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jeudi, 07 avril 2011

La visione "corporativa" di Ugo Spirito

Nel 1935, il filosofo Ugo Spirito  (Arezzo, 1896 – Roma, 1979) presentava al Convegno di studi corporativi di Roma la sua relazione – intitolata Corporativismo e libertà – con la quale esprimeva la convinzione che la sfida al capitalismo dovesse essere vinta tanto sul piano tecnico quanto su quello spirituale, marcando una superiorità di tipo gerarchico-totalitario “in cui i valori umani si differenzino al massimo”. La concezione corporativistica di Spirito è infatti una visione, poiché non si derubrica a semplice metodologia, a insieme di processi di funzionalità tecnica, ma si eleva a momento spirituale nel quale la vita sociale si unifica moralmente “nella gioia del dare e del sacrificarsi”; in buona sostanza nel rifiuto di ogni fine privato dell’esistenza. In uno scritto del 1934, significativamente intitolato Il corporativismo come negazione dell’economia, Spirito afferma chiaramente che il corporativismo “non è economia, ma politica, morale, religione, essenza unica della rivoluzione fascista”. E proprio per questa ragione egli parlò di “comunismo gerarchico”, dove il primo termine va inteso in un senso assai distante da qualsiasi dogmatismo marxista-bolscevico; mentre il secondo rimanda alla libertà caratterizzata dal diritto al lavoro che seleziona un’èlite umana in grado di accedere ai vertici della comunità. Il comunismo inteso da Spirito è stile di vita più che sistema politico. Come scriverà nel 1947 in Filosofia del comunismo: “…Il comunismo può dare luogo ad istituzioni sociali e giuridiche…Può tendere ad una vita collettiva in cui il criterio di distribuzione dei beni sia fissato in funzione della produttività di ognuno; può eliminare le sperequazioni più gravi della vita attuale e le forme più chiare di sfruttamento. Ma detto questo risulta altresì è evidente che il comunismo può realizzarsi prima e senza la trasfigurazione della società, [può realizzarsi] in quella più profonda società che è in ognuno di noi – la societas in interiore homine – e che da noi soltanto acquista valore”. Il comunismo di Spirito è quindi più platonico che marxista, nell’affermazione che questo può realizzarsi prima e senza la rivoluzione delle strutture socio-economiche, in quanto rivoluzione interiore delle coscienze. Ma a questo proposito, Ugo Spirito chiarisce ulteriormente il suo punto di vista “Quando spontaneamente e gioiosamente rinuncio al di più, so di avere realizzato, anche nel mezzo del più anticomunistico regime politico, l’ideale del comunismo. Ideale che può sussistere non soltanto in un solo Paese…ma anche e soprattutto in un solo uomo, vale a dire nella coscienza del singolo; là dove può rivelarsi nella pura spiritualità”. Di qui l’apparentemente paradossale affermazione che non è il proletariato a costituire la forza realizzante l’avvento della società comunista – dato che esso aspira in fondo solo al comfort borghese. Soltanto il borghese che ha preso coscienza della metafisica comunista –cioè di una coscienza anticonsumistica – può rappresentare la forza trainante della Rivoluzione. 

Spirito contro la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 

Per questo Ugo Spirito percepì come insufficiente la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 che conservava gli aspetti di quel mondo borghese-capitalistico contro cui il fascismo, ispirandosi ad un’altra Carta, quella del Carnaro, era sorto. Il fascismo nasceva infatti per contrapporsi all’’individuocrazia’ liberale, affermando l’immanenza dello Stato nelle singole parti che lo compongono. Tuttavia, tentando di conciliare la proprietà privata con il dovere di metterla al servizio della collettività – al di là della reale capacità e volontà politica di trovare la giusta sintesi a tutto ciò – di fatto cedeva alla superiorità della prima, il cui diritto rimaneva intangibile. Nel Convegno di Ferrara del 1932, Spirito propose di tagliare il nodo di Gordio con la spada della “corporazione proprietaria”: tesi con la quale si affermava che la proprietà privata dei mezzi di produzione doveva passare alla corporazione intesa come corpo sociale intermedio tra individuo e Stato. In questo modo la Rivoluzione fascista avrebbe superato quella francese e la sua egoistica rivendicazione della proprietà privata, con un concetto di proprietà non più volto a fare di essa un inalienabile e assoluto diritto dell’individuo, ma una funzione utile all’interesse della Nazione. Concezione che in parte il fascismo faceva propria se pensiamo che la legge sulla Bonifica integrale autorizzava la revoca della proprietà qualora questa fosse stata lasciata inattiva. In ogni caso, se la ‘Carta del Lavoro’ aveva giustapposto l’interesse pubblico e quello privato, la tesi di Spirito tendeva a fonderli nell’identità di capitale e lavoro, di sindacalismo e proprietà. Con la corporazione “proprietaria”, il capitale sarebbe infatti passato dagli azionisti ai lavoratori, i quali avrebbero acquisito la proprietà in base a meriti gerarchici determinati da competenza e impegno. 

L’’eresia’ di Ugo Spirito venne immediatamente tacciata di bolscevismo. Reazione abbastanza scontata, anche perché lo stesso filosofo chiuse la sua relazione ferrarese dichiarò che la proposta da lui fatta andava verso un certo tipo di ‘socialismo nazionale’. Se l’oggi vedeva contrapposti Fascismo e Bolscevismo, il domani sarebbe stato di quel sistema che avrebbe saputo non negare l’altro, ma incorporarlo e superarlo in una forma più elevata. Ragione per cui “il Fascismo ha il dovere di fare sentire che esso rappresenta una forza costruttrice storicamente all’avanguardia, capace di lasciarsi alle spalle, dopo averli riassorbiti, Socialismo e Bolscevismo”. Chiuse il convegno il ministro Giuseppe Bottai (1895 –1959) che difese l’autonomia di corporazione, sindacato, impresa e Stato che Spirito voleva fondere nella già citata ‘corporazione proprietaria’; ma che nel contempo prese le distanze da quelli che, indossata la “maschera di cartone” del liberalismo, consideravano conclusa la sperimentazione corporativa. 

Il periodo della ‘rielaborazione’ 

Negli anni successivi, Ugo Spirito abbandonò la tesi ‘eretica’ sostenuta a Ferrara, pur riaffermando costantemente il carattere pubblicistico della proprietà e dichiarando un controsenso il concepirla privatisticamente. Tanto più che la fondazione dell’IRI sembrò a tutti gli effetti un passo avanti verso il riconoscimento della proprietà come res pubblica, attraverso un deciso intervento dello Stato in economia. Ancora nel 1941, Spirito scriveva in Guerra rivoluzionaria (rimasto inedito fino al 1989) che la Rivoluzione fascista non avrebbe mai condotto ad un comunismo ‘livellatore’, figlio diretto delle democrazie liberali: “Non aristocrazia ereditaria e neppure il suo astratto opposto segnato dalla democrazia maggioritaria, bensì la gerarchia di tutti continuamente formantesi e rinnovantesi nell’assolvimento delle funzioni sociali, dalle più elevate e complesse alle più umili e semplici. Non comunismo, dunque, fondato sul peso della massa come numero, ma ‘comunismo gerarchico’, ossia collaborazione di tutti all’opera comune, determinata in ogni suo aspetto con il solo criterio della competenza”. Proprio in quell’anno, tuttavia, il nuovo Codice civile stabiliva sì la funzione sociale della proprietà, ma ne tutelava comunque il carattere privatistico. La necessità di conseguire scopi sociali veniva affidata dunque all’impulso individuale e all’iniziativa del proprietario secondo la nota favola liberale, stando alla quale dall’interesse privato di alcuni nascerebbe l’utile per tutti. Nulla di strano però, se consideriamo i mille compromessi con le forze borghesi e clericali, con i grandi gruppi finanziari che certamente trovavano sponda e sostegno nella monarchia “borghese” dei Savoia, ai quali era ormai costretto il fascismo. Quando però la trahison des clercs – cioè il vero o presunto abbandono del fascismo da parte della borghesia – e il tradimento del re fecero venire meno la ragione stessa dei compromessi, fu però possibile un’accelerazione dell’evoluzione del sistema corporativo in direzione delle tesi di Spirito. Ma ciò avvenne troppo tardi, soprattutto in quanto il regime aveva ormai di fronte un ostacolo nuovo, oltre che poco disposto a compromessi: la Germania. La necessità da parte di quest’ultima di trasferire in patria lavoratori italiani e di utilizzare pure le industrie ubicate in Nord Italia per le proprie necessità, comportò l’opposizione del generale Hans Leyers, capo della Commissione Guerra e Armamenti del Nord d’Italia, al processo di socializzazione.  

Fu comunque significativo che il ‘Manifesto’ di Verona venne redatto dal segretario del partito Alessandro Pavolini insieme con Nicola Bombacci, e rivisto infine dal duce. Nel documento si parlò di socializzazione, ovvero della cooperazione delle forze del lavoro nella gestione delle imprese, eliminando così il dualismo tra lavoratori e datori di lavoro. Nella sostanza, l’obiettivo era certo quello di un miglioramento delle condizioni di vita degli operai delle industrie – il cui appoggio risultava fondamentale anche per la Repubblica Sociale Italiana – anche se attraverso la ‘socializzazione’  si riproponeva di realizzare una nuova concezione del lavoro, capace di sviluppare un senso di appartenenza, di solidarietà, di responsabilità. Un ethos capace di rivoluzionare il rapporto tra cittadini e quello tra popolo e Stato. Il lavoro si sarebbe ‘spiritualizzato’ poiché il peso fondamentale non sarebbe stato più attribuito alla semplice materialità del possesso dei mezzi di produzione. Ed era poi il senso di quanto il filosofo Giovanni Gentile, maestro di Spirito ebbe a dire in Genesi e struttura della società a proposito dell’Umanesimo del lavoro. Detto ciò, occorre riconoscere che la “corporazione proprietaria” di Spirito si spinse oltre la stessa socializzazione che, in ogni caso, avrebbe conservato il principio della proprietà privata intesa come beneficio esclusivo del capitalista.

 Il ruolo sociale ed etico della Corporazione 

Spirito attribuiva infatti la proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, affermando che la stessa produzione, avendo un ruolo sociale, non avrebbe potuto di conseguenza essere abbandonata all’arbitrio individuale del proprietario. La tesi di Spirito eliminava dunque ogni rischio; ma la socializzazione lasciò però uno spiraglio di cui i capitalisti del Nord seppero approfittare. Essa ebbe comunque il merito di introdurre principi di quel ‘socialismo nazionale’ auspicato da Spirito, riconsegnando dignità spirituale al lavoro e al lavoratore, nel rifiuto di ogni materialismo marxistico, di ogni determinismo storico e della lotta di classe. A guerra conclusa, il CNLAI dominato dai comunisti decretò l’abrogazione della legge sulla socializzazione delle imprese. E mentre il bolscevismo non abolì il capitalismo, la ‘socializzazione’ ebbe il merito di sapere ipotizzare un ‘socialismo nazionale’ assai prossimo alla Volksgemeinschaft, la Comunità di popolo tedesca. Un organismo in grado di eliminare ogni antagonismo di classe e capace di realizzare nelle aziende un modello di Stato nazionalsocialista. Ma la fine del Secondo Conflitto fece naufragare anche questo tentativo rivoluzionario, consentendo al mondo borghese-capitalistico si riappropriarsi dei suoi privilegi. Tuttavia, pochi anni dopo in Filosofia del comunismo, Spirito scriveva ancora: “…la civiltà liberale e borghese ha potuto fare della libertà il monopolio di una classe solo a patto che i molti non liberi ne pagassero il prezzo; ma se oggi la stessa libertà vuole essere rivendicata da tutti, sì che nessuno resti a condizionarne il privilegio, la lotta di classe si muta in lotta di gruppi e di individui, tutti al privilegio anelanti e tutti impegnati nella corsa degli egoismi più sfrenati. La presunta libertà diventa il principio della disgregazione, dell’atomismo e del conseguente caos, del quale già si avvertono i segni premonitori. Perché a questa logica sia dato sottrarsi, occorre vivere di un’altra fede, credere in un nuovo mondo sociale, che vada al di là del liberalismo e realizzi nella comunità degli uomini un ideale che non sia quello del tornaconto del singolo e del calcolo economico di chi guarda alla propria persona come centro del mondo”. Negli anni successivi, questa fede prese per Spirito sempre più il nome di comunismo; ma nonostante una sua certa ammirazione per il mondo sovietico (che ebbe modo di visitare in un viaggio di appena un mese), il comunismo di Spirito si identificava pur sempre in una forma di  ‘corporativismo antindividualistico’ e antimaterialistico che con il realismo sovietico non aveva proprio nulla da spartire. 

Rielaborazioni. La ‘nuova religione’  

Nello scritto del 1958, Cristianesimo e comunismo, Spirito vide nel socialismo e nel comunismo addirittura i veri continuatori della ‘rivoluzione cristiana’ in virtù della rivendicazione della dignità del lavoro nelle sue forme più umili e per la definitiva negazione della proprietà privata, caposaldo della rivoluzione borghese. Il comunismo avrebbe realizzato ciò non con la lotta di partito e con le sue rivendicazioni – che Spirito giudicava  mere continuazioni del mondo borghese – ma trasformandosi in ‘nuova metafisica’ e ‘nuova religione’ fondata sul rifiuto dello stesso principio individualistico. Un ideale compiuto che avrebbe consegnato alle coscienze un programma che “nasce dalla collaborazione di tutti, come ragione d’essere di una vita comune” in cui la volontà di ognuno si risolve nella volontà sociale. “Nessuno appartiene più a se stesso perché ognuno diventa soltanto parte di un organismo e dell’organismo acquista il carattere superiore, la forza, la coscienza e la finalità”. Ora, agli inizi del XXI secolo, dove il principio individualistico e il privilegio borghese sembrano avere trionfato ovunque, al di là del nome che ognuno di noi attribuisce alla ‘nuova fede’ di cui parla Spirito, non si può tralasciare di realizzarla dentro di noi, affinché la civiltà europea possa ancora guardare al futuro con un briciolo di speranza.

Rodolfo Sideri

mardi, 05 avril 2011

Carl Schmitt, the Inquisition, and Totalitarianism

Carl Schmitt, the Inquisition, and Totalitarianism

Arthur VERSLUIS

Ex: http://www.esoteric.msu.edu/

The work of Carl Schmitt, on its face, presents us with enigmas; it is esoteric, arcane, words that recur both in scholarship about Schmitt and in his own writings.  Jan-Wenner Müller observes that Schmitt “employed what has been called a kind of philosophical ‘double talk,’ shifting the meaning of concepts central to his theory and scattering allusions and false leads throughout his work.”[1]  And Müller goes on to remark about Heinrich Meier’s work on Schmitt that ultimately Meier too “lapsed into the kind of double talk, allusiveness, and high-minded esoteric tone so typical of Strauss and, to a lesser extent, Schmitt.”[2]  Indeed, Schmitt himself writes, in The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes that “like all great thinkers of his times, Hobbes had a taste for esoteric cover-ups.  He said about himself that now and then he made ‘overtures,’ but that he revealed his thoughts only in part and that he acted as people do who open a window only for a moment and closely it quickly for fear of a storm.”[3]  This passage could certainly be applied to Schmitt himself, whose work both makes direct reference to Western esoteric traditions, and itself has esoteric dimensions.  These esoteric allusions and dimensions of Schmitt’s thought are, in fact, vitally important to understanding his work, but the question remains: what place do they have in it?

 

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Carl Schmitt and Early Modern Western Esotericism

   Much has been made of the exoteric-esoteric distinction in the thought of Leo Strauss.  Some authors suggested that a Straussian esotericism guided the neonconservative cabal within the Bush II administration, after all a secretive group that disdained public opinion and that was convinced of its own invincible rectitude even in the face of facts.[4] It is true that Strauss himself distinguished between an esoteric and an exoteric political philosophy.   In perhaps his most open statement, Strauss writes, coyly, of how “Farabi’s Plato eventually replaces the philosopher-king who rules openly in the virtuous city, by the secret kingship of the philosopher who, being a ‘perfect man,’ precisely because he is an ‘investigator,’ lives privately as a member of an imperfect society which he tries to humanize within the limits of the possible.”[5]  Strauss’s “secret kingship of the philosopher” is, by its nature, esoteric; as in Schmitt’s, there is in Strauss’s work a sense of the implicit superiority of the esoteric political philosopher.

    But in fact those who are searching for esotericism have much more to find in the work of Schmitt, not least because Schmitt’s references to classical Western esotericism are quite explicit.  Schmitt refers directly to Kabbalism and to Rosicrucianism, to Freemasonry, and, most importantly for our purposes, to Gnosticism.  It is quite important, if one is to better understand Schmitt, to investigate the meanings of these explicitly esoteric references in his work.  While there are allusions to such classical Western esoteric currents as Jewish Kabbalah, Rosicrucianism, and Freemasonry scattered throughout Schmitt’s writings, those references are concentrated in Schmitt’s 1938 The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes.  There are a number of reasons why Western esoteric currents should form a locus in this particular work, among them the fact that many of these traditions (notably, Rosicrucianism, Freemasonry, and Christian theosophy) emerged precisely in the early modern period of Hobbes himself and so correctly, as Schmitt recognized, represent historical context as well as contribute to Schmitt’s larger argument.

   But what is Schmitt’s larger argument regarding these esoteric currents?  There is little to indicate, at first glance, that Schmitt is derogating these esoteric currents—even the references to the Kabbalistic interpretation of leviathan, which come on the wake of Schmitt’s notorious 1936 conference on Judaism and jurisprudence, are not immediately recognizable as anti-semitic.  Schmitt’s own overview of his argument is instructive.  He summarizes the first chapter as covering the “Christian-theological and Jewish-cabbalistic interpretations” of the symbol of leviathan, and “the possibilities of a restoration of the symbol by Hobbes.”[6]  A restoration indicates a prior fall: this is our first clue.  Schmitt’s treatise on Hobbesian state theory is also an occasion for Schmitt’s diagnosis of modernity as socio-political decline, and in this decline, (in Schmitt’s view), esoteric currents played a part.  Hence he references the seminal twentieth-century French esoterist René Guénon’s La Crise du monde moderne (1927), and specifically Guénon’s observation that the collapse of medieval civilization into early modernity by the seventeenth century could not have happened without hidden forces operating in the background.[7]

   Both Schmitt and Guénon came from a Catholic background and perspective—and Guénon’s broader thesis was that the advent of early modernity represented one stage in a much larger tableau of decline in which modernity (representing the kali yuga or final age) would conclude in the appearance of the Antichrist and the end of the world.  In this Guénonian tableau of decline, the emergence of individualistic Protestantism represented an important step downward from the earlier corporate unity of Catholicism, and a similar perspective inheres in Schmitt’s work, no doubt why he alludes to Guénon in the first place.  Hence, in the important Chapter V of Leviathan, Schmitt refers to the “separation of inner from outer and public from private” that emerged during the early modern period, and in particular to “secret societies and secret orders, Rosicrucians, freemasons, illuminates, mystics and pietists, all kinds of sectarians, the many ‘silent ones in the land,’ and above all, the restless spirit of the Jew who knew how to exploit the situation best until the relation of public and private, deportment and disposition was turned upside down.”[8]

   At this point, we can see Schmitt’s perspective is implicitly critical of the subjectification and inward or contemplative turn characteristic of those who travel “the secret road” “that leads inward.”  He opposes the split between private spiritual life and public life, which Schmitt associates with Judaism as well as with Protestantism and the profusion of esoteric groups during this period—and by implication, affirms a unified, corporate inner and outer life that is characteristic of Catholicism.  Schmitt remarks that “as differently constituted as were the Masonic lodges, conventicles, synagogues, and literary circles, as far as their political attitudes were concerned, they all displayed by the eighteenth century their enmity toward the leviathan elevated to a symbol of state.”[9]  He sees Protestantism and the variety of esoteric groups or currents during the early modern period as symptomatic—like Guénon, he sees the emergence of modernity as a narrative of cultural disintegration. 

   Like Hobbes himself, Schmitt is pessimistic about the human condition.  Still, in Schmitt’s view, Hobbes was not proposing that human beings flee from the state of nature into a monstrous state leviathan, but rather was arguing for total state power only insofar as it guaranteed protection and security.  Hence, Schmitt writes, one’s obedience to the state is payment for protection, and when protection ceases, so too does the obligation to obey.[10]  The leviathan serves to diagnose the artificial, gigantic mechanism of the modern state, and to symbolize that state as an intermediate stage that can restrain or postpone the larger decline that modernity represents.  In Leviathan, Schmitt isn’t extolling the leviathan state or totalism, but rather coyly stops short—even though it is clear that he seeks a political alternative to the split between inner and outer life represented by the inward turn of esoteric groups and individuals, and by the subjectification represented by Romanticism during the early modern period. Schmitt belongs to the world of jurisprudence, to the realm of weighing and deciding, and one can see this in his treatment of esoteric groups, in which he acknowledges their differences—but he clearly has ‘placed’ them in his larger narrative as indicative of the fragmentation represented by modernity.

   It becomes clearer, then, how Schmitt could have seen in National Socialism a secular alternative to modernity.  Fascism represented for him, at least potentially, the re-unification of inner and outer life, a kind of modern re-unification of the mythic and spiritual with the outer public life.  It at first seemed to conform to the Hobbesian notion that in exchange for obedience, one receives protection from the state; it represented a new form of corporatism as an alternative to the socio-political disintegration represented by parliamentary democracy in the Weimar era; and it even offered an apparent unity of esoteric and exoteric through its use of symbolism and mythology in the service of the state.  But to the extent that he allied with the Nazis, Schmitt was consciously siding with the Inquisitors, and with totalistic state power.  In retrospect and by comparison, perhaps the “secret road” inward as represented by eighteenth-century esotericism was not quite so bad as all that.  Yet to understand more completely Schmitt in relation to the esoteric, we must turn to a subject he treats somewhat more explicitly: Gnosticism.

 Carl Schmitt and Gnosticism

   Schmitt writes that oppositions between friend and enemy are “of a spiritual sort, as is all man’s existence.”[11]  In Politische Theologie II, he writes that Tertullian is the prototype of the theological possibilities of specific judicial thinking, and refers to him as the “jurist Tertullian.”[12]  Heinrich Meier discusses Schmitt’s indebtedness to Tertullian and in fact remarks that “Tertullian’s guiding principle We are obliged to something not because it is good but because God commands it accompanies Schmitt through all the turns and vicissitudes of his long life.”[13]  What is it about Tertullian that Schmitt found so fascinating that he returned to his work again and again?  Divine authority as presented by Tertullian divides men: obedience to divine authority divides the orthodox from the heretics, the “friends of God” from the “enemies of God,” and the political theologian from the secular philosopher.  Here we are reminded of perhaps Tertullian’s most famous outcry: “What then does Athens have to do with Jerusalem?  What does the Academy have to do with the Church?  What do the heretics have to do with Christians?”[14]  Tertullian was, of course, a fierce enemy of Gnosticism, and his works, especially De praescriptione haereticorum, belong to the genre of heresiophobic literature. 

   Now with Tertullian’s antignosticism in mind, we should turn to the afterword of Schmitt’s Politische Theologie II, in which “gnostische Dualismus” figures prominently.  There, Schmitt remarks that Gnostic dualism places a God of Love, strange to this world, in opposition to the lord and creator of this evil world, the two conflicting in a kind of “cold war.”[15]  This he compares to the Latin motto noted by Goethe in Dichtung und Wahrheit, “nemo contra deum nisi deus ipse”—only a god can oppose a god.[16]  With these references, Schmitt is alluding to the Gnostic dualism attributed to the Gnostic Marcion, who reputedly posited two Gods, one a true hidden God, the other an ignorant creator God. 

  What is important here, for our purposes, is the underlying theme of heresy and orthodoxy.  As is well-known, for Schmitt, especially from Der Begriff des Politischen onward, the political world is defined in terms of the well-known Schmittean distinction between friend and foe.  But not so often remarked is that this friend-foe distinction can be traced directly back to the anti-heresiology of Tertullian.  Tertullian devoted a considerable number of pages to the refutation of Marcion in five books, and in particular attacked what he perceived as Marcionitic docetism.  In “Against the Valentinians,” Tertullian attacked “certain heretics who denied the reality of Christ’s flesh,” first among these heretics being, again, Marcion.[17]  For Tertullian, historicity is paramount: the docetic view that Christ did not come in the flesh but belongs to another world—this is unbearable to him.  Tertullian devotes hundreds of pages to detailing and attacking the works of those he designates heretical, and (perhaps ironically, given Tertullian’s venomous diatribes) compares them to scorpions full of venom.

   So virulent is Tertullian in his hatred of those he perceives as heretics that he goes so far as to imagine that “There will need to be carried on in heaven persecution [of Christians] even, which is the occasion of confession or denial.”[18]  Here we begin to see the dynamic that impels Tertullian’s hatred of those he designates as heretical.  On the one hand, Tertullian belongs in the context of Roman persecution of Christians as a whole—but on the other hand, he in turn carries on an intellectual persecution of heretics whom he sees as scorpions, that is, as vermin.[19]  Thus we see Tertullian’s perception of himself as defender of the historicist orthodox, the strength of whose identity comes on the one hand, from affirmation of faith in the historical Christ against the Romans, on the other hand, from rejection of the Gnostics who seek to transcend history and who affirm, for example, a docetic Christ.  Tertullian’s very identity exists by definition through negation—he requires the persecution of “heretics.”  Tertullian is the veritable incarnation of a friend/enemy dynamic, and he exists and defines himself entirely through such a dynamic.  We can even go further, and suggest that the background of persecution by the Romans in turn inevitably impels the persecuted historicist Christians to themselves become persecutors of those whom they deem heretics—a dynamic that continues throughout the subsequent history of Christianity (from the medieval condemnation of Eckhart right through the various forms of early modern and modern anti-mysticism within Protestant and Catholic Christianity alike).[20]  Tertullian, for all his fulminations against what he imagines as Gnostic dualism, is in fact himself the ultimate dualist [or duelist].  He cannot exist without historical enemies, without persecutors and without those whom he can persecute in his turn.

   Thus we begin to see the reasons for Schmitt’s endorsement of Tertullian as the paradigmatic jurist theologian and political theologian.  For Tertullian, Christ’s historicity is paramount—exactly as is the case with Schmitt himself.  In Nomos of the Earth, Schmitt proposes the historical importance within Christianity of the concept of the katechon, or “restrainer” that makes possible Christian empires whose center was Rome, and that “meant the historical power to restrain the appearance of the Antichrist and the end of the present eon.”[21] The concept of the katechon is derived from an obscure Pauline verse: II Thessalonians 2.6-7, “And you know what is restraining him now so that he may be revealed in his time.  For the mystery of lawlessness is already at work; only he who now restrains it will do so until he is out of the way.”  This passage is in the larger context of a Pauline warning against the “activity of Satan” among those who are “sent” a “strong delusion” by God himself [!] “so that all may be condemned who did not believe the truth (II.2.11).”  The katechon represents, for Schmitt, an “historical concept” of “potent historical power” that preserves the “tremendous historical monolith” of a Christian empire because it “holds back” nothing less than the eschatological end of history.[22] The Pauline context in Thessalonians can be read to support institutional Christianity as a prosecutorial power. In any case, the katechon makes intellectually possible (in Schmitt’s view) the emergence of the Christian empire oriented toward Rome and itself now a juridical, prosecutorial or persecutorial imperial power within history. 

   Now I am not arguing that Schmitt’s work—and in particular his emphasis on the role of antagonism and hostility as defining politics, nor his emphasis on historicity—derives only from Tertullian.  Rather, I hold that Schmitt refers to Tertullian because he finds in him a kindred spirit, and what is more, that there really is a continuity between Schmitt’s thought and the anti-heretical writings of Tertullian.  Both figures require enemies.  Schmitt goes so far as to write, in The Concept of the Political, that without the friend-enemy distinction “political life would vanish altogether.”[23]  And in the afterword to Political Theology II, Schmitt—in the very passages in which he refers to Gnosticism and in particular to dualism—ridicules modern “detheologization” [Die Enttheologisierung] and “depoliticization” [Die Entpolitisierung] characteristic of a liberal modernity based upon production, consumption, and technology.  What Schmitt despises about depoliticizing or detheologizing is the elimination of conflict and the loss thereby of the agonistic dimension of life without which, just as Tertullian wrote, the juridical trial  and judging of humanity cannot take place.  Tertullian so insists upon the primacy of persecution/prosecution that he projects it even into heaven itself.  Schmitt restrains himself to the worldly stage, but he too insists upon conflict as the basis of the political and of history; and both are at heart dualists.

   Why, after all, was Schmitt so insistent upon what he called “political theology”?  In the very term, there is a uneasy conjunction of the worldly sphere of politics with what usually would be construed as the otherworldly sphere of theology.  But Tertullian represents the forced convergence of these two spheres—in some central respects, Tertullian symbolizes the point at which Christianity shifted from the persecuted by Rome to the persecutor from Rome, the shift from Christ’s saying that His Kingdom is not of this world, to the assertion of Christendom as a political-theological entity and of the possibility of Christian empire—that is, of the compression together and perhaps even the merger of politics and theology.  This forced convergence of politics and theology could not take place without the absolute insistence upon an historical Christ and on the paramount importance of the horizontal, that is, of history itself (as opposed to and indeed, founded on the explicit rejection of the transcendence of history or of the vertical dimensions represented by gnosis).

   The work of Schmitt belongs to the horizontal realm of dualistic antagonism that requires the antinomies of friends and enemies and perpetual combat.  Schmitt is a political and later geopolitical theorist whose political theology represents, not an opening into the transcendence of antagonism, but rather an insistence upon antagonism and combat as the foundation of politics that reflects Tertullian’s emphasis on antagonism toward heretics as the foundation of theology.  When Schmitt writes, in The Concept of the Political, that “a theologian ceases to be a theologian when he . . . no longer distinguishes between the chosen and the nonchosen,” we begin to see how deeply engrained is his fundamental dualism.[24]  This dualism is bound up with Schmitt’s insistence upon “the fundamental theological dogma of the evilness of the world and man” and his adamant rejection of those who deny original sin, i.e., “numerous sects, heretics, romantics, and anarchists.”[25]  Thus “the high points of politics are simultaneously the moments in which the enemy is, in concrete clarity, recognized as the enemy.”[26]  The enemy, here, just as in Tertullian’s work, is those deemed to be heretical.

   Here we should recognize a certain irony.  Tertullian, we will recall, railed against the Gnostics because they supposedly were dualists and because some of them reputedly held that humanity was deluded and that the world was evil.[27]  Yet much of mainstream Christianity, like Tertullian himself, itself came to espouse a fierce dualism and an insistence on the evil nature of humanity and of the world.  Even when it is clear, as in the case of Valentinus, that his thought includes the transcendence of dualism, Tertullian cannot bring himself to recognize this transcendence because his mind works on the level of the juridical only—he is compelled to attack; indeed, his entire worldview is constructed around those whom he rejects, ridicules, refuses to recognize as in any way legitimate—around those whom he sees as his enemies.  And this fierce dualism, this need for that which is construed as heretical, as the enemy, is exactly what Schmitt’s work also reflects. 

   As perhaps Tertullian once did, Schmitt too came up against the command of Christ to “love your enemies” (Matt. 5.44; Luke 6.27).  His interpretation of it is befitting a wily attorney—he takes it only on a personal level.  “No mention is made of the political enemy,” Schmitt writes.  “Never in the thousand-year struggle between Christians and Moslems did it occur to a Christian to surrender rather than to defend Europe,” he continues, and the commandment of Christ in his view “certainly does not mean that one should love and support the enemies of one’s own people.”[28]  Thus, Christ can be interpreted as accepting political antagonism and even war—while forgiving one’s personal enemies along the way.  Schmitt conveniently overlooks the fact that nowhere in the New Testament can Christ be construed as endorsing, say, political war against Rome—His Kingdom is not of this world.  Is it really so easy to dismiss the power of the injunction to love one’s enemies?

   There is more.  For Schmitt’s distinction between the personal and the political here makes possible what his concept of the katechon also does: Christian empire.  Here we see the exact point at which the Christian message can be seen to shift from the world-transmuting one of forgiving one’s enemies to the worldly one that leads inexorably toward the very imperial authority and power against which Christ himself stood as an alternative exemplar.  “My Kingdom is not of this world,” Christ said.  But somehow a shift took place, and suddenly Christ was being made to say that his kingdom is of this world, that rather than forgiving one’s enemies, one should implacably war against them.  Thus we have the emergence of Christian empire.  But the collapse of feudalism and of the medieval polis, and the emergence of modernity ultimately meant the de-politicization of the world—the absence of enemies, of heretics, of those against whom others can define themselves—none other than the cultural vacuum represented by technological-consumerist modern society.

 

 Conclusions

   And so we again reach the argument that I began to suggest in “Voegelin’s Antignosticism and the Origins of Totalitarianism,” but from a very different angle.  There, I argued that rather than attempting (like Voegelin and his acolytes) to blame the victims—the Gnostics and ‘heretics’—for the advent of modernity and for totalitarianism, it might be more reasonable to take a closer look at the phenomenon of the Inquisition and of historicist Christianity (particularly millennialist Christianity) for the origins of modern secular chiliasm.  After all, it wasn’t the heretics or the Gnostics who burned people at the stake, or created institutional torture chambers, or who slaughtered the Albigensians.  Rather, it was the institutional church that did this. Our analysis of Schmitt’s work has brought us, unexpectedly, back to the same general terrain.

   It is worth remarking, however unpleasant it might be to admit it, that as Mao or Pol Pot did when their policies meant the deaths of millions, so too the Church itself did when it burned at the stake the great mystic Marguerite Porete, or the brilliant author Giordano Bruno and many others for heresy—all of these institutional murderers believed at least in part that they killed people for their own good, or at least, for the better good, and in order to realize some better state upon earth in the near future.  How is it that the medieval Church was so unwilling to allow the Albigensians their freedom and their own traditions?  Why was it so impossible to regard them as Christian brethren and not as enemies to be slaughtered?  By slaughtering those deemed heretics, one hastens the historical millennium of Christ’s kingdom upon earth, or so the logic goes.  Secular chiliasm in the technological modern world like that analyzed by Pellicani is only a more extensive and brutal form of the same phenomenon, whose origins are to be found in historicist Christianity, not among those victims of it that were deemed heretical.[29]

   Schmitt’s work belongs to the juridical tradition of Tertullian and he inherits Tertullian’s need for enemies, for heretics by which one can define oneself.  Thus it was not too difficult for Schmitt to organize the 1936 conference to weigh the “problem” of “the Jews”—he was predisposed toward the division of “us” and “them” by the triumphant Western historicist Christian tradition that peremptorily and with the persistence of two thousand years, rejected “heretics” who espoused gnosis and, all too frequently, rejected even the possibility of transcending dualism.  Indeed, Schmitt’s work allows us to see more clearly the historical current that was operative in National Socialism as well as in Mussolini’s Fascist party—and that brought Schmitt to open his 1936 conference remarks with the words of Hitler: “In that I defend myself against the Jews, I struggle to do the work of the Lord.”[30]  The murder of heretics has a theological origin; the murder of secular opponents has a political origin—but often the two are not so far apart, and so one could even speak of political theology in which to be the enemy is to be de facto heretical. 

   Thus, after the “Night of the Long Knives” and after Goebbels and Himmler carried out the murder of various dissidents, Schmitt published an article defending the right of the Third Reich and its leader to administer peremptory justice—and, in an interview published in the party newspaper Der Angriff,  defending none other than the Inquisition as a model of jurisprudence.[31]  Schmitt argued there that when Pope Innocent III created the juridical basis for the Inquisition, the Church inaugurated perhaps the “most humane institution conceivable” because it required a confession.  Of course, he goes on, the subsequent advent of confessions extracted by torture was unfortunate, but in terms of legal history, he thought the Inquisition a fine model of humane justice.  He managed to overlook the fact that the “crimes,” both in the case of the Inquisition and in the case of National Socialism in mid-1930s Germany, were primarily “crimes” of dissidence.

   Here we begin to consider the larger question of ideocracy as characteristic of modernity.  Ideocracy has nothing to do with Gnosticism or gnosis—but it might well have something to do with those who require enemies in order to define themselves, and with those who are willing to torture and slaughter in the name of some forthcoming imagined religious or secular millennium.  It is rigid ideocracy we see at work in the unreadable pronouncements of Communist China defending their occupation of Tibet and the insanity of the Cultural Revolution; it is rigid ideocracy at work in the pronouncements of Stalinist Russia, behind which millions upon millions lie dead.  Secular millennialism requires a rigid historicism—faith in history is necessary, a belief that one can remake this world and human society into a new historical model, even if the price is murder and torture.  Schmitt was a subtle thinker and very learned, no question of that.  His work offers us insights into the nature of modernity, into geopolitics, and into politics as combat.  But his work also, unexpectedly, throws light on the intellectual origins of modern ideocracies in early and medieval historicist, anti-heresiological Christianity.

 


[1] See Jan-Werner Müller, A Dangerous Mind: Carl Schmitt in Post-War European Thought, (New Haven: Yale UP, 2003), p. 7

[2] Ibid., p. 205

[3] See Carl Schmitt, G. Schwab, trs.,  The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes, (Westport: Greenwood, 1996), p. 26.

[4] See Hugh Urban, “Religion and Secrecy in the Bush Administration: The Gentleman, the Prince, and the Simulacrum,” in Esoterica VII(2005): 1-38.

[5] See Leo Strauss, Persecution and the Art of Writing, (Chicago: U. of Chicago P., 1952), p. 17; Leo Strauss, “Farabi’s Plato,” Louis Ginzberg Jubilee Volume, New York: American Academy for Jewish Research, 1945), pp. 357-393, p. 384.

[6] Schmitt, Leviathan, op. cit., p. 3.

[7] Ibid., p. 29.

[8] Ibid., p. 60.

[9] Ibid., p. 62.

[10] Ibid., pp. 96-97.

[11] See Heinrich Meier, Carl Schmitt and Leo Strauss: The Hidden Dialogue, (Chicago: U of Chicago P, 1995), p. 59, citing The Concept of the Political  (1933 ed.) III.9.

[12] See Schmitt, Politische Theologie II, (Berlin: Duncker und Humblot, 1970), p. 103, to wit: “Für eine Besinnung auf die theologischen Möglichkeiten spezifisch justischen Denkens ist Tertullian der Prototyp.”

[13] Heinrich Meier, The Lesson of Carl Schmitt, (Chicago: U of Chicago P, 1998), p. 92.

[14] See Meier, op. cit., p. 94, citing Tertullian, De praescriptione haereticorum, VII. 9-13: “Quid ergo Athenis et Hierosolymis?  Quid academiae et ecclesiae?  Quid haereticis et Christianis?”

[15] Schmitt, PTII, op. cit., p. 120: “Der gnostische Dualismus setzt einen Gott der Liebe, einen welt-fremden Gott, als den Erlöser-Gott gegen den gerechten Gott, den Herrn und Schöpfer dieser bösen Welt. . . [einer Art gefährlichen Kalten Krieges]”.

[16] Ibid., p. 122. 

[17] See A. Roberts and J. Donaldson, eds., Ante-Nicene Fathers, (Edinburgh: T & T Clark, 1989), III.521.

[18] Ibid., III. 643.

[19] See Tertullian’s treatise “Scorpiace,” op. cit., III.633-648.

[20] Here we might remark that Western forms of Christianity are strikingly different in this respect from those in the Eastern Church, where mysticism remained (however uneasily at times) incorporated into orthodoxy itself and not imagined as inherently inimical to orthodoxy.

[21] See Carl Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus Publicum Europaeum, G.L. Ulmen, trs., (New York: Telos, 2003), pp. 59-60.

[22] Ibid., p. 60.

[23] Carl Schmitt, G. Schwab, trs., The Concept of the Political, (New Brunswick: Rutgers, 1976), p. 51.

[24] Ibid., p. 64.

[25] Ibid., p. 65.

[26] Ibid., p. 67.

[27] I write “supposedly” dualist and “reputedly” held the world to be evil because these accusations, repeated by Tertullian and several other ante-Nicene Fathers, are hardly borne out as characteristics of all the works we see in the Nag Hammadi library, the collection of actual Gnostic writings discovered in 1945. 

[28] Ibid., p. 29.

