabe ; il possédait un excellent système d’enseignement et une bonne organisation de la santé ; le régime baathiste était laïc et le régime de Saddam Hussein accordait davantage de libertés citoyennes que les autres pays arabes. Depuis que le pays est sous curatelle de l’ONU et est bombardé chaque semaine par l’aviation américaine (sans que l’opinion publique mondiale y prête encore attention), rien de ces acquis positifs n’a subsisté. Cette ancienne puissance régionale est tombée au niveau d’un pays en voie de développement, où règnent le marché noir, la corruption et l’état d’exception. Vous avez dit « droits de l’homme » ? Vous avez dit « stabilité » ?
Prenons l’exemple de la Yougoslavie : lors de son intervention dans ce pays, l’OTAN, appliquant sans retard sa nouvelle doctrine, a renoncé dès le départ à tout mandat de l’ONU et a bombardé pendant des mois un pays européen souverain, faisant ainsi reculer son niveau de développement de plusieurs décennies. Ici aussi apparaît l’ectoplasme des « droits de l’homme », que l’on défend soi-disant. On nous transmet des images de ponts détruits, de fabriques, de chemins de fer, de stations de radio et d’innombrables bâtiments civils bombardés, pulvérisés par les bombes ou les missiles de l’OTAN. Même CNN n’est plus en mesure de « retoucher » les photos ou les films. Début mai 98, à l’aide de nouvelles bombes au graphite, les pylônes de haute tension et les usines d’électricité de Belgrade et des environs ont été détruits, coupant l’électricité et l’eau à de larges portions du territoire serbe. A Bruxelles, les porte-paroles de l’Alliance annonçaient avec un effroyable cynisme que l’OTAN était en mesure d’allumer et d’éteindre la lumière en Yougoslavie. On peut se demander quels ont été les objectifs militaires poursuivis par l’Alliance dans ces coupures d’électricité ? Les porte-paroles de l’OTAN ne répondent à cette question que par le silence. L’armée yougoslave, elle, dispose de ses propres générateurs qui, à l’instar des carburants militaires, sont profondément enterrés dans le sol, comme en Suisse. Seule la population civile subit des dommages.
Jamais plus la Yougoslavie ne sera la même après la guerre du Kosovo. Son appareil militaire sera affaibli (ce qui réjouira sans nul doute deux pays voisins : la Croatie et la Hongrie), mais aussi son économie et ses infrastructures. On évalue d’ores et déjà que la Yougoslavie a été ramenée au niveau qu’elle avait immédiatement après la seconde guerre mondiale. Les planificateurs de l’OTAN songent déjà à haute voix à détacher le Kosovo de la Serbie et à occuper cette province, à installer là-bas un protectorat avec la présence d’une armée internationale. Or la République fédérative de Yougoslavie est un Etat souverain…
L’enjeu réel de l’intervention dans les Balkans
Dans les Balkans, après l’intervention de l’OTAN, la paix ne reviendra pas et la stabilité politique sera profondément ébranlée. Répétons-le : il ne nous semble pas que la stabilité et la paix soient dans l’intérêt des stratèges de l’OTAN. Quel est alors l’enjeu réel ?
On aperçoit les premiers contours de l’ordre politique qui devra régner dans les Balkans sous la férule de l’OTAN. Parallèlement à l’élimination de la puissance régionale qu’était la Serbie, les Etats-Unis reviennent en Europe par le Sud-Est. Cette démarche est impérative pour les Etats-Unis, car sur la côte pacifique du bloc continental eurasien, les Américains reculent. Des penseurs stratégiques comme Henry Kissinger et Pat Buchanan ont constaté que la Chine, renforcée, sera le futur concurrent de Washington dans cette région. Les pertes en Asie doivent dès lors être compensées par une avancée stratégique en Europe.
Ensuite : les nouveaux partenaires junior des Etats-Unis sont (outre les satrapies européennes habituelles, dont l’Allemagne), les Turcs. Un contingent turc est présent au sein de la force internationale de « paix » au Kosovo. En ayant mis hors jeu la puissance orthodoxe serbe, l’Islam se voit renforcé dans le Sud-Est de l’Europe. Washington joue à ce niveau un jeu clair : si l’Europe réussi son intégration, si l’espace économique européen s’avère viable, elle acquerra, bon gré mal gré, une puissance géostratégique qui portera ombrage aux Etats-Unis. Situation inacceptable pour le Pentagone. Dans les tréfonds du subconscient européen, la menace islamique-ottomane dans le Sud-Est du continent n’est pas vraiment oubliée. Délibérément, les Américains la réinstallent en Europe pour déstabiliser le processus d’unification européen : ironie et cynisme de l’histoire.
L’élargissement de l’OTAN a une odeur de poudre
La carte turque est un atout majeur des stratèges américains, également dans le domaine des approvisionnements énergétiques. Dans la partie de poker qui se joue en Asie centrale, l’enjeu est le pétrole, entre autres matières premières. Les futures zones d’exploitation se situent sur les rives de la Mer Caspienne et dans les ex-républiques soviétiques de l’Asie centrale musulmane et turcophone. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas que l’OTAN, depuis quelques années, s’intéresse à toute coopération militaire et économique avec les Etats de la CEI dans le Sud de l’ex-URSS. L’an dernier, les troupes de l’OTAN ont participé pour la première fois à des manœuvres au Tadjikistan. Ce n’est plus qu’une question de temps, mais, si le processus actuel se poursuit, les anciennes républiques musulmanes et turcophones du « ventre mou » de l’ex-URSS appartiendront en bloc à la sphère d’influence atlantiste, tout comme les anciens pays du Pacte de Varsovie et l’Ukraine.
On le voit clairement : l’Alliance atlantique s’est fixé de nouveaux objectifs planétaires. L’ancienne doctrine purement défensive (en théorie…) est un boulet au pied de l’Alliance actuelle. En conséquence, l’Alliance se transforme en un système interventionniste global.
Quoi qu’il en soit : la sécurité ne sera pas de la partie au début du XXIième siècle. Les prochains conflits sont déjà programmés : avec la Chine, avec la Russie (complètement désavouée), avec toute une série de « méchants Etats » régionaux, que la propagande américaine dénoncera quand cela s’avèrera opportun et oubliera tout aussi vite. Hier, c’était l’Afghanistan et le Soudan, aujourd’hui, c’est la Yougoslavie. Et demain ?
D’autres cibles possibles en Europe
Peut-être sera-ce le Sud de la France ou les nouveaux Länder de l’Est de l’Allemagne. Je ne blague pas. Comme l’écrivait l’hebdomadaire d’information américain Time, il y a quelques mois, dans un numéro spécial, les stratèges de l’OTAN se soucient déjà de futurs « foyers de crise » en Europe. L’ancienne RDA et quelques villes du Sud de la France sont des cibles potentielles, car elles sont soupçonnées d’être d’ « extrême-droite ». Au Kosovo, l’OTAN bombarde parce que les « droits de l’homme » y seraient bafoués. Mais en Turquie, en Israël, à Timor-est, en Indonésie, les droits de l’homme sont bafoués depuis des décennies, sans que l’Alliance n’intervient. Qui décide où tomberont les prochaines bombes ?
La réponse est simple. Pendant cinquante ans, l’Alliance a été un instrument destiné à sécuriser les intérêts stratégiques des Etats-Unis. Rien ne changera dans l’avenir. En revanche, ce qui est nouveau, c’est que le Grand Frère d’Outre-Atlantique définit ses intérêts au niveau global sans vergogne depuis la disparition de l’ennemi soviétique. Cela continuera tant que le monde acceptera ses manières de cow-boy.
Organiser la résistance à l’hégémonisme US
Pourtant la résistance à la nouvelle doctrine de l’OTAN s’organise. Le Président de l’Académie russe des sciences militaires, le Professeur Machmoud Gareïev exprime ses réserves de manière succincte et concise : « Un nouvel ordre mondial apparaît : une petite communauté d’Etats occidentaux sous l’égide américaine entend dominer et dicter le cours des événements. Le message que cette communauté nous lance est clair : ne dérangez pas notre cercle ». Le député socialiste allemand (SPD), Hermann Scheer, manifeste son scepticisme face aux ambitions globales de l’Alliance occidentale. Il écrit à propos des zones de conflit qui se dessinent en Asie : « Les Etats-Unis tentent de contrôler politiquement cette région riche en ressources ; l’Alliance doit dès lors devenir l’escorte militaire des consortiums pétroliers et gaziers (…). L’élargissement de l’OTAN en Asie a une odeur de poudre. Nous devrions ne pas nous en mêler ».
Conclusion : la force des uns repose toujours sur la faiblesse des autres. L’hégémonie mondiale que concocte l’OTAN est possible parce que le reste du monde ne s’en est pas soucié. Pour cette raison, il nous apparaît urgent de forger des alternatives à la domination américaine et de leur donner une assise politique. Avec les élites établies, infectées par les virus de la banque et de l’idéologie mondialiste, un tel projet ne sera pas possible. En revanche, si des hommes et des femmes à la pensée claire, capables de tirer les conclusions qui s’imposent, agissant de Madrid à Vladivostok, l’alternative sera parfaitement possible. L’Internationale des peuples libres : voilà le projet qu’il faudra élaborer pour le XXIième siècle.
Karl RICHTER.
(Nation-Europa, 6/1999).
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jeudi, 01 avril 2010
Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (etsurtout) leurs concurrents: le rôle d'espionnage universel d'"ECHELON"
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999
Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (et surtout) leurs concurrents : le rôle d’espionnage universel d’ « ECHELON »
Début 1998, Steve Wright, membre d’OMEGA, une association britannique pour les droits des citoyens basée à Manchester, constate dans un rapport qu’il adresse au Parlement Européen, que tous les courriers électroniques, les conversations téléphoniques et les fax sont enregistrés par routine par le service de renseignement américain NSA (National Security Agency). La NSA fait suivre toutes ces données récoltées en Europe à l’adresse du Quartier Général de la NSA aux Etats-Unis, à Fort Meade dans le Maryland. Avec raison, Wright conclut que la NSA a installé un système de surveillance global, dont le but est de sonder les satellites par lesquels transite la plus grande partie des communications internationales. A la différence des systèmes de surveillance électroniques, utilisés lors de la guerre froide pour sonder des organismes militaires, le système de surveillance « ECHELON » sert essentiellement à espionner des cibles civiles : des gouvernements, des organisations de toutes sortes ou des entreprises commerciales ou industrielles.
Quatre pays, explique Wright, se partagent, avec les Etats-Unis, les résultats de cet espionnage global : la Grande-Bretagne, le Canada, la Nouvelle-Zélande et l’Australie. Les services secrets de ces quatre pays n’agissent en fait que comme fournisseurs subalternes de renseignements. En d’autres termes : seuls les Américains contrôlent complètement le réseau d’espionnage ECHELON. Ensuite, dans le rapport de Wright, on apprend également que la plus grande station d’écoute du monde se trouve à Menwith Hill, en Angleterre dans le Comté du Yorkshire. Cette station serait en mesure d’écouter la plupart des communications en Europe et dans les pays de l’ex-URSS.
Dans ce rapport de Wright, pour la première fois, on apprend officiellement dans l’UE qu’un système d’écoute global et électronique, dont le nom est ECHELON, existe ! Pendant des années, seules des informations fortuites et superficielles circulaient à propos d’ECHELON. Le premier à avoir parler du concept même d’ECHELON a été le journaliste britannique, spécialisé dans les affaires d’espionnage, Duncan Campbell. Dans un article pour le magazine New Statesman du 12 août 1988. Il y a onze ans, Campbell révélait qu’ECHELON permettait de surveiller toutes les communications venant et arrivant en Grande-Bretagne, à la condition que cette surveillance serve l’intérêt national ou favorise l’économie britannique. Récemment, Campbell a lui-même rédigé un rapport à la demande d’un groupe de travail de l’UE, le STOA (Scientific and Technological Options Assessments). Le titre de son rapport : Interception Capabilities 2000 (soit : Etat des techniques d’écoutes en l’an 2000). Il traitait en détail d’ECHELON.
Les gouvernements décident de l’utilisation du matériel récolté
Campbell montre notamment dans son rapport que chaque Etat, participant à ECHELON, a autorisé ses services secrets ou certains ministères, de consulter tout matériel récolté ayant une importance d’ordre économique ou de les commander. Grâce aux informations ainsi engrangées, des objectifs très divers peuvent être poursuivis. Campbell ajoute que la décision d’exploiter ou d’utiliser ces informations acquises par espionnage ne relève pas des services secrets impliqués mais des gouvernements.
Ce rapport ne manque pas de piquant : en effet, la Grande-Bretagne est membre de l’UE et participe à l’espionnage généralisé de tous ses partenaires. Rappelons à ce propos deux faits : le journal anglais The Independant du 11 avril 1998 constate, vu la participation de la Grande-Bretagne à ECHELON, que celle-ci participe à un consortium de services électroniques de renseignements, qui espionne systématiquement les secrets économiques et commerciaux des Etats de l’UE. Le journal citait l’avocat français Jean-Pierre Millet, spécialisé en criminalité informatique. Les partenaires de la Grande-Bretagne, disait Millet, auraient raison d’en vouloir aux Britanniques, parce que ceux-ci n’ont pas abandonné leur coopération avec les Américains. Disons aussi en passant que la France, en matière d’espionnage économique, n’est pas un enfant de chœur. Ainsi, par exemple, l’ancien chef des services secrets français, Pierre Marion, avait déclaré que la guerre faisait toujours rage, y compris entre pays alliés, dès qu’il s’agissait d’affaires (cf. Spectator, 9 avril 1994). La grogne des Français, dans ce contexte, se justifiait non pas tant parce que la Grande-Bretagne faisait partie du cartel d’ECHELON, mais parce que la France ne pouvait pas participer à cette gigantesque machine globale à fouiner.
Le nom de code ECHELON découle du terme militaire français « échelon ». ECHELON a été au départ conçu par les services de renseignements pour surveiller l’Union Soviétique. Après l’effondrement de celle-ci, ce projet, qui a coûté des milliards, devait servir à combattre officiellement le terrorisme international. Mais cette justification n’est qu’un rideau de fumée, destiné à dissimuler le véritable objectif. D’après les informations dont on dispose, on peut désormais affirmer qu’ECHELON a bel et bien été conçu prioritairement pour l’espionnage industriel et économique à grande échelle.
L’allié militaire officiel peut être l’ennemi économique réel
Dans un rapport du 29 mars de cette année, Der Spiegel évoquait que les termes-clefs, avec lesquels ECHELON fonctionne, proviennent avant tout du domaine économique américain. Indice supplémentaire que les Américains ne se gênent nullement pour combattre les concurrents étrangers de leurs entreprises par tous les moyens, même illicites. Cela leur est complètement égal de savoir si la firme espionnée appartient à un pays allié ou ennemi. Deux auteurs ont bien mis cela en exergue, Selig S. Harrison et Clyde V. Prestowitz, dans un article du périodique Foreign Policy (79/90) : les alliés militaires des Etats-Unis sont ses ennemis économiques. Il est fort probable que les Etats-Unis nieront qu’une rivalité fondamentale les oppose aux autres puissances occidentales sur les plans des relations commerciales internationales, ce qui les empêchera, par la même occasion, de réagir adéquatement au niveau des règles de la concurrence.
L’ancien directeur du FBI, William Sessions, voit les choses de la même façon : dans un entretien, il a expliqué qu’aujourd’hui déjà, et, a fortiori dans l’avenir, une puissance est ou sera l’alliée ou l’ennemie des Etats-Unis non seulement selon les nécessités militaires, mais aussi et surtout selon les résultats des observations que les Etats-Unis obtiendront de leurs services de renseignement dans les domaines scientifiques, technologiques, politiques et économiques (cf. Washington Times, 30 avril 1992) (ndlr : autrement dit, aucune puissance européenne ou asiatique ne pourra désormais développer un programme de recherches scientifiques ou technologiques, et réussir des applications pratiques, sans risquer d’encourir les foudres des Etats-Unis et d’être décrite dans les médias comme « totalitaire », « dictatoriale », « communiste » ou « fasciste », ou « rouge-brune »).
L’espionnage scientifique renforce la mainmise politique
Philip Zelikov est encore plus clair dans son ouvrage American Intelligence and the World Economy (New York, 1996). La victoire dans la bataille pour être compétitif sur les marchés du monde est le premier point à l’ordre du jour dans l’agenda de la sécurité américaine. Même vision chez Lester Thurow, célèbre économiste américain du MIT (Massachusetts Institute of Technology), auteur de Head to Head : The Coming Battle between Japan, Europe and America (New York, 1992). Sans s’embarrasser de circonlocutions, Thurow écrit que les Etats qui dominent les plus grands marchés définissent également les règles. Il en a toujours été ainsi. Raison pour laquelle les Américains refusent même aux Etats qui participent au réseau ECHELON d’accéder à toutes les données récoltées. Ce genre de restriction est également habituel. Ainsi, par exemple, Mark Urban, dans son livre UK Eyes Alpha. The Inside Story of British Intelligence (Londres, 1996), évoque la coopération entre les services secrets britannique et américain et constate que les Américains n’ont jamais cessé de retenir des informations, de les garder pour eux seuls. Il s’agissait surtout des informations relatives aux affaires commerciales.
Ce détail et cette pratique de rétention expliquent les véritables motivations des Américains et de leurs partenaires dans le réseau d’écoute global ECHELON. Pourtant il serait inexact et insuffisant d’affirmer que le seul but d’ECHELON est l’espionnage économique. Comme auparavant, l’intelligence militaire et politique occupe une large part des activités de ce réseau. En priorité, ECHELON sert à faire valoir ses propres intérêts de manière plus efficace.
Les révélations du Néo-Zélandais Nicky Hager
D’après les explications du Néo-Zélandais Nicky Hager, qui, avec son livre Secret Power. New Zealand’s Role in the International Spy Network (1996), a permis de mieux savoir comment fonctionnait ECHELON, ce système d’espionnage n’est pas agencé de façon à contrôler et à copier chaque courrier électronique ou chaque télécopie. Le système vise plutôt à trier et à sonder de grandes quantités de communications électroniques. Les ordinateurs d’ECHELON filtrent au départ de mots-clefs ou de concepts-clefs, consignés dans des « dictionnaires » et, à partir de la masse d’informations récoltées, trient ce qui est intéressant pour les divers services de renseignement.
Dans cette pratique, écrit Hager dans son article du magazine Covert Action Quarterly (56/96-97), le système de filtrage « Memex », élaboré par la firme britannique Memex Technology, joue un rôle primordial. Memex est en mesure de rechercher de grandes quantités de données au départ de concepts-clefs. Ces concepts-clefs englobent les noms de certaines personnalités, d’organisations, de désignations de pays ou de termes scientifiques ou spécialisés. Parmi ces concepts-clefs, on trouve les numéros de fax et les adresses électroniques de certains individus, d’organisations ou d’institutions étatiques.
Une chaîne mondiale d’installations d’écoute (comme, par exemple, Menwith Hill ou Bad Aibling en Bavière) a été placée tout autour du globe, pour pomper les réseaux internationaux de télécommunications. ECHELON relie entre elles toutes ces installations d’écoute, qui permettent aux Etats-Unis et à leurs alliés de surveiller une bonne part des communications qui s’effectuent sur la Terre.
Ce qui est substantiellement nouveau dans ECHELON n’est pas tant le fait que des ordinateurs sont utilisés pour exploiter des renseignements électroniques à l’aide de certains concepts-clefs (car c’était déjà possible dans les années 70), mais c’est surtout la capacité d’ECHELON et de la NSA de pouvoir placer en réseau tous les ordinateurs mis en œuvre et cela, à grande échelle. Cette mise en réseau permet aux diverses stations d’écoute de travailler comme autant de composantes d’un système global intégré. La NSA, le service secret néo-zélandais GCSB (Government Communications Security Bureau), le service secret britannique GCHQ (Government Communications Head Quarters), le service secret canadien CSE (Communications Security Establishment) et le service secret australien DSD (Defence Signals Directorate) sont les partenaires contractuels de l’UKUSA Signals Intelligence, un pacte entre les divers services de renseignements des puissances anglo-saxonnes. Cette alliance explique par ses origines : elle date de la coopération entre ces services pendant la seconde guerre mondiale. Au départ, elle visait à faire surveiller l’URSS par les services de renseignement.
Pomper les satellites
Grosso modo, ECHELON poursuit trois objectifs. D’abord contrôler les satellites permettant les communications internationales qu’utilisent les sociétés téléphoniques de la plupart des Etats du monde. Un anneau de tels satellites entoure la Terre. En règle générale, ces satellites sont positionnés à hauteur de l’Equateur. D’après ce que nous en dit Nicky Hager, cinq stations d’écoutes du réseau ECHELON servent à pomper ce que contiennent ces satellites.
Deuxième objectif : espionner les satellites qui n’appartiennent pas à Intelsat. Il s’agit surtout de satellites russes, mais aussi d’autres satellites régionaux de communications. Les stations qui surveillent ces satellites-là sont, d’après Hager, Menwith Hill (Angleterre), Shoal Bay (Australie), Bad Aibling (Bavière/RFA), Misawa (Nord du Japon) et Leitrim (Canada). Cette dernière s’occupe principalement des satellites latino-américains.
Enfin, troisième objectif d’ECHELON : coordonner les stations qui s’occupent des systèmes de communications terrestres. Celles-ci sont spécialement intéressantes car elles s’effectuent par l’intermédiaire de câbles transocéaniques et d’une technique de haute fréquence, et véhiculent d’énormes quantités de communications officielles, commerciales ou gouvernementales.
