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dimanche, 02 mai 2010

Euro-America o Eurasia?

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Archives de Synergies Européennes - 2003

 

 

Euro-america o Eurasia?

Intervento di Fausto Sorini svolto al seminario internazionale PCdoB di Brasilia del 25-26 Settembre 2003, dedicato all'analisi del quadro mondiale (tratto da http://www.resistenze.org)

 

1) Con l’occupazione militare dell’Iraq si è espressa in modo organico una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano. Controllare il Medio Oriente, maggiore riserva petrolifera mondiale, significa condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta, ed in particolare quelle di Unione europea e Cina, che dal petrolio di questa regione sono ancora oggi largamente dipendenti. Non a caso Russia e Cina, nel primo incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, hanno deciso di intensificare la cooperazione in campo energetico.

 

2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico.

Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% del PIB del mondo; oggi sono al 25% (come l’Unione europea). Con le attuali tendenze dell’economia mondiale, i centri studi dei Paesi più industrializzati prevedono un ulteriore dimezzamento della % Usa nei prossimi 20 anni. Sarebbe la fine dell’egemonia mondiale dell’imperialismo americano, l’ascesa di nuovi centri di potere, capitalistici e non, un’autentica rivoluzione negli equilibri planetari. Si sono fatte guerre mondiali per molto meno.

 

3) Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti dotate anche di forza militare. L’Eurasia è il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dell’amministrazione Bush : “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss - ndr) di un rivale…Ciò richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina - ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India - ndr)”. 

 

4) Non si tratta di una linea congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi. Vi sono differenze nei gruppi dominanti Usa e nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma le posizioni meno oltranziste oggi sono minoranza e prevedibilmente lo saranno per molto tempo, fino a quando la linea attuale non andrà incontro a sconfitte economiche o militari (tipo Vietnam).

 

5) Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”. E’ una minaccia “diversa”, ma per certi aspetti più grande di quella rappresentata dal nazi-fascismo nel secolo scorso. Gli Usa dispongono oggi di una superiorità militare sul resto del mondo assai maggiore di quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale. Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, così come esso viene teorizzato da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush. Ciò spiega perché la linea della “guerra preventiva” suscita una opposizione tanto vasta, che coinvolge la grande maggioranza dei Paesi del mondo. E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq, siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono riusciti – pur esercitando pressioni fortissime – a “comprare” il voto di paesi come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze. Con la guerra in Iraq gli Usa hanno scontato un isolamento politico senza precedenti. Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra. Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in tanta parte del mondo col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista, come non si vedeva dai tempi del Vietnam. E’ un grande patrimonio, che peserà nel futuro del mondo.

 

6) La spinta verso un mondo multipolare è inarrestabile, anche se essa procederà con gradualità, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente gli Usa. Cresce in ogni continente la tendenza alla formazione di “poli regionali”, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi dell’area per essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale. Tutti ritengono di avere bisogno di tempo per rafforzarsi. Questo può spiegare la prudenza della Cina (e per altri versi della Russia) nei rapporti con gli Usa: vogliono rinviare ad altri tempi una possibile frattura, che in particolare la Cina mette nel conto. Mentre Francia e Germania, con diversa collocazione, non considerano matura la fine del legame transatlantico. Tali disponibilità al compromesso si sono espresse nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del CdS dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori. La questione si ripropone nella trattativa in corso in questi giorni, in cui si tratta di definire natura, ruolo e comando di un eventuale coinvolgimento dell’Onu in un Iraq tutt’altro che normalizzato, dove gli Usa sono impantanati, costretti a spendere cifre astronomiche, militarmente sotto il tiro di una resistenza irakena che si rivela più tenace e radicata del previsto. Le maggiori potenze che pure si sono opposte alla guerra, nella logica della più classica realpolitik - puntano anche a non farsi escludere da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; e a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein. Cercano di costringere gli Usa, oggi in difficoltà, ad accettare quei vincoli Onu ai quali nei mesi scorsi si erano sottratti. Il rischio è quello di contribuire a sostenere e legittimare l’occupazione militare e il comando degli Usa in Iraq, offrendo loro un salvagente senza significative correzioni della loro politica aggressiva. Vedremo su quali basi avverrà il compromesso.

 

7) Questa guerra ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo. Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così estesa a tutte le latitudini. Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso, si sono poste importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà. Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e le forze rivoluzionarie di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime di coordinamento internazionale di tale lavoro; e questo limite, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento contro la guerra, soprattutto in alcune regioni del mondo, all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). L’appuntamento del prossimo Forum Sociale Mondiale in India, potrebbe vedere in proposito alcune novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); e in senso politico, con l’auspicabile superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti. Se sarà così, il movimento non potrà che trarne vantaggio, consolidamento e maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita in esso di una più matura coscienza antimperialista.

 

8) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dalle tradizionali forze di pace, ma anche da parte di potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad es. in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte. Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista (con la sua moneta : l’ euro) che vuole giocare le sue carte nella competizione globale. E che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare autonoma dagli Usa. Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio Usa, ma procedono con prudenza in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.

 

9) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa: -vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi in via di sviluppo, che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta; - vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza; - vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante. Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il PIB della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima che sia tardi”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso; - vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che pur non avendo oggi una coerente collocazione progressista in campo internazionale, non fanno parte del sistema imperialistico dominante, e hanno interessi nazionali e una collocazione geo-politica che contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa. La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare e ad ogni “non allineamento” in politica estera…); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare una “minaccia” per l’egemonia Usa e per l’attuale ordine mondiale dominante.

 

10) Vi è una spinta, nei vari continenti, alla formazione di entità regionali più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale: -in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia; -nell’area ex-sovietica, con la Csi; -in America Latina, con il Mercosur e la convergenza progressista di Brasile, Cuba, Venezuela…; -in Africa, con l’Unione africana e il Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe (SADC), imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…); -in Asia, con lo sviluppo del rapporto Cina-Asean/Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta; con le spinte verso una riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere; con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte. Il processo di avvicinamento tra Cina e India pesa enormemente sugli equilibri mondiali.

 

11) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” e cercano di favorirne la “disaggregazione”, oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia delle forze che sono sotto la loro influenza. Ne derivano contrasti di natura diversa nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, G7, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato). Ultimo in ordine di tempo il fallimento del vertice WTO a Cancun, dove è emerso uno schieramento “Sud-Sud”, imperniato su Cina, India, Brasile, Sudafrica (e con la significativa presenza di paesi come Cuba e Venezuela) che si è fatto interprete degli interessi dei Paesi in via di sviluppo, contro le pretese egemoniche dei maggiori centri dell’imperialismo. Le contraddizioni tendono continuamente a ripresentarsi : basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba; ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata; alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro... Ma c’è diversità di interessi in campo, di progetti politici e di modello sociale, anche tra le forze che si oppongono all’unilateralismo Usa. Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…non hanno la stessa collocazione strategica, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche. Emblematica la vicenda di Cuba che è sostenuta dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è vergognosamente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile. La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.

 

12) Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto, anche militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero - dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa.

 

13) Come ricostruire internazionalmente un contrappeso capace di condizionare la politica estera degli Stati Uniti? Questo è il problema n°1 per tutte le forze che non vogliono una nuova tirannia globale. E’ necessaria la convergenza di più forze, tra loro assai diverse: -innanzitutto la resistenza del popolo irakeno e delle forze che in Medio Oriente la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il “fronte interno”, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a questa resistenza, oggi pressochè inesistente al di fuori del mondo arabo; sostegno non separabile da quello alla causa palestinese, in grave difficoltà dentro una dinamica politico-diplomatica sempre più condizionata dagli Usa, che con Israele vogliono il controllo pieno del Medio Oriente; -la ripresa del movimento per la pace negli Usa e su scala mondiale, riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso; -il consolidamento delle più larghe convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile una ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si impone un maggior ruolo dell’Assemblea generale rispetto al Consiglio di Sicurezza e una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso; -lo sviluppo, negli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush e in Gran Bretagna a quella di Blair, oggi entrambi in crisi di consenso. La difesa intransigente del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza esterna, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, indipendentemente dal giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.

 

14) Come evolverà l’Europa? Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico), come mai era accaduto nel dopoguerra. Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia - Germania - Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova). Una sconfitta elettorale (possibile) dei governi di centro-destra in Italia e in Spagna, favorirebbe una collocazione europea più autonoma.

 

15) E’ vero che gli Usa sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato, ma essi non rinunceranno alla Nato, che continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Alleanza. E per disporre di basi militari sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come alcuni paesi dell’Est. Gli Usa dispongono di una presenza militare in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli presenti in Iraq). Ciò rende attualissima e non rituale la ripresa di una iniziativa del movimento per la pace per la chiusura delle basi militari Usa nei rispettivi Paesi. Per il ritiro di tutti i militari impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare. Per attivare iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.

 

16) Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica in una intervista al Financial Times (28.05.2003), affermando: “Alcuni auspicano un mondo multipolare con diversi centri di potere che si trasformerebbero presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”. Dunque: “Euro-america” o “Eurasia”?

 

17) Chi vuole un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal suo modello di società, deve avere un progetto alternativo, che vada oltre l’attuale Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi e che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia…). Un progetto che: -sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali); -sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea; -sul piano militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volte a rincorrere gli Usa sul loro terreno. E’ vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano e può fungere a volte da contrappeso. Ma guai a trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Ue: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale, e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali, distruggerebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare.

 

18) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Usa ed uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con la Cina, l’India; e con le forze più avanzate e non allineate che si muovono in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte) può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.

 

19) In paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà della popolazione del pianeta, che potrebbero esprimere tra 20 anni un terzo della ricchezza mondiale (e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta”) – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo (Russia, India) nell’arco di un decennio.

Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (previste per il 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate. Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell'arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per affermarsi e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.

 

20) Come ha sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”. Un’ Eurasianon allineata può rappresentare un interlocutore fondamentale anche per le forze progressiste in America Latina e in Africa. Non sarebbe il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con il clima politico che caratterizza il mondo di oggi, non sarebbe poco.

 

vendredi, 23 avril 2010

Kirgisistan: eine "umgekehrte" Farbenrevolution?

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Kirgisistan: eine »umgekehrte« Farbenrevolution?

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Das entlegene zentralasiatische Land Kirgisistan wird von einem anscheinend sehr gut geplanten Aufstand gegen den post-sowjetischen Diktator, Präsident Kurmanbek Bakijew, erschüttert. Einiges deutet darauf hin, dass Moskau mehr als ein beiläufiges Interesse an einem Regimewechsel hegt und versucht, nach dem Muster der von Washington betriebenen Rosen-Revolution 2003 in Georgien oder der Orangenen Revolution 2004 in der Ukraine eine eigene Version einer »Farben-Revolution« zu inszenieren. Zumindest ist die Entwicklung von erheblicher strategischer Bedeutung für die militärische Sicherheit im Herzland, d.h. für China, Russland und andere Länder.

Die meisten Berichte über die Ereignisse der vergangenen Tage stammen von russischen Medien, die vermelden, der Premierminister habe gegenüber der von der Opposition ernannten Führerin der Übergangsregierung, Rosa Otunbajewa, seinen Rücktritt erklärt. Laut RIA Novosti hat die Opposition »die Lage im Griff«, Bakijew sei – so hieß es unmittelbar danach – an Bord seines Dienstflugzeugs mit unbekanntem Ziel aus der Hauptstadt geflohen.

Vordergründig war der Anlass für die Proteste die Entscheidung der bisherigen Regierung, die Tarife für Energie und Telekommunikation drastisch anzuheben; die Opposition warf der von den USA unterstützten autoritären Regierung Bakijew darüber hinaus zügellose Korruption vor.

Die vereinigten kirgisischen Oppositionsparteien verlangen jetzt den offiziellen Rücktritt des bisherigen Präsidenten Kurmanbek Bakijew und die Entlassung aller seiner entfernten Verwandten und Spießgesellen aus Regierungsämtern.

Das US-Außenministerium versucht verzweifelt, den Status Quo aufrecht zu erhalten und ruft die Opposition zur »Verhandlung« und zum »Dialog« mit der von den USA finanzierten Präsidentschaft Bakijew auf. Entgegen anderslautenden Meldungen erklärte das State Department, die Regierung von Präsident Kurmanbek Bakijew sei noch im Amt.

 

Geopolitische Bedeutung

Für Washington ist das winzige zentralasiatische und fünf Millionen Einwohner zählende Binnenland an der Grenze zu der politisch heiklen chinesischen Provinz Xinjiang von großer geopolitischer Bedeutung. Seit den Anschlägen vom 11. September 2001 unterhält Washington einen großen Luftwaffenstützpunkt in Kirgisistan, offiziell zur Unterstützung der Streitkräfte in Afghanistan. Militärisch gesehen verschafft dieser Militärstützpunkt mitten in Zentralasien dem Pentagon eine wichtige Ausgangsposition, denn von dort aus könnten Angriffe gegen China, Russland und andere Ziele geführt werden, einschließlich gegen Kasachstan, das sich zu einem zunehmend wichtigeren Energielieferanten für China entwickelt.

Bakijew war 2005 auf einer Welle von US-finanzierten Demonstrationen, denen man den Namen »Tulpen-Revolution« gab, an die Macht gekommen. Wie die Orangene Revolution von Washingtons handverlesenem Kandidaten Wiktor Juschtschenko in der Ukraine, der versprach, sein Land in die NATO zu führen, oder wie die Rosen-Revolution von Washingtons Zögling Michail Saakaschwili, war Bakijews Tulpen-Revolution von 2005 vom State Department finanziert und bis ins Detail inszeniert worden. Das Ganze ging so weit, dass die »Oppositions«-Zeitungen in einer mit amerikanischem Geld aufgebauten Druckerei gedruckt wurden.

Das Ziel der USA bestand darin, auch das Schlüsselland Kirgisistan in den eisernen Ring von US- und NATO-Stützpunkten zu integrieren, mithilfe dessen Washington die wirtschaftliche und politische Zukunft sowohl Chinas wie auch Russlands hätte diktieren können.

Der Rückschlag für die Orangene Revolution in der Ukraine bei den jüngsten Wahlen und die Wahl eines neutralen Präsidenten Wiktor Janukowitsch – der versichert hat, die Ukraine werde der NATO nicht beitreten – scheint nur der erste von vielen, im Stillen von Moskau unterstützten Schritten zu sein, um an der Peripherie zumindest wieder den Anschein von Stabilität zu erwecken.

Es ist nicht klar, in welchem Maß und ob überhaupt Washington in der Lage ist, den »eigenen« Mann, Bakijew, zu stützen. Gegenwärtig sieht es nach einer großen geopolitischen Niederlage für Washington in Eurasien aus. Wir werden die Lage weiter beobachten und darüber berichten.

 

Mittwoch, 14.04.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


Dieser Beitrag stellt ausschließlich die Meinung des Verfassers dar. Er muß nicht zwangsläufig die Meinung des Verlags oder die Meinung anderer Autoren dieser Seiten wiedergeben.

mercredi, 21 avril 2010

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

di Tiberio Graziani

Fonte: eurasia [scheda fonte]

http://www.ilfaromag.com/sport/wp-content/uploads/2009/10/russia2.jpg


Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale

Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.

Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni

Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.

La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.

La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:

  1. le politiche di modernizzazione;

  2. le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;

  3. la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.

Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.

In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).

Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.

Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).

L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.

Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).

Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.

Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole

I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.

Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.

È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.

Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.

Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.

A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia

La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.

Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:

  1. riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;

  2. contenimento delle spinte secessionistiche;

  3. uso “geopolitico” delle risorse energetiche;

  4. politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;

  5. costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;

  6. tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;

  7. costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.

La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.

Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.

****

1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.

2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.

3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.

5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.

6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.

7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.

10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.

11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.


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samedi, 17 avril 2010

La "Première Rome" a abdiqué

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

La “Première Rome” a abdiqué...

Plaidoyer italien pour l’Union et l’Idée eurasistes

ex: http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/

chute-de-l-empire-romain.jpgChers amis, En Italie, indubitablement, nous trouvons les meilleurs textes en matières politi­ques. Le mouvement “Eurasien” y a pris pied. La preuve? Les  pages sur la grande toile : http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/; le texte de Francesco Boco, que nous  vous présentons ici, nous rappelle quelques faits  bien réels : nous ne sommes pas indépendants, les élites poli­tiques ont failli, sont totalement incapables de comprendre les nouvelles dynamiques géopoli­tiques à l’œuvre dans le monde. Boco propose une Union Eurasienne, en tant que bloc géostra­tégique contre la tentative américaine de contrôler le globe. Pour ce  qui concerne l’Eurasie, n’oublions pas qu’ici, à Bruxelles, la section de l’émigration russe blanche a connu des ten­dances eurasistes (voir à ce propos le  livre du Prof. Wim COUDENYS, Leven voor de Tsaar. Rus­sische ballingen, samenzweerders en collaborateurs in België, Davidsfonds, Leuven, 2004, ISBN 90-5826-252-9).

Nous nous trouvons au beau milieu d’une époque de grands bouleversements. Aux peuples d’Europe et du monde s’ouvrent des perspectives de longue haleine et de diverses sortes, que l’on peut résumer, en substance, à deux positions principales : les pays collaborateurs seront absorbés par la puissance océanique, afin de former un bloc —la seconde possibilité— contre les pays “non alignés”, c’est-à-dire contre les pays qui cherchent à se soustraire au joug américain et choisissent la voie de l’indépendance.