[29] See Luciano Pellicani, Revolutionary Apocalypse: Ideological Roots of Terrorism, (Westport: Praeger, 2003), pp. xi. I wholeheartedly agree with Pellicani’s basic thesis that “The expansion on a planetary scale of a new form of chiliasm that substituted transcendence with absolute immanence and paradise with a classless and stateless society is the most extraordinary and shattering historical-cultural phenomenon of the secular age.” But this “new form of chiliasm” has nothing whatever to do with Gnosticism as an actual historical phenomenon.  One cannot find a single instance in late antiquity among the Gnostics themselves for such a phenomenon—but if one were to refer instead to “the destructive calling of modern pseudo­-gnostic revolution” that seeks to “purify the existing through a policy of mass terror and annihilation,” Pellicani’s thesis would no longer be quite as subject to the criticism of an anachronistic misuse of terms.  Later in the book, Pellicani discusses the cases of the Pol Pot regime and of Communist China—both of which illustrate his larger thesis well.  But neither of these have anything whatever to do with the phenomenon of Gnosticism in any historically meaningful sense. Even Voegelin himself expressed doubts about attempting to apply “Gnosticism” to the case of Communist Russia—let alone to Cambodia!  Such cases could be construed to illustrate a uniquely modern pseudo-gnosticism—though one could with more accuracy dispense entirely with the dubious references to “Gnosticism” and simply refer to secular millennialism.

[30] See Carl Schmitt, “Das Judentum in der deutschen Rechtswissenschaft,” in “Die deutsche Rechtswissenschaft im Kampf gegen den jüdischen Geist,” in Deutsche Juristen-Zeitung, 41(15 Oct. 1936)20:1193-1199, cited in Gopal  Balakrishnan, The Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, (London: Verso, 2000), p. 206.

[31] See “Können wir uns vor Justizirrtum schützen?” Der Angriff, 1 Sept. 1936, cited in Andreas Koenen, Der Fall Carl Schmitt, (Darmstadt: Wissenschaftliche, 1995), p. 703; see also Balakrishnan, op. cit., pp. 202-203.

vendredi, 18 mars 2011

Bonald's Theory of the Nobility

Bonald’s Theory of the Nobility

F. Roger Devlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

bonald.jpgUnlike Edmund Burke and Joseph de Maistre, Louis de Bonald devoted little space to analyzing the French Revolution itself. His focus instead was on understanding the traditional society which had been swept away. His review of Mme. de Staël’s Considerations on the Principal Events of the French Revolution, e.g., ends up turning into a theory of the nobility and its function. Bonald scholar Christopher Olaf Blum calls this “his most original contribution to the theory of the counter-revolution.”

Any advanced society requires men who devote themselves to the public good in preference to the private good of their families. This is particularly so in the professions of law and war: Bonald calls judges and warriors “merely the internal and external means of society’s conservation,” and hence the two fundamentally political or public professions.

To entice men into public service, two things are required. First, such men must be economically independent. They cannot rely on the changeable will of an employer who pays them a salary, however generous. Nor would their public duties allow them leisure to busy themselves with commerce. Therefore they must be landholders.

Second, men must be socialized to see public service as an honor and a distinction:

The [pre-revolutionary] constitution said to every private family: “when you have fulfilled your destination in domestic society, which is to acquire an independent property through work, order and thrift—when, that is, you have acquired enough that you have no need of others and are able to serve the state at your own expense, from your own income and, if necessary, with your capital—the greatest honor to which you can aspire will be to pass into the order particularly devoted to the service of the state.

In reality, this is a kind of noble fiction: the service nobility’s “distinction, by a strange reversal of conceptions, has seemed, even to them, to be a prerogative, while it is in fact nothing but servitude.” Their own interest would dictate their continued devotion to their families and the concerns of private life.

Pre-revolutionary France had a remarkable way of filling public offices: they were sold. Known as the “venality of offices,” the system is most often cited as an example of the irrationality of the ancien régime’s finances. Liberal historians especially have criticized the system for delaying the onset of large-scale capitalism in France: instead of expanding their commercial operations indefinitely, successful merchants would convert their fortunes into land in order to purchase more ‘honorable’ offices for themselves or their sons. Bonald warmly defends the custom:

There could be no more moral institution than one which, by the most honorable motive, gave an example of disinterestedness to men devoured by a thirst for money in a society in which the passion was a fertile source of injustice and crime. There could be no better policy than to stop, by a powerful yet voluntary means, and by the motive of honor, the immoderate accumulation of wealth in the same hands.

A large payment for occupying offices of public trust, he says, functioned as proof of a candidate’s independence and disinterestedness. The ‘opening of careers  to talents’ (which the Revolution made such a fuss over) merely encouraged bribery and endless strife over who was talented. Open venality was, strange to say, the more objective procedure.

Bonald contrasts the service nobility of France favorably with what he calls the political nobility of England: the English peers were “no body of nobles destined to serve political power but a senate destined to exercise it.” Nor were they wholly devoted to public duties: “The peer who makes laws for three months of the year sells linens for the other nine.”

The liberal might respond that “private” linen merchants are serving the public just as much as judges or military men: they provide merchandise to the “general public.” Contemporary libertarians have effectively satirized the notion of “public servants” who consume half our incomes, while “selfish businessmen” labor so that we may feed, clothe, and house ourselves more cheaply than any people in history.

Bonald mentions someone’s suggestion that actors be considered “public servants” since they perform for the public: this notion was universally and deservedly ridiculed, even by many who could not explain why actors were not “public men.”

The case with merchants is similar: “the merchant who arranges for a whole fleet of sugar and coffee serves individuals no less than the shopkeeper who sells them to me.” But the soldier who sacrifices his life for his country does not act merely for the benefit of the particular persons who make up the country at a particular moment. Justice has a similar irreducibly impersonal or universal intention: it is ideally “blind” or without regard for persons. Economic thinking cannot account for these types of human action.

(The philosophically inclined may wish to consult my discussion of the essential difference between universalist vs. particularist action in Alexandre Kojeve and the Outcome of Modern Thought, p. 92ff. Bonald’s views on this matter are quite similar to Hegel’s.)

It should be acknowledged that Bonald’s theory of the nobility is an idealizing interpretation. Since the time of Louis XIV, the grande noblesse at Versailles had not performed much of any function, and well before the Revolution, many noblemen bore a closer resemblance to the dissolute characters in Les liaisons dangereuses than to the ideal type described by Bonald. As Blum says, “in making [his] argument, [Bonald] was a reformer, for the French nobility had shown itself willing to jettison its duties in favor of the kind of freedom that would enable them, the wealthy, to dominate more effectively and without the hindrance of traditional strictures.”

Recommended reading:

Louis de Bonald
The True & Only Wealth of Nations: Essays on Family, Economy, & Society
Translated by Christopher Olaf Blum
Naples, Fla.: Sapientia Press of Ave Maria University, 2006

Critics of the Enlightenment: Readings in the French Counter-Revolutionary Tradition
Edited and translated by Christopher Olaf Blum
Wilmington, Del.: ISI Books, 2004

Louis de Bonald
On Divorce
Translated and edited by Nicholas Davidson
New Brunswick, N.J.: Transaction Publishers, 1992

TOQ Online, Dec. 4, 2009

vendredi, 11 mars 2011

G. Adinolfi: "Het fascisme heeft de antwoorden op de huidige problemen"

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Gabriele Adinolfi: "Het fascisme heeft de antwoorden op de huidige problemen"

Gabriele Adinolfi is een van de meest prominente non-conformistische intellectuelen van Italië. Deze sterk door Julius Evola beïnvloede nationaal-revolutionaire militant heeft twintig jaar in gedwongen Franse ballingschap geleefd. Van zijn hand zijn twee opmerkelijke recente werken: Nos belles années de plomb (Onze mooie loden jaren) uit 2004 en Pensées Corsaires. Abécédaire de lutte et de victoire (Kapersgedachten. Het ABC van strijd en van overwinning) uit 2008. Hij staat méér dan ooit in het brandpunt van de strijd in Italië en heeft toegestemd om enkele vragen van ons te beantwoorden.

Rivarol: Allereerst, meneer Adinolfi, kunt u – die een zeer ervaren militant bent en talloze offers voor het fascistische ideaal hebt gebracht – ons vertellen hoe u de toekomst van Italië en die van zijn jeugd ziet?
Gabriele Adinolfi: Heel negatief. Italië is een vergrijzend land met het laagste geboortecijfer van de wereld; het heeft bijna geen industrie meer, een kleine landbouwsector en een zeer beperkte soevereiniteit. De enige elementen die Italië tegenwoordig van de ondergang redden, zijn de nationale energiemaatschappijen (in het bijzonder ENI), de wapenindustrie, de kleine ondernemingen en wat overblijft van het spaargeld van de families.
In de huidige globaliseringscontext geeft dat ons amper enkele jaren om te overleven als de feiten niet radicaal veranderen.

R: Welke rol kan het fascisme in de toekomst van Italië spelen?
GA: Het is een paradox. Het fascisme biedt nog steeds alle antwoorden op de huidige problemen. Men kan zeggen dat het het enige denk- en organisatiesysteem is dat de oplossingen voor de grote uitdagingen van onze tijd bezit. Maar het slaagt er nog steeds niet in om zich in de huidige omstandigheden te plaatsen. De Italianen die het echte fascisme in het dagelijkse leven gekend hebben, blijven het werk van Mussolini waarderen en er zelfs van houden: zij hebben van al zijn sociale, economische, ethische en culturele weldaden genoten. Dat is heel anders voor degenen die van het fascisme slechts de "zwarte legende" hebben gekend en die het, zoals de Fransen, nooit hebben meegemaakt (Vichy kwam voort uit even onverwachte als ongunstige omstandigheden en belichaamde in elk geval geen fascistisch project).
Die nostalgie groeit met de dag door de eenvoudige vergelijking van het Italië van Mussolini met eerst het antifascistische en daarna het post-fascistische Italië. Niettemin ontbreken alle objectieve voorwaarden voor de vestiging van een fascistisch geïnspireerde natiestaat, waardoor het fascisme zich in de huidige toestand niet zal kunnen aanbieden. Toch is het mogelijk om aan het fascisme een hele reeks oplossingen te ontlenen voor de problemen die ons overspoelen. Laten we zeggen dat, als een bepaald aantal voorwaarden is vervuld, we kunnen hopen op een gemengde formule in de Italiaanse toekomst: een soort peronisme op zijn Italiaans.

R: Waaruit bestaat uw activiteit vandaag?
GA: Ik analyseer, becommentarieer, stel voor, schrijf. Ik leid een internetkrant, geef lezingen, houd debatten met mensen van alle gezindten, neem met Soccorso Sociale (Sociale Hulp) deel aan concrete acties voor de rechten van de zwaksten. Ik coördineer een studiecentrum, Polaris, dat een driemaandelijks tijdschrift uitgeeft, dat al een reeks overzichtswerken heeft voortgebracht en dat openbare bijeenkomsten inricht met vertegenwoordigers van de cultuur en de lokale of internationale instellingen. Ik weiger ook nooit om in een meer militant kader deel te nemen aan de ethische vorming en de intellectuele vorming. Ik volg met bijzonder veel aandacht en betrokkenheid het Casa Pound. Ik verzorg ook internationale betrekkingen, steeds in de geest van de heropleving en de "culturele revolutie" alsook met zeer veel aandacht voor het ontkrachten van gemeenplaatsen uit het antifascistische discours, dat met zijn nefaste effect de geschiedschrijving en de ideologie van het post-fascistische tijdperk beïnvloedt.

R: Hoe beoordeelt u de rol van het Vaticaan en, in bredere zin, die van de Kerk in het Italiaanse leven?
GA: Al 17 eeuwen lang, afgezien van een korte onderbreking in Avignon, moet Italië samenleven met de Kerk, wat eerst de burgeroorlogen tussen Welfen en Ghibellijnen heeft voortgebracht, daarna lange tijd de eenwording van Italië heeft verhinderd en na 1945 heeft bijgedragen aan de internationalisering van de Italiaanse politiek. Vandaag heeft de katholieke godsdienst veel minder invloed op het dagelijkse leven, maar hij behoudt een zekere algemene macht zoals blijkt uit de absolute meerderheid die in het parlement de euthanasiewet heeft weggestemd. De conciliaire Kerk is vorig jaar ook een kruistocht begonnen tegen het restrictieve immigratiebeleid van de regering-Berlusconi.
Het Vaticaan steunt de immigratie om ideologische, maar ook om economische redenen. "Migrantes", een kerkelijke organisatie van "Caritas", stelt officieel dat de "vermenging van culturen een bron van rijkdom is" en besteedt de helft van het Italiaanse(!) belastinggeld dat voor het Vaticaan bestemd is aan immigratie. De krachtmeting tussen het Vaticaan en de Italiaanse regering, die in 2010 naar schatting 400.000 immigranten zou hebben tegengehouden, is uitgedraaid op een compromis waarbij Italië wordt verplicht om – begin 2011 – bijna 100 000 nieuwe immigranten binnen te laten. Het Vaticaan lijkt te hebben gewonnen, wat de ontscheping van vreemdelingen alleen nog zal vergemakkelijken.

adi1.jpgR: Heb je sterk het gevoel dat de Italiaanse fascistische dynamiek een marginaal verschijnsel in Europa is?
GA: Eerder dat het een zeer typisch en zeer Italiaans verschijnsel is. Wat de sociologische achtergronden van de beweging betreft en de ideologische impulsen die haar kenmerken, denk ik dat het West-Europa – en niet Europa – is dat zo sterk afwijkt van de Italiaanse dynamiek. De redenen zijn veelvuldig, maar de gebreken van de westerse nationalisten zijn niet onbelangrijk. Het moet worden gezegd dat de westerse nationalisten – politiek gemarginaliseerd als gevolg van ongelijke krachtverhoudingen – ook dikwijls de belichaming van de marginalisering zijn geweest door al de complexen van marginalen en mislukkelingen aan te nemen. Ze hebben hun politieke onmacht weggemoffeld achter het rookgordijn van de holle taal en de meest stompzinnige clichés. Dat alles verwijdert hen van de werkelijkheid en maakt van hen dikwijls de levende bevestiging van de antifascistische karikatuur van het “zwarte schaap”. Een zwart schaap [bête noire] dat voor de rest dikwijls méér dom [bête] dan zwart [noire] is... [woordspeling]

R: Wat is volgens u de belangrijkste bedreiging voor de Europese wereld?
GA: De Europese wereld zélf. De ouderdom van Europa, zijn geestelijke, psychologische en biologische doodsstrijd, zijn afnemende geboortecijfer gekoppeld aan de schuldcomplexen en aan de verafgoding van het burgerlijke concept van "verworven rechten", de afwezigheid van machtswil en veroveringszin – dat zijn de elementen die ons veroordelen. Vervolgens zijn er de verloochening van onze economische productie en onze gewapende landsverdediging, de afwijzing van de oorlogsgeest die ons veroordelen. Die effecten zijn ons gedeeltelijk opgedrongen door de overwinnaars van Europa, d.w.z. de multinationale reus die zijn gezag heeft gevestigd op een bondgenootschap tussen de financiële wereld en de georganiseerde misdaad (en die vandaag nog steeds New York als hoofdstad heeft en Washington als bijhuis). De rest – al de rest – zijn slechts de gevolgen daarvan. De massa-immigratie en het multiculturalisme komen ervandaan en worden er dikwijls door gevoed.
Wat men er ook van denke, we hoeven geen enkele oplossing te verwachten als we niet onze levensenergie terugvinden en afstand nemen van de overwinnaar van Europa. Degenen die denken dat onze problemen in de omgekeerde zin kunnen worden opgelost, d.w.z. van beneden naar boven, dwalen. Het idee om de immigratie tegen te gaan via een enge "religieuze oorlog" (die wordt gesteund door CNN, maar die noch het Vaticaan noch de meeste moslims bereid zijn te voeren) is een ware manipulatie.
Proberen om een "verdediging van het Westen" op de been te brengen, een Westen dat wel héél ruim wordt opgevat – gaande van Londen tot New York en van Washington tot Tel Aviv – is gewoonweg belachelijk.
Het volstaat te bekijken wie de islamitische drugsmaffiastaten in Europa (Bosnië en Kosovo) steunen: de VS en Israël; Al Qaeda hebben uitgevonden: de VS; en Hamas hebben gesteund om de Palestijnse eenheid te ondermijnen: Israël. Dan begrijpt men dat zij die hopen op een Amerikaanse (= WASP) en "joods-christelijke" (volgens een neologisme dat in zwang is) “herovering” op een verkeerd spoor zitten. Of beter nog: het helemaal verkeerd voorhebben. Overigens zitten ze op een dood spoor.

R: De marxisten hebben het fascisme dikwijls verweten zich niet tegen het kapitalisme te verzetten. Wat denkt u van een dergelijke bewering?
GA: Het is pure onwetendheid en/of propaganda. Het volstaat erop te wijzen dat het kapitalisme het fascisme de oorlog heeft verklaard en er een wereldoorlog tegen heeft gevoerd, terwijl het altijd wel gemene zaak heeft gemaakt met elke marxistisch geïnspireerde regering. Dat is de moeite van een debat niet waard.

R: Het experiment van Mussolini heeft geleid tot de totale verstaatsing van Italië (naar Jacobijns model). Wat denkt u daarvan? Welke rol zou u geven aan de staat?

GA: We moeten altijd de werkelijkheid van de propaganda onderscheiden. De Italiaanse staat was autoritair en overweldigend vóór Mussolini. De Duce heeft hem een totalitaire impuls gegeven, maar tegelijkertijd het initiatief en de vrijheid van de individuen, de families en het maatschappelijke middenveld bevordert. Ik zie geen andere formules om enerzijds een lotsgemeenschap aaneen te smeden en te versterken; en anderzijds alle vrijheid om te leven te waarborgen. Wat vandaag gebeurt, is het omgekeerde. De instellingen vernietigen de families en het maatschappelijke middenveld, leggen alles op: op cultureel, ideologisch, financieel, economisch, moreel en zelfs gastronomisch vlak. We leven in een beschaving die alles verbiedt, met rokersgetto's en een schuldgevoel voor vleeseters, alcoholdrinkers en rokkenjagers. Het is het Grote Chicago van de gangsters. Ik kan geen enkele rol aan de staat toekennen om de redenen die ik in het begin heb aangehaald: hij heeft geen enkel concreet gezag meer, noch op wetgevend, noch op economisch, noch – en het minst van al – op militair vlak.
Er is vóór alles een ethische, spirituele en biologische wedergeboorte nodig én voor een lange periode; terwijl we de nieuwe elites trachten te vormen, zal het nodig zijn om te strijden voor de vormen van autonomie die de verdere uitverkoop van de staat zullen kunnen verzachten. Zonder ooit te vergeten dat het uiteindelijke doel de wederopbouw van de staat is.

R: Hoe ziet u het Franse politieke en intellectuele leven van vandaag?
GA: Frankrijk is altijd een "poolster" op intellectueel vlak geweest. Toch heb ik de indruk dat het vandaag in een impasse zit. Het moet ook worden gezegd dat Frankrijk in tegenstelling tot Italië, dat al 66 jaar een kolonie is, decennialang een rol in de wereld heeft gespeeld. De snelle geopolitieke opgave van Frankrijk in Afrika; de geleidelijke, maar versnelde opgave van zijn beschaving, zelfs in eigen land – hoewel gecompenseerd met beursbelangen en aandelen in de meest duistere handels van Latijns-Amerika, iets waarvan Frankrijk voordien nooit had geprofiteerd – dat alles heeft de Fransen ineens van elk optimisme beroofd in het eerste decennium van deze eeuw. Al was het maar op economisch vlak.
Uit de cijfers blijkt dat, hoewel ze hogere lonen hebben, de Fransen veel meer hebben betaald dan wij, Italianen, voor de wereldwijde en door de financiële wereld ontketende economische crisis.
Anderzijds gaat de Franse cultuur erop achteruit, zelfs op de scholen in Frankrijk, waar de taal is verworden tot een vervangingsmiddel voor elke idioot en een zeldzaam en kostbaar goed is bij de min-45-jarigen. Buiten enkele Frans-kosmopolitische miljonairs heeft niemand redenen om enthousiast te zijn over de toestand waarin Frankrijk nu verkeert. En bij gebrek aan een cultuur en een filosofie – vakkundig ontmanteld door professoren met linkse psychopathieën – is het zelfs moeilijk om in de wereld van de kunst een uitweg voor de wanhoop te vinden. Noch vrolijk noch tragisch voelen de Fransen zich opgesloten in hun ellende. Een beetje zoals de Amerikanen die ze de laatste kwarteeuw zijn beginnen na te bootsen. En zoals de Amerikaanse burgers ondergaan, niet delen in de veroveringen van de oligarchieën die hen regeren, zo doen de Franse hetzelfde ten opzichte van hun heersers, die in de abstracties van een andere werkelijkheid leven. Om onszelf een toekomst te geven moeten we voorkomen dat dit proces van "zelfverlies" zich over heel Europa verspreidt. Daarom moeten we weten én willen. Want het is tegen de wil en de kennis dat de helse machine die de beschaving aan het vermorzelen is al haar middelen inzet. De uitdaging is groot, maar de wil kan des te groter zijn. En als de wil zich voedt met kennis is niets definitief gedaan. Niets.

Vraaggesprek afgenomen door Yann KERMADEC voor "Rivarol”.

Lees ook: Casapound, "de fascisten van het derde millennium" (Rivarol)

mardi, 08 mars 2011

Alain Soral: Mieux comprendre l'empire afin de mieux le combattre...

Mieux comprendre l’empire afin de mieux le combattre…

soral3.jpgS’il y a un livre tombant à point nommé, à en juger de l’actualité, c’est bien celui-ci : le dernier essai de notre chroniqueur. En exclusivité, il nous en dit plus (paru dans Flash Magazine N°59).

Vous nous aviez habitués à parler légèrement de choses graves et là, on sent une rupture de ton dans ce dernier ouvrage… C’est la cinquantaine qui vous change ou sont-ce les temps qui changent ?
Disons que nous ne sommes plus dans les années 1990/2000 où quelque chose se mettait en place avec l’UE, l’Euro, mais où la tentative de putsch mondialiste n’était pas aussi imminente et visible. À cette époque, on pouvait encore tergiverser, mais là, entre la crise financière américaine, les déficits publics européens, les tensions ethniques et sociales qui se généralisent, et pas seulement dans le monde musulman, plus ici l’écroulement de la classe moyenne et la candidature de Strauss-Kahn qui s’avance… Vous conviendrez que les temps ne sont plus à la rigolade, à moins d’être Martien !

Vous êtes de formation marxiste et pourtant vous continuez de défendre la monarchie capétienne. Le paradoxe est plaisant, mais on sent du fond derrière ce raisonnement. Dites-nous en un peu plus…
Pour apaiser nos lecteurs de droite, je vais commencer par une citation de Marx, afin de bien leur faire sentir quelle était la position de ce grand penseur sur l’Ancien régime et le monde bourgeois qui lui a succédé : “Partout où la bourgeoisie est parvenue à dominer, elle a détruit toutes les conditions féodales, patriarcales, idylliques. Impitoyable, elle a déchiré les liens multicolores de la féodalité qui attachaient l’homme à son supérieur naturel, pour ne laisser subsister d’autre lien entre l’homme et l’homme que l’intérêt tout nu, l’inexorable “paiement comptant”. Frissons sacrés et pieuses ferveurs, enthousiasme chevaleresque, mélancolie béotienne, elle a noyé tout cela dans l’eau glaciale du calcul égoïste.”

Ceci pour rappeler que le sujet de Marx c’est la critique de la bourgeoisie, pas de l’Ancien régime ! En revanche, l’outil sociologique marxiste est très utile pour comprendre le renversement de la monarchie française par le nouvel ordre bourgeois. Et ces deux siècles de régime démocratique nous permettent aussi de juger largement des promesses et des mensonges de notre fameuse République égalitaire et laïque, en réalité démocratie de marché et d’opinion sous contrôle de l’argent et des réseaux maçonniques… Je peux donc, à la façon de Maurras, conclure de cette analyse objective que la monarchie catholique, comme système politique, était meilleure garante de l’indépendance nationale et de la défense des intérêts du peuple, que la finance apatride qui se trouve aujourd’hui au sommet de la pyramide démocratique qui n’a, en réalité, de démocratique que le nom !

De même, vous avez rejoint le PCF au début de sa dégringolade et refusez de vous acharner sur la défunte URSS, y voyant une sorte de tentative maladroite de lutter contre un empire encore plus puissant. On se trompe ?
Je suis persuadé, par intuition, mais aussi par l’analyse philosophique et historique, que le communisme n’a pu séduire une grande partie des masses travailleuses et des élites intellectuelles en Occident, que parce qu’il renouait avec la promesse chrétienne du don et du nous, détruite par le libéralisme bourgeois et son apologie de l’égoïsme individuel. Tout le reste n’est qu’une histoire de manipulation et de récupération, comme il en va toujours des religions par les Églises. Comme Tolstoï à son époque, je ne vois donc pas le communisme comme une aggravation du matérialisme bourgeois, mais comme une réaction au matérialisme bourgeois. Une tentative de respiritualiser le monde, malgré la mort de Dieu, et il y a pour moi, à l’évidence, bien plus de spiritualité et de christianisme dans l’espoir communiste tel que l’avaient compris le peuple et les poètes, que dans la bigoterie catholique de la IIIe République !

Par ailleurs, le monde bipolaire USA/URSS était la chance de la France, qui pouvait faire valoir, dans ce rapport de force, sa petite troisième voie. Ce qu’avait parfaitement compris de Gaulle dès 1940. Se réjouir, pour raison doctrinale, de la chute de l’URSS, alors que la nouvelle hégémonie américaine qui en a résulté nous a fait tout perdre, n’est donc pas une attitude de patriote français intelligent.

Bref, comme je l’explique aussi dans mon livre : l’ennemi de la France catholique est, et reste, la perfide Albion et ses rejetons, le monde judéo-protestant anglo-saxon libéral ; pas la rêveuse Russie d’hier, pas l’Orient complexe et compliqué d’aujourd’hui…

soral1.jpgContinuons à parler de vous. De tous les intellectuels “alternatifs” ou “déviants”, vous êtes l’un des meilleurs dans la maîtrise des codes de la “modernité”. Mais aussi l’un des plus en pointe dans la défense de la tradition, gréco-romaine et chrétienne. Un autre paradoxe ?
Merci du compliment. Mais je crois que ma réponse précédente éclaire en partie cette juste remarque. La France, qui a été la grande Nation, a produit les plus grands penseurs occidentaux du XVIIe et XVIIIe siècle – les Allemands ayant pris le relai au XIXe après que l’Angleterre nous eut détruits avec Napoléon, comme elle détruira ensuite l’Allemagne avec Hitler… – la France donc, pour des raisons sociologiques et épistémologiques, reste encore aujourd’hui, malgré sa faiblesse politique, la citadelle morale capable de résister, en Occident, au rouleau compresseur judéo-protestant anglo-saxon. À ce rouleau compresseur qui avance en détruisant les deux piliers de notre civilisation qui sont le logos grec et la charité chrétienne. Cette pensée et cette vision du monde helléno-chrétienne – celle de Pascal – qui est française par excellence et européenne, au sens euro-méditerranéen du terme. Une compréhension spirituelle de l’Europe qui passe malheureusement très au-dessus de la tête des Identitaires et de leurs fatales alliances judéo-maçonniques (Riposte laïque + LDJ) d’adolescents niçois…Toute la modernité, comme sa critique intelligente, c’est-à-dire la compréhension et la critique du processus libéral-libertaire provient de cette épistémè helléno-chrétienne, si française. Il est donc logique que quelqu’un qui prétende maîtriser la modernité défende cet outil et cet héritage national incomparable…

Cela vous amène tout naturellement à prendre la défense d’un islam dont on sent bien que les élites dominantes souhaitent la diabolisation, après avoir eu la peau du catholicisme. Une fois de plus, vous ramez à contre-courant…
Pour enfoncer le même clou, je rappellerai qu’un Français, donc un catholique, se situe à égale distance d’un anglo-saxon judéo-protestant et d’un arabo-musulman. Et c’est de cet équilibre, comme l’avait déjà compris François 1er, qu’il tire son indépendance et sa puissance. Une réalité spirituelle et géopolitique encore confortée par notre héritage colonial, l’espace francophone qui en a résulté… En plus, la situation aujourd’hui est d’un tel déséquilibre en faveur de la puissance anglo-saxonne, et cette hyper-puissance nous coûte si cher en termes de soumission et de dépendance, qu’il faut être un pur agent de l’Empire – comme Sarkozy et nos élites stipendiées pour se tromper à ce point d’ennemi principal !

Quant à la question de l’immigration, qui est la vraie question et pas l’islam, il est évident que pour la régler il faudra d’abord que la France reprenne le pouvoir sur elle-même. Or, ce pouvoir en France qui l’a ? Pas les musulmans…

Revenons-en à votre livre. Si on le résume à une charge contre le Veau d’or et ceux qui le servent, la définition vous convient-elle ?
Oui. “Comprendre l’Empire” c’est comprendre l’Empire de l’Argent. Et la lutte finale n’est pas contre la gauche ou la droite, les Allemands ou les Arabes, mais contre la dictature de Mammon. C’est en cela que le combat actuel rejoint la tradition…

soral2.jpgUn dernier petit mot d’optimisme pour nos lecteurs, histoire de les inviter à ne pas désespérer ?
D’abord pour citer Maurras après Marx : “Tout désespoir en politique est une sottise absolue”. N’oubliez pas que, contrairement au football, l’Histoire est un match sans fin. On peut donc être mené 20-0, rien n’est jamais perdu. De plus, notre empire mondialiste en voie d’achèvement ressemble de plus en plus à l’URSS. Un machin techno-bureaucratique piloté par une oligarchie délirante, stupide et corrompue, ne régnant plus sur le peuple, contre ses intérêts, que par le mensonge et la coercition. Le Traité de Lisbonne et la réforme des retraites en témoignent. Il n’est donc pas exclu que, comme pour l’URSS, l’Empire mondialiste s’écroule sous le poids de ses mensonges et de ses contradictions, au moment même où il pensait arriver aux pleins pouvoirs officiels par le Gouvernement mondial, après deux siècles de menées souterraines…

De ce point de vue, les soulèvements populaires au Maghreb, et qui pourraient bien culminer par la chute d’Israël et la défaite du lobby sioniste aux USA, sont un signe d’espoir bien plus probant que la montée des extrêmes droites sionistes et libérales européennes !

Propos recueillis par Béatrice PÉREIRE

 
Alain Soral

À propos de Alain Soral

Écrivain, essayiste et dynamiteur bien connu des plateaux de télévision, l’homme est incontrôlable,. À Flash, il a parfois du mal à se contrôler. Et c’est aussi et surtout pour cela qu’on l’aime. Devant le politiquement correct, il est comme un taureau devant un chiffon rouge. Tout plutôt qu’un veau !

jeudi, 03 mars 2011

Liberalism is the cause of inequality

One of the pitfalls of being human is the many perceptual traps that can ensnare us. Spotting an object in water is difficult because of refraction; our ability to estimate the lengths of lines is hampered by nearby objects. Colors surrounding an object affect how we perceive it.

For the past five hundred years, a perceptual trap has gained momentum. This trap starts simply: we see civilization around us, and that it provides for us, and we assume that it will always be that way, even if we make changes. So greedily we demand as much as possible for ourselves and ignore the consequences of those acts.

More than a political movement, this is a social movement based on the wishful thinking of people who are not engaged in maintaining the civilization itself. They view society as like a supermarket: you take what you want, pay your money, and worry about nothing else.

In the USA and Europe, a resistance movement has awakened to resist this perceptual trap. We resist it both as an economic doctrine (socialism/liberalism) and as a philosophy of civilization (narcissism). We don’t want it in any form because it is the opposite of a healthy attitude toward life, and its results are correspondingly bad.

A huge share of the nation’s economic growth over the past 30 years has gone to the top one-hundredth of one percent, who now make an average of $27 million per household. The average income for the bottom 90 percent of us? $31,244. – MJ

The good liberals over at MotherJones.com, who provided us the above quotation and several informative charts, have stepped into a perceptual trap. They assume that individual equality exists, therefore that if inequality exists, something must be wrong.

They point out an interesting fact, however: the average income in the USA is dropping, while the incomes of the “super-rich” are rising, which is symptomatic of a third-world population. However, what they forget is that liberalism caused this vast inequality by undermining the middle class:

  • Spreading the wealth. The agenda of liberalism is equality, which becomes filtered through the socialist notion of redistributing the wealth from rich to poor; if we’re all equal, the rich have that wealth unfairly, they think. The problem is that in doing this they take money away from those who are more competent, and who will use it to make more money, and spread it to people who are by definition less able to make competent financial decisions.
  • Importing voters. A favorite liberal tactic since 1965 has been to import voters from third-world nations. The problem with this is that it skews the population demographic toward low-income low-skilled workers. This cheapens our cost of basic labor-oriented tasks, but in turn, forces the same amount of value to go to more people and ensures that any given task requires more people. The result is a dissipation of value, so that even if the number values remain the same, quality declines, as we’ve seen happen in American construction, poultry/meat and manufacturing since the 1990s.
  • Fast money. Bill Clinton effected an economic miracle by making money easy and quick to borrow. While this provided a great stimulus to business in the short-term, in the long-term it shifted profitability from production of value-adding goods to the shuffling of paper and reselling of financial instruments. This produced an economy that while “profitable” existed entirely on paper. This not only creates a new class of super-rich manipulators, but also devalues the currency as investors worry about its actual value.
  • Red tape. Affirmative action, H1-B visas, anti-discrimination legislation, Obamacare, environmental regulations, extensive safety rules and a Byzantine tax code afflict our businesses with miles of red tape. This in turn makes them less competitive, which they compensate for by cutting corners, which in turn reduces the value of their goods relative to those who have fewer obligations. Even more, this tempts them to outsource, where they don’t have to pay these costs.
  • Unions. Unions combine the worst of all of the above: they spread money to the wrong people, including organized crime; they create violent social polarization between classes; they support and encourage immigration; they generate miles of red tape; they spread the wealth from those who make more wealth to those who sit in offices and pore over books of rules. In addition, unions wreck our competitiveness by creating more internal communication over non-productive issues, having more rules and more people to buy in on any compromise. If unions were biological we’d call them cancers.
  • Allegiance. Removing the more organic questions of culture, heritage and ability, the liberal Utopia promotes people based on their allegiance to political concepts. Whether Viet Cong recruits reciting Mao, or Bono from U2 having the “right opinions,” we make a new elite for political motives. Surely Barack Obama, with his missing dissertation and questionable accomplishments, serves as a vanguard for this new political ueber-class.

All of the above are liberal darlings because the above support the liberal agenda of equality through wealth distribution and fragmentation of any majority group (who could possibly be more equal than the rest of us). In addition, the American left gets most of its funding from unions and associated concerns.

Unions, most of whose members are public employees, gave Democrats some $400 million in the 2008 election cycle. The American Federation of State, County and Municipal Employees, the biggest public employee union, gave Democrats $90 million in the 2010 cycle.

Follow the money, Washington reporters like to say. The money in this case comes from taxpayers, present and future, who are the source of every penny of dues paid to public employee unions, who in turn spend much of that money on politics, almost all of it for Democrats. In effect, public employee unions are a mechanism by which every taxpayer is forced to fund the Democratic Party. – Washington Examiner

If you want to know why your money is decreasing in value, and thus inequality is increasing, it is because of the liberal left’s attempts to make inequality disappear.

Before the left took over, the philosophy of Europe and the United States was that we would provide opportunity and reward those who were more competent. This natural philosophy, a lot like natural selection, enabled us to grow and challenge ourselves and produce an elite of smart, capable, dedicated people.

As the fight over the federal budget gathers pace, we will also see big confrontations between the reformers and the hostages to the status quo in Washington. Democrats are salivating over a possible backlash against Republican lawmakers if they force a government shutdown in early March by insisting on spending cuts. And complacent Republicans are dreading that very possibility in the face of the onslaught from the more energetic House Republican freshmen who recently passed that bold measure to reduce the federal budget by $61 billion.

The United States has been getting away with surreal levels of debt for far too long. If the dollar were not the world’s reserve currency, a major debt crisis would have exploded by now. The total outstanding federal debt has reached $14.1 trillion, almost the equivalent of what the economy produces in a year. Meanwhile, the annual deficit, a major source of that ever-mounting debt, stands at more than $1.6 trillion for 2011. It represents almost 11 percent of the nation’s gross domestic product — which compares pitifully even with Greece, whose deficit in 2010 amounted to 8 percent of that country’s economy.

As a result of these imbalances, and of the illusion that unemployment can be brought down with government spending, the Federal Reserve has been printing dollars like crazy — half of them to purchase Treasury bonds. The policy of easy money has contributed to skyrocketing commodity prices, whose ugly political, social and economic consequences we are only beginning to see around the world. – Real Clear Politics

As the left got more popular, it introduced the perceptual trap: why can’t we all just be equal, spread the wealth, be pacifists, and live in tolerance of each other. The problem is that wealth redistribution penalizes the competent and responsible, and replaces them with a few vicious controllers and vast clueless masses who do not care about social problems they cannot understand.

There’s a major difference between the US aristocracy and the meritocracy though. Aristocrats like Henry Chauncey, bred at Saint Grottlesex boarding schools and the Ivy League, were conscious of their privilege and social responsibility, and focused on developing the character and leadership skills necessary for public service. Many of today’s meritocrats, in contrast, don’t believe it’s a rigged game in their favour, and commit themselves to winning it at all costs, which means stepping on everyone else. As a result, too many lack self-reflection or self-criticism skills, meaning even those who are grossly overpaid give themselves outrageous bonuses.

But as long as the global elite is armed with and shielded by the belief that they are a genuine meritocracy they’d find it morally repulsive to make the necessary compromises. Whether American or Chinese, individuals who focus too much on ‘achievement,’ and who believe the illusion that they’ve achieved everything simply through their own honest hard work, often think very little of everyone else as a result.

That’s the ultimate irony of the otherwise admirable efforts of Conant and Chauncey to create a fairer world: in giving opportunities for the bright and able (regardless of whether they are rich or poor), they’ve created a selfish and utilitarian elite from which no Conant or Chauncey will be likely to appear from in the future. – The Diplomat

Liberal policies create inequality. By enforcing an equality of political means, instead of practical ones, they create a false elite. This false elite then takes from the middle class, and funnels that wealth into a cancerous government and a new “elite” fashioned out of those who benefit from gaming the system. These aren’t innovators and trailblazers; they’re people who have learned to manipulate society for their benefit.

In addition, much like the Soviet Union and the ill-fated Southern European socialist states, these entitlement states spread the wealth too thin and re-direct it from growth areas into dead-ends, resulting in not only bankruptcy but a delusional population who, when the money runs out, won’t stop their own benefits in order to get everyone through the trouble. A nation that is disunified like that isn’t a nation; it’s a supermarket.

Traditional peasant societies believe in only a limited amount of good. The more your neighbor earns, the less someone else gets. Profits are seen as a sort of theft; they must be either hidden or redistributed. Envy, rather than admiration of success, reigns.

In contrast, Western civilization began with a very different, ancient Greek idea of an autonomous citizen, not an indentured serf or subsistence peasant. The small, independent landowner — if he was left to his own talents, and if his success was protected by, and from, government — would create new sources of wealth for everyone. The resulting greater bounty for the poor soon trumped their old jealousy of the better-off. – National Review

The psychology of hating inequality produces greater inequality. Where natural inequality may seem unfair, it works to produce “more equal” people who rise above the rest and, through their competence, give to the rest of us a functional society with profitable industries. Artificial equality on the other hand forces us all to the same level of poverty, leaving a few cultural/political elites to rule us, as is the case in most third-world nations.

The choice is upon us: first-world inequality, or third-world equality? The battle in Wisconsin is symbolic more than it is a choice of Wisconsin as a place particularly in need of fixing; it’s a battle over the philosophy that will define us, and decide which of these two societies we pick.

mercredi, 02 mars 2011

Reflections on Carl Schmitt's "The Concept of the Political"

Reflections on Carl Schmitt’s The Concept of the Political

Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

“Why can’t we all get along?”–Rodney King

carl_schmitt-20300.jpgCarl Schmitt’s short book The Concept of the Political (1932) is one of the most important works of 20th century political philosophy.

The aim of The Concept of the Political is the defense of politics from utopian aspirations to abolish politics. Anti-political utopianism includes all forms of liberalism as well as international socialism, global capitalism, anarchism, and pacifism: in short, all social philosophies that aim at a universal order in which conflict is abolished.

In ordinary speech, of course, liberalism, international socialism, etc. are political movements, not anti-political ones. So it is clear that Schmitt is using “political” in a particular way. For Schmitt, the political is founded on the distinction between friend and enemy. Utopianism is anti-political insofar as it attempts to abolish that distinction, to root out all enmity and conflict in the world.