Le gouvernement allemand tolère cette surveillance tous azimuts
La station d’écoute très puissante de Menwith Hill dans le Nord de l’Angleterre disposerait de 22 stations satellitaires de réception. Menwith Hill sert en première instance la NSA, en tant que station terrestre des satellites-espions américains. Ceux-ci surveillent les télécommunications à rayon réduit comme par exemple les émetterus militaires ou les « walkie talkies ». Les stations terrestres d’Alice Springs (Australie) et de Bad Aibling (Bavière) ont une fonction analogue.
En Allemagne, les autorités officielles ne veulent rien entendre de tout cela. Ainsi, l’ancien Secrétaire d’Etat Eduard Lintner (CSU), en poste au ministère de l’intérieur de Bonn, a répondu le 30 avril 1998 à une question écrite, posée par le député socialiste Graf, portant sur les activités de la NSA, que le gouvernement fédéral allemand ne savait rien de plus que ce qu’avait dit la presse à ce sujet !
En d’autres termes : le gouvernement fédéral allemand ne sait officiellement rien de cette incursion massive et de cette grave entorse à l’intégrité des Etats nationaux et des individus. Mais cette attaque vient d’ « Etats amis » de l’Allemagne. C’est tout dire…
Michael WIESBERG.
(article paru dans Junge Freiheit, n°26/99 ; redaktion@jungefreiheit.de
Site : http://www.jungefreiheit.de
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mardi, 30 mars 2010
Rusia, clave de boveda del sistema multipolar
RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR
de Tiberio Graziani *
El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.
Consideraciones sobre el escenario actual
Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones en base a variables específicas.
El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.
Los actores hegemónicos
Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.
La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.
China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:
a) las políticas de modernización;
b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;
c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.
Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.
Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.
En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.
Los actores emergentes
La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).
Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.
El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.
Los seguidores-subordinados y los subordinados
La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares, formar parte de la esfera de influencia de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.
En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).
La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.
Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).
Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.
Los excluidos
En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.
Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.
La reescritura de las nuevas reglas
Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.
Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional, prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.
Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.
Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.
Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros étnicos, religiosos y culturales.
Ante la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.
La centralidad de Rusia
La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.
Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.
Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa
Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:
a) reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;
b) contención de los impulsos secesionistas;
c) uso “geopolítico” de los recursos energéticos;
d) política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;
e) constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;
f) tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;
g) constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).
Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.
Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).
Clave de bóveda del nuevo orden mundial
Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.
El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo
Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.
Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.
* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org
(Traducido por Javier Estrada)
1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.
2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.
3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.
4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.
5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.
6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.
7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.
8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.
9. Eso también en consideración de la política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).
10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.
11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).
12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.
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lundi, 29 mars 2010
La géopolitique brésilienne
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989
La géopolitique brésilienne
Bertil HAGGMAN
L'évolution de la géopolitique au Brésil remonte à une date déjà très ancienne: dès le moment où les autorités du pays ont décidé d'amorcer une expansion au-delà de la Ligne Tordesillas, fixée par le Pape en 1494, pour délimiter les possessions portugaises et espagnoles. Cette expansion est la troisième en ordre d'importance depuis l'âge des découvertes, après celles des Etats-Unis et de la Russie. Le Brésil a fini par devenir le plus vaste Etat de l'Amérique du Sud. Aujourd'hui, les Etats voisins du Brésil lusophone, tous hispanophones, craignent quelque peu sa politique étrangère. Le développement du Brésil lusophone a suscité une sorte de réaction instinctuelle chez les géopolitologues latino-américains d'expression castillane: tous ont craint ou craignent un leadership brésilien, attitude patente dans les années de 1930 à 1970. La pensée géopolitique brésilienne repose essentiellement sur les expériences acquises au cours de l'histoire. Il semble que la géopolitique brésilienne s'oriente selon trois axes majeurs:
- elle met l'accent sur la sécurité nationale et cherche à se donner une position de force dans la région et sur le continent.
- les géopolitologues brésiliens ont souvent mis l'accent sur l'industrialisation, la colonisation et le développement des régions excentrées du pays.
- l'objectif majeur de ces géopolitologues a été d'atteindre le statut de grande puissance au moins pour l'horizon 2000.
La géopolitique en Amérique du Sud repose surtout sur la dimension physique du continent: les Andes et les chaînes de montagne, les plateaux et les bassins des trois grands fleuves (l'Orénoque dans le Nord, l'Amazone au centre et le Rio de la Plata dans le Sud). Le Plateau bolivien a été considéré par quelques géopolitologues sud-américains comme le heartland de leur continent, selon la terminologie de Mackinder. Un géopolitologue, ambassadeur des Etats-Unis, Lewis A. Tambs (1) a un jour paraphrasé Mackinder comme suit, à propos de la Bolivie: «Celui qui tient Santa Cruz, contrôle Charcas. Qui tient Charcas, tient le heartland. Qui tient le heartland, contrôle l'Amérique du Sud».
L'ambassadeur Tambs concluait ses raisonnements par une question: «Pourquoi la Bolivie ne contrôle-t-elle pas le continent?». La raison de ce non-contrôle, c'était, bien sûr, que la Bolivie ne contrôlait pas les ressources, au contraire de la Russie en Eurasie, et ne pouvait dès lors pas dominer. Donc, il semble plus pertinent aujourd'hui d'émettre l'hypothèse que le Plateau Brésilien détient une importance capitale dans la région et devrait plutôt être, lui, considéré comme le heartland du continent. On le considère aussi souvent comme le “centre de gravité” du Brésil.
Les travaux d'Everardo Backheuser
Quand la géopolitique brésilienne a commencé à prendre forme dans les années 20, elle s'est inspirée de son homologue allemande. Le géopolitologue qui introduisit la géopolitique au Brésil, Everardo Backheuser, était un élève du géopolitologue suédois Rudolf Kjellén, tout comme Karl Haushofer lui-même. Les quatre thématiques majeures de la géopolitique brésilienne ont été:
- la location stratégique du Brésil;
- un souci constant de maintenir et de défendre l'intégrité territoriale et les frontières nationales;
- un désir constant d'accéder au Pacifique (la dite “Projection continentale”);
- le développement du pays et l'intégration nationale comme bases pour accéder au statut de grande puissance.
Backheuser était un civil, un professeur. Il fut le premier à étudier les théories géopolitiques européennes et à les interpréter au service de la géopolitique brésilienne. Son premier ouvrage s'intitulait A Estrutura politica do Brasil - Notas Previas (1925). Avec ce livre, le Brésil peut être considéré comme un pays pionnier dans l'interprétation des thèses de Rudolf Kjellén. En 1933, il poursuit son œuvre avec Problemas do Brasil. Dans les années 40, Backheuser avait atteint son but: la géopolitique était devenue un sujet d'interrogation commun dans tout le Brésil. En 1944-45, il enseigne à l'Institut Etranger. En 1947-48, à l'Institut Culturel Brésilien. En 1948, l'Université Catholique Pontificia crée pour lui une “chaire de géopolitique”. En 1952, son ouvrage le plus connu sort de presse. Il s'intitule Curso de Geopolitica geral e do Brasil, et résume l'ensemble de ses idées.
Frontières vivantes et mortes
Pour Backheuser, le Brésil affronte trois problèmes majeurs d'ordre géopolitique: celui posé par la qualité de l'espace brésilien, celui posé par le site de la capitale, celui posé par la division territoriale du pays. Pour ce qui concerne les frontières, Backheuser considérait qu'elles étaient toujours marquées par l'instabilité dans le monde moderne. Cette instabilité était la résultante de la force et de la volonté. Il a inventé un “quotient de pression”: P = VF (où P = la pression géopolitique latente qui s'exerce sur une frontière, V = le taux de vitalité d'une nation et F = la force matérielle que peut déployer l'Etat pour rompre la barrière constituée par une frontière). La population ne constitue qu'un des facteurs dans l'index V. Backheuser énonça également trois hypothèses sur les frontières “vivantes” et les frontières “mortes”:
- Hypothèse n°1: là où deux zones frontalières “mortes” se joignent, il est peu probable qu'une pression s'exercera. La frontière restera donc stable.
- Hypothèse n°2: là où deux zones frontalières “vivantes” se touchent, il est probable que survienne une friction. La nation la plus forte sur le plan militaire l'emportera, du moins si elle est capable de se défendre aussi sur le plan diplomatique.
- Hypothèse n°3: là où une frontière “vivante” rencontre une frontière “morte”, l'Etat dont dépend la frontière “morte” risque d'être envahi par son voisin, dont la frontière est “vivante”, donc dynamique et expansive.
Une frontière “vivante” est une frontière occupée par une population vivante, en pleine expansion démographique, jeune et agressive. Une frontière “morte” ne l'est pas. Sur base de cette distinction, Backheuser a élaboré des lois géopolitiques, proches des notions mises au point par Friedrich Ratzel:
- La “loi de la volonté” repose sur le présupposé que le tracé de la frontière découle d'un acte de volonté, posé par des Etats en compétition les uns avec les autres.
- La “loi de l'équilibre dynamique” signifie qu'une frontière n'est stable que parce qu'elle est l'expression d'un équilibre dynamique.
- La “loi de friction” démontre qu'une zone frontalière est toujours par définition une zone de friction; et finalement:
- La “loi de pression” tend à prouver que la pression exercée sur les frontières est une fonction combinant la vitalité relative des adversaires et les éléments de force disponibles (P=VF).
Revitalisation des frontières
Historiquement parlant, les frontières brésiliennes se sont étendues considérablement à l'époque coloniale. Pendant la monarchie, elles ont été régularisées; plus tard, elles ont été juridiquement fixées et ont servi de fait à démarquer des territoires. Finalement, pendant les années 50, on a assisté à un processus de revitalisation des frontières brésiliennes. Les conclusions du Prof. Backheuser ont été les suivantes: le Brésil doit revitaliser ses frontières afin de préserver le territoire de la nation. Cela signifier peupler les campagnes, explorer les zones inhabitées et industrialiser. En bref, cela implique une “marche vers l'Ouest”, finalement peu différente de celle qui a marqué l'histoire des Etats-Unis au XIXième siècle.
La géopolitique de Mario Travassos
Autre pionnier de la géopolitique au Brésil: Mario Travassos. Ses idées ont marqué l'“Escola de Estado Maior do Exercito” (L'école de l'état-major de l'armée), jusqu'en 1950. Dans son premier ouvrage important, Projeção Continental do Brasil, Travassos affirme que le Brésil doit se développer selon un axe Est-Ouest et pas seulement le long de la côte atlantique. La seconde édition de son livre date de 1935. Comme Tambs, il reconnaît l'importance d'une domination du Plateau Bolivien. Il a plaidé pour que la Bolivie obtienne un accès à l'Atlantique via le Brésil, mais, à titre de réciprocité, il espérait que le Brésil reçoive un accès aux ports du Pacifique détenus par le Chili et le Pérou. L'influence de Travassos dans les milieux militaires démontre clairement le lien entre la pensée géopolitique brésilienne et l'éducation des officiers de l'armée. Ce lien allait devenir encore plus évident dans les années 60.
La géopolitique de Golbery do Couto e Silva
Le géopolitologue qui a eu la plus grande influence au Brésil après la seconde guerre mondiale a sans doute été Golbery do Couto e Silva. C'était un officier servant dans l'état-major du Collège National de Guerre. Plus tard, après la révolution de 1964, il a fait partie de tous les gouvernements, sauf un. Ses théories ont dès lors pu être mises à l'épreuve du réel, surtout dans le domaine du développement économique du Brésil.
Son premier ouvrage, Aspectos geopoliticos do Brasil (1952), a été réédité ultérieurement, accompagné de plusieurs essais complémentaires, tels Geopolitica do Brasil. En 1955, il publie Planejamento estrategico. Ses travaux étaient souvent un mixte de théories pragmatiques et de visions mystiques. Il a défini la science géopolitique comme suit: «La géopolitique est avant toutes choses un art, un art lié à celui de la politique et, en particulier, à la stratégie et à la politique de la sécurité nationale. Elle cherche à orienter tous ces arts, à la lumière des faits géographiques propres aux espaces organisés politiquement et divergeant par l'action des hommes. Les fondements de la géopolitique s'enracinent dans la géographie politique, mais la géopolitique consiste surtout en propositions et projections, qui induisent une dynamique tournée vers l'avenir. Les perspectives offertes par la géopolitique étant très nombreuses, elle se manifeste sous des formes très différentes, elle englobe tous les faits de la politique, de l'économie et de la culture qui touchent l'Etat, elle déborde inévitablement dans d'autres domaines du savoir, comme l'histoire, la psychologie, la sociologie et, bien sûr, la stratégie militaire...» (2).
Les principales thématiques des travaux de Golbery traduisent véritablement les théories de la géopolitique en plans d'action gouvernementaux concrets, visant le développement du territoire brésilien. Golbery s'était fait évidemment l'avocat de l'intégration du Brésil occidental dans le reste du pays (la façade atlantique). Il visait surtout le développement de la vaste aire amazonienne. Les analyses de Golbery débouchent sur des projets nationaux concrets visant à bien situer le Brésil dans le cadre du continent sud-américain et dans le monde. Le Brésil, écrit Golbery, fait partie de la civilisation occidentale et doit contribuer à la défense de l'hémisphère occidental. Pour garantir la sécurité de cet hémisphère occidental contre ce que Golbery appelle l'“hémicycle extérieur”, soit l'URSS, il faut contrôler les continents africain et antarctique, de même que les îles du Pacifique, car l'Afrique occidentale, l'Amérique du Sud et l'Antarctique étaient, selon Golbery, des objectifs de l'expansionisme soviétique.
La géopolitique du Général Carlos de Meira Mattos
Bon nombre d'experts estiment que le Général Carlos de Meira Mattos a été le successeur de Golbery; c'est lui qui est devenu le principal des géopolitologues brésiliens. Meira Mattos s'intéresse lui aussi au développement du pays. Dans son premier livre, Projeção mundial do Brasil (1960), il exprime son souhait: le Brésil, avec son vaste espace, sa nationalité et sa position stratégique détient tous les atouts pour devenir une puissance mondiale. Il était important, aux yeux de Meira Mattos, de rester fidèle à l'Occident. Le Brésil contrôle d'importantes routes maritimes, mais avait besoin de construire à grande échelle des liaisons terrestres, notamment des routes. La mission de l'élite brésilienne était la suivante: faire du pays une puissance mondiale en l'espace d'une génération.
Dans Brasil - Geopolitica e Destino (1975), Meira Mattos résume ses idées. Il commence par une analyse des différentes écoles et théories de la géopolitique. Ses faveurs vont aux notions élaborées par le Français Vidal de la Blache: «la géographie est le destin». C'est donc la géographie qui fournit des solutions à la destinée des peuples. Les pays dont les formes sont compactes, à l'instar du Brésil et de la France, dégagent une supériorité en matière géopolitique. De telles formes facilitent la centralisation de l'administration politique, le commerce intérieur et la défense militaire. Le Brésil, selon Meira Mattos, détient les cinq attributs de la puissance: dimension géographique, population, possession de ressources naturelles, capacités scientifiques et technologiques et cohésion interne. Meira Mattos cite comme exemple le “Plan de Développement National” de 1975-79, qui prouve que le Brésil est bien décidé à devenir une nation développée en l'espace d'une seule génération.
Avec A Geopolitica e as projeções do poder (1977), il développe ses idées relatives aux efforts brésiliens pour atteindre le statut de puissance mondiale. A cette époque, il était le directeur de l'“Inter-American Defence College”. Il pensait que la modernisation était le moyen d'atteindre l'objectif, c'est-à-dire le développement. En pratique, il faut créer sur le territoire brésilien sept “zones intérieures d'échanges frontaliers”. Ces sept zones doivent être reliées par des voies routières de transport et par des réseaux de communication à toutes les autres régions du pays. Ces zones se situent entre les Guyanes au Nord et le Bassin de la Plata au Sud.
La théorie du “stimulus maritime”
Pour le Brésil, le “stimulus maritime” est également important. Pendant des siècles, la mer a été le lien vital qui reliait le Brésil au reste du monde. Meira Mattos appelle de ses vœux une “Communauté de Défense du Cône Sud”, incluant le Brésil, l'Argentine, le Paraguay, l'Uruguay et le Chili, afin de protéger la route du Cap empruntée par les pétroliers et par les navires des pays sud-américains. Ultérieurement, cette communauté devra s'étendre aux pays du Sud de l'Afrique, à l'Australie, la Nouvelle-Zélande et l'Indonésie. Le concept central de sa géopolitique est la notion de “puissance nationale”. Il cite la définition qu'en donne le Collège National de Guerre: “La puissance nationale est l'expression de tous les moyens à la disposition des nations à un moment donné afin qu'elles puissent promouvoir à l'intérieur comme à l'extérieur leurs objectifs nationaux, en dépit des oppositions» (3).
Dans sa conclusion, il écrit: «Nous voulons sauver le pays du marais du sous-développement et l'élever au niveau d'une société stable et avancée». Cet objectif doit être atteint pour l'an 2000, avec une amélioration du niveau de l'enseignement, avec des progrès substantiels aux niveaux de la société et de la technologie, avec un accroissement du PNB, avec des réformes sociales et une stimulation de l'esprit national au départ de la sphère culturelle.
La géopolitique panamazonienne
Uma geopolitica pan-amazonica, livre publié en 1980, est une étude géopolitique visant le développement intégré de la grande sous-région amazonienne, selon les stipulations du Pacte Amazonien de 1978. Si la partie brésilienne du Bassin amazonien réussit son développement, l'entièreté du Bassin pourra ultérieurement être développé. 69% de la zone, soit deux cinquièmes du continent, appartiennent au Brésil. Le reste appartient aux Guyanes, à la Bolivie, à la Colombie, à l'Equateur, au Pérou et au Vénézuela.
Therezina de Castro et l'orientation antarctique
Therezina de Castro, géographe et historienne, présente en 1956 sa théorie de la defrontação. Elle repose sur la revendication pour le Brésil et les autres pays sud-américains de certaines portions du continent antarctique, faisant face au continent sud-américain. Ces territoires antarctiques devraient appartenir à ces pays. Dans cette optique, le Brésil devrait recevoir une zone antarctique située entre le 28° et le 53° degrés de longitude ouest. En 1975, le Brésil a adhéré au Traité de l'Antarctique afin de se garantir une présence sur ce continent de glaces. Dans son livre Rumo a Antàrtica (1976), Therezina de Castro propose une “orientation antarctique” pour le Brésil. D'un point de vue géostratégique, la défense de l'Amérique du Sud est surtout maritime, explique-t-elle. Le Brésil possède le plus long littoral atlantique de tous les Etats sud-américains. L'Antarctique est une base naturelle pour la défense de l'Atlantique Sud.
Parmi les objectifs des géopolitologues brésiliens, il y avait l'éducation des élites du pays. Les universités brésiliennes ont donc proposé divers cours de géopolitique. En 1949, l'“Institut Brésilien de Géopolitique” est mis sur pied. De même, depuis 1949, l'“Escola Supérior de Guerra” (ESG/Ecole Supérieure de Guerre) a formé ses élèves aux matières géopolitiques. Cette école est dirigée par l'Etat-major général des armées. Elle offre trois niveaux de formation. Elle prépare les citoyens et le personnel militaire à l'art du commandement, à la manière de donner des conseils en tous domaines et en toutes organisations. Elle forme également les officiers de l'armée à remplir des missions de haut niveau, dans un cours organisé par l'Etat-major. Enfin, un cours par correspondance permet aux diplômés de suivre les dernières mises à jour des matières qui leur ont été enseignées. L'ESG semble être l'équivalent brésilien de la Försvarshögskola suédoise et des écoles de guerre des autres pays, mais, en plus, elle constitue un véritable think tank et développe un réseau d'information à l'usage de ses “anciens”.
Il existe également une association regroupant les diplômés de l'ESG, l'Associação dos Diplomados da Escola Superior de Guerra (ADESG). Cette organisation véhicule le message géopolitique de l'ESG, de même que les enseignements que cette école donne dans d'autres disciplines; elle s'adresse à plus de 25.000 membres dans les couches dirigeantes du Brésil, qui ont demandé à suivre les cours de l'ESG mais n'ont pas pu y accéder, vu le nombre réduit de places dans les classes de l'école. Parmi les instruments de l'ADESG, citons la revue Segurança e desenvolvimento (Sécurité et développement). On enseignait toujours la géopolitique à l'ESG dans les années 80, mais on lui accordait moins d'importance que dans les années 50, 60 et 70.
La géopolitique dans les écoles militaires
D'autres institutions prodiguent également des cours de géopolitique: les écoles militaires, l'“Institut Rio Branco” (Service étranger) et quelques universités. Pourtant l'âge d'or de l'enseignement de la géopolitique et de la bonne vulgarisation de cette discipline à l'intention du grand public est passé: c'était dans les années 50 et 60 (la période culminante a été 1958-64). Depuis la révolution de 1964, la géopolitique semble avoir été institutionalisée, mais, en même temps, elle a perdu de son aura. Publication importante dans la diffusion des thèses géopolitiques: A defesa nacional, revue de l'“Escola de Comando e Estado-Maior” (ECEME).
Depuis 1964, la sécurité et le développement ont constitué les deux principaux objectifs des gouvernements brésiliens. Quand les gouvernements civils ont pris le relais à partir des années 80, la dimension “sécurité” a perdu du terrain. Néanmoins, elle demeure présente, signifiant simultanément organisation militaire et sécurité intérieure; elle vise la défense des frontières du pays et la défense de l'ordre intérieur afin d'assurer un développement harmonieux. Le développement à pour but d'accroître la puissance du pays et donc d'augmenter le degré de sécurité nationale. Depuis 1972, le Brésil publie régulièrement des Plans pour le développement national. Ces plans recèlent des objectifs d'ordre géopolitique et constituent une application concrète des théories de la géopolitique mais ne font pas directement usage d'une terminologie géopolitique. En revanche, d'autres plans de développement y font plus directement référence, comme, par exemple, les plans du Transport national ou les politiques énergétiques.