Depuis quelque temps, face à cette perspective, on parle de la Russie comme de la puissance potentielle capable de guider la résurrection européenne et eurasiatique. Les dernières élections russes donne bon espoir pour l’avenir. Mais il vaut quand même mieux dire que la politique et la géopolitique ne se fondent pas sur des espérances mais sur des faits.

La dure réalité nous contraint de dire, effectivement, que, si, à l’Est la “Troisième Rome” reprend du poil de la bête et que l’ours russe se remet à rugir, le “Première Rome”, elle, la vraie Rome, a abandonné depuis fort longtemps le rôle qui lui revient de droit et qu’elle ne semble plus vouloir assumer.

Un processus d’unification stratégique de l’Eurasie

Le problème, dont question, se pose surtout dans la perspective des scenarii politiques qui se manifesteront dans les prochaines décennies. Inexorablement, l’effondrement du capitalisme est prévisible, prévu par divers observateurs comme inéluctable. Nous devons dès lors prendre conscience de la situation : si, avant que cet effondrement ne soit effectif, nous ne sommes pas prêts, en tant qu’Européens et qu’Italiens, et si nous ne sommes pas suffisamment indépendants des Etats-Unis sur le plan économique, alors nous risquons de subir une crise très dure, aux aléas peu clairs. Acquérir cette nécessaire indépendance économique ne peut venir que d’une alliance territoriale, économique et militaire avec la Russie et ses satellites, c’est-à-dire amorcer le processus d’unification stratégique de l’Eurasie. Depuis longtemps déjà les Etats-Unis entreprennent d’encercler le territoire de la Russie, mais, indépendamment de cette stratégie, nous devons prendre en considération le cas de l’Italie, tel qu’il se présente à l’heure actuelle, et tel qu’il se développera à coup sûr, et avec une intensité accrue, dans le futur.

En admettant qu’il faille d’ores et déjà envisager la possibilité concrète de former le continent-Eurasie, nous devons nous demander quels seront, dans ce contexte, le rôle et la fonction de l’Italie, nous demander si nous sommes prêts ou non pour ce grand bouleversement épocal.

Vu la situation qui prévaut aujourd’hui, la réponse à ces questions est évidemment négative sur toute la ligne.

Si, soudain, le bloc eurasiatique, dont nous espérons l’avènement, venait à se former, l’Italie serait en état d’impréparation totale, surtout à cause de l’absence d’une classe dirigeante qui serait en mesure de devenir un interlocuteur valable pour la Russie et qui pourrait faire valoir les droits et les intérêts de la “Première Rome”. Depuis plusieurs décennies, l’Italie est un pays asservi. Et le restera très probable­ment même si le “patron” change, à la suite de toute une série de circonstances fortuites.

L’unique alternative possible...

Le fait majeur qui nous préoccupe est double : d’une part, le projet eurasien est l’unique alternative possible pour échapper à la domination de la puissance d’Outre Atlantique; d’autre part, on s’est jusqu’ici bien trop peu préoccupé de savoir qui devra prendre les rênes du pouvoir dans notre pays quand et si le changement survient. Nous pourrions tenir le même discours en changeant d’échelle, en passant au niveau européen...

Le “Mouvement Panrusse Eurasia” est puissant et influent en Russie; il est devenu un lobby proprement dit, un centre d’influence politique et culturel; il suffit de se rappeler qu’Alexandre Douguine, Président du Mouvement, dirige aujourd’hui une université où les idées eurasistes trouvent un très large écho.

Dans notre pays, nous devons déplorer l’absence d’un lobby eurasiste, d’un groupe de pression qui, au moment opportun, pourra s’imposer par l’action d’une classe dirigeante préparée, capable de mettre en valeur le rôle de l’Italie, un pays dont l’importance est fondamentale pour nouer des contacts avec les pays de la Méditerranée et pour jouer le rôle de médiateur incontournable dans les rapports avec les pays arabes.

Cependant les idées eurasistes en Italie ont pris pied depuis quelques années; elles ont connu une diffusion plutôt satisfaisante, si bien que, désormais, le concept d’”Eurasie” n’est plus inconnu. Toutefois, la lacune que présenterait l’Italie résiderait dans l’absence d’une classe dirigeante qui pourrait devenir un allié valable, et non une caste servile, pour la nouvelle Russie impériale.

Donner vie à un mouvement eurasiste

Il existe des maisons d’éditions et des intellectuels italiens qui diffusent inlassablement le message eurasiste; leur présence s’avère fondamentale pour notre avenir, mais elle est évidemment insuffisante. Le problème se pose donc en Italie: il faut donner vie à un Mouvement Eurasiste hypothétique, prêt à coopérer avec un mouvement analogue basé à Moscou, et capable de coordonner les ambitions d’unifi­cation continentale, par le biais d’une activité de propagande bien capillarisée et bien ajustée.

Or, aujourd’hui, le problème premier est de former les futurs cadres dirigeants de ce mouvement appelé à garantir le destin grand-continental de notre peuple et de tous les peuples d’Europe. Le milieu, que l’on qualifie à tort ou à raison de “néo-fasciste”, est, qu’on le veuille ou non, le premier à avoir pris cons­cience de l’importance du projet “Eurasie” et des potentialités qu’il représente.

La création d’un centre d’influence, d’inspiration eurasiste, passe nécessairement par l’union des forces de tous ceux qui, indépendamment de leur formation politique, se sentent proches des positions eurasistes; mais chez la frange “anti-système” de la nébuleuse dite “néo-fasciste” qui représente, de fait, le principal réservoir d’hommes, d’esprits et de moyen pour réaliser cette tâche de rassemblement général.

Soyons toutefois bien clairs : dans l’appel à l’union que nous formulons ici, nous utilisons l’expression consacrée de “néo-fascisme” surtout pour identifier une aire politico-culturelle qui, finalement, s’avère vaste et variée, où se bousculent des conceptions politiques très diverses, mais que les médiats classent sous cette étiquette, qu’ils veulent infâmante et qu’ils assimilent systématiquement à des dérapages ta­pageurs, bien visibilisés et mis en scène par les services de désinformation ou de provocations en tous genres. Nous ne prendrons, dans cette aire politico-culturelle, que les éléments de fonds, indispensables à la formation des futures élites eurasistes, c’est-à-dire :

-          Il faut que ces milieux abandonnent tout nostalgisme absurde, cessent de cultiver les clichés incapacitants et mettent en terme à toutes les “führerites” personnelles.

-          Sans renoncer à leur passé politique, sans renoncer aux devoirs qu’ils impliquent, ces milieux devront nécessairement regarder vers l’avenir et se préparer en permanence à comprendre les dynamiques géopolitiques qui animeront la planète demain et après-demain.

-          En premier lieu, il s’agit de consolider le sincère sentiment européiste présent dans ces milieux (ndt :  depuis Drieu La Rochelle) et de le hisser à la dimension supérieure, c’est-à-dire à la dimension “eurasiste”; en Italie, cet européisme et ce passage à l’eurasisme devra s’allier à la conscience que notre pays est le réceptacle de la “Première Rome” et que ce statut l’empêchera d’accepter un rôle servile dans la nouvelle donne, c’est-à-dire dans l’hypothétique union eurasiatique.

Une lutte radicale contre le néo-libéralisme

-          Ces milieux devront développer les axes idéologiques d’une lutte radicale contre le capitalisme et le néo-libéralisme, que génère toute “démocratie” à la sauce américaine, et qui constituent des menaces mortelles pour tous les peuples d’Europe, car le message politique, historique et génétique, qu’ont légué au fil des siècles, les peuples d’Europe, est celui d’une fusion entre l’idéal communautaire et l’idéal impérial.

-          Si nous concevons l’aire dite “néo-fasciste” dans cette perspective, et si nous nous adressons à elle, parce qu’elle est la plus idoine pour réceptionner notre message eurasiste, alors, en bout de course, le processus d’union continental euro-russe s’en trouvera facilité et accéléré.

-          Dans le cas où, dans le processus de formation du bloc eurasiatique, l’Italie ne se serait pas préparée à la nouvelle donne, et si les élites, dont nous entendons favoriser l’avènement, auraient été contrecarrées dans leurs desseins, rien ne changera, ou quasi rien, par rapport à la situation actuelle, comme toujours dans notre pays, la classe dirigeante sera formée d’opportunistes serviles, obséquieux devant le patron du jour, indignes d’assumer la fonction qu’ils occupent, installés au pouvoir par pur intérêt personnel.

-          Nous devons nous rappeler, ici, les enseignements de Machiavel, qui nous disait que l’aide des armes d’autrui est utile en soi, mais calamiteuse dans ses conséquences, “parce que, si l’on perd, on reste vaincu, si l’on gagne, on demeure leur prisonnier”. Dans les conditions actuelles, donc, qui découlent de la victoire américaine de 1945 en Europe, nous ne pouvons espérer être libres un jour, sauf si nous conquerrons le pouvoir à l’aide de nos seules forces et de notre détermination; nous ne le serons que si nous obtenons une Europe souveraine, indépendante et armée, prélude à une Eurasie impériale, fédérale et armée.

-          L’Union avec la “Troisième Rome” ne signifie pas une soumission servile aux volontés de Moscou, au contraire, elle signifie la réaffirmation des valeurs et de l’importance de la “Première Rome”  —et pas seulement sur le plan géopolitique— une “Première Rome” dont nous devons nous enorgueillir d’appartenir et dont nous devons nous faire les nouveaux hérauts.

-          L’Eurasie est un destin, une union continentale à laquelle l’Europe et la Russie ont toujours secrètement aspiré, comme soutenues par un esprit, un moteur invisible. Dans le passé, cette union a échoué. Cet échec nous enjoint à ne plus commettre les erreurs du passé, à nous préparer pour les bouleversements de l’avenir.

Francesco BOCO, Belluno, 30 décembre 2003.

lundi, 05 avril 2010

Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?

Brzezinski sta per finire nella pattumiera della Storia ?

di Alessandro Lattanzio

Fonte: saigon2k [scheda fonte]



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

zbigniew_brzezinski.jpgIl 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.

Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.

Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:

“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.

Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:

“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.

Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.

In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.

Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.

Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.

Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.

Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.



Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

__________

(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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vendredi, 02 avril 2010

Vers une guerre commerciale entre la Chine et les Etats-Unis?

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Vers une guerre commerciale entre la Chine et les États-Unis?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

« Le ciel qui surplombe le commerce mondial est noir de nuées d’orage. Les tambours de guerre battent de plus en plus fort. Certains guettent déjà l’équivalent de l’assassinat de l’archiduc François-Ferdinand. Une étincelle suffirait à embraser la planète. » Voilà, dans le journal boursier britannique The Financial Times, l’introduction d’un article consacré aux relations commerciales sino-américaines. L’assassinat de l’archiduc avait été le prélude de la la Première Guerre mondiale. Le risque est réel de voir, le 15 avril, un rapport du trésor américain sur la monnaie chinoise provoquer le choc qui, à son tour, déclencherait la guerre commerciale entre les États-Unis et la Chine. Personne, dans le monde, n’échapperait aux retombées d’une telle guerre.

Depuis quelques mois déjà, d’agressifs sinophobes mènent tambour battant une offensive contre la monnaie chinoise, le yuan. Le sénateur de Pennsylvanie Arlen Specter disait en février : « Les Chinois raflent nos marchés et nos emplois. Entre 2001 et 2007, ils nous ont volé 2,3 millions d’emplois. Les subsides à leur industrie et la manipulation de leur monnaie sont des formes de banditisme international. »

Obama confirme que la Chine doit tolérer pour le yuan un cours de change « centré sur le marché .» Le cours bas du yuan coûte à notre pays des centaines de milliers, voire des millions d’emplois, ajoute le président. Un porte-parole de la Maison-Blanche menace : « Si la Chine ne corrige pas le cours du yuan, les États-Unis seront mis sous pression afin de prendre des mesures contre cette situation. »

Quelques jours plus tard, 130 sénateurs et membres de la Chambre des représentants adressent au président une lettre dans laquelle ils exigent que le gouvernement américain prenne des mesures au cas où les Chinois s’obstinent à ne pas relever le cours de leur monnaie. Le représentant du Maine, Michael Maud, déclare : « Si notre gouvernement n’entreprend aucune action, il met un frein à la relance économique, il entrave la possibilité pour les industriels et les petites entreprises des États-Unis d’étendre leur production et d’accroître l’emploi. »

Le raisonnement est donc le suivant : les produits chinois sont bon marché parce que le cours de la monnaie chinoise est très bas. Les marchés américains sont de ce fait inondés de produits chinois, ce qui fait que les usines américaines ne trouvent plus de débouchés. Et, ainsi, le chômage augmente. Les Chinois doivent réduire leurs importations en réévaluant le yuan. De la sorte, leurs produits aux États-Unis coûteront plus cher, les usines américaines tourneront mieux et pourront mettre plus de gens au travail.

Voilà le raisonnement. La question est celle-ci : qu’y a-t-il de vrai, dans tout cela ?

Le yuan est-il coupable ?

En 2004 déjà, nombre de membres du Parlement américain exigent que le gouvernement chinois relève le cours du yuan de quelque 25 pour cent. En juillet 2005, le gouvernement chinois décide de ne plus fixer le cours du yuan, mais de le laisser évoluer de façon limitée selon une baisse ou une hausse de son cours de tout au plus 0,3 pour cent par jour. Ce faisant, à la mi-2008, le yuan a grimpé de 21 pour cent par rapport au dollar. Durant cette période, l’afflux de marchandises chinoises aux États-Unis ne diminue pas. La réévaluation de 21 pour cent n’a pas résolu le problème. Aujourd’hui, les Américains exigent à nouveau une réévaluation du yuan.

 

La mémoire américaine aurait sans doute besoin de phosphore, mais pas celle des Chinois. Ceux-ci n’ont toujours pas oublié comment, dans les années 70 et 80, les Américains étaient venus insister chez leurs alliés japonais afin qu’ils réévaluent le yen et ce, pour les mêmes raisons, précisément, que celles invoquées aujourd’hui pour la réévaluation du yuan. Pour commencer, les Japonais avaient relevé leur monnaie de 20 pour cent. Et ils l’avaient fait cinq ou six fois d’affilée. En 1970, il fallait payer 350 yen pour un dollar. Aujourd’hui, 90 yen. Pour une réévaluation, c’en est une ! Mais le Japon exporte toujours beaucoup plus de produits vers les États-Unis qu’il n’en importe des mêmes États-Unis. Ceux-ci ont désormais un déficit commercial vis-à-vis du Japon qui, calculé par habitant, est même très supérieur au déficit commercial américain vis-à-vis de la Chine. Et ce, malgré l’énorme réévaluation du yen japonais.

Bon nombre d’économistes américains n’embraient pas sur cette campagne contre la Chine. Ainsi, Albert Keidel, du Georgetown Public Policy Institute, qui déclare : « Je ne suis absolument pas convaincu que les autorités chinoises manipulent le yuan et que son cours est trop bas. Comment peut-on d’ailleurs déterminer si un cours est trop bas ? Il n’existe pas de méthode concluante pour ce faire. »

Pieter Bottelier est un économiste du Carnegie Endowment for International Peace (Fondation Carnegie pour la paix mondiale). Il dit : « Prétendre que la Chine manipule le yuan est absurde. La preuve en est, d’ailleurs, qu’après la chute de Lehman Brothers, le dollar a grimpé. Le yuan a grimpé en même temps. Si les Chinois manipulaient leur monnaie, ils l’auraient bien empêché de grimper. »

Robert Pozen, économiste de la Harvard Business School, n’est pas convaincu non plus de la chose. Il déclare : « Imaginez que les Chinois réévaluent leur monnaie de 15 pour cent. Cela changerait-il quelque chose ? À peine ? »

Daniel Griswold, directeur du Center for Trade Policy Studies à l’Institut Cato de Washington, ne suit pas non plus cette croisade contre le yuan. Il estime : « Un yuan réévalué n’apporterait pas beaucoup d’oxygène à l’économie américaine, pas même s’il était réévalué de 25 pour cent. Depuis 2002, le dollar a perdu beaucoup de sa valeur par rapport au dollar canadien et à l’euro européen et, pourtant, notre déficit commercial via-à-vis du Canada et de l’Europe ne cesse de s’accroître. La réévaluation d’une autre monnaie est rarement une solution aux problèmes internes d’une économie. »

Stephen Roach, chef pour l’Asie de la banque d’affaires américaine Morgan Stanley, ne veut pas entendre parler du lauréat du prix Nobel Paul Krugman qui, dans deux pièces d’opinion publiées dans le New York Times, réclamait des taxes à l’importation sur les produits chinois afin d’augmenter de la sorte de 25 à 40 pour cent le prix de ces produits aux États-Unis. Roach explique : « Le conseil de Krugman est particulièrement mauvais et complètement déplacé. Le yuan est en réalité une bouée éclairante dans la tempête qui nous entoure. Il y a chez nous des gens qui s’époumonent contre la Chine mais qui ne voient pas que les problèmes de notre économie se situent dans notre économie même. Il est temps que Krugman soit fermement remis à sa place. »

Même le Wall Street Journal écrit : « On ne peut en croire ses oreilles. Il y a réellement des hommes politiques et des hommes d’affaires américains qui prétendent que la cause de nos problèmes réside chez les Chinois. Ils utilisent le yuan comme bouc émissaire. »

Le Fonds monétaire international ne pense pas non plus que la réévaluation du yuan puisse être très salutaire : « Une réévaluation du yuan chinois aidera un peu l’économie américaine, mais ne résoudra pas les problèmes internes. Si le yuan chinois est réévalué de 20 pour cent et s’il se passe la même chose avec la monnaie des autres marchés asiatiques en pleine croissance, l’économie américaine pourra peut-être connaître une croissance de 1 pour cent. »

Ces économistes et institutions renvoient aux problèmes internes de l’économie américaine. Examinons l’un des principaux problèmes de cette dernière

Plus de produits avec moins de main-d’œuvre

Les États-Unis, soit à peine 5 pour cent de la population mondiale, produisent presque 25 pour cent de ce qui est produit annuellement dans le monde en marchandises et services. Il y a dix ans, ils n’en étaient encore qu’à 20 pour cent. Malgré la montée de la Chine, malgré « l’envahissement du marché américain, » la part des États-Unis dans la production mondiale a augmenté, passant d’un cinquième à un quart. La production s’étend, la part américaine de la production mondiale augmente. On se poserait la question : De quoi se plaint l’establishment américain, en fait ? Mais le problème est celui-ci : Cette production de plus en plus importante est réalisée par de moins en moins de travailleurs.