Schmitt’s defense of the political is not a defense of enmity and conflict as good things. Schmitt fully recognizes their destructiveness and the necessity of managing and mitigating them. But Schmitt believes that enmity is best controlled by adopting a realistic understanding of its nature. So Schmitt does not defend conflict, but realism about conflict. Indeed, Schmitt believes that the best way to contain conflict is first to abandon all unrealistic notions that one can do away with it entirely.

Furthermore, Schmitt believes that utopian attempts to completely abolish conflict actually increase its scope and intensity. There is no war more universal in scope and fanatical in prosecution than wars to end all war and establish perpetual peace.

Us and Them

What does the distinction between friend and enemy mean?

First, for Schmitt, the distinction between friend and enemy is collective. He is talking about “us versus them” not “one individual versus another.”

Schmitt introduces the Latin distinction between hostis (a collective or public enemy, the root of “hostile”) and inimicus (an individual and private adversary, the root of “inimical”). The political is founded on the distinction between friend (those on one’s side) and hostis (those on the other side). Private adversaries are not public enemies.

Second, the distinction between friend and enemy is polemical. The friend/enemy distinction is always connected with the abiding potential for violence. One does not need to actually fight one’s enemy, but the potential must always be there. The sole purpose of politics is not group conflict; the sole content of politics is not group conflict; but the abiding possibility of group conflict is what creates the political dimension of human social existence.

Third, the distinction between friend and enemy is existentially serious. Violent conflict is more serious than other forms of conflict, because when things get violent people die.

Fourth, the distinction between friend and enemy is not reducible to any other distinction. For instance, it is not reducible to the distinction between good and evil. The “good guys” are just as much enemies to the “bad guys” as the “bad guys” are enemies to the “good guys.” Enmity is relative, but morality—we hope—is not.

Fifth, although the friend/enemy distinction is not reducible to other distinctions and differences—religious, economic, philosophical, etc.—all differences can become political if they generate the friend/enemy opposition.

In sum, the ultimate root of the political is the capacity of human groups to take their differences so seriously that they will kill or die for them.

It is important to note that Schmitt’s concept of the political does not apply to ordinary domestic politics. The rivalries of politicians and parties, provided they stay within legal parameters, do not constitute enmity in Schmitt’s sense. Schmitt’s notion of politics applies primarily to foreign relations — the relations between sovereign states and peoples — rather than domestic relations within a society. The only time when domestic relations become political in Schmitt’s sense is during a revolution or a civil war.

 

Sovereignty

 

If the political arises from the abiding possibility of collective life or death conflict, the political rules over all other areas of social life because of its existential seriousness, the fact that it has recourse to the ultimate sanction.

For Schmitt, political sovereignty is the power to determine the enemy and declare war. The sovereign is the person who makes that decision.

If a sovereign declares an enemy, and individuals or groups within his society reject that declaration, the society is in a state of undeclared civil war or revolution. To refuse the sovereign’s choice of enemy is one step away from the sovereign act of choosing one’s own enemies. Thus Schmitt’s analysis supports the saying that, “War is when the government tells you who the bad guy is. Revolution is when you decide that for yourself.”

 

Philosophical Parallels

The root of the political as Schmitt understands it is what Plato and Aristotle call “thumos,” the middle part of the soul that is neither theoretical reason nor physical desire, but is rather the capacity for passionate attachment. Thumos is the root of the political because it is the source of attachments to (a) groups, and politics is collective, and (b) life-transcending and life-negating values, i.e., things that are worth killing and dying for, like the defense of personal or collective honor, one’s culture or way of life, religious and philosophical convictions, etc. Such values make possible mortal conflict between groups.

The abolition of the political, therefore, requires the abolition of the human capacity for passionate, existentially serious, life and death attachments. The apolitical man is, therefore, the apathetic man, the man who lacks commitment and intensity. He is what Nietzsche called “the last man,” the man for whom there is nothing higher than himself, nothing that might require that he risk the continuation of his physical existence. The apolitical utopia is a spiritual “boneless chicken ranch” of doped up, dumbed down, self-absorbed producer-consumers.

Schmitt’s notion of the political is consistent with Hegel’s notion of history. For Hegel, history is a record of individual and collective struggles to the death over images or interpretations of who we are. These interpretations consist of the whole realm of culture: worldviews and the ways of life that are their concrete manifestations.

There are, of course, many interpretations of who we are. But there is only one truth, and according to Hegel the truth is that man is free. Just as philosophical dialectic works through a plurality of conflicting viewpoints to get to the one truth, so the dialectic of history is a war of conflicting worldviews and ways of life that will come to an end when the correct worldview and way of life are established. The concept of human freedom must become concretely realized in a way of life that recognizes freedom. Then history as Hegel understands it—and politics as Schmitt understands it—will come to an end.

Hegel’s notion of the ideal post-historical state is pretty much everything a 20th (or 21st) century fascist could desire. But later interpreters of Hegel like Alexandre Kojève and his follower Francis Fukuyama, interpret the end of history as a “universal homogeneous state” that sounds a lot like the globalist utopianism that Schmitt wished to combat.

Why the Political Cannot be Abolished

If the political is rooted in human nature, then it cannot be abolished. Even if the entire planet could be turned into a boneless chicken ranch, all it would take is two serious men to start politics—and history—all over again.

But the utopians will never even get that far. Politics cannot be abolished by universal declarations of peace, love, and tolerance, for such attempts to transcend politics actually just reinstitute it on another plane. After all, utopian peace- and love-mongers have enemies too, namely “haters” like us.

Thus the abolition of politics is really only the abolition of honesty about politics. But dishonesty is the least of the utopians’ vices. For in the name of peace and love, they persecute us with a fanaticism and wanton destructiveness that make good, old-fashioned war seem wholesome by comparison.

Two peoples occupying adjacent valleys might, for strategic reasons, covet the high ground between them. This may lead to conflict. But such conflicts have finite, definable aims. Thus they tend to be limited in scope and duration. And since it is a mere conflict of interest—in which both sides, really, are right—rather than a moral or religious crusade between good and evil, light and darkness, ultimately both sides can strike a deal with each other to cease hostilities.

But when war is wedded to a universalist utopianism—global communism or democracy, the end of “terror” or, more risibly, “evil”—it becomes universal in scope and endless in duration. It is universal, because it proposes to represent all of humanity. It is endless, of course, because it is a war with human nature itself.

Furthermore, when war is declared in the name of “humanity,” its prosecution becomes maximally inhuman, since anything is fair against the enemies of humanity, who deserve nothing short of unconditional surrender or annihilation, since one cannot strike a bargain with evil incarnate. The road to Dresden, Hiroshima, and Nagasaki was paved with love: universalistic, utopian, humanistic, liberal love.

Liberalism

 

Liberalism seeks to reduce the friend/enemy distinction to differences of opinion or economic interests. The liberal utopia is one in which all disputes can be resolved bloodlessly by reasoning or bargaining. But the opposition between liberalism and anti-liberalism cannot be resolved by liberal means. It is perforce political. Liberal anti-politics cannot triumph, therefore, without the political elimination of anti-liberalism.

The abolition of the political requires the abolition of all differences, so there is nothing to fight over, or the abolition of all seriousness, so that differences make no difference. The abolition of difference is accomplished by violence and cultural assimilation. The abolition of seriousness is accomplished by the promotion of spiritual apathy through consumerism and indoctrination in relativism, individualism, tolerance, and diversity worship—the multicult.

Violence, of course, is generally associated with frankly totalitarian forms of anti-political utopianism like Communism, but the Second World War shows that liberal universalists are as capable of violence as Communists, they are just less capable of honesty.

Liberalism, however, generally prefers to kill us softly. The old-fashioned version of liberalism prefers the soft dissolution of differences through cultural assimilation, but that preference was reversed when an unassimilable minority rose to power in the United States, at which time multiculturalism and diversity became the watchwords, and the potential conflicts between different groups were to be managed through spiritual corruption. Today’s liberals make a fetish of the preservation of pluralism and diversity, as long as none of it is taken seriously.

 

Multicultural utopianism is doomed, because multiculturalism is very successful at increasing diversity, but, in the long run, it cannot manage the conflicts that come with it.

The drug of consumerism cannot be relied upon because economic crises cannot be eliminated. Furthermore, there are absolute ecological limits to the globalization of consumerism.

As for the drugs of relativism, individualism, tolerance, and the multi-cult: only whites are susceptible to their effects, and since these ideas systematically disadvantage whites in ethnic competition, ultimately those whites who accept them will be destroyed (which is the point, really) and those whites who survive will reject them. Then whites will start taking our own side, ethnic competition will get political, and, one way or another, racially and ethnically homogeneous states will emerge.

Lessons for White Nationalists

To become a White Nationalist is to choose one’s friends and one’s enemies for oneself. To choose new friends means to choose a new nation. Our nation is our race. Our enemies are the enemies of our race, of whatever race they may be. By choosing our friends and enemies for ourselves, White Nationalists have constituted ourselves as a sovereign people—a sovereign people that does not have a sovereign homeland, yet—and rejected the sovereignty of those who rule us. This puts us in an implicitly revolutionary position vis-à-vis all existing regimes.

The conservatives among us do not see it yet. They still wish to cling to America’s corpse and suckle from her poisoned tit. But the enemy understands us better than some of us understand ourselves. We may not wish to choose an enemy, but sometimes the enemy chooses us. Thus “mainstreamers” will be denied entry and forced to choose either to abandon White Nationalism or to explicitly embrace its revolutionary destiny.

It may be too late for mainstream politics, but it is still too early for White Nationalist politics. We simply do not have the power to win a political struggle. We lack manpower, money, and leadership. But the present system, like all things old and dissolute, will pass. And our community, like all things young and healthy, will grow in size and strength. Thus today our task is metapolitical: to raise consciousness and cultivate the community from which our kingdom—or republic—will come.

When that day comes, Carl Schmitt will be numbered among our spiritual Founding Fathers.

La revanche de Dieu et du roi

La revanche de Dieu et du roi

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

110226On doit se féliciter des trois césars récompensant ce 25 février le travail de Xavier Beauvois et de son équipe (1). Deux importantes émotions cinématographiques ont, en effet, sollicité les Français ces derniers mois : "Des Hommes et des Dieux", qui retrace la marche au martyre des moines trappistes de Tibhérrine et, dans un registre bien différent, "Le Discours d'un roi". Ce dernier film évoque le destin du duc d'York, qui deviendra George VI d'Angleterre.

On peut regarder ces œuvres de plusieurs manières, bien évidemment. On leur trouvera telles qualités, tels défauts.

Si l'on se passionne par exemple pour le personnage du frère aîné, l'énigmatique et éphémère Édouard VIII, lequel ne régnera que de janvier à décembre 1936, pour sa liaison avec Wallis Simpson, jugée scandaleuse à l'époque, on trouvera peut-être un peu caricaturale la présentation du personnage. Ce prince, dans la réalité historique, s'est montré d'abord un fort courageux soldat de la première guerre mondiale. Proche du peuple, attaché à la paix, il refusera toujours, après son abdication, de servir en quoi que ce soit, les desseins des ennemis de son pays. Celle qui devint la duchesse de Windsor lui demeura fidèle, jusqu'au bout, dans l'exil.

S'il s'agit, pour le premier film, de disserter une fois de plus sur le rapport à l'islam, à l'islamisme, à l'islamo-terrorisme, pas sûr du tout qu'il faille s'aligner, du point de vue étroitement politique, sur la logique du rôle occupé, et remarquablement incarné, par Lambert Wilson.

La question qui nous préoccupe aujourd'hui tient à tout autre chose. Le succès, légitime, des deux films que je viens de citer doit certes beaucoup au talent des réalisateurs et des acteurs. Mais il correspond aussi aux questions profondes qui touchent le public. Il suggère une réhabilitation diffuse, implicite et non dite, de tout ce que le Grand Orient de France s'attache à détruire depuis le XVIIIe siècle.

Ne nous dissimulons pas en effet que, sous le nom [en partie usurpé] (2) de "francs-maçons" une secte, ouvertement athée depuis 1877, travaille à déchristianiser la France comme elle s'est employée à détruire la royauté, symbole de l'unité véritable et fédérateur de l'identité française (3).

Ce pauvre pays répond assez exactement à l'image poétique d'Ezra Pound : "Ce corps décapité qui cherche la Lumière". Certes, en deux siècles, les opérations de substitution, les ersatz de monarchie, bonapartisme et gaullisme, les faux semblants de sacré, les prétendus suppléments d'âme se sont succédés. Sans succès. La dernière incarnation du présidentialisme émané du suffrage universel pourvoit suffisamment elle-même à sa propre caricature. Inutile d'épiloguer. Victor Hugo appelait cela "les Châtiments"

L'affreuse marche des laïcards et de leur république est explicitée dans le livre d'Alfred Vigneau par un dialogue qui remonte à 1933 entre l'auteur et le grand maître de la Grande Loge de France :

« — Mon Frère Vigneau, déclarera le Grand-Maître, vous ne connaissez pas les grands secrets de la Franc-Maçonnerie : n’oubliez pas que, c’est un 33e, membre du Suprême Conseil qui vous parle ; a-t-il besoin de vous apprendre que les buts secrets de la Franc-Maçonnerie sont la déchristianisation de la France. »
Le Grand-Maître rappela que la Franc-Maçonnerie avait trois buts principaux :
«1° Venger la mort des Templiers ; mission de laquelle sont chargés les Chevaliers Kadosch, 30e grade, qui doivent exercer cette vengeance sur l’Église Catholique.
2° Abattre les frontières pour établir la République universelle, mission de laquelle sont chargés les Sublimes Princes du Royal Secret, 32e.
3° Supprimer la Famille traditionnelle pour émanciper les enfants et l’épouse selon la bonne morale laïque, buts vers lesquels tendent les Souverains Grands inspecteurs Généraux, 33e. »

Vigneau quittera la maçonnerie et publia son livre (4) l'année suivante, en 1934, où l'affaire Stavisky montre non seulement l'utilisation des réseaux de l'Ordre par des escrocs de bas étage, mais aussi l'impunité largement assurée à ceux-ci, contrairement aux lois et contrairement à toutes les règles morales.

Pour Dieu et le Roi, nous disons donc aujourd'hui "revanche", mais contrairement aux jacobins des loges maçonniques, et d'ailleurs, nous ne crierons jamais "vengeance".

JG Malliarakis

Apostilles

  1. Nominée dans 11 catégories, l'évocation de la marche au martyre des moines de Tibéhirine, assassinés dans l'Algérie de 1996, a obtenu, d'un jury politiquement et culturellement très correct, 3 récompenses dont celle du Meilleur Film.
  2. Dans son livre "La Voie substituée" Jean Baylot, lui-même dirigeant de la maçonnerie "traditionnelle et régulière", retrace les étapes de cette prise de pouvoir au sein des principales obédiences françaises par les adeptes du jacobinisme, en contradiction absolue avec les "constitutions d'Anderson" adoptées au début du XVIIIe siècle par la grande loge unie d'Angleterre.
  3. Dans son petit livre sur "La Franc-maçonnerie dans la révolution française" Maurice Talmeyr souligne la part des loges dans la préparation et la symbolique du séisme.
  4. cf. "La Loge maçonnique", qui vient d'être réédité.

Vous pouvez entendre l'enregistrement de notre chronique
sur le site de Lumière 101

samedi, 26 février 2011

The Radical Tradition

  • TOMISLAV SUNIC – History and Decadence: Spengler’s Cultural Pessimism Today
  •  
  • JONATHAN BOWDEN – A Polyp Devours Its Feed, Paracelsus Unzipped: An Analysis of F.W. Murnau’s Film, Nosferatu
  • TROY SOUTHGATE – Heidegger: The Application of Meaning in An Increasingly Transient World
  •  
  • WAYNE JOHN STURGEON – Anarcho-National-Syndicalist: Some Reflections on Being Shot by Both Sides
  •  
  • ALEX KURTAGIC – Lessons From the Music Industry

BRETT STEVENS – The Civilisation Cycle and its Implications for the Individual

MAXIM BOROZENEC – An Introduction to Intertraditionale

DR. K.R. BOLTON – The Art of Rootless Cosmopolitanism: America’s Offensive Against Civilisation

VINCE YNZUNZA – The Manifesto of the Psychedelic Conservative

TROY SOUTHGATE – Schopenhauer and Suffering: Eternal Pessimist or Prophet for our Times?

WAYNE JOHN STURGEON – Anarcho-Gnosticism: Golgotha of the Absolute Mind 

SEAN JOBST – Towards a Sufi Anarch: The Role of Islamic Mysticism Against Modernist Decay

BEN CRAVEN – Are Human Rights a Fiction of Modern, Western Liberal Democracies That Bring Us No Closer to a Shared Ethical Framework?

TONY GLAISTER – 50 Years On: Notes on the New Right

WAYNE JOHN STURGEON – The Impossible Dream: An Introduction to Christian Anarchism

KEITH PRESTON – The Nietzschean Prophecies: Two Hundred Years of Nihilism and the Coming Crisis of Western Civilization

TROY SOUTHGATE – Transcending the Beyond: Third Position to National-Anarchism

GWENDOLYN TOYNTON – Reforming the Modern World: Addressing the Issue of Cultural Identity

You may recognize some of these names from around here. We’re looking forward to this interesting release which takes politics from beyond the narrow linear confines of self-interest into a concept of human life as more than the sum of its parts.

Available in March 2011 from Primordial Traditions.

Le désenchantement du monde (de Marcel Gauchet)

Le désenchantement du monde (M. Gauchet)

Gauchet reprend l’expression de « désenchantement du monde », utilisée par Max Weber pour décrire l’élimination du magique dans la construction du Salut, mais ce qu’il désigne par là va au-delà de l’objet désigné par Weber. Pour Marcel Gauchet, le religieux en tant que principe extérieur au social, et qui modèle le social depuis l’extérieur, c’est fini. Et l’originalité de l’Occident aura consisté, précisément, à opérer cette incorporation totale, dans le social, des fonctions traditionnellement allouées au religieux.

Le « désenchantement du monde », version Gauchet, ce n’est donc pas seulement l’élimination du magique dans le religieux, c’est bien encore la disparition du religieux en tant qu’espace collectif structurant et autonome.

Il s’agit donc ici de comprendre pourquoi le christianisme aura été, historiquement, la religion de la sortie de la religion. L’enjeu de cette histoire politique de la religion : comprendre, au-delà des naïvetés laïcardes, quelles fonctions la religion tenait dans les sociétés traditionnelles, et donc si d’autres moyens permettront de les maintenir.

 

*

 

Commençons par résumer « l’histoire politique de la religion », vue par Marcel Gauchet. C’est, après tout, pratiquement devenu un classique – un des très rares grands textes produits par la pensée française de la fin du XX° siècle.

Le fait est que jusqu’ici, le religieux a existé dans toutes les sociétés, à toutes les époques connues. Qu’il ait tenu une fonction dans chaque société, à chaque époque, n’est guère douteux. Une première question est de savoir si cette fonction fut constamment la même, et, dans le cas contraire, comment elle a évolué.

Pour Gauchet, il faut mettre à jour une structure anthropologique sous-jacente dont le religieux fut l’armature visible à un certain stade du développement historique. Cette structure fondamentale, c’est ce qu’il appelle : « L’homme contre lui-même ». Il entend par là la codification par l’homme d’un espace mental organisé autour du refus de la nature (celle du sujet, celle des autres hommes, celle de l’univers), afin de rendre possible un contrepoids salvateur, le « refus du refus » (qui permet d’accepter les autres hommes au nom du refus du sujet auto référant, d’accepter le sujet au nom de son refus, et finalement d’accepter la nature de l’univers au nom du refus général appliqué à la possibilité de la refuser). Le religieux a été, pour Marcel Gauchet, la forme prise, à un certain moment de l’histoire de l’humanité, par une nécessité incontournable induite par la capacité de refus propre à l’esprit humain : l’organisation du refus du refus, de la négation de la négation – bref, du ressort de la pensée même.

Gauchet renverse ici la conception classique, qui voit dans la religion un obstacle à la perspective historique. Faux, dit-il : la religion a eu pour mission de rendre possible l’entrée de l’humanité dans l’histoire, précisément en organisant une entrée « à reculons ». L’humanité ne voulait pas, n’a jamais voulu être historique. L’historicité lui enseigne une mortalité qu’elle redoute, qu’elle abhorre. La religion, en organisant le refus dans l’ordre symbolique, a été la ruse par laquelle l’humanité, tournant le dos à son avenir, pouvait aller vers lui sans le voir. Une méthode de gestion psychologique collective, en somme : en refusant dans l’ordre symbolique, on rend possible l’acceptation muette du mouvement permanent qu’on opère, par ailleurs, dans l’ordre réel, à un rythme si lent qu’on peut maintenir l’illusion d’une relative stabilité.

Sous cet angle, la « progression du religieux » peut être vue comme son oblitération progressive, au fur et à mesure que l’humanité accepte de regarder en face son inscription dans l’histoire, et d’assumer, donc, son refus de la nature. Des religions primitives au christianisme, on assiste ainsi à une lente réappropriation du fondement du religieux par l’homme, jusqu’à ce que « Dieu se fasse homme ».

C’est un long trajet car, au départ, dans la religion primitive, les Dieux sont radicalement étrangers à l’homme. Leur puissance le surpasse infiniment. Les succès humains ne peuvent être dus qu’à la faveur divine, les échecs à la colère (forcément juste) des divinités offensées. Voilà toute la religion primitive. Elle est étroitement associée à un système politique de chefferie, où l’opposition pouvoir-société est neutralisée par l’insignifiance (réelle) du premier, rendue possible par l’insignifiance (volontairement exagérée) de la seconde. La création d’une instance symbolique de régulation au-delà de la compétence humaine a d’abord été, pendant des millénaires, une manière de limiter la compétence des régulateurs humains. Le holisme fondamental des sociétés religieuses, nous dit Gauchet, ne doit pas être vu comme le contraire de notre individualisme, mais comme une autre manière de penser le social : un social qui n’était pas, et n’avait pas besoin d’être, un « social-historique ». C’était un social « non historique », où la Règle était immuable, étrangère au monde humain, impossible à contester.

Cette altérité du fondement de la règle, propre aux religions des sociétés primitives, est, pour Gauchet, « le religieux à l’état pur ». En ce sens, l’émergence progressive des « grandes religions » ne doit pas être pensée comme un approfondissement, un enrichissement du religieux, mais au contraire comme sa déconstruction : plus la religion va entrer dans l’histoire, moins elle sera extérieure au social-historique, et moins, au fond, elle sera religieuse.

Cette remise en cause du religieux s’est faite par étapes.

D’abord, il y eut l’émergence de l’Etat. En créant une instance de régulation mondaine susceptible de se réformer, elle a rendu possible le questionnement de la régulation. Il a donc fallu codifier un processus de mise en mouvement de « l’avant » créateur de règles. Les dieux se sont mis à bouger ; jusque là, ils vivaient hors du temps, et soudain, ils ont été inscrits dans une succession d’évènements. L’intemporel s’est doté de sa temporalité propre. Enjeu : définir, par la mythologie, une grille de cautionnement de la domination politique, ancrée dans un récit fondateur. La hiérarchie des dieux impose la hiérarchie des hommes à travers la subordination des hommes aux dieux, subordination rendue possible par le début de l’effacement de la magie (où le magicien maîtrise les forces surnaturelles) et l’affirmation du cultuel (où le prêtre sert des forces qui le dépassent). Le processus de domination mentale (des prêtres par les dieux, des hommes par les prêtres) devient ainsi l’auxiliaire du processus d’assimilation/englobement par l’Etat, donc de la conquête. Ce processus s’est accompli progressivement, en gros entre -800 et -200, dans toute l’Eurasie.

Le contrecoup de ce mécanisme, inéluctablement, fut le tout début de l’émergence de l’individu. Le pôle étatique définit un universel ; dès lors, le particulier devient pensable non par opposition aux autres particuliers, mais par opposition à l’universel. L’individu commence alors  à être perçu comme une intériorité. Et du coup, l’Autre lui-même est perçu dans son intériorité.

D’où, encore, l’invention de  l’Outre-Monde. Pour un primitif, le surnaturel fait partie du monde. Il n’existe pas de rupture entre le naturel et le surnaturel, entre l’immanent et le transcendant. Au fond, il n’existe pas d’opposition esprit/matière : tout est esprit, ou tout est matière, ou plutôt tout est esprit-matière, « souffle ».

Et d’où, enfin, le mouvement interne du christianisme occidental.

 

*

 

Progressivement, dans le christianisme, la dynamique religieuse se déplace pour s’installer à l’intérieur de l’individu. Le temps collectif étant historique, le temps religieux devient le temps individuel. Ce déplacement de la dynamique religieuse est, pour Gauchet, le mouvement interne spécifique du christianisme occidental.

Les autres mondes sont restés longtemps bloqués au niveau de la religion-Etat, du temps historique religieux ; seul le monde chrétien, surtout occidental, a totalement abandonné le temps collectif à l’Histoire, pour offrir à la religion un terrain de compensation, le temps individuel. Gauchet écrit : « Avec le même substrat théologique qui a porté l’avènement de l’univers capitaliste-rationnel-démocratique, la civilisation chrétienne eût pu rejoindre la torpeur et les lenteurs de l’Orient. Il eût suffi centralement d’une chose pour laquelle toutes les conditions étaient réunies : la re-hiérarchisation du principe dé-hiérarchisant inscrit dans la division christique du divin et de l’humain. »

Il n’en est pas allé ainsi. L’Occident est devenu une exception, et sa dynamique religieuse est allée jusqu’à son terme.

Il en est découlé, dans notre civilisation et au départ seulement dans notre civilisation, un accroissement des ambitions et de l’Histoire, et de la religion.

Jusque là, les deux termes étaient limités l’un par l’autre. De leur séparation découle la disparition de leurs limitations. L’Histoire peut théoriquement se prolonger jusqu’à sa fin. Elle a cessé d’être cyclique. La religion, de son côté, peut poursuivre la réunification de l’Etre à l’intérieur de la conscience humaine.

L’adossement de ces deux termes ouvre la porte à une conception du monde nouvelle, dans laquelle l’homme est son co-rédempteur, à travers la Foi (qui élève son esprit jusqu’à l’intelligence divine) et les œuvres (qui le font participer d’une révélation, à travers l’Histoire). Seul le christianisme, explique Gauchet, a défini cette architecture spécifique – et plus particulièrement le christianisme occidental.

Progressivement, à travers le premier millénaire, d’abord très lentement, le christianisme élabore cette architecture. Avec la réforme grégorienne et, ensuite, l’émergence des Etats français et anglais, l’Occident commence à en déduire des conclusions révolutionnaires mais logiques. Le pouvoir politique et le pouvoir spirituel se distinguent de plus en plus clairement.  La grandeur divine accessible par la conscience devient étrangère à la hiérarchie temporelle, elle lui échappe et fonde un ordre autonomisé à l’égard du politique. En retour, le politique se conçoit de plus en plus comme un produit de l’immanence. Le souverain, jadis pont entre le ciel et la terre, devient la personne symbolique d’une souveraineté collective, issue des réalités matérielles et consacrée avant tout à leur administration. Avec la Réforme, l’évolution est parachevée : l’Etat et l’Eglise sont non seulement distincts, mais progressivement séparés.

Les catégories de la « sortie de la religion », c'est-à-dire le social-historique dans le temps collectif, le libre examen dans le temps individuel, sont issues directement de cette évolution. Ici réside sans doute un des plus importants enseignements de Gauchet, une idée qui prend à revers toute la critique classique en France : notre moderne appréhension du monde en termes de nécessité objective n’est pas antagoniste de la conception chrétienne de l’absolu-divin personnel : au contraire, elle en est un pur produit.

 

*

 

La conclusion de Gauchet est que la « sortie de la religion » ouvre la porte non à une disparition du religieux, mais à sa réduction au temps individuel (une évolution particulièrement nette aux USA, où la religion est surpuissante comme force modelant les individus, mais quasi-inexistante comme puissance sociale réelle). Et d’ajouter qu’avec l’émergence puis la dissolution des idéologies, nous avons tout simplement assisté à la fin des religions collectives, qui sont d’abord retombées dans le temps historique à travers la politique, et s’y sont abîmées définitivement.

Sous-entendu : voici venir un temps où il va falloir se débrouiller sans la moindre religion collective, et faire avec, dans un cadre en quelque sorte purement structuraliste, en nous résignant à être des sujets, sans opium sacral pour atténuer la douleur de nos désirs. Car c’est à peu près là, au fond, la seule fonction du religieux qui, aux yeux de Gauchet, ne peut pas être assurée par le social radicalement exempt de la religion.

En quoi, à notre avis, Gauchet se trompe…

L’expulsion du religieux, retiré totalement du temps collectif, implique que ce temps-là, le temps collectif, ne peut plus être pensé en fonction de la moindre ligne de fuite. S’il n’y a plus du tout de religieux dans le temps collectif, alors la mort des générations en marque les bornes. Et donc, il n’y a plus de pensée collective sur le long terme, au-delà de la génération qui programme, qui dirige, qui décide (aujourd’hui : la génération du baby-boom).

Eh bien, n’en déplaise à Marcel Gauchet et sans nier que le structuralisme soit une idée à creuser, il nous semble, quant à nous, que les ennuis de l’Occident commencent là, dans cette désorientation  du temps collectif. Tant que le religieux se retirait du temps collectif, il continuait à l’imprégner d’une représentation du très long terme, et aspirait en quelque sorte le politique vers cette représentation : ce fut la formule de pensée qui assura l’expansion de l’Occident, le retrait du religieux ouvrant un espace de développement accru au politique, à l’économique, au scientifique, tous lancés secrètement à la poursuite du religieux qui s’éloignait. MAIS à partir du moment où le religieux s’est retiré, l’espace qu’il abandonne est déstructuré, et il n’y a plus de ligne de fuite pour construire une représentation à long terme.

La dynamique spirituelle de la chrétienté occidentale a suscité des forces énormes aussi longtemps qu’elle était mouvement ; dès l’instant où elle parvient à son aboutissement, elle débouche sur une anomie complète. Oserons-nous confesser que le vague « structuralisme » de Gauchet, conclusion mollassonne d’un exposé par ailleurs remarquable, nous apparaît, à la réflexion, comme une posture de fuite, et une manière pour lui de ne pas tirer les conclusions logiques de sa propre, brillante et tout à fait involontaire enquête sur la décadence occidentale ?

 

vendredi, 25 février 2011

Democracy Needs Aristocracy

Democracy Needs Aristocracy, by Sir Peregrine Worsthorne

Democracy Needs Aristocracy
by Sir Peregrine Worsthorne
221 pages, Harper Collins, $15.

In the early pages of Democracy Needs Aristocracy the author mentions Alexis de Toqueville and his groundbreaking Democracy in America and not surprisingly, the newer work continues in the footsteps of that classic with a broad-reaching thesis on the nature of government that sides with the organic over the mechanistic.

Experienced writer Peregrine Worsthorne mixes his far-reaching thesis with personal narrative and precise examples in the form of contradictions that eliminate exceptions to his arguments. He writes in a hybrid style somewhere between relaxed academia and vivid popular non-fiction but with the logical thoroughness of a legal brief. Like the topic of the book itself, his style spans a vast breadth of knowledge and distills it into a single voice, like condensation turning mist to rain.

As a consequence, Democracy Needs Aristocracy is both one of those books that zooms by at light speed as massive ideas thrust the reader across time and space, and is also like a textbook an exacting read that requires the full attention of the reader. Each chapter drops important pieces into our understanding of history and how we arrived at the present time, not all of them controversial assertions so much as forgotten and decontextualized ones.

The style is not circular so much as it returns to core concepts after breaking them apart, bringing the forgotten but necessary counterpart to deconstruction, re-integration, to the reading process. As a result reading this book is like peeling an onion, with each layer revealing more of the big picture. It offers what few books can manage anymore: a vertiginous sense of discovery and concepts dropping into place that can explain the subtle mysteries of our present political climate.

Worsthorne’s thesis suggests that aristocracy, or an organic social order of the most qualified who enforce a balance that linear-thinking government cannot, not only arises naturally but if well-selected, provides an elite who are dedicated to public service more than themselves. It succeeds because it is decidedly non-mechanistic: he delights in the social aspects of an elite dedicated to stewardship, and illustrates how civility as a guiding principle ensures politics do not become abandoned to abstractions unrelated to life itself.

Finally, he contrasts society under rule by aristocracy, whose members are secure in their position and steeped in its tradition, with the “meritocratic” rise of the “classless society,” and points out in detail how the classless society fails to achieve its objectives and may achieve instead the inverse. As both an aristocrat and a journalist, Worsthorne describes the view from both sides of the bench on this issue.

A good part of the book addresses the necessary conditions of his thesis, including the most difficult to define parts such as “civility” and the notion of an organic, non-governmental caste who nonetheless provide the backbone to all governmental activities. For moderns, understanding caste is like trying to understand the use of a pressure cooker inside a black hole; Worsthorne elaborates slowly, but works up to his point:

“Aristocracy, however, is different because the bonds forged at birth and maintained at every subsequent stage in life, create a degree of loyalty between members as strong as, if not stronger than, those that bind together the members of a nation. The Old Etonian George Orwell tried to escape them but never wholly succeeded, concluding sadly, at the end of his life, that it was easier to change your party than change your class. Speaking personally, I cannot imagine life without class, which is not a passive condition but one that provides you with a general culture, a network to which you naturally belong, a stream of history in which you feel free and safe — almost a collective individuality.” (86)

In his retelling of history, the UK survived the time of the French Revolution because unlike the French, the English did not centralize their power into a single agency, but made government less efficient and instead cultivated a class of experts, united by a code of civility or “gentlemanly” conduct, such that they could conduct the appropriate circumventions of authority in smoke-stained lounges over glasses of cognac.

In this Worsthorne’s view is a hybridization of elitism and anarchy, in which the purpose of aristocracy is to avoid a powerful central government and its Boolean rules, and instead to cultivate a pool of talent that can organically and covertly address problems that are beyond the understanding of the electorate. His appeal to civility, the mode of aristocracy, is a call for a moral renovation to the modern state.

“For as a result of this method of selection, Britain’s political class had inherited enough in-built authority — honed over three centuries — and enough ancestral wisdom — acquired over the same period — to dare to defy both the arrogance of intellectuals from above and the emotions of the masses from below; to dare to resist the entrepreneurial imperative; to dare to try to raise the level of public conversation; to dare to put the public interest before private interests; to dare to try to shape the nation’s will and curb its appetites.” (50)

Bureaucracies, which he describes as the “natural enemies” of aristocrats, rely on rigid rules of a binary nature. When triggered, they must follow through blindly, causing periodic outrages so ludicrous they remind us of the rote actions of a machine out of control. In contrast, Worsthorne advocates the reliance on a class of people he describes as devoted to public duty, and their ability to intervene in place of blind rules.

As he reminds us, good leadership is unpopular because it does not pander to the arrogant intellectuals or emotional masses. In fact, it avoids special interests so that the nation as a whole can thrive. He describes it with a metaphor from his boarding school:

“I wanted the best of both worlds: authority figures who at one and the same time both protected me and left me alone; who came to my aid in emergencies but otherwise allowed me to mind my own business. Officious busybody prefects who kept an eye on one all the time were more a liability than an asset. But unofficious prefects who noticed what was going on from a corner of the eye were the opposite. Even more to be desired were the few older boys who turned down the office of prefect but were natural authority figures on the side of justice and order requiring, by virtue of strong individual character, no official badge of office.” (22)

This winding book, arcane like an ancient castle yet refreshing like finally finding the answer to your research in a footnote in the last book even tangential to your “official” topic, provides many such challenging ideas. Underlying every part of it is a distrust in the idea of a government that unites its public and private faces and thus is manipulable by special interests; Worsthorne argues for an older yet, if you look at it critically, more mature form of government, where rule by quality of people predominates under rule by book of rules.

Democracy Needs Aristocracy is a challenging and engrossing read, and even for those hostile to aristocracy, provides a thorough exploration of where our current systems of government fail. His thesis is flexible, and deliberately written from a liberal-friendly position, to show that democracy becomes anti-elitist mob rule without some mediating elite to keep anti-egalitarianism from becoming crowd revenge. As such, it is every bit as eternal as de Toqueville, and presents a vision of government that none can afford to fully ignore today.

You can find this book at Amazon for $15 or from Harper Collins UK for £9.

samedi, 19 février 2011

La politique actuelle d'un point de vue schmittien

LA POLITIQUE ACTUELLE D’UN POINT DE VUE SCHMITTIEN

Ex: http://agoradedroite.fr/

Chronique de Julien Rochedy

Nous le savons, Carl Schmitt est un politologue controversé : ne lui furent pas pardonnées ses accointances avec le national-socialisme triomphant en Allemagne, son pays, même s’il fut, à la fin, surveillé par la SS ; ou même s’il fut, avant 33, un opposant à Hitler. Qu’on le prenne avec des pincettes ou non, il reste un des plus grands spécialistes de la sociologie politique du XXe siècle, digne héritier de Max Weber et écrivain extrêmement prolixe, dans de nombreux domaines, qui vont du droit constitutionnel à la polémologie.

Nous le savons aussi, la définition de Schmitt de la « politique », au sens strict, a de quoi surprendre par son apparence violente : la politique, ce serait pour lui le lieu du conflit, le domaine dans lequel naitrait et vivrait une opposition caractérisable par une dialectique ami/ennemi. En somme, un groupement politique comme un parti doit nécessairement se fixer un ennemi, et toute son idiosyncrasie à son encontre doit être d’une humeur belliqueuse, conflictuelle, afin qu’il soit, à proprement parler, politique.

Regardons donc notre politique actuelle avec des yeux schmittiens, et tâchons de saisir les différentes oppositions ami/ennemi qui doivent, normalement, la constituer. La gauche et la droite semblent être toujours les deux adversaires principaux, les deux parties au conflit qu’est la politique. Cependant, lorsque nous regardons le PS et l’UMP, il est difficile d’appréhender l’ennemi que chacun détermine pour son camps ; précisons : il y a fort à parier qu’en demandant aux cadres respectifs de ces deux grands partis quel serait leur ennemi, ils répondent chacun de manière floue, car idéologiquement parlant, ces deux comparses sont sur la même ligne, s’échangent même parfois les ministres grâce au principe de « l’ouverture », et mènent, peu ou proue, une politique semblable, pour la simple et bonne raison qu’ils ont tous deux les mêmes amis : l’Union Européenne, la mondialisation, les Etats-Unis, la politique libérale, etc. Ayant les mêmes amis, comment, dès lors, discerner une opposition réelle entre eux ? Comment croire que « l’ennemi », dans la dialectique qui fonde le politique, soit pour eux, dans le même temps, l’ami de leurs amis ? C’est donc que cette opposition est biaisée ; or, si cette dialectique est défaillante, c’est qu’il n’existe plus en eux, chez eux, de politique à proprement parler. Par conséquent, Le PS et l’UMP, si l’on s’arrêtait à leur conflit d’apparat, ne feraient en vérité plus de politique.

Mais puisque ces deux partis majoritaires sont dans le jeu politique, le dominent et le mènent, il faut bien tout de même qu’ils aient des ennemis, même s’ils ne sont pas officiels. Quoique, là encore, un peu de perspicacité, quelques coups d’œil et un brin de probité permettent de découvrir que leur ennemi principal se trouve être, en vérité, celui qui remet en cause le système libéral dont ils sont à la fois les gérants et les humbles exécutants. Officiellement, ils ne disent pas tout à fait cela, surtout à gauche où l’on s’accommode parfaitement du système, mais pas encore du mot (libéral). Comme ersatz rhétoriques, ils disent combattre « l’intolérant », le « fanatique » ou « l’extrémiste », qui est en fin de compte, presque à chaque fois, qu’un simple opposant à ce système.

Les partis dits « extrémistes », l’extrême-gauche et l’extrême-droite, seraient donc les seuls à assumer complètement, dans une vraie transparence, la dialectique ami/ennemi. Car autant pour l’un que pour l’autre, c’est le système libéral mondialiste qui est l’ennemi, et eux ne se partagent pas les amis (sauf pour l’extrême-gauche, qui coltine parfois avec les partis au pouvoir dans tout ce qui a trait aux conséquences du libéralisme mondialisé : la révolution des mœurs, l’immigration etc.). La logique du conflit étant plus prégnante chez eux, l’opposition étant plus claire, plus assumée, plus nette – c’est à croire que la politique, au sens schmittien, n’existerait réellement que chez eux. Seuls les partis que l’échiquier en vigueur placerait aux extrêmes feraient, en somme, de la politique. Le reste ne serait que du secrétariat.