Des accords bilatéraux à la lumière de la géopolitique
Dans le domaine de la politique étrangère, les idées géopolitiques se retrouvent en filigrane dans les accords bilatéraux signés avec la Bolivie, le Paraguay et l'Uruguay. Les idées de Golbery ont eu une postérité. De vastes zones de l'Ouest du pays ont été intégrées à la nation brésilienne. Le pays travaille à intégrer sur une vaste échelle le Bassin de l'Amazonie. Des connections ferroviaires, des grandes routes et des réseaux de communication ont contribué à réaliser cette “projection continentale”. Des projets de développement communs à plusieurs nations font partie de ce vaste projet: par exemple, le projet hydroélectrique Itaipu avec le Paraguay et le projet de développement Lagoa Mirim avec l'Uruguay, accompagné d'un réseau routier.
Le Brésil est probablement le pays d'Amérique du Sud (et du monde!) où les liens entre les théories et la pratique de la géopolitique sont les plus évidents. Entre 1949 et 1964, la géopolitique a bénéficié du statut de théorie officielle nationale de sécurité et de développement au Brésil. Même si l'âge d'or de la géopolitique au Brésil est passé, ces théories influencent encore et toujours la politique du pays et continueront à le faire au 21ième siècle.
Bertil HAGGMAN.
(trad. fr. de: «Geopolitics in South America, Part II, Brazil», Paper no. 5, Helsingborg 1989).
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samedi, 27 mars 2010
Il male atlantista
di Fabio Falchi
Fonte: fabiofalchicultura
L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale". |
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
E' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.
Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).
E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".
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Géopolitiques de l'Argentine et du Chili
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Géopolitiques de l'Argentine et du Chili
Bertil HAGGMAN
Si le Canal de Panama est bloqué, le trafic maritime n'a d'autre alternative que d'emprunter la route qui passe par le Cap Horn. C'est pourquoi tant l'Argentine que le Chili ont une très grande importance géopolitique. A l'époque de la guerre froide, ces deux pays étaient des cibles privilégiées des tentatives de pénétration soviétique. Le long littoral de la côte argentine face à l'Atlantique Sud (1700 miles) fait de ce pays une puissance atlantique. De l'autre côté du cône austral de l'Amérique du Sud se trouve le Chili, dont la côte pacifique est longue de 2600 miles. Le territoire chilien s'étend sur une centaine de miles plus au Sud. Le Détroit de Drake entre la Péninsule Antarctique et le Cap Horn constitue une connexion vitale entre les Océans Pacifique et Atlantique. Il nous apparaît dès lors fort important de procéder à une étude de la géopolitique chilienne et argentine en Europe, afin que nous nous rendions bien compte de l'importance géostratégique et géopolitique vitale de cette région du monde.
La géopolitique argentine
En Argentine, on s'intéresse très fort à la géopolitique et on y consacre toutes sortes de recherches. La pensée géopolitique s'y est développée en deux étapes depuis 1940. La première étape a commencé vers 1940 et s'est poursuivie jusqu'au début des années 50. La première théorie géopolitique moderne d'Argentine semble être celle mise en œuvre par Emilo R. Isolas et Angel Carlos Buerras. En 1950, ils publient tous deux Introduccion a la geopolitica argentina. Nos deux auteurs y affirmaient que les doctrines géopolitiques conçues à l'étranger n'étaient pas toujours pertinentes pour l'Argentine. Ce sont eux également qui ont introduit la méthode d'inverser les cartes. Celles-ci, dans leurs travaux, étaient centrées sur l'Argentine et sur le “pivot de l'Antarctique”. Cette manière de jeter un regard sur le monde rappelle des tentatives similaires, réalisées au Canada et aux Etats-Unis, quand on cherchait, là-bas, à souligner l'importance de l'Arctique. L'importance de l'Antarctique a acquis progressivement une signification cardinale dans les théories géopolitiques argentines. Isolas et Buerras plaidaient pour le renforcement des liens entre l'Argentine et le Chili et pour le retour des Iles Malouines/Falklands à l'Argentine.
Plus d'une décennie s'est écoulée, avant que de nouvelles idées géopolitiques voient le jour, mais les thèses de Buerras et Isolas continuaient néanmoins à être étudiées et approfondies dans les universités, les écoles et les académies militaires. En 1966, Justo P. Briano, un Colonel qui avait enseigné au Collège Militaire en 1940-41 publie un ouvrage de très grand intérêt. Entre 1960 et 1964, il était devenu professeur de géopolitique à l'Institut de Science Politique de la Salvador University. Dans Geopolitica y geostrategia americana, il affirme que la géopolitique est une science. Elle est, affirme-t-il, un instrument inestimable pour les hommes politiques qui guident effectivement la nation. Briano militait pour l'unification du continent sud-américain. Il voulait ce que l'on appelait l'“intégration”, autour de l'Argentine et du Brésil, alliés des Etats-Unis dans un “groupe américain”.
Jorge Atencio, également Colonel et Professeur de géopolitique à l'Université Nationale de Cuyo (Mendoza) fut le successeur immédiat de Briano, en soumettant à ses élèves et ses collègues un nouvel ouvrage majeur de géopolitique, intitulé Que es geopolitica? Ce livre constitue une interprétation claire de la pensée géopolitique et en adapte les thèses d'un point de vue argentin. L'Argentine, explique Atencio, n'a nul besoin d'étendre son territoire mais doit le développer. Atencio inclut dans le territoire argentin les Iles Malouines et l'immense secteur argentin de l'Antarctique. Il affirme également que la mer est importante. Les Amériques du Nord et du Sud disposent d'énormes réserves territoriales et sont les dépositaires de larges territoires, en deuxième position par rapport à l'Asie. Atencio réclame de ses compatriotes qu'ils s'intéressent davantage à la mer et qu'ils déployent un maximum d'efforts pour développer les zones “vierges” de l'Argentine.
Fernando A. Milia, Amiral en retraite, était lié à l'Institut des Etudes stratégiques. Son livre Estrategia e poder militar (1965) est une tentative de créer une doctrine stratégique argentine. L'Amiral Milia prétend que la stratégie se limite aux exigences de la politique étrangère, de la politique intérieure et de l'économie. Le développement économique est nécessaire pour accroître le potentiel militaire. La théorie de Milia cherche à intégrer dans son concept stratégique l'entièreté ou des parties des territoires voisins. Cette volonté a été dénommée “intégrationniste”.
La pensée géopolitique contemporaine en Argentine est surtout liée à deux thématiques. La première est orientée vers la restauration du pouvoir et de l'influence de l'Argentine par le biais d'une forme ou une autre de politique “intégrationniste”, parfois d'inspiration nationaliste. L'autre thématique se retrouve dans des travaux dont l'orientation générale opte pour la coopération ou pour l'intégration économique et militaire (c'est l'intégrationnisme non nationaliste). Le schéma ci-dessous montre bien quels sont les objectifs de chacune des deux écoles:
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En 1975, Osiris Guillermo Villegas, Général à la retraite, publie Tiempo geopolitico argentino. Il y explique que l'Argentine a besoin d'un nouveau modèle national qui lui permette d'accélérer son développement. Les atouts qui lui permettraient de réaliser un tel programme sont: l'autonomie de décision, la rentabilisation économique de la région et la création d'une société développée, originale et créative. L'intégration nationale doit tout à la fois tabler sur les efforts du peuple et sur les forces armées, recommande le Général Villegas. Dans une annexe de son livre, Villegas donne 160 recommandations politiques originales, afin de réaliser ce nouveau modèle de société.
Le géopolitologue le plus péroniste des années 70 reste sans conteste Gustavo Cirigliano. Dans son livre Argentina triangular: geopolitica y projecto nacional (1975), , il affirme que l'Argentine est une puissance “triangulaire” et non pas circulaire. Elle s'est developpée selon deux axes: l'axe andéen et l'axe de la Plata et a ainsi englobé la Patagonie, les Malouines et le secteur argentin de l'Antarctique. Cirigliano a également suggéré un projet d'intégration continental, devant s'achever en 1990, incorporant le Canada en 1994 et l'Espagne en 1995. Le livre de Cirigliano a été critiqué, on l'a jugé trop utopique, mais on l'a également loué parce qu'il mettait l'accent sur l'intégration continentale.
Gomez Rueda, Professeur à l'Université de Cuyo, est proche de Villegas dans sa pensée. Son ouvrage Teoria y doctrina de la geopolitica (1977) démontre que la géopolitique est liée à la politique, la géographie et l'histoire et est fortement connectée à la stratégie. Rueda a forgé une nouvelle théorie géopolitique, la théorie relativiste. Rueda vise l'intégration continentale des dix pays de l'Amérique du Sud, afin de ne plus former qu'un seul pays. Il affirme aussi que l'Argentine est le centre géopolitique du Ters-Monde. Dans son livre, il subdivise l'Amérique du Sud en cinq régions géopolitiques; parmi celles-ci, la région biocénanique, comprenant le cône austral de l'Amérique du Sud, soit le Chili et l'Argentine.
José Felipe Marini est également un Colonel en retraite de l'Armée de Terre; il enseigne la géopolitique au Collège national de guerre et à l'Institut des Services étrangers. En 1980, il a publié trois ouvrages de géopolitique, dont certains avec un co-auteur. L'ouvrage principal de Marini date de 1978 et s'intitule Geopolitica argentina: Bases para su formulacion. Il y perçoit l'Argentine comme une île, séparée par de longues distances océaniques de l'Europe, de l'Afrique et de l'Australie. Il se fait l'avocat d'une étroite coopération avec le Chili, pays dont la position est similaire. L'Argentine doit peupler et développer les espaces vacants de son territoire et formuler des objectifs politiques sur le long termes (des périodes de 20 à 25 ans) afin d'assurer son développement.
Dans un livre intitulé El poder del Pan, Rodriguez Zia plaide pouru ne intégration complète de l'Argentine, de la Bolivie, du Paraguay et de l'Uruguay, afin d'amorcer une politique qui favorise à outrance la production de denrées alimentaires. Il affirme que cette région appelée à s'intégrer est la plus habitable de tout l'hémisphère sud. Le bassin de la Plata pourrait constituer une formidable réserve de production alimentaire. La théorie du Heartland de Mackinder ne survivra pas, prophétise Zia, car le véritable problème de l'avenir sera la faim. Le vrai pouvoir sera le “pouvoir du pain”.
L'Argentine a développé un véritable programme d'enseignement de la géopolitique dans ses collèges militaires et dans ses universités civiles. Même dans les écoles secondaires, la géopolitique est enseignée d'une manière relativement intensive. Après le retour d'un pouvoir civil dans les années 80, l'influence de la géopolitique s'est peut-être un peu amoindrie mais reste importante et ne cesse d'exprimer les intentions stratégiques et politiques du pays, sur le plan des politiques intérieure et extérieure.
La géopolitique en Argentine s'est étoffée au départ de l'“Instituto do Estudios geopoliticos” (IDEG) et de sa revue Geopolitica. Il y a également eu un “Instituto Argentino de Estudios Estratégicos y de las Relaciones Internacionales” (INSAR), à la tête duquel se trouvait le Général Guglialmelli. Cet institut publiait la revue Estrategia, qui a cessé de paraître. L'INSAR peut être considéré comme plus nationaliste, tandis que l'IDEG est plus intégrationniste.
La tradition géopolitique en Argentine remonte bien avant 1940, mais j'ai surtout voulu attirer l'attention de mes lecteurs sur la géopolitique moderne. Il me faut toutefois citer un ouvrage ancien, Interesa argentinos en el mar (1916), rédigé par l'Amiral Segundo R. Storni. L'intention de l'Amiral Storni était de réveiller l'intérêt des Argentins pour la mer. Storni combinait les concepts de Ratzel et de Mahan. Il estimait que l'Argentine devait se doter d'une vaste flotte marchande, de même que d'une flotte de pêche. Les forces navales étaient nécessaires pour protéger les navires civils. On considère aujourd'hui que Storni est le fondateur d'une géopolitique argentine orientée vers la mer.
La géopolitique chilienne
Le Chili a produit moins de textes géopolitiques que l'Argentine, toutefois, ce pays a la caractéristique d'avoir été gouverné à partir de 1973 par un Président géopolitologue et auteur d'un traité de géopolitique, Geopolitica. Ce Président, c'était Augusto Pinochet. Le Chili est une puissance navale dans l'Océan Pacifique, position qui a influencé toute sa conception de la stratégie et de la géopolitique. Comme en Argentine, les Chiliens s'intéressent énormément au continent Antarctique. Les débuts de la géopolitique moderne au Chili remonte aux années 40 et sont marqués par des livres aussi importants que Chile o une loca geografia (1940) et Tierra de Oceano (1946, tous deux de Benjamin Subercaseaux. En 1944, Oscar Pinochet de la Barra avait publié La Antartica chilena.
L'un des principaux géopolitologues chilien dans les années 30 et 40 a été le Général Ramon Canas Montalva. Ce militaire a avancé de nombreuses théories, parmi lesquelles nous retiendrons surtout la revendication chilienne d'une part du continent antarctique. Un décret présidentiel avait jadis délimité les revendications chiliennes dans cette aire: de 53° à 90° de longitude ouest. La première base chilienne sur ce continent a été établie en 1947. Dans un article paru en 1948, le Général Canas Montalva lance quatre nouveaux concepts géopolitiques:
1. L'ère du Pacifique commence, signalant que les ères méditerranéenne et atlantique viennent de prendre fin.
2. L'importance du lieu géographique dans toute géopolitique.
3. Le Chili détient une responsabilité d'ordre géopolitique dans la défense continentale et a un destin propre.
4. Le Chili est une puissance du Pacifique-Sud.
Les Amériques doivent dès lors devenir les continents de l'ère nouvelle. Par sa position géographique, le Chili doit être en mesure de contrôler les voies aériennes et maritimes dans la région. Dans un article ultérieur, intitulé Reflexiones geopoliticas (1), le Général Canas Montalva jette les bases de ses théories géopolitiques. Un an plus tard, il propose la fondation d'une “Confédération du Pacifique”, étape vers l'unification du continent.
Dans les années 50, Pablo Ihl a développé ces idées. Il plaide en faveur d'une solution “tiers-mondiste” pour le Chili, en association avec d'autres puissances du Pacifique et du continent sud-américain.
1. Le Chili doit proposer une union économique et commerciale entre le Chili, l'Argentine, le Brésil, la Bolivie, le Pérou, l'Equateur, le Paraguay, l'Uruguay, l'Australie, la Nouvelle-Zélande et les îles du Pacifique.
2. Le Chili doit travailler à l'avènement d'une grande nation sud-américaine, comprenant tous les pays de ce continent, ainsi que le Mexique et les Etats centre-américains.
Ihl voulait l'intégration d'autres nations sud-américaines. Comme le Général Canas Montalva dans les années 50, il réagit contre une menace argentine. Il réclame un “bloc pacifique” pour contrer les pressions de Buenos Aires. Vers 1960, Canas Montalva avait également attiré l'attention de ses compatriotes sur l'importance géostratégique du Canal de Beagle.
En 1968, Julio Cesar von Chrismar Escuti publie Geopolitica: Leyes que se deducen del estudio de la expansion de los Estados. Von Chrismar affirmait qu'il existe une série de “lois géopolitiques”. Il en a identifié 35 et les a analysées brièvement. Il met l'acent sur la sécurité et le développement, dans des termes que l'on retrouve dans les écrits géopolitiques d'Argentine et du Brésil. Ses vues reflètent surtout l'option de l'Académie de guerre, où le Général Augusto Pinochet Ugarte était professeur de géopolitique. C'est d'ailleurs lui qui écrira la préface du livre de von Chrismar. Ce dernier enseigne la géopolitique à l'Academia Superior de Seguridad Nacional.
La même année, Pinochet publie son livre Geopolitica, résultat de quinze années d'enseignement de cette discipline et de stratégie. Le point de départ de Pinochet est la théorie de Ratzel sur l'Etat comme organisme vivant. La croissance de l'Etat est l'étape la plus importante dans le cycle de vie d'une nation. Pinochet récapitule l'histoire de la pensée géopolitique depuis l'antiquité et le moyen-âge. Pinochet explique que pour comprendre la naissance, la croissance et le dépérissement des Etats, il faut être conscient du rôle qu'ont eu les réactions aux défis d'ordre spatial, ainsi que d'un nombre d'autres facteurs tels la géostratégie.
Augusto Pinochet et von Chrismar forment en quelque sorte une école distincte de la géopolitique chilienne. Ils présentent les lois et les concepts de la géopolitique de façon telle que les gouvernements sont appelés à les appliquer pour le bien de l'organisme Etat. Plus tard, dans les années 70, une géopolitique plus nationaliste voit le jour. Ainsi, Federico Manuel Bermudez se fait l'avocat d'une “mer chilienne” dans le Pacifique et veut étendre les eaux territoriales jusqu'à 200 miles. Cette “mer chilienne” devait avoir les limites suivantes: à partir de la frontière nord du Chili, les géopolitologues nationalistes tracent une ligne jusqu'à l'Ile de Pâques, puis la font descendre vers le Sud-Est jusqu'à la limite des revendications chiliennes dans l'Antarctique, soit 90° de longitude Ouest, pour revenir au territoire continental du pays. A l'Est, ils tracent une ligne à partir du Canal de Beagle, la prolongent vers l'Est, à travers l'Arc des Antilles australes jusqu'à la limite orientale des revendications chiliennes dans l'Antarctique. Cette délimitation de la “mer chilienne” aurait donné au Chili le cinquième de l'Océan Pacifique. Notons que le Chili n'a pas revendiqué une extension de sa souverainté sur toute cette zone.
Dans les années 80, le Chili a produit énormément de textes géopolitiques. Après 1973, émerge une “nouvelle géopolitique”. Elle prend des aspects à la fois nationalistes et intégrationnistes, mais ce sont nettement les formes nationalistes qui dominent. La “nouvelle géopolitique” a l'ambition politique de souligner le rôle du Chili en tant que puissance pacifique. En 1981, l'“Instituto Geopolitico de Chile” (IGC) est fondé. Son directeur est le Prof. Hernan Santis Arena (2). L'IGC produit toute une série de publications, ainsi qu'une revue, la Revista Chilena de Geopolitica. L'institut impulse d'importants débats en matières de géopolitique et promeut le développement de la science géopolitique dans cet important pays du cône austral de l'Amérique du Sud.
Bertil HAGGMAN.
(Paper no. 4, Geopolitics in South America, Part 1, The Cone: Argentina and Chile, 1989, Center for Research on Geopolitics, Helsingborg, Suède).
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vendredi, 26 mars 2010
Le "Plan Bernard Lewis"
Mansur KHAN (*) :
Le « Plan Bernard Lewis »
L’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.
Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).
Lors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).
Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ». C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.
Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).
Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.
Mansur KHAN.
(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).
Notes :
(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).
(1) Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.
(2) Ibidem, p. 303 & ss.
(3) William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.
(4) Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.
(5) Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.
(6) Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.
(7) Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.
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Comment s'agencera l'archipel-monde? Hypothèses au seuil des années 1990
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991
Comment s'agencera l'archipel-monde?
Hypothèses au seuil des années 1990
Robert STEUCKERS
Extrait mis à jour d'une conférence prononcée à la tribune du Cercle Kléber, animé par Pierre Bérard à Strasbourg en novembre 1991
Devant la fin de la bipolarisation et le morcellement du bloc oriental/communiste, le monde semble mûr, au début des années 90, pour prendre la forme d'un “archipel”. Michel Foucher, géopolitologue français, forge à ce moment-là, dans l'euphorie de la chute du Mur de Berlin et de la réunification allemande, le concept d'“archipel-monde”. La planète se scinde en ensembles distincts, mais fortement interdépendants. C'est précisément cette notion d'interdépendance qui fera la différence entre les pratiques qu'initieront les composantes de cet archipel-monde, d'une part, et ce qu'ont suscité les visions autarciques du passé (les Pan-Ideen de l'école de Haushofer).
Chez Michel Foucher, la prise en compte de cette interdépendance peut faire penser à l'éclosion d'une économie-monde, d'un grand marché global et unique. Tel n'est pourtant pas le cas: en dépit de l'interdépendance économique, la pluralité sera maintenue au XXIième siècle, pense Foucher. Mais sous quelle forme? Sous la forme de regroupements régionaux volontaires et non plus autoritaires à la mode soviétique ou coercitif comme sous la férule des armées allemande et japonaise en Europe et dans la “Sphère de co-prospérité est-asiatique”. Pour Foucher, l'Union du Maghreb, la zone baltique, la zone adriatique, l'ASEAN (Asie du Sud-Est), l'ALENA (Mexique, USA, Canada) sont des ensembles volontaires de cette nature. Ils apportent ponctuellement satisfaction et prospérité aux citoyens qui vivent en leur sein.
Toujours selon Foucher, trois grands centres —Washington, Tokyo et Bruxelles— se profileront, sans qu'il n'y ait plus une opposition Est/Ouest ou Nord/Sud, mais une dispersion généralisée des grands centres de décision, ne permettant plus aucun antagonisme binaire. En dépit de leur volonté de rester différents et de conserver leur autonomie, les trois centres imposeront une globalité croissante des règles, tout en respectant les volontés d'autonomie. Il s'agira de conjuguer ouverture et identité. La logique de ces regroupements ne sera plus une logique militaire, comme celle qui régentait l'idéologie du camp retranché brejnévien, ni même une logique exclusivement économique, tendance que l'on a trop souvent dû déplorer dans la construction européenne. Ce constat, un peu amer, ne signifie pas que nous postulons une évacuation de l'économie, celle-ci gardant tout son poids, mais que nous espérons un retour offensif du culturel, qui servira de ciment et de levain à ces ensembles pluriels.