 

Le ministère américain de l’Emploi dit qu’en 1979, 19,5 millions de personnes travaillaient dans le secteur industriel (manufacturier) américain. Vingt-six ans plus tard, au premier trimestre 2005, ils sont encore 14,2 millions. La production réalisée par ces 14,2 millions de travailleurs en 2005 était le double de celle des 19,5 millions de 1979. Avec 25 pour cent de travailleurs en moins, on produit deux fois plus. Au cours des 15 premières années qui ont suivi 1979, date de départ du calcul du ministère de l’Emploi, il y avait peu de produits chinois sur le marché américain et, pourtant, les emplois disparaissaient constamment en masse. Le ministère estime qu’un pour cent seulement de ces emplois liquidés sont dus à l’influence de la Chine.

Au cours des 10 années écoulées, chaque travailleur aux États-Unis a produit en moyenne 2,5 pour cent de plus chaque année. Cette hausse de la productivité n’est pas utilisée pour alléger le travail, pour augmenter les salaires, pour appliquer une diminution de la durée du temps de travail ni non plus pour créer plus d’emplois. Les entrepreneurs américains font précisément le contraire : le fruit accru du travail est utilisé pour supprimer des emplois.

Pour les hommes politiques et le monde économique des États-Unis, il est plus facile de montrer du doigt la Chine et le yuan que de vérifier où en sont les choses dans l’économie américaine et de tenter de dégager une solution à ce problème.

L’impact positif de la Chine sur l’économie américaine

Le fait de montrer la Chine du doigt est encore plus étonnant quand on examine tout ce que l’économie américaine doit à la Chine. L’an dernier, au plus fort de la crise, les exportations globales des États-Unis baissaient de 17 pour cent, mais les exportations des États-Unis vers la Chine, par contre, ne régressaient que de 0,22 pour cent. Une aubaine, pour l’économie américaine.

Quelque 50.000 entreprises américaines sont actives en Chine. L’écrasante majorité y gagne beaucoup d’argent. Pour certaines, la Chine constitue même un ange salvateur. Le Financial Times écrit : « Si la General Motors croit en Dieu, elle doit sans doute être en train de prier à genoux pour le remercier de l’existence de la Chine. L’an dernier, la vente des voitures GM en Chine a augmenté de 66 pour cent, alors qu’aux États-Unis, elle baissait de 30 pour cent. Sans la Chine, la GM n’aurait pu être sauvée. »

Les chiffres de vente élevés de la General Motors et de la plupart des autres entreprises américaines en Chine ne sont possibles que parce que l’économie et le pouvoir d’achat de la population y croissent rapidement. C’est une bonne chose, non seulement pour les entreprises américaines en Chine, mais pour toute l’économie mondiale. La Chine est devenue le principal moteur économique de la planète. Le journal du dimanche britannique The Observer écrit : « La Chine tient la barre de la relance mondiale. Elle aide le reste de l’Asie et des pays comme l’Allemagne, qui exporte beaucoup vers elle, à sortir de la récession. La Chine est l’un des principaux facteurs à avoir empêché, en 2009, que le monde ne s’enfonce encore plus dans la crise. »

The Economist écrit dans le même sens : « La Chine connaît une croissance rapide alors que les pays riches sont en récession. Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Chris Wood, un analyste du groupe financier CLSA Asia-Pacific Markets, dit que la Chine s’emploie davantage que les États-Unis à faire face à la crise. Les autorités chinoises accroissent le pouvoir d’achat des gens et c’est un puissant stimulant pour l’économie, ajoute-t-il.

Les chiffres lui donnent raison. Selon le bureau d’étude Gavekal-Dragonomics, le revenu net des ménages chinois dans la période 2004-2009 a augmenté en moyenne et par an de 7,7 pour cent à la campagne et de 9,7 pour cent dans les villes. Depuis le début de la crise, cette tendance s’amplifie encore. On peut le voir dans le tableau ci-dessous, qui reprend les divers indicateurs de l’économie chinoise pour les deux premiers mois de cette année.

Les indicateurs économiques en Chine, évolution en pour cent par rapport à la même période en 2009

jan-fév 2010
Croissance valeur industrielle ajoutée + 20,7 %
Production d’électricité + 22,1 %
Investissements (croissance réelle) + 23,0 %
Vente au détail (croissance réelle) + 15,4 %
Exportations + 31,4 %
Importations + 63,6 %
Vente de biens immobiliers + 38,2 %
Revenu autorités centrales + 32,9 %

Source : Dragonweek, Gavekal, 15 mars 2010, p. 2

Aucune économie occidentale ne peut présenter de tels chiffres. Les indicateurs économiques occidentaux n’atteignent même pas 10 pour cent des indicateurs chinois. Comme l’écrit The Economist : « Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Parcourons un peu la situation :

–les États-Unis savent que l’économie chinoise est un moteur de progrès pour toute l’économie mondiale et également, de ce fait, pour l’économie américaine ;
–ils savent que le yuan a à peine un effet négatif sur l’emploi aux États-Unis mêmes ;
–ils savent que c’est le Canada et non la Chine qui est le premier exportateur vers les États-Unis ;
–ils savent que 56 pour cent des exportations chinoises vers les États-Unis ne sont pas dues à des firmes chinoises mais viennent de multinationales américaines ;
–ils savent qu’un produit étiqueté « Made in China » aux États-Unis devrait généralement porter une étiquette « Made in China, the US, Japan, S-Korea, Taiwan, Thailand, Indonesia, Philippines, Vietnam, Singapore, Malaysia » car, pour 55 pour cent des exportations chinoises, la Chine n’est que le lieu où les diverses composantes sont assemblées, alors que ces composantes ont été produites en dehors de la Chine ;
–ils savent que, du prix de vente des produits assemblés en Chine, une petite part seulement va à la Chine et la plus grosse part va aux producteurs des composantes de ces produits ;
–ils savent que, du fait que l’assemblage est confié à la Chine, les autres pays est-asiatiques exportent beaucoup moins vers les États-Unis, mais bien plus vers la Chine et que le total des exportations est-asiatiques, chinoises y compris, vers les États-Unis, ne sont pas plus importantes, mais moins importantes, qu’il y a dix ans.

Et, pourtant, la Chine et son yuan sont les têtes de Turcs. Daniel Griswold, du Center for Trade Policy Studies, déclare : « L’attitude agressive de Washington à l’égard de Beijing est inspirée par des considérations politiques et non économiques. »

Les motivations

Les États-Unis exigent que le yuan soit réévalué mais ils exigent également, et c’est plus important, que le yuan soit libéré. Actuellement, c’est la Banque nationale chinoise, qui détermine quotidiennement le cours du yuan – depuis juillet 2008, son cours est d’entre 8,26 et 8,28 yuan pour un dollar. Le président Obama a dit : « Le cours du yuan doit être davantage centré sur le marché. » Ce qui signifierait que son cours ne serait plus déterminé par la Banque nationale, mais par le marché. Ce serait une défaite pour l’économie planifiée chinoise et une victoire pour le marché. Car, alors, l’État perdrait l’un des moyens de sa politique financière indépendante et souveraine. L’UNCTAD, l’organisation des Nations unies pour le commerce et le développement, voit où les États-Unis veulent en venir et écrit dans un rapport concernant les dangers entourant le yuan : « Le repos et le calme après la tempête financière sont tout à fait révolus. Le casino qui s’est vidé voici un an, est à nouveau rempli. Une fois de plus, on joue et on parie jusqu’à plus outre. De même, la foi inébranlable dans le fondamentalisme du marché est tout à fait revenue. Cette foi naïve estime toujours que les problèmes économiques peuvent être résolus en confiant le cours des monnaies aux marchés financiers sauvages. Ceux qui pensent que la Chine va permettre aux marchés absolument non fiables de déterminer le cours de sa monnaie ne se rendent pas compte à quel point la stabilité interne de la Chine est importante pour la région et pour le monde. »

En d’autres termes, laisser le cours du yuan au marché, c’est la même chose que de confier vos enfants à un pédophile. Mais l’offensive des États-Unis contre le « cours très bas » du yuan et contre « l’emprise de l’État chinois sur la monnaie » encourage un groupe d’économistes et d’entrepreneurs chinois à réitérer leur appel en faveur d’« une monnaie plus libre, centrée sur le marché. » Les points de vue en faveur du marché et de moins d’intervention de l’État gagnent en force dans une certaine section du monde économique et universitaire chinois et ce n’est surtout pas pour déplaire aux États-Unis.

 

La deuxième raison de l’offensive américaine contre la politique financière du gouvernement chinois est à chercher aux États-Unis mêmes. Le chômage U6 aux États-Unis est à 16,8 pour cent. U6 désigne le chômage officiel plus les chômeurs qui ne cherchent plus de travail parce qu’ils sont convaincus qu’ils ne trouveront quand même pas d’emploi, plus les travailleurs à temps partiel qui aimeraient bien travailler à temps plein mais ne parviennent pas à trouver un emploi de ce type. Le chômage effrayant de 16,8 %, la crise économico-financière la plus grave depuis 1929, l’incertitude quant à savoir si l’Amérique va sortir de la crise et si les entreprises et les familles seront encore en mesure de rembourser leurs dettes, l’incapacité du gouvernement et des entreprises à éviter toute cette misère… tout cela renforce la question : Qui a provoqué cela ? Qui doit en payer la facture ? La Chine est un coupable tout indiqué. Si l’opinion publique emprunte cette direction, les problèmes internes et les contradictions mêmes de l’économie américaine n’apparaîtront pas à la surface. Le journal Monthly Review écrit : « L’intention consiste à convaincre les travailleurs américains que la cause des problèmes ne réside pas dans le système économique même mais dans le comportement d’un gouvernement étranger. »

Tertio, la Chine est également une cible pour une partie de plus en plus importante du monde politique et du monde des affaires des États-Unis pour des raisons géostratégiques. Dans le monde entier, la Chine grignote l’influence américaine. Avant notre ère et jusqu’au milieu du 19e siècle, le centre du monde a été l’Est de l’Asie. Après cela, il s’est déplacé vers l’Europe occidentale et les États-Unis. Aujourd’hui, il retourne vers l’Est de l’Asie. Les États-Unis cherchent des moyens de contrer ce processus et de l’inverser. Ils ne tolèreront pas de ne plus occuper la première place dans le monde. La Chine est de ce fait cataloguée comme un facteur négatif, menaçant. D’où le fait qu’on voit paraître aujourd’hui, aux États-Unis, des ouvrages comme « La Chine est-elle un loup dans le monde ? », de George Walden, et dans lequel le pays est décrit comme une menace de mort pour le monde entier, pour la liberté et la démocratie. Et d’où le fait aussi qu’un film comme « Red Dawn »  (L’aube rouge) va bientôt sortir dans les salles américaines. Allez le voir et vous découvrirez avec effroi comment l’Armée populaire chinoise envahit la ville de Detroit.

Comment réagissent les autorités chinoises ?

Depuis 1991, les relations entre la Chine et les États-Unis sont plus ou moins stables. Cela parce que des dizaines de milliers d’entreprises américaines présentes en Chine gagnent à ce qu’il en soit ainsi. Cela tient également du fait que la Chine est le principal financier extérieur de la dette publique américaine. Et que l’exportation de tant de produits chinois vers les États-Unis tempère la hausse des prix à la consommation, ce qui est positif pour l’économie américaine.

Il semble toutefois que les motivations d’une bonne relation commencent à céder le pas devant les motifs d’attitude agressive envers la Chine. L’offensive des gens qui détestent la Chine fait céder les partisans américains des bonnes relations. Le journal britannique The Telegraph décrit le climat comme suit : « On est convaincu que les relations américano-chinoises sont importantes, mais on ne pense pas qu’une collision frontale entre les deux mènerait à une destruction mutuelle. Washington sortira vainqueur de la lutte. » Cette conviction fait reculer les entreprises américaines qui, ensemble, ont investi 60 milliards de dollars en Chine. Myron Brilliant, vice-président de la Chambre américaine de commerce, déclare : « Je ne pense pas que le gouvernement chinois puisse espérer que le monde américain des affaires va arrêter notre parlement. Notre Chambre de commerce reste un pont entre la Chine et les États-Unis, mais nous ne pouvons plus retenir les loups. »

 

En attendant, le gouvernement chinois résiste pied à pied. Il ne pliera en aucun cas face aux pressions américaines. En ce moment, le gouvernement examine comment les secteurs des importations et des exportations réagiront lors d’une réévaluation du yuan. Les autorités ont l’intention de réévaluer légèrement le yuan, entre 4 et 6 pour cent, pour des raisons macroéconomiques. Une réévaluation rendra les produits chinois plus chers, mais les produits importés seront meilleur marché. L’an dernier, la Chine a importé 1.000 milliards de dollars ; la réévaluation du yuan peut être salutaire à la diminution de l’important excédent commercial. La réévaluation conviendra également à la politique visant à transformer l’appareil économique en le faisant passer d’une production à bas prix à une production de valeur élevée. Et, conformément aux intentions des autorités chinoises, la réévaluation peut également déplacer certaines parties de l’appareil économique vers l’intérieur et l’Ouest du pays. Bref : si une réévaluation a bel et bien lieu, ce sera parce qu’elle cadrera avec la politique macroéconomique.

Mais une réévaluation légère du yuan sera absolument insuffisante aux yeux des gens hostiles à la Chine. Ils veulent une réévaluation d’entre 27 et 40 pour cent. La prochaine étape des « loups » (dixit Myron Brilliant, le vice-président de la Chambre américaine de commerce) sera le rapport semestriel du Trésor américain, qui sortira au plus tard le 15 avril. Il y a de fortes chances que le Trésor accuse la Chine de manipuler le yuan. Ce sera le signal, pour des membres de la Chambre des représentants, d’instaurer des taxes élevées à l’importation sur toute une série de produits chinois. Le Financial Times écrit : « Ca revient à utiliser une bombe atomique. » Car les autorités chinoises prendront des contre-mesures. La guerre commerciale sera alors un fait. La plus importante relation bilatérale dans le monde, celle qui existe entre les États-Unis et la Chine, va sombrer tout un temps dans un mutisme mutuel, avec toutes les conséquences qu’on devine pour les problèmes mondiaux qui ne pourraient être résolus que dans une approche collective.

Cet article a été écrit par Peter Franssen, rédacteur de www.infochina.be, le 26 mars 2010.