Ce point de vue schmittien de la politique, s’il est original et sans doute pas tout à fait valable à cent pour cent, a au moins le mérite de nous faire réfléchir et de remettre en cause l’idée que la politique ne serait faite que par ceux qui seraient véritablement aux manettes, les autres n’ayant qu’une fonction tribunicienne, et qui devraient toujours souffrir du reproche de leur soi-disant inutilité. En effet, combien de fois avons-nous entendu des membres de l’UMP dirent à ceux du Front National qu’ils ne servaient à rien, si ce n’est râler, sous prétexte qu’ils n’obtenaient jamais le pouvoir ? Et de même aujourd’hui pour le PS à l’égard du Front de gauche de Mélenchon ?

Mais si, en fait, il n’y avait plus qu’eux qui faisaient de la… politique ?

The horizontally totalitarian future-world

The horizontally totalitarian future-world

Ex: http://majorityrights.com/

robot_A.jpgLast February, by way of an introduction, I put up a post about the great German jurist Carl Schmitt.  He is a highly useful guide to the ways of Power.  His elucidation of the theoretics of state power in extraordinary times established the framework employed by many, and probably most, thinkers in this, let’s say, increasingly topical field.  In particular, Schmitt’s concepts of the decision and the state of exception open up the operation of total power for examination like a dead butterfly on a display board.

 

As Tom Sunic wrote in Homo Americanus: child of the postmodern age:-

Carl Schmitt ... realized an age old truth; namely, political concepts acquire their true meanings only when the chief political actor, i.e. the state and its ruling class, find themselves in a sudden and unpredictable state of emergency. Then all former interpretations of “self-evident” truths become obsolete. One could witness that after the terrorist attack of 9/11 in America — an event that was never fully elucidated — the ruling class in America used that opportunity to redefine the legal meaning of the expressions “human rights” and “freedom of speech.” After all, is not the best way to curb real civic rights the adoption of abstract incantations, such as “human rights” and “democracy”?

What just about everyone with a triple-digit IQ understands is that the events of 11th September 2001 and the subsequent War on Terror have been ruthlessly exploited throughout the West to advance a profoundly undemocratic and disturbing domestic security agenda.  Whether a true state of exception ever existed is highly doubtful.  But Power decides what is moral and what is, in a vulgar sense, true.  It has decided that its officers shall usurp the legal code at will, and shall stipulate on their own authority the terms under which its citizens go about their business.

I happen to live under the most abusive of any Western government in this respect.  The UK authorities have the Civil Contingencies Act already, and a growing DNA database to which it is intent upon adding us all, and on top of that it is constructing the complete surveillance society.  But the trend is appearing everywhere.

What this amounts to is an impressively uniform and aggressive war on the defence of civic liberties which have informed Western legal codes for centuries.  Its significance is vast and unmistakable: the foundations are being laid for a different kind of political regime, to be conducted in a permanent state of exception.  The Executive is strengthening and freeing itself as a body empowered, but in no way constrained, by ad hoc procedural law subject only to official decision.

The big question is: what structure of global/local government will emerge out of this new strength and freedom?

In local, day-to-day terms, it will decide for domestic policy blandness and irrelevance - the towering racial injustice of an anti-white MultiCult make that inevitable.  Meanwhile, the moral duty of government and public alike will be directed to far-flung places where “profitable problems” require corporate-military intervention.

To all intents and purposes, this will be a totalitarianism or dictatorship, if only because it must regulate more and more social relations in the interests of racial panmixia in order to resolve the problem of the European natives.  But I can’t see how any form of world-wide imperial police state can emerge from the new dispensation, even given the coming of global economic unity. 

If one assumes, as I do, that this dispensation represents the deepest political convictions of a diverse, internationalist power elite, and not only the will of bankers and mega-corporations, it is apparent that there is no “centre” capable of, or needful of, global government through a totalitarian vertical heirarchy.  Schmitt holds the key.  A permanent, global state of exception and the distribution of decision are enough.  The governing class will operate as it does today, patronised and informed of its obligations by the higher elites without those elites ever comprising a structured global government themselves.

In a word, the deracinated, de-sovereignised, and legally denuded post-nation ...

“There is no place in modern Europe for ethnically pure states. That is a 19th-century idea, and we are trying to transition into the 21st century, and we are going to do it with multi-ethnic states.”
Wesley Clark, to a CNN reporter in 1999

“The president believes the world will be a better place if all borders are eliminated—from a trade perspective, from the viewpoint of economic development and in welcoming [the free movement of] people from other cultures and countries.”
Tom Hogan, president of Vignette Corporation, speaking after a convseration with Bill Clinton in Australia in 2001

... can be governed by a structure no different than the one that governs it now.

The future will, then, continue to be plural, and yet will be totalitarian.  Our lives will be free in the ways that we are required to live them, but will be regulated in every other.  We shall have “nothing to fear if we are innocent” from a non-law that is subject wholly to the decision of the, of course, always benign official.

Leviathan will command a near borderless world of super-diversity filled with national symbols.  And we WILL be happy, although it will be as impossible to struggle for happiness as it will for political freedom.

mardi, 08 février 2011

La société civile: de l'état libéral à la gouvernance réactionnaire

La société civile : de l’état libéral à la gouvernance réactionnaire

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Une société libérale réfute théoriquement l’idée d’une surcharge juridique, l’Etat se place donc en retrait de tout interventionnisme dans les champs de l’individualité. Il s’agit d’un modèle de société qui, en théorie, n’est pas gouvernée par une autorité morale, et dont les principes traditionnels sont pour la plupart devenus de simples pièces de la mosaïque des subjectivités. Mais à la tradition, s’est en réalité substitué un ordre moral, dont l’exercice provient désormais d’une autorité anti-traditionnelle : la classe dirigeante. Cette dernière détient son pouvoir grâce à l’appui d’une entreprise globale de manipulation: pas de médias indépendants, des processus électoraux manipulés ou absents, et une frontière poreuse entre le privé et la classe dirigeante.

[1]

La morale quant à elle est réservée à ce qui est en dehors de l’état, au non-gouvernemental, soit à la société civile. Bien que les instances religieuses y soient représentées conformément à la loi de 1905, leurs influences restent mineures. Car la société civile est avant tout le foyer des associations, des lobbys, et des think-tanks, qui selon l’organisme auquel ils s’adressent, peuvent avoir un degré d’influence différent. Mais pour y parvenir, il leur faut être reconnu en tant qu’organisme de la société civile (OSC), et obtenir un statut de la part de la classe dirigeante. La morale provient donc d’un appareil qui est à l’initiative du pouvoir et ce dernier organise l’écoute des revendications de l’ “appareil moral ».

Comme le disait Foucault : « la société civile, ce n’est pas une réalité première et immédiate […], c’est quelque chose qui fait partie de la technologie gouvernementale moderne« . En effet, il s’agit avant tout d’un outil de régulation de l’opinion qui sert des intérêts précis et temporels. En utilisant la morale et donc en s’octroyant le droit de déterminer ce qui est juste, la société civile permet à la classe dirigeante d’élargir son champ de possibilités. Par conséquent la promotion de causes présentées comme justes par la sphère extra-étatique, permet d’acquérir par avance l’aval du peuple.

La société civile est par ailleurs moins hétérogène que ce qu’on peut en penser au premier abord. En effet, il existe des causes pour lesquelles l’extrême majorité des associations, think-tanks, etc. s’accordent sans le moindre problème. Ces accords peuvent parfois surprendre comme dans le cas du Centre d’Étude et de Prospection Stratégique (CEPS). Le CEPS est une ONG dotée du statut participatif au Conseil de l’Europe. Elle fonctionne essentiellement à travers ses clubs de réflexions, sur le modèle suivant:  « Nous adoptons les « Chatham house rules », c’est-à-dire que nous avons tous le droit de reprendre des idées exprimées pendant ces rencontres, mais ne devons jamais communiquer d’informations sur l’auteur des propos, ni sur le lieu où ils ont été tenus. Ces rencontres sont exclusivement destinées aux membres du club, lesquels font tous l’objet d’une cooptation. » Parmi les partenaires et animateurs du CEPS, on trouve : SOS-Racisme; l’OTAN; Areva; JP Morgan; Endemol, EADS, La Croix Rouge, L’OCDE, L’Institut Robert Schuman pour l’Europe, etc. On pourrait se demander quel intérêt commun officiel ces organismes partagent-ils. Mais il est évident que la réponse réside dans l’existence même de la société civile et de son homogénéité effective.

Dans cette mesure, il est tout à fait logique que la société civile et la classe dirigeante ne fassent qu’un. Un des buts recherchés étant de parvenir à une morale qui soutient la doctrine de la globalisation libéral: en instaurant un tas d’organismes réactionnaires, en soutenant l’émergence de structures supra-étatiques et en organisant la tenue d’un monde organisé autour du Conseil de Sécurité des Nations Unies. Tout ce qui n’entre pas dans ce cadre est immédiatement considéré comme irrecevable car en-dehors du consentement global. Il s’agit donc, pour la société civile, d’installer une instance réactionnaire d’une part, et de soutenir l’action de la classe dirigeante d’autre part. Pour conclure, le décryptage du rôle de la société civile incite à se référer à la théorie de Tittytainment de Zbigniew Brzezinski : la volonté de construire une lente dépolitisation de l’humanité, en procédant en premier lieu par la construction d’une morale qui va manifestement à l’encontre de l’humanité.

Julien Teil, pour Mecanopolis [2]

Notes :

[1] FOUCAULT Michel, Naissance de la Biopolitique, Cours au Collège de France, 1978-1979,
Paris : Gallimard/Seuil, 2004, p.300

[1] http://www.ceps.asso.fr/Nos-actions/Les-Clubs [3]

[1] http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires [4]

 


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[3] http://www.ceps.asso.fr/Nos-actions/Les-Clubs: http://www.ceps.asso.fr/Nos-actions/Les-Clubs

[4] http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires: http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires

Michel Drac: entretien avec E&R-Bretagne

Michel Drac, entretien avec E&R Bretagne

 Ex: http://www.scriptoblog.com/

Les ouvrages du Retour Aux Sources font la part belle aux méthodes d’organisation et d'action  pensées par la gauche radicale (TAZ d’Hakim Bey, théorie des multitudes de Négri, éco-villages, …).

drac3.gifCroyez-vous la droite anti-libérale incapable de produire des idées pertinentes et des outils opérationnels adaptés à notre époque en crise ?

La droite anti-libérale a de toute évidence un problème pour se penser en rupture avec le Système. Ceci peut paraître curieux, dans la mesure où elle est objectivement plus étrangère au Système que n’importe quelle autre tendance politique. Mais au fond, c’est logique : pour se penser en rupture avec le Système, il faudrait que la droite anti-libérale conceptualise une rupture au sein du concept général de « droite », car une partie de la « droite » est dans le Système. Or, la droite anti-libérale, prisonnière de l’illusion d’un continuum de la « droite », ne parvient pas à penser cette rupture.

Ici, il faut bien dire que les logiques de classe ont tendance à prendre le pas sur les logiques purement politiques : il y a toujours un moment où le bon bourgeois anti-libéral est renvoyé à ses contradictions : comment être un bourgeois anti-libéral, aujourd’hui ?

Bref, je ne crois pas que la droite anti-libérale soit incapable de produire des idées pertinentes. Je constate en revanche qu’elle a du mal à les concrétiser, et même à les amener au stade du programme, du plan d’action. La droite anti-libérale est une sensibilité qui ne peut pas s’organiser.

 

Penser restaurer le système, l'aider à s'auto-corriger ou lutter pour le réformer (comme le font les réactionnaires, par exemple) n'aura pour résultat que de retarder la fin du Cycle et le début du suivant, selon vous. Quel peut donc être le rôle à jouer et la voie à suivre par des hommes différenciés en cette fin de Kali-Yuga? Cultiver une conscience politique propre à la formation d'une élite capable d'encadrer une (hypothétique et future) révolte des masses? Montrer l'exemple en se plaçant en dehors du jeu (retraite physique, élévation individuelle)? Ou combiner les deux?

L’économie occidentale contemporaine n’est pas réformable. C’est une énorme machine hypersophistiquée, une bonne partie des pièces s’est mise à fonctionner sans souci de l’ensemble, on a perdu le cahier de maintenance, et pour tout arranger, le pilote de machine est sourd, fou et ivre mort. La seule chose à faire, c’est d’attendre que le moteur explose, en se protégeant autant que possible contre les projections ! La priorité pour des hommes différenciés, comme vous dites, c’est de se préparer à se sauver eux-mêmes, alors que nous allons vers une période très, très dure.

Au demeurant, je pense que ce travail, s’il est conduit à termes, portera des fruits au-delà de son objectif immédiat. Au fond, si nous nous organisons pour nous en tirer le mieux possible, nous produisons simultanément et spontanément un modèle que d’autres voudront imiter. Paradoxalement, penser un égoïsme collectif, dans le contexte actuel, c’est aussi une manière d’aider tous ceux qui ne peuvent plus penser que l’égoïsme individuel. Plus que la noblesse des intentions, il faut juger l’efficacité concrète, et sous cet angle, la démarche consistant à structurer une contre-société me paraît aujourd’hui la plus porteuse.

Le narrateur de Vendetta explique ses actes (des assassinats, ndlr) à mots (ironiquement) choisis : ceux du champs-lexical managérial (« expérience passionnante et vie pleine de sens », etc.).

Penser les médiations nécessaires à une révolution, avec les concepts du système, résonne comme un aveu d'incapacité à produire du sens à l’extérieur de la matrice. Sens que le dernier opus du Retour au Sources (G5G – La Guerre de Cinquième génération) se propose, lui, de recréer. Pouvez-vous nous en dire plus?

Vous avez très bien saisi l’esprit des deux livres. Vendetta est une description de ce que l’on peut redouter, si la démarche proposé dans G5G est empêchée.

Il ne faut pas perdre de vue que les révoltés structurent toujours leur révolte avec, à la base, les concepts, les catégories du système qu’ils combattent. C’est pourquoi le parti communiste soviétique avait repris une partie des « techniques de gouvernement » propres à l’Eglise orthodoxe. C’est pourquoi le cérémonial napoléonien avait récupéré une partie des us et coutumes de la société de cour à la française. Etc.

Vendetta a été écrit pour expliquer, en gros : le Hitler, le Staline, le Mao de demain sont dans les tuyaux, et c’est la « démocratie libérale » contemporaine qui est en train de les incuber. Elle les incube d’une part parce que son dérèglement finit par rendre la vie impossible aux gens, ce qui va les pousser à la révolte ; et d’autre part parce qu’elle leur apporte sur un plateau les ingrédients de la violence révolutionnaire future : primat de la jouissance, de l’instantanéité, réduction de l’expérience humaine à l’individualité, compensée par un fonctionnement en réseau fluide.

On commence d’ailleurs à voir poindre cette nouvelle violence politique. Cette semaine (NB : début janvier 2011), nous avons eu une tuerie aux USA, avec un type qui a ouvert le feu en aveugle, lors d’un rassemblement politique. C’est là une pulsion de destruction (et d’autodestruction) qui ne s’organise pas, ou alors seulement de manière informelle, en réseau, et qui ne poursuit aucun autre objectif que la satisfaction de ceux qui s’y livrent. C’est ce vers quoi nous allons : la dictature par l’anarchie, l’extrême violence incontrôlable servant de prétexte à l’encadrement paranoïaque, partout, tout le temps.

G5G, à l’inverse, consiste à dire : dépêchons-nous d’offrir une issue, une voie vers le dehors de ce Système devenu fou, et qui nous rend fous. G5G, c’est le seul antidote à Vendetta, si vous voulez.

Dans De la souveraineté, vous expliquez que le mondialisme néolibéral se caractérise par l'absence d'idéologie originelle, combinée à une pathologie narcissique et au profit comme finalité - ce tout menant, selon vous, à la dictature du matérialisme bourgeois (fortification de l'élite du capital et asservissement de la masse).

Vous y opposez une posture européenne et traditionnelle : celle de la soumission du corps à la force, et de la force à l'esprit. Cette posture est-elle consubstantielle, comme mentionné par ailleurs, d’un certain élitisme et d’une purification éthique (mais pas ethnique) inévitable?

Dans De la souveraineté, j’ai essayé de faire comprendre rapidement quelque chose à mes lecteurs, tout en sachant que c’est quelque chose qu’on ne peut faire comprendre rapidement qu’au prix d’un certain simplisme. Ce quelque chose, c’est : le Système dans lequel nous vivons est une idéologie, à l’intérieur de laquelle nous habitons, et si nous avons l’impression qu’il n’y a pas d’idéologie, c’est parce que nous sommes dedans. L’absence d’idéologie originelle perçue par nous à la racine du Système provient uniquement du fait que nous confondons notre habitation au monde avec le rapport spontané, naturel, immédiat, de l’homme au monde. C’est la différence entre notre totalitarisme et les défunts modèles soviétiques et nazis : chez Goebbels, chez Souslov, tout le monde savait qu’il existait une idéologie ; c’était visible, revendiqué, même. Chez nous, cela reste caché. A aucun moment, le capitalisme et le consumérisme contemporain ne se donnent explicitement pour des constructions idéologiques. Le néolibéralisme lui-même se vit comme une simple description du réel. Quand un économiste néolibéral confond profit comptable et richesse, il ne sait pas qu’il opère un choix idéologique ; dans son esprit, c’est pareil, forcément pareil.

Ce qui permet, à mon avis, de prendre conscience du caractère idéologique du mondialisme néolibéral, c’est le rappel tranché, brutal, des alternatives possibles. On ne se sait enfermé dans l’idéologie que quand on en voit le dehors. C’est pourquoi j’ai rappelé qu’il avait existé, et qu’il existait encore, des mondes où l’impératif consumériste en contrepoint de l’impératif productiviste aurait été à peu près complètement dénué de sens – des mondes où le corps était là pour construire la force, et la force nécessaire pour préserver l’esprit. Des mondes, en somme, où l’être se réalise en réalisant sa nature, et non en violant la nature autour de lui. Ce rappel permet de faire comprendre en quoi le mondialisme néolibéral est idéologique : quand on voit le dehors, on comprend qu’on est à l’intérieur de quelque chose, d’une construction, qui n’est pas tout le monde, seulement un certain rapport au monde.

Quant à la question de l’élitisme, à la nécessité d’une forme de purification, il ne faut pas en faire un impératif figé, une sorte d’affirmation par hypothèse, que je donnerais là, au nom de je ne sais quelle autorité imaginaire. Il s’agit surtout dans mon esprit de rendre pensable une alternative, donc de rendre possible l’énonciation du négatif. Que ce négatif soit énoncé à partir d’une alternative élitiste ou non-élitiste, en fait, peu m’importe : à mes yeux, l’essentiel, c’est qu’il soit à nouveau énoncé. C’est la dynamique collective qui doit définir l’alternative au nom de laquelle le négatif est énoncé.

Sous diverses formes (action violente, retraite armée), l’engagement physique tient une place de choix dans les ouvrages du Retour Aux Sources.

Si le Grand Jihad (lutte intérieure contre ses mauvais penchants) doit précéder le Petit Jihad (lutte physique), pourquoi choisir de mettre plus en lumière l’action de révolte – au détriment du cheminement intérieur et individuel qui y mène ?

Vous trouvez que l’engagement physique tient une place de choix ? Pour l’instant, ce n’est que du papier… Plus tard, on verra de quoi il retourne, quand on passera à la pratique.

On sait, grâce à Norbert Elias notamment, que l’interdiction de la violence conduit à un auto-contrôle qui s’étend inexorablement à tous les domaines de la moralité (autocensure,…).

Rejoignez-vous cette idée que, pour redevenir humain, il faut d’abord redevenir barbare ?

Je pourrais vous répondre que les barbares sont généralement contraints à un très fort autocontrôle, puisque leur barbarie peut à tout moment se manifester entre eux. En ce sens, on pourrait tout aussi bien retourner le propos, et dire que pour nous libérer de l’obligation de l’auto-contrôle, il faut au contraire nous re-civiliser.

C’est la Loi qui libère. L’auto-contrôle, l’auto-censure contemporains trouvent leur source dans la disparition de la Loi. On ne sait plus ce qu’on a le droit de dire, de prôner. On ne sait plus où est l’orthodoxie. La Loi existe peut-être, mais elle est fixée si haute, si loin, qu’on ne peut plus la lire, tout au plus la deviner.

Ce que nous devons faire, c’est nous organiser entre nous pour définir une Cité à nous, distincte de la fausse cité définie par le Système. Et dans notre Cité à nous, nous fixerons notre Loi à nous. Et tout le monde pourra la lire, et tout le monde saura ce qu’on peut dire ou ne pas dire, et pourquoi. Alors nous serons libres. Il ne s’agit donc pas d’être barbares : il s’agit d’avoir une ville à nous, pour être civilisés entre nous.

Dans vos livres, l’individualité des personnages et leur temporalité (vie et mort) ne sont que des moyens au service d'une tâche (combat) sans cesse à recommencer. L'assurance de ne pas voir "le jour de la victoire" peut décourager certains de passer à l'action ("A quoi bon?") – mais  constitue aussi pour d'autres l'essence de leur engagement (dépassement de la peur de la mort). Comment peut-on (ou pourquoi doit-on) lutter, en ces temps de chaos, dans la joie et l'espérance?

Je n’ai écrit aucun roman, je suppose donc que le « vos » de « vos livres » fait référence ici aux romans publiés par le Retour aux Sources. Ou alors, il s’agit d’Eurocalypse, auquel j’ai participé ?

Bref. En tout cas, à titre personnel, je crois qu’un homme ne peut échapper à l’Absurde qu’en préparant sa mort. C’est sans doute en quoi je suis radicalement étranger à mon époque, d’ailleurs. Je n’arrive pas à comprendre à quoi rime l’existence qu’on nous propose, et qui pourrait se résumer ainsi : vous allez consommer le plus possible pour penser le moins possible à la mort, et quand vous mourrez, ce sera discrètement, dans une chambre d’hôpital, avec des soins palliatifs pour que vous ne fassiez pas de bruit et une euthanasie pour économiser les frais médicaux. Où est l’intérêt ?

drac4.gifJe trouve qu’une vie intéressante est une vie où l’on se bat, où l’on souffre, où l’on affronte l’adversité, et surtout, où l’on s’affronte soi-même. Je trouve qu’une vie intéressante est une vie difficile. C’est ce qui me donne de la joie, en tout cas, et peut-être de l’espérance ; je me dis que quand je partirai, couché sur un lit à regarder le plafond en sentant le froid qui remonte de mes pieds vers mon cœur, je pourrai dire au patron, dont je suppose qu’il m’attend de l’autre côté : j’ai joué ma partition, maintenant, tu décides pour la suite. Je trouve que ce qui rend la vie intéressante, c’est de se battre pour en arriver là : savoir qu’on a lutté.

Donc, en somme, pour répondre à votre question : c’est la lutte qui donne joie et espérance. Il ne s’agit donc pas de trouver joie et espérance pour lutter, mais de lutter pour trouver joie et espérance. Enfin, c’est comme ça que je vois les choses.

On trouve dans Vendetta cette sentence très juste : « On peut tout vouloir (…) à condition de vouloir les conséquences de ce qu’on veut ».

Dans un contexte de tensions réelles, et de surenchère générale – consciente ou ignorée - peut-on réellement vouloir précipiter le chaos?

Le narrateur de Vendetta est un homme absolument désespéré. Et c’est terrifiant : imaginez un monde où on aurait fabriqué des millions de fils uniques narcissiques, shootés à la consommation, plongés dans une absurdité radicale, et du jour au lendemain, réduits à la pauvreté, à l’impossibilité de se délivrer de l’Absurde par la consommation, de l’absence de transcendance par la mondanité. C’est le monde de demain, si la machine économique occidentale tombe complètement en panne, d’un coup, alors que le conditionnement consumériste des populations s’est poursuivi jusqu’au dernier moment.

Alors là, oui, en effet, on va avoir des gens qui pourront tout vouloir…

Vous explorez, à travers l'écriture, deux scenarii envisageables dans un futur proche : version décliniste, l’élite continue de piloter sans rencontrer d’écueil majeur et nous mourrons spirituellement. Version catastrophiste (Eurocalypse), l'accident se produit et laisse place au désastre. Comme les survivalistes, croyez-vous à la possibilité d'un collapse rapidement généralisable? Dans ce cas, pourquoi l'élite prendrait-elle le risque d'un clash intégral, alors que le chaos modéré lui permet de régner?

Je suppose que « l’élite », qui a manifestement créé le chaos, est persuadée qu’elle pourra le contrôler de bout en bout, dans un scénario décliniste. Mais la question, c’est : est-ce qu’elle pourra le contrôler de bout en bout ?

Vous savez, le Système n’est pas aussi fort qu’on le croit. Oh, certes, ce n’est pas nous qui allons le renverser frontalement. Mais le risque est réel qu’il se renverse lui-même. Tenez, imaginez, dans quelques années : révolte au Congrès des USA, audit de la FED, fin du financement de la dette par la dette, faillite des Etats US, réduction drastique du budget militaire étatsunien, évacuation des bases US un peu partout dans le monde. Peu après, l’Iran, délivré de la pression US, annonce disposer de l’arme nucléaire. Une « super-Intifada » traverse les « territoires occupés », le Hezbollah multiplie les attaques contre Israël. La Chine, furieuse que les Occidentaux aient organisé la déstabilisation du Soudan pour en récupérer le pétrole, laisse faire la révolte musulmane, et même la soutient discrètement. Paniquée, Tel-Aviv ordonne au MOSSAD de déclencher une série d’attentats sous faux drapeau, en Europe occidentale, pour obliger les Européens à s’engager massivement au Proche-Orient. La France, dont le président est un certain Dominique Strauss-Kahn, envoie des troupes en Palestine. Les banlieues françaises, du coup, s’enflamment…

C’est un scénario possible, parmi des dizaines qui peuvent nous plonger, très vite et presque sans crier gare, dans un contexte si instable que plus personne ne pourra vraiment le maîtriser. Alors la question, ce n’est pas est-ce que « l’élite » veut le chaos (elle le veut), ni elle est-ce qu’elle pense le maîtriser (elle le pense). La question, c’est : est-ce qu’elle pourra le maîtriser ?

Entre violence de bande synonyme de « refus de l’atomisation imposée par le monde moderne » (M. Maffesoli), et dépouille de blancs nantis interprétée comme de la « lutte des classes qui s’ignore » (A. Soral), la banlieue française est-elle en train de « rappeler au peuple qu’il s’est éloigné de la vertu » (in Vendetta)? Peut-elle, entre islam modéré et frustration exaspérée, constituer un relais de force révolutionnaire?

La banlieue française, peut-on en parler au singulier ? « On » voudrait nous faire croire qu’elle est peuplée majoritairement d’islamo-gangsters violeurs, ce qui est ridicule. Il serait tout aussi ridicule de prétendre qu’elle n’est peuplée que de gens vertueux…

La banlieue française me semble surtout, aujourd’hui, faire l’objet de beaucoup de fantasmes. En pratique, j’ai plutôt l’impression qu’on a affaire à un patchwork très hétérogène, où les forces les plus positives coexistent avec des forces extrêmement négatives. Le jeu, de mon point de vue de « de souche », consiste à nouer des alliances avec les forces positives pour neutraliser et si possible éradiquer progressivement les forces négatives.

D’où, soit dit en passant, l’intérêt d’une démarche comme E&R : il est essentiel que les hommes de bonne volonté réfléchissent ensemble à la manière dont on peut sortir de la situation inextricable où notre classe dirigeante nous a mis. Il s’agit de définir un processus de ré-enracinement des populations déportées chez nous par le capitalisme mondialisé – un ré-enracinement soit ici, soit dans leur pays d’origine, selon les cas, mais toujours dans le respect du droit des gens, sans naïveté mais sans préjugés. Il va falloir que tout le monde y mette du sien.

Votre idée de BAD (Base Autonome Durable), ilot fractionnaire, est pensée comme un système superposable au Système. Une alternative en lisière, reposant sur l'autonomie sécuritaire et médiatique, la construction d'une économie alternative et "une esthétique de la rareté, de la conscience et de la possession de soi". L'autonomie de la communauté y serait assurée par le trinôme Gardes (sécurité), Référents (éducation) et Intendants (production visant l'autarcie). Vous soulignez par ailleurs l'importance du légalisme ("c'est de loin la meilleure subversion").

Pourtant, entre bouc-émissairisation (cf. Tarnac) et accomplissement limité (cf. la Desouchière), la BAD n'est-elle pas une idée "grillée"? Par ailleurs, accepter de ne pas dépasser les bornes du système,  n'est ce pas réduire sa marge de manœuvre?

Tout d’abord, je vous ferai remarquer une chose : si j’avais décidé de « dépasser les bornes du système », je ne préviendrais pas…

Ensuite, je reste ouvert à toute autre proposition. Quel concept alternatif à la BAD peut-on me proposer ? Pour l’instant, j’observe qu’on ne m’a rien avancé de bien concluant. Alors la BAD n’est pas la panacée, certes, mais en attendant, c’est une expérimentation à conduire.

Les modes de vie alternatifs existent d'ores et déjà : dans le domaine de l'éducation (écoles Montessori, Steiner, homeschooling,…), de l'autonomie alimentaire (AMAP, magasins de producteurs, …), de l'habitat (auto construction, énergies renouvelables,…),…

Quelle urgence ou nécessité implique de penser l'autonomie sous forme communautaire, comme dans le cas de la BAD ?

Je ne sais pas si la BAD sera nécessairement communautaire. Ce qui est certain, c’est que si vous voulez résister à la pression du Système, il faut que ce soit collectif. Mais communautaire, ce n’est pas obligatoire. On peut très bien imaginer d’ailleurs plusieurs niveaux d’intégration, avec des noyaux communautaires et des entreprises non communautaires gravitant autour, et intégrant progressivement des individus « à cheval », un pied « dans le Système », un pied dehors.

Bref, sur le plan organisationnel, tout est à construire, tout est ouvert. Je crois qu’il faut tester, et c’est l’expérimentation qui nous dira progressivement comment faire.

Nombre de nos camarades s’interrogent sur l’organisation concrète d’une BAD. Se rapproche-t-on des écos-villages développés par Diana Leafe Christian ?  Selon vous, qu’elle serait - entre petites structures totalement autarciques et communautés plus poreuses, donc dépendantes -, la taille optimale d’une BAD? Comment y gérer l’humain (« recrutement », sélection, …) en fonction des différentes sensibilités (du néo-baba au survivaliste) ?

Je n’ai pas d’opinion arrêtée sur la taille des BAD. Il est très possible qu’il existe plusieurs « formats » de BAD, et que ces formats présentent tous points faibles et points forts, à étudier selon les circonstances, les choix des individus constituant le groupe, etc. Nous allons d’ailleurs tester prochainement, avec quelques amis, un projet collectif : nous nous ferons un plaisir d’informer E&R Bretagne sur le déroulement de ce projet, ce sera l’occasion d’échanger des expériences.

Cela dit, ce n’est pas la question-clef.

La question-clef, pour moi, ce n’est pas la BAD, mais le réseau des BAD. Là où la démarche « fractionnaire » que je propose se distingue des solutions « survivalistes » ou « écolos » préexistantes, c’est que je ne suggère pas d’installer des BAD ici, là, et là, d’une certaine manière et pas d’une autre. Ce que je suggère, c’est de construire progressivement, par le réseau des BAD, une contre-société.

Pour moi, si un jour on met au point la « BAD idéale », ce sera très bien, mais ce n’est pas l’objectif. L’objectif, c’est par exemple qu’un jour, la population « ordinaire » apprenne qu’il existe désormais un tribunal d’appel pour traiter en deuxième instance tous les litiges que les tribunaux locaux des BAD auront jugés, en fonction d’un code juridique « fractionnaire » (appelez ça autrement si vous voulez, du moment que cela veut dire : séparé, distinct, de l’autre côté d’une ligne imaginaire séparant Système et contre-société). Ce jour-là, le jour où il existera une Loi de la contre-société, je peux vous dire que nous aurons porté au Système que nous combattons le coup le plus rude que nous pouvions lui porter, avec nos faibles ressources : nous aurons repris la parole.

C’est de cela qu’il s’agit. Et comme vous le voyez, ça n’a rien à voir avec les néo-babas.

Pour conclure cet entretien, et avant de laisser nos lecteurs retourner fourbir leurs armes contre l’hétéronomie, avez-vous quelque chose à ajouter ? Une remarque, un conseil de lecture, une recommandation ou une digression sur un sujet de votre choix, …

Peut-être un mot sur votre président, Alain Soral, qui a (encore) des démêlés avec le lobby qui n’existe pas.

Nous ne sommes pas tout à fait d’accord sur cette question : lui, il croit que c’est la question centrale, et moi, je crois qu’elle est très périphérique, même si elle est très perceptible. En outre, peut-être influencé par le protestantisme, je porte sur le monde juif un regard beaucoup plus nuancé que le sien – et même, dans certains cas, un regard de sympathie. J’aurais sans doute, un jour, pas mal de choses à lui dire sur le livre d’Ezéchiel, l’éthique de responsabilité et la question du « contrat » passé entre l’homme et Dieu dans la religion hébraïque… où notre ami pourrait voir que lire Ezéchiel comme un texte « sioniste », c’est faire un léger anachronisme !

Mais, en attendant, je trouve lamentable qu’on attaque quelqu’un en justice pour des propos où il ne fait que formuler une opinion sur l’état du pays et le rôle d’une communauté. Si ces propos sont fallacieux, qu’on en apporte la preuve dans une discussion ouverte et contradictoire. Depuis quand, en France, la justice doit-elle sanctionner les simples opinions ? Il est possible que celles de monsieur Soral soient erronées : eh bien, qu’on le prouve, qu’on déconstruise son propos, qu’on en montre les limites ou les erreurs. Mais la justice n’a pas à intervenir dans le débat d’idées, ou alors, et qu’on nous le dise franchement, nous vivons sous une dictature.

La judiciarisation du débat, en France, devient étouffante. Elle participe d’une entreprise générale d’intimidation des esprits libres. C’est pourquoi, indépendamment de notre opinion sur le fond, nous devons soutenir Alain Soral quand on prétend le faire taire par décision de justice, alors qu’il n’a formulé aucun appel explicite à commettre le moindre acte illégal.

Sinon, après, à qui le tour, et sous quel prétexte ?

Pour E&R en Bretagne,

Mathieu M. et Guytan

 

samedi, 05 février 2011

De lo politico en el pensamiento de Carl Schmitt

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De lo político en el pensamiento de Carl Schmitt

Dick Tonsmann Vásquez



Vamos a comenzar esta parte con la definición de Schmitt de lo político. Como se verá, se trata de un concepto sustancialista asociado al origen de las naciones y a la posibilidad de la guerra. En esta marco, hablaremos del sentido o sinsentido que tendría hablar de una guerra contra la humanidad y, sobre ello, nos referiremos al ‘enemigo absoluto’ desde la distinción entre régimen y Estado. Y esto nos llevará finalmente hacia algunas conclusiones del tipo de la filosofía práctica para los sucesos contemporáneos de la política peruana.

Para comenzar, la definición de Schmitt sobre lo político se basa en el criterio de distinción amigo – enemigo, de la misma forma que la moral requiere de la distinción entre el bien y el mal, y la estética posee el criterio de la distinción entre lo bello y lo feo. Una comparación analógica que no debe significar en ningún caso una equiparación entre lo bueno y el amigo o entre lo malo y el enemigo, de la misma manera que lo bello tampoco puede identificarse ni con lo bueno ni con el amigo. Además, es importante indicar que lo político no se reduce a una identificación con lo estatal, pues en las sociedades democráticas contemporáneas el Estado no tiene el monopolio de lo político sino que ámbitos tales como la religión, la cultura o la economía misma, que son instancias sociales, dejan de ser neutrales y se vuelven potencialmente políticas. Así, el Estado tal y como lo conocemos ya no puede ser considerado como un ámbito distintivo de lo que llamamos precisamente ‘lo político’.

Las razones de un conflicto pueden ser religiosas, culturales o económicas, pero lo que las hace eminentemente políticas es el carácter mismo de conflicto que subyace a la lucha política en cuanto tal. Esto significa que la autonomía de tal criterio no supone necesariamente una independencia en la realidad pero sí supone un diferente modo de ser constitutivo de lo humano. Lo que ocurre es que la manifestación del conflicto en esas otras áreas es sólo la expresión de una naturaleza más originaria del hombre y del Estado. Así, esta concepción esencialista de la política subyace al origen de las naciones cuya naturaleza es entendida desde una perspectiva romántica en tanto que apela a la idea de una especie de sentimientos originarios puros. Desde esta perspectiva es que se afirma que los pueblos se definen en tanto que se agrupan como amigos y por negación de sus enemigos.

Ahora bien, el surgimiento de las nacionalidades y de los Estados – nación es un hecho que, generalmente, tendemos a ubicar en la Reforma Luterana. Sin embargo, el carácter conflictivo de la naturaleza política en su sentido óntico parecería estar inscrito en todo individuo si nos ceñimos a la concepción sustancialista de Schmitt. Por lo tanto, los Estados – nación que conocemos no serían sino una de las últimas expresiones de este concepto de lo político. Estados que, incluso, al ser invadidos por la sociedad civil, como se ha señalado, no suponen ya una identificación simple con el hecho político.

De la misma forma, este carácter esencial de la distinción amigo – enemigo también se puede referir a las diferencias partidarias que se producen en el interior de un Estado. Así, no se entienden como simples discusiones sino que la “lucha partidaria” conlleva necesariamente la idea de “lucha hostil”, entendida ésta como posibilidad eventual siempre presente dada su naturaleza existencial. Por ello, desde esta perspectiva, el nivel máximo de la enemistad encuentra su cumplimiento en la guerra, ya sea como guerra externa o como guerra civil. Esto no hay que entenderlo en el sentido de Clausewitz, para quien la guerra no era sino la continuación de la política por otros medios. Sino que ha de comprenderse en el sentido de que la guerra es el presupuesto de la política en tanto que es una posibilidad real siempre presente a partir de la cual se origina la misma conducta política.

Así, se puede considerar que Schmitt no tiene propiamente un discurso belicista mi militarista pues asume que, incluso, una actuación políticamente correcta en contra de la guerra presupondría la distinción amigo – enemigo. También la neutralidad conlleva la posibilidad de que el Estado neutral pueda aliarse con otro Estado como amigo en contra de otro que considera como enemigo. Esto significa un concepto esencialista de la política pero que no resulta determinante de una realidad concreta sino que permite diversas formas de realización existencial. Aunque la definición de Schmitt de lo político no significa por sí mismo un criterio valorativo, puede permitir pensar de manera valorativa la acción política. Una tal valoración a posteriori no anula la descripción a priori ni viceversa. Tampoco debemos entender el principio sustancial de la relación amistad – enemistad como un principio zoológico a la manera de Hobbes, quien repetía la famosa sentencia homo homini lupus, sino que la determinación existencial sobre quién en concreto es el amigo y quién el enemigo procede invariablemente de la libertad del hombre que le es consustancial. Por lo cual, la sentencia latina antes señalada resulta ser cambiada por la afirmación de que “el hombre es el hombre para el hombre”.

Aunque la definición del enemigo depende del ejercicio de dicha libertad en el marco de las agrupaciones políticas, tal libertad no puede llegar razonablemente al punto en que se pueda pensar en una lucha de la humanidad toda en su conjunto pues, entonces, ¿quién sería el enemigo? Ni siquiera el enemigo deja de ser hombre de modo que no hay aquí ninguna distinción específica”.

Si pensamos en la humanidad como el conjunto de todos los seres humanos es imposible pensar en un enemigo de tal humanidad de forma que toda ella pueda agruparse frente a un enemigo común en el sentido de otra agrupación o pueblo de hombres.

Sería posible pensar en un enemigo de la humanidad en el sentido de alguien que desee exterminar la raza humana por considerarse un ser superior más que humano. Sin embargo, Schmitt podría responder que esta última disquisición no tiene que ver con su criterio teórico en tanto que principio distintivo de carácter óntico, sino que podría explicarse como una retórica política que pretende justificar una guerra apelando a un conjunto de nociones alteradas de la idea propia de humanidad. En ese sentido, también aquellos que actuarían en las guerras posteriores bajo la idea de que están defendiendo tal humanidad, lo que en realidad hacen, por contrapartida, es convertir al enemigo en un ser inhumano por razones morales y proclamar su necesario aniquilamiento. Se trata, en este último caso, de la utilización de un criterio moral en un área distinta de la suya, subsumiendo lo político de tal forma que el enemigo termina siendo degradado a la condición de criminal. Una intromisión de discursos que, en realidad, se podría entender como una manipulación del discurso moral para justificar una agresión de carácter hegemónico o en pro de un imperialismo económico. De esta manera, el concepto de humanidad no sólo se impondría acríticamente eliminando el significado de lo político mismo, sino que, además, se convierte en uno de los tantos conceptos ideológicos antifaz hechos para justificar lo injustificable.