Pour Zaki Laïdi, chercheur au CNRS, auteur notamment de L'URSS vue du Tiers-Monde, paru chez l'éditeur Karthala, a analysé les carences de la “grammaire léniniste” exportée en Afrique par les coopérants de l'ère brejnévienne. Laïdi nous demande d'imaginer cinq scénarios pour une multipolarité fonctionnante, c'est-à-dire des combinaisons régulatives circonstancielles, toujours temporaires:
1) Une alliance Russie/Etats-Unis, avec deux protagonistes majeurs habitués à la pratique du leadership. Ils possèdent tous deux de fortes armées mais ont pour faiblesses, l'un, un déficit pharamineux, l'autre, un technological gap problématique.
2) Une domination européenne sur le commerce mondial, assorti d'une aide à l'Est. La faiblesse de l'Europe reste la faiblesse de sa défense.
3) Une alliance Japon/Etats-Unis, garantissant la sécurité asiatique, assurant aux Etats-Unis un financement constant venu du Japon, permettant un leadership sur le commerce mondial.
4) L'avènement de la triade Japon/Etats-Unis/Europe.
5) L'avènement d'un “Quadrilatère Nord”, impliquant une alliance des Etats-Unis, du Japon, de l'Europe et de la Russie.
Ensuite Zaki Laïdi pose la question: quelles seront les valeurs fédérantes de ces ensembles? La fragmentation, l'archipélisation, induisent une dispersion du processus de fabrication des valeurs. Autant de valeurs, autant de stratégies vitales. On perçoit tout de suite le rôle-clef du combat culturel dans l'optique de Laïdi, alors que d'aucuns voulaient l'évacuer pour poursuivre de vaines chimères politiciennes ou pour mettre seulement les règles économiques à l'avant-plan ou pour hisser des slogans moralisants sans profondeur, tout de raideur, à la place des cultures cimentantes et liantes, dont la plasticité permet souplesse et réadaptations, contrairement à la rigidité des codes moralisants. Zaki Laïdi voit dans les identités des matrices fécondes, permettant sans cesse des jeux complexes de préservations et de renouveaux, en dépit des glaces idéologiques, des idéologies froides (pour paraphraser Papaioannou).
Mais les valeurs américaines sont toujours dominantes. Toutefois leur socle s'affaiblit: il est contesté par une gauche communautarienne et une droite qui veut imposer envers et contre tous les pragmatismes matérialistes et calculateurs, sourds aux valeurs, l'éthique de la moral majority. Les valeurs ou plutôt les contre-valeurs américaines sont curieusement plus vivaces ou virulentes dans leurs zones d'exportation, notamment en France, où les banlieues sont ravagées par le déracinement des populations, par la disparition des grands clivages idéologiques qui font que les profils politiques européens traditionnels (catholique, communiste, etc.) sont de moins en moins distincts. La réactivation des identités permettrait un travail de substitution et de reconquête. Aux valeurs américaines dominantes se substitueraient des valeurs diversifiées, permettant l'élaboration de modèles politiques divers, reposant sur des mécanismes acceptant et rentabilisant les différences. En économie, la diversification des modèles culturels et des modèles de vie enclencherait un processus de diversification des produits donc de réactivation de l'économie.
Deuxième question soulevée à l'aube des années 90 et toujours sans réponse: faut-il reprendre le rôle des deux superpuissances du temps de la guerre froide? Le tandem euro-japonais pourrait-il prendre le relais? Zbigniew Brzezinski souligne les faiblesses du Japon et de l'Europe. Cette dernière, dit-il, souffre surtout de son hétérogénéité: les grands courants idéologiques ont gelé des identités mais n'ont pas pour autant susciter un sens du destin de l'Europe. Exemples: 1) L'Internationale socialiste est elle-même hétérogène: on constate en son sein une grande différence d'approche entre ceux qui étaient neutralistes, notamment en Allemagne et en Italie, et ceux qui étaient atlantistes, comme la plupart des Français. 2) Dans le PPE (Parti Populaire Européen), regroupant les formations démocrates-chrétiennes, l'aile conservatrice ne dit pas la même chose que les ailes “progressistes”, et le poids du catholicisme dans ce PPE, en dépit de la participation de protestants hollandais et allemands, maintient un clivage confessionnel empêchant l'envol d'une vision européenne commune, comparable à celle qui faisait la force de l'idéal écouménique catholique juste avant la Réforme. Le carnage yougoslave a bien montré que la césure entre Rome et Byzance ne s'est nullement cicatrisée.
Pour Brzezinski, la faiblesse du Japon tient au fait qu'il veut garder ses traditions en dépit des défis de la modernité technologique. Le politologue américain opte là pour une analyse diamétralement opposée à celle de Zaki Laïdi.
Autre voix, celle de l'Indien Muckund Dubey. Celui-ci constate que l'atout militaire, propre des Etats-Unis et de la Russie, est économiquement affaiblissant (son analyse rejoint en cela celle du Prof. Paul Kennedy, in The Rise and Fall of the Great Powers). Face à ces deux puissances alourdies par leur fardeau militaire, l'Allemagne et le Japon n'ont pas intérêt à s'imposer dans le monde de la même façon que Washington et Moscou du temps de la guerre froide et de sa logique binaire. Leur politique doit dès lors consister à arrondir les angles, à se rendre indispensables pour effacer les aspérités de la bipolarité. L'Espagnol Juan Antonio Yañez partage peu ou prou la même opinion: il n'y a plus de dyarchie, ni remplacement d'une dyarchie par une autre. Il n'y a pas non plus d'oligarchie des grandes puissances, en dépit du G7, mais on voit poindre à l'horizon d'autres formes de coopération, sans exclusion.
François Heisbourg, directeur de l'“International Institute for Strategic Studies” à Londres, la multipolarité et l'archipelisation du monde contiennent un terrible risque, celui de voir se multiplier les conflits régionaux, comme par exemple celui qui oppose l'Inde au Pakistan, où les adversaires pourraient recourir à des armes nucléaires. Tout dérapage dans un éventuel conflit indo-pakistanais pourrait déclencher une succession en chaîne de conflits nucléaires locaux avec risques écologiques globaux. Dans l'optique américaine et britannique, que défend Heisbourg, c'est la volonté d'éliminer un risque de cette nature qui a justifié l'intervention dans le Golfe en 90-91. Mais, si le risque de conflits nucléaires localisés est sans doute réel, cela ne signifie pas, à nos yeux, qu'il faille perpétuer la stratégie anglo-saxonne de la balkanisation des grandes aires culturelles, car celle-ci aussi est très bellogène.
La vraie question qu'il conviendrait de poser est la suivante: qui restaurera l'équivalent de la pax turcica d'avant 1918/19 au Proche et au Moyen-Orient? La guerre Iran-Irak, le conflit palestinien, le risque d'une guerre de l'eau, le risque de voir les pétro-monarchies déstabilisées, la misère du peuple irakien après la défaite devant les armées onusiennes, montre clairement qu'il faut dans cette région une puissance gardienne de l'ordre, tablant sur une population suffisamment nombreuse et homogène culturellement, capable d'agir à la satisfaction du plus grand nombre. La Turquie, à la condition qu'elle abandonne ses prétentions à vouloir entrer dans l'Europe, l'Irak (représentatif du pôle arabe) et l'Iran sont autant de candidats potentiels. L'axe d'expansion interne de ce nouveau Moyen-Orient doit être Nord-Sud, et l'Europe apportera son soutien dans cette seule condition.
Francisco Rezek, ministre des affaires étrangères du Brésil, reprend à son compte l'idée gorbatchévienne de “maison commune”. Il estime que l'idée de “maison commune” exclut toute pratique de “verticalité” entre les Etats, donc tout hégémonisme. L'idée gorbatchévienne de “maison commune” a suggéré l'“horizontalité” des relations inter-étatiques et réitéré un projet formulé lors de la visite de De Gaulle en URSS, qui avait irrité les milieux atlantistes. Rezek voit la juxtaposition sur la planète de trois “maisons communes”, de trois aires économico-civilisationnelles: l'aire américaine (de l'Alaska à la Terre de Feu), l'aire euro-arabe à deux vitesses, l'une au nord de la Méditerranée, l'autre au Sud, du Maroc au Koweit; enfin, l'aire asiatique-orientale, reprenant plus ou moins l'idée japonaise d'une zone de co-prospérité est-asiatique.
Mohamed Sahnoun, conseiller diplomatique du Président Chadli (et aujourd'hui négociateur de l'ONU pour la région des Grands Lacs en Afrique), parie pour une logique eurafricaine, qui aura en face d'elle la tentative américaine de s'implanter dans le Golfe Persique et de contrôler la Corne de l'Afrique. Cette dynamique eurafricaine, plutôt euro-arabe, est appelée à dépasser le nationalisme, en tant que raisonnement politique appliqué à des espaces devenus aujourd'hui trop étroit, pour favoriser le “culturalisme”, c'est-à-dire un patriotisme animant de vastes aires culturelles. L'avènement de ces Kulturkreise (pour reprendre le vocabulaire du sociologie darwinien du XIXième siècle, Ratzenhofer) ou de ces Völkergemeinschaften (Constantin Frantz) ou de ces Großräume (Schmitt, Perroux, Haushofer) signale un processus d'élargissement des horizons qui n'induit pas nécessairement un déracinement. La culture d'un peuple ou plutôt d'une communauté de peuples prend le pas sur l'idéologie abstraite, universaliste dans ses intentions. La culture reconquiert le terrain que lui avait enlevé l'idéologie. L'organique, chassé par le faux pragmatisme, les mécanicismes méthodologiques, par les pratiques économicistes, revient au galop. Le mutilation mentale que constituait l'adhésion à une idéologie (Zinoviev) s'estompe, les valeurs redeviennent des refuges stabilisants. Pour restaurer ces valeurs, il faut agir dans la sphère culturelle. Il n'y aura pas nécessairement disparition pure et simple des Etats-Nations: les Etats-Nations qui acceptent le retour du culturel, qui acceptent le principe d'une imbrication dans une vaste sphère culturelle se fortifieront; les Etats-Nations qui refuseront ce primat du culturel imploseront ou exploseront.
Pour Mohamed Sahnoun, les relations Nord/Sud seront pendant longtemps ponctuées de conflits, en dépit de la nécessité de fédérer les énergies. Ces conflits seront d'ordre racial (à cause de l'explosion démographique, notamment dans le Maghreb, qui pousse à l'émigration dans des zones ethniquement différentes) et des reliquats de l'humiliation coloniale. Mais le défi écologique, les pollutions dramatiques, la disparition d'espèces animales, et surtout la déforestation de l'Amazonie et de l'Afrique, contraindront Nord et Sud à coopérer à l'échelle globale.
Moriyuki Motono, Conseiller de Nakasone, projette cette idée d'un futur “culturalisme”, d'une juxtaposition d'aires culturelles, surtout sur le grand bloc continental eurasiatique, où une Europe de l'Ouest (catholique et protestante), serait la voisine d'une Russie/CEI et partagerait avec elle une sorte de plage d'intersection slave-uniate-grecque-orthodoxe- roumaine; toutes deux seraient les voisines d'un vaste Islamistan, avec la Méditerrannée et l'ancienne Asie centrale soviétique comme zones d'intersection. Enfin, l'Hindoustan indien serait le pivot central de cette dynamique plurielle entre aires culturelles différentes, sur les rives de l'Océan Indien. A l'Est renaîtrait la sphère de co-prospérité est-asiatique.
L'intérêt de la vision de Moriyuki Motono réside dans le constat qu'il y aura des plages d'intersection entre les aires culturelles de demain, et qu'elles pourront être tout autant sources de conflit que zones de transition et facteurs d'apaisement. Motono reprend là la vieille idée géopolitique anglo-américaine des lignes de fracture en lisière du noyau continental eurasien et sur les rives océaniques; cette idée est issue d'une interprétation du rôle des “rimlands” entourant le “heartland” sibérien/centre-asiatique. Mais Motono ne prévoit aucune intervention américaine dans ces cinq zones culturelles: son Amérique est repliée sur la Grande Ile s'étendant de l'Alaska à la Terre de Feu, elle prend enfin la Doctrine de Monroe au sérieux. Elle est définitivement isolationniste. Motono précise l'idée de culturalisme par rapport à Sahnoun, rejoint en quelque sorte Rezek en n'évoquant aucune verticalité. L'idéal serait sans doute la présence d'un hegemon dans chacune de ces aires, d'une puissance-guide qui aurait la sagesse de travailler inlassablement à l'horizontalisation des relations au sein de sa propre aire et entre les différentes aires.
Pour Paul Lamy, qui a été directeur de cabinet de Jacques Delors à la Commission des Communautés Européennes, la pluralité d'aires culturelles implique une instabilité, une effervescence, qui pourrait à terme s'avérer dangereuse. Il y a donc nécessité d'une régulation, d'un management de l'interdépendance. L'intérêt premier de cette vision de Lamy, c'est qu'elle n'est pas iréniste; il reste quelque peu pessimiste et appelle à la vigilance. Lamy n'est pas un adepte de l'éthique de la conviction, qui croit naïvement à cette “paix perpétuelle” dont ont toujours rêvé les utopistes.
Cet ensemble de réflexions éparses, parfois contradictoires, nous conduit à penser le monde comme divisé entre un “Nouveau Monde” (les Amériques) et un “Ancien Monde” (les vieilles aires de civilisation toujours traversées par des dynamismes féconds). Cet “Ancien Monde” possède un appendice africain (ne représentant hélas pour lui que 2,5% des flux transactionnels de la planète) et un appendice australien-océanique, tiraillé entre une Asie en pleine croissance économique et une Amérique par solidarité anglo-saxonne.
Le “Nouveau Monde” est un monde conquis, l'“Ancien Monde”, un archipel d'aires matricielles, autochtones, autant de sols d'où sont jaillies des civilisations originelles. Le “Nouveau Monde”, de par sa nouveauté et sa qualité de conquête, permet davantage d'expérimentations politiques, de fonder de nouvelles communautés politico-religieuses comme le firent les Founding Fathers puritains, d'expérimenter à l'ère moderne-techniciste plus de projets pré-fabriqués, sans tenir compte des impératifs et des devoirs liés à tout “indigénisme”. L'“Ancien Monde” est la patrie des identités, des cultures telles que l'entrevoit le culturalisme de Sahnoun et Laïdi.
Dans le “Nouveau Monde”, la logique peut être éventuellement unifiante, vu l'élimination des indigénats et des résistances qu'ils impliquent. Dans l'“Ancien Monde”, l'homme politique, le décideur, doit être capable de manipuler un arsenal très diversifié de logiques, d'affronter la pluralité, de tenir compte de niveaux multiples. Le type de logique à utiliser dans l'“Ancien Monde” est celui de la bio-cybernétique, où l'on tient compte des “rétro-actions”, des reculs éventuels, des stratégies vitales en apparence illogiques, etc. Le modèle économique du “Nouveau Monde” est celui du libéralisme absolu selon le modèle anglo-saxon défini par Michel Albert dans Capitalisme contre capitalisme. Les modèles économiques de l'“Ancien Monde” doivent être autant d'adaptations spatio-temporelles de ce capitalisme moins absolu qu'Albert définit comme “capitalisme rhénan”. Face à l'économie libérale absolue du “Nouveau Monde”, le “supplément d'âme” est fourni par l'“idéologie californienne”, même si aujourd'hui, le retour aux valeurs cimentantes est une réalité incontournable —et admirable— aux Etats-Unis. Dans l'“Ancien Monde”, valeurs cimentantes et (ré)armements spirituels sont fournis —ou devraient être fournis— par les traditions religieuses, les cultures traditionnelles, les idéaux du “sérieux de l'existence”.
Dans ce concert global, l'Europe, elle aussi, est multiplicité car elle compte trois espaces latins (ou plus), un espace orthodoxe, un espace scandinave, un espace britanniques (où s'affrontent celticité irlandaise, spécificités galloise et écossaise, un fond de “merry old England”, une modernité tout à la fois impériale et marchande), un espace germanique, héritier qu'il le veuille ou non du “Saint-Empire”. Entre certains de ces espaces, nous assistons à l'émergence de coopérations inter-régionales chevauchantes, comme Sarlorlux, Alpe-Adria, etc., préfigurant une Europe unie par un consensus civilisationnel, un “patriotisme de civilisation”, mais conservant ces innombrables facettes, réalités, modes de vie, etc. Il y a en Europe imbrication générale de toutes les matrices culturelles, sans pour autant qu'il y ait simultanément homogénéisation et panmixie. Les aires culturelles d'Europe demeurent mais se fructifient mutuellement, empruntent chez les voisins des linéaments utiles, en rejettent d'autres, enclenchant un processus culturel très effervescent que le poète ou le philosophe qualifieront tour à tour de “kaléidoscopique” ou de “rhizomique” (Deleuze). Des réseaux innombrables traversent les frontières en Europe: ils sont culturels, idéologiques, religieux, commerciaux, historiques. Aucune guerre interne au continent n'a pu les effacer, rien que les interrompre, très momentanément.
L'archipelisation du monde appelle aussi une réorganisation de l'Europe, une Europe capable de reconnaître et de gérer sa propre pluralité avant d'accepter et de chevaucher les pluralités d'ailleurs. C'est à ce titre que l'Europe deviendra réellement un pôle comme l'annonce Foucher, qu'elle fabriquera des valeurs originales capables de s'opposer efficacement aux valeurs matérialistes de l'idéologie californienne, comme le souhaite Laïdi, à notre époque où justement ce matérialisme californien est devenu le matérialisme le plus virulent depuis l'effondrement du grand récit soviétique. C'est à ce titre que l'Europe pourra dépasser ses anciens clivages affaiblissants, dont se réjouit Brzezinski, qu'elle se posera comme un véritable Kulturkreis, comme le souhaite Sahnoun, qu'elle deviendra une “maison commune” travaillée et animée par d'innombrables “horizontalités” fécondantes.
Robert STEUCKERS.
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mercredi, 24 mars 2010
Los corredores bioceanicos fluvio-ferroviarios en la integracion de Suramérica
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003
Los corredores bioceánicos fluvio-ferroviarios en la integración de Suramérica
Alberto Buela(*)
Desde hace más de tres años en el marco del Primer Encuentro de Pensamiento Estratégico de la Patria Grande(29-3-01 en Buenos Aires) y desde el marco de pertenencia de la CGT-disidente, venimos planteando la denominada Teoría del Rombo.
Vinieron luego, el Congreso de Trabajadores Bolivarianos en Caracas (2002); el Segundo Encuentro(2002); el Foro Social Mundial de Porto Alegre (2002); el Tercer Encuentro(2003) y múltiples congresos en el interior del país. Todos ellos con la participación de personalidades políticas, académicas y consulares de los países de América del Sur. Se realizaron además publicaciones de todo tipo para su difusión, incluso quedó plasmada en un libro Metapolítica y Filosofía (Buenos Aires, Theoría, 2002).
Todo esto para decir que cuando hablamos de la Teoría del Rombo lo estamos haciendo sobre algo medianamente conocido, estudiado y aceptado. Se denomina así porque es el pensamiento que busca expresar una Nueva Estrategia Suramericana y que en su formulación plantea la unión de cuatro vértices: Buenos Aires, Lima, Caracas y Brasilia, lo que forma un irregular rombo.
Esta teoría busca una complementación de Mercosur más Pacto Andino a través de la consolidación de un gran espacio en América del Sur, que reúne las características de bioceánico, económicamente autocentrado, tecnológicamente complementario, políticamente confederado e interconectado entre sí mediante el aprovechamiento de los 50.000 km. de ríos navegables en su corazón interior, en su heartland.
Corredores Bioceánicos
Existen potencialmente dos tipos de corredores bioceánicos en América del Sur; los fluviales combinados con los terrestres y los únicamente terrestres.
Nosotros creemos, y esta es nuestra tesis, que sólo los primeros son realmente viables y económicamente plausibles.
Las vinculaciones hidroviales que permiten una interconexión bioceánica son cuatro:
1.- El sistema Orinoco-Meta que vincula Puerto Buenaventura(Colombia) con Puerto Ordáz (Venezuela) con 1866 km. de vía fluvial y 779 km. de carretera.
2.- El sistema Amazonas- Putumayo que une el puerto de Belem do Pará(Brasil) con el de San Lorenzo(Ecuador) con 4535 km. de vía fluvial, 230 de carretera y 549 de ferrocarril.
3.- El sistema Amazonas-Marañón que une los puertos de Belem do Pará(Brasil) con el Chiclayo(Perú) con 4796 km. de vía fluvial y 700 Km. de carretera.
4.- La hidrovía Paraná- Paraguay que une los puertos de Sao Paulo(Brasil) con el puerto de Ilo en Perú con 3440 Km. de vía fluvial, vinculado al corredor vial de 570km. que une Puerto-Suarez(Bolvia)-Corumbá(Brasil) con Santa Cruz de la Sierra, que acaba de ser terminado con la cooperación de lal Unión Europea en Bolivia.
Desde Santa Cruz a Cochabamba con la construcción del pequeño tramo ferroviario a Aiquile, quedan unidas La Paz-Santa Cruz por vía férrea. Luego La Paz-Arica(Chile) o La Paz –Ilo(Perú).
Consideraciones geopolíticas
Es este el corredor bioceánico que nosotros, los argentinos, debemos privilegiar por varios motivos.
En primer lugar porque fortalece uno de los ejes interiores de la Teoría del Rombo, aquel que envuelve al heartland continetal por el lado sur. Permite una circulación rápida y económica de mercadería y gente, habida cuenta que los transportes fluviales y ferroviarios son los más baratos, al poder transportar grandes volúmenes. Son los menos contaminantes y los que tienen menor impacto ambiental.