Sources
(dans l’ordre d’utilisation)
-Alan Beattie, « Skirmishes are not all-out trade war » (Les escarmouches n’ont rien d’une guerre commerciale totale), The Financial Times, 14 mars 2010.
-Gideon Rachman, « Why America and China will clash » (Pourquoi l’Amérique et la Chine vont se heurter), The Financial Times, 18 janvier 2010.
-Foster Klug, « US lawmakers attack China ahead of Nov. Elections » (Les législateurs américains attaquent la Chine bien avant les élections de novembre), Associated Press, 15 mars 2010.
-Andrew Batson, Ian Johnson et Andrew Browne, « China Talks Tough to U.S. » (Le langage musclé de la Chine à l’adresse des USA), The Wall Street Journal, 15 mars 2010.
-« US lawmakers urge action on renminbi » (Les législateurs américains veulent hâter les mesures sur le renminbi), The Financial Times, 15 mars 2010.
-Leah Girard, « US Clash w/ China of Currency Manipulation Heats Up » (Le choc entre les États-Unis et la Chine à propos de la manipulation des devises s’échauffe), Market News, 17 mars 2010.
-Xin Zhiming, Fu Jing et Chen Jialu, « Yuan not cause of US woes » (Le yuan n’est pas la cause des malheures américains), China Daily, 17 mars 2010.
-« Stronger yuan not tonic for US economy » (Un yuan plus fort n’aurait rien de tonique pour l’économie américaine), Xinhua, 18 mars 2010.
-Li Xiang, « Sharp revaluation of yuan would be ‘lose-lose’ situation » (Une forte réévaluation du yuan serait une opération perdante pour les deux pays), China Daily, 22 mars 2010.
-« The Yuan Scapegoat » (Le yuan, bouc émissaire), The Wall Street Journal, 18 mars 2010.
-« RMB is not a cure-all for US economy: IMF » (Le renminbi n’a rien d’une panacée pour l’économie américaine, prétend le FMI), Xinhua, 17 février 2010.
-Dan Newman et Frank Newman, « Hands Off the Yuan » (Ne touchez surtout pas au yuan), Foreign Policy in Focus, 16 mars 2010.
-William A. Ward, Manufacturing Productivity and the Shifting US, China and Global Job Scenes – 1990 to 2005 (La productivité manufacturière et le déplacement de la scène de l’emploi américaine, chinoise et mondiale – de 1990 à 2005), Clemson University Center for International Trade, Working Paper 052507, Clemson, 2005, p. 6.
-Daniella Markheim, « Le yuan chinois : manipulé, mal aligné ou tout simplement mal compris ?), Heritage Foundation, 11 septembre 2007.
-Brink Lindsey, Job Losses and Trade – A Reality Check (Pertes d’emplois et commerce – un contrôle de la réalité), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 19, 17 mars 2004.
-« Premier Wen Says China Will Keep Yuan Basically Stable » (La Premier ministre Wen affirme que la Chine va maintenir la stabilité fondamentale du yuan), Xinhua, 14 mars 2010.
-Patti Waldmeir, « Shanghai tie-up drives profits for GM » (Shanghai fait grimper les bénéfices de GM), The Financial Times, 21 janvier 2010.
-Ashley Seager, « China and the other Brics will rebuild a new world economic order » (La Chine et les autres pays du BRIC vont rebâtir un nouvel ordre économique mondial), The Observer, 3 janvier 2010.
-« Currency contortions » (Contorsions monétaires), The Economist, 19 décembre 2009.
-« Fear of the dragon » (La crainte du dragon), The Economist, 9 janvier 2010.
-DragonWeek, Gavekal, 8 février 2010, p. 2.
-Daniel Griswold, « Who’s Manipulating Whom ? China’s Currency and the U.S. Economy » (Qui manipule qui ? La monnaie chinoise et l’économie américaine), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 23, 11 juillet 2006.
-« China and the US Economy » (La Chine et l’économie américaine), The US-China Business Council, janvier 2009, p. 2.
-Ambrose Evans-Pritchard, « Is China’s Politburo spoiling for a showdown with America ? » (Le Politburo chinois cherche-t-il une confrontation avec l’Amérique ?), The Telegraph, 14 mars 2010.
-Martin Hart-Landsberg, « The U.S. Economy and China: Capitalism, Class, and Crisis » (L(« conomie américain et la Chine : capitalisme, classe et crise), Monthly Review, Volume 61, n° 9, février 2010.
-« Global monetary chaos: Systemic failures need bold multilateral responses » (La chaos monétaire mondial : les échecs systémiques nécessitent d’audacieuses réponses multilatérales), UNCTAD, Policy Brief n° 12, mars 2010.
-Ho-fung Hung, « The Three Transformations of Global Capitalism » (Les 3 transformations du capitalisme mondial), et Giovanni Arrighi, « China’s Market Economy in the Long Run » (L’économie de marché chinoise dans le long terme), tous deux dans : Ho-fung Hung, China and the Transformation of Global Capitalism (La Chine et la transformation du capitalisme mondial), John Hopkins University Press, Baltimore, 2009, pp. 3-9 et 23.
-Ambrose Evans-Pritchard, op. cit.
-James Politi et Patti Waldmeir, « China to lose ally against US trade hawks » (La Chine va perdre un allié contre les faucons du commerce américain), The Financial Times, 21 mars 2010.
-Keith Bradsher, « China Uses Rules on Global Trade to Its Advantage » (La Chine utilise à son propre profit les règles du commerce mondial), The New York Times, 14 mars 2010.

mardi, 30 mars 2010

Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

vendredi, 26 mars 2010

La Chine publie un rapport sur les droits de l'Homme aux Etats-Unis

La Chine publie un rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis

par Antoine Decaen (Buenos Aires)

Ex: http://www.mecanopolis.org/

La Chine a riposté aux critiques américaines contenues dans un rapport sur les droits de l’Homme, en publiant son propre document sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis.

etats_unis_nouveau_symbole.jpg« Comme les années précédentes, le rapport américain est plein d’accusations contre la situation des droits de l’Homme dans plus de 190 pays et régions, dont la Chine, mais ferme les yeux sur, ou évite et même dissimule les abus massifs des droits de l’Homme sur son propre territoire », a déclaré le Bureau de l’Information du Conseil des Affaires d’Etat (gouvernement chinois) dans son rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis.

Le Rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis en 2009 a été publié en réponse au rapport 2009 sur la situation des droits de l’Homme dans le monde, publié le 11 mars par le Département d’Etat américain.

Le rapport est « préparé pour aider les gens à travers le monde à comprendre la situation réelle des droits de l’Homme aux Etats-Unis », indique le rapport.

Le rapport a passé en revue la situation des droits de l’Homme aux Etats-Unis en 2009 à travers six thèmes : vie, propriété et sécurité personnelle ; droits civils et politiques ; droits culturels, sociaux et économiques ; discrimination raciale ; droits des femmes et des enfants ; violations des droits de l’Homme par les Etats-Unis contre d’autres pays.

Il critique les Etats-Unis pour avoir utilisé les droits de l’Homme comme « outil politique pour s’ingérer dans les affaires intérieures d’autres pays et diffamer l’image d’autres pays au profit de ses propres intérêts stratégiques« .

La Chine conseille au gouvernement américain de tirer des leçons de l’histoire, avoir lui-même une attitude correcte, d’oeuvrer pour améliorer sa propre situation des droits de l’Homme, et de rectifier ses actions dans le domaine des droits de l’Homme.

Il s’agit de la 11e année consécutive que le Bureau de l’Information du Conseil des Affaires d’Etat publie un article sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis, en réponse au rapport annuel du Département d’Etat américain.

« A un moment où le monde souffre d’un grave désastre sur le plan des droits de l’Homme, causé par la crise financière mondiale provoquée par la crise des subprimes américaine, le gouvernement américain ignore toujours ses propres problèmes graves en matière de droits de l’Homme et se réjouit d’accuser d’autres pays. C’est vraiment dommage », indique le rapport.

ESPIONNER LES CITOYENS

Bien qu’il prône la « liberté d’expression », la « liberté de la presse » et la « liberté sur Internet », le gouvernement américain surveille et limite sans aucun scrupule la liberté des citoyens quand il s’agit de ses propres intérêts et besoins, indique le rapport.

Les droits des citoyens sur l’accès aux informations et de leur distribution sont sous stricte supervision, ajoute le rapport.

Selon les médias, l’Agence de sécurité nationale des Etats-Unis a commencé en 2001 à installer des appareils d’écoute spécialisés dans tout le pays pour surveiller les appels, les fax, les emails et recueillir les communications intérieures.

Les programmes d’écoute visaient tout au début les Américains d’origine arabe, mais se sont élargis ensuite à tous les Américains.

Après les attaques du 11 septembre, le gouvernement américain, sous prétexte d’anti-terrorisme, a autorisé ses départements d’intelligence à pirater les communications par email de ses citoyens et à surveiller et supprimer, à travers des moyens techniques, toute information sur Internet qui pourrait menacer les intérêts nationaux des Etats-Unis.

Les statistiques montrent qu’entre 2002 et 2006, le FBI a recueilli des milliers d’informations sur les appels téléphoniques de citoyens américains.

En septembre 2009, le pays a établi un organe de supervision de sécurité sur Internet, renforçant les inquiétudes des citoyens américains sur une utilisation éventuelle du gouvernement américain de la sécurité d’Internet comme prétexte pour surveiller et s’ingérer dans les systèmes personnels.

La soi-disant « liberté de la presse » aux Etats-Unis est en fait complètement subordonnée aux intérêts nationaux et manipulée par le gouvernement américain, souligne le rapport.

Fin 2009, le Congrès américain a passé un projet de loi pour imposer des sanctions contre plusieurs chaînes satellite arabes pour la diffusion de contenus hostiles aux Etats-Unis et incitant à la violence.

LA VIOLENCE RÉPANDUE AUX ETATS-UNIS

La violence répandue aux Etats-Unis menace la vie, la propriété et la sécurité personnelle des Américains, indique le rapport.

En 2008, les Américains ont éprouvé 4,9 millions de crimes violents, 16,3 millions de crimes contre la propriété et 137 000 vols personnels, et le taux de crimes violents est de 19,3 victimes pour 1 000 personnes âgées de 12 ans et plus.

Chaque année, environ 30 000 personnes succombent à des accidents impliquant des armes à feu. Selon un rapport du FBI, il y a eu 14 180 victimes de meurtre en 2008, affirme le rapport.

Les campus sont des zones de plus en plus touchés par les crimes violents et les fusillades. La fondation américaine U.S. Heritage Foundation a rapporté que 11,3% des lycéens à Washington D.C. avaient reconnu avoir été « menacés ou blessés » par une arme durant l’année scolaire 2007-2008.

ABUS DE POUVOIR

La police américaine fait souvent preuve de violence sur la population et les abus de pouvoir sont communs chez les exécuteurs de la loi, indique le rapport.

Les deux dernières années, le nombre de policiers new-yorkais placés sous révision pour avoir engrangé trop de plaintes a augmenté de 50%.

Dans les grandes villes américaines, la police arrête, interpelle et fouille plus d’un million de personnes chaque année, le nombre augmentant brusquement par rapport à il y a quelques années.

Les prisons aux Etats-Unis sont encombrées de détenus. Environ 2,3 millions de personnes ont été placées en garde à vue, soit un habitant sur 198, selon ce rapport.

De 2000 à 2008, la population carcérale américaine s’est accrue en moyenne annuelle de 1,8%.

Les droits fondamentaux des prisonniers aux Etats-Unis ne sont pas bien protégés. Les cas de viol de détenus commis par les employés de prison ont été largement rapportés, ajoute le document.

Selon le département américain de la justice, les rapports sur les délits sexuels à l’égard des détenus commis par les travailleurs de prison dans les 93 prisons fédérales du pays ont doublé au cours des huit années passées.

D’après une enquête fédérale sur plus de 63 000 prisonniers fédéraux ou de l’Etat, 4,5% ont avoué avoir été abusés sexuellement au moins une fois durant les 12 mois précédents.

NOMBRE CROISSANT DE SUICIDES EN RAISON DE LA PAUVRETÉ

Selon le rapport, la population pauvre est la plus importante depuis onze ans.

Le journal Washington Post a rapporté que 39,8 millions d’Américains vivaient dans la pauvreté fin 2008, en hausse de 2,6 millions par rapport à 2007. Le taux de pauvreté en 2008 était de 13,2%, le plus haut niveau depuis 1998.

La pauvreté a entraîné une forte croissance du nombre de cas de suicides aux Etats-Unis. Selon les informations, on enregistre chaque année 32 000 cas de suicides aux Etats-Unis, presque le double des cas de meurtre, dont le nombre est de 18 000, fait savoir le rapport.

VIOLATION DES DROITS DES TRAVAILLEURS

La violation des droits des travailleurs est très grave aux Etats-Unis, indique le rapport.

Selon le journal New York Times, environ 68% des 4 387 travailleurs à bas revenus interrogés lors d’une enquête disent avoir connu une réduction de salaires et 76% d’entre eux ont fait des heures supplémentaires sans être payés correctement.

Le nombre de personnes sans assurance santé n’a cessé d’augmenter pendant huit ans consécutifs, poursuit le rapport.

Les chiffres publiées par le Bureau de recensement des Etats-Unis montrent que 46,3 millions de personnes n’avaient pas d’assurance santé en 2008, représentant 15,4 % de la population totale, en comparaison avec les 45,7 millions en 2007, représentant une hausse consécutive pendant huit ans.

Source : French.china.org

dimanche, 21 mars 2010

Final Countdown: Bunkerbrechende Bomben für Iran-Angriff werden nach Diego Garcia gebracht

Final Countdown: Bunkerbrechende Bomben für Iran-Angriff werden nach Diego Garcia gebracht

Udo Ulfkotte : Ex: http://info.kopp-verlag.de/

iran-you-are-next.jpgWenn Regierungen vor lauter Krisen keinen anderen Ausweg mehr wissen, dann lenken sie die Bevölkerung mit Kriegen von der eigenen Unfähigkeit ab. Präsident Obama lässt derzeit 387 bunkerbrechende Bomben in den Indischen Ozean verlegen – von dort aus würden die Bomber starten, die den Iran angreifen sollen. Die Frachtpapiere der »US Navy« liegen vor. Und sie belegen, dass es sich bei dieser Nachricht nicht etwa um eine Zeitungsente handelt.

Das in Florida ansässige Schiffsfrachtunternehmen Superior Maritime Services erhält derzeit 699.500 Dollar dafür, dass es »Gerät« für einen potenziellen Angriff auf den Iran zum amerikanischen Militärstützpunkt Diego Garcia im Indischen Ozean bringt. Die Fracht ist brisant. Es handelt sich nicht etwa um Kleidungsstücke oder Zelte. Nein, es sind bunkerbrechende Bomben der Typen Blu-110 und Blu-117. Die Amerikaner haben dann in wenigen Tagen genügend Bomben auf Diego Garcia, um mehr als 10.000 Ziele im Iran binnen weniger Stunden »auszuschalten«. Darüber berichtet nun die Zeitung Sunday Herald mit Hinweis auf Frachtpapiere der US Navy. Demnach sollen zehn Schiffscontainer mit insgesamt 387 sogenannten Bunker Bustern von Concord in Kalifornien auf die Insel Diego Garcia im Indischen Ozean transportiert werden. Diese Einzelheiten wurden auf einer Website über Ausschreibungen der US Navy veröffentlicht. Dan Plesch, Direktor am Zentrum für internationale Studien und Diplomatie an der Universität von London, sagt dazu: »Sie bereiten sich auf die völlige Zerstörung des Iran vor, US-Bomber sind heute bereit, 10.000 Ziele im Iran innerhalb weniger Stunden zu zerstören.«

 

 

jeudi, 18 mars 2010

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Russia

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Rusia

Para Moscú, la inacción de los Estados Unidos y la OTAN para combatir el tráfico de drogas en Afganistán, se traducen en una guerra no declarada contra Rusia.

El embajador ruso para la OTAN, Dmitry Rogozin, fustigó a la alianza por su falta de vigilancia sobre el tráfico de estupefacientes en el país asiático.

Afganistán produce alrededor del 90% del opio del mundo. Las drogas afganas entran en Rusia y Asia Central antes que en Europa Occidenta, y son responsables de la muerte de 30 mil rusos anualmente, dijo Rogozin.

Moscú sostuvo, también, que la producción de droga dentro de las fronteras afganas se ha incrementado 10 veces desde el 2001, año en que la OTAN liderada por los Estados Unidos invadieron ese país.


Hoy hay más de 100 mil tropas invasoras lideradas por los Estados Unidos en Afganistán; sin embargo, lejos están los invasores de lograr estabilizar el país. Desde el inicio del año 122 soldados de las fuerzas invasoras han muerto, producto de la resistencia afgana.

Extraído de La República.

mardi, 16 mars 2010

Il Grande Gioco in Asia Centrale

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Il Grande Gioco in Asia centrale

di Marco Luigi Cimminella

Fonte: eurasia [scheda fonte] 

Con la vittoria del filo-russo Janukovič alle elezioni presidenziali ucraine, svoltesi lo scorso mese, Mosca ha ritrovato un probabile alleato nello scontro energetico ingaggiato dalle grandi potenze in Asia centrale e meridionale. Il petrolio vicino-orientale non basta a soddisfare il fabbisogno di idrocarburi di Europa e Stati Uniti, che spinti alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento, hanno finito per posare gli occhi sulle riserve caspiche e caucasiche. L’estrazione e l’esportazione di queste risorse sono da tempo sottoposte al rigido monopolio del colosso russo Gazprom che, con una serie di condutture che attraversano il territorio ucraino, rifornisce i mercati occidentali.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Nel tentativo di contrastare questo chiaro “leverage” della politica estera russa, Washington, di concerto con alcuni paesi europei, ha approntato alcuni importanti progetti. Pensiamo al gasdotto Nabucco (il tragitto nella foto) o all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che permettono agli idrocarburi asiatici di viaggiare in direzione ovest scavalcando la Russia a sud. Allo stesso modo deve essere analizzato il proposito di costruire delle condutture che, attraversando le acque del Mar Nero e collegando Supsa, in Georgia, con Odessa, in Ucraina, permetta agli idrocarburi azerbaigiani, turkmeni e kazaki di raggiungere l’Europa, senza passare per il territorio di Mosca. Inizialmente il Cremlino aveva potuto ostacolare questo progetto grazie alla collaborazione del governo ucraino, con a capo il filo-russo Kučma. In seguito alla rivoluzione arancione che si era ultimata, nel 2004, con la nomina a presidente del liberale Juščenko, l’Ucraina si era mostrata favorevole ad aderire al disegno occidentale, manifestando chiare intenzioni di entrare a far parte della Nato e attirandosi così le dure critiche della classe dirigente russa. Nel febbraio scorso, Janukovič ha riportato, in seguito ad elezioni contestate dalla rivale Timošenko, un’importante vittoria che potrebbe cambiare gli assetti degli schieramenti impegnati in quella frenetica competizione, tesa all’accaparramento delle risorse energetiche, conosciuta come il Grande Gioco del XXI secolo.