Si pensamos estrictamente en una reducción de lo político a categorías morales tal como lo entiende Schmitt, se ha convertido al enemigo en criminal de guerra. Pero habría que diferenciar si se trata de una ideologización previa (como cuando Bush hablaba de la “libertad infinita”), con lo cual la intromisión de lo moral en lo político resulta ser simplemente tendenciosa e hipócrita; o si se trata de la consecuencia de la violación de los usos de la guerra del Derecho Internacional establecido. Una cosa es un gobierno genocida y otra cosa es una unidad política cuya existencia va más allá de un régimen eventual y pasajero. No era lo mismo combatir a los nazis que luchar contra Alemania ¿o acaso correspondió el holocausto con una forma de ser de la unidad política alemana? Por consiguiente, la criminalización del enemigo no puede significar la criminalización de todo un país o una nación. Una absolutización del concepto de enemigo que sí ha ocurrido en la retórica del caso de Irak con la estigmatización del Islam y, en consecuencia, con la criminalización de tal religión.

Por otro lado, en la obra El concepto de lo político, redactada en el período de entreguerras, se criticaba a la liga existente en aquellos años por confundir lo interestatal con lo internacional. El primero de estos conceptos se refiere a la garantía del status quo de las fronteras nacionales por parte de la Liga. Pero el concepto de internacional, como en el caso de la Internacional Socialista, supone una sociedad universal despolitizada al responder a la tendencia imprecisa de buscar el Estado único como un postulado ideal. Para Schmitt queda claro que sólo un Estado ideal apolítico, es capaz de dar tal paso y convertir el enemigo en un criminal.

Sin embargo, tal Estado es para Schmitt una imposibilidad práctica, aunque se preconice teóricamente. Las tendencias hacia esta situación vienen del lado de un liberalismo individualista que, buscando eliminar todo lo que puede coaccionar su libertad (incluyendo el propio Estado y su correspondiente monopolio organizado de la violencia legítima), termina por entronizar el imperio de lo económico y poniendo el aspecto ético – espiritual en la dinámica de una eterna discusión. Precisamente por el lado de lo económico es que tal Estado único resulta ser tan sólo una ficción pues lo que ocurre, en realidad, es que la economía se vuelve en un hecho político al desarrollar nuevos tipos de oposición que llevarían claramente a la guerra, aunque ésta no deba ser entendida necesariamente en el sentido de la lucha de clases marxista. Lo mismo ocurre bajo la idea de declarar una “guerra contra la guerra”, pues ello haría dividir la humanidad entre dos agrupaciones políticas y el criterio amigo – enemigo seguiría siendo la distinción específica de lo político. Ningún autoproclamado Estado universal podría anular lo que es una naturaleza de carácter óntico. Sólo podrá haber el intento de una agrupación de países de apropiarse del derecho a la guerra estructurando el Derecho Internacional bajo sus propios intereses. Así se entiende a la ley positiva como la búsqueda de la legitimación de una situación en la que los interesados sólo pretenderían encontrar estabilidad para su ventaja económica y poder político aunque lo disfracen de discursos moralistas.

Para Schmitt, a pesar de la voluntad de los juristas internacionales de que esto no sea así, ningún sistema de leyes puede evitar la diferenciación sustancial entre enemigos que presupone la guerra. Esto no significa que no se deba trabajar en beneficio de un nuevo orden que establezca “nuevas líneas de amistad” entre los pueblos, al margen de la eficacia o ineficacia de la actual ONU. Para Schmitt, el error está en que el organismo surgido de la Segunda Guerra Mundial fue una construcción de los vencedores que creyeron que su victoria era la victoria definitiva y ello los incapacitaba para poder plantear nuevas respuestas a los Challenges de la historia. ¿No son los sucesos contemporáneos, además de un nuevo Challenge, una nueva llamada de atención sobre la futilidad de un modelo liberal de carácter monista? Schmitt vislumbró que el orden futuro del mundo se convertiría en un pluralismo multipolar y que, aquello que marcará el desarrollo de los grandes espacios, dependerá de la fuerza en que una agrupación de pueblos o de naciones puede mantener el proceso de desarrollo industrial siendo fieles a sí mismos y no sacrificando su identidad por el carácter tecnológico de dicho desarrollo, “no solamente por la técnica, sino también por la sustancia espiritual de los hombres que colaboraron en su desarrollo, por su religión y su raza, su cultura e idioma y por la fuerza viviente de su herencia nacional”.

En otras palabras, que el orden del globo dependerá de un comunitarismo amplio de mundos de la vida fuertes ante toda racionalización sistémica dominante de la techne y el progreso.

Ahora bien, las consecuencias de esta reflexión para la comprensión de los sucesos políticos contemporáneos que nos impelen directamente deberían ser más que evidentes. Tanto si hablamos de los sucesos de Bagua, como de la situación del VRAE o de las relaciones entre el Perú y los demás Estados en los momentos de una aparente carrera armamentista. Una vez que el Estado peruano ha sido invadido por la Sociedad Civil, se pierde paulatinamente el principio del monopolio de la violencia. ONGs, movimientos políticos de naturaleza anarquista con características delictivas, así como partidos de carácter revanchista que estigmatizan al Estado colaboran para la destrucción de cualquier tipo de unidad sustancial o espiritual nacional que debería personalizar nuestro sistema político. Así se termina haciéndole el juego al liberalismo económico y político internacional cuyo resultado no puede ser otro que la crisis mundial.

El ideal de nuestro Estado ha de ser que las formas políticas expresen nuestra herencia cultural y ello no parece haber ocurrido precisamente a lo largo de nuestra república en todo sentido. El desprecio por comunidades andinas o del oriente peruano de parte de un régimen que, por ejemplo, se dedica principalmente a Tratados de Libre Comercio, significa, a la larga, una destrucción física y moral que justificaría una lucha constante contra este sistema. Ello, por supuesto con las salvedades apropiadas: no se justifica ninguna intervención extranjera ni tampoco el terrorismo indiscriminado porque eso precisamente destruye las comunidades que pretendemos defender.

Por otra parte, así como las Convenciones por sí solas no son suficientes para evaluar la justicia en la Guerra, la terquedad en aferrarse a leyes positivas es una ingenuidad jurídica, además de ser un abandono de las experiencias humanas morales que están a la base de cualquier sistema de Derecho. Las relaciones entre personas son más primigenias que las relaciones jurídicas y esto es algo que se ha olvidado tanto en el ámbito internacional como en el ámbito de nuestro país. Asimismo las políticas de la amistad no pueden ser tan ingenuas como para creer que no va a haber conflicto porque nos sometemos a los Tratados

Es en esta línea en que se debe plantear la cuestión de los Derechos. Tan malo es una imposición jurídica de Derechos entendidos en sentido liberal moderno a la manera norteamericana, como el desprecio por la vida y la libertad. Así, la defensa de la comunidad debe verse como defensa de la riqueza cultural, alimentada por la naturaleza material propia. Ni la salvaguarda de un modelo liberal ni la repetición de rebeliones de países vecinos resulta auténtica.

Bagua, el VRAE o lo que se venga en las relaciones internacionales es y será precisamente el resultado de este conflicto irresoluble sintéticamente entre la globalización y la defensa de la comunidad. Así, hemos asistido, y probablemente seguiremos asistiendo, a conflictos sociales con el peligro de que devengan en cosas mayores; y todo es y será el resultado tanto del eterno y dinosáurico paternalismo económico que, no solo está fuera de nuestras fronteras, sino que está dentro y que, incluso, nos gobierna, así como de la marginación y el caos burocrático. Razón que nos lleva a repetir una vez más, junto con las encíclicas sociales de la Iglesia Católica que “No habrá paz sin una verdadera justicia social”.

 

vendredi, 04 février 2011

Alexander Dugin talks about the Conservative Revolution at Moscow State University

Alexander Dugin talks about the Conservative Revolution at Moscow State University

jeudi, 03 février 2011

Cas Mudde: "Populisme hoeft geen probleem te zijn"

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Ex: http://www.volkskrant.nl/vk/nl/2844/Archief/

'Populisme hoeft geen probleem te zijn'
 

29/01/11, De Volkskrant
>
> Getatoeëerde wetenschappers zijn betrekkelijk zeldzaam, maar Cas Mudde is
> waarschijnlijk uniek. Op zijn rechteronderarm heeft de politicoloog de
> Nederlandse Leeuw, op zijn linker onderarm een gebalde vuist. Op een
> winterse middag in Amsterdam wil hij ze niet ontbloten. Ach, zo interessant
> zijn ze niet, zegt hij, gewoon een herinnering aan zijn tienertijd, toen hij
> skinhead was.
> Cas Mudde is een van de meest vooraanstaande experts op het gebied van het
> populisme in Europa. Hij werkte jarenlang voor de Universiteit van Antwerpen
> en doceert tegenwoordig aan DePauw University in de Amerikaanse staat
> Indiana. Vorige week was hij even in Nederland voor een congres aan de
> Radboud Universiteit in Nijmegen.
>
> 'Ik was skinhead van mijn 15de tot mijn 18de', zegt hij. 'Ik was de enige
> liberale skinhead van Nederland. Althans, ik ben geen andere tegengekomen.'
> Hij hield van de stijl, de mode, de muziek. Ska en oi, een punkvariant. Hij
> stapte eruit toen skinheads steeds meer geassocieerd werden met neonazi's.
> 'Ik ben gestopt in 1983, toen de Antilliaanse Kerwin Duinmeijer door een
> skinhead werd vermoord. Ik woonde toen in Hoofddorp, waar ook veel
> Marokkanen woonden. Het werd toen echt gevaarlijk om een skinhead te zijn.
> Als je bedreigd werd, kon je moeilijk roepen: ja, maar ik ben een liberale
> skinhead.'
>
muddeLivre.jpg> Aanvankelijk bestudeerde Mudde het rechts-extremisme van de jaren tachtig en
> negentig: de Centrumpartij van Janmaat, het Vlaams Blok, de Duitse
> Republikaner. Gaandeweg verschoof zijn aandacht naar het populisme, van de
> PVV tot het Franse Front National en de Oostenrijkse FPÖ van Jörg Haider. In
> wetenschappelijk opzicht heeft zijn skinheadperiode hem zeker beïnvloed.
> 'Toen ik begon, probeerden wetenschappers vooral te bewijzen hoe fout
> extreem-rechts was, door een link met de Tweede Wereldoorlog te leggen. Maar
> anders dan de meeste onderzoekers kende ik radicaal-rechtse mensen', zegt
> hij. 'Ik wist hoe weinig het voorstelde, dat er maar honderd man kwamen bij
> een demonstratie, terwijl de krant schreef dat het er 1.500 waren. Ik wist
> ook dat radicaal-rechtse mensen net zo complex zijn als alle andere. Ik
> kende bijvoorbeeld iemand die een hekel had aan buitenlanders, maar wel ging
> voetballen met Ali. Want Ali was geen Turk, want Ali had werk.'
>
> Zijn oudere broer Tim was actief in de CP '86, speelde in bands als De
> Dietse Patriotten en drijft een nationalistisch postorderbedrijf. Mudde is
> nooit zo bang geweest voor extreem-rechts en later voor het populisme. Voor
> hem waren de aanhangers van radicaal-rechtse partijen geen eendimensionale
> stripfiguren die klaar stonden om de Tweede Wereldoorlog over te doen. In
> zijn wetenschappelijk werk probeert hij de radicaal-rechtse kiezer te
> begrijpen en serieus te nemen. Lange tijd meenden onderzoekers dat je gek,
> bang of werkloos moest zijn om op een rechtse partij te stemmen. De
> aanhangers van Le Pen, Filip de Winter of Pim Fortuyn waren verliezers die
> hun rancune richtten op immigranten. Maar empirisch onderzoek laat iets heel
> anders zien. De verschillen tussen de kiezers van radicaal-rechts en de
> gevestigde partijen zijn helemaal niet zo groot. Aanhangers van Wilders of
> de Deense Volkspartij zijn ook helemaal geen verliezers, blijkt uit
> onderzoek, ook niet als ze wat lager opgeleid zijn. Menige vakman doet het
> beter dan een academicus of hbo'er met een incourante studie.
> Mudde: 'Het onderzoek naar extreem-rechts is sterk beïnvloed door het
> naoorlogse onderzoek naar het fascisme. Een studie als The Authoritarian
> Personality van Adorno heeft een grote rol gespeeld. Er bestond de neiging
> om de rechtse aanhangers te pathologiseren. Ze zijn bang, ze zijn agressief,
> ze kunnen intellectueel niet mee.'
>
> 'Vaak is er wel een klassenverschil tussen populisten en gevestigde
> partijen. Maar dat verschil wordt veel kleiner als een partij meer wordt
> geaccepteerd. De Centrumpartij van Janmaat was een partij voor een
> onderlaag. Maar van een partij die 25 procent van de stemmen trekt, kun je
> niet meer beweren dat ze slechts een klein en specifiek deel van de
> bevolking vertegenwoordigt. Bovendien: als je kijkt naar opvattingen is het
> verschil tussen de kiezers van de populisten en de gevestigde partijen nog
> veel kleiner.'
>
> Mudde wijst op Europees opinie-onderzoek. Tweederde van de Europeanen vindt
> dat er geen immigranten meer bij mogen komen. Bijna 80 procent vindt dat
> jongeren harder aangepakt moeten worden, thuis en op school. Maar liefst 85
> procent vindt de samenleving te tolerant.
> 'Vaak is gezegd dat populisten vijandig staan tegenover de democratische
> westerse waarden, waardoor je niet met ze zou kunnen samenwerken. Maar ze
> bieden slechts een radicale versie van de waarden die in de mainstream van
> de samenleving volop gedeeld worden. Daar is niets pathologisch aan.'
> 'Hij streeft naar een shockeffect. Toch vindt bijna iedereen dat 'we'
> bedreigd worden. We verschillen alleen van mening over de mate waarin.'
> 'Op nationaal niveau zeker. Op het niveau van sommige wijken kun je een heel
> ander verhaal houden. De multiculturele samenleving heeft grote problemen.
> Ik ben net in Schaarbeek bij Brussel geweest, daar word je niet vrolijk van.
> Maar voor mij is niet de islam het probleem.
>
> 'In Nederland wordt de meeste overlast niet veroorzaakt door 'de'
> buitenlanders of 'de' moslims, maar door Marokkaanse jongens, van wie we
> weten dat ze niet zo vaak naar de moskee gaan. Toch blijven we ze als moslim
> beschouwen. En we blijven zoeken: wat zit er in de islam waardoor kinderen
> zich zo gedragen. Daardoor zien we ook de verschillen tussen moslims niet
> meer. Turken veroorzaken minder overlast, Marokkaanse meisjes doen het goed.
> Bovendien: ook niet-moslims zoals Antilliaanse jongens veroorzaken
> problemen.'
>
> 'Ja, dankzij de islam mocht het eindelijk. Wat Nederland altijd heel sterk
> heeft gehad, is het idee: geen tolerantie voor de intoleranten. We hadden
> een buitengewoon sterk anticommunisme. Postbodes werden ontslagen omdat ze
> lid van de CPN waren. Dat ging veel verder dan in de meeste andere landen.
> Toen kwam extreem-rechts, dat waren de nieuwe intoleranten. Die werden ook
> bijna alle rechten ontzegd. Ze mochten bijvoorbeeld bijna nooit
> demonstreren. Nu zijn moslims de nieuwe intoleranten. We hebben een lange
> traditie om datgene wat we als intolerant zien, ook volledig uit te sluiten.
> 'Nederlanders vinden zichzelf ongelooflijk tolerant. Op een bepaalde manier
> zijn we dat ook wel, bijvoorbeeld in de acceptatie van homoseksualiteit. We
> hebben een heel brede mainstream. Maar als je daarbuiten valt, ben je dood.
> Sociaal dood, politiek dood en vaak ook juridisch dood. In de Verenigde
> Staten is dat heel anders. Daar heb je een smalle mainstream. Als je daar
> buiten valt, so be it. Neonazi's bijvoorbeeld. Iedereen is er tegen, maar
> niemand zal naar de rechter lopen om ze te verbieden. Ze mogen daar gewoon
> demonstreren.'
>
> Net als Denemarken en Zweden is Nederland een conformistisch land, zegt
> Mudde. Noord-Europeanen worden zenuwachtig van mensen die er totaal andere
> ideeën op nahouden. Dat valt hem nog meer op sinds hij in Amerika woont, na
> zijn huwelijk met de politicologe Maryann Gallagher.
> 'We geloven dat we heel kritisch zijn. Nederlandse studenten staan erom
> bekend dat ze altijd kritische vragen stellen, ook al hebben ze de boeken
> helemaal niet doorgenomen. Amerikaanse studenten doen dat niet. Ze denken
> ook meer: jij bent de hoogleraar, dus jij zult er wel meer van weten dan ik.
> Terwijl Nederlandse studenten eerder zeggen: jouw mening is ook maar een
> mening.'
>
> Vreemd genoeg gaat die kritische instelling gepaard met een sterke
> eenvormigheid. Iedereen stelt dezelfde kritische vragen. Jarenlang mocht je
> niets negatiefs zeggen over immigranten, nu mag je er niets positiefs over
> zeggen. De publieke opinie zwiept van links naar rechts. De multiculturele
> samenleving was ooit de trots van een natie die zichzelf als ruimdenkend en
> tolerant beschouwde, maar wordt inmiddels door niemand meer verdedigd.
> Mudde: 'Waar ik mij altijd over verbaas: als Nederlanders immigranten
> bekritiseren, zeggen ze er heel vaak bij: maar dat mag je hier niet zeggen.
> Sorry hoor, maar ik hoor al tien jaar niets anders dan islamofobische
> idiotie.'
>
> Sinds hij in 1998 uit Nederland wegging - eerst naar Antwerpen, toen naar
> Amerika - is het populisme in de Nederlandse cultuur sterk toegenomen.
> 'Vroeger zag je op tv hoogleraren het nieuws duiden, nu stappen
> verslaggevers op de man in de straat af. Zo'n programma als Oh Oh Cherso
> illustreert ook de enorme fascinatie met de onderste klasse. Niet met de
> bovenste klasse, die is verdacht.'
> De man in de straat is geëmancipeerd, maar wordt nog altijd gewantrouwd,
> anders dan in Amerika. 'Amerika heeft een grote populistische traditie. Het
> volk is zuiver en goed. In Nederland werd het volk altijd gewantrouwd. De
> democratie werd van bovenaf toegestaan, het electoraat werd heel voorzichtig
> in kleine stapjes uitgebreid. En deep down vertrouwen veel mensen het volk
> nog steeds niet. Net als in Duitsland is dat versterkt door het trauma dat
> Hitler langs democratische weg aan de macht is gekomen.'
>
muddelivre2222.jpg> 'Voor een deel is populisme geen probleem. Kritiek is goed. Het is goed dat
> de bevolking niet meer denkt: die meneer heeft ervoor doorgeleerd, laten we
> het zo maar doen.
> 'Maar als liberaal democraat vind ik wel dat er gevaren zitten aan het
> populisme, vooral in het idee dat 'wij' - 'het volk' - allemaal hetzelfde
> zouden willen. Het volk bestaat uit mensen met verschillende belangen en
> verschillende meningen. Daar moet je een consensus in vinden. Je kunt van
> mening verschillen over de vraag hoe ver je moet gaan met het sluiten van
> compromissen. Maar het idee dat consensus iets slechts is, dat is
> levensgevaarlijk.
>
> 'Populisten geloven in het idee van een 'algemene wil', de wil van de
> meerderheid van het volk, waarbij anderen zich moeten neerleggen. Daarom
> hebben zij grote moeite met constitutionele rechten van minderheden. Niet
> alleen etnische, maar ook religieuze en politieke minderheden. Bovendien
> gaat populisme vaak gepaard met nationalisme en andere vormen van collectief
> denken. Daardoor wordt het individu gereduceerd tot vertegenwoordiger van
> een groep. Als liberaal vind ik dat problematisch.
>
> 'Populisten verzetten zich ook vaak tegen onafhankelijke instanties, zoals
> de rechterlijke macht. Ik vind dat Wilders zich redelijk netjes heeft
> gedragen tijdens zijn proces. Hij heeft wel een paar keer iets gezegd over
> D66-rechters, maar iemand als Berlusconi gaat veel verder. Die zegt tegen
> rechters: ik ben gekozen door het volk, jullie niet, dus ik ben altijd
> hoger. Maar in een rechtsstaat hebben we niet voor niets een scheiding der
> machten.'
> 'Je moet niet de boodschappers bestrijden, maar de onderliggende problemen.
> In Nederland wordt altijd ingehakt op Janmaat, Fortuyn of Wilders. Maar stel
> dat je Wilders wegkrijgt, daarmee heb je het probleem nog niet opgelost.
>
> 'Het Vlaams Belang is over zijn hoogtepunt heen. Maar die kiezers zijn echt
> geen tevreden sociaal-democraten geworden. Ze gaan helemaal niet meer
> stemmen, of kiezen voor andere partijen met populistische trekjes, zoals de
> Lijst Dedecker.'
> 'Ik vind het heel logisch dat VVD en CDA met de PVV regeren. Ze hebben meer
> gemeen met de PVV dan met de PvdA. De PVV ligt helemaal niet zo ver buiten
> de mainstream. Het populisme heeft alleen punten die strijdig zijn met de
> liberale democratie. Die grens moet je bewaken.'
> 'Nee, uit elk onderzoek blijkt dat burgers helemaal niet meer aan politiek
> willen doen. Ze vinden een keer in de vier jaar stemmen al vervelend genoeg.
> De meeste aanhangers van radicaal-rechtse partijen willen vertegenwoordigd
> worden door mensen door wie ze zich begrepen voelen. Pim wist wat de mensen
> bewoog. Laat Pim het ook maar uitvoeren.
>
> 'Kiezers willen politici die voor een visie staan die ze ook op een
> competente manier kunnen uitvoeren. En die zien ze niet. Ik weet niet of
> politici vroeger beter waren. We zagen natuurlijk ook veel minder, omdat de
> media niet zo alomtegenwoordig waren. Maar er waren wel meer politici die
> zeiden: hier sta ik voor. Als je dat niet bevalt, ga je maar naar een
> ander.'
>
> 'Misschien. Misschien kun je tegenwoordig maar vier jaar de macht hebben,
> waarna het voorbij is. Maar wat is het alternatief? Je op de vlakte houden
> en hopen dat je kunt mee hobbelen? Dat leidt ook nergens toe. Partijen
> moeten terug naar hun eigen ideologische kern, als ze die kunnen vinden. Nu
> richten ze zich te veel op Wilders. De PvdA komt met Cohen als de
> anti-Wilders. Maar zo ga je helemaal mee in zijn verhaal. Je hoeft niet zo
> bang te zijn voor Wilders. Laat hem maar 25 procent halen, dan blijft er nog
> altijd 75 procent over.'
>
> De PvdA is voor Mudde hét voorbeeld van hoe het niet moet. 'Ideologisch is
> die partij dood. Sociaal-economisch was ze al dood, door mee te gaan met het
> neo-liberalisme. Nu zijn ze ook sociaal-cultureel dood, omdat ze meegaan in
> het discours dat cultuur en religie de belangrijkste oorzaak van problemen
> zijn', zegt hij.
> Natuurlijk kunnen zulke factoren best een rol spelen, maar een
> sociaal-democratische partij zou de nadruk moeten leggen op solidariteit en
> klassenverschillen, op onderwijs en werk als sleutel tot integratie.
>
> Maar ook als de traditionele partijen zich hervinden, zal het populisme niet
> verdwijnen. Mede door het gestegen opleidingspeil hebben burgers meer
> zelfvertrouwen gekregen, waardoor zij zich niet meer zo gemakkelijk laten
> leiden door een bovenlaag. Wel zullen populistische partijen meer onderhevig
> zijn aan schommelingen, naarmate zij gewoner worden.
>
> 'Journalisten vergeten dat vaak. Ze tellen alleen op, waardoor het lijkt
> alsof de populisten overal winnen. Maar oudere partijen als het Vlaams
> Belang en de Franse partij Front National doen het helemaal niet zo goed',
> aldus Mudde.
> De PVV zit wel in de lift, ook dankzij het politieke meesterschap van Geert
> Wilders, die voor Mudde geen onversneden populist is. 'Bij Wilders is
> islamofobie duidelijk de kern van de zaak. Het populisme is er pas later bij
> gekomen. Wilders voelt zich ook niet zo op zijn gemak onder het volk, heel
> anders dan Fortuyn.
> 'Het knappe van Wilders is dat hij zo veel geduld heeft. Hij denkt op lange
> termijn, daarom liet hij de gemeenteraadsverkiezingen grotendeels aan zich
> voorbijgaan. Vanwege de Eerste Kamer moet hij nu wel meedoen aan de
> Statenverkiezingen.
> 'Het is heel moeilijk om zo snel zo veel goede mensen bij elkaar te krijgen.
> Dat gaat ook mislukken. Normaal gesproken is niemand geïnteresseerd in
> Provinciale Staten. Hoe vaak schrijven de kranten over ruziënde
> Statenfracties? Nooit, behalve als het over de PVV gaat.'

Professor Cas Mudde


 

87838Despite only having been in the United States for a few years, Cas Mudde can rattle off recent election results with the finesse of a network news correspondent. It helps that Mudde, the Nancy Schaenen Visiting Scholar in Ethics and visiting associate professor of political science, is an expert on right-wing politics, especially during the hard-to-starboard shift of the 2010 American midterms.

Mudde came to DePauw this summer from University of Notre Dame's Helen Kellogg Institute for International Studies, where was a visiting fellow for a year. Before arriving stateside in 2008, he spent a decade studying Europe's radical right parties at universities in Belgium, the Czech Republic, Hungary, Scotland and his home in the Netherlands.

He has published widely on topics such as political extremism,
democratization in Eastern Europe, civil society, and Euroskepticism. His most recent book is Populist Radical Right Parties in Europe, which won the Stein Rokkan Prize for Comparative Social Science Research and was named a Choice "Outstanding Academic Title." Among his other publications are the co-edited mini-symposium "The Numbers We Use, The World We See" in Political Research Quarterly; the co-edited special issue "Deviant Democracies: Democratization Against the Odds" of Democratization; and the edited volume Racist Extremism in Central and Eastern Europe.

But Europe doesn't share the United States' political landscape. Students in Mudde's first-year seminar, Radical Right Politics in Europe, learn a political language filled with new directional connotations. Outside of America, what is right and what is left?

For example, Mudde explains, "Europeans had bizarrely favorable views toward Obama. We had Social Democrats and even Greens supporting Obama, whereas in much of Europe he would be considered center-right."

Or, on how the Tea Party movement, formed in the wake of the 2008 election, compares to populist movements overseas: "The idea of a small government really isn't that popular in Europe," Mudde says. "Most populists there actually support a fairly well-developed welfare state. In Europe, the key issue has been nativism. So, you have very different ideologies, even though both can be considered right wing."

Next spring, Mudde will teach a course based on his current research. Liberal democracies often face the dilemma of having to defend themselves from extremism without undermining their core values. Does our Fifth Amendment's Due Process Clause apply to terrorism suspects? How is it possible for a free society such as Germany to ban Nazi paraphernalia? Answers to those questions don't come without debate.

"Some of the actors who have challenged liberal democracies truly are anti-democratic," Mudde says. "They can be violent or non-violent, and some are pro-democratic. Nevertheless, they all  create repression. I want to look at where the boundaries should be."

This semester, Mudde organized Cinema Oi!, a film series about one such group, known globally as skinheads. The films, however, weren't his introduction to skinhead counter-culture – his body is marked with signs of membership.

 

For Mudde, being a skinhead was about being part of a social scene. It meant that you liked a certain type of music – ska or Oi!, a type of street punk – and wore the right clothes. Political beliefs were never the allure, but they would end up pushing Mudde out.

"At a certain point in time, because of developments in the Netherlands, 'skinhead' became associated with 'neo-Nazi,' even though the majority of skinheads were not," Mudde says. "I felt that my struggle to be the last liberal skinhead was not really worth it."

Today, much of what constitutes political discourse affirms Godwin's Law, the observation that the longer something is discussed, the more likely it will end with a comparison to Adolf Hitler or the Nazis. But having been in the presence of radicals who unabashedly carry that banner, Mudde says the rhetoric goes too far.

"Lewis Black called it 'Hitler Tourette's,' and it has gone both ways," Mudde says. "Neither Obama nor Bush is anything like Hitler. If you had a little bit of an education, you'd be ashamed to say that."

lundi, 31 janvier 2011

Dr. Rolf Kosiek - Mai 68 und die Frankfurter Schule

Dr. Rolf Kosiek

Mai 68 und die Frankfurter Schule

 

vendredi, 21 janvier 2011

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

par Frédéric Dufoing

(Infréquentables, 11)

Ex: http://stalker.hautetfort.com/

Illich.jpgNé à Vienne en 1926, d’un père dalmate et d’une mère d’origine juive, et mort en toute discrétion en 2002 après avoir vécu entre les États-Unis, l’Allemagne et l’Amérique du sud; prêtre anticlérical, médiéviste joyeusement apatride, érudit étourdissant, sorte d’Épicure gyrovague, polyglotte, curieux, passionné, insaisissable, et touche-à-tout; critique radical, en pensée comme en acte, de la modernité industrielle, héritier de Bernard Charbonneau et de Jacques Ellul, inspirateur d’intellectuels comme Jean-Pierre Dupuy, Mike Singleton, Serge Latouche, Alain Caillé, André Gorz, Jean Robert ou encore des mouvements écologistes, décroissantistes et post-développementistes; hélas aussi figure de proue d’une certaine intelligentsia des années soixante qui ne feuilleta, en général, que Une Société sans école et ne retint de son travail que ce qui pouvait servir ses mauvaises humeurs adolescentes puis, plus tard, ses bonnes recettes libertariennes, Ivan Illich est sans conteste l’un des penseurs les plus originaux, les plus complets, les plus lucides ainsi que les plus mal lus du XXe siècle.
Il est surtout le plus dangereux. Car, de tous ceux qui critiquèrent la modernité – et en particulier la modernité industrielle – dans ses principes, et non pas dans ses seuls accidents, il est le seul qui, d’une part, se refusa d’étreindre les mythes décadentistes ou millénaristes pour éviter les mythes progressistes, et, d’autre part, attaqua la modernité sur deux fronts à la fois, l’un intérieur, décrivant, dénonçant, à la suite d’Ellul (mais dans une perspective plus laïque), les apories et absurdités de la modernité industrielle eu égard à ses propres fondements, l’autre extérieur, réintroduisant, par une réflexion sur la logique malsaine du développement, l’Autre dans la pensée occidentale. L’Autre. Non pas celui du module des ressources humaines de l’anthropologie coloniale ou post-coloniale; non pas cette machine à feed back obséquieux que lutinent les coopérants; non pas ce pion arithmétique, ce nu empantalonné dans ses besoins décrit dans les Droits de l’Homme; non pas ce miroir de marâtre dont la rationalité occidentale ne peut se passer depuis son avènement, mais cet inconnu familier, celui qui n’est pas nécessairement compréhensible mais qui est de toute façon, en soi, respectable – et a quelque chose à nous dire pourvu que l’on se taise et que l’on s’émerveille.

 
Mais il est une autre raison pour laquelle la pensée d’Illich est dangereuse : elle est humaniste. Non pas dans le sens où elle s’inscrirait dans le travail des auteurs de la Renaissance qui coupèrent l’Europe de ses racines méditerranéennes et la raison du raisonnable, plongèrent l’homme dans l’Homme, dans sa volonté de puissance et, derechef, dans le désir d’absence de limites, et qui enfin permirent tout ce que la modernité industrielle assume, accroît et assouvit au mépris de la personne comme de l’espèce humaine. C’est précisément contre cette logique que travaille la pensée du médiéviste, c’est à son fondement qu’elle s’attaque puisqu’il s’agit de rechercher et de défendre une humanité qui, au nom de la volonté de puissance, a perdu son identité avec sa liberté, se retrouve sans volonté, prisonnière de la puissance, d’une Raison ivre d’elle-même, d’organisations, de techniques qui la dépassent et dont elle n’est plus que l’outil, la marionnette – débile, idiote – de besoins, de désirs, se traînant de guichets en caisses enregistreuses en passant par l’habitacle de son automobile. Bien sûr, comme on l’a dit, on retrouve ici les intuitions et les analyses de Bernard Charbonneau (la critique de la totalisation sociale qu’amène la Grande Mue, c’est-à-dire le changement de paradigme sociétal qu’est l’industrialisation), de Jacques Ellul (l’analyse de la Technique et de la soumission des fins aux moyens, de toute considération à l’efficacité) et de nombreux auteurs du personnalisme des années trente, effrayés aussi bien par le totalitarisme que par le libéralisme; on retrouve de même des intuitions bernanosiennes (la modernité menace l’intimité spirituelle de l’individu), luddites (le refus de la religion technologique), peut-être aussi, quoique dans une moindre mesure, bergsoniennes. Mais, indéniablement, par son ouverture à un optique relativiste, sa finesse d’analyse et – ce qui peut sembler paradoxal – son souhait de rester pragmatique, de s’inscrire dans le concret, la pensée d’Illich est à la fois plus précise et plus fertile.
Nous nous proposons dans ce trop bref article de faire découvrir l’œuvre d’Illich. Autant préciser avec humilité qu’exposer une pensée si complexe, c’est bien évidemment la trahir et que, la plupart des grandes oeuvres étant victimes des vulgates, nous nous efforcerons de n’endommager celle d’Illich que par esprit de synthèse. Nous procéderons pour ainsi dire chronologiquement en exposant d’abord le travail le plus ancien – et le plus mal interprété – d’Illich, qui traite de la contre-productivité des institutions de la modernité industrielle, puis le travail de critique de la logique de développement de la société moderne.
Les plus pamphlétaires des essais d’Illich sont bien connus, mais fort mal lus; il s’agit de Une société sans école, Énergie et équité, La Convivialité et Némésis médicale. L’expropriation de la santé; il y élabore sa vision des seuils – aporétiques – de contre-productivité de quelques-unes des institutions de la modernité industrialisée. Il postule en effet que ces institutions, une fois arrivées à un certain niveau de développement, fonctionnent contre les objectifs qu’elles sont censées servir : l’école rend stupide, la vitesse ralentit, l’hôpital rend malade.


Illich2.jpgDans le premier, Une société sans école, Illich montre que l’école, comme institution, et «l’éducation» professionnalisée, comme logique de sociabilisation, non seulement nuisent à l’apprentissage et à la curiosité intellectuelle, mais surtout ont pour fonction véritable d’inscrire dans l’imaginaire collectif des valeurs qui justifient et légitiment les stratifications sociales en même temps qu’elles les font. Il ne s’agit pas seulement, à l’instar du travail de gauche «classique» de Bourdieu et Passeron, de montrer que l’école reproduit les inégalités sociales, donc qu’elle met en porte-à-faux, stigmatise et exclut les classes sociales défavorisées dont elle est censée favoriser l’ascension sociale, mais de démontrer que l’idée même de cette possibilité ou de cette nécessité d’ascension sociale par la scolarité permet, crée ces inégalités en opérant comme un indicateur d’infériorité sociale. Par ailleurs, l’école et les organismes d’éducation professionnels agissent en se substituant à toute une série d’organes d’éducation propres à la société civile ou aux familles, délégitimant les apprentissages qu’ils procurent. Elle est donc un moyen de contrôle social et non pas de libération des déterminations sociales. Les normes de l’éducation et du savoir, la légitimité de ce que l’on sait faire et de ce que l’on comprend se mettent donc à dépendre d’un programme et d’un jugement mécanique qui forment aussi un écran entre l’individu et sa propre survie ou sa propre valeur. Ce programme est celui de l’axe production/consommation sur lequel se fonde la modernité industrielle. «L’école est un rite initiatique qui fait entrer le néophyte dans la course sacrée à la consommation, c’est aussi un rite propitiatoire où les prêtres de l’alma mater sont les médiateurs entre les fidèles et les divinités de la puissance et du privilège. C’est enfin un rituel d’expiation qui ordonne de sacrifier les laissés-pour-compte, de les marquer au fer, de faire d’eux les boucs émissaires du sous-développement» (1).


Dans Énergie et équité, Illich procède à l’une de ses analyses les plus fécondes de la contre-productivité des institutions industrielles, en l’occurrence, celle des transports, autrement dit de la vitesse. En un mot comme en cent, une fois passé un certain seuil de puissance (évalué à 25 km/h), les outils usités pour se déplacer allongent les déplacements et font perdre du temps. En effet, à partir du moment où existent des instruments de déplacement puissants et généralisés (la voiture, par exemple), l’organisation des déplacements et des lieux de vie (ou de travail) va être absorbée par les exigences de ces instruments : les routes vont développer les distances comme la nécessité de les parcourir; les autres formes de mobilité vont disparaître; les exigences liées au temps et aux déplacements vont se resserrer. D’autre part, l’utilisation de ces instruments, rendue obligatoire par les changements du milieu qu’elle exige, dévore en heures de travail le temps soi-disant gagné par le «gain» de vitesse, si bien que si l’on soustrait au temps moyen gagné par la vitesse de la voiture les heures passées au travail pour payer cette même voiture, on roule à une vitesse située entre six et douze km/h – la vitesse de la marche à pied ou du vélo. Autrement dit, plus d’un tiers du temps de travail salarié est consacré à payer l’automobile qui permet, pour l’essentiel… de se rendre au travail ! De fait, l’utilisation de ces outils, et la dépense énorme d’énergie qu’elle demande, engendrent une perte de liberté, non seulement dans la capacité de se déplacer – puisque le monopole de l’automobile amène les embouteillages ou l’impossibilité de se déplacer autrement, et orientent les déplacements (les lieux où l’on se rend sont des lieux joignables par la route, donc tout le monde se rend dans les mêmes lieux d’un espace rendu homogène) – mais aussi enchaîne l’individu au salariat, lui dévore son temps. L’automobile ne répond pas à des besoins, elle crée des contraintes. Pire, elle crée de la distance puisque, chacun étant supposé (et donc obligé de) disposer d’une automobile, les lieux et le mode de vie vont être organisés selon les possibilités offertes par l’automobile : les lieux vont à la fois s’éloigner et s’homogénéiser puisqu’il faudra désormais ne se rendre que là où l’automobile le permet. On a là un excellent exemple de la logique technicienne, sur laquelle nous reviendrons avec Ellul et Anders, mais aussi de la mécanique moderne toute entière.
De plus, quoique Illich n’en traite que très peu, on pourrait aussi continuer son raisonnement en montrant les problèmes globaux induits par la généralisation de l’automobile : pollution et désordre climatique, problèmes de santé dus à cette pollution et au manque d’effort physique, stress, guerres énergétiques, etc.
Fondamentalement, l’automobile manifeste un déséquilibre, une démesure, une disproportion sur laquelle Illich revient dans toute son œuvre, et en particulier dans La Convivialité : la disproportion entre les sens, le corps (ici, l’énergie métabolique) et la technique (ici, l’énergie mécanique), laquelle engendre une forme de déréalisation quant à la relation au monde et à ses propres besoins. En effet, le point de vue d’Illich (comme d’ailleurs celui d’Ellul) est celui d’un chrétien fondant son appréhension de l’action humaine sur l’incarnation christique. Comme l’indique Daniel Cérézuelle, pour Illich, «la modernité progresse en procédant à une désincarnation croissante de l’existence et c’est pour cela qu’il en résulte une dépersonnalisation croissante de la vie et une perte croissante de maîtrise sur notre vie quotidienne, donc de liberté» (2). Les techniques et institutions modernes instaurent un rapport biaisé aux sens et au corps; elles brisent le lien intime entre le vécu physique, sensitif, charnel et les constructions de l’esprit; elles forment, comme aurait dit Bergson, une croûte entre l’homme et son milieu.

On le voit, au-delà de ce questionnement purement rationnel, voire économiste, pointent déjà des questionnements d’ordre moral, culturel et symbolique beaucoup plus vastes : ce sont bien quelques-unes des croyances fondamentales de la modernité industrielle (une certaine relation au temps (3), le salariat opposé à l’autonomie, etc.) qu’Illich remet en cause. Son exigence de proportionnalité est une exigence de limites. Il s’agit de montrer que, lorsque la volonté humaine perd cette considération des limites, ou ces limites elles-mêmes, elle s’annihile : la volonté n’est possible que dans le cadre de ces limites; si elles les combat ou en sort, elle se désagrège.