La vinculación de los puertos de Santos(Brasil) e Ilo(Perú) o eventualmente Arica(Chile) evita y elimina de plano la teoría del arco, de la vieja estrategia brasileña, muy bien aprovechada por Chile, hasta ahora.
Esta teoría del arco fue denunciada por Perón en la Escuela Superior de Guerra en una conferencia de carácter reservado en noviembre de l953 cuando afirmó: tenemos que quebrar la estrategia del arco que va de Río a Santiago y crear una nueva para América del Sur” y proponía a renglón seguido un área de unión aduanera y libre comercio entre Argentina, Brasil y Chile denominada ABC.
Hoy como denuncia el brillante trabajo de Mario Meneghini: Con el eje Chile-China, se nos quiere imponer bajo ropajes nuevos la vieja teoría del arco, que se llevaría a cabo bajo la mascarada de un Proyecto de las Regiones Centro-Cuyo, que viene a cortar a la Argentina en dos para que puedan salir los productos brasileños por el puerto chileno de Coquimbo a través del paso de Aguas Negras en la provincia de San Juan. Todo ello bajo financiación china de 250 millones de dólares.
Hay que decirlo con todas la letras. Cualquier corte horizontal de la Argentina sólo se puede hacer por carretera vial y se haga por donde se haga, sólo beneficia exclusivamente a Chile y al comercio del sur de Brasil. Parte a la Argentina en dos dejando el Norte Grande librado a su suerte de ser siempre una gran región “del futuro”. Cuando en realidad, este Norte Grande cuenta con las mejores condiciones geoestratégicas para constituirse en un engranaje continental que alimente tanto a Brasil, Paraguay, Chile, Bolivia y Perú. Basta mirar el mapa y tomar nota detenida de distancias, accidentes geográficos y ventajas comparativos para darse cuenta que Puerto Suárez(Bolivia) y Corumbá(Brasil) dos ciudades separadas por el río Paraguay están a distancias equivalentes de La Paz, Brasilia, Sao Paulo, Asunción y Salta(Argentina), que forman entre ellas un rectángulo casi perfecto.
Nosotros defendemos y proponemos como el más beneficioso para América del Sur este corredor bioceánico mixto(marítimo, fluvial, ferro-vial) que tiene como gozne Corumbá-Puerto Suárez. En donde Argentina puede integrarse desde tanto desde Corrientes como de Salta.
El aporte de la Comunidad Económica Europea a Bolivia en la construcción del vínculo entre Puerto Suárez y Santa Cruz de la Sierra, nos está indicando una inteligencia sobre este asunto de vital importancia geoestratégica para nuestra región. Está en nosotros captarlo y redimensionarlo con un sentido propio y para beneficio nuestro. La construcción de un gran espacio autocentrado como son los 18 millones de kilómetros cuadrados suramericanos no es un chiste ni una idea baladí, es la construcción de un poder, y eso siempre despierta los celos y resistencias de aquellos que hoy lo tienen.
No tenemos ningún reparo, y forma parte de las relaciones bilaterales entre dos Estados, en que nuestras provincias limítrofes con Chile saquen por allí todas sus mercaderías, pero que no se disfracen dichas salidas, con la bandera de la integración suramericana. Por favor, que no se amañen falsas razones para que Argentina a su costo tenga que mantener 1200 km. de rutas para que transiten alegremente los camiones de Brasil y Chile, que no aportan ningún beneficio ni al Estado nacional ni a la comunidad argentina, ni a la integración.
La Confederación Suramericana va más allá de las buenas relaciones bilaterales entre Estados, pasa, más bien, por la integración de los grandes vértices de poder continental como lo son Buenos Aires, Brasilia, Caracas, que hoy tienen líderes políticos afines, y en menor medida Lima. Si nos desviamos del fortalecimiento de los ejes marcados por este rombo imaginario, creando artificiales e interesados corredores bioceánicos lo que vamos a lograr es, más bien, la desintegración de Suramérica.
(*) filósofo
buela@2vias.com.ar <mailto:buela@2vias.com.ar>
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mercredi, 17 mars 2010
L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986
L'oeuvre géopolitique de Sir Halford John Mackinder (1861-1947)
Qui était le géopoliticien britannique Mackinder, génial concepteur de l'opposition entre thalassocraties et puissances océaniques? Un livre a tenté de répondre à cette question: Mackinder, Geography as an Aid to Statecraft, par W.H. Parker. Né dans le Lin-colnshire en 1861, Sir Halford John Mackinder s'est interessé aux voyages, à l'histoire et aux grands événements internationaux dès son enfance. Plus tard, à Oxford, il étu-diera l'histoire et la géologie. Ensuite, il entamera une brillante carrière universitaire au cours de laquelle il deviendra l'impulseur principal d'institutions d'enseignement de la géographie. De 1900 à 1947, il vivra à Londres, au coeur de l'Empire Britannique. Sa préoccupation essentielle était le salut et la préservation de cet Empire face à la montée de l'Allemagne, de la Russie et des Etats-Unis. Au cours de ces cinq décennies, Mackinder sera très proche du monde poli-tique britannique; il dispensera ses conseils d'abord aux "Libéraux-Impérialistes" (les "Limps") de Rosebery, Haldane, Grey et Asquith, ensuite aux Conservateurs regroupés derrière Chamberlain et décidés à aban-donner le principe du libre échange au profit des tarifs préférentiels au sein de l'Empire. La Grande-Bretagne choisissait une économie en circuit fermé, tentait de construire une économie autarcique à l'échelle de l'Empire. Dès 1903, Mackinder classe ses notes de cours, fait confectionner des cartes historiques et stratégiques sur verre destinées à être projetées sur écran. Une oeuvre magistrale naissait.
Une idée fondamentale traversera toute l'oeuvre de Mackinder: celle de la confrontation permanente entre la "Terre du Milieu" (Heartland) et l'"Ile du Monde" (World Island). Cette confrontation incessante est en fait la toile de fond de tous les événe-ments politiques, stratégiques, militaires et économiques majeurs de ce siècle. Pour son biographe Parker, Mackinder, souvent cité avec les autres géopoliticiens américains et européens tels Mahan, Kjellen, Ratzel, Spykman et de Seversky, a, comme eux, appliqué les théories darwiniennes à la géographie politique. Doit-on de ce fait rejetter les thèses géopolitiques parce que "fatalistes"? Pour Parker, elles ne sont nullement fatalistes car elles détiennent un aspect franchement subjectif: en effet, elles justifient des actions précises ou attaquent des prises de position adverses en proposant des alternatives. Elles appellent ainsi les vo-lontés à modifier les statu quo et à refuser les déterminismes.
L'intérêt qu'a porté Mackinder aux questions géopolitiques date de 1887, année où il pro-nonça une allocution devant un auditoire de la Royal Geographical Society qui contenait notamment la phrase prémonitoire suivante: "Il y a aujourd'hui deux types de conqué-rants: les loups de terre et les loups de mer". Cette allégorie avait pour arrière-plan historique concret la rivalité anglo-russe en Asie Centrale. Mais le théoricien de l'anta-gonisme Terre/Mer se révélera pleinement en 1904, lors de la parution d'un papier inti-tulé "The Geographical Pivot of History" (= le pivot géographique de l'histoire). Pour Mackinder, à cette époque, l'Europe vivait la fin de l'Age Colombien, qui avait vu l'ex-pansion européenne généralisée sans résistan-ce de la part des autres peuples. A cette ère d'expansion succédera l'Age Postcolom-bien, caractérisé par un monde fait d'un système politique fermé dans lequel "chaque explosion de forces sociales, au lieu d'être dissipée dans un circuit périphérique d'espa-ces inconnus, marqués du chaos du barba-risme, se répercutera avec violence depuis les coins les plus reculés du globe et les éléments les plus faibles au sein des orga-nismes politiques du monde seront ébranlés en conséquence". Ce jugement de Mackinder est proche finalement des prophéties énoncées par Toynbee dans sa monumentale "Stu-dy of History". Comme Toynbee et Spengler, Mackinder demandait à ses lecteurs de se débarrasser de leur européocentrisme et de considérer que toute l'histoire européenne dépendait de l'histoire des immensités conti-nentales asiatiques. La perspective historique de demain, écrivait-il, sera "eurasienne" et non plus confinée à la seule histoire des espaces carolingien et britannique.
Pour étayer son argumentation, Mackinder esquisse une géographie physique de la Rus-sie et raisonne une fois de plus comme Toynbee: l'histoire russe est déterminée, écrit-il, par deux types de végétations, la steppe et la forêt. Les Slaves ont élu domi-cile dans les forêts tandis que des peuples de cavaliers nomades règnaient sur les espa-ces déboisés des steppes centre-asiatiques. A cette mobilité des cavaliers, se déployant sur un axe est-ouest, s'ajoute une mobilité nord-sud, prenant pour pivots les fleuves de la Russie dite d'Europe. Ces fleuves seront empruntés par les guerriers et les marchands scandinaves qui créeront l'Empire russe et donneront leur nom au pays. La steppe cen-tre-asiatique, matrice des mouvements des peuples-cavaliers, est la "terre du milieu", entourée de deux zones en "croissant": le croissant intérieur qui la jouxte territo-rialement et le croissant extérieur, constitué d'îles de diverses grandeurs. Ces "croissants" sont caractérisés par une forte densité de population, au contraire de la Terre du Mi-lieu. L'Inde, la Chine, le Japon et l'Europe sont des parties du croissant intérieur qui, à certains moments de l'histoire, subissent la pression des nomades cavaliers venus des steppes de la Terre du Milieu. Telle a été la dynamique de l'histoire eurasienne à l'ère pré-colombienne et partiellement aussi à l'ère colombienne où les Russes ont pro-gressé en Asie Centrale.
Cette dynamique perd de sa vigueur au moment où les peuples européens se dotent d'une mobilité navale, inaugurant ainsi la période proprement "colombienne". Les ter-res des peuples insulaires comme les Anglais et les Japonais et celles des peuples des "nouvelles Europes" d'Amérique, d'Afrique Australe et d'Australie deviennent des bastions de la puissance navale inaccessibles aux coups des cavaliers de la steppe. Deux mobilités vont dès lors s'affronter, mais pas immédiatement: en effet, au moment où l'Angleterre, sous les Tudor, amorce la con-quête des océans, la Russie s'étend inexo-rablement en Sibérie. A cause des diffé-rences entre ces deux mouvements, un fossé idéologique et technologique va se creuser entre l'Est et l'Ouest, dit Mackinder. Son jugement rejoint sous bien des aspects celui de Dostoïevsky, de Niekisch et de Moeller van den Bruck. Il écrit: "C'est sans doute l'une des coïncidences les plus frappantes de l'histoire européenne, que la double expansion continentale et maritime de cette Europe recoupe, en un certain sens, l'antique opposition entre Rome et la Grèce... Le Germain a été civilisé et christianisé par le Romain; le Slave l'a été principalement par le Grec. Le Romano-Germain, plus tard, s'est embarqué sur l'océan; le Greco-Slave, lui, a parcouru les steppes à cheval et a conquis le pays touranien. En conséquence, la puissance continentale moderne diffère de la puissance maritime non seulement sur le plan de ses idéaux mais aussi sur le plan matériel, celui des moyens de mobilité".
Pour Mackinder, l'histoire européenne est bel et bien un avatar du schisme entre l'Empire d'Occident et l'Empire d'Orient (an 395), ré-pété en 1054 lors du Grand Schisme op-posant Rome et Byzance. La dernière croi-sade fut menée contre Constantinople et non contre le Turc. Quand celui-ci s'empare en 1453 de Constantinople, Moscou reprend le flambeau de la chrétienté orthodoxe. De là, l'anti-occidentalisme des Russes. Dès le XVIIème siècle, un certain Kridjanitch glo-rifie l'âme russe supérieure à l'âme cor-rompue des Occidentaux et rappelle avec beaucoup d'insistance que jamais la Russie n'a courbé le chef devant les aigles ro-maines. Cet antagonisme religieux fera pla-ce, au XXème siècle, à l'antagonisme entre capitalisme et communisme. La Russie opte-ra pour le communisme car cette doctrine correspond à la notion orthodoxe de fra-ternité qui s'est exprimée dans le "mir", la communauté villageoise du paysannat slave. L'Occident était prédestiné, ajoute Mac-kinder, à choisir le capitalisme car ses reli-gions évoquent sans cesse le salut individuel (un autre Britannique, Tawney, présentera également une typologie semblable).
Le chemin de fer accélerera le transport sur terre, écrit Mackinder, et permettra à la Russie, maîtresse de la Terre du Milieu si-bérienne, de développer un empire industriel entièrement autonome, fermé au commerce des nations thalassocratiques. L'antagonisme Terre/Mer, héritier de l'antagonisme reli-gieux et philosophique entre Rome et Byzan-ce, risque alors de basculer en faveur de la Terre, russe en l'occurence. Quand Staline annonce la mise en chantier de son plan quinquennal en 1928, Mackinder croit voir que sa prédiction se réalise. Depuis la Révo-lution d'Octobre, les Soviétiques ont en ef-fet construit plus de 70.000 km de voies ferrées et ont en projet la construction du BAM, train à voie large et à grande vitesse. Depuis 70 ans, la problématique reste identi-que. Les diplomaties occidentales (et surtout anglo-saxonnes) savent pertinemment bien que toute autonomisation économique de l'espace centre-asiatique impliquerait auto-matiquement une fermeture de cet espace au commerce américain et susciterait une réorganisation des flux d'échanges, le "crois-sant interne" ou "rimland" constitué de la Chine, de l'Inde et de l'Europe ayant intérêt alors à maximiser ses relations commerciales avec le centre (la "Terre du Milieu" proprement dite). Le monde assisterait à un quasi retour de la situation pré-colombienne, avec une mise entre parenthèses du Nouveau Monde.
Pour Mackinder, cette évolution historique était inéluctable. Si Russes et Allemands conjuguaient leurs efforts d'une part, Chinois et Japonais les leurs d'autre part, cela signifierait la fin de l'Empire Britannique et la marginalisation politique des Etats-Unis. Pourtant, Mackinder agira politiquement dans le sens contraire de ce qu'il croyait être la fatalité historique. Pendant la guerre civile russe et au moment de Rapallo (1922), il soutiendra Denikine et l'obligera à concéder l'indépendance aux marges occidentales de l'Empire des Tsars en pleine dissolution; puis, avec Lord Curzon, il tentera de construire un cordon sanitaire, regroupé au-tour de la Pologne qui, avec l'aide française (Weygand), venait de repousser les armées de Trotsky. Ce cordon sanitaire poursuivait deux objectifs: séparer au maximum les Allemands des Russes, de façon à ce qu'ils ne puissent unir leurs efforts et limiter la puissance de l'URSS, détentrice incontestée des masses continentales centre-asiatiques. Corollaire de ce second projet: affaiblir le potentiel russe de façon à ce qu'il ne puisse pas exercer une trop forte pression sur la Perse et sur les Indes, clef de voûte du système impérial britannique. Cette stratégie d'affaiblissement envisageait l'indépendance de l'Ukraine, de manière à soustraire les zones industrielles du Don et du Donetz et les greniers à blé au nouveau pouvoir bolchévique, résolument anti-occidental.
Plus tard, Mackinder se rendra compte que le cordon sanitaire ne constituait nullement un barrage contre l'URSS ou contre l'ex-pansion économique allemande et que son idée première, l'inéluctabilité de l'unité eurasienne (sous n'importe quel régime ou mode juridique, centralisé ou confédératif), était la bonne. Le cordon sanitaire polono-centré ne fut finalement qu'un vide, où Allemands et Russes se sont engouffrés en septembre 1939, avant de s'en disputer les reliefs. Les Russes ont eu le dessus et ont absorbé le cordon pour en faire un glacis protecteur. Mackinder est incontestablement l'artisan d'une diplomatie occidentale et conservatrice, mais il a toujours agi sans illusions. Ses successeurs reprendront ses ca-tégories pour élaborer la stratégie du "con-tainment", concrétisée par la constitution d'alliances sur les "rimlands" (OTAN, OTASE, CENTO, ANZUS).
En Allemagne, Haushofer, contre la volonté d'Hitler, avait suggéré inlassablement le rapprochement entre Japonais, Chinois, Rus-ses et Allemands, de façon à faire pièce aux thalassocraties anglo-saxonnes. Pour étayer son plaidoyer, Haushofer avait repris les arguments de Mackinder mais avait inversé sa praxis. La postérité intellectuelle de Mackinder, décédé en 1947, n'a guère été "médiatisée". Si la stratégie du "contain-ment", reprise depuis 1980 par Reagan avec davantage de publicité, est directement inspirée de ses écrits, de ceux de l'Amiral Mahan et de son disciple Spykman, les journaux, revues, radios et télévision n'ont guère honoré sa mémoire et le grand public cultivé ignore largement son nom... C'est là une situation orwellienne: on semble tenir les évidences sous le boisseau. La vérité serait-elle l'erreur?
Robert STEUCKERS.
W.H. PARKER, Mackinder. Geography as an Aid to Statecraft, Clarendon Press, Oxford, 1982, 295 p., £ 17.50.
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jeudi, 11 mars 2010
Le réveil du Vieux Monde
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990
Le réveil du Vieux Monde
par Louis SOREL
L'édifice diplomatico-stratégique s'écroule et l'Etablissement politique et médiatique n'en finit pas de jouer les prolongations. Ainsi, Thierry de Montbrial, docteur de l'IFRI, prêche le statu quo quand celui-ci n'existe plus, et Jacques Attali, sous couvert de prospective, fait dans le millénarisme soft (1). C'est donc avec bonheur que nous avons lu le dernier ouvrage de William Pfaff, Le réveil du Vieux Monde. Citoyen américain de souche rhénane, vivant à Paris, William Pfaff développe avec finesse et objectivité ses analyses sur l'ordre international de l'après-guerre. Son diagnostic est sévère et lucide: les héros (Etats-Unis et URSS) sont fatigués et les fissures du monde bipolaire laissent entrevoir un possible retour à la primauté pluriséculaire de l'Europe.
C'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).
Le «siècle américain» n'a pas
duré cinquante ans...
Quarante-cinq années après la clôture de cette guerre de trente ans, la bi-hégémonie américano-soviétique est remise en cause. «Le siècle américain n'aura pas duré cinquante ans» et W. Pfaff fait de l'idéologie américaine la cause majeure des revers extérieurs. De l'isolationnisme de l'Age classique à l'internationalisme de l'après-guerre, la politique extérieure des Etats-Unis se fonde en effet sur la présomption de supériorité morale; qu'il s'agisse de se préserver de ce monde corrompu ou de le convertir, avec pour postulat tacite de Washington à Bush: «L'Amérique ne serait en lieu sûr dans le monde que le jour où le monde lui ressemblerait d'assez près» (4).
Ce messianisme à base de calvinisme et de libéralisme n'a cessé de se heurter à la force des choses. L'Amérique s'est enthousiasmée pour les «Etats-Unis d'Europe» mais depuis le guerre commerciale fait rage et l'insipide technocrate qu'est Jacques Delors se surprend à hausser le ton! L'Amérique a cru l'Asie plus docile et ouverte à son influence mais elle n'en finit pas d'exorciser le spectre du Vietnam!
Et pourtant, le vieux vocabulaire de l'exceptionalisme américain persiste, faute d'autre philosophie politique: «Mise au défi de repenser la politique en Amérique centrale, la Commission Kissinger, groupe de réflexion à dominante conservatrice qui remit son rapport en 1984, ne trouva rien de mieux à proposer qu'un ambitieux programme d'assistance pour aider les populations centre-américaines à faire leur la vision de l'avenir que représentent nos idéaux».
Parallèlement, les anciennes sociétés culturellement autonomes d'Europe centrale et d'Eurasie auront survécu à la puissance soviétique et démontrent le caractère inéluctablement transitoire du communisme. Cette volonté de faire table rase du passé a généré la situation d'insécurité permanente de l'URSS.
Aujourd'hui l'Amérique souffre d'hypertrophie impériale et invoquer les mânes des Founding Fathers ne conjurera pas le déclin. De même, le retour de Lénine prôné par Gorbatchev ne peut légitimer un système à bout de souffle (5). Ironie de l'histoire, «de cette révolution, il (Gorbatchev) pourrait bien être le Kérenski!». La rétraction des deux protagonistes du jeu politique mondial n'est pas sans risques, mais la fin du «siècle américain» débouche sur un nouveau «siècle européen». De fait, le thème récurrent du Pacifique, Méditerranée du XXIième siècle, a pu dominer l'orée des années 80, la remarquable réussite d'un Japon fondamentalement autre n'a pas valeur paradigmatique, W. Pfaff se montrant circonspect quant à l'éveil de la Chine, tant la vigueur des cultures de frontière fait défaut à la civilisation centrale (6). Demeure donc au centre du monde l'Europe, dont le partage était l'enjeu de la guerre froide, les Etats-Unis ne pouvant s'en abstraire sans renoncer à la puissance.
Quelles destinées pour
la Grande Europe...?
«Lorsque le maître de la mer dispose d'un pareil atterrage, écrit Georges Buis, il ne le lâche pas». De bon gré, ajouterions-nous. Un temps déclassée mais bénéficiant des plus formidables antécédents historiques, «l'Europe pourrait même à l'avenir compter davantage que les Etats-Unis». Ecrivant ces lignes avant le jeu de domino de l'automne 1989, l'auteur n'envisage alors que le seul sort de la CEE; avec la fermeture de la parenthèse soviétique, les destinées de la Grande Europe sont manifestement autres que celles des Etats-Unis.