Contesto storico del Grande Gioco

L’Asia centrale e meridionale ha sempre rivestito un’importanza fondamentale nello scacchiere internazionale. Considerandola come il cuore della “World Island”, cioè della massa continentale che comprende Eurasia e Africa, H. Mackinder, padre della geopolitica moderna, aveva scritto: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island controls the world”. In queste tre semplici frasi, il noto studioso raccoglieva il succo della sua teoria dell’Hertland, destinata ad avere grande successo nei secoli successivi e ad essere sottoposta anche a diverse rielaborazioni1. La teoria di Mackinder ha trovato riscontro pratico nel corso dell’Ottocento in relazione al cosiddetto “Grande Gioco”, il lungo ed estenuante conflitto che vide impegnati lo Zar e Sua Maestà nel tentativo continuo di imporre il proprio dominio in Asia centrale e meridionale.

La regione che Mackinder definisce “Terra cuore”, si identificava, nel corso della seconda metà dell’800, con il territorio sottoposto al controllo russo. Inaccessibile dal mare, ricca di petrolio e gas naturale, quest’area faceva dell’impero zarista lo stato perno dello scacchiere internazionale. Con una rottura dell’equilibrio di potenza, originatosi con il congresso di Vienna del 1814 in seguito alle sconfitte napoleoniche, lo Zar avrebbe potuto condurre l’esercito imperiale verso la conquista dei territori periferici dell’Eurasia. Successivamente, sfruttando le ingenti risorse energetiche della regione, San Pietroburgo avrebbe potuto dotarsi di una immensa flotta, capace di concorrere con quella britannica per il dominio dei mari. Proprio lo sbocco al mare ha costituito una delle priorità dell’agenda zarista nel corso dell’Ottocento. Due in particolare erano gli obbiettivi si San Pietroburgo: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. L’interesse per il primo fu parzialmente spento in seguito alla sconfitta nella Guerra di Crimea2 (1853-1856), che comportò un cambiamento di rotta nella politica estera zarista. La Russia puntava ora ad estendere la propria influenza nei khanati in Asia centrale, e da qui, procedendo verso sud, avrebbe potuto garantirsi uno sbocco sull’Oceano Indiano.

Naturalmente, le mire espansionistiche di San Pietroburgo andarono presto incontro alla dura opposizione britannica. Difatti, in Asia meridionale vi era l’India, considerata dalla regina Vittoria la gemma del suo impero coloniale. Il continuo avanzamento delle truppe zariste nei territori centro-asiatici costituiva una grande minaccia che bisognava debellare. In particolare, il Foreign Office aveva individuato nell’Afghanistan un’ottima base strategica che le truppe russe avrebbero potuto utilizzare per infliggere duri attacchi alla prediletta fra le colonie della regina. La necessità di contenere l’espansionismo zarista, facendo dell’Afghanistan uno stato cuscinetto contro le pretese egemoniche di San Pietroburgo, diede inizio ad un esasperante conflitto che si ripercuoterà nel corso dei secoli, giungendo prorompente sullo scenario internazionale attuale.


L’importanza strategica dell’Asia centrale oggi

Questa regione ha assunto un’importanza strategica considerevole nel contesto internazionale odierno. Le motivazioni sono evidenti. In primo luogo, significativa è la questione energetica. Secondo il parere di geologi ed esperti, l’intera area trabocca di idrocarburi. Vero è che tali riserve non sono quantitativamente comparabili a quelle del Golfo Persico. Ciononostante, sono in grado di saziare, almeno per il momento, gli ingordi appetiti energetici delle grandi potenze, comportandosi come un ottimo succedaneo agli idrocarburi vicino-orientali, la cui fruizione è sempre soggetta a continue oscillazioni dovute al fondamentalismo islamico e al terrorismo internazionale. I giacimenti più ricchi li rinveniamo nel bacino caspico, nonché in Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Iran. In Azerbaijan, l’estrazione di petrolio è aumentata da 180.000 barili al giorno (barrels per day bbl/d) del 1997 a 875.000 bbl/d nel 2008. Apprezzabili anche le riserve di gas naturale, la cui produzione ha raggiunto, nel 2008 572 btc (billion cubic feet). Un altro importante produttore è il Turkmenistan, che nel 2008 ha raggiunto i 189.400 bbl/d di oro nero e 70.5 miliardi di metri cubi di oro blu. Considerevoli anche le riserve uzbeke, che nel 2008 ammontavano a 67.6 miliardi di metri cubi di gas e 83.820 bbl/d di petrolio. Le coste caspiche kazake garantiscono un ottimo approvvigionamento di petrolio, con una produzione di 1,45 milioni di barili al giorno nel 2007. Infine l’Iran, che solo nel 2008 ha esportato 2,4 milioni di barili al giorno, sia verso l’Asia che verso i paesi europei facenti parte dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)3.

In secondo luogo, vi sono anche consistenti motivazioni di carattere commerciale che non bisogna sottovalutare. Fin dai tempi antichi, infatti, questa regione aveva assunto il ruolo di crocevia di itinerari terrestri, marittimi, fluviali che, mettendo in comunicazione la Cina con il Mediterraneo, consentiva alle carovane di mercanti di vendere i pregiati ed esotici prodotti orientali sui mercati occidentali. Questo corridoio commerciale fu chiamato, dal geologo e geografo tedesco Ferdinand von Richthofen “Seidenstrabe” (via della seta). La classe dirigente zarista prima, poi quella sovietica e infine quella russa, ha sempre considerato l’Asia centrale come una regione strategica per Mosca. In particolare, nel corso del secondo conflitto mondiale e poi successivamente durante la guerra fredda, questo territorio fungeva da bacino energetico per la potente macchina bellica comunista. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, come scrive Zbigniew Brzezinski, si generò un buco nero, che successivamente finì per ridimensionare la presenza russa nel territorio. L’erosione del controllo moscovita fu accelerata dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991, dai continui tentativi della Turchia di accrescere il proprio peso in Georgia e Armenia, dalla rinascita del fervore nazionalista e musulmano nelle ex-repubbliche centro-asiatiche, continuamente impegnate nel porre fine ad una soffocante dipendenza economica, dal sapore marcatamente sovietico, nei confronti di Mosca.

Di conseguenza, fin dai primi anni novanta, l’esigenza di diversificare i propri partner politici ed economici ha assunto una significativa importanza per questi paesi, che, nel conseguimento di quest’obbiettivo, hanno incontrato non poche difficoltà. L’adozione di un approccio liberale classico, esplicatosi in questo caso in una maggiore collaborazione economica fra i paesi centro-asiatici, preludio ad un’integrazione di carattere politico, ha mostrato serie difficoltà nella sua applicazione pratica. In primo luogo, l’implementazione iniziale di politiche liberali da parte delle ex-repubbliche sovietiche ebbe dei seri risvolti negativi. Il Kirghizistan entrò a far parte, nel 1998, del WTO, mentre Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Afghanistan, Iran ne divennero osservatori. Ben presto questi paesi si accorsero che le loro deboli economie, scarsamente diversificate, non potevano reggere contro l’inondazione delle esportazioni straniere, in particolare quelle cinesi, più convenienti e vantaggiose. Per salvaguardare l’economia nazionale era quindi necessario adottare, almeno inizialmente, politiche protezioniste, e solo dopo aver sviluppato solide basi, concorrere con le altre potenze su un piano mondiale. In secondo luogo, allo scopo di incentivare una maggiore integrazione economica e finanziaria, i fragili paesi centro-asiatici avevano bisogno degli investimenti stranieri per promuovere la costruzione di infrastrutture funzionali alla realizzazione di profittevoli scambi commerciali in Eurasia. Da qui la frenetica competizione delle grandi potenze, in una lotta diplomatica senza esclusione di colpi, tesa ad una spartizione della torta asiatica che le favorisca.

Come scrive Joseph Nye4 siamo ormai catapultati in una realtà sempre più interdipendente, frutto di una globalizzazione a diversi livelli, economico, politico, socioculturale, religioso. Il ripristino di corridoi multimodali, funzionali al commercio e al trasporto di idrocarburi, si presenta inevitabile, garantendo la possibilità, agli stati della regione, di diversificare i propri partner energetici, finanziari, commerciali, politici, militari. Ed è così che la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione Europea prendono parte ad un interessante affare che per più di cinquant’anni è stato dominio esclusivo di Mosca. Un nuovo “Grande Gioco” è scoppiato quindi in Asia centrale e meridionale. Nuovi paesi recitano, sul proscenio internazionale, uno scontro, di kiplingiana memoria, che deciderà i destini dell’equilibrio mondiale. Washington, Pechino, Mosca, Bruxelles, nel perseguire ciascuno i propri obiettivi nella regione, non potranno assolutamente sottovalutare le esigenze delle piccole e medie potenze dell’area che, lungi dall’essere semplici spettatori passivi, rivendicano un ruolo da protagoniste attive nel decidere le sorti del futuro assetto geopolitico internazionale.


* Marco Luigi Cimminella, dottore in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con la redazione di “Eurasia”


Note

1 – Degno di nota fu la rivisitazione della teoria di Mackinder ad opera di Spykman, che attribuì maggiore importanza al concetto di Rimland, intesa come la fascia costiera euroasiatica dove si sarebbe inscenato lo scontro fra le potenze di terra e quelle di mare per il dominio del mondo.

2 – San Pietroburgo poteva infatti garantirsi uno sbocco nel Mediterraneo in due diversi modi. Il primo consisteva nel passare attraverso la regione dei Balcani, sottoposta al controllo turco. La seconda, controllare lo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, entrambi sotto la reggenza ottomana. La strategia russa fu quella di attendere che l’esasperazione dei popoli salvi, insofferenti alla dominazione del sultano, prorompesse in una guerra contro la dominazione turca. Le forze militari russe avrebbero allora combattuto a fianco della popolazione locale, di cui lo zar si proclamava protettore, per stroncare le truppe ottomane e imporre il proprio controllo sulla regione. L’ostilità e l’opposizione turca nei confronti delle mire zariste fu rafforzata dall’impegno bellico di Regno Unito, Piemonte e Francia, che segnò, nella guerra di Crimea, la fine militare delle pretese pseudo religiose ed espansionistiche di Nicola I.

3 – Fonte dati: http://www.eia.doe.gov/

4 – http://www.theglobalist.com/StoryId.aspx?StoryId=2392

jeudi, 11 mars 2010

New Article on Dugin

duginssssxxx.jpgNew article on Dugin

Ex: http://traditionalistblog.blogspot.com/
Anton Shekhovtsov, "Aleksandr Dugin’s Neo-Eurasianism: The New Right à la Russe," Religion Compass 3/4 (2009): 697–716

Abstract:
Russian political thinker and, by his own words, geopolitician, Aleksandr Dugin, represents a comparatively new trend in the radical Russian nationalist thought. In the course of the 1990s, he introduced his own doctrine that was called Neo-Eurasianism. Despite the supposed reference to the interwar political movement of Eurasianists, Dugin’s Neo-Eurasian nationalism was rooted in the political and cultural philosophy of the European New Right. Neo-Eurasianism is based on a quasi-geopolitical theory that juxtaposes the ‘Atlanticist New World Order’ (principally the US and the UK) against the Russia-oriented ‘New Eurasian Order’. According to Dugin, the ‘Atlanticist Order’ is a homogenizing force that dilutes national and cultural diversity that is a core value for Eurasia. Taken for granted, Eurasia is perceived to suffer from a ‘severe ethnic, biological and spiritual’ crisis and is to undergo an ‘organic cultural-ethnic process’ under the leadership of Russia that will secure the preservation of Eurasian nations and their cultural traditions. Neo-Eurasianism, sacralized by Dugin and his followers in the form of a political religion, provides a clear break from narrow nationalism toward the New Right ethopluralist model. Many Neo-Eurasian themes find a broad response among Russian high-ranking politicians, philosophers, scores of university students, as well as numerous avant-garde artists and musicians. Already by the end of the 1990s, Neo-Eurasianism took on a respectable, academic guise and was drawn in to ‘scientifically’ support some anti-American and anti-British rhetoric of the Russian government.

mercredi, 10 mars 2010

Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden - oder für Opium und Uran...

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Afghanistan-Offensive der NATO: für Frieden – oder für Opium und Uran …

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Bei der »Operation Moshtarak«, einer vorab angekündigten massiven NATO-Offensive in der Stadt Marjah in der afghanischen Provinz Helmand, ging es offensichtlich nicht in erster Linie darum, die »Taliban« »auszulöschen« oder die versprengten Überreste einer angeblichen »Al Qaida« zu zerschlagen – die ohnehin immer mehr das Fantasieprodukt amerikanischer schwarzer Propaganda zu sein scheint. Welches Ziel hatte dann aber die Tötung so vieler unschuldiger afghanischer Zivilisten, darunter auch Frauen und Kinder?

Die Operation Moshtarak begann damit, dass Ort und mehr oder weniger die genaue Zeit des Angriffs in einer bizarr anmutenden Erklärung bereits vorab bekannt gegeben wurden. Bei ernsthaftem militärischem Vorgehen zeugt es nicht gerade von brillanter Taktik, den Gegner zuvor davon in Kenntnis zu setzen. Die Bombenangriffe umfassten den Einsatz ferngesteuerter amerikanischer Drohnen und anderer Flugzeuge, sie waren begleitet von einer Bodenoffensive von etwa 6.000 US-Marines, britischen und anderen NATO-Soldaten sowie Truppen der afghanischen nationalen Streitkräfte, insgesamt waren in der kleinen Stadt Marjah ca. 15.000 Soldaten im Einsatz. Das Weiße Haus spricht von der größten gemeinsamen US-NATO-afghanischen Militäroperation der Geschichte, die erste Großoffensive von Einheiten, die zu der von Barack Obama angeordneten »Aufstockung« um 30.000 Soldaten gehören.

Wie die New York Times berichtete, sind in den ersten Tagen der Offensive, die von der Propaganda des Pentagon als »humanitäre« Militärmission bezeichnet wird, fünf Kinder beim Einschlag einer Rakete in ein Gelände getötet worden, auf dem sich »afghanische Zivilisten aufhielten«. Insgesamt kamen bei dem Angriff bis zu zwölf Zivilisten ums Leben. Die computergesteuerten Raketen wurden von einer mehr als zehn Meilen entfernten Basis abgeschossen.

»Wir versuchen, dem afghanischen Volk zu vermitteln, dass wir die Sicherheit in ihrem Wohnumfeld erhöhen«, erklärte US-General Stanley McChrystal.

 

»Lächerliche Militärstrategie«

Zunächst einmal wird – wie viele zuverlässige Berichte aus Afghanistan bestätigen – der Begriff »Taliban« von den Militärplanern in Washington als Begründung für jede Form amerikanischer militärischer Besetzung des Landes ins Feld geführt. Viele, die da als Taliban bezeichnet werden, sind in Wirklichkeit lokale Aufständische, die das Land nach über 30-jähriger ausländischer Besetzung endlich von den Besatzern befreien wollen.

Malalai Joya, eine gewählte Abgeordnete des afghanischen Parlaments, hat den jüngsten Militärschlag offen als »lächerliche Militärstrategie« bezeichnet. Im einem Interview mit der Londoner Zeitung Independent erklärte sie: »Einerseits fordern sie Mullah Omar auf, dem Marionettenregime beizutreten. Andererseits führen sie diesen Angriff, dem vor allem schutzlose, arme Menschen zum Opfer fallen. Wie in der Vergangenheit werden sie bei Bombenangriffen der NATO getötet und dienen den Taliban als menschliche Schutzschilde. Die Menschen in Helmand leiden seit Jahren und Tausend von Unschuldigen sind bereits ums Leben gekommen.«  

Joya betont, das Ziel der USA und des McCrystal-Plans seien nicht die Taliban. Es gehe vielmehr um die Sicherung der Kontrolle über die wertvollen Rohstoffe in der Provinz Helmand, nämlich um Uran und Opium.

Die Polizeikräfte in Afghanistan bezeichnet Joya als »die korrupteste Institution in Afghanistan. Bestechung ist an der Tagesordnung, wer das Geld hat, um die Polizei von oben bis unten zu bestechen, der kann praktisch tun, was er will. In weiten Teilen Afghanistans hassen die Menschen die Polizei mehr als die Taliban. So haben beispielsweise die Menschen in Helmand Angst vor der Polizei, die gewaltsam gegen sie vorgeht und Unruhe schürt. Die meisten Polizisten in dieser Provinz sind opium- oder cannabisabhängig.« Zu der jüngsten multinationalen Afghanistan-Konferenz in London war Joya nicht eingeladen, sie gilt als »wandelndes Pulverfass«, weil sie zu offen über die Wirklichkeit in Afghanistan spricht. Berichten zufolge hat sie genau deswegen in Afghanistan sehr viele Anhänger.