La Convivialité est sans conteste l’un des ouvrages les plus précieux du XXe siècle. Illich y intègre et y synthétise la critique du mode de production et de vie industriel, ses constats sur les seuils de contre-productivité des institutions modernes et ses valeurs relatives à l’autonomie individuelle comme « communautaire ». Il démontre que, collectivement, à l’échelle d’une société, non seulement les outils et institutions modernes se retournent contre leurs objectifs, les moyens contre les fins, les hommes perdant alors la maîtrise de leur destin, mais que de surcroît, une fois ces seuils passés, les hommes sacrifient leur autonomie à une mécanique qui les subsume, fonctionne presque sans eux, contre eux et qu’ils passent alors à côté de l’essentiel, ce qui a fait la vie de l’homme depuis l’aube de l’humanité. Concrètement, la modernité industrielle transforme la pauvreté en misère, l’esclave des hommes en esclave des machines, c’est-à-dire détruit en un même mouvement les capacités de survie en toute autonomie et rend dépendant (dans le sens d’une véritable «toxicomanie axiologique») d’un système incontrôlé, agissant au-delà des valeurs qui sont censées le fonder et sur lequel l’individu n’a aucun poids. Dans La Convivialité, Illich écrit : «Lorsqu’une activité outillée dépasse un seuil défini par l’échelle ad hoc, elle se retourne d’abord contre sa fin, puis menace de destruction le corps social tout entier» (4). Et il ajoute : «Il nous faut reconnaître l’existence d’échelles et de limites naturelles. L’équilibre de la vie se déploie dans plusieurs dimensions; fragile et complexe, il ne transgresse pas certaines bornes. Il y a des seuils à ne pas franchir. Il nous faut reconnaître que l’esclavage humain n’a pas été aboli par la machine, mais il en a reçu une figure nouvelle. Car, passé un certain seuil, l’outil, de serviteur, devient despote» (5).

Dans une perspective cette fois plus historique et plus exégétique qu’économique, Illich se penche, dans la deuxième partie de son œuvre, sur une logique qui transcende celle de l’État comme celle du marché, et qui place derechef sa pensée en amont des logiques et mythes libéraux ou socialistes : la construction moderne de la notion de besoin – au travers du processus de professionnalisation – et l’annihilation du vernaculaire, c’est-à-dire d’un ensemble de valeurs et de pratiques qui, malgré les problèmes qu’elles pouvaient poser, avaient au moins le mérite, d’une part, de préserver un relatif contrôle des individus sur leur propre destin – en les ancrant dans certaines limites – et, d’autre part, d’empêcher la sociabilité et les sociétés humaines de glisser hors de ce à quoi elles sont vouées. Analysant tour à tour le rapport à la langue et au texte (Du Lisible au visible : la naissance du texte), le rôle de la femme (Le Genre vernaculaire), le travail domestique opposé au travail salarié (Le Travail fantôme), la professionnalisation des tâches (Le Chômage créateur), le développement (Dans le miroir du passé), les sens (H2O ou les eaux de l’oubli), Illich déconstruit l’imaginaire moderne du développement et du progrès. Il décrit par quels processus historiques les modernes se sont peu à peu trouvés dépossédés de leur travail, de leur genre, de leur langue et, au fond, de leurs identité et désirs propres; comment la langue maternelle s’est trouvée normalisée, donc les gens expulsés de leurs mots, du sens; comment les genres ont disparu au profit des sexes; corrélativement, comment les femmes se sont trouvées enfermées dans une logique où, suite au processus de professionnalisation moderne, elles ont été privées des domaines qui leur étaient spécifiques et ont été pour ainsi dire rabattues sur un travail domestique devenu impraticable et dévalorisé puis sur un travail salarié où leur sont refusés à la fois le respect et une identité propre; comment l’étranger, l’Autre, est devenu un être défini par ses manques relatifs aux canons occidentaux, un sous-développé; comment le travail, les activités vernaculaires ont été absorbées par la division professionnelle du travail et le salariat; comment, enfin, les modernes ont vu leurs sens, leur aperception du réel appauvris autant qu’homogénéisés...
Mais revenons un instant sur les notions de besoin et de vernaculaire. En 1988, Illich publiait un texte court et dense intitulé L’Histoire des besoins (6). Pour lui, cette notion de besoin – qui correspond à une véritable addiction (7) – est intrinsèquement liée à l’idéologie du progrès, suivie, après la Seconde Guerre mondiale, par celle du développement. Naturalisée, devenue une évidence que personne ne songe à remettre en cause tant elle est liée à un imaginaire d’épanouissement, de bien-être ritualisé au travers des mécanismes de la consommation; opposée à des mythes (ceux mettant en scène des sociétés ou des périodes historiques de pénurie systématique et endémique, comme, pour les Lumières, le Moyen Âge ou, pour l’évolutionnisme colonial, les sociétés dites «primitives»), la notion de besoin nous habite au point d’être sans cesse invoquée et de faire l’objet de toutes les attentions politiques des États-nations comme des organismes internationaux, en particulier ceux créés durant l’après-Seconde Guerre mondiale. Illich montre que cette notion est implicitement liée à un processus de professionnalisation et que, surtout : «les nécessités appellent la soumission, les besoins la satisfaction. Les besoins tentent de nier la nécessité d’accepter l’inévitable distance entre le désir et la réalité et ne renvoient pas davantage à l’espoir que les désirs se réalisent» (8). Autrement dit, alors que la notion de nécessité renvoie non seulement à ce qui est essentiel à la survie mais aussi à ce qui est possible dans les limites des situations, des moyens dont on dispose ou du milieu où l’on se trouve, donc du réel, et implique une certaine humilité dans les désirs, la notion de besoin contient intrinsèquement un refus de la réalité, c’est-à-dire un refus de la finitude, des limites, de l’homme comme de la planète sur laquelle il vit. Pour les progressistes de la société industrielle, l’individu abstrait des Droits de l’Homme, unité nue, indéterminée, permettant l’arithmétique contractualiste des droits et des intérêts, est devenu, après la Seconde Guerre mondiale et le lancement du programme développementiste par le président Truman, un être de besoins, entièrement illimité par ses besoins et, de fait, ses manques. «Le phénomène humain ne se définit donc plus par ce que nous sommes, ce que nous faisons, ce que nous prenons ou rêvons, ni par les mythes que nous pouvons nous produire en nous extrayant de la rareté, mais par la mesure de ce dont nous manquons et, donc, dont nous avons besoin» (9). La vieille théorie évolutionniste peut ainsi être recyclée en une typologie, en une nouvelle hiérarchie, qui ne sera plus celle des races ou des cultures selon des traits moraux et esthétiques directs, mais du pouvoir – facilement quantifiable par les indicateurs économiques et statistiques – de satisfaction et, surtout, de détermination de ces besoins. Car qui détermine les besoins élabore les critères de jugement et de classement, donc de légitimation morale. Ici entre en scène le processus de professionnalisation, c’est-à-dire de perte d’autonomie (la capacité de faire les choses par soi-même sans passer par des institutions, des corps intermédiaires ou des normes artificielles et homogénéisantes) et d’autarcie (perte des communaux et de l’environnement permettant la survie) : déterminés, prescrits par des experts, des technocrates, c’est-à-dire, par une aristocratie prométhéenne, légitimée par ses démonstrations de puissance, son efficience dans le grand spectacle et les rites techniciens, les besoins sont sans fin et répondent de manière exponentielle à la logique induite par leur propre création.
Le processus moderne est, dans sa phase industrialiste, et par le fait d’un monopole (qui n’est pas seulement celui de la force) d’institutions comme l’État, l’école, etc., une opération de destruction idéologique – en termes de légitimité mais aussi de possibilité légale d’action concrète – de ce que les gens apprennent, savent et savent faire par eux-mêmes et pour eux-mêmes. Concrètement, si quiconque veut modifier sa maison, il doit demander l’autorisation administrative à un organe bureaucratique, un plan à un architecte et acheter du matériel autorisé et normalisé chez un revendeur agréé. Il n’a plus ni le temps (son emploi salarié le lui vole), ni les capacités (il ne l’a plus appris de ses parents ou de sa communauté), ni la permission légale (l’État seul permet) de faire quoi que ce soit par lui-même. Il est obligé d’utiliser, de consommer les services obligatoires qu’offre la société moderne, par exemple, le marché (et sa logique) ou l’école pour devenir architecte ou ingénieur et apprendre comment on fait une maison, selon quels critères et quels besoins on la fait, comment on bricole, etc. Or ces services répondent ou sont censés répondre à des besoins pour la plupart artificiels et qui n’ont pour objectifs que de susciter d’autres besoins. On entre alors dans la logique du développement : «Fondamentalement, le développement implique le remplacement de compétences généralisées et d’activités de subsistance par l’emploi et la consommation de marchandises; il implique le monopole du travail rémunéré par rapport à toutes les autres formes de travail; enfin, il implique une réorganisation de l’environnement telle que l’espace, le temps, les ressources et les projets sont orientés vers la production et la consommation, tandis que les activités créatrices de valeurs d’usage, qui satisfont directement les besoins, stagnent et disparaissent» (10). Autrement dit, ce qui a constitué l’essentiel de la vie des hommes depuis leur apparition disparaît ou ne subsiste que sous une forme fantôme – terme qui montre une véritable inversion, voire une perversion culturelle puisque ce qui est le vivant même prend le visage de la mort.

On le voit, le développement est une mécanique de destruction doublée d’une mécanique de soumission; on y perd ce que l’on est en faveur d’une illusion de ce que l’on pourrait avoir. Les populations soumises à la logique du développement perdent ce que François Partant appelle les conditions de leur propre reproduction sociale (11). Elle est un énorme processus d’acculturation, non seulement de ceux qui la subissent, mais aussi de ceux qui la promeuvent. Elle détruit les cultures autant que les environnements à partir desquels elles s’étaient fondées, amenant une sorte de «nature artificielle», technicisée. «Le développement économique signifie également qu’au bout d’un moment il faut que les gens achètent la marchandise, parce que les conditions qui leur permettaient de vivre sans elle ont disparu de leur environnement social, physique ou culturel» (12). Le développement crée donc une dépendance aux institutions d’État, au marché, au salariat et aux technocrates; il rend impossibles mais aussi – ce qui est pire – inconcevables les activités de subsistance et d’échange (matériels et spirituels) autonomes liées à l’existence de communaux (13) et de traditions, de cultures locales transmises sans «intermédiaires artificiels», répondant aux nécessités directes d’individus intégrés dans un milieu donné. Ces activités, Illich les appelle vernaculaires. Dans la mesure où le développement «est un programme guidé par une conception écologiquement irréalisable du contrôle de l’homme sur la nature, et par une tentative anthropologiquement perverse de remplacer le terrain culturel, avec ses accidents heureux ou malheureux, par un milieu stérile où officient des professionnels» (14), il nuit à l’ensemble de l’humanité et, d’abord, aux plus faibles. En effet, ils sont les premiers à payer une telle logique, dans la mesure où ils se voient enlever les capacités de survie en faveur d’une intégration dans un système économique aux délices duquel ils n’auront jamais accès; ainsi la pauvreté devient-elle misère et la perte d’autonomie perte d’autarcie. En plus d’être globalement et par nature néfaste, le développement est donc aussi inéquitable, tant socialement que vis-à-vis des femmes.
Sous sa forme industrielle, la modernité est à la fois aporétique et déréalisante. Aporétique car, sous prétexte de libérer l’individu et l’humanité toute entière des contraintes de la nature, de la tradition, de la mort, de Dieu ou du hasard, voire du principe même de l’existence de limites, elle les vend, les voue et les soumet à la volonté de puissance, à la domination des moyens sur les fins, les amenant de ce fait à organiser confortablement leur propre destruction. Déréalisante car ce quelle permet, ce n’est pas un contrôle de l’homme sur son milieu, ou de l’individu sur la société dans laquelle il vit, en somme l’émancipation sous la forme de la fin (d’ailleurs fantasmée) des limites et des contraintes, mais bien la création d’un milieu artificiel, d’un laboratoire, d’un réel artefact clinique, isolé du monde et de l’Autre; un réel artefact qui emprisonne l’individu, détruit sa sociabilité comme son intériorité, le transforme en un objet, un automate seulement disponible, mobilisable. La puissance, dit Illich à la suite d’Épicure, tue la liberté; c’est pourquoi il faut y renoncer.

Notes
(1) Ivan Illich, Œuvres complètes, volume1 (Fayard, 2004), p. 263.
(2) D. Cerezuelle, De l’exigence d’incarnation à la critique de la technique chez Jacques Ellul, Bernard Charbonneau et Ivan Illich, in P. Troude-Chastenet (sous la direction de), Jacques Ellul. Penseur sans frontière (L’Esprit du Temps, 2005), p. 239.
(3) On se référera aussi au fameux Traité du sablier d’Ernst Jünger.
(4) I. Illich, Œuvres complètes, volume1, op. cit., pp. 454-455.
(5) Ibid., p. 456.
(6) I. Illich, L’Histoire des besoins, in La Perte des sens (Favard, 2003), pp. 71-105.
(7) Ibid., p.75.
(8) Ibid., id.
(9) Ibid., p.78.
(10) I. Illich, Le Travail fantôme, in Œuvres complètes, volume 2, op. cit., p. 107.
(11) F. Partant, La Fin du développement. Naissance d’une alternative ? (Saint-Amant-Montrond, Babel, 1997).
(12) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 96.
(13) Le terme provient des analyses de Karl Polanyi; il désigne, en résumé, les ressources, les lieux et les activités de survie qui ne relèvent ni de l’État ni du marché. Pour plus de précision à ce propos, voir K. Polanyi, La Grande Transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps (Gallimard, coll. NRF, 1998).
(14) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 113. Dans les sociétés où le vernaculaire dominerait, «l’individu qui a choisi son indépendance et son horizon tire de ce qu’il a fait et fabrique pour son usage immédiat plus de satisfaction que ne lui en procureraient les produits fournis par des esclaves ou des machines. C’est là un type de programme culturel nécessairement modeste. Les gens vont aussi loin qu’ils le peuvent dans la voie de l’autosubsistance, produisant au mieux de leur capacité, échangeant leur excédent avec leurs voisins, se passant, dans toute la mesure du possible, des produits du travail salarié», p. 103.

L’auteur
Frédéric Dufoing est né en 1973 à Liège, en Belgique. Philosophe et politologue de formation, il dirige, avec Frédéric Saenen, la revue Jibrile et a publié de nombreux articles, entretiens (avec Philippe Muray, Serge Latouche, Jacques Vergès, etc.), pamphlets, critiques et chroniques concernant – notamment – l'éthique des techniques, la pensée d'Ivan Illich et celle de Jacques Ellul. Il prépare actuellement un ouvrage consacré à l'écologisme radical.

Guillaume Faye's Archeofuturism: Two Reviews

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Guillaume Faye’s Archeofuturism

Brett STEVENS

Ex: http://www.counter-currents.com/

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Guillaume Faye
Archeofuturism: European Visions of the Post-Catastrophic Age
Arktos Media Ltd., 2010

archeofuturism.jpgAs humans, we study our world to estimate the best responses to its demands. We then make a choice, and act on it, then observe the results to see if our estimations were correct. If they were not, we correct while trying to learn from the error. That is well and good, when buying a cement mixer — but what about a whole civilization?

Sometime 400 years ago, as our civilization prospered, the decision was made to modernize. This came about through a belief in the equality of all human beings and a drive toward external mechanisms, namely technology and political control systems. Guillaume Faye, the seasoned rising star of the New Right movement in Europe, explores our correction of this mistake in his landmark book Archeofuturism: European Visions of the Post-Catastrophic Age.

One of the more important things I’ve read this year, this book upholds an offhand feel throughout; an honest, end-of-the-night, when the wine and cigarettes are low and people are too tired to do anything but blurt out the big ideas that haunt them in their dreams feel. The content is dynamic, especially the first half, but the real force of power here is the style, an excitedly taboo-breaking, honest and hopeful look at re-creating ourselves so we have a future. This is not a book of resentment, but of joyful charging ahead.

A large influence on this stylistic breathlessness is the composition of the book, which is a collection of essays and a short sci-fi story to show us these ideas in practice. The second section, a thorough and high-energy explication of where Nouvelle Droite beliefs lead, the reasons for them and finally, how they can be better applied toward a theory of the future, will interest new right and deep ecologists the most as it joins the ideas of both into not a resistant/revolutionary culture but a remaking/revolutionary one.

Archeofuturism, Faye writes, escapes the boutique right-wing airy intellectualism of GRECE, which he critiques in the first book. Pointing out the failure of “ambiguous and incomprehensible ideological axes,” he proposes instead a transition from the rearward-looking “conservative” outlook to one that acknowledges what was lost, and the current state of disaster in the West, and plans for rebuilding afterward.

In his new theory of Archeofuturism, Faye proposes a “vitalist constructivism” that implements a quasi-feudal, national but not jingoistic, united Europe that applies the traditional spirit and learning to a future in which technology plays a central role. His unstated point is that the tool must again serve the man, after centuries of the reverse; he appeals to a sense of both the pragmatic in finding historically valid solutions through tradition, and the spirit of tradition, which is one of a constructive, upward society.

He proposes that we adopt this new outlook through a voluntaristic method, first changing our values, then our art, and then finally our political expectations at about the same time a “convergence of catastrophes” (environmental, political, economic) devastate Europe. Faye’s call is for Europeans to return to being “soldiers of the Idea” again, and for them to take up not a corrective action, but a constructive desire to rebuild and build it bigger, better and more exciting than before.

This fusion of both conservative and revolutionary thought takes the best of liberalism and the best of conservatism and takes them out of their handily domesticated roles as token opponents. He points out that our current ideological menu is carved from “soft ideology,” or that which passively deals with splitting up the wealth of an industrialization binge. He emphasizes a number of points all conservatives and pro-Europid readers can enjoy:

  • Modernism is an attachment to the past. According to Faye, modernism is backward-looking as it tries to un-do conditions of nature that offend our egalitarian sentiment. What defines modernity is egalitarianism, or the idea that we’re all equal (in political power, in ability, in right to property). As a result, we’re constantly trying to force equality on nature while it resists us.
  • Extreme leftism is a token act which reinforces the power of the modern nation-state. This point struck me as the most controversial, yet most sensible. If you are in power, and want to stay there, you need to give your citizens petty acts of rebellion that feel extreme but are in fact a repetition of the dominant philosophy. The state and its corruptors benefit from equality because it keeps smarter voices from rising above the herd.
  • The modern world exists in a state of “soft totalitarianism” where those with unpopular opinions are simply ostracized, which in a liberal capitalist democracy effectively starves them into submission. He praises the American method of “soft imperialism” and shows how this is the future: indirect rule, with a reward/threat complex administered by social and business factors; the “1984″ vision is obsolete.
  • Romanticism. Faye writes convincingly of his efforts to join “Cartesian classicism,” or a sense of space as being equal in all directions, with “Romanticism” which he expresses here as the idea that will or will to power can change the world radically even if small in stature. The joining of these two represents the expression of both ancient philosophy and a new type of “freedom” for humanity.
  • Roots and method of modernity. Modern society consists of secularized evangelism, Anglo-Saxon mercantilism, and Enlightenment individualism, its methods are economic individualism, allegory of Progress, cult of quantitative development and abstract “human rights.” It is amazingly refreshing to see this spelled out so clearly and simply.
  • Multiple factors doom modernism which was always unrealistic. “Europe is turning into a third world country,” he writes, summing up the disasters. If you see this book in a store, pick it up to read page 59 for an insightful list of modernity’s failings.
  • Heterotelia. Following Nietzsche’s example, Faye needed a concept that explains how what we intend does not always result in a perpetuation of that state when put into practice. For example, political equality ends in inequality through social instability; multiculturalism ends in race war; letting economy lead ends in poverty because speculative finance is easier than generating real wealth. He explains our past failings and the need to be alert in the future through heterotelia, which means that “ideas do not necessarily yield the expected results.”
  • Ethno-masochism. Faye illustrates how the West, in a suicidal bid to become morally/socially impressed with itself, has inflicted upon itself the unworkable scheme of multiculturalism and in doing so, has imported Islam, an “imperial theocratic totalitarianism.” Unlike many new right writers, he endorses the idea of European culture as superior in addition to being worth saving for its unique virtues.
  • North versus South. History begins with anthropology, Faye writes, so we must see the conflict in humanity as one between Northern peoples who are prosperous, and the “third world” Southerners who are attempting to colonize the North on the back of its technology and liberal egalitarianism. He suggests a Eurosiberia stretching from the UK to the borders of China, and claims East-West conflict is less likely as a source of conflict.

Against this cataclysm Faye posits Archeofuturism, or a futurism equally balanced by the spirit of traditionalism, which is (a) learning from the past and (b) a type of reverence for life that emphasizes family, punishment being more important than prevention, duties coming before rights, solemn social rites, the aristocratic principle and a “freedom” defined not as the ability to act randomly, but as a sense of having a place and being freed from a chaotic society with excessive pointless competition. This synthesis of the best of capitalism, socialism and our monarchic past fully lives up to the title of this book.

Good luck finding a short review of this book. The first half of it is packed chock-full of interesting ideas that like new melodies can infect the head for days as it dissects them and their context. The second half both addresses common objections and provides background, and takes the form of a short science fiction story in the tradition of Asimov and Heinlein that explains how technology will help humans evolve. The concepts are mind-blowing and more daring than anything sci-fi has attempted since The Shockwave Rider, and this icing on the cake makes reading this book have a natural rhythm from the extreme, to the professorial, to the radical yet calming.

History is like a supertanker ship; it takes miles to begin to turn around and there are no brakes. The egalitarian experiment in Europe is only a few centuries old yet has wreaked utter havoc on all the subtler parts of existence, things that most people don’t notice because they are easily distracted by shiny objects. Faye brings these alive, shows us exactly why they are endangered, and then shows us a plausible and gradual (e.g. non apocalyptic, non-Utopian) solution toward which we can move if we believe life is worth saving. Clearly he does, and it infuses this book with a fervor and wisdom that few attain.

Source: http://www.amerika.org/books/archeofuturism-european-visi...

Another review of . . .
Guillaume Faye’s Archeofuturism

Michael WALKER

Ex: http://www.counter-currents.com/

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Guillaume Faye
Archeofuturism: European Visions of the Post-Catastrophic Age
Arktos Media Ltd., 2010

sistema_copertina.jpgIn the 1980s Guillaume Faye was one of the best known member of GRECE and by far their most popular speaker. With humour, panache, invective and contempt thrown in at just the right moment-the dismissive “l’acteur Reagan” the contemptuous and venomous “monsieur Henri Levi surnommé le grand”, he had his audiences rolling in the aisles with delight. Every time I heard him speak at a GRECE conference he received a standing ovation.

GRECE was not only a school of thought, it was also a sort of social club, linking like-minded persons on a cultural, political and social level. However, its concentration on theory made the temptation in hard times great indeed to retreat from direct confrontation and reduce all issues to the level of academic debate. Faye explicates these and other criticisms in Archeofuturism (now available for the first time in English from the Arktos Press at the same time as it has become hard to obtain in the original French).

Structure

Archeofuturism suffers from coming from the pen of a man more at home before a gathering than a keyboard. It is unbalanced and paradoxically, given the content, in some respects extremely provincial and theoretical in its approach and design. At the same time, it owes nothing to the respectability and detachment from reality which can make cowards of many writers.

This is not to say that the book lacks structure. It has a very definite if unorthodox structure. It consists of three theses as Faye calls them: (1) the end of civilization as we know it owing to what Faye calls a “convergence of catastrophes”; (2) the necessity for revolution, notably in the European mindset, (3) propositions for the post-catastrophic world (and the title of his book expresses the essence of Faye’s solution).

The last chapter is a piece of science fiction, a story of a world in which the conflict of technics and tradition has been resolved by reconciling the two, and this is the underlying thread of Faye’s entire argumentation, that we must learn to reach back to our furthest yesterday and to the longest future.

Positions

One issue is the conflict between tradition and progress. On the one hand, technology is necessary as a tool of our will to power, something which Faye believes essential to the survival of the European. On the other hand, scientific and technical progress may prove and often does prove, destructive of tradition. Are religions just fables? It is hard to die for a fable. How is such belief possible in a world of scientific rationalism and progress?

Faye believes strongly that the world is hurtling towards multi-faceted disaster, less a clash of civilizations, although he seems to write at times in a similar vein to Huntington, with his view of Islam especially as a challenge in itself to the hegemony of European civilization, than what he terms a “convergence of catastrophes.” Like Huntington, Faye regards Islam as a single cultural, religious, political bloc with a an expansionist will.

On homosexuality :

. . . it is not a matter of advocating any repression of homosexuality, of banning homosexual couples or socially penalizing gay people; simply, the prospect of legalizing of a form of marriage for homosexuals would have a highly destructive symbolic value. Marriage and legal heterosexual unions enjoy forms of protection and public benefits that are accorded to couples capable of having children and hence of renewing the generations and thus of being of objective service to society. Legalising homosexual unions and awarding them financial privileges means protecting sterile unions. (pp. 106–107)

On demographics:

It is necessary to reflect on the issue of immigration, which represents a form of demographic colonization of Europe at the hands of mostly Afro-Asiatic peoples. . . . Three generations later, the colonization of Europe represents a form of revenge against European colonization . . . are we to accept or reject a substantial alteration oif the ethno-cultural substrate of Europe? The basis of intellectual honesty and the key to ideological success lie in the ability and courage to address the real problems, instead of attempting to avoid them. (p. 49)

On distraction:

The system only makes use of brutal censorship in very limited areas: it generally resorts to intellectual diversion, i.e. distraction, by constantly focusing people’s attention on side issues. What we are dealing with here is not simply the usual brutalization of the population via the increasingly specific mass-media apparatus of the society of spectacle — a veritable audiovisual Prozac-but rather a concealment of essential political problems (immigration, pollution, transportation policies, the aging of the population, the financial crisis of the social budgets expected to occur by 2010 etc. (p. 92)

Archeofuturism

It is a sad paradox, and one about which Faye is acutely aware in his book, that the European New Right in general has failed to make an impact at the very time that the march of events might have been expected to play into its hands: the end of the cold war, the decline of political Manicheanism (East versus West) , the decline of nationalism as a relevant political alternative to liberalism. Faye offers a number of explications for this failure. They can be summarized as a lack of media “savvy”, romantic isolationism, minimization of catastrophe, cultural relativism and a lack of understanding of and worse, interest in, economics (Faye alone among spokesmen of GRECE had written a treatise on economics).

Faye’s response is to deviate from the consensus among the new right and to insist on European exceptionalism. He returns to what might be called a traditional belief of the radical right when he claims, as he does here, that European civilization is superior to others and that as a superior civilization it has a duty to resist the challenge of immigration in general and Islam in particular. Cultural and racial superiority was the premise (sometimes asserted, sometimes unspoken) of all movements of the twentieth and nineteenth centuries which sought to preserve or halt a decline in the domination of the white man over the political destiny of the globe.

European radical right movements after the Second World War focused their propaganda very much on the restoration of national prestige and glory and a rejection of immigrants and outsiders.  GRECE stressed from the beginning the importance of what it called “the right to be different” arguing less in terms of European superiority than in terms of European uniqueness, Europe’s right to the nurture of its own identity and destiny. The great enemy was seen not so much as military or political threats as such, as the forces which sought to attenuate, reduce, trivialize and ultimately abolish differences. The great enemy in this respect was neither Islam nor communism but “the American way of Life,” the manifest destiny to reduce all peoples to consumers, whose sole struggles were ones of economic competition.

This developed in the course of time within GRECE into a position of ethnopluralism, which Faye and others subsequently denounced as cultural relativism. Simply put, it is the argument that all cultures are worthy of respect within their own terms and no culture is inherently superior to another. The obvious critique of such a position is that it ultimately disarms all willingness to disallow, challenge or oppose other cultures. Opposition even in its politest non-military form, can only be conducted on the premise that in some way one is superior or equipped with superior arguments or in the area of culture and religion, possesses a truer, superior culture and religion and one thereby and therewith seeks an opponent’s defeat.

There is another aspect — that of economic survival. A major criticism which Faye has of GRECE is that it ignores or glosses over demographic and economic warfare against the European. Faye argues that at a time of emergency, when Europe is threatened with being overwhelmed by non-Europeans whose demographics are reducing the significance of the European by the hour, it is a form of suicide to indulge in culturally relativist reflections and debate.

Faye spends no time in fleshing out his arguments about superiority and in what respects the European is “superior.” This is a pity because it would provide the book with a stabilizing effect. As it is, Faye assures us that he believes the European is superior and rushes on the next point. What Faye implies although I did not find it in this book explicitly stated, is that when we talk about the right of a people not only to an identity but to a destiny, there is likely to be a conflict between the destiny of a people compelled to expand and conquer and the right of another (conquered) people to an identity.

The notion of a “right” be it to identity or destiny is problematic: where does our “right” come from? A Nietzschean, as Faye claims to be, can answer this question. It could be baldly stated as the right to survival — the impulse of nature which all beings have the “right” to practice. Rights to be different are likely to conflict with the rights of others to be different. The right to conflict is therefore the right to survival of identity and it is Faye’s point that such a right can only be preserved by those who actively engage in the politics (as all politics in Faye’s view must be) of conflict. A defense of the identity of the European necessitates entering into a state of conflict with the prevailing hegemony.

Faye candidly states that he made the same mistake as other GRECE members in the expression of cultural relativism and an accompanying primary and fundamental anti-Americanism which took precedence over the ethnic question and the challenge of non-white immigration to Europe, (and presumably, the decline in relative numbers and influence of the Caucasian in North America). The “ethnopluralist” approach is exemplified by Alain de Benoist’s Europe-Tiers Monde: Même Combat where de Benoist argues that Europe and the Third World (even the term seems a little outdated today) are natural allies against the American and Soviet ways of life. Faye stresses that GRECE (and he willingly includes himself here) ignored the reality of the Islamic threat and that ethnopluralism paved the way for an inactive, “head in the sand” response to the long term significance of massive Mohammedan immigration into Europe.

Faye’s stress on the superiority of Europe in place of the right of Europeans to be different indeed avoids the danger of degenerating into an ineffective and compromising inactive pluralism. On the other hand, it shifts the focus of intent significantly towards a provocative, inevitably conflict laden project which is dear to Faye: the Eurasian Imperium. Faye is for better or for worse an imperialist. His vision of the future as outlined in this book is one of a vast Eurasian bloc, stretching from Lisbon to Vladivostok.

The implied direction, never explicitly stated of the archeofuturist project, is combat and conquest in a world divided into major power blocs jockeying for position. “Like in the Middle Ages or Antiquity, the future requires us to envisage the Earth as structured in vast, quasi-imperial unity in mutual conflict or cooperation.” (p. 77). Seen in this light, Faye’s admiration for atomic power implied in this work (and more explicitly indicated elsewhere, dramatically in his comic book Notre avant guerre, where he gleefully depicts a degenerate Europe being destroyed in mushroom clouds ) and futuristic technology in general is the ghost in the machine of Faye’s project.

However, unlike most modernizers, Faye does not duck the dilemma of reconciling a world of modern technology with a world of tradition, be it racial, political or other. How does one reconcile advanced technology and its implications with the preservation of continuity with the past? Faye faces this problem head on and if his solution is seems questionable and Utopian, he deserves the credit of highlighting the dilemma. Practically all radical rightists of whatever hue, fail to address the issue at all. Faye’s solution is what he calls “archeofuturism” the title of his book and the project to which he believes European revolutionaries (and Faye believes we must be revolutionaries to save European civilization and not conservatives) the assimilation of the future with the past, building a future not as modern or post modern but archeo-modern, a modernism acutely aware of and with its roots in a deep and profound past.

There will be a small elite of rulers with access to the highest forms of modern technology while the majority of less gifted will make do with crude forms of technical accomplishment-a completely two tier society in fact. This may sound familiar and not perhaps pleasantly so. It is this reviewer’s belief, one shared by many, that the ultimate aim of the ruling elite is the same: the division of mankind into two groups-the elite and the great majority of outsiders who no longer have a say in how public affairs are administered. This seems difficult to reconcile with Faye’s expressed support for populist initiatives. Be that as it may, this writer’s strength is his ability to fire the right questions rather than provide well prepared answers.

The “post catastrophic” world will be one, Faye believes, divided between the futuristic achievements of an elite and the archaic conditions and status of the majority, it will be archeofuturistic. Before we examine this idea more closely, it is worth taking a moment to consider the notions of growth and progress which Faye dismisses as overhauled. His chapter revealingly entitled “For a Two-Tier World Economy” opens with the bald assertion: “Progress” is clearly a dying idea, even if economic growth may be continuing”.

Anti-Growth

Faye’s rejection of what he calls “the paradigm of economic development” is simple:

An intellectual revolution is taking place: people are starting to perceive, without daring to openly state it, that the old paradigm according to which the life of humanity on both an individual and collective level is getting better and better every day thanks to science, the spread of democracy and egalitarian emancipation is quite simply false. . . . Today, the perverse effects of mass technology are starting to make themselves felt: new resistant viruses, the contamination of industrially produced food, shortage of land and a downturn in world agricultural production, rapid and widespread environmental degradation, the development of weapons of mass destruction in addition to the atomic bomb-not to mention that technology is entering its Baroque age. (pp. 162–63).

The last comment excepted (which is pure Spengler), this writing must strike the impartial reader as familiar. It is a fairly good example of the pessimism of environmentalist writers in general and it has been said many times before. Faye knows or should know, that there are very many people who are deeply aware of the heavy price which we are paying for making Progress our Baal. Faye is entirely right in my opinion, as thousands of others before him have been right, to question the cost but anyone expecting Faye to so much as nod with respect in the direction of the many organizations, groups, campaigns and initiatives to reverse this trend, will be disappointed.

On the contrary, Faye contemptuously dismisses the French Green movement in these words, “the political platform of the Green movement contain no real environmentalist suggestions, such as the transport of lorries by train instead of on highways, the creation of non-polluting cars (electric cars, LPG, etc.) or the fight against urban sprawl into natural habitats, liquid manure leaks, ground water contamination, the depletion of European fish stocks, chemical food additives, the overuse of insecticides and pesticides, etc. Each time I have tried to bring these specific and concrete issues up with a representative of the Greens, I got the impression that he was not really interested in them or that he had not really studied them” (p. 145). It is not clear (possibly a fault of the translator’s) whether Faye is referring to one or several spokesmen. Be that as it may, it is not my experience at all that environmentalists are not interested in these issues.

Futurism

Faye gives the impression throughout the book less of someone proposing ideas in a book for a wide readership as enjoying a discussion with someone who was with him in the days of GRECE over a “ballon de rouge” in a Paris café. Despite his provincialism, Faye has a sound instinct for homing in on some of the genuinely important issues of our time and viewing them in a global perspective, even when (and this is often the case here) his global perspective is obscured by the incidental historical luggage which weighs his book down. The reader should not be deterred by the book’s incidental references from letting Faye lead to key issues of our time and demanding our response to core questions.

The greatest quality of this book is that it gives a voice to the growing sense of frustration that is felt among persons form all walks of life that we are living in a transitory period, that the “end of history” is an utter illusion and that old structures are insufficient to contain the force of history. Faye cites the unlikely figure of Peter Mandelson as an “archeofuturist without knowing it” as someone who has recognized that democracy as we know it from the Mother of Parliaments is tired and no longer able to cope with the challenges which European man and indeed humankind is facing.

Faye’s examination of the real issues behind the palaver of most contemporary politicians is refreshing. Here is a taste:

The new societies of the future will finally abolish the aberrant egalitarian mechanism we have now, whereby everyone aspires to become an officer or a cadre or a diplomat, even though all evidence suggests that most people do not have the skills to fulfill those roles. This model engenders widespread frustration, failure and resentment. The societies that will be vivified by increasingly sophisticated technologies, in contrast, will ask for a return to the archaic and inegalitarian and hierarchical norms, whereby a competent and meritocratic minority is rigorously selected to take on leading assignments.

Those who perform subordinate functions in these inegalitarian societies will not feel frustrated: their dignity will not be called into question, for they will accept their own condition as something useful within the organic community-finally freed from the individualistic hubris of modernity, which implicitly and deceptively states that each person can become a scientist or a price.

“Individualistic hubris” indeed sums up for this reviewer one of the great malaises of our time: the exaggerated importance which mediocre individuals attach to their own boring lives. Faye at his best is very good indeed.

For all its failings this book is a valuable contribution to the growing awareness of persons of European descent of their time of crisis. It  provides a highly readable and often acute observations about what Faye stresses are the real issues of our time but the question nags steadily: to what extent has Faye provided a strategy for Europeans in the face of those issues? The answer is that there is no strategy, unless by “strategy” we mean a positioning (for example in favor of European federalism vis-à-vis reactionary nationalism or friendly competitiveness with the United States rather than blanket hostility to the American way of life).

Perhaps someone much younger than either Faye or this reviewer will read this book and know that they are able to provide that response. In that case, this book will have shown itself to be of the past and the future, in a word archeofuturistic.

Source: http://www.amerika.org/texts/archeofuturism-by-guillaume-...

mercredi, 19 janvier 2011

Global Demos: Critical analysis of global democracies

 

Jure G. Vujić :

 

Global Demos: Crit­i­cal analy­sis of global democracies

 

Ex: http://www.new-antaios.net/

„Memoire-speech“ of Jure Vujic, at the inter­na­tional sci­en­tific Con­fer­ence of The Polit­i­cal sci­ence research cen­tre (Zagreb): „Euro­pean Union and Global Democ­racy“, Zagreb, May 29, 2008. Hotel Dora, Dori­jan Hall.

 

 

globalization.jpgJure Vujić,avo­cat,  diplomé de droit à la Fac­ulté de droit d’Assas ParisII, est un géopoliti­cien et écrivain franco-croate. Il est diplomé de la Haute Ecole de Guerre „Ban Josip Jelačić“ des Forces Armées Croates et de l’Academie diplo­ma­tique croate ou il donne des con­férences reg­ulières en géopoli­tique et géos­tratégie. Il est l’auteur des livres suiv­ants: „Frag­ments de la pen­sée géopoli­tique“ ( Zagreb, éditions ITG),“La Croatie et la Méditerrannée-aspects géopoli­tiques“( éditions de l’Académie diplo­ma­tique du Min­istère des Affaires Etrangères et des inté­gra­tions européennes de la République de Croatie) „Le ter­ror­isme intellectuel-Bréviaire héré­tique“ ( Zagreb, éditions Hasan­be­govic), „Place Maréchal Tito“-Mythes et réal­ités du tito­isme“ ( Zagreb, éditions Uzdan­ica), „Anam­nèses et tran­sits“ ( Zagreb-Bruxelles, éditions NSE), „Nord-Sud l’honneur du vide“ ( Zagreb-Bruxelles, éditions NSE), „Eloge de l’esquive“ ( Zagreb, éditions Ceres), „Le silence des anges– Apoc­ryphe du gen­erač Ante Gotov­ina“( Zagreb 2009.). Il est égale­ment l’auteur d’une cen­taine d’articles en philoso­phie, poli­tolo­gie, géopoli­tique et géos­tratégie. Il col­la­bore avec le Cen­tre d’Etudes Poli­tologiques de Zagreb.

 

The non-existent “global demos”

 

As an intro­duc­tion, i’d like to refer you to the title of the book by Pierre Rosan­val­lon “le peu­ple introu­vable”, the non exis­tent peo­ple, to affirm that “just as global peo­ple is non exis­tent – so is global democ­racy non-existent.” from its ancient ori­gin up to now democ­racy, as polit­i­cal order, has always been estab­lished in a lim­ited ter­ri­tory or com­mu­nity, as Greek polis was before and as national state is in the mod­ern age of lib­eral democ­racy. In the West­phalian inter­na­tional sys­tem, democ­racy exists when peo­ple group them­selves as dis­tinct nations liv­ing in dis­crete ter­ri­to­ries ruled by sov­er­eign states Lib­eral democ­ra­cies also have mul­ti­ple polit­i­cal par­ties par­tic­i­pat­ing in ‘free and fair’ com­pet­i­tive elec­tions, an inde­pen­dent mass media, edu­cated cit­i­zens, and the rule of law. Glob­al­iza­tion, how­ever, has pro­moted non-national, i.e. supra-national insti­tu­tions and com­mu­ni­ties with trans­bor­der mutual rela­tions. Glob­al­ity has tran­scended ter­ri­tory and  state sov­er­eignty. Supras­tate democ­racy of regional and transworld regimes has shown many demo­c­ra­tic deficits, as well. EU and UN are more bureau­cratic than demo­c­ra­tic insti­tu­tions. On the other hand, glob­al­iza­tion has opened greater space for demo­c­ra­tic activ­ity out­side pub­lic gov­er­nance insti­tu­tion through dif­fer­ent unof­fi­cial chan­nels, such as global mar­ket­place, global com­mu­ni­ca­tions, and global civil soci­ety.[1] Glob­al­iza­tion erodes the abil­ity of nation-states to exer­cise the effec­tive con­trol over the polit­i­cal agenda; glob­al­iza­tion elim­i­nates the social cor­rec­tives to the mar­ket econ­omy. States are los­ing their con­trol over:  finan­cial flows and transna­tional orga­ni­za­tion of pro­duc­tion, and infor­ma­tion flows,

Over the last years or so, ‘global gov­er­nance’ has emerged as a (neo-)liberal research agenda in inter­na­tional rela­tions the­ory. Global gov­er­nance refers to the way in which global affairs are man­aged, but Crit­ics argue that global gov­er­nance mech­a­nisms sup­port the neo-liberal ide­ol­ogy of glob­al­iza­tion and reduce the role of the state.