«Depuis la fin de la guerre, le privilège de l'irresponsabilité a été la qualité saillante de la situation en Europe» et, après quarante années de statu quo, l'espace paneuropéen est à organiser, la question centrale étant l'avenir de l'URSS. Constatant que l'occupation du glacis centre-européen n'a pu assurer la sécurité de l'Etat soviétique, W. Pfaff estime possible et nécessaire un arrangement russo-européen fondé sur la claire conscience du coût prohibitif et de l'irrationalité politique de toute nouvelle guerre en Europe. A cette fin, il réhabilite le statut de la Finlande acquis à la pointe de l'épée et injustement dénigré. «La vieille peur de la Russie, consciente de sa faiblesse et de son arriération, a toujours été la peur de l'encerclement», la neutralisation de l'Europe centrale pourrait l'en affranchir.
La guerre froide terminée, W. Pfaff n'entonne pas pour autant un Te Deum. Au terme d'une aventure politique et morale qui a commencé avec le voyage de Lénine dans un fourgon scellé, les étoiles sont mortes (intitulé du premier chapitre). «L'Amérique fut un empire éphémère» et l'Europe reste «le nœud de l'histoire contemporaine». L'histoire nous offre une page blanche: «L'aventure léniniste est terminée. La question capitale demeure: qu'est-ce qui a commencé?».
Louis SOREL.
William PFAFF, Le réveil du Vieux Monde. Vers un nouvel ordre international, Calmann-Lévy, 1990, 130 FF.
Notes
(1) Dans le Figaro du 5 octobre 1989, Thierry de Montbrial prétend vouloir favoriser leur (les peuples de l'Europe de l'Est) affranchissement de l'impérialisme soviétique, mais «sans bouleverser l'équilibre européen, car nous ne serions certainement pas prêts à en assumer les risques». Jacques Attali, pseudo-futurologue, prédit dans Signes d'horizon (Fayard, 1989) la fin de la crise par la généralisation de l'ordre marchand, un mode de vie universel, le triomphe de l'individu et du nomadisme...». Voir également John Naisbitt, Méga-tendances - 1990-2000 (éd. First).
(2) Cf. Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances, Payot, Paris, 1989. Cfr. Vouloir n°50/51. La version originale a suscité un important débat aux Etats-Unis.
(3) cf. Alain de Benoist, «Pensée politique: l'implosion», in Krisis, n°1, 1989.
(4) Sur la politique extérieure des Etats-Unis, voir Bernard Boëne, «La stratégie générale des Etats-Unis ou le jeu sans fin (?) de l'idéologie et du réalisme», in Stratégique, n°39/1988. Et l'essai de Michel Jobert, Les Américains (Albin Michel, 1987).
La prégnance de l'American Creed depuis deux siècles explique l'aspect "croisade messianique" et les caractères anti-clausewitziens des guerres américaines: les objectifs poursuivis -la capitulation sans condition de l'adversaire- et les moyens mis en œuvre sont disproportionnés par rapport aux enjeux initiaux.
(5) Contre la thèse aronienne du projet humanitaire dévoyé par Staline, lire Dominique Colas, Lénine et le léninisme, PUF, 1987. L'auteur y démontre avec rigueur le caractère intrinsèquement totalitaire du léninisme.
(6) W. Pfaff se réfère à Arnold Toynbee dont l'ouvrage majeur, L'Histoire (Bordas, 1981) a été recensé par Ange Sampieru dans Vouloir n°50/51.
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mercredi, 03 mars 2010
Le nouveau site d'Ayméric Chauprade
La géopolitique exposée par Aymeric Chauprade
Un nouveau site:
http://realpolitik.tv/
Aymeric Chauprade, dont Polémia a largement développé les mesures de disgrâce qu’ils l’ont frappé voilà un an, annonce le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus et audiovisuels. Déjà à la pointe de l’actualité internationale, on y trouve dès maintenant une excellente analyse Nouvelle doctrine de défence russe, sous la plume de Xavier Moreau, qui, en contrepoint des articles généralement destructeurs de la grande presse sur tout ce qui concerne la Russie, permet de comprendre mieux ce qui a amené la Russie à adopter sa nouvelle doctrine de défense en désignant comme ennemis principaux et immédiats les Etats-Unis et l’OTAN.
Polémia ne peut que conseiller à ses lecteurs, intéressés par la géopolitique, de mettre ce nouveau site dans la liste de leurs favoris et de le visiter régulièrement. Ils y trouveront des informations et des explications pertinentes aux grands événements mondiaux.
Polémia
J’ai le plaisir de vous annoncer le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus écrits et audiovisuels.
Les intervenants sont tous des spécialistes de géopolitique d’une aire géographique (Europe, États-Unis, Chine, Russie, Amérique Latine, Afrique…) ou d’un thème (questions maritimes, énergétiques…). Issus d’horizons variés, ils s’attachent à développer une pensée indépendante et attentive aux réalités des peuples et des civilisations. Le choix du terme realpolitik signifiant simplement que nous tentons de comprendre et d’expliquer le monde tel qu’il, non tel qu’on voudrait qu’il soit.
Le site n’est pas payant, et n’a pas vocation à le devenir. Il débute son activité, il est donc loin d’avoir atteint son plein régime et vous aurez bien conscience, lors de votre première consultation, que le contenu va s’enrichir de nombreux articles et de nombreuses vidéos. Vous pouvez nous adresser vos critiques et suggestions en nous écrivant directement à l’adresse contact@realpolitik.tv.
Je vous en remercie par avance. Bienvenue dans le monde des réalités identitaires !
Aymeric Chauprade, directeur du site
Correspondance Polémia
25/02/2010
Polémia
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vendredi, 26 février 2010
El Estado iberoamericano entre 1810 a 1850
El Estado iberoamericano entre 1810 a 1850
Alberto BUELA
Cuando se produce el movimiento independentista americano alrededor de 1810 a propósito de la invasión napoleónica a España la única institución del poder político colonial que queda en pie y la que sirve al la transición de la monarquía a la república como forma de gobierno en América es el cabildo. Específicamente los cabildos locales con sus juntas ejecutivas. Hay que recordar siempre que los cabildos eran las únicas instituciones coloniales donde tenía cabida mayoritariamente el elemento criollo.
Mucho se ha escrito acerca de la independencia de los países americanos en el sentido si fue verdaderamente un movimiento que produjo la independencia deseada o, más bien, si nos enfeudó a Inglaterra, y en menor medida a Francia y Holanda, que terminaron por explotar a la América Criolla durante todo el siglo XIX y la primera mitad del siglo XX, de un modo más sutil pero más profundo del que lo hiciera España.
Pero el objeto de este trabajo no son las valoraciones político-económicas y culturales sino institucionales, en la forma más neutral que nos sea posible.
América, como dijimos, hereda de España el sistema de municipios y cabildos que acá son transformados en verdaderos foros de participación ciudadana y, más específicamente, criolla. Este régimen le da un todo a la organización política de toda Nuestra América, como gustaba decir José Martí.
La superestructura estatal no nace sino después de producido el deterioro del régimen municipal y de cabildos. Es por esto que con justa razón afirma Ernesto Quesada, el fundador de la sociología argentina: “que el federalismo argentino fue implantado artificialmente, por espíritu de imitación de los Estados Unidos, por Sarmiento que contribuyó a popularizar el error, afirmando – con el soberbio dogmatismo que lo caracterizó y tras el cual ocultaba magistralmente el vacío, a veces profundo, de su educación autodidacta y enemiga de las investigaciones penosas- que hay un vicio de juicio entre nosotros en materia de organización política” [1]
En el fondo todo el período de las guerras civiles en América no es otra cosa, desde el punto de vista institucional, que el amor tradicional a la descentralización administrativa por parte de las provincias y las fuerzas criollas enfrentadas al centralismo administrativo de los ilustrados citadinos y afrancesados, habitantes de las ciudades capitales.
Se impuso, finalmente, en todos nuestros países, el centralismo administrativo del “nacionalismo de patria chica” como lo fue el mitrismo en Argentina, por sobre el “nacionalismo de patria grande”, de las fuerzas populares y criollas del interior de nuestros países.
La gran anfibología institución al respecto se produce cuando la idea federal, que aunque el nombre sea moderno, estaba en la vida colonial por la naturaleza de las cosas, es adoptada por el centralismo administrativo de influencia francesa – Francia representa la quintaesencia del centralismo administrativo- y es interpretada como idea unitaria. De ahí que la mayoría de nuestros países hispanoamericanos (Bolivia era la excepción con su antigua constitución) declaren en sus respectivas constituciones el carácter de federales, pero sean en la práctica y de hecho “unitarias” por el peso absoluto que posee la capitalidad de cada uno de nuestros países. Repetimos la idea federal es interpretada en América como idea unitaria.
Así, a partir de mediados del siglo XIX se van estableciendo las distintas constituciones que fijan la forma de nuestros actuales Estados.
Esta latente y no resuelta contradicción entre estas dos tradiciones de pensamiento. La nacional y popular por un lado y la ilustrada y europeizante por el otro, ha dado lugar a la secuencia y sucesión de “revoluciones latinoamericanas” del siglo XX. Viene así a cuento, una vez más, la afirmación del gran polítólogo boliviano, teórico del MNR, don Carlos Montenegro: “debajo de la delgada capa de tierra del orden republicano yace la insobornable existencia del orden hispanoamericano”. Orden que se manifiesta en la primacía de la ecuación Nación-pueblo por sobre la de Estado-nación propia del Estado liberal-burgués de la Europa ilustrada. Es que somos entitativamente algo diverso y distinto de aquello que hemos adoptado para representarnos.
Y así, y esto es significativo a tener en cuenta, mientras el nacionalismo europeo se identifica con la idea de Estado-nación, el nacionalismo hispanoamericano tiende a identificarse con la idea de nación-pueblo., identificación que obedece a una doble exigencia histórica: a) a la integración étnica y cultural en la formación de nuestra identidad a través del mestizaje y b) el carácter revolucionario de nuestros propios pueblos expresado en la movilidad social y política que se da en Iberoamérica a diferencia de Europa.[2]
El Estado en Iberoamérica
Ante el fracaso rotundo del modelo neoliberal que desde hace ya una década se aplica en nuestro país, estamos obligados a proponer nuevos lineamientos para un modelo alternativo, y para ello debemos fijar previamente que entendemos por Estado-Nación su naturaleza, principios y fines específicos, dado que él es el marco de pertenencia a partir del cual adquieren sentido nuestras propuestas en los diferentes campos de acción pública.
Hoy asistimos a la crisis terminal del Estado-Nación, aquél a quien Max Weber reservaba el monopolio de la fuerza, pues ha sido superado por instancias mucho más poderosas. Conviene pues comenzar repensando la génesis, en nuestro caso americana, de dicho Estado para luego hablar de su naturaleza.
El Estado surge en Europa a partir de la nación mientras que, por el contrario, en Nuestra América el Estado crea la nación, pero la nación pequeña, Argentina, Bolivia, Chile, et alii. Así en Europa los movimientos lingüísticos y filosóficos de cepa romántica del siglo XVII aspiraban a formar estados nacionales. España es el primer Estado-Nación a partir de la unión de las naciones o reinos de Castilla y Aragón. Por el contrario, en América el movimiento se realizó a la inversa.
La finalidad de este Estado-nación americano, de carácter republicano y liberal creado a principios del siglo XIX, será la creación de las naciones. Este Estado-nación tendrá por ideología el nacionalismo “de fronteras adentro”, expresión de los localismos más irreductibles encarnados por las oligarquías vernáculas, impermeables a una visión continental. Los Estados independizados de España como repúblicas llegan luego de devastadoras luchas civiles recién a finales del siglo XIX a transformase en naciones. De ahí que la expresión histórica por antonomasia de este nacionalismo localista, hijo putativo de Inglaterra, liberal en economía y conservador en política sea el “nacionalismo mitrista” argentino.
Los nacionalismos europeos fueron imaginados sobre una base étnica, lingüística y geográfica común en tanto que los nacionalismos americanos fueron, paradójicamente, producto de una voluntad ideológica ajena a América, la del Iluminismo filosófico. Siendo sus gestores políticos Gran Bretaña y su Secretario de Estado George Canning quien se apresuró en l825 en reconocer la independencia de los nuevos Estados, luego del triunfo de Ayacucho (1824) sobre el último ejercito realista.
Vemos pues, como estos nacionalismos de “patrias chicas” son europeos dependientes tanto en su génesis como en su contenido. Ello explica en gran parte su fracaso político reiterado. Carecen de encarnadura popular. Y son elitistas no por méritos propios, ya que carecen de nobles, sino porque su ideología conduce a la exclusión del otro.
Estos nacionalismos de invención europea surgidos ante la quiebra de la cristiandad a causa de la reforma protestante, “han venido a llenar el vacío dejado por el debilitamiento de la religión cristiana y el sentido de seguridad de los pueblos en un mundo secularizado”(13).Ello explica el hecho, aparentemente curioso, que la mayor parte de estos Estados-nación republicanos surgieron antes en América que en Europa. Porque aquí se crearon Estados virtuales porque eran Estados sin naciones, lo que explica a su vez la carencia de soberanía nacional. Cambiamos el envase, las instituciones, sólo para pasar de un amo a otro, a Gran Bretaña en el siglo XIX y a los Estados Unidos en el siglo XX.
Este nacionalismo al ser un producto ideológico trasplantado desde Europa a América, carece en nosotros de genuinidad. Este nacionalismo es el que engendró las pocas guerras que tuvimos en Hispanoamérica. La guerra del Pacífico entre Perú, Chile y Bolivia(1879); la del Chaco entre Bolivia y Paraguay(1932/35); la de la Triple Alianza entre Brasil, Argentina y Uruguay por un lado y el Paraguay por el otro(1865-1870) donde al decir de Franz Josef Strauss “por primera vez en la modernidad el deseo del vencedor fue lograr una rendición incondicional - traducción moderna del clásico vae victis =¡ay! de los vencidos = la guerra de exterminio”- lo que condujo a un resultado abominable”(14).
La naturaleza de este Estado se concibió limitada a la normatividad jurídica y así se lo definió como la nación jurídicamente organizada siendo sus fines los propios del Estado liberal-burgués en tanto Estado-gendarme ocupado, fundamentalmente, de la seguridad de las personas y la propiedad. Fueron el radicalismo yrigoyenista, de facto, incorporando el principio de solidaridad ausente en dicho Estado y el justicialismo, de juri, modificando la Constitución del 53, quienes intentaron cambiar su naturaleza para el ámbito argentino.
Nuestra actual propuesta alternativa se funda en una distinta concepción del Estado-nación.
En primer lugar porque preferimos hablar de Nación desde el punto de vista de “Patria Grande” y de “Nacionalismo Continental” y no de patria chica y nacionalismo chauvinista de fronteras adentro. Tenemos que volver a pensarnos como “americanos” tal como lo hicieron San Martín y Bolívar.
En segundo término porque pensamos el Estado no como una “sustancia ética” a la manera del fascismo, ni como “un gendarme” a la manera de liberalismo, ni como “la máquina de opresión de una clase sobre otra” según el marxismo, sino que el Estado es, para nosotros, un “plexo de relaciones”. En una palabra, sólo existe en sus aparatos.
El Estado, entonces, no tiene un ser en sí mismo sino en otro, en sus aparatos que son, antes que nada, instituciones ejecutivas. Así el Estado es un órgano de ejecución con sus distintos ministerios, secretarías y direcciones(15)
La sana teoría del Estado, nos dice que tiene dos principios fundamentales el de solidaridad (viene de soldum=consistente) que hace que todos los miembros se encuentren “soldados” entre sí. Es el principio de unidad de pertenencia- la gran tarea de Yrigoyen fue que las grandes masas de inmigrantes incorporaran en sí mismas, a la Argentina como propia -. Y el principio de subsidiariedad, por el cual el Estado “ayuda a hacer” al que no puede solo con sus fuerzas- la gran tarea del peronismo fue ayudar a la gran masa de trabajadores a organizarse social y políticamente en la defensa de sus intereses -. Siendo el fin del Estado el logro del bien común, entendido como la felicidad del pueblo y la grandeza de la nación.
Así pues, el Estado es un medio y no un fin en sí mismo. Y por el hecho de ser medio, debe ser tomado como tal. De modo que está de más toda polémica acerca de estatista o privatista. Ello está determinado por las diferentes y cambiantes circunstancias históricas y queda librado a la prudencia política de los gobernantes.
Ello nos obliga a distinguir claramente, con el fin de fijar una mínima ingeniería política, entre gobierno, Estado y cuerpos intermedios. Así la naturaleza del gobierno es concebir; fijar los fines. La del Estado, como se ha dicho, ejecutar y la de las organizaciones libres del pueblo, ser factores concurrentes en los aparatos del Estado que les sean específicos para condicionar, sugerir, presionar, interferir de manera tal que el gobierno haga las cosas lo mejor posible(16).
Resumiendo entonces el Estado en sí, es una entelequia, no existe. Lo que existen son sus aparatos, que como tales son medios o instrumentos que sirven como gestores al gobierno para el logro del bien común. Por el hecho de ser medios tienen su fin en otro, y este otro es la Nación como proyecto de vida histórico de una comunidad política. De ahí que un Estado solo pueda ser un Estado nacional de lo contrario devendrá una nada de Estado.
Nota: Un párrafo aparte merece el tema de la crisis de representatividad de los partidos políticos, tema de una actualidad insoslayable.
De todas maneras quisiera dejar la siguiente idea: Nuestra crítica a al sistema de partidos políticos tal como se da en el estado demoliberal no encierra una crítica subrepticia a la democracia sino a la degeneración que de ésta última realizan los partidos cuando monopolizan la vida política usufructuando del Estado para su propio beneficio. Nuestra crítica va dirigida a la partidocracia que es una clara degeneración de la democracia cuando se reduce a “juego de partidos”.
1.- Hoy tenemos como ejemplo el caso de Ponsombilandia, como denominaba al Uruguay ese patriota historiador oriental que fue Washington Reyes Abadie, donde la compañía finlandesa Botnia se muestra más poderosa que el Estado uruguayo y no tiene en cuenta el pedido del presidente de ese país para detener las obras de la papelera que seguramente contaminará las aguas del río homónimo.
2.- Los italianos denominaro lo Stato, que significa: lo que está ahí, al aparato de poder superpuesto artificiosamente, mecánicamente a la vida orgánica, natural y espontánea de la ciudad, de la antigua Comuna.
3.- Bodin, Jean: Six livres sur la République(1576)
4.- Locke, John: Ensayo sobre el gobierno civil, cap.VII
5.- Mussolini, Benito: El espíritu de la revolución fascista, Bs.As., 1984, cap.IV.-
6.- Lenín: Sobre el Estado, Pekín, 1975. p-11 y 25.-
7.- Gamsci, Antonio: Sobre el Estado moderno, Bs.As., 1984, p.161.-
8.- Lenín: op.cit. p.25.-
9.- Sampay, Arturo: Constitución nacional 1949, Bs.As., Ed. Pequén, 1983, pp.35 y 36.-
10.- Lenín: op. cit. p.1.-
11.- Maritain, Jacques: El hombre y el estado, Bs.As., 1953, p.13.-
12.- Cfr. Perón, Juan : Política y estrategia, Ed.Pleamar, Bs.As., 1971, p. 166 y siguientes.-
13.- Pakkasvurta, Jussi: ¿Un continente, una nación?, Academia de la Ciencia de Finlandia, Helsinki, 1997, p.43.-
14.- Strauss, Franz Josef: Consideraciones sobre Europa, Buenos Aires, Pleamar, p. 134.-
15,. Cfr. Buela, Alberto: Aportes al pensamiento nacional, Bs.As., Ed. Cultura et Labor, 1987, pp. 93 a101; y, Metapolítica y filosofía, Bs.As., Ed. Theoría, pp.65 a 69.-
16.- Buela, Alberto: La idea de comunidad organizada, Bs.As., Ed. Cultura et labor, 1999.-
[1] Quesada, Ernesto: La época de Rosas, Buenos Aires, Plus Ultra, tomo 5, 1965, p.20
[2] Quien más en profundidad ha trabajado esta idea en América ha sido uno de los padres de la sociología indiana don Julio Ycaza Tigerino en su libro Perfil político y cultural de Hispanoamérica, Madrid, Ed. Cultura Hispánica, 1971
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jeudi, 25 février 2010
Breve nota sobre el Artico
BREVE NOTA SOBRE EL ÁRTICO
Tiberio Graziani *
Eurasia. Revista de estudios Geopolíticos
Los ciclos geopolíticos de la región Ártica
La historia geopolítica de la región Ártica –si se prescinde de las referencias de los Antiguos respecto a tal región y a las exploraciones de los Vikingos, que con cierta dificultad podemos valorar en términos típicamente geopolíticos –puede ser subdividida, en una primera aproximación, al menos en tres ciclos.
Un primer gran ciclo, que podríamos denominar el ciclo de las grandes exploraciones y de la primera maritimización ártica, puede situarse entre 1553, es decir, cuando el navegador Hugh Willoughby partió en busca del paso del Nordeste, y la segunda mitad de los años veinte del siglo XIX. Este primer ciclo –durante el cual se lleva a cabo el proceso de “maritimización” de la Orilla ártica, ejecutado mediante la construcción de puertos y la proyectación de rutas comerciales –encaja en el ámbito de la búsqueda de nuevas vías hacia Oriente, una empresa sostenida principalmente por las naciones europeas. Entre finales del Setecientos e inicios del Ochocientos los actores regionales son Dinamarca y los Imperios inglés y ruso. La rivalidad entre Rusia y Gran Bretaña, es decir, entre una potencia de tierra y una de mar, constituye la clave de lectura de las principales tensiones geopolíticas que tienen lugar en esta región en el curso de los primeros años del Ochocientos.