Nach Angaben im neuesten Afghanistan-Gutachten der UN ist die Provinz Helmand mit 42 Prozent der Weltproduktion die größte Opium produzierende Region der Welt. Hier wird mehr Opium hergestellt als in ganz Burma, dem zweitgrößten Opiumproduzenten nach Afghanistan. Über 90 Prozent des weltweiten Opium-Angebots stammt aus Afghanistan. Wenn Washington nun einerseits behauptet, die Taliban hätten sich die Kontrolle über die Opiumproduktion in Helmand verschafft, um ihren Aufstand zu finanzieren, oder wenn sich andererseits die Opium-Warlords weigern, mit den amerikanischen und anderen NATO-Geheimdiensten zusammenzuarbeiten, die selbst im Verdacht stehen, den weltweiten Opiumhandel zu kontrollieren, um mit den Einnahmen ihre schwarzen Operationen zu finanzieren, dann geht es bei der derzeitigen Militäroffensive eindeutig nicht darum, Afghanistan dem Frieden näher zu bringen oder die ausländische militärische Besetzung zu beenden.

Dienstag, 02.03.2010

Kategorie: Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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vendredi, 19 février 2010

A l'assaut de l'Eurasia

A l'assaut de l'Eurasie

Au début du siècle dernier, stratèges et théoriciens Anglo Saxons définissent les impératifs pour l’Angleterre, puis l’Amérique afin de maintenir leurs positions dominantes. Très succinctement, ces puissances "navales", géographiquement isolées doivent éviter l’émergence d’un concurrent fort, surtout si celui-ci est sur le continent. L’effondrement de l’Angleterre et l’avènement des empires en Europe confirmera aux Américain l’impérieuse nécessité pour eux de ne pas s’en faire expulser du continent, mais au contraire d’y prendre position.
OilEurasia.PNGDès le milieu du siècle, la seconde guerre mondiale offre une occasion inespérée pour l’Amérique, dans une Europe affaiblie et divisée, puisque des deux rivaux continentaux (Allemagne nazie et Russie soviétique), il n’en reste qu’un. Cette lutte contre l’URSS a en fait un autre objectif : la prise de pouvoir économique par l’accès aux matières premières et aux ressources naturelles, concentrées au cœur de l’Eurasie. Pour ce faire, l’Amérique propose à l’Europe dévastée le "plan marshall" (1947) destiné à sa reconstruction. 16 états Européens, et la Turquie se partageront les fonds en créant l’OECE dont le but public était "la coordination de l’effort de reconstruction et la libéralisation du commerce et des échanges monétaires". Ce plan Marshall nous le verrons était en fait un cheval de troie, pour "infiltrer" le continent et assouvir la domination Américaine en Europe de l’ouest dans un premier temps, puis vers l’est, au fur et à mesure de l’effondrement de l’URSS. 
Pour ce faire, les stratèges Américains n’utiliseront pas la « guerre », mais des méthodes plus subversives d’entrisme et de prise de contrôle de l’intérieur. Pour ce faire de nombreuses "associations", "institutions", "fonds" ou "ONGs" vont apparaître, qui serviront à "défendre les intérêts Américains" et " promouvoir la vision Américaine du monde", notamment sur le continent. Ces associations apparaissent en trois temps : une première vague pendant le second conflit mondial (destinées à lutter contre le nazisme), une seconde pendant la guerre froide (lutte contre l’URSS) et enfin depuis la chute du mur pour étendre l’influence Américaine à l’est et de façon bien plus offensive, servir de fer de lance à de réels coups d’états (révolutions de couleur), présentés via les relais médiatiques (dont les leurs nous le verrons) comme de simples "basculements démocratiques" dans des zones du monde en "transition démocratique".
Qu’elles soient d’obédience démocrates ou républicaines, les objectifs, méthodes et modes de financements sont très similaires. Celles ci en fait compléter le travail officieux de la CIA et permettre l’installation de gouvernements aux ordres, généralement dans des zones jugées stratégiques. Il est enfin intéressant de noter que les cerveaux de ces associations sont très régulièrement d’anciens Trotskystes, reconvertis à l’Atlantisme forcené, souvent via le néo-conservatisme (america uber alles). Ces « intellectuels » viennent en fait presque tous de la gauche, radicale et ce jusqu’en 1970 date à laquelle l’évolution de l’ultra gauche contre la guerre du Vietnam heurte la perception de l’Amérique qu’ont ces enfants d’immigrants qui ont fuit l’Europe pour le nouveau continent. Ceux-ci rallieront donc dans un premier temps Reagan, puis Clinton et Bush après le 11/09. On peut traduire ce courant comme étant un : « produit de l’influente branche juive du trotskysme américain des années 30 et 40, qui a évolué en libéralisme anticommuniste des années 50 aux années 70, puis en une sorte de droite impériale et interventionniste sans précédent dans l’histoire politique ou la culture américaines. » Parmi les « noms » les plus éminents de ces anciens rebelles de gauche passés à l’interventionnisme évangélique militaire et à une vision unilatérale du monde, on peut citer Paul WolfowitzAlbert WohlstetterIrving KristolWilliam KristolDavid HorowitzMichael Ledeen,Danielle PletkaDavid FrumMichael NovakElliott AbramsRobert KaganJames WoolseyWilliam BennettZalmay KhalilzadGary SchmittNorman Podhoretz, ou encore Richard Perle.
Cette infiltration et prise de contrôle des anciens trotskystes au sein d’associations qui orientent la politique intérieure et extérieure Américaine, influent sur les politiques ou les dirigeants de la CIA voir de grandes multinationales présente une similitude avec les pays Européens, France en tête. En France en effet de nombreux « ex Trotskystes » ont des positions influentes d’intellectuels renommés (Bernard henry levy, Finkelkraut, Gluksman, Goupil, Brukner..) ou encore sont à la tête de mouvements politiques majoritaires (Kouchner, Cohen-Bendit, José Bové ..). Ces « nouveaux intellectuels » sont rangés au cœur du système et non plus dans sa périphérie et ont la faveur de nos médias nationaux, voix du « système » qu’ils étaient si prompt à critiquer. Du soutien à Mao ils sont passés au soutien à l’Amérique. Ils ont combattu les Soviétiques et applaudi la désintégration de la Russie sous Eltsine. Ils ont soutenu la révolution indépendantiste Tchétchène, même si elle était en partie dirigée par des Wahabites, se faisant l’écho des indépendantismes ethnico-religieux tant rêvés par les ennemis prométhéistes de la Russie. Fidèles à la volonté de leur maitres, ils ont religieusement soutenu la guerre de l’OTAN contre la Serbie, et soutenu les nationalismes Croates et Bosniaques, fondé sur la le sang et la religion. Ils se voudraient les guides moraux d’une république qui vient affirme sous le gouvernement Sarkozy son asservissement Atlantiste. Ils sont partisans d’une ligne « dure » contre le Kremlin et les fer de lance d’une Russophobie suintante dans nos médias nationaux. Enfin deux des plus fameux (BHL et Gluksmann) étaient les conseillers Russie des deux finalistes de la présidentielle Française, respectivement Ségolène Royal et Nicolas Sarkozy.

L’après guerre …

Freedom House à été créé en 1947 pour répondre à la menace nazie et pousser l’opinion publique à l’interventionnisme dans le conflit mondial. FH soutiendra le plan Marshall en 1949 et se fera rapidement et vigoureusement l’avocat de la politique Américaine en soutenant l’action militaire en Irak, le développement de l’OTAN et en aidant les sociétés postcommunistes dans l’établissement de « médias indépendants, groupe de réflexion non gouvernementaux, et des institutions de base pour des élections politiques ». En 1982, Paul Wolfowitz et les néoconservateurs font entrer en nombre les militants trotskistes dans ces divers organismes, spécialistes de l’entrisme, les seconds défendront les premiers. En 1986, Freedom House met en place à Londres une officine de diffusion d’articles de commande dans la presse internationale via un programme financé par la CIA et lequel seront employé Vladimir Bukovsky, Adam Michnik, André Glucksmann, Jean-François Revel, et quelques autres. Les articles sont repris au Royaume-Uni dans The Daily Mail, The Daily Telegraph et The Times et dans le Wall Street Journal. En 1999, Freedom House a créé le Comité américain pour la paix en Tchétchénie (The American Committee for Peace in Chechnya - ACPC), dirigé par un trio (Zbigniew Brzezinski, Alexander Haig et Stephen J. Solarz) qui a organisé, financé et soutenu le Jihad contres les Soviétiques en Afghanistan. FH compte 120 permanents dans 12 pays (Jordanie, Ukraine, Serbie ..), dirigés par un board de directeurs composé de démocrates comme de républicains et dans lequel on retrouve à la fois l’ancien directeur de la CIA ou encore des stratèges comme Brezinski. FH affirme avoir soutenu des citoyens engagés dans des révolutions en Serbie, en Ukraine, et au Kirghizistan, mais à également œuvré en Jordanie, Algérie, Ouzbékistan et Vénézuela. FH se veut une organisation non lucrative et est financée en grande partie par le gouvernement Américain, mais également par de nombreux donateurs. FH a longtemps été présidé par le représentant démocrate du Nouveau Mexique, Bill Richardson qui cumulait ses fonctions avec celles de vice-président de l’Institut démocrate pour les Affaires internationales (NDI), aux côtés de Madeleine K. Albright. James Woolsey, l’ancien patron de la CIA et inventeur du Congrès national irakien, lui a ensuite succédé et depuis 2005 Freedom House est dirigé par Peter Ackerman (dont nous reparlerons, gardez bien ce nom en tête).
Toujours lié au plan Marshall sera créé en 1972 une institution qui porte son nom : le German Marshall Fund of the United States. Elle se développera rapidement (dès la chute du mur) en Europe de l’est, pour "contribuer" à la transition démocratique des ex-pays communistes. L’institution qui se veut indépendante et apolitique qui a pour ambition de promouvoir les relations transatlantiques, en encourageant un échange d’idées et une coopération accrue entre les États-Unis et l’Europe. 

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L’USAID , créé en 1961 sous le gouvernement Kennedy gère l’aide économique et humanitaire dans le monde. Le directeur de l’USAID est nommé par le président des états-unis et confirmé par le sénat Américain. L’USAID finance de nombreuses autres ONGs comme la NDE ou Freedom House, chargées de soutenir par des moyens légaux le travail de la CIA et notamment l’infiltration des partis politiques pro Occidentaux. L’organisation est soupçonnée de soutenir les partisans de l’Amérique à tous les niveaux (notamment politique). Un exemple ? Lorsque le Yémen a voté contre la résolution américaine d’utilisation de la force en IRAQ en 1990, l’ambassadeur des nations unies Thomas Pickering a trouvé l’ambassadeur Américain en lui disant " ce non vote va vous coûter cher". Dans les jours qui suivirent, l’aide Américaine via USAID fut coupée, le Yémen eu des problèmes avec la banque mondiale et le FMI, et 800.000 yéménites furent exclus d’Arabie Saoudite.

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En 1961 sous la coupe de Kennedy fut également créé le "corps pour la paix" et "l’alliance pour le progrès" paravent destiné à oeuvrer contre la menace communiste en Amérique du sud. L’alliance fut néanmoins un échec et disparu en 1973.

La connection Washington ?

Egalement lié au plan Marshall, la "Brookin institution" à un rôle important. L’institution connu son heure de gloire lorsqu’un de ses membres, léo pasvolsky, également membre du Conseil des Relations Etrangères (un think tank qui a pour vocation a analyser la politique mondiale et comprend plus de 4.000 membres issus du milieu des affaires, de la politique et de l’économie) contribuera dès 1942 à conseiller le président Roosevelt, notamment pour l’établissement du système de "nations unies" (il en rédigea la charte) mais également pour le fonctionnement du "plan marshall". Les experts de l’institution démontreront leur influence après le 11/09 en "témoignant devant le congrès et l’opinion publique Américaine pour réaffirmer le rôle moteur de l’Amérique à l’étranger".
En face de celle ci, de l’autre côté de massachusset avenue à Washington, se situent deux autres "institutions" intéressantes : L’institut Peterson et également la fondation Carnégie qui est une organisation non gouvernementale ainsi qu’un cercle de réflexion et d’influence global dédiée au développement de la coopération interétatique et à la promotion d’un engagement actif des États-Unis sur la scène internationale. Devenu l’un des plus riches et importants think-tanks libéraux du monde, la fondation à joué un rôle prédominant en Russie en ouvrant une filiale à Moscou en 1993 qui a conseillé l’ex président Eltsine dans le processus de privatisation de l’économie ex-soviétique, grâce à l’interface de personnalités comme Yegor Gaidar, récemment disparu. La fondation prendra ensuite position pour défendre Mikhail Khodorkovsky, qui était régulièrement orateur dans les locaux de Moscou.
Néanmoins la Brookin institution (citée plus haut) ayant été jugée très proche des démocrates, elle à son miroir de droite, libéral avec l’American Enterprise Institute (AEI) a été fondé en 1943 pour faire concurrence à la Brookin Institution (citée plus haut et été jugée très proche des démocrates, ) et a été un des architectes majeurs des politiques du gouvernement Républicain de Georges Bush. L’institution se veut défendre le "capitalisme démocratique". L’AEI a longtemps eu comme mentor Irving Kristol ancien trotskyste reconverti, fondateur s’il en est de l’idéologie néoconservatrice. Décédé en septembre dernier, son fils william kristol ayant largement repris le flambeau familial puisque fondateur de la revue néo-conservatrice "weekly standard", fut un des artisans de la réélection de G. Bush, de l’attaque de l’Irak en 2003, mais également fondeur du Projet pour un Nouveau Siècle Américain (PNAC) et membre du comité de l’American Enterprise Institute, fondé par son père. Anecdote : celui ci titrera un article "vive la France", pour se féliciter du votre contre le traité Européen, démontrant ainsi la gêne des américains face à l’émergence d’un concurrent politique et économique. L’AEI héberge dans ses locaux le PNAC fondé par Kristol serait arrêté depuis 2006 et avait pour objectif d’assurer le leadership mondial des états-unis.

Enfin dans la même zone géographique, on trouve également la Hoover Institution qui est à la base une bibliothèque financée par la fondation Rockefeller pour collecter un maximum d’archives sur l’arrivée des communistes au pouvoir en Russie. La bibliothèque deviendra un think tank formant une partie de l’élite républicaine, et recevant des fonds de divers multinationales comme Merryl linch, JP Morgan, Exxon etc etc et partageant ses directeurs avec l’AEI (ci dessus). La fondation a également sponsorisé un groupe de chercheurs 
En 1998, un groupe de chercheurs de la Hoover Institution pour former George W. Bush aux questions internationales dans sa maison d’Austin (Texas). Ce groupe comprenait de nombreuses personnalités comme Condoleezza Rice., Dick Cheney, Stephen Hadley, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz et même Colin Powell. En retour, en 2001, Condoleezza Rice a été nommée conseillère de sécurité nationale et sept salariés de la Hoover Institution ont été nommés au Pentagone parmi les trente membres du Comité consultatif de politique de Défense (Defense Policy Board Advisory Committee). 

Au cœur de la guerre froide

Le New Endownment for Democracy a été créé en 1983 sous le gouvernement Reagan et son financement passe par le congrès Américain via l’USAID. Elle redistribuerait l’argent reçu du gouvernement pour moitié à ces quatre organisations qui agissent au niveau international :

* National Democratic Institute for International Affairs, lié au Parti démocrate, et présidé par l’ancienne secrétaire d’État Madeleine Albright.
* International Republican Institute, lié au Parti républicain et présidé par le sénateur John McCain, rival malheureux de George Bush aux primaires de 2000 et aujourd’hui candidat républicain à la présidence des États-Unis.
* American Center for International Labor Solidarity, fondé par l’AFL-CIO. 
* Center for International Private Enterprise, fondé par la Chambre de commerce des États-Unis.