Today we see a new phe­nomen, gov­ern­ment by “Medi­acracy” as a new form of gov­ern­ment, dom­i­nated by mass media  .Spec­tacl soci­ete becomes the global spec­ta­cle soci­ety and global videosfere where the realty dis­olve in global sim­u­lakrum of Bau­drillard. Haber­mas named this fenomen „social refeudalisation“.

The global „lab­o­rat thought“.

Within this con­text and accord­ing to Haber­mas[2]. the EU should evolve towards “Euro­pean nation states” whose objec­tive is to serve as a sep­a­rate geopo­lit­i­cal block and a bal­ance vs. the Amer­i­can super­power describe by Haber­mas as a “vul­gar super­power.” Haber­mas devel­ops a con­cept of “euro– patri­o­tism,” which would later be renamed and refor­mu­lated through the polit­i­cal con­cept of “con­sti­tu­tional patri­o­tism” — a fol­low up to civil soci­ety exam­ined by Dolf Stern­berger and Han­nah Arendt. This polit­i­cal con­cept implies the revival of demo­c­ra­tic prin­ci­ples as well as post-national forms of “demo­c­ra­tic loyalty.”

How­ever, even Haber­mas’ con­cept of “con­sti­tu­tional patri­o­tism” is of a con­struc­tivist nature precisely because it endorses the idea of polit­i­cal affil­i­a­tion based on abstract eth­i­cal and con­sti­tu­tional prin­ci­ples and not rooted in the organic her­itage cou­pled with his­tor­i­cal and national expe­ri­ences of dif­fer­ent national cul­tures and tra­di­tions. Haber­mas’ con­struc­tivist thought, as well as the pre­ced­ing con­struc­tivist thought of Socrates and Rousseau, rep­re­sent the exper­i­men­tal side of post­moder­nity of a new “thought lab­o­ra­tory.” Julien Benda, very much in the foot­steps of this thought lab­o­ra­tory, dreamt of a united Europe along the lines of exclu­sively ratio­nal and mech­a­nis­tic prin­ci­ples. In the global “lab­o­ra­tory”, the trend of hybrid iden­tity, “ready­mad iden­tity” expresses the global pro­ces of „de-culturisation“.

 

National „Eros“ against „Global Thanatos“: search­ing post­mod­ern Appolonian

impe­ri­al­ity

 

Haber­mas insisted that Euro­peans denounce and renounce on every aspect of human pas­sion. The cleav­age between “supra­na­tional rea­son” and national pas­sion is often a sub­ject of debate regard­ing the issue of the polit­i­cal con­struc­tion of Europe. Accord­ing to Joseph Wal­ter ” the national  implies the fig­ure of Eros; it is rooted in a pre-modern world and it goes directly to the heart. It manip­u­lates emo­tions and exalts the roman­tic vision of social and cre­ative organ­i­sa­tions, which are able to match the exis­ten­tial quest located in a given time­frame and space.”  Supra­na­tional, by con­trast, is a syn­onym of “civ­i­liza­tion.” It rep­re­sents the post­mod­ern fig­ure requir­ing rea­son  in neo­clas­si­cal human­ism aim­ing at demys­ti­fy­ing Eros.

By using Oswald Spen­gler, it must be pointed to the dichotomy between cul­ture and civ­i­liza­tion. Cul­ture is an organic and dif­fer­en­ti­ated social cat­e­gory and also of a local and well-defined nature. We are, how­ever, wit­ness­ing the Niet­zschean phe­nom­e­non of trans­val­u­a­tion of all val­ues, whereby glob­al­ism acquires the sta­tus of civ­i­liza­tion and is thus designed to tame the unpre­dictable and archaic ves­tigis of prim­i­tive cul­tures. We are miles away from the  dialec­tics of Apollo and from the Dionysian con­struc­tive chaos. Instead, glob­al­ism becomes part o the decon­struc­tive chaos manip­u­lat­ing peo­ples and liv­ing cul­tures as if they were made out of clay.  The absence of the Apol­lon­ian pole and fig­ures as mod­els of light­ness and mod­esty, as well as the  absence of the ecu­meni­cal nature of imperium, lead a demos to accept social frag­men­ta­tion and dis­solv­ing forces of Eros, which are melt­ing down into a uni­formed and undif­fer­en­ti­ated process o of glob­al­is­tic and con­struc­tivist demos. Haber­mas, as an arche­type of a super ratio­nal­ist man, no longer believes in his own post-nationalist visions. Along with Der­rida he empha­sizes the “power of emo­tions,” as for instance dur­ing the call for mobil­i­sa­tion against war.

In the same vein, the utopia of “con­sti­tu­tional patri­o­tism” does not con­tribute to the sta­bil­ity of Europe’s polit­i­cal iden­tity. Like­wise, cit­i­zens’ sol­i­dar­ity can­not be based solely on the prin­ci­ples of a sin­gle moral­is­tic and uni­ver­sal­is­tic belief.  With­out a com­monly defined firm eth­nic, reli­gious and cul­tural iden­tity, it is impos­si­ble to build up a strong Europe both from the inside and from the outside.

The global geo­con­struc­tivism and Demo­c­ra­tic expansionism

This opin­ion comes partly from its Enlight­en­ment lib­eral her­itage of ratio­nal­ist chal­lenge to reli­gious and com­mu­nal sol­i­dar­i­ties as ‘back­ward’. It is rein­forced pow­er­fully by the image of “bad nation­al­ism. So global democ­racy is not only a sys­tem of gov­ern­ment, it is a war against anti-democracy. Demo­c­ra­tic expan­sion­ism in the name of monoteism of mar­ket implies, in global per­spec­tive, a plan­e­tary civil war between democ­rats and anti-democrats. When the democ­rats have won, the planet will be demo­c­ra­tic: from their per­spec­tive a war of con­quest is logical.

Global ter­ri­tory is being for­mat­ted by regional and inter­na­tional pow­ers into sec­tors such as “dis­obe­di­ent coun­tries” – war machin­ery zones, “amiss countries-rogues states” – para-governmental zones and “emerg­ing mar­kets” – global finan­cial machin­ery and those which R. Cooper enti­tled “pre­his­toric chaotic zones” in which post­mod­ern pow­ers are obliged to inter­vene to estab­lish peace and sta­bil­ity. Such exper­i­men­tal geo­con­struc­tivism encoun­ters cer­tain reli­gious, national, eth­ni­cal or other forms of resis­tance due to its mechanistic-constructivistic nature which does not con­sider organic-historical con­tin­u­ums and the cat­e­gories of time and space.

As gen­eral wis­dom has it, democ­racy requires a demos, a group of indi­vid­u­als who have enough in com­mon to want to and to be able to decide col­lec­tively about their own affairs. there is no Euro­pean or global demos but only sep­a­rate national demoi. This is a pre­con­di­tion for what rep­re­sen­ta­tive democ­racy is all about, accept­ing to be in a minor­ity one day, expect­ing to be part of a major­ity another. National sov­er­eignty must be defended not as a reac­tionary reflex but as the ulti­mate guar­an­tee of democ­racy itself.

The abstract and con­struc­tivist sep­a­ra­tion between demos and eth­nos does not allow the process of sin­gling out iden­tity  which would at the same time enve­lope both the national and com­mu­ni­tar­ian iden­tity and which would enable the growth of post-nationalist  polit­i­cal cul­tures in Europe. This iden­tity would com­bine Herder’s culture-oriented d con­cept of national iden­tity  and Renan’s   civic and polit­i­cal con­cept of  national  iden­tity anchored in a “daily plebiscite.”  The entire his­tory of Europe demon­strates that Europe has only been able to affirm itself by reac­tive means i.e. by the “exter­nal enemy.” In some peri­ods this atti­tude of flam­ing “national Eros” per­mit­ted the defence of iden­tity of Europe. The reac­tu­al­i­sa­tion of Gumilev  con­cept of “pas­sion­ar­ity” is nec­es­sary to explained and pro­mote the vital energy and power of euro­pean demo­c­ra­tic and pop­u­lar  soul  in thee cur­rent state of biro­crat­i­cal Europe wich  described as deep struc­tural inertia.

Hor­i­zon­tal demoi-cracy and ver­ti­cal brusselisation

The legacy of the Euro­pean Eros is still alive toady, albeit in a latent form and fac­ing the growth and dom­i­na­tion of the liberal-capitalist global “Thanatos,” which in the wake of cul­tural and polit­i­cal uni­for­mity is caus­ing poverty and cre­at­ing cleav­ages between the South and the North, as well as cre­at­ing global pol­lu­tion and giv­ing birth to the cul­ture of death at plan­e­tary level. In an epoch when real eco­log­i­cal cat­a­stro­phes have become a real threat, when poverty and the dis­ap­pear­ance of rooted cul­tures and nations is under way, the preser­va­tion of “national and regional Eros” could have a role of a post– national maieu­tics in the for­ma­tion of the Euro­pean supra­na­tional iden­tity which would con­tain and encom­pass diverse Euro­pean “demos” (with­out uni­formed fusion) in order to pro­tect itself against the metas­ta­sis of the lib­eral and cap­i­tal­ist “Thanatos,”. Given the fact that in our mythol­ogy Eros remains a flip side of Thanatos, it is nec­es­sary to argue that the non-existent and fic­ti­tious global demos, designed for the for­ma­tion of demos and demoi-cracy, as e new matrix of the neo-imperial thought, must be for­mu­lated, accord­ing to Nico­laidis, along hor­i­zon­tal divi­sions of respon­si­bil­ity and sov­er­eignty of states and in stark oppo­si­tion to the ver­ti­cal “brus­seli­sa­tion” of nations-states. Such Euro­pean “demo-krateo” would be rooted in com­mon cul­tural iden­tity, mutual respect, peace­ful con­fronta­tion, and divi­sion of dif­fer­ent identities.

From the­o­log­i­cal state to global post-democracy
 

The cre­ation of the mod­ern world is based on sub­sti­tut­ing one type of foun­da­tion for another, mov­ing from a tran­scen­dent, magical-theological foun­da­tion to a ratio­nal, con­struc­tivist, imma­nent one.: Dispite the pro­ces of sec­u­lar­i­sa­tion of pol­i­tics,   the “reli­gious for­mula” – defined as the power of attrac­tion of “The divine One” or “The Immemo­r­ial One” – con­tin­ues to serve, in var­i­ous dis­guises, as a for­mal model. Lib­eral democracy’s [3]. Gauchet says that : “Three “lib­eral idols” – “progress”, “nation” and “sci­ence”, main­tain this “tran­si­tional con­cur­rence of oppo­sites”. But these three idols are based on beliefs, extend­ing the form of reli­gious belief with­out real­is­ing it. So this “happy coin­ci­dence” has a “hid­den dimen­sion that robs its agents of a cru­cial part of the his­tory they are liv­ing”: “The two sides of the coin are opposed, but at the same time, one side is shaped by the other – the reli­gious One”. the “cri­sis of lib­er­al­ism” is inevitable, as “the new idols will very quickly be hit by dis­be­lief ”: “this will be the fright­ful expe­ri­ence of the 20th century”

Niet­zsche is the first to proph­esy liberalism’s cri­sis: “What I relate is the his­tory of the next two cen­turies”, he wrote. Despite accel­er­at­ing the dethe­ol­o­gi­sa­tion of west­ern thought by pro­claim­ing that God is dead and shat­ter­ing the lib­eral idols by mak­ing him­self an apos­tle of inte­gral rel­a­tivism, he remains trou­bled by the “reli­gious for­mula”. “By dint of pos­i­tive espousal of the thirst for power and the eter­nal return, one still finds, after com­plete destruc­tura­tion, […] some­thing like The One and some­thing like a cos­mos” .Berg­son, Husserl and Hei­deg­ger would not escape this nos­tal­gia for pre-rational authen­tic­ity.
The arrival of the “organ­i­sa­tion age” lead­ing to the advent of a “world with­out mas­ters”. impe­ri­al­ist enter­prises are just “nar­cis­sis­tic con­struc­tions”, sym­bolic strate­gies to deal with the prob­lems of national iden­tity and col­lec­tive anx­i­ety. Marx called this lib­eral phas of capitalism’s “orgias­tic age”. The sep­a­ra­tion of civil soci­ety and State becomes inevitable: soci­eties, torn apart by the strug­gle of the vested inter­ests organ­is­ing them­selves against the State. This “dethe­ol­o­gi­sa­tion of his­tory”  is borne out not only in Sorel’s his­tor­i­cal cat­a­strophism but also in the cri­sis of tra­di­tion as an idea, the over­val­u­a­tion of an abso­lutised present ‚or again, by Tön­nies and Durkheim’s the­ory on the dis­ap­pear­ance of com­mu­nity ties in favour of con­trac­tual ones.
The turn of the XX. cen­tury State cer­tainly finds its learned the­o­rists in Jellinek, Esmein, Hau­riou or Carré de Mal­berg, who recog­nise the real­i­sa­tion of the mod­ern polit­i­cal order in the abstract, imper­sonal power of legislatorial-administrative struc­tures: the real sov­er­eignty lies with the for­mal insti­tu­tions of the State machin­ery and the civil ser­vice that assures its con­ti­nu­ity and effi­ciency. On the hori­zon of this “return of the enti­tled indi­vid­ual” is the out­line of a new indi­vid­u­al­ism (depicted by Ibsen, Georges Palante, Henry Michel), a “lib­er­tar­ian stance” that does not flow into any kind of col­lec­tive, and dras­ti­cally vio­lates the prin­ci­ple of “The One”. Glob­al­ism pro­motes sin­gle word model of con­struc­tivis­ti­cal unity ” ; unity of power, unity of the seen and unseen, unity of the social order, con­ti­nu­ity of the his­tor­i­cal order[4] .This pro­ces of cul­tural, social and polit­i­cal uni­formi­sa­tion called Désen­chante­ment du monde, in which the fas­ci­na­tion with unity was linked with reli­gious belief only in cer­tain of its belated forms, attrib­uted to con­t­a­m­i­na­tion of the uni­fy­ing ethos of logos. “

The con­tem­po­rary thought con­fronted a quite new sit­u­a­tion: the near com­plete eclipse of the polit­i­cal, as a mul­ti­far­i­ous tra­di­tion of civic dis­course, by a new order—the pseudo-consensual man­age­ment of mass soci­ety. of apa­thetic democracies—which he later more aptly dubbed post-democracies—into sharper focus. Post-democracy des­ig­nate a state  con­ducted by demo­c­ra­tic rules, but whose appli­ca­tion is pro­gres­sively lim­ited. The Eng­lish con­ser­v­a­tive jour­nal­ist Peter Oborne  pre­sented a doc­u­men­tary of the 2005 gen­eral elec­tion, argu­ing that it had become anti-democratic because it tar­geted a num­ber of float­ing vot­ers with a nar­row agenda.

This pro­ces of degra­da­tion of democ­racy rules explains the trans­for­ma­tion of national democ­ra­ties of XX. Cen­tury buil on the model of sovre­ingn nation-states to a run­ning evo­lu­tion within the mar­ket democ­ra­cies called neolib­eral post-democracy dur­ing the 21st cen­tury. This pro­ces od democ­racy denat­u­ra­tion calls atten­tion on recog­nised democ­ra­cies that are los­ing some of their foun­da­tions do evolve toward an Aris­to­cratic regime. Our global Post-democracy [5].are char­ac­terised with: non fair rep­re­sen­ta­tive elec­tions and with the impos­si­bil­ity to get bal­anced real debates. Hereby, while thus con­tra­dict­ing plu­ral­ist assump­tions, it seems to be an accepted pre­sump­tion, that the com­mon good were some­thing to be deter­mined objec­tively and that con­flicts of inter­est were not to be han­dled within demo­c­ra­tic processes but instead within admin­is­tra­tive proceedings

 

CONCLUSION

Democ­racy must now not only change its insti­tu­tional form, it must also rethink its polit­i­cal subject.In this way, the euro­pean demos most to be strans­formed on respon­si­ble demoi with par­tic­u­lary vizion of world , weltan­shang of incluzive democ­racy which. con­sti­tutes the high­est form of Democ­racy since it secures the insti­tu­tional pre­con­di­tions for polit­i­cal (or direct) democ­racy, eco­nomic democ­racy, democ­racy in the social realm and eco­log­i­cal democ­racy.  More specif­i­cally, a Con­sti­tu­tion cel­e­brat­ing the EU as demoi-cracy requires three con­sec­u­tive mouves away from main­stream Con­sti­tu­tional think­ing. First from com­mon iden­tity to the shar­ing of plural iden­ti­ties; sec­ondly from a com­mu­nity of iden­tity to

a com­mu­nity of geopo­lit­i­cal  projects founded on great con­ti­nen­tal spaces; and finally from multi-level gov­er­nance to multi-centred and mul­ti­po­lar governance.

Let me fin­ish by con­grat­u­lat­ing CPI on organ­is­ing this con­fer­ence, which pro­vided a forum for exchang­ing views on a fun­da­men­tal topic such as “EU and global democracy”.

BIBLIOGRAPHY

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Arti­cles:

 

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- Jan-Werner Muller „Europe: Le pou­voir des sen­ti­ments: l’euro-patriotsime en ques­tion, La Republique des Idees, 2008.

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Review: Mar­cel Gauchet, L’Avènement de la démoc­ra­tie, Paris, Gal­li­mard, “Bib­lio­thèque des sci­ences humaines”, 2007 ; vol. I, La Révo­lu­tion mod­erne, 207 p., 18,50 € et vol. II, La Crise du libéral­isme.


[1] E. Stiglitz, La grande desil­lu­sion, Paris Fayard, 2002.

 

[2] J. Haber­mas, Apres l’Etat-nation, Paris Fayard, 2000.

[3] Mar­cel Gauchet, L’Avènement de la démoc­ra­tie, Paris, Gal­li­mard, “Bib­lio­thèque des sci­ences humaines”, 2007

[4] Ibid., str.52–55

[5] Post-democracy, Colin Crouch, First Edi­tion, 2004.

mercredi, 05 janvier 2011

Julien Freund devant l'ennemi

ARCHIVES – 1980

 

Jean-François GAUTIER :

Julien Freund devant l’ennemi

 

« Pas de politique sans ennemi », dit le Prof. Julien Freund. Il analyse la décadence de l’Europe : ennemie d’elle-même, elle s’oppose aux valeurs qui l’ont forgée.

 

freund.jpg« Un âge historique, celui de la Renaissance, est en train de se désagréger. L’Europe est désormais impuissante à assumer le destin qui fut le sien durant des siècles. Nous assistons à la fin de la première civilisation de caractère universel que le monde ait connu ».

 

Sous le titre « La fin de la Renaissance », M. Julien Freund vient de publier un livre qu’il aurait pu tout aussi bien intituler « La décadence européenne ». L’expression revient souvent sous sa plume au fil des pages. Mais cet ancien professeur de la faculté de Strasbourg ne prêche pas le désarroi. Son livre ne veut être qu’un constat. Il est aussi un plaidoyer pour le « vieil esprit » européen.

 

Cheveux blancs coiffés en brosse, lunettes d’écaille, lèvres fines et large sourire, M. Freund est l’un des maîtres de la philosophie politique en Europe. Bien loin des modes de l’intelligentsia marxiste. Dans le restaurant des grands boulevards où je le rencontre, il dénombre en riant les éditeurs qui ont refusé son livre. Théoricien de la politique, il ne s’étonne pas d’avoir quelques ennemis.

 

C’est une notion capitale, me dit-il. Sans le sens de l’ennemi, il n’y a plus d’amis, plus d’alliances, et plus de politique.

 

La carrière de M. Freund a commencé bien loin des bibliothèques universitaires. Socialisant, il avait rejoint dès janvier 1941 le réseau « Libération ». Quelques mois d’opérations et c’est l’emprisonnement pour deux ans.

 

Une expérience extraordinaire m’assure-t-il. Dans la cellule de droite, Emmanuel Mounier, abîmé en prières, récitait son rosaire. A gauche, Jean Nocher rimait des poèmes érotiques sur Paname. Et moi, au milieu, je relisais Spinoza.

 

      Quels étaient les contacts avec le « personnaliste » Mounier ?

 

 Très réduits. Il aimait les discussions sérieuses mais il manquait de rigueur. Je lui ai demandé un jour des précisions sur ses idées en économie. La réponse a été nébuleuse, il m’a avoué qu’il en parlait parce qu’il fallait en parler.

 

A la Libération, M.  Freund est conseiller municipal de Sarrebourg, secrétaire départemental de l’UDSR, rédacteur de L’Avenir lorrain et professeur de lycée. En 1947, il abandonne du jour au lendemain toute activité politique.

 

La déception de la IV° République a été immense, explique-t-il. En prison, je rêvais une politique. Je me suis rendu compte qu’elle était inapplicable. Il fallait penser autre chose.

 

Après l’agrégation de philosophie, en 1949, M. Freund commence une thèse sur les problèmes politiques. Il emprunte une pile de livres à l’université de Strasbourg. Parmi  ceux-ci, La notion du politique du théoricien allemand Carl Schmitt.

 

Un ouvrage sidérant, dit le Prof. Freund (il en préfacera vingt-deux ans plus tard la traduction française chez Calmann-Lévy). Ce fut une révolution, un enthousiasme extraordinaire.

 

Trente ans après, il revit encore son « illumination » d’étudiant. Comme Descartes découvrant son « cogito », il avait trouvé l’idée maîtresse de sa pensée dans la distinction de l’ami et de l’ennemi que Schmitt met à la base de toute politique.

 

Il oublie la salle de restaurant où nous nous trouvons, précise tel aspect de sa pensée, s’aide d’un geste rapide, comme s’il saisissait une idée dans l’air.

 

Je n’avais en tête que « l’adversaire », celui que l’on souhaite toujours récupérer. Schmitt m’apprenait que toute l’impuissance de la politique résidait là.

 

      A qui en avez-vous parlé ?

 

A Paul Ricoeur, le futur doyen de Nanterre, qui enseignait alors à Strasbourg. Je croyais que Schmitt était mort. Ricoeur m’a dit : « Il vit toujours en Allemagne et c’était un nazi ». Ce fut une douche glacée.

 

Comment le résistant socialiste pouvait-il retrouver sa propre pensée dans celle de son ennemi ? M. Freund a lu et relu l’ouvrage, « quarante fois en neuf ans », précise-t-il. En 1959, il écrit à Carl Schmitt, le rencontre à Colmar et devient son ami. Dans sa préface à La notion du politique, il notera plus tard : « On a pris l’habitude de juger son œuvre non pour elle-même mais d’après les fautes que l’on impute à l’homme (…). Parce que la sottise est très répandue, même en milieu intellectuel ».

 

La thèse de M. Freund a elle-même dérangé dans l’Université, à cause de l’un de ses présupposés fondamentaux : « Pas de politique sans ennemi ». Son premier directeur de travaux, Jean Hippolyte, spécialiste de Hegel et l’un des maîtres de la Sorbonne, refusa au nom du pacifisme de présider un jury de thèse sur un tel sujet. M. Freund trouva alors en Raymond Aron un nouveau « patron ».

 

En 1965, peu avant la soutenance, Aron me demanda si Hippolyte ne pouvait pas faire partie du jury. J’ai bien entendu accepté, en précisant qu’il n’était pas mauvais  d’avoir son ennemi en face de soi. Je crois qu’Aron l’a interprété comme une idée fixe.

 

      La réaction d’Hippolyte ?

 

Il est venu. Il a reconnu en pleine Sorbonne s’être trompé dans son premier jugement sur mon travail. Il a ajouté que, si j’avais eu raison dans mes conclusions sur la nature du politique, il ne lui restait plus qu’à cultiver son jardin.

 

      C’était honnête de sa part.

 

Je lui ai surtout répondu qu’il avait commis deux erreurs. La première, il l’avait reconnue. La seconde était de croire que la bienveillance supprime l’ennemi. Erreur grave, car vous pouvez manifester toute l’amitié que vous voudrez, ce n’est pas vous qui désignez l’ennemi, c’est lui qui vous désigne. Et il vous empêchera de cultiver votre jardin.

 

Hippolyte répondit : « Dans ce cas, il ne me reste que le suicide ».

 

Réponse typique d’un intellectuel pacifiste, commente M. Freund. Il préférait s’anéantir plutôt que de reconnaître la réalité.

 

M. Freund retrouve là l’un des thèmes de La fin de la Renaissance. Pour lui, la décadence de l’Europe a partie liée avec la haine de soi-même dont l’Occident fait preuve  dans ses relations complexées avec le tiers monde ; et au reniement de sa puissance, qui est le moteur de la diplomatie européenne.

 

M. Valéry Giscard d’Estaing souhaite, dans sa préface au livre de son ami Samuel Pisar (Transactions entre l’Est et l’Ouest, Dunod), « la mise en œuvre concrète de la coexistence sous la forme la plus pratique des relations humaines : le commerce ». Il ajoute, pour s’en féliciter : « La grandeur des relations commerciales est qu’il n’y a ni succès ni défaite ».

 

Giscard croit que le dialogue avec Brejnev suffit, me dit le Prof. Freund. Il n’a pas compris ce qu’est un ennemi. La politique n’est pas un problème de concordances de vues. Son enjeu  est vital au sens exact du terme : c’est votre vie  que l’ennemi menace.

 

      Qui le dit en Europe ?

 

Pas grand monde. Contrairement à ce que l’on croit, l’intellectualisation des problèmes est une forme de la décadence européenne. Elle perd tout sens de la stratégie, de la tactique sur le terrain. De Gaulle possédait ce sens-là, Adenauer aussi. Helmut Schmidt, que je connais bien, l’avait aussi. Mais Giscard l’a convaincu. Sans lui, il ne serait jamais allé à Moscou.

 

      Vous n’avez plus d’admirations politiques ?

 

Personne depuis De Gaulle. Mais Teng Hsiao-ping  m’impressionne. Le procès avec la veuve de Mao est un bouleversement. Teng a le sens du risque, et surtout des conséquences du risque. Avec un tel goût de l’aventure, il peut faire quelque chose.

 

La femme du dieu vivant au banc des accusés, Confucius réhabilité, tels seraient les leviers de M. Teng pour rouvrir l’aventure chinoise. Un passé limité aux péripéties du dieu vivant Mao, la Longue Marche s’épuisant depuis la révolution culturelle, il fallait faire remonter la mémoire en deçà pour débloquer l’avenir. M. Teng  pense-t-il à tout cela ? M. Freund ne prend pas le temps de détailler ses intuitions sur la stratégie chinoise.  

 

L’Europe, poursuit-il, c’était cela. Une manière de parier sur l’avenir sans rechercher d’abord un « consensus ». C’était aussi la ruse, une vertu maintenant discréditée. On la confond avec la perfidie, la bassesse ou la laideur morale. Mais que vous donne votre ennemi, si ce n’est l’intelligence de la ruse ? Sans elle, vous perdez.

 

M. Freund me dit avoir eu Tocqueville devant les yeux en écrivant son dernier livre et, à un moindre degré, Spengler. Il cite aussi Machiavel. Méditations sur les anciens ?

 

      Elle est indispensable, répond-il.

 

Les enseignants s’imaginent que de débrider l’imagination des enfants suffit à leur former l’intelligence. Ils oublient la mémoire, sans laquelle il n’y a plus ni passé ni avenir. Rappelez-vous Nietzsche : « L’avenir appartient à celui qui a la plus longue mémoire ». Tout cela commence avec l’histoire, la littérature, la récitation. Apprendre La Fontaine, c’est l’embryon de la mémoire nietzschéenne.

 

      Le terme « conservateur » est décrié. Vous le revendiquez ?

 

Conservateur, réactionnaire, tout ce que vous voulez. On me le dit parfois en forme d’insulte. L’important, Descartes l’a vu dans sa IV° méditation : dans toute création, il y a un phénomène de conservation. L’application pratique est évidente : celui qui est incapable de conserver ne crée plus rien.

 

      La leçon est-elle valable pour l’Europe ?

 

Plus que jamais. L’intelligentsia a perdu le sens de la méditation, de la pensée qui revient sur elle-même pour se reprendre. S’il y a encore des chances pour l’Europe, il faut d’abord les discerner selon le vieil esprit de la Renaissance. Notre histoire est celle de la conquête d’un espace. L’Europe ne peut pas se contrôler si elle ne contrôle d’abord son espace.

 

      Avec l’aide d’une couverture américaine ?

 

Là, il faut être précis. Les Russes ont hérité de l’esprit européen de la Renaissance. Ils ont le sentiment d’une aventure illimitée devant eux. A terme, cela signifie qu’ils veulent nous contrôler. Si nous n’avons pas les moyens de nous défendre seuls, une alliance est nécessaire.

 

      N’est-ce pas une dépendance ?

 

L’alliance n’est pas une subordination. Elle le devient si, en défendant l’Europe, nous nous donnons un rôle de couverture des avant-postes américains. Ce n’est pas le cas puisqu’il s’agit de « notre »  espace. Kissinger l’avait compris. Il avait une conception européenne des problèmes stratégiques. A cause de cela, les Européens étaient furieux contre lui. Alors qu’il a appris l’essentiel du Général De Gaulle.

 

Dehors, lorsque je quitte le Prof. Freund, il remet son béret, devenu un autre lui-même « depuis le jour où il a été interdit par les Allemands ». Il y a du collégien provocateur chez cet homme rieur et affable. Et une  terrible lucidité. Dans son livre, il est une question à laquelle il ne répond pas : « Les Européens, demande-t-il, seraient-ils capables de mener une guerre ? ».

 

Jean-François GAUTIER.

(ex : « Valeurs actuelles », 22 décembre 1980).

 

dimanche, 02 janvier 2011

Archives sur Weimar - Le national-bolchevisme allemand (1918-1932)

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Archives sur Weimar

Présentation: Nous donnons ici un des rares articles de Karl Otto Paetel publié en français (on connait notamment de lui l’article « Typologie de l’Ordre Noir» paru dans la revue Diogène, n°3, en 1953).

Ex: http://etpuisapres.hautetfort.com/

Pourquoi reproduire cet article sur un site consacré à Hans Fallada ? Parce qu’il traite d’un aspect peu connu du foisonnement politique de l’Allemagne de Weimar et que ce contexte politique a servi de toile de fond aux romans de Hans Fallada. L’article de K.O. Paetel évoque notamment le mouvement paysan du Schleswig-Holstein, auquel Hans Fallada fut mêlé de près en suivant le procès de Neumünster pour le compte d’un journal local le General-Anzeiger (en automne 1929) puis en en tirant deux romans. L’un directement inspiré de la « révolte » (Levée de Fourches) et un autre inspiré également de ses expériences de régisseur (Loup parmi les loups I ; Loup parmi les loups II – La campagne en feu).

Quant à l’article de K.O. Paetel, il est très certainement incomplet comme il le signale lui-même, mais a le mérite de présenter les grandes lignes de ce courant politique. Le seul léger reproche que l’on pourrait faire c’est d’élargir le mouvement national-bolcheviste stricto sensu (Fritz Wolffheim, Heinrich Laufenberg, Ernst Niekisch) aux nationaux-révolutionnaires. Tous les nationaux-révolutionnaires ne furent pas nécessairement des « nationaux-bolcheviques » loin s’en faut, même si nombre d’entre eux flirtèrent avec les idées de « gauche », de « socialisme », de « communisme » voire de « bolchevisme ».

Mais tout ceci appartient à l’histoire désormais et cet article est comme un trait de lumière nouveau apporté sur une époque hautement complexe.

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nb : toutes les notes (1 à 7) sont de la rédaction du weblog "Et puis après ?"

 

LE NATIONAL-BOLCHEVISME ALLEMAND DE 1918 A 1932

 

par Karl O. PAETEL [i]

 

A l’heure actuelle, lorsqu’en Allemagne occidentale on qualifie de « nationales-bolchevistes » des tendances politiques, des groupes ou des particuliers (avec l’intention de faire de la polémique et une nuance péjorative, comme pour « trotzkyste » ou « titiste »), on entend par là que ces tendances, ces groupes ou ces personnes sont orientés vers l’Est et pro-russes, ou du moins sympathisants. Mais cette définition ne suffit pas à caractériser le mouvement qui, entre la fin de la première guerre mondiale et la prise du pouvoir par Hitler, attira l’attention des sphères théorético-politiques, à l’« extrême-droite » comme à l’« extrême-gauche », de bien des façons et sous le même nom.

niekisch.jpgDe deux côtés, le mouvement était, au fond, basé sur des motifs de politique intérieure : les socialistes révolutionnaires se ralliaient à l’idée de nation, parce qu’ils y voyaient le seul moyen de mettre le socialisme en pratique. Les nationalistes convaincus tendaient vers la « gauche », parce qu’à leur avis, les destinées de la nation ne pouvaient être remises en toute confiance qu’à une classe dirigeante nouvelle. Gauche et droite se rapprochaient dans la haine commune de tout ce qu’elles appelaient l’impérialisme occidental, dont le principal symbole était le traité de Versailles et le garant, le « système de Weimar ». Aussi était-il presque inévitable qu’on se tournât, en politique extérieure, vers la Russie, qui n’avait pas pris part au traité de Versailles. Les milieux « nationaux » le firent avec l’intention de poursuivre la politique du baron von Stein, de la convention de Tauroggen, et enfin celle « réassurance » de Bismarck ; la gauche dissidente, elle, en dépit des critiques souvent violentes qu’elle formulait contre la politique communiste internationale de l’Union Soviétique, restait convaincue du caractère socialiste, donc apparenté à elle, de l’URSS, et en attendait la formation d’un front commun contre l’Ouest bourgeois et capitaliste.

Le national-bolchevisme comptait donc dans ses rangs des nationalistes et des socialistes allemands qui, introduisant dans la politique allemande une intransigeance sociale-révolutionnaire croissante, tablaient sur l’aide de la Russie pour parvenir à leurs fins.

 

Le « national-communisme » de Hambourg

Le national-bolchevisme allemand apparaît pour la première fois dans une discussion entre certaines fractions du mouvement ouvrier révolutionnaire. La chance lui a souri pour la première fois le 6 novembre 1918 et le 28 juin 1919. C’est le 6 novembre 1918 que, dans le « Champ du Saint-Esprit » près de Hambourg, Fritz Wolffheim appela le peuple à la « révolution allemande » qui, sous l’égide du drapeau rouge, continuerait la lutte contre l’« impérialisme occidental ». Le 28 juin 1919 fut signé le traité de Versailles que Scheidemann et Brockdorff-Rantzau avaient refusé de parapher.

Fritz Wolffheim et Heinrich Laufenberg, président du Conseil d’ouvriers et de soldats de Hambourg, menaient la lutte contre les mots d’ordre défaitistes du Groupe Spartacus et prêchaient la guerre « jacobine » de l’Allemagne socialiste contre le Diktat de paix. En sa qualité de chef de la délégation de paix, le ministre allemand des Affaires étrangères, le comte Brockdorff-Rantzau, avait eu l’intention de prononcer devant l’Assemblée Nationale allemande un discours d’avertissement, soulignant qu’une « paix injuste » renforcerait l’opposition révolutionnaire au capitalisme et à l’impérialisme, et préparerait ainsi une explosion sociale-révolutionnaire. Le discours ne fut pas prononcé, et sa teneur ne fut publiée que plus tard.

Lorsque le corps-franc du général von Lettow-Vorbeck fit son entrée à Hambourg, on adressa au chef du corps-franc un appel lui demandant de se joindre aux ouvriers révolutionnaires pour participer à cette lutte contre une « paix injuste ». Une Association libre pour l’étude du communisme allemand, fondée par des communistes et de jeunes patriotes – les frères Günther y prenaient une part active – essaya de démontrer aux socialistes et aux nationalistes la nécessité de cette lutte commune, menée dans l’intérêt de la nation et du socialisme. Bien que des contacts locaux aient eu lieu dans quelques villes, le mouvement n’eut jamais d’influence réelle sur les masses.

Lors des « Journées du Parti » à Heidelberg en 1919, le parti communiste récemment fondé prononça l’exclusion des « gauches » de Hambourg, groupés autour de Wolffheim et de Laufenberg, et celle du Groupe Spartacus et de quelques autres (les deux mouvements s’étaient joints au Parti communiste). Cette mesure avait pour cause les déviations anti-parlementaires et « syndicalistes » (dans la question des syndicats) des intéressés. Wolffheim et Laufenberg se rallièrent alors au Parti communiste ouvrier allemand, qui était en train de se former. Mais on manque total de cohésion et son absence d’unité idéologique amenèrent bientôt la dislocation du parti. Les fidèles de Wolffheim restèrent groupés dans la Ligue communiste, qui portait comme sous-titre officieux Ligue nationale-communiste. Lénine et Radek avaient jeté tout leur prestige dans la balance (la mise en garde de Lénine contre le « radicalisme » visait surtout les Hambourgeois[ii]) pour soutenir Paul Levi, adversaire de Wolffheim au sein du Parti communiste allemand. Les Hambourgeois furent isolés et leur rayon d’action se réduisit à une fraction de gauche.

Il était également impossible de rallier un nombre suffisant d’activistes de droite. Le comte Ulrich von Brockdorff-Rantzau partit en 1922 pour Moscou, en qualité d’ambassadeur d’Allemagne. Il avait l’intention de « réparer de là-bas le malheur de Versailles ». C’est à ses efforts que nous devons le traité de Rapallo du 16 avril 1922 (dont son ami Maltzan avait fait le plan) et le traité de Berlin d’avril 1926.

La variante révolutionnaire d’un national-bolchevisme allemand avait échoué. Après Rapallo, la forme évolutive de ce national-bolchevisme se poursuivit sous forme de multiples contacts entre les chefs de la Reichswehr (Seeckt et ses successeurs) et l’Union Soviétique. Nous ne pouvons entrer ici dans les détails de cette collaboration.

Les idées de Wolfheim et du « comte rouge » poursuivaient leur route souterraine.

 

L’« Union peupliste-communiste »

Les communistes firent le second pas dans la voie d’un front commun, patriotique et socialiste, contre l’Occident. Le 20 juin 1923, lors de la session du Comité exécutif élargi de l’Internationale Communiste, Karl Radek prononça son célèbre discours sur « Leo Schlageter, voyageur du néant », où il s’inclinait devant le sacrifice du saboteur nationaliste et encourageait ses camarades à poursuivre, aux côtés de la classe ouvrière révolutionnaire, la lutte commune pour la liberté nationale de l’Allemagne.

Des discussions s’ensuivirent dans Die rote Fahne et la revue allemande-peupliste Der Reichswart : Moeller van den Bruck, le comte Reventlow, Karl Radek et d’autres encore prirent la parole sur le thème : « Un bout de chemin ensemble ? ». Des rencontres eurent lieu à l’occasion. Le « mouvement national », où Adolf Hitler, le capitaine Ehrhardt et les peuplistes du Groupe Wulle-Gräfe faisaient de plus en plus parler d’eux, resta à l’écart.

Le mot d’ordre « national » du Parti communiste sonnait faux. Au fond, il a toujours sonné faux pour la majorité des activistes nationaux. En août-septembre 1930, le parti communiste allemand avait encore annoncé un programme de « libération nationale et sociale du peuple allemand »[iii]. Il avait, en outre, sous le nom de l’ex-lieutenant de la Reichswehr et nazi Richard Scheringer[iv], rassemblé quelques centaines d’ex-nazis, officiers et hommes des corps-francs, dans les milieux de « brèche » (Aufbruch), autour de la revue du même nom. Pourtant, le « national-bolchevisme » contrôlé par le Parti communiste, c’est-à-dire « dérivé », n’est jamais devenu, ni au sein du mouvement communiste ni en dehors, un facteur susceptible de déterminer la stratégie et la tactique du mouvement de masse. Il ne fut jamais qu’un instrument en marge de la NSDAP, chargé des besognes de désagrégation. Les tendances national-bolchevistes authentiques reparurent dans une direction toute différente.