El acuerdo, firmado en 1826 entre San Petersburgo y Londres sobre la delimitación de las fronteras entre la Rusia llamada “americana” y las posesiones inglesas en América septentrional, inaugura una nueva fase histórica de la región polar. Tal acuerdo, destinado a reducir las fricciones entre las dos entidades geopolíticas, sin embargo, no triunfó en su intento. La tensión geopolítica entre los dos Imperios se atenuará, al menos en esta parte del planeta, sólo en 1867, cuando Rusia, con la finalidad de enfrentarse al asentamiento británico en la zona ártica, cederá Alaska por 7,5 millones de dólares a los emergentes Estados Unidos de América.
Lejos de ser la locura de Seward, como fue definida por el nombre del entonces secretario de Estado norteamericano, la adquisición de Alaska representaba, al menos para aquella época, el punto de llegada de la política “nórdica” de Washington. De hecho, los Estados Unidos, que tenían la intención de proyectar su poder hacia el polo ártico, habían entablado, en los mismos años, algunas negociaciones con Dinamarca con respecto a la adquisición de Groenlandia. Como se sabe, los EE.UU. alcanzaron el objetivo estratégico de controlar gran parte del círculo polar ártico sólo después de la Segunda Guerra Mundial, instalando, precisamente en Groenlandia, la base militar de Thule.
Con el ingreso del recién llegado en el club de las naciones circumpolares comienzan a germinar las fricciones que marcarán la posterior historia geopolítica de la región Ártica. Es este el ciclo de la soberanía o de las reivindicaciones territoriales, que empiezan precisamente en 1826 con una delimitación de las fronteras que termina en 1991, con la disolución de la URSS. Este se caracteriza por la enunciación de las teorías sobre la división de la región y de su creciente militarización, que, puesta en marcha en el curso de las dos guerras mundiales, fue, sin solución de continuidad, proseguida e intensificada en el contexto de la “guerra fría”. La importante función geoestratégica del área ártica que hace de ella, todavía hoy, una de las principales plataformas de disuasión nuclear, fue plenamente reconocida por los principales actores regionales, en primer lugar por los EE.UU. y por la URSS y, secundariamente, por Canadá, e incluida en las respectivas doctrinas geopolíticas del momento.
El tercer ciclo, que podríamos definir de la identidad regional ártica o del multilateralismo y que podemos situar entre 1990 y los primeros años del siglo actual, está marcado por el escaso compromiso de Moscú –geopolíticamente replegado sobre sí mismo tras el colapso del edificio soviético –en el sostenimiento de sus intereses regionales, por las renovadas tensiones entre Canadá y los Estados Unidos, por una tímida presencia de la Unión Europea, que enuncia la llamada política de la Dimensión Nórdica, y, en particular, por algunas iniciativas internacionales o multilaterales. Estas últimas, que se basan principalmente en la común identidad ártica, en la idea del “mediterráneo ártico”, en el respeto de las minorías y del medioambiente y en el llamado desarrollo sostenible tienden tanto al refuerzo de la internacionalización del área como a la atenuación de las tiranteces surgidas dentro del restringido club de las naciones circumpolares con respecto a la soberanía. Sin embargo, hay que observar que en el plano de las relaciones de fuerza reales, en particular las referentes a los ámbitos militares y geoestratégico, los EE.UU. ostentan, en el curso de este breve ciclo, la primacía de nación hegemónica de toda la zona, ya sea directamente, o a través de la alianza atlántica; los otros actores recitan el papel marginal de simples comparsas.
El Ártico en el escenario multipolar
El Ártico es actualmente, en el marco de la estructuración del nuevo sistema multipolar, una de las áreas más diputadas del planeta, no sólo por los recursos energéticos y minerales presentes bajo su banco de hielo, por su particular posición geoestratégica y por los efectos que el calentamiento global podría producir respecto a su mayor practicabilidad, sino, sobre todo, debido al retorno de Rusia como actor global.
Considerado durante mucho tiempo de limitado interés geopolítico, a causa de su inaccesibilidad, el círculo polar ártico, de hecho, ha llegado a ser –desde el 2 de agosto de 2007, cuando la tripulación de dos submarinos colocaron la bandera tricolor rusa en los fondos del Océano Glacial Ártico, a 4200 metros de profundidad –una zona de crecientes choques entre los países circumpolares y de gran interés para China y Japón. Esta fecha, que muy probablemente celebra el inicio de una nueva era geopolítica para la historia de la región ártica, evidencia, ante todo, el renovado interés de los Rusos en la defensa de su espacio continental y costero, así como la determinación perseguida por el Kremlin de competir en la constitución de un nuevo orden planetario, después de la larga fase del bipolarismo y el breve, y geopolíticamente catastrófico, “momento unipolar”.
La “reivindicación” rusa del espacio ártico se inserta, por tanto, plenamente en la Doctrina Putin destinada a reestablecer, en una perspectiva multipolar, el justo peso de Rusia en todo el complejo tablero mundial. Una “reivindicación”, o más bien, una asunción de responsabilidad en referencia al nuevo escenario mundial, que también el presidente Medvedev, actual inquilino del Kremlin, parece sostener con convicción.
Moscú, después de haber adquirido nuevamente prestigio en el Cáucaso y en Asia central, reanudado las relaciones con China y, sobre todo, limitado, en la medida de lo posible, la descomposición de su “exterior próximo”, se dirige ahora hacia el Norte.
Esto no debe sorprender en absoluto, siendo el territorio ruso, como nos recuerda Pascal Marchand, el resultado de un proceso histórico distinguido por dos caracteres geográficos: la continentalidad, es decir, la expansión en la masa continental eurasiática y la nordicidad, es decir, la expansión hacia el Ártico.
Estas dos directrices, además del impulso hacia el Océano Índico, marcarán una vez más el destino de Rusia en el nuevo Gran Juego del siglo XXI.
En este marco de referencia el Ártico, la mítica morada de los pueblos védicos según los estudios efectuados por el político e intelectual indio Bal Gangadhar Tilak, se convertirá en una de las principales puestas en juego de los próximos veinte años.
* Director de Eurasia –Rivista di studi geopolitici– y de la colección Quaderni di geopolitica (Edizioni all’insegna del Veltro), Parma, Italia. Cofundador del Istituto Enrico Mattei di Alti Studi per il Vicino e Medio Oriente, Ha dictado cursos y seminarios de geopolítica en universidades y centros de investigación y análisis. Docente del Istituto per il Commercio Estero (Ministerio de Asuntos Exteriores italiano), dictando cursos en distintos países, como Uzbekistán, Argentina, India, China, Libia. – e-mail: direzione@eurasia-rivista.org
(Traducido por Javier Estrada)
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mardi, 23 février 2010
Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region
Some Geopolitical Remarks on the Arctic Region
Tiberio Graziani
Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici
The geopolitical cycles of the Arctic
The geopolitical history of the Arctic – leaving aside ancient references to the region and the Viking explorations, that cannot easily be evaluated in typically geopolitical terms – can be divided, in a preliminary approximation, into at least three cycles.
A first great cycle, which we can call the cycle of great exploration and of the initial Arctic maritime activity (maritimisation) can be defined starting around 1553, that is, when the English navigator Hugh Willoughby began searching for a North-East passage, and going to the second half of the 1820s. This first cycle – during which the “maritimisation” process of the Arctic basin took place, set off by the construction of ports and the planning of commercial routes – falls under the heading of the search for new routes to the Orient, an undertaking supported mainly by European nations. At the end of the eighteenth century and the beginning of the nineteenth the regional actors were Denmark and the British and Russian empires. The rivalry between Russia and Great Britain, that is, between a great land-based and a great sea power, is the key to understanding the principal geopolitical tensions in this region in the course of the first years of the nineteenth century.
The agreement signed in 1826 between St. Petersburg and London delimiting the frontier between the so-called “American” Russia and the English possessions in North America inaugurated a new phase in the history of the polar region. Even though that agreement was aimed at reducing frictions between the two geopolitical entities, it wasn’t successful in its intent. The geopolitical tension between the two empires in this part of the planet was mitigated only in 1867, when Russia, in order to block the British from taking root in the Arctic, ceded Alaska to the emerging United States of America for $7.5 million.
Far from being Seward’s Folly, as it was called after the then-Secretary of State, the acquisition of Alaska represented, for the era, the arrival of Washington’s “Nordic” policy. In fact, the US, intending to project its power toward the Arctic pole, had entered into negotiations with Denmark to acquire Greenland. As noted, the USA reached its strategic objective of controlling the majority of the arctic circle only after the Second world War, installing the Thule military base in Greenland.
With the new entrant in the circum-polar navigation club, frictions arose that marked the successive phase of the geopolitical history of the Arctic. This is the cycle of sovereignty or territorial claims, which began in 1826 with the delimitation of the frontier and terminated in 1991 with the dissolution of the USSR. It was characterized by the expression of theories on the partition of the region and its growing militarization, which, started over the course of two World Wars, was, without interruption continued and intensified in the context of the Cold War. The area’s important geostrategic function, which it still plays today, as one of the main platforms for nuclear dissuasion, was fully recognized by the main regional actors, particularly the US and the USSR, and also Canada, and it was fully integrated in the respective geopolitical doctrines of the time.
The third cycle, which we can define as Arctic regional identity or multilateralism, placed between 1990 and the first years of this century, is marked by Moscow’s slight commitment – geopolitically fallen back into itself after the collapse of soviet structure – in supporting its own regional interests, by the renewed tensions between Canada and the US, by the timid presence of the European Union, which states the so-called policy of the Nordic Dimension, and, in particular, by some international or multilateral initiatives. These initiatives, based principally on the common Arctic identity, on the idea of an “Arctic Mediterranean,” with regard to minorities and the environment and the so-called sustainable development, are aimed both at reinforcing the internationalisation of the area, and at attenuating the frictions that have emerged in the restricted club of the circum-polar nations regarding sovereignty. It must still be observed that on the plane of real power relationships, especially those concerning military and geostrategic settings, the USA holds, in this brief cycle, the position of dominant nation in the entire zone, both directly and through the Atlantic alliance. The other actors play a marginal cameo role.
The Arctic in the multipolar scenario
The Arctic is now, in the structuring of the new multipolar system, one of the most contested areas of the planet, not only because of its energy and mineral resources under the ice pack, but for its particular geostrategic position, the effects that global warming could produce regarding its practical use, and especially because of the return of Russia as a global actor.
Considered for a long time to be of limited geopolitical interest, mainly because of its inaccessibility, the Arctic circle has in fact become – as of August 2, 2007, when the crew of two submarines set the Russian tricolour on the Arctic ocean floor at a depth of 4200 metres – an area of increasing conflict among circum-polar countries and of great interest to China and Japan. This date, which probably marks the opening of a new geopolitical era for the Arctic region, highlights first of all the renewed interest of Russia to defend its continental and coastal territory as well as the determination followed by the Kremlin to participate in the constitution of a new planetary order after the long period of bipolarism and the shorter, geopolitically catastrophic “unipolar moment.”
The Russian “claim” on the Arctic space is fully included in the Putin Doctine aimed at re-establishing, in a mulipolar prospective, the due weight of Russia in the entire and complex world space. This is one “claim,” or rather an assumption of responsibility regarding the new world scenario, that President Medvedev, currently in the Kremlin, seems to support with conviction.
Moscow, after having reacquired prestige in the Caucasus and in Central Asia, renewed its relationship with China and, especially limited, as much as possible, the crumbling of its “near abroad”, is now turning toward the North.
This shouldn’t in fact be surprising, with the Russian territory, as Pascal Marchand reminds us, being the result of a historical process marked by two geographical natures: continentality, that is, expansion on the Eurasian continent, and nordicity, expansion towards the Arctic.
These two policies, beyond the push toward the Indian Ocean, indicate again Russia’s destiny in the new great 21st century.
In the frame of reference the Arctic, mythical home of Vedic peoples according to studies carried out by the Indian politician and intellectual Bal Gangadhar Tilak, will become one of the main places in play in the next twenty years.
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vendredi, 19 février 2010
A l'assaut de l'Eurasia
A l'assaut de l'Eurasie
Du prométhéisme au Heartland
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jeudi, 18 février 2010
Lesrévolutions de couleur à l'assaut du Heartland
Les révolutions de couleur à l’assaut du Heartland
Grèce 2008 : des manifestations estudiantines paralysent la Grèce à la suite du meurtre d’un jeune homme de 15 ans par un policier. Rapidement des casseurs font leur apparition. Ils ont été recrutés au Kosovo voisin et acheminés par autobus. Les centres-villes sont saccagés. Washington cherche à faire fuir les capitaux vers d’autres cieux et à se réserver le monopole des investissements dans les terminaux gaziers en construction. Une campagne de presse va donc faire passer le gouvernement Karamanlis pour celui des colonels et entrainer un changement de premier ministre pour permettre la nomination de Papandreaou.
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mercredi, 17 février 2010
Islamfundamentalismus, öl und angelsächsische Weltmächte
Robert STEUCKERS:
Islamfundamentalismus, Öl und angelsächsische Weltmächte
Auszug aus einer Rede - Gehalten in Bayreuth für die Gesellschaft für Freie Publizistik (April 2006)
Eine erste Idee, um das Thema „Sturm auf Europa“ hier einzuleiten: Dem Rest der Welt gegenüber, sagen einige falschen Propheten Europas, sollte man die Strategie des Igels wählen. Das könnte zwar eine gute Idee sein, um seine Kräfte zu versammeln, ohne messianisch wie die VSA, anderen Völkern unsere Prinzipien oder politischen Modellen aufpropfen zu wollen und dabei unsere Grenzen zu verriegeln, um eine gefürchtete „Umvolkung“ zu vermeiden. Aber gezwungen sind wir alle doch, festzustellen, dass es dem Igel an Bewegungskraft fehlt. Genauso wie Admiral Tirpitz und der Geopolitiker Ratzel einst sagten, brauchen die Kontinentalmächte schwimmen zu können, also sich der Weite der Weltozeanen zu öffnen. Jetzt brauchen sie auch fliegen zu können, d. h. ihre Luftwaffekapazitäten zu entwickeln, und eben auch sehr hoch zu fliegen, bis zu den stratosphärischen Ebenen, da Gesamteuropa strategische Trabanten ziviler und militärischer Nützlichkeit braucht, um in der künftigen Welt konkurrenzfähig zu werden.
Eine zweite Idee, um das heutige Thema nochmals einzuleiten: Die Notwendigkeit, die Sachlage kühl, sachlich, ohne Floskelngefühle jeder Art zu analysieren. Die Hauptfrage zu beantworten kann wirklich ohne Panik oder Schadenfreude passieren. Es genügt zu fragen: Wie funktioniert dieser „Sturm“? Die Antwort sollte aus Sachen, Fakten und ohne fromme Wünsche bestehen. Hier ein Paar Beispiele:
- Die Immigration aus afrikanischen bzw. arabisch-islamischen Ländern ist zwar ein Problem ungeheueren Umfangs, sie bleibt trotzdem ein Problem zweiten Ranges, da sie nicht als ein Phänomen an sich betrachtet werden sollte, sondern als das effizientste Instrument des Hauptfeindes. Darf man also wie Samuel Huntington von einem Gegeneinanderprallen von Kulturen sprechen? Meine Antwort ist : Jein! Gegen diejenigen, die Huntington banalisieren oder vulgarisieren, sage ich, dass ein solches Gegeneinanderprallen der Kulturen immer schon da war, und hat, was Europa und den Islam betrifft, fast ein Jahrtausend gedauert. Nur diejenigen, die kein historisches Gedächtnis mehr haben, werden der „Clash“ Huntingtonscher Prägung, als eine Neuheit empfinden. Gegen diejenigen, die Huntingtons Hauptthese total im Namen des politisch-korrekten Universalismus ablehnen und als „neo-Spenglerisch“ oder als „neokonservativer Parafaschismus“ bestempeln, sage ich, dass es eben Amerika ist, die diesen „Clash“ heute inszeniert, um Europa und Russland der islamischen Welt gegenüber zu schwächen. Ich will hier einen Mittelweg suggerieren: Der Begriff des „Clash of Civilizations“ zwischen Europa oder Russland einerseits und der islamischen Welt andererseits, ist zwar eine nicht zu leugnende Wirklichkeit, aber der Ursprung dieses Konfliktes heute befindet sich nicht im Islam selbst sondern wird von Pentagon-Strategen ferngesteuert. Der Islam ist ein Feind Europas und Russlands heute geworden, aber nur indem er ein Bundgenosse des Hauptfeindes Amerika ist.
- Hauptfeind bleibt noch immer Amerika, als Seemacht, als neues Karthago, wie Carl Schmitt so treffend analysiert hat. Warum? Weil Amerika noch stets Territorien oder Seeräume in Europa besetzt. Weil Amerika Satelliten im Weltall schickt, um unsere militärische und zivile Tätigkeiten zu beobachten und zu spionieren. Weil Strategien der Charakterwäsche noch immer in Deutschland wie überall in Europa angewendet werden, wie damals Caspar von Schrenck-Notzing sie meisterhaft entlarvt hatte. Die weltweite Medienmanipulation macht es unmöglich, einen unabhängigen Blick auf die Weltereignisse zu werfen. Die Mediendominanz Amerikas, mit CNN und andere mächtige Presseagenturen, erlaubt die einzig gebliebene Supermacht, Greuelpropaganda zu verbreiten, damit spontan die Ziele Washingtons als das Gute schlechthin angenommen werden. Beispiele gibt es in Hülle und Fülle: Die Massaker von Timisoara/Temeschburg zur Zeit des Ceaucescu-Sturzes, wo die gezeigten Leichen aus den Kühlschränken des Uni-Krankenhauses oder aus frischen Gräbern kamen; die Flüchtlinge, die im Kosovo ständig vorbeipassierten und die eigentlich immer die gleichen Bilder und Menschen waren, die aus anderen Winkeln technisch-filmisch aufgenommen wurden; die von serbischen Schergen angeblich gegrabenen Massengräber, die kein medischer UNO-Ausschuss je gefunden hat; die Säuglinge, die die Soldaten Saddam Husseins in Kuweit angeblich massakriert hätten, indem sie die elektrischen Stecker der Brutinstrumente ausgerissen hatten. Die Liste ist selbstverständlich hier weit unvollständig. Solange solche Manipulationen inszeniert werden oder bloss möglich bleiben, um die Interessen Europas oder Russlands zu torpedieren, bleiben unsere Völker unfrei, ihr weiteres Schicksal zu gestalten. Die europäischen Staaten sind unfähig, ihre eigene Ziele und Interessen ihren eigenen Bürgern in einer eigenen Mediensprache deutlich zu machen. Deshalb, und solange eine solche Sachlage herrscht, kann man kühl und sachlich feststellen, dass ihr Status den Status von Marionnetten-Staaten ist. Wir sind die Hampelmännchen und -frauen von Marionnetten-Staaten und keine Bürger von normal funktionierenden Staatswesen.
- Die Energiepolitik der Vereinigten Staaten zielte immer darauf, eine Maximisierung des Öl-Konsums zu erreichen. Man kann es die „Politik des Nur-Öls“ nennen. Diese Option hat als Ursprung das blosse Fakt, dass das konsumierte Öl in der Welt bis 1945 hauptsächlich aus den Vereinigten Staaten kam. Die VSA waren also die Hauptlieferanten dieses Rohstoffes in der Welt und verstanden daraus, dass dieser Rohstoff ihr besseres Instrument werden könnte, um allerlei strategische Vorteile zu gewinnen. Lange Zeit haben die Vereinigten Staaten ihr eigenes Öl als Reserve bewahrt, um strategische Trümpfe im Falle von Weltkriegen zu halten. Ziel der Propagandafeldzüge jeder Schattierung wurde stets, es zu vermeiden, dass andere Mächte solche Reserven oder Reserven anderer Art aufstapelten. Die „Nur-Öl-Politik“ Washingtons war gegen jede energetische Diversifikation gerichtet. Wenn Völker ihre Energie-Quellen vervielfachen, schaffen sie die Bedingungen einer Unabhängigkeit, die die Vereinigten Staaten nicht tolerieren können, da sie für immer Hauptlieferanten auf dieser Erde bleiben wollten. Jetzt stellt sich die Frage über die reale oder angebliche Ölknappheit in der heutigen Welt. Werden wir bald einen „pick“ erleben, nachdem die Reserven sich allmählich ausschöpfen werden? Gibt es Reserven etwa in Mittelafrika oder in Alaska, die die Wichtigkeit der saudischen Reserven bald relativieren wurden? Die Frage bleibt selbstverständlich offen. Sicher ist aber das die Amerikaner so viele Ölfelder in den Händen ihrer eigenen Ölgesellschaften sehen wollen, um Meister dieser Rohstoffsquellen so lang wie möglich zu bleiben und die Wirtschaftslage der trabantisierten Völker zu kontrollieren und, wenn nötig, zu erdrosseln. Würden diese Völker energetisch durch Diversifikation unabhängig und frei, wäre eine solche Erdrosselung nicht möglich.