L’autre moitié des fonds va à plusieurs centaines d’ONG réparties dans le monde. Le NED a financé ou financerait des groupes politiques luttant officiellement pour la démocratie en Europe occidentale dans les années 1980 ainsi que dans les années 2000 dans les pays de l’ex-union soviétique comme en Ukraine, ou encore dans les pays d’Asie centrale comme le Kirghizistan ou l’Ouzbékistan. La NED a développé un système d’institut satellite qui s’inspire de ce qui avait été mis en place par les États-Unis, en tant qu’armée d’occupation, en Allemagne avec la Friedrich Ebert Stiftung, la Friedrich Naumann Stiftung, la Hanns Seidel Stiftung et la Heinrich Böll Stiftung. Aussi, utiliserait-elle ces fondations comme relais financiers dans ce pays plutôt que ses propres instituts. Sur le même principe, la NED aurait trouvé des partenaires dans divers États alliés, membres de l’OTAN ou de l’ex-ANZUS, notamment : la Westminster Foundation for Democracy (Royaume-Uni), Droits et Démocratie (Canada), la Fondation Jean-Jaurès et la Fondation Robert Schuman (France), l’International Liberal Center (Suède), l’Alfred Mozer Foundation (Pays-Bas).
La NED publie le Journal of Democracy et organise des conférences avec les intellectuels qu’elle sponsoriserait (par exemple l’historien François Furet et le journaliste Jean Daniel pour la France). Celle ci forme également des cadres politiques et syndicaux, partout dans le monde, à l’exercice de la démocratie. La NDE finance et encadre actuellement plus de 6.000 organisations politiques et sociales dans le monde. Elle revendiquerait avoir entièrement créé le syndicat Solidarność en Pologne, la Charte 77 en Tchécoslovaquie et Otpor en Serbie. Ces mouvements ont animé les révolutions de couleur dans les pays concernés, ou été des meneurs dans la lutte anti-Soviétique et par défaut pro-Américaine. Le financement de ces syndicats a comme corollaire que les gouvernements qui découlent de ces renversements de régimes entraine une politique pro-US sans faille (commandes militaires de F16 malgré l’entrée dans l’UE, alignement total sur les positions de la Maison Blanche en Europe de l’Est, participation au partenariat pour la paix en 2005 pour la Serbie, collaboration avec le TPI ..) Enfin, le NED aurait été impliqué dans les campagnes de référendum et le coup d’Etat avorté d’avril 2002 contre la présidence d’ Hugo Chávez au Venezuela.
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On peut citer également l’institut Aspen , Atlantiste et dédié au "commandement éclairé, à l’appréciation d’idées et valeur éternelles, et pour un dialogue ouvert sur des thèmes actuels". En France il organise des débats avec des intellectuels Atlantistes comme le président Nicolas Sarkosy. L’institut est financé par des sociétés comme CapGémini ou encore la chaine d’information (!) Euronews.
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La Jamestown fondation a été créé par la CIA sous le règne Reagan pour mettre en scène les transfuges communistes à l’époque Reagan, elle édite des bulletins spécialisés sur le monde post-communiste et sur le terrorisme qui servent de référence aux think tanks de Washington. A la chute du mur, l’institution reprend du service via le responsable de l’époque de la CIA James Woosley et également par Zbigniew Brzezinski pour ajuster le discours guerre froide (3ième guerre mondiale) à un discours préparant une 4ième guerre mondiale. L’institution publie des bulletins informatiques notamment : 
* Chechnya Weekly : bulletin officiel de l’American Committee for Peace in Chechnya (Comité américain pour la paix en Tchétchénie) de Zbigniew Brzezinski et Alexander Haig, lequel est une filiale dela Freedom House. 
* Eurasia Daily Monitor enfin qui est la publication phare de la Fondation est devenu le quotidien de référence pour les intérêts US dans l’espace post-soviétique. Il stigmatise la Russie de Poutine et célèbre la « démocratisation » en marche des « révolutions » des roses, orange, des tulipes etc.
En réalité la Jamestown Foundation est un élément d’un dispositif plus vaste chapeauté par la Freedom House et connecté à la CIA et est en réalité devenu une agence de presse spécialisée sur les États communistes et postcommunistes et sur le terrorisme. 
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Toujours dans le domaine de la communication, la fondation héritage a également été l’un des plus actifs soutiens de la politique Reagan, axée sur le soutien aux mouvements anticommunistes notamment en Afghanistan ou en Angola. Depuis, la fondation a légèrement basculé du côté démocrate et à été listé comme l’un des think tank les plus influent du pays. Jusqu’à 2001 la fondation publiait une revue (foreign review) qui a depuis été acquis par la Fondation Hoover (voir plus haut). En 2006, la fondation a créé le Margaret Thatcher Center for Freedom pour renforcer les liens "Américano-Anglais". En 2009, la fondation a créé un "scandale" en affirmant que l’armée rouge n’avait pas "libéré" l’europe de l’est du fascisme mais instauré un nouveau totalitarisme. Cette affirmation confirme l’offensive anti-Russe en cours, passant par une révision totale de l’histoire destinée à a terme décrédibiliser tout rôle de la Russie dans l’histoire récente de l’Europe, et ce afin de "repousser" la Russie hors d’Europe, physiquement mais également dans les esprits.

Après la chute du mur

Après la chute du mur, profitant du flottement général et de l’aspiration des nouvelles nations d’Europe de l’est à intégrer l’Europe, ces diverses associations vont bien évidemment contribué à étendre l’influence Américaine en Europe centrale et de l’est, occupant le terrain abandonné par les Soviétiques. Pourtant depuis 1990 leur activité ne s’est pas arrêtée, pas plus que ne s’est arrêté l’activité de Freedom-House après la chute du régime nazi. Toutes ces fondations, institutions, ONGs ont continué à œuvrer "vers l’est", dans un "drang nach osten" sous bannière étoilée et dirigé contre la Russie, l’URSS n’étant plus. Dans cette offensive, il faut citer comme acteur phare le milliardaire Soros, qui a créé en 1993 et 1994 de nombreuses organisations trop peu connues du grand public : l’Open Society, ou encore Human Right Watch, le democracy coalition project. Ou encore l’International Crisis Group. Cette dernière a d’abord été actif en afrique, puis en ex-Yougoslavie et est aujourd’hui présidée par l’ancien président Finlandais Martti Ahtisaari, qui sera nommé par l’ONU envoyé spécial pour le Kosovo. L’ICG a dans son conseil d’administration des anciens conseillers nationaux de sécurité (Richard Allen et Zbigniew Brzezinski), on trouve le prince koweïtien Saud Nasir Al-Sabah, l’ancien procureur du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie Louise Arbour, ou l’ancien commandeur suprême de l’OTAN pendant la guerre de Yougoslavie le général Wesley Clark. Quelques relations financières comme l’ex-président philippin Fidel Ramos ou l’oligarque russe Michail Khodorkovsky, tous membres du Carlyle Group. Figurent aussi des personnalités françaises : Simone Veil, présidente du mémorial de la Shoah, et la journaliste Christine Ockrent, épouse de l’ex-gouverneur du Kosovo Bernard Kouchner. 
Le project syndicate enfin est une agence de presse indépendante qui a racheté différents organes de presse, a financé des radios « indépendantes » (comme B92 en Serbie ou alors radio free europe) et se pose comme un des fers de lance médiatique de la guerre énergétique contre la Russie et cela depuis de longues années. Il est enfin à noter que les organisations de Soros ont été expulsées de Russie fin 2003 et qu’en 2006 un réseau d’espionnage anglo saxon a été démantelé en Russie, dans lequel les agents étaient liés à des organisations étrangères, l’Open Society ayant été impliqué dans l’affaire.

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Nous reviendrons dans un prochain article sur les implications de ces diverses associations dans les révolutions de couleurs et notamment sur le trio : « freedom house » « réseau soros » et « albert einstein institute » dans l’organisation des révolutions de couleurs, ces coups d’états démocratiques destinés à « placer » des gouvernements aux ordres du Pentagone, et ce afin de servir de tête de pont pour l’Amérique dans sa lutte contre la Russie.
Enfin, pour terminer cette étude sur l’agression larvée permanente (toujours basée sur des principes trostkystes de « révolution permanente »), nous nous intéresserons à la pénétration du lobby Américain dans la scène politico-médiatique Française et la conséquence pratique pour la France : servir de tête de pont à l’Amérique, au même niveau qu’une Géorgie ou qu’une Serbie renversée militairement ou par une révolution de couleur.

Du prométhéisme au Heartland

brzez.jpgL’histoire du mouvement prométhéen remonte au début du siècle, lorsque des responsables de « républiques Russes », notamment musulmanes se concertent afin de discuter leur "indépendance". Au début du siècle, lors de ces premiers congrès, deux lignes s’opposent, les partisans d’un nationalisme territorial et les partisans d’une union panturque (le rôle d’intellectuel Turc appelant à la réunification panturque étant relativement importante au sein de ce mouvement). Rapidement, ces questions d’indépendance gagneront les républiques non musulmanes de Russie, notamment dans le Caucase. 
Au sein de cette ligne, l’Ukraine jouera un rôle fondamental, en effet les idées prométhéennes se développent rapidement dans l’entourage du président Petlioura et l’Ukraine enverra même une mission en Géorgie négocier avec le Khanat de Kokand (Turkestan Russe, aujourd’hui Ouzbékistan et dirigé à l’époque par Mustafa Tchokay). Le but de ces "indépendantistes" étaient de s’attirer les grâces des démocraties Occidentales et à ce titre un "appel" fut lancé dans au congrès de Versailles, supposé promouvoir l’émergence des nations. Les Bolcheviques ne laissant guère de place à de quelconques volontés indépendantistes, en 1922, les principaux responsables politiques indépendantistes (Ukrainiens, Georgiens, Bashkirs, Tatars, Azéris ...) s’exilent dans deux directions différentes :
- Une première vague vers Istanbul, mais en lien avec les pays d’Europe de l’ouest. Cette relocalisation forcée contribuera à développer la "conscience Turque" au sein du mouvement Prométhéen mais le discréditera en le diluant dans un rêve expansionniste panturque, nationaliste et impérialiste et jugé peu crédible par les Européens (sur les décombres de l’empire Ottoman) ni par les Bolcheviques.
- Une seconde vague émigre en Europe (ce sera le cas de Tchokay) notamment en France et en Allemagne. Des réseaux se créeront entre Georgiens, Ukrainiens, Russes blancs exilés et de nombreux Azéris. La France est déjà qualifié à cette époque par le Bachkir Zeki Velidov de "centre de combat Turco-musulman" (!) contre la Russie.
En 1924, à Berlin, une rencontre à lieu entre Velidov et un officiel Polonais (Stempovsky) qui lui explique l’idée de la Pologne de lancer un mouvement des "indigènes" de Russie et d’aider ces peuples à obtenir leur indépendance. Les liens entre ces deux personnages datent de la guerre Russo-Polonaise de 1921 durant laquelle la Pologne a engagé de nombreux soldats musulmans des républiques de Russie afin de lutter contre l’armée rouge. 
En 1926, Petlioura est assassiné et c’est Pilsudksi qui prend le pouvoir en Pologne et se fera le chantre de la protection des "peuples" contre l’URSS. La même année, Veki Selidov repart en Turquie apporter son soutien au mouvement prométhéen à Istanbul.
La revue Prométhée se développera dès lors dans de nombreux pays (France, Allemagne, Angleterre, Tchécoslovaquie, Pologne, Turquie, Roumanie..) mais la montée du nazisme en Allemagne rend l’anti-communisme (pierre angulaire du prométhéisme) caduque et cet argument n’est désormais plus repris que par l’extrême droite Européenne. Jusqu’à 1938, le mouvement prométhéen est dirigé par le Georgien Gvazawa et les colonnes de la revues publient des articles de partisans d’Hitler ou de Doriot en France ... Le mouvement semble totalement au mains des fascistes Européens jusqu’en 1938 ou l’Ukrainien Alexandre Choulguine prend les commandes du mouvement, et de la revue. Après le pacte Germano-Soviétique le mouvement se déclare ’anti nazi et anti soviétique’ et les prométhéens se rangeront du côté de l’Angleterre et de la Pologne, contre l’Allemagne et l’URSS.
Dès lors le mouvement bénéficiera de soutiens forts en Pologne (soutien financier) et en France (comité France-orient) sous le parrainage du président du sénat Paul Doumer. Le principal projet sera la création de cette fédération du Caucase (sur le modèle helvétique) mais qui n’aboutira pas, la SDN reconnaissant finalement les frontières de l’URSS, et surtout les tenants de ce prométhéisme se révélant incapables d’unité contre un double front (blanc et rouge) ni même de solidarité.
En 1939, la perte de la Pologne fut un choc pour le mouvement qui fut rapidement happé par l’Allemagne et le gouvernement de Hitler qui dans une logique "post pacte Molotov-Ribbentrop", les stratèges nazis envisageant très bien un éventuel morcellement de l’URSS en petites entités, plus faciles à contrôler, dominer, ou à vaincre militairement. Les Allemands créeront notamment une légion Turkestan constituée de Tatars et Turkestanais mais celle-ci échouera, tout comme l’offensive Allemande à l’est.
A la fin de la guerre, l’URSS est plus forte que jamais et les Prométhéens se tournent vers l’Amérique avec la création d’une "ligue prométhéenne de la charte de l’Atlantique". Le mouvement deviendra un élément au main de la CIA et de lutte contre l’URSS en pleine guerre froide via la création d’organisations tel que " l’institute for the study of URSS" ou " l’american comitee for liberation of bolchevism" (lire à ce sujet la manipulation des mouvements nationalistes Ukrainiens par la CIA à cette époque).
La grande confusion idéologique qui ressort de cette période amènera au développement d’une ligne "prométhéenne" qui se définira par défaut comme "antirusse
Cette analyse d’un mouvement peu connu du grand public doit nous amener à quelques réflexions essentielles pour une bonne compréhension des évènements géopolitiques récents.
Réflexions sur les morcellements territoriaux 


Tout d’abord le projet fondé sur le nationalisme ethnico-régional est un projet "contre" la stabilité de la fédération, c’est le projet de son démembrement et de son éclatement en entités de petites tailles, facilement contrôlables et dominables. Cette tactique que les Polonais et les Allemands souhaitaient appliquer contre la Russie (ou plutôt l’URSS à l’époque) et est très curieusement la "même" tactique qui a été appliqué par l’Amérique et Bruxelles pour l’intégration dans l’Union Européenne et l’OTAN : éclatement de la Tchécoslovaquie, éclatement de la Yougoslavie, demain éclatement probable de l’Ukraine ?
Encore plus curieux pour un novice c’est également le but avoué de certains stratèges militaires anglo-saxons : l’éclatement de la Russie en 3 entités (russo-européenne, centro-sibérienne et extrême orientale), tel qu’expliqué dans le livre le grand échiquier de Zbigniew Brezinski, car la Russie serait : "le seul pays à ne pas avoir été occupé ni soumis à la rééducation politique des vainqueurs". 
En parallèle à cette évolution souhaitée mais inachevée contre la Russie, regardons l’évolution en Europe :
- La première guerre mondiale à achevé l’ère des empires et affirmé l’ère des nations en Europe, notamment via la Société des nations (ancêtre de l’ONU) alors sous patronage Américain, et bien que l’Amérique n’en fit "jamais" partie.
- Le second conflit mondial entérine le processus de perte d’autonomie de ces mêmes nations et ouvre la voie à une hyper-intégration supranationale (du traité de Paris au traité de Lisbonne) tout en favorisant à l’émergence des régions (niveau infranational).
- La fin de la guerre froide entraîne l’extension de cette hyper structure Européenne à l’Europe centrale (2004) et l’Europe de l’est (2007), en morcelant les entités réfractaires (Tchécoslovaquie, Yougoslavie, Ukraine demain ?).
Il serait peut être bon de se demander si le processus de morcellement et de perte d’autonomie de chaque sous entité au sein du territoire Européen est bien comme l’on nous le répète une étape inévitable de l’intégration euro-européenne « ou bien » si au contraire il s’agit d’un processus voulu, souhaité et mis en œuvre afin d’éviter que l’Europe ne devienne une zone du monde autonome, souveraine et capable de volonté politique ainsi que d’indépendance économique et militaire. 
L’idée en vogue (notamment chez les centristes radicaux et les écologistes européens) de renforcement des prérogatives des régions est hautement suspect précisément dans le cas européen ou l’entité comprenant ces régions n’est elle même dotée d’aucune souveraineté réelle. Doit on rappeler que ceux la sont les soutiens inconditionnels de l’Amérique et de l’OTAN et les piliers de la Russophobie qui frappe la planète politique et médiatique Française et Européenne ?


La politique Américaine et la division de l’Europe


Ensuite, l’histoire nous apprend que les voisins proches de la Russie ont souvent été en conflit avec elles et visiblement les complots ne sont pas que d’un côté, pour preuve l’alliance à l’échelle turco-européenne pour "découper la Russie", projet repris par les Allemands lors du second conflit mondial, puis pendant la guerre froide et depuis par les Etats-Unis.
Cet évènement n’est pas anodin et est à mettre en lien avec trois choses :
- Le rôle éminent des Américains dans la déstabilisation politique et militaire de l’Europe (révolutions de couleurs) et de la "Russie" (co-participations à des opérations militaires en Tchétchénie et en Géorgie ..)
- L’analyse Américaine d’une Europe de nouveau divisée entre une "vieille Europe" et une "Nouvelle Europe" n’est en effet pas satisfaisante ni facteur d’apaisement et contribue à asseoir dans l’opinion l’idée que l’Europe n’est pas unie. En réalité cette nouvelle Europe est un ensemble regroupant les nations les plus hostiles à la Russie, de la Pologne aux états Baltes, et la nouvelle vague d’entrant dans la communauté transatlantique et au sein de l’OTAN- Bien plus qu’au sein de l’Europe.
- Le but Américain inavoué est d’utiliser ce territoire de la nouvelle Europe (plus proche de la frontière Russe) pour y installer des bases militaires et des rampes de missile, comme il l’ont fait en Serbie (Bondsteel) et projetaient de le faire en Pologne.. 
Cet objectif fait partie d’un plan plus large dans lequel le contrôle des frontières Russes est essentiel pour maitriser les futurs zones énergétiques mondiales, des frontières Européennes (bondsteel en Serbie, contrôle des mer noire et baltique) au Caucase (Géorgie, bataille des projets de gazoducs ..) et Asie centrale (contrôle du Kirgystan et de l’Afghanistan et donc de la route de la soie).
La prise de contrôle de territoires passe par la prise de contrôle des peuples
L’histoire du mouvement prométhéen est également instructive en ce sens qu’elle témoigne parfaitement de l’objectif ultime que les Américains se sont fixés, à savoir affaiblir la Russie et utiliser les réseaux et les systèmes de lobbies pour affaiblir leur adversaire. Après l’effondrement de la puissance navale anglaise le 20ième siècle voit la montée en force de la puissance Américaine qui s’immisce désormais dans les affaires continentales alors que c’était l’inverse avant.
A la fin de la guerre civile Européenne donc, l’Europe est divisée en deux et les Américains ont parfaitement saisi l’importance capitale de rester dans la course pour maitriser le monde et de vaincre leur ennemi unique : l’union soviétique. Pour cela il faut avant tout contrôler l’espace géographique essentiel que représente le Heartland et que les stratèges anglo-saxons (issus d’école de pensée d’états non continentaux rappelons le) ont théorisés comme étant la clef pour ne pas être isolés des affaires du monde.
La confrontation militaire n’étant que peu réalisable, et les Européens pouvant être insoumis (l’exemple de De Gaulle étant le plus parlant), les américains ont parfaitement compris le rôle de la prise de pouvoir politique par tous les moyens et notamment le reformatage des esprits. Nous ne rentrerons pas dans les détails "mais" indiquerons que cette conspiration Prométhéene a été aspirée et utilisée par la CIA à la fin de la guerre via des ONGs destinées à lutter contre l’URSS ...