 

Le « troisième parti »

Sous la République de Weimar, il a existé en Allemagne un mouvement de rébellion « jeune-national ». Ce mouvement se situait à l’« extrême-droite », à côté des partis conservateurs-nationaux, du national-socialisme, des différents groupes « peuplistes » parfois en concurrence avec lui, et des associations nationales de défense. De 1929 à 1932, il prit des formes concrètes, et son étiquette de « droite » n’eut bientôt plus rien de commun avec celle en usage dans la géographie parlementaire. On s’appelait « national-révolutionnaire », on formait ses propres groupes, on éditait ses propres journaux ou revues, ou bien on essayait d’exercer une influence morale sur des associations de défense, des groupes politiques, des mouvements de jeunesse, et de les entraîner à une révolution complète de l’état, de l’économie et de la société.

Après comme avant on restait nationaliste, mais on inclinait de plus en plus aux revendications anticapitalistes et socialistes, voire partiellement marxistes.

Ces « gauches de la droite », comme les a appelés Kurt Hiller, essayèrent d’abord d’établir, « par-dessus les associations », des relations entre radicaux de gauche et de droite, en prenant pour base leur « attitude commune anti-bourgeoise et sociale-révolutionnaire ». Lorsque le poids de l’appareil du parti eut fait, aux deux pôles, échouer ces efforts, les intéressés décidèrent de se créer leur propre plate-forme révolutionnaire dans les groupes et journaux nationaux-révolutionnaires. Le ralliement, en 1930, du Groupe Wolffheim au Groupe des nationalistes sociaux-révolutionnaires qui, dans les revues Die Kommenden et Das Junge Volk, avait commencé à construire une plate-forme de ce genre, et la fusion, dans la « résistance », des jeunes-socialiste de Hofgeismar avec le Groupe Oberland, donnèrent une vigueur nouvelle, sur un plan supérieur, aux thèses des nationaux-communistes de Hambourg. Ce fut également le cas pour certaines tendances pro-socialistes qui se manifestaient dans quelques groupes de radicaux de droite ayant joué un rôle actif en Haute-Silésie ou dans la résistance de la Ruhr.

Les groupes nationaux-révolutionnaires sont toujours restés numériquement insignifiants (depuis longtemps, l’opinion publique ne les désignait plus que du terme bien clair de « nationaux-bolchevistes » !) ; mais, sur le plan idéologique, il y avait là une sorte d’amalgame authentique entre conceptions de « droite » et conceptions de « gauche ». Le national-bolchevisme ne voulait être ni de droite ni de gauche. D’une part, il proclamait la nation « valeur absolue », et, de l’autre, voyait dans le socialisme le moyen de réaliser cette notion dans la vie du peuple.

Moeller van den Bruck fut le premier théoricien jeune-conservateur à professer de semblables idées. C’est pour des raisons uniquement publicitaires qu’il a intitulé son œuvre principale Le Troisième Reich, formule que devait usurper par la suite le mouvement hitlérien. Moeller lui-même voulait appeler son livre Le Troisième Parti. Son idée directrice était l’inverse des théories hitlériennes. Moeller van den Bruck donnait un fondement idéologique aux théories politiques du national-bolchevisme. Partant du principe que « chaque peuple a son propre socialisme », il essayait de développer les lignes principales d’un « socialisme allemand » exempt de tout schématisme internationaliste. Le « style prussien » lui paraissait l’attitude la meilleure ; aussi la position de Moeller, se tournant vers l’Est, même sur le plan politique, n’était-elle que la conséquence logique de cette parenté spirituelle. Il voulait être « conservateur » par opposition à « réactionnaire », « socialiste » par opposition à « marxiste », « démocratique » par opposition à « libéral ». C’est ici qu’apparurent pour la première fois des formules qui, par la suite, radicalisées, simplifiées et en partie utilisées de façon sommaire, formèrent une sorte de base commune pour tous les groupes nationaux-bolchevistes.

En dehors d’Oswald Spengler et de son livre Prussianisme et socialisme[v], qui cessa très vite de fasciner lorsqu’on en reconnut le caractère purement tactique, deux intellectuels venus de la social-démocratie ont contribué à la pénétration des idées socialistes dans les rangs de la bourgeoisie jeune-nationale : August Winnig et Hermann Heller. Comme l’avait fait jusqu’à un certain point le poète ouvrier Karl Broeger, Winnig et Heller avaient noué des relations, à l’époque de la résistance dans la Ruhr, avec le mouvement national de sécession dit de Hofgeismar, issu du mouvement jeune-socialiste du SPD. Foi dans le prolétariat de Winnig et Nation et socialisme de Heller furent le point de départ de rencontres fécondes entre socialistes (qui avaient reconnu la valeur du nationalisme) et nationalistes (qui avaient reconnu la nécessité du socialisme).

 

Le « nouveau nationalisme »

En outre, même dans le camp national de la « génération du front » s’élevèrent des voix rebelles. D’abord dans le cadre du Casque d’Acier, puis en marge, enfin avec la malédiction de ce mouvement, elles s’exprimèrent dans des revues comme Standarte, Arminius, Vormarsch, Das Reich, opposant un « nouveau nationalisme » au mouvement national patriotico-bourgeois, et surtout à la NSDAP. Lorsque tout espoir fut perdu d’exercer une influence au sein des grandes associations, des groupes et des partis, ils s’opposèrent résolument à tous les mots d’ordre de « communauté populaire ». « Nous en avons assez d’entendre parler de nation et de ne voir que les revenus réguliers du bourgeois. Nous en avons assez de voir mélanger ce qui est bourgeois et ce qui est allemand. Nous ne nous battrons pas une seconde fois pour que les grandes banques et les trusts administrent ’’dans l’ordre et le calme’’ l’état allemand. Nous autres nationalistes ne voulons pas, une seconde fois, faire front commun avec le capital. Les fronts commencent à se séparer ! » Pour la première fois dans le mouvement social-révolutionnaire, la frontière est franchie entre le « nouveau nationalisme » purement soldatique et le véritable national-bolchevisme. Les mots d’ordre anti-impérialistes en politique extérieure n’en étaient que la conséquence logique.

Le chef spirituel du « nouveau nationalisme » était Ernst Jünger. D’abord connu pour ses romans de guerre réalistes, il a ensuite tiré des résultats de la première guerre mondiale, sa philosophie du « réalisme héroïque », qui supprime le vieil antagonisme entre idéalisme et matérialisme. Par sa vision du Travailleur, le Jünger « première manière » encourageait les jeunes rebelles qui se tournaient vers le monde où sont en marche « la domination et la forme » du prolétariat – bien qu’il ait expressément élaboré la figure de ce travailleur en dehors des données sociologiques –, après avoir, dans La mobilisation totale, analysé et déclarée inévitable la venue d’un nouvel ordre social collectiviste. Jünger ne faisait partie d’aucun groupe, était reconnu par tous, et publia jusqu’en 1932 des articles dans beaucoup de revues représentant ces courants.

 

La plate-forme sociale-révolutionnaire

Les théories professées dans ces milieux étaient loin d’être toujours rationnelles. Franz Schauwecker déclarait : « Il fallait que nous perdions la guerre, pour gagner la nation ». On évoquait « le Reich », soit-disant caractérisé par « la puissance et l’intériorité ». Mais le programme comportait , à côté de la métaphysique , des points forts réalistes. On approuvait la lutte des classes, certains – s’inspirant d’ailleurs davantage des modèles d’auto-administration offerts par l’histoire d’Allemagne que de l’exemple russe – prônaient le système des « conseils ». On essayait de prendre contact avec les mouvements anti-occidentaux extra-allemands : mouvement d’indépendance irlandais, milieux arabes, indiens, chinois (une Ligue des peuples opprimés fut opposée à la SDN !). On défendait énergiquement l’idée d’une alliance germano-russe, on proclamait la nécessité d’une révolution allemande, d’un front commun avec le prolétariat révolutionnaire. Toutes les revendications radicales sociales-révolutionnaires avaient le même point de départ : l’opposition au traité de Versailles. Ernst Niekisch déclara un jour : « La minorité est décidée à renoncer à tout en faveur de l’indépendance nationale, et même, s’il est impossible de l’obtenir autrement, à lui sacrifier l’ordre social, économique et politique actuel ».

Ces milieux considéraient le national-socialisme comme « appartenant à l’Ouest ». Le prussianisme, le socialisme, le protestantisme – et même, jusqu’à un certain point, le néo-paganisme – furent utilisés contre le national-socialisme et ses visées « à tendances catholiques et Contre-Réforme », prétendait-on, visées qui faussaient le mot d’ordre tant socialiste que national et l’infléchissaient dans le sens du fascisme.  Bien que, dans les dernières années avant 1933, la lutte contre le mouvement hitlérien soit de plus en plus devenue l’objectif principal des nationaux-révolutionnaires, l’opinion publique a considéré à cette époque, précisément pour les raisons que nous venons de dire, les tendances nationales-bolchevistes comme un danger réel pour la République.

Le mouvement n’a jamais été centralisé. Les différents groupes et journaux n’ont jamais réussi à acquérir une cohésion réelle ; ils se sont cantonnés dans un individualisme farouche, jusqu’au moment où Hitler les élimina tous en les interdisant, et en faisant arrêter, exiler ou tuer leurs leaders. Si l’« Action de la Jeunesse » contre le Plan Young eut du moins un certain succès de presse, les groupes ne réussirent pas à se mettre d’accord sur le choix de Claus Heim comme candidat commun aux élections à la présidence du Reich. Il en fut de même, fin 1932, pour les efforts en vue de créer un parti national-communiste unique.

 

L’intelligentzia anticapitaliste

En 1932, régnait pourtant une inquiétude générale, et on se demandait – surtout dans la presse bourgeoise – si les paroles d’Albrecht Erich Guenther ne contenaient pas un peu de vrai : « La force du national-bolchevisme ne peut pas être évaluée en fonction du nombre de membres d’un parti ou d’un groupe, ni en fonction du tirage des revues. Il faut sentir combien la jeunesse radicale est prête à se rallier sans réserves au national-bolchevisme, pour comprendre avec quelle soudaineté un tel mouvement peu déborder des cercles restreints pour se répandre dans le peuple. » La formule menaçante de Gregor Strasser sur « la nostalgie anticapitaliste du peuple allemand » continuait à tinter désagréablement aux oreilles de certains, surtout à droite. 1932 était devenu l’année décisive. La NSDAP et le parti communiste faisaient marcher leurs colonnes contre l’état. Alors surgit brusquement du no man’s land sociologique un troisième mouvement qui non seulement faisait appel à la passion nationale, mais encore brandissait la menace d’une révolution sociale complète – et tout cela avec un fanatisme paraissant plus sérieux que celui du national-socialisme, dont les formules semblaient identiques aux yeux d’un observateur superficiel.

Dans les milieux qui n’avaient pourtant rien à voir avec les activistes des cercles nationaux-révolutionnaires, apparurent brusquement des thèses semblables, même si le langage en paraissait plus mesuré, plus objectif et plus réaliste. La jeune intelligentzia de tous les partis, menacée de n’avoir jamais de profession, risquait de plus en plus de devenir la proie des mots d’ordre radicalisateurs, anticapitalistes et en partie anti-bourgeois. Ces tendances se manifestèrent par la célébrité soudaine du groupe Die Tat, réuni autour de la revue mensuelle du même nom. Cette revue, issue de l’ancien mouvement jeunesse allemand-libre, était dirigée par Hans Zehrer, ancien rédacteur chargé de la politique étrangère à la Vossische Zeitung. Elle mettait en garde contre le dogmatisme stérile des radicaux de gauche et de droite, et reprenait à son compte les revendications essentielles des nationaux-révolutionnaires. La revue soutenait les attaques de Ferdinand Fried contre l’ordre capitaliste, et prenait parti, avec lui, pour une économie planifiée et une souveraineté nationale garantie – l’autarcie –, s’appropriant ainsi les mots d’ordre du mouvement hitlérien.

niekisch-titel-rgb-60mm.jpgCe « national-bolchevisme modéré », s’il est permis de s’exprimer ainsi, faillit devenir un facteur réel. Le tirage de Die Tat atteignit des chiffres jusqu’alors inconnu en Allemagne ; l’influence de ses analyses pondérées et scientifiques dépassa de loin celle des groupes nationaux-bolchevistes traditionnels.

A un certain moment, le général Schleicher commença à prendre contact avec les syndicats et avec Gregor Strasser qui, depuis la disparition des « nationaux-socialistes révolutionnaires » de son frère Otto, représentait les tendances « de gauche » au sein de la NSDAP ; il voulait asseoir dans la masse le « socialisme de général » pour lequel il avait fait une propagande assez habile et dont le slogan sensationnel était celui-ci : « La Reichswehr n’est pas là pour protéger un régime de propriété suranné. » Die Tat s’appuya alors sur cette doctrine. Zehrer prit la direction de l’ancien quotidien chrétien-social Tägliche Rundschau et se fit le défenseur d’un Troisième Front axé sur Schleicher. Après avoir, quelque temps auparavant, lancé comme mot d’ordre à l’égard des partis existants le slogan : « Le Jeune Front reste en dehors ! », ce « Troisième Front » s’avéra une simple variante « réformiste » du Front anticapitaliste des jeunes de la droite jusqu’à la gauche, représenté par les milieux nationaux-révolutionnaires. Le renvoi brutal de Schleicher par le Président Hindenburg mit également fin  cette campagne.

 

Sous l’égide du drapeau noir

Les nationaux-révolutionnaires n’avaient jamais travaillé la masse. Quelques milliers de jeunes idéalistes s’étaient rassemblés autour d’une douzaine et demi de revues et des chefs de quelques petits groupes. Lorsqu’Otto Strasser fonda en 1930 son propre groupe, appelé par la suite le Front Noir, les nationaux-révolutionnaires essayèrent de prendre contact avec lui, mais y renoncèrent bientôt. Pas plus que le Groupe Scheringer, le Groupe Strassser n’a jamais été vraiment national-révolutionnaire. Mais le mouvement que Strasser déclencha indirectement en quittant la NSDAP, provoqua beaucoup d’adhésions au national-bolchevisme. Dès avant 1933, des groupes de SA et de Jeunesse Hitlériennes ont été formés, dans quelques villes, sous l’égide – illégale – des nationaux-révolutionnaires. Mais il s’agissait là de cas isolés, et non de travail de masse.

Une seule fois, le symbole des nationaux-révolutionnaires, le drapeau noir (Moeller van den Bruck l’avait proposé comme emblème et tous les groupes nationaux-bolchevistes l’avaient accepté) a joué un rôle historique sous le régime de Weimar : dans le mouvement rural de Schleswig-Holstein (qui avait des ramifications dans le Wurtemberg, le Mecklembourg, la Poméranie, la Silésie, etc.). Claus Heim, un riche paysan plein d’expérience, devint le centre de la défense des paysans contre le « système » de Weimar. Alors des intellectuels nationaux-révolutionnaires ont eu en mains l’éducation idéologique de masses paysannes qui, naturellement, n’étaient pas du tout « nationales-bolchevistes ». Bruno et Ernst von Salomon, et bien d’autres encore, ont essayé, surtout dans les organes du mouvement rural, de donner un sens « allemand-révolutionnaire » et dépassant les intérêts locaux, aux bombes lancées contre les Landratsämter, aux expulsions des fonctionnaires du fisc venus percevoir l’impôt dans les fermes, à l’interdiction par la force des enchères.

Lorsqu’au cours du « procès des dynamiteurs », Claus Heim et ses collaborateurs les plus proches furent mis en prison, le mouvement perdit de sa force, mais la police prussienne n’était pas très loin de la vérité lorsqu’au début de l’enquête, méfiante, elle arrêta provisoirement tous ceux qui se rendaient au « Salon Salinger » à Berlin, très nationaliste. Les hommes qui y venaient n’étaient pas au courant des différents attentats, mais ils étaient les instigateurs spirituels du mouvement.

 

Les groupes de combat nationaux-révolutionnaires

Alors que le Casque d’Acier ne subissait pour ainsi dire pas l’influence des mots d’ordre nationaux-bolchevistes, et que l’Ordre jeune-allemand, axé en principe sur une politique d’alliance franco-allemande, manifestait à l’égard de ces groupes une hostilité sans équivoque, deux associations moins importantes de soldats du front, appartenant à la droite, se ralliaient assez nettement à eux : le Groupe Oberland et le Werwolf. Le Groupe Oberland avait fait partie au début du Groupe de combat allemand qui, avec les SA de Goering, était l’armature militaire du putsch de novembre 1923. Mais, dès le début, il n’y avait pas été à sa place. Ernst Röhm raconte dans ses mémoires qu’il avait eu l’intention, à une des premières « Journées allemandes », de saisir cette occasion pour proposer au prince Rupprecht la couronne de Bavière. Mais les chefs du Groupe Oberland, à qui il fit part de ses projets, lui déclarèrent nettement qu’ils viendraient avec des mitrailleuses et tireraient sur les « séparatistes » au premier cri de « Vive le roi » ; sur quoi l’ancien chef de la Reichskriegsflagge dut, en grinçant des dents, renoncer à son projet. Un autre exemple tiré de l’histoire des corps-francs montre que l’Oberland était un groupe à part : lorsqu’après le célèbre assaut d’Annaberg en 1921, le Groupe Oberland, sur le chemin du retour, traversa Beuthen, des ouvriers y étaient en grève. Comme, en général, les corps-francs étaient toujours prêts à tirer sur les ouvriers, les chefs du Groupe Oberland furent priés de briser la grève par la force des armes. Ils refusèrent.

Le corps-franc fut ensuite dissout et remplacé par le Groupe Oberland, qui édita plus tard la revue Das Dritte Reich. Très vite, les membres les plus importants du groupe se rapprochèrent, sur le plan idéologique, des nationaux-bolchevistes ; Beppo Römer, le véritable instigateur de l’assaut d’Annaberg, adhéra même au groupe communiste de Scheringer. En 1931, les sections autrichiennes du groupe, relativement fortes, élurent comme chef du groupe le prince Ernst Rüdiger von Starhemberg, chef fasciste de la Heimwehr : les nationaux-révolutionnaires quittèrent alors le groupe et, sous l’étiquette de Oberlandkameradschaft, passèrent au groupe de résistance de Ernst Niekisch, dont ils formèrent bientôt le noyau.

Un deuxième groupe de défense reprit à son compte certaines théories du mouvement national-révolutionnaire : le Werwolf (dans le Groupe de Tannenberg de Ludendorff, des voix de ce genre étaient l’exception). Le Werwolf modifia sa position pour deux raisons : premièrement, ce groupe comptait dans ses rangs un nombre relativement grand d’ouvriers, qui exerçaient une pression très nette en faveur d’un nationalisme « non-bourgeois » ; deuxièmement, son chef, le Studienrat Kloppe, éprouvait le besoin constant de se différencier des groupes plus importants. Comme les « nouveaux nationalistes » étaient tombés en disgrâce auprès du Casque d’Acier, de la NSDAP et du DNVP, le Werwolf se rapprocha d’eux de façon spectaculaire. Lorsqu’Otto Strasser, après avoir lancé son appel « Les socialistes quittent le Parti », fonda en 1930 le groupe du « véritable national-socialisme », Kloppe, dont les idées coïncidaient pourtant parfaitement avec celles de Strasser, ne se rallia pas à lui : il fonda un groupe dissident, appelé « possédisme [vi]». Les membres du groupe, en majorité plus radicaux, ne prirent pas trop au sérieux cette nouvelle doctrine, mais obtinrent que le bulletin du groupe représentât en général, pour le problème russe comme sur le plan social, le point de vue qu’avaient adoptés, en dehors des organes déjà mentionnés, Der junge Kämpfer, Der Umsturz (organe des « confédérés »), Der Vorkämpfer, (organe du Jungnationaler Bund, Deutsche Jungenschaft), et d’autres encore. En 1932, le Werwolf décida brusquement, de son propre chef, de présenter des candidats aux élections communales, renonçant ainsi à son antiparlementarisme de principe.

 

Typologie du national-bolchevisme

La plupart des membres des groupes nationaux-révolutionnaires étaient des jeunes ou des hommes mûrs. On y comptait aussi un nombre relativement élevé d’anciens membres ou de militants appartenant aux associations de la Jugendbewegung.

Aucun groupe important de l’Association de la Jeunesse n’était en totalité national-bolcheviste. Mais presque chaque groupe comptait des sympathisants ou des adhérents des mouvements nationaux-révolutionnaires. Les organes nationaux-révolutionnaires ont exercé une action indirecte relativement grande sur les groupes et, inversement, le monde romantique de la Jugendbewegung a influencé la pensée et le style des nationaux-révolutionnaires.

Si l’on fait abstraction du mouvement rural révolutionnaire, du Groupe Oberland et du Werwolf, presque tous les groupes nationaux-bolchevistes ont intégré certains éléments de la Jugendbewegung dans la structure de leurs groupes : groupes d’élites basés sur le principe du service volontaire. La minorité – mais très active – était composée d’anciens membres de la jeunesse prolétarienne, d’anciens communistes ou sociaux-démocrates, presque tous autodidactes ; la majorité comprenait des membres de l’Association de la Jeunesse, d’anciens membres des corps-francs et des associations de soldats, des étudiants – et des nationaux-socialistes déçus à tendance « socialistes ». Seul le groupe Die Tat a recruté des membres dans le « centre » politique.

Au fond, tous ces jeunes étaient plus ou moins en révolte contre leur classe : jeunesse bourgeoise désireuse de s’évader de l’étroitesse du point de vue bourgeois et possédant, jeunes ouvriers décidés à passer de la classe au peuple, jeunes aristocrates qui, dégoûtés des conceptions sclérosées et surannées sur le « droit au commandement » de leur classe, cherchaient à prendre contact avec les forces de l’avenir. Sous forme de communautés d’avant-garde analogues à des ordres religieux, des outsiders sans classe de l’« ordre bourgeois » cherchaient dans le mouvement national-révolutionnaire une base nouvelle qui, d’une part, fasse fructifier certains points essentiels de leur ancienne position (éléments sociaux-révolutionnaires et nationaux-révolutionnaires de « gauche » ou de « droite »), et, d’autre part, développe certaines tendances séparatistes d’une « jeunesse nouvelle » dotée d’une conscience souvent exacerbée de sa mission.

Les hommes qui se rassemblaient là avaient un point commun : non pas l’origine sociale, mais l’expérience sociale. Nous ne songeons pas ici uniquement au chômage, à la prolétarisation des classes moyennes et des intellectuels, avec toutes ses conséquences. Tous ces faits auraient dû, au cours de la radicalisation générale des masses, mener au national-socialisme ou au communisme. Mais, à côté de cette expérience négative, il y en avait une positive : celle d’une autre réalité sociale – l’expérience de la communauté dans le milieu sélectionné que représentaient les « associations » de toutes sortes. En outre – il s’agissait, à quelques exceptions près, des générations nées entre 1900 et 1910 – ces groupes se heurtaient au mutisme des partis politiques existants, lorsqu’ils leur posaient certaines questions.

Aussi le mouvement national-révolutionnaire fut-il, pour tous ceux qui ne se rallièrent pas aveuglément au drapeau hitlérien, une sorte de lieu de rassemblement, un forum pour les éléments de droite et de gauche éliminés à cause de leur sens gênant de l’absolu : collecteur de tous les activistes « pensants » qui essayaient, souvent de façon confuse mais du moins en toute loyauté, de combler l’abîme entre la droite et la gauche.

Tout cela a parfois conduit à des excès de toutes sortes, à un certain romantisme révolutionnaire, à un super-radicalisme trop souvent exacerbé (surtout parce qu’il manquait le correctif d’un mouvement démocratique de masse). Il n’en reste pas moins vrai qu’un certain nombre de jeunes intellectuels de la bourgeoisie « nationale » ont été, grâce à cela, immunisés contre les mots d’ordre contradictoires de la NSDAP. Même dans les organismes militants du national-socialisme, le mouvement national-révolutionnaire a rappelé à l’objectivité et suscité des germes de révolte.

Cette vague de national-bolchevisme allemand n’eut pas d’influence politique. La prise du pouvoir par les nazis mit fin à ses illusions – et à ses chances.

 

Conclusion

Le national-bolchevisme appartient aujourd’hui à l’histoire. Même ses derniers adhérents, la résistance, si lourde de sacrifices, qu’ont menée, dans la clandestinité, beaucoup de ses membres contre le régime hitlérien, la brève flambée de tactique « nationale-bolcheviste » inspirée par les communistes et dirigée par Moscou, tout cela n’est plus que de l’histoire. Quelques-uns des nationaux-révolutionnaires les plus connus ont capitulé devant le national-socialisme. Rappelons ici, à la place de certains autres, le nom de Franz Schauwecker. Exécution, réclusion, camp de concentration, expatriation, furent le lot des résistants appartenant au mouvement national-révolutionnaire – et celui de tous les adversaires de Hitler.

Comme exemple de lutte active et clandestine sous le régime hitlérien, citons Harro Schulze-Boysen, chef du Groupe des adversaires (de Hitler), et Ernst Niekisch, l’un des rares qui, après 1945, « suivirent le chemin jusqu’au bout », c’est-à-dire se rallièrent au SED. La plupart de ceux qui représentèrent autrefois les tendances nationales-révolutionnaires ont adopté des idées nouvelles : c’est le cas de Friedrich Hielscher et du Ernst Jünger « seconde manière ». Ils ont continués à bâtir sur des bases consolidées.

Lorsque le Front National d’Allemagne orientale (pâle copie de la ligne « nationale » du Parti communiste allemand représentée pendant la guerre par le Comité National de l’Allemagne Libre de Moscou et l’Union des officiers allemands du général von Seydlitz), le Mouvement des sans-moi[vii] et la propagande en faveur de « conversations entre représentants de toute l’Allemagne » cherchent à mettre en garde contre le mouvement national-bolcheviste d’autrefois, ou au contraire se réfèrent à lui, ils sont dans l’erreur la plus totale. D’autres réalités en matière de politique mondiale ont créé des problèmes nouveaux – et des buts nouveaux –.

Le compte-rendu – incomplet – que nous avons essayé de faire ici ne tend ni à défendre ni à démolir certaines prises de position de naguère. Les faits parlent d’eux-mêmes.

Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932 a été une tentative légitime pour former la volonté politique des Allemands. Personne ne peut dire avec certitude si, arrivé à son apogée, il aurait été une variante positive et heureuse, ou au contraire haïssable, de la révolte imminente (inspirée par l’idée collectiviste) des générations intermédiaires contre l’état bourgeois. Il s’est limité à des déclarations grandiloquentes, en fin de compte pré-politiques : la chance de faire ses preuves dans la réalité quotidienne lui a été refusée.

La majorité de ses représentants ont été des hommes intègres, désintéressés et loyaux, ce qui facilite peut-être aujourd’hui, même à ses adversaires de naguère, la tâche de le considérer uniquement, en toute objectivité et sans ressentiment, comme un phénomène historique.

(Aussenpolitik d’avril 1952)

 

 

 

Annexes

Le texte complet du Traité de Versailles (1919) peut être consulté sur le site :
http://mjp.univ-perp.fr/traites/1919versailles.htm

Sur Karl Otto Paetel, on lira l’intéressant article de Luc Nannens, intitulé « K.O. Paetel, national-bolcheviste » et paru dans le N° 5 de la Revue VOULOIR, désormais disponible sur le site suivant : http://vouloir.hautetfort.com/archive/2010/10/10/paetel.html (augmenté de références bibliographiques et de renvois à des articles complémentaires sur le thème).

Nos lecteurs anglophones pourront également consulter, les « Karl M. Otto Paetel Papers » sur http://library.albany.edu/speccoll/findaids/ger072.htm#history. On peut y mesurer la « masse » des écrits de K.O. Paetel non traduits en français à ce jour.

 

Sur Claus Heim et le Landvolkbewegung, on consultera avec profit la thèse de Michèle Le Bars, Le mouvement paysan dans le Schleswig-Holstein 1928-1932. Peter Lang, Francfort sur Main / Berne / New-York, 1986 (une brève biographie de Claus Heim fait partie des documents en annexe) mais aussi Michèle Le Bars, Le « général-paysan » Claus Heim : tentative de portrait, in Barbara Koehn (dir.) La Révolution conservatrice et les élites intellectuelles. Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2003. Bien évidemment pour des versions romancées, mais faisant revivre les événements de façon saisissante, on lire La Ville, d’Ernst von Salomon et Levée de fourches, de Hans Fallada.

 

Sur le Groupe Die Tat : on peut lire l’article d’Alex[andre] M[arc] Lipiansky, paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°60, du 15 octobre 1932, Paris, intitulé : « Pour un communisme national. La revue Die Tat. ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°11, automne-hiver 1996, Marseille. Il est également disponible sur le site de la BNF : http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5405292f.r=%22die+t.... D’autre part, Edmond Vermeil, dans son ouvrage Doctrinaires de la révolution allemande 1918-1932, (Fernand Sorlot, Paris, 1938) consacre le chapitre IV au Groupe de la « Tat » (aperçus disponibles sur Google Livres).

 

Sur le groupe des Adversaires (Gegner) on peut lire l’article d’Alexandre Marc paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°66, du 15 avril 1933, Paris, intitulé : « Les Adversaires (Gegner) ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°12, automne-hiver 1996, Marseille. On peut aussi le retrouver sur Gallica (en cherchant bien !)

 

 

NOTES



[i] Source : Documents - Revue mensuelle des questions allemandes - no 6/7 - juin-juillet 1952, pp.648-663 : Karl  A Otto Paetel "Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932". Il s’agit de la traduction de l’article "Der deutsche Nationalbolschewismus 1918/1932. Ein Bericht," paru dans Außenpolitik, No. 4 (April 1952). [NDLR]

[ii] Karl Otto Paetel fait bien évidemment référence ici au livre de Lénine Le gauchisme, maladie infantile du Communisme : « Mais en arriver sous ce prétexte à opposer en général la dictature des masses à la dictature des chefs, c'est une absurdité ridicule, une sottise. Le plaisant, surtout, c'est qu'aux anciens chefs qui s'en tenaient à des idées humaines sur les choses simples, on substitue en fait (sous le couvert du mot d'ordre "à bas les chefs!") des chefs nouveaux qui débitent des choses prodigieusement stupides et embrouillées. Tels sont en Allemagne Laufenberg, Wolfheim, Horner, Karl Schroeder, Friedrich Wendel, Karl Erler. » et plus loin : « Enfin, une des erreurs incontestables des "gauchistes" d'Allemagne, c'est qu'ils persistent dans leur refus de reconnaître le traité de Versailles. Plus ce point d e vue est formulé avec "poids" et "sérieux", avec "résolution" et sans appel, comme le fait par exemple K. Horner, et moins cela paraît sensé. Il ne suffit pas de renier les absurdités criantes du "bolchevisme national" (Laufenberg et autres), qui en vient à préconiser un bloc avec la bourgeoisie allemande pour reprendre la guerre contre l'Entente, dans le cadre actuel de la révolution prolétarienne internationale. Il faut comprendre qu'elle est radicalement fausse, la tactique qui n'admet pas l'obligation pour l'Allemagne soviétique (si une République soviétique allemande surgissait à bref délai) de reconnaître pour un temps la paix de Versailles et de s'y plier. » (in Lénine, Œuvres complètes, Vol 31, p.37 et p. 70) [NDLR]

[iii] Le texte complet du « Programme » a été traduit par Louis Dupeux et joint aux documents accompagnant sa thèse Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression « National-bolchevisme » en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933), 2 volumes, Honoré Champion, Paris, 1976. [NDLR]

[iv] Sur Richard Scheringer, on consultera à profit l’article (en anglais) de Thimoty S. Brown, Richard Scheringer, the KPD and the Politics of Class and Nation in Germany: 1922-1969, in Contemporary European History, August 2005, Volume 14, Number 1

disponible sur le net :

http://www.history.neu.edu/faculty/timothy_brown/1/docume....

[v] Il existe une traduction française de ce livre : Oswald Spengler, Prussianisme et socialisme, Actes Sud, Arles, 1986.

[vi] Cf. Fritz KLOPPE, Der possedismus. Die neue deutsche wirtschaftsordnung. Gegen kapitalismus und marxistischen sozialismus; gegen reaktion und liberalismus., Wehrwolf-verlag, Halle, 1931

 

[vii] « Ohne mich-Bewegung » mené par Kurt Schumacher et dont les protestations seront portées par les syndicats, les intellectuels, les groupes chrétiens et les groupes féministes (en particulier la Westdeutsche Frauenfriedensbewegung).

dimanche, 26 décembre 2010

Revista Arjé

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Revista Arjé nº 5, pensando con Textos

Ex: http://proyectoarje.blogspot.com/ 

Estimados/as, les invito a la lectura del quinto número de la Revista Arjé, en su formato digital (e imprimible). Pueden descargarlo directamente desde el link: http://www.box.net/shared/gdu9ahr3sq (solo “pesa” 900 kb) o solicitando por mail su envío como archivo adjunto en un correo electrónico.

Y para aquellos lectores que quieran comentar, discrepar, coincidir, debatir los artículos expuestos, queda abierta la posibilidad de dejar comentarios en este espacio del blog.

Contenidos

La planchificación social, por Darío Valle Risoto, pág. 2

“Un lenguaje gutural que cambia rápidamente de códigos incomprensibles donde el que no pertenece a la tribu se pierde, una forma extraña de modular las palabras que se pegan y hacen del ejercicio siempre apasionante de la comunicación algo muy parecido a una tortura.
La cultura plancha reivindica lo vulgar, se siente orgullosa de su deformidad y plantea un desafío al buen gusto. Los especímenes planchas detestan los buenos modales, a la gente educada les llaman “chetos” y siempre hacen ruido. Parece que el volumen de su música o su forma espontánea de insultarse como muestra de afecto, deba ser necesariamente soportado por todos.”

Ricardito Fort: chocolate por fuera, merengue de corazón, por Santiago Cardozo, pág. 4

“A esta altura ya son varias las generaciones sometidas a (dominadas por) las leyes del espectáculo: quizás el omnipresente Ricardo Fort, cuyo final mediático está determinado de antemano (aunque no necesariamente visible, puesto que responde a la lógica misma del capitalismo que lo ha creado), constituya hoy el ejemplo más cabal y elocuente, el ejemplo por antonomasia, de la noción de sujeto sin sujeto, de un sujeto sin espesor, paradójicamente expresado por la musculatura de esta entidad que identificamos como un anti-hiperobjeto (Núñez, 2009). Así son las cosas: un anti-hiperobjeto recorre la televisión…”

Mujica y Aristóteles: el futuro de América Latina, por Pablo Romero, pág. 6

“Si hemos de volver a algún punto reivindicable del pasado como proyecto saludable de futuro, quizás diría que tendríamos que irnos unos cuantos siglos atrás, para instalarnos casi en la cuna del nacimiento de la filosofía occidental. Regresar a la obra mayor de nuestra cultura en el terreno de la filosofía política que entiendo es La Política, de Aristóteles. La idea de priorizar la consolidación de una democracia republicana por sobre otros modelos posibles de gobierno y la práctica política vinculada al desarrollo de determinadas virtudes éticas, entre las que cuenta el evitar siempre los extremos y defender la alternancia entre las condiciones de gobernante y gobernado, sigue siendo un proyecto político radical. Algunos entienden que la posición de Aristóteles es conservadora y que su “punto medio” como propuesta ética y política, en donde impera la búsqueda del bien común a partir del cultivo de virtudes como la moderación, la prudencia y la razón dialogante, puede ser finalmente asunto bueno para que nada cambie. Yo, por el contrario, me declaro aristotélico en ese punto de su propuesta y coincido en que hay que evitar los extremos y que radicalizar posiciones es la manera más cómoda de plantarse en la arena política y la mejor manera de ser un conservador. Y en este punto es que quiero tomar la figura de Mujica, el presidente de mi país, como un ejemplo de alguien que ha comprendido cabalmente este asunto.”

Filosofía, Agronomía y Política, por Ariel Arsuaga, pág. 12

“Marx acertó mucho, pero comparto con Juan Grompone que se equivocó en creer que la revolución la harían los obreros porque no tenían nada que perder. Ahora tienen mucho para perder, aunque no tengan el poder y la historia enseña que los oprimidos no son los que hacen las revoluciones. ¿Cuál revolución y por quiénes se estará gestando? ¿Nos dará el tiempo, antes del desastre ecológico, para entender que la equidad es el camino para convivir y que para durar hay que conservar? Yo creo ver que la revolución está en ciernes, desde la hipótesis de Gaia hasta el Proyecto Venus que imagina una economía no monetaria basada en los recursos. ¿Seremos capaces de salir de una economía de la escasez que justifica el precio y las clases y que necesita crecer indefinidamente para sortear la ley de la plusvalía decreciente? ¿Podremos inventar una economía de la abundancia que nos conduzca a la equidad?”

Apología de Diotima, por Mariella Nigro, pág. 14

“En el ágape, la bebida inspira la idea y la retórica estricta, el encomio, la ironía y la mayéutica. Apartado del gineceo, el simposio, en tanto ceremonial discursivo, es una continuación del ágora de la polis, bajo un protocolo dialógico roto en El banquete por la voz de una mujer. El festín intelectual se desarrolla tal vez, en un nivel metafísico, en aquella caverna alegórica donde se proyectan unas sombras que habrán de descifrar los comensales mediante el ejercicio de la razón y la dialéctica. Pero el prisionero de la caverna que se libera llega a conocer el mundo real a través de la preceptora de un gineceo antiguo: Sócrates dice lo que una vez le enseñó sobre el amor la sabia Diotima. Testimonio, relato y prescripción. Y cuestión de género.”

Sobre la reflexión filosófica, por Angelita Parodi, pág. 17

“Tuve oportunidad de leer, hace ya un buen tiempo, en su idioma original, una novela de tono trágico, escrita por el berlinés Christoph Merckel: “Bockshom”, que trata de ciertos dramas del mundo actual, centrados en la figura de dos niños afectados por la marginación, el abandono y la inseguridad de su destino, que se unen para vivir de lo que puedan recoger en su vagabundeo. Pero no me referiré a las aventuras, o más bien desventuras de esos niños. Me llamó la atención un curioso personaje que aparece en uno de sus capítulos, de nombre Viktor, sentado en cuclillas al borde de una carretera, solo, sin compañía humana o animal alguna, vestido con incómoda, pobre y encogida vestimenta y sin pertrecho alguno que le sirviera de defensa o abrigo. Y sin embargo su rostro muestra una sonrisa de inocente placidez. Solo se dedica a contemplar con asombro el tránsito incesante de esa carretera, y en ese asombro se genera en su mente la pregunta que podría expresar el germen de una filosofía de la vida. Todos pasan de largo en apurada carrera, pasan y pasan sin detenerse. ¿Tras de qué corren? ¿Adónde se dirigen? ¿Por qué tanta prisa?, parece preguntarse aunque no lo exprese en palabras.”

Revisión del programa transhumanista de Niels Bostrom, por Alejandro G. Miroli, pág. 19

“Si la filosofía clásica –la matriz que nace en el pensamiento greco-occidental o indostano-oriental- parece incapaz de dar cuenta de dichas mutaciones en la medida que su horizonte propio parecía ser la intencionalidad propia de la sensibilidad humana sin prótesis, otros programas filosóficos asumen la tarea de generar una metafísica para la intencionalidad protésica; y ha sido la filosofía transhumanista la que planteó una Ética y una Antropología filosófica capaces de evaluar y bosquejar programas de acción al proponer una agenda apologética de la Tecnosfera. Entre tales filósofos sobresale el filósofo británico Nick Bostrom por la proyección y radicalidad de su obra.”

Adolfo Sánchez Vázquez a sus 95 años, por Jorge Reyes López, pág. 23

“Asimismo, examina el valor de la ética en el socialismo. Sánchez Vázquez insiste en que la ética socialista a construir no puede derivarse de meros fines utilitarios, egoístas, o privilegiando cualquier medio en el cumplimiento de un cierto fin (aun el de la revolución). En este sentido, la posición de nuestro autor en lo relativo al acto moral consiste en que éste debe de circunscribirse hacia el bien que ofrezca una transformación a favor de su comunidad y su historia. De ahí que tanto la responsabilidad como de la libertad posean un papel imperativo en este proceso. La célebre obra titulada Ética (1968), es el resultado de este periodo. Dentro de estas inquietudes se publicó su obra Del socialismo científico al socialismo utópico (1971), destacando el sentido de la apertura hacia el futuro por construir y la función orientadora de las utopías en la marcha hacia una nueva humanidad.”