- Sehr früh, sofort es sicher war, dass die Ölreserven der arabischen Halbinsel die umfangreichsten der Welt waren, hat die amerikanischen Führung unter Franklin Delano Roosevelt ein Bündnis mit dem saudischen König Ibn Saud geschmiedet. Der US-Präsident und der arabische König trafen sich am Bord des US-Kriegsschiffes USS Quincy im Roten Meer. Dort wurde schon vor der deutschen Niederlage eben dieses Bündnis mit einem fundamentalistisch-wahhabitischen Königreich Wirklichkeit. Die geistige Lage in diesem Königreich war ganz anders als im mehr oder weniger islamisierten oder schiitischen Persien oder als im Ottomanischen Reich. Beide Reiche waren alte staatliche Strukturen, die religiös bunt waren und die auch Elemente aus anderen Quellen als aus denjenigen arabisch-islamischer Herkunft eingebürgert oder Formen des Islams wie der Sufismus oder die Mystik entwickelt und gefördert hatten. Für die wahhabitischen Saudi-Araber waren alle diese Beimischungen zoroastrisch-persischer, byzantinisch-griechischer oder schamanisch-zentralasiatisch-türkischer Herkunft ketzerisch oder unrein. Diese kulturtragenden Beimischungen wurden durch den Wahhabismus abgelehnt, zur Gelegenheit zerstört oder systematisch als Ketzerei abgetan. Nach Roosevelt und Nachfolger, sei dabei doch ironisch erwähnt, hätten alle Völker der Erde die Menschenrechte volens nolens übernehmen sollen (besonders in ihre spätere San-Francisco-Verfassung des Jahres 1948), nicht als tatkräftige eingewurzelte Rechte historischen Ursprungs sondern als auflösende Keime gegen jede geschichtlich gewachsene nicht amerikanisierte Institution (dieser letzte Terminus benutze ich hier im Sinne Arnold Gehlens); diese Menschenrechte sollten in einer zweiten Stufe dazu dienen, in aller Ecken der Welt eine amerikanisierte nicht heimatliche Pseudo-Demokratie zu stützen, und diese sollte überall gelten, nur nicht in Saudi-Arabien. Der Fall zeugt von einer evidenten Doppelmoral: Die amerikanische Führung glaubt nicht an den Menschenrechte als ob diese eine Art ziviler Ersatzreligion wären, sondern benutzen diese Ideologie, um feindliche oder konkurrierende Staaten zu schwächen, und tolerieren die grobsten Kränkungen dieser Menschenrechte, wenn ihre Interessen damit gedient werden.
- Die Allianz zwischen den Vereinigten Staaten und dem Saudi-Islamismus basiert sich auf einer „Insurgency-Strategie“. Mit saudischen Geldern werden Erhebungen islamitischer Ideologie veranstaltet sowie im Afghanistan gegen das Regime, das die Sowjets damals unterstützten, oder in Bosnien und Kosovo, zur Zeit Clintons und Albrights, um Unruheherde in Europa permanent zu schaffen, oder in Tschetschenien, um Russland im Gebiet des Nordkaukasus auszuschalten. Jedesmal gab es saudische Gelder, um die afghanischen Mudschahiddin oder Talibane, die bosnischen Verbände oder die UCK-Milizionäre oder die tschetschenischen Terroristen zu finanzieren. Auf jedem Kampfgebiete fanden Beobachter saudische Kriegsherren oder Freiwilligen. Die Ziele dieser Insurgency-Kämpfe entsprachen immer die geopolitischen Stossrichtungen die Washington sich wünschte. Die islamfundamentalistische Gefahr entspricht also schlicht ein Instrument des US-Imperialismus. Ohne amerikanische Deckung des saudischen-wahhabitischen Systems, hätten diese Erhebungen nie stattgefunden. Afghanistan wäre ein Trabant der Sowjetunion bzw. Russland geblieben. Serben und Kroaten hätten sich Bosnien geteilt. Der Kosovo-Krieg hätte nie stattgefunden. Tschetschenien und Daghestan wären ruhig geblieben. Bin Laden war letztes Endes ein Söldner Amerikas; deshalb vielleicht konnte er so einfach verschwinden, derweil sein Mitkämpfer der Mullah Omar mit einem Motorrad entwischen konnte, ohne dass die Satteliten der amerikanischen Streitkräfte oder der allwissenden NSA-Agentur, die uns hier alle sehen können, dieses verdammte Motorrad mit dem bösen Mullah drauf entdecken konnten! Vielleicht eine unerwartete Panne, eben am diesen Tag!
Bin Laden, der Mullah Omar, der Bassajew in Tschetschenien und die vielen anderen treiben also was man im militärischen Jargon seit Lawrence of Arabia eine „Insurgency“ auf abseitigen Gebieten um den Hauptfeind zu destabilisieren. Die Immigration innerhalb der europäischen Staaten heute dient dazu, und nur dazu, einen künftigen Insurgency-Krieg im Herzen unseres Kontinents zu leiten. Die breiten Massen entwurzelten junge Muslims, die hier ohne Arbeit herumlaufen, machen es möglich, dass eine solche „Insurgency“-Strategie hier künftig inszeniert werden könnte. Die These wird ganz au sérieux in Frankreich genommen und der Hauptreferent in dieser Sache ist der französische Politikwissenschaftler algerischer Herkunft Ali Laïdi. Dieser stellt ganz sachlich fest, dass die aufgehetzten Köpfe in den Randstädten rund Paris, Lyon oder Marseille, systematisch von Geistlichen fanatisiert werden, die irgendwie von saudisch-finanzierten Gremien abhängen. Solche Geistlichen predigen überhaupt nicht die Integration, sondern einen rückwärtsorientierten Islam, wobei weite Teile dieser arabisch-mahomedanischen Bevölkerungsgruppe der Leitkultur völlig entfremdet und, schlimmer noch, ihr tiefer und tiefer befeindet werden, sowie die fanatischen wahhabitischen Krieger der arabischen Halbinsel die kulturreiche Islam-Synthese Persiens oder des Ottomanischen Reiches entfremdet wurden. In dieser verschwächten Bevölkerungsgruppe herrscht von jetzt ab ein Misstrauen, wobei alles was man als Europäer sagt, stillschweigend oder vehement abgelehnt wird. Intoleranz taucht inmitten eines langweiligen Toleranz-Diskurses.
Geschichte des Islamfundamentalismus
◊ 1. Erklärung der Begriffe
Der sogenannte Islamfundamentalismus hat seine Wurzeln in verschiedenen Denkschulen, die im Laufe der Geschichte in islamischen Ländern entstanden sind. Die heutigen Strömungen des Islamfundamentalismus finden ihre Quellen eben in diesen Denkschulen. Es scheint mir deshalb wichtig, diese fundamentalistischen Richtungen und ihre Folgen zu kennen.
- Die erste Denkschule ist der Hanbalismus. Gründer dieser Schule sind Achmad Ibn Hanbal (780-855) und später, in einer zweiten Stufe der Entwicklung dieser Schule, Taqi Ad-Dinn Ibn Taymijah (1263-1328). Die vier Hauptgrundrichtungen dieses Denkens sind : 1) Eine Reaktion gegen die Verwendung philosophischer Begriffe griechischer oder persischer Prägung im Raum des Islams. Die Reaktion ist also anti-europäisch; 2) Eine buchstäbliche Interpretation des Korans, wobei keine Innovationen toleriert werden; 3) Der Muslim darf keine persönliche Urteilskraf und keine theologische Spekulationen entwickeln. Opfer dieser strengen Restriktion wurde der Mystiker Ibn Arabi, einer der gründlichsten Denker unseres Mittelalters (wobei der Begriff ‘Mittelalter” für den Islam überhaupt nicht passt); 4) Die Feindschaft gegen den Sufismus, d. h. gegen breitdenkenden Schulen, die ihre Ursprung im iranischen Raum fanden.
- Der zweite Denkschule ist der bekanntste Wahhabismus, von Muhammad Ibn Abd Al-Wahhab gegründet. Al-Wahhab wurde ungefähr 1703 in Naschd-Provinz in der Arabischen Halbinsel geboren. Die Merkmale seines rigoristischen Systems sind: 1) Er ist unmittelbar ein Anhänger der hanbalistischen Tradition; er will deren Strengheid im späteren saudischen Raum wieder erwecken; 2) Al-Wahhab behauptet, der Kultus sei unrein geworden, weil zuviele Devotionalien den reinen Geist des Islams besuddeln; er will jeden Rückkehr zu vorislamischen Riten bekämpfen, da diese Riten im arabischen Halbinsel wieder üblich geworden waren, weil das Land weit von den Zentren des islamischen Hauptkultur entfernt war; 3) Al-Wahhab rechtfertigt die systematische Anwendung von Terror gegen Andersdenkenden, wie, zum Beispiel, Schiiten oder andere “Abweichler”. Terror wird Mittel zum Zweck; 4) Al-Wahhab behauptet auch, daß das Besuchen von heiligen Stätte ketzerisch sei; Objekte wie Rosenkränze, das Rauchen, die Musik, das Tanzen werden also verboten; Männer sollten immer auch Bart tragen.
- Die dritte Denkschule ist die Ichwan-Bewegung. Nach eine langen Zeit des Wirrens, erobert der Neschd-König Ibn Saud die arabische Halbinsel. Seine Truppen —die Ichwan-Verbände— werden von den Wahhabiten fanatisiert. Ibn Saud, ein schlauer König, weiss aber, daß das Nomadentum die Araber der Halbinsel schwächt. Er will sie seßhaft machen und militarisieren. Deshalb gründet er eine Bewegung von Soldaten-Kolonisten, die streng wahhabitisch erzogen werden. Diese Militarisierung durch Religion ist eine Grundtendenz des heutigen Fundamentalismus und hat, u. a. Bin Laden inspiriert. Die Geschichte der Ichwan-Bawegung, d. h. die Bewegung der Bruderschaft, zwingt uns, die Geschichte Saudi-Arabiens besser zu kennen und zu verstehen.
- Die vierte Denkschule ist die Bewegung der Islam-Bruderschaft oder Muslim-Bruderschaft in Ägypten. Gründer der Bewegung war Hassan Al-Banna, der sie Ende der 40er Jahre ankurbelte. Hauptidee war, daß die arabisch-muslimischen Völker den Westen nicht knechtisch nachahmen sollten. Er plädierte für eine allgemeine Reislamisierung und gründete deshalb auch eine paramilitärische Organisation, die Kata’ib (die Phalange). Al-Banna wurde 1949 in offener Strasse von ägyptischen Polizisten erschossen, nachdem Demonstranten englische Soldaten gelyncht hatten. Es ist merkwürdig zu notieren, dass am Anfang seiner Laufbahn Al-Banna ein liberaler verwestlicher Intellektuelle war. Er hatte in den Vereinigten Staaten studiert. Nach seiner Rückkehr nach Ägypten, lehnte er die westlichen Ideen ab und wurde streng islamitisch. In der ersten Phase der Bewegung, unterstützte Al-Banna die “Freien Offiziere” Nassers, aber danach, entstand eine totale Opposition gegen Nasser mit Hilfe der Kommunisten. Die Tätigkeiten der Islam-Bruderschaft hat systematisch das Nasser-Regime geschwächt. Insofern har die Bewegung die Amerikaner und Israelis geholfen, Ägypten als auftauchende Macht innerhalb der arabischen Welt auszuschalten, besonders nach der Niederlage von Juni 1967. In 1955, wurde die Bewegung für das erste Mal von den ägyptischen Behörden aufgelöst und verboten. Die ersten Hinrichtungen von Bruderschaftsaktivisten finden statt. Sayyib Qutb (1906-1966) wurde dann der Nachfolger Al-Bannas. Er entwickelte die Bewegung weiter und gab sie eine islamistisch-sozialistische Orientierung, wiederholte und rekapitulierte die hanbalistische Dimension seiner Islamsvision; die eigentliche Neuheit war, dass er den Dschihad, den heiligen Krieg, gegen ungenügende, zu tolerante oder ketzerische muslimische Regierungen. Zwischen 1954 und 1964, flog er manchmals ins Gefängnis. 1966 wird er endlich hingerichtet.
Die geschichtlichen Kenntnisse sollten auch mit geographischen Kenntnissen erweitert werden. Die Bühne, wo alles entstanden ist, ist selbstverständlich das heutige Territorium Saudi-Arabiens. Mohammed in seiner Zeit war ein kluger Geopolitiker: Er hat die Halbinsel geeinigt und der Netz der Karawanen-Straßen gegen alle Einflüsse von ausserhalb der arabischen Halbinsel sichergestellt. Nichts läßt vermuten, daß er weitere Länder erobern wollte. Aber einige Jahre nach seinem Tod, war der Kontext völlig anders. Mohammed wurde im Jahre 570 geboren, also im sogenannten Huluban-Jahr oder Elefanten-Jahr, wenn abyssinische Truppen im Dienst des byzantinischen Reiches Arabien vom jemenitischen Süden erobert hatten, um die Perser von den Ufern des Roten Meeres fernzuhalten. Mohammed wollte es nicht, dass die Halbinsel und die Karawanen-Straßen Bühne eines Krieges zwischen raumfremden Mächten wurde. Nach seinem Tode, kämpften Perser und Byzantiner weiter, mit als Verbündeten die semitisch-aramäiche Stämme des heutigen Jordaniens und Iraks. Die Nachfolger des Propheten zerschlugen unerwartet byzantinische Verbände im Raum Südjordaniens und Palästinas. Später werden auch persische Truppen zerrüttet. Die semitisch-aramäischen Völker, die von diesem ständigen Krieg müde waren, bekehren sich zum Islam. Die Zeit war gekommen, um ein riesengrosses Islam-geprägtes Reich zu gestalten.
Die arabische Halbinsel bestand und besteht noch heute aus hauptsächlich vier Hauptgebieten : Das Hedschas-Gebiet, das Neschd, das Assir und die Hassa-Provinz.
Das Hedschas-Gebiet wird von nicht-wahhabitischen Sunniten beherrscht und ist der Ort der heiligen Stätte des Islams, wo die Pilger sich begeben. Im 1916-17, organisiert der britische Offizier Lawrence die Hedschas-Stämme rund dem Häuptling Hussein, der damals ein Feind Sauds war. Die Hedschas-Stämme sind Bundgenossen der Briten, die Stämme unter der Führung Sauds aber den Briten gegenüber sehr misstrauisch und spâter Amerika-hörig.
Das Neschd-Gebiet ist das zentralgelegene Gebiet der Halbinsel, aus dem die Anhänger des Wahhabismus und später die verbündeten Stämme des Sauds ihre Eroberungszüge anfangen werden. Im berühmten Buch des ehemaligen Vichy-Minister und Historiker des deutschen Militärwesen Benoist-Méchin, wird das Neschd-Gebiet sehr genau beschrieben. Die eigentliche Urheimat der semitischen Völker befindet sich im heutigen Jemen und Assir-Gebiet, die bis spät ein eher reiches und furchtbares Land mit sesshaften Stämmen, die eine effiziente Landwirtschaft entwickelt hatten. Die Römer sprachen von „Arabia felix“, d.h. „Glückliches Arabien“. Es ist also falsch zu behaupten, dass die semitischen Völker alle ursprünglich Nomaden waren. Wenn das fruchtbare Land Jemens zu viele Kinder erzeugte, mussten die notgezwungen nordwärts auswandern, und eine kriegerische nomadische Kultur im Neschd-Gebiet zu schaffen. Im dürren Norden entstanden also nach einem langen Voklswerdungsprozess eben diese Krieger-Stämme, die den Islam und viel später den Wahhabismus ihre ersten Impulse gaben. Wir finden deshalb im Kern der arabischen Halbinsel die übliche Dialektik Zentrum-Peripherie, wobei das dürre unfruchtbare Zentrum nicht das zeitlich erste Element des dialektischen Prozesses ist, sondern das Produkt einer reichen Peripherie, die später nach einer mehr oder weniger langen Reifungsprozess das Entstehungsgebiet einer eigenartigen geistigen Revolution geworden ist. Dieses Modell ist nicht einzig in der Geschichte des Islams: Auch das dürre steppische Zentralasien als Urheimat oder als Sprungbrett der Türkvölker in Richtung der bunten Reichsgebiete des sogenannten „Rimländer“ (Persien, Byzanz und das indische Gupta-Reich) kann als eine Zentrum zweiter dialektischen Hand betrachtet werden.
Das dritte Gebiet der Halbinsel ist das Assir, das von Jemeniten bewohnt wird, die stark schiitisch geprägt sind. Assir ist ein Bergland mit feuchterem Klimat. Die Stämme im Assir haben sich immer gegen diejenigen des Neschds gewehrt.
Das vierte Gebiet ist die Hassa-Provinz, die sich der Ostküste der Halbinsel entlang befindet, wo die Ölfelder liegen. Die arabisch-semitische Urbevölkerung war dort ursprünglich schiitisch und pflegte enge Bände mit den Schiiten Iraks.
Die Geschichte des Wahhabismus
Im 18. Jahrhundert, nachdem das Ottomanische Reich und sein Verbündeter der französischen „Sonnen-König“ endgültig durch den Prinzen Eugen im Schach gehalten wurden, war der Islam weltmächtig auf dem Ruckzug. Das türkisch-ottomanische Hegemon konnte sich Europa gegenüber nicht mehr behaupten. In diesem Kontext entwickelte der Geistliche Al-Wahhab in einem abgelegenen Ort im Neschd seine rigoristische Lehre, um den Islam wieder kampffähig zu machen und das türkische Hegemon durch ein neues arabisches zu ersetzen. Um dieses Ziel zu erreichen, schmiedet er 1744 ein Bündnis mit dem Stammeskönig Mohammed Ibn Saud, Gründer der noch heute herrschenden Dynastie. Die Allianz zwischen dem Geistlichen und dem Krieger erlaubte in einer ersten Phase die komplette Eroberung des Neschd, wo alle Feinde ausgeschaltet bzw. ausgerottet wurden. Während dieser langen Auseinandersetzungen wurde die schiitische Pilgerstadt Kerbala im heutigen Irak erobert und völlig zerstört, weil die Wahhabiten die Reliquien der Martyrer und die Volksfrömmigkeit rund diesen religiösen Überlieferungen als ketzerisch und Götzenanbetung betrachteten. Hier liegt die Wurzel der Erzfeindschaft zwischen Schiiten und Saudi-Wahhabiten, die heute durch die Ereignisse im Irak wieder angekurbelt wird, wobei die amerikanischen Geheimstrategien des „divide ut impera“ (Teile und Herrsche“) eine erhebliche Rolle spielen. Die Kriegszüge Al-Wahhabs und Mohammed Ibn Sauds führten damals auch westwärts mit schweren Angriffen gegen die Hauptkultstätte von Mekka und Medina, wo auch Schreine und Kultortschaften in Namen des religiöse Rigorismus der Wahhab-Lehre zerstört wurden. Hier liegen dann die Keime der späteren Feindschaft zwischen Neschd-Stämmen und Hedschas-Stämme.
Am Anfang des 19. Jahrhunderts im Kontext der Napoleontischen Kriege, wurden de facto die wahhabitischen Stämme in ihrer Feindschaft der Ottomanen gegenüber die Bundgenossen Frankreichs, weil einfach weil die Machtkonstellation damals die folgende war: Das Ottomanische Reich sowie Persien waren die Verbündeten Englands. Wenn aber Napoleon in Russland 1812 besiegt wird, verminderte das Interesse Englands an diesen fernen exotischen Bundgenossen. Die Ottomanen und die Ägypter, unter der Leitung des Albaners Mehmet Alis und dessen Sohn Ibrahim Pascha, versammelten ihre Kräfte, um die Wahhabiten auszuschalten. Das Neschd-Königreich wurde unerbärmlich zerstört, eben die Quellen in diesem Wüstengebiet wurden trocken gelegt, um jede Logistik und jede Bewegung weiten Umfangs zu verhindern. Nach den Racheoperationen Mehmet Alis und Ibrahims, herrschte in der Halbinsel eine Zeit der Wirren, wo sich Stämme gegen Stämme einander bekriegten. Der zweite Ibn Saud (1880-1953) beginnt erneut die Eroberung des Neschd-Zentralgebietes, diesmal mit der anfänglichen Unterstützung Englands. Die Operationen entwickelten sich mit der extremsten Gewalt. Grausame Ereignisse und Ströme Blutes erschütterten Arabien. Wenn der Erste Weltkrieg in Europa ausbricht, versuchen die Briten sofort Verbündeten in der Halbinsel, um die Ottomanen auf ihrer südlichen Flanke einzukreisen. Das Kairo Büro mit Lawrence suggerierte ein Bündnis mit Hussein und Feisal im Hedschas-Gebiet, aber das Bombay Büro mit Shakespear wählte eher Ibn Saud als Verbündeter. Lawrence bekommt die Kredite, ganz einfach weil er schneller die Hedschas-Stämme in Akaba bringen könnte, um eine Küstenstreife frei für eine britische Landung am Endpunkt der Damas-Jerusalem-Akaba-Eisenbahn sicherzustellen, und auch komischerweise weil er akzeptierte, einen arabischen Kopftuch statt einer Offizier-Mütze europäischer Art zu tragen, was Shakespear immer hartnäckig und schneidig abgelehnt hatte. In seinen Notizen über seine arabischen Feldzüge, spricht Lawrence ausführlich darüber, dass Araber tief davon schockiert und gekränkt werden, wenn Europäer in ihrer Anwesenheit Hüte oder Mützen tragen.
In den 20er Jahren, als die Sprösse der Hedschas-Häuptlinge über Jordanien und den Irak mit britischer Unterstützung herrschen, wiederholte der zweite Ibn Saud seine frühere Feldzüge bis er endlich wieder die ganze Halbinsel kontrollierte. Um dieses Ziel zu erreichen, bediente er sich dem Instrument der Ichwan-Bewegung, die er dann, sofort er gesiegt hatte, auflösen liess. Mit der Macht fest in den Händen und nachdem Ölfelder auf seinem Hoheitsgebiet entdeckt wurden, konnte Ibn Saud II. 1945 mit Roosevelt verhandeln und seine britische Feinde im Kampf um das Öl ausschalten. 1953 stirbt der Beduinen-Herrscher nachdem die Bedingungen des Bündnisses mit Amerika fest und endgültig festgelegt wurden. Hier beginnt wirklich die Geschichte der engen Zusammenarbeit zwischen Washington und Riad.
(weitere Auszüge später).
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