Pour la première fois dans notre histoire commune, Polonais, Ukrainiens, Géorgiens, Azéris vont servir les intérêts Américains et être utilisés comme fusible dans le plan géopolitique de maitrise de l’Eurasie. L’échec "provisoire ?" du mouvement prométhéen en tous les cas n’a absolument pas signifié l’arrêt de l’agression Américaine contre l’Europe et le vieux continent.

**
Sources : 

vendredi, 12 février 2010

Afghanistan : Strategie der Vernebelung

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Afghanistan: Strategie der Vernebelung

Wolfgang Effenberger - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am Vortag der Londoner Afghanistan-Konferenz verkündete Bundeskanzlerin Angela Merkel eine »neue Afghanistan-Strategie«. Konnte man in den acht Jahren davor überhaupt von einer Strategie sprechen? – Nach dem preußischen Kriegsphilosophen Carl von Clausewitz stellt die Strategie den – sozusagen – wohlüberlegten und kenntnisreichen Weg dar, um ein angestrebtes Ziel zu erreichen. Das erfordert in erster Linie psychologisch subtiles Agieren, welches präzise von Logik und Vernunft gesteuert wird. Dazu ist eine ständige Standortbestimmung unerlässlich. Aber im Falle Afghanistan scheint nicht einmal der Ausgangsstandort bestimmt worden zu sein!

Der Krieg gegen Afghanistan wurde drei Wochen nach den Terroranschlägen von 9/11 begonnen. Hier hätte auch jedem militärischen Laien Zweifel kommen müssen. Denn ein derartiger Krieg mit fragwürdigen Verbündeten kann nicht in drei Wochen geplant und logistisch vorbereitet werden. Hierzu ist mindestens ein Vorlauf von drei Monaten erforderlich!

Das bestätigt George Arney in seinem BBC-Report US »planned attack on Taleban« vom 18. September 2001. (1) Demnach war die Militäraktion gegen Osama Bin Laden und die Taliban schon Mitte Juli geplant und für Mitte Oktober ins Auge gefasst worden. Diese Aussage wird vom ehemaligen pakistanischen Außenminister Niaz Naik bezeugt.

Der Krieg schien notwendig geworden, nachdem die US-Administration unter US-Präsident Bill Clinton zur Überzeugung kam, dass Afghanistan mit den Taliban nicht nach amerikanischen Vorstellungen zu »stabilisieren« sei. Das hätte eine Stagnation des »großen Spieles« zur Folge gehabt. Ein Patt zwischen amerikanisch-pakistanischen Interessen einerseits und russisch-iranisch-indischen andererseits sollte tunlichst vermieden werden. In diesem Zusammenhang ist auch das UN-Verhandlungsforum »sechs plus zwei« (die sechs Nachbarländer Afghanistans sowie die USA und Russland) unter der Führung des UN-Generalsekretärs Kofi Annan zu sehen. Offenbar war diese vergeblich.

Nachdem der Ausgangspunkt vergessen im Nebel liegt, formulierte die Kanzlerin ein noch nebulöseres Ziel: »Die Verteidigung von Menschenrechten und Sicherheit«. Dazu wurde  eine Truppenaufstockung um 850 Bundeswehrsoldaten und die annähernde Verdoppelung deutscher Polizeiausbilder abgesegnet. Zudem soll die Entwicklungshilfe von 220 Millionen auf 430 Million Euro steigen. Mit diesem linearen Denkansatz der direkten Proportionalität soll mit mehr Soldaten und mehr Geld mehr Sicherheit erreicht werden. Doch zu häufig hat dieses Denken in die Irre geführt, weil die Akteure ihre Augen vor der indirekten Proportionalität verschließen: je mehr kann auch desto weniger bedeuten! Und im Fall Afghanistan dürfte die Sicherheit weiter abnehmen und die Probleme dürften dafür ansteigen. Unbeachtet bleiben die Warnungen des russischen  Journalisten Wladimir Snegirjow (2), der die sowjetische Kampagne und die 1990er-Jahre in Afghanistan beobachtet hat. Seiner Erfahrung nach führt jede Erhöhung der Truppenstärke zu heftigerem Widerstand.

So ist  der gesteigerte Einsatz von unbemannten Kampfflugzeugen mit für die Verschärfung der Sicherheitslage in Afghanistan verantwortlich. Diese Predatoren (Raubtiere) schlagen, wie auch von den Namensgebern gewünscht, bei den ohnmächtigen Opfern wie Raubtiere zu.  Das schürt die Wut der archaischen Bevölkerung und beschert den Taliban weiteren Zulauf.

Die Zunahme der Flugstunden dieser Predatoren beläuft sich im US-Regionalkommando CENTCOM (3) mit den Kriegsgebieten Irak, Afghanistan und Pakistan für den Zeitraum von 2001 bis 2008 auf 1.431 Prozent!

Vor knapp drei Jahren wurden für mehr Sicherheit in Afghanistan sechs Tornado-Aufklärer in Masar-i-Sharif zeitlich befristet stationiert. »Afghanistan wird sicherer durch diesen Einsatz«, versprach Bundesverteidigungsminister Franz Josef Jung in Berlin nach der Kabinettssitzung am 7. Februar 2007. Das Gegenteil ist eingetreten!

Seit  dem Sommer 2008 stellt die Bundeswehr die sogenannten 250 Soldaten starke Quick-Reaction-Force, die bei Bedarf an jedem Ort in Afghanistan offensive Kriegsaktionen durchführt. Seither ist die Lage noch unsicherer geworden und das Ansehen der Deutschen vor Ort dramatisch gesunken.

Nun sollen ausstiegswillige Taliban-Kämpfer mit Wiedereingliederungsmillionen angelockt werden. Hier scheint man aus den Fehlern der ersten Kriegsjahre gelernt zu haben: Ab dem 7. Oktober 2001 fielen nicht nur Bomben und Cruise Missiles auf Afghanistan, sondern auch Abertausende von Flugblättern mit ethisch fragwürdigen Verlockungen. Den perspektivlosen und verzweifelten Menschen wurde etwas angeboten, bei dem selbst viele Menschen der westlichen Welt nicht hätten widerstehen können: lebenslange Finanzsicherheit für die Familie. Dazu brauchte nur ein missliebiger Mitbürger als Taliban denunziert werden. Dann sollte der Slogan »Werden Sie reich und erfüllen Sie sich ihre Träume!« (4) wahr werden.

Wie viele vermeintliche Taliban mögen von dollargierigen Nachbarn verraten worden sein und heute noch in Guantánamo schmachten?

Jetzt will der Westen die Taliban besiegen, indem er gemäßigte Kämpfer von den Extremisten loskauft. Ein ebenso alter wie gescheiterter Versuch: Schon 2005 unternahm der derzeitige und von den USA implantierte Staatschef Hamid Karsai ebenso wie 1986 der damals von der Sowjetunion einge­setzte afghanische Präsident Moham­med Nadschibullah Versöhnungsangebote an die Widerstandkämpfer. Nadschibul­lah scheiterte, und das Programm von Karsai zur Eingliederung der Taliban verlief bisher im Wüstensand. Nun strich parallel zum Wiedereingliederungsangebot der UN-Sicherheitsrat fünf frühere Taliban-Führer von einer schwarzen Liste und ermöglicht ihnen damit, ins Ausland zu reisen und gesperrte Bankkonten zu nutzen. (5)

Dieses Programm offenbart nur die Hilflosigkeit der Verbündeten. Hatten die Taliban laut dem Londoner Forschungsinstitut ICOS 2007 erst 54 Prozent des Landes kontrolliert, sind es 2009 80 Prozent! Den Sieg der Taliban vor Augen, müsste ein Überläufer mit seinen »Wiedereingliederungsvermögen« sofort in einem Drittland – vorzugsweise in der Bundesrepublik – Asyl suchen. Somit wird sich auch dieses »Modell« als Rohrkrepierer erweisen.

Einen Tag vor der London-Konferenz versprach die deutsche Kanzlerin im Bundestag gegenüber der Öffentlichkeit »ehrliche Rechenschaft« abzule­gen: »Ja, es ist wahr: Der Einsatz dauert länger und ist schwie­riger, als wir vor acht Jahren erwartet ha­ben.« (6) Um dann trotzig zu betonen, dass die Aufgabe, dem internationalen Terrorismus zu begegnen, 2001 richtig war und es heute noch ist. Hätte sich doch Frau Merkel am vorangegangenen Samstag die Mühe gemacht, in der Süddeutschen Zeitung den epochalen Artikel von Franziska Augstein zu lesen. Wie eine Gerichtsmedizinerin deckt sie akribisch die Entwicklungen und Zusammenhänge auf, um dann skalpell-scharf zu diagnostizieren: »Die verheerende Entwicklung Afghanistans liegt zuallererst an der amerikanischen Außenpolitik, die nur in einer Hinsicht konsistent ist: Die USA unterstützen immer den, der gerade behauptet, Feind ihrer Feinde zu sein. Und als mächtigstes Land der Welt können die USA es sich leisten, kein politisches Gedächtnis zu haben. Für ihre Fehleinschätzungen von gestern müssen die USA vor nieman­dem gerade stehen. Vor niemandem? Doch, es gibt Ausnahmen: Das sind zual­lererst die Angehörigen der getöteten GIs, die bei allem Patriotismus zuneh­mend daran zweifeln, dass der Tod ihrer Söhne und Brüder einen Sinn gehabt habe.« (7)

Die Kanzlerin hätte Antworten auf die Frage suchen können, warum bisher alle Staaten, die nach Afghanistan einmarschierten, gescheitert sind. Erst die Briten im 19. Jahrhundert, die UdSSR im 20. Jahrhundert, und jetzt – vielleicht – auch Amerikaner und Europäer? Die Antwort könnte in den eigenen Erfahrungen des russische Hindukusch-Beobachters Snegirjow liegen. Er hält nichts davon, den Afghanen Systeme aufzudrängen, die ihnen fremd sind. »Sie wollen keinen Sozialismus, sie wollen keinen Kapitalismus, sie wollen ihr eigenes Leben führen. Hilft man ihnen, das mehr oder weniger zivilisiert zu gestalten, hilft man beispielsweise bei der Ausbildung ihrer Kinder, so wissen sie das sehr zu schätzen.« Für ihn sind die Taliban ein Teil des Volkes und haben nicht nur Anhänger unter den Paschtunen, sondern auch unter den Tadschiken und Usbeken. Mit allen ist der Dialog zu führen. Diese Aussage deckt sich auch mit denen zweier Afghanistan-Experten: dem deutschen Oberstarzt a. D. Dr. Reinhard Erös, Träger des Europäischen Sozialpreises (2004), und dem langjährigen Afghanistan-Korrespondent der ARD, Christoph Hörstel.

Nachdem unter Obama der Krieg gegen die Taliban auch auf Pakistan ausgedehnt worden ist, könnten die Analysen der beiden pakistanischen Generäle und ehemaligen ISI-Geheimdienstchefs helfen, ein aussagekräftiges Lagebild zu zeichnen. General Hamid Gul

zeigt absolutes Verständnis für die Taliban. Seiner Meinung nach verteidigen sie vehement zwei Dinge: ihren Glauben und ihre Freiheit – beides Grundfesten der afghanischen Gesellschaft. Auch hätte sich bisher kein einziger Taliban oder Afghane zu irgendeinen Terroranschlag im Ausland bekannt. »Sie  kämpfen nur auf eigenem Boden, wozu sie nach der UN das Recht haben.« (8)

General Asad M. Durrani, von 1994 bis 1997 Botschafter in der Bundesrepublik, geht noch weiter als sein ehemaliger Kollge Gul. Für Durrani üben die Taliban in ihrem Krieg gegen die Besatzung nur Selbstverteidigung und führen seiner Meinung nach »unseren Krieg«. »Wenn sie aber scheitern und wenn Af­ghanistan unter Fremdherrschaft bleibt, werden wir weiter Probleme haben«, so Durrani im Interview mit dem deutschen Oberstleutnant Jürgen Rose. »Setzt sich die NATO, die stärkste Militärmacht der Welt, wegen ökonomischer und geopolitischer Interessen an der pakistanischen Grenze fest, dann erzeugt das in Pakistan enormes Unbehagen«, so Durrani, um dann auf ein altes Sprichwort zu verweisen: »Sei vorsichtig, wenn Du neben einem Elefanten schläfst, denn er könnte sich umdrehen.« (9)

In London wurde keine neue Strategie beschlossen. Auch alle vorherigen, inflationär viele Strategien sind bei genauer Betrachtung nicht einmal taktische Aushilfen. Die Politik wird in Washington gemacht und Washington kennt das wahre strategische Ziel. Ein Studium der Seidenstraßenstrategie-Gesetze (10) würde hier weiterhelfen.

Die Regierung von Barack Obama und ihre Vorgänger waren immer schon Herren des Verfahrens. Die USA haben 74.000 Soldaten nach Afghanistan entsandt, in diesem Jahr kommen noch 30.000 hinzu. Das von der NATO geführte ISAF-Unternehmen (11) ist längst zu einer amerikanischen Unternehmung geworden, die Verbündeten halten nicht Schritt mit der Dynamik der US-Streitkräfte. Im Einsatzgebiet der Deutschen werden die USA ab April 2010  bis zu 5.000 eigene Soldaten stationieren – annähernd so viele, wie die Bundeswehr dort hat. Eine deutlichere Unmutsbekundung ist kaum denkbar. (12) Der Krieg geht weiter, während sich die Geschichte wiederholt.

 

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Anmerkungen

(1) Arney, George: »US ›planned attack on Taleban‹«, Dienstag, 18. September 2001, 11:27 Uhr unter http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/1550366.stm.

(2) Snegirjow kam als Korrespondent der Komsomol-Zeitung Komsomolskaja Prawda 1981 zum ersten Mal nach Afghanistan. Er blieb ein Jahr und kehrte im Verlaufe der nächsten 20 Jahre immer wieder zurück.

(3) CENTCOM ist das Zentralkommando der sechs US-Regionalkommandozentren und zuständig für den Nahen Osten, Ost-Afrika und Zentral-Asien. Derzeit sind die unterstellten Truppen primär im Irak und Afghanistan eingesetzt. Stützpunkte befinden sich in Kuwait, Bahrain, Katar, den Vereinigten Arabischen Emiraten, Oman, Pakistan, Dschibuti (Camp Le Monier) und mehreren Ländern Zentralasiens.

(4) Gorman, Candace: »Why I am Representing a ›Detainee‹ at Guantanamo« vom 19. September 2006 unter http://www.huffingtonpost.com/h-candace-gorman-/why-i-am-representing-a-_b_29734.html.

(5) Schmidt, Janek: »Wie ködert man Taliban?«, SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.

(6) Fried, Nico: »Merkels skeptische Bilanz. Die Kanzlerin hält den Afghanistan-Einsatz für ›schwieriger als erwartet‹ / Opposition fordert Abzug bis 2015«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 6.

(7) Augstein, Franziska: »Es muss ein Ende sein«, in: SZ vom 23./24. Januar 2010, S. V2/1.

(8) Hamid Gul im Auslandsjournal vom 17. Dezember 2009 unter http://www.zdf.de/ZDFmediathek/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan#/beitrag/video/927324/Lagebericht-Afghanistan.

(9) Durrani, Asad M.: »Nur wenn die Taleban stark genug sind«, erschienen in Ossietzky, 18/2009.  

(10) Die alte Seidenstraße, einst die wirtschaftliche Lebensader Zentralasiens und des Südkaukasus, verlief durch einen Großteil des Territoriums der Länder Armenien, Aserbaidschan, Georgien, Kasachstan, Kirgistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan; Anhörung über US-Interessen in den zentralasiatischen Republiken am 12.Februar 1998, House of Representatives, Subcommittee on Asia and the Pacific; Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152-106th. CONGRESS 1st Session, S. 579) im Mai 2006 modifiziert: Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109 th. Congress).

(11) International Security Assistance Force.

(12) Kornelius, Stefan: »Die Londoner Krücke«, in: SZ vom 28. Januar 2010, S. 4.

 

__________

Bildquellen

www.longwarjournal.org und www.wirde.com

www.huffingtonpost.com

Archiv Wolfgang Effenberger

 

Donnerstag, 04.02.2010

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Politik

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mercredi, 10 février 2010

Iran: Milliarden-Gasgeschäft mit Deutschland

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Iran: Milliarden-Gasgeschäft mit Deutschland

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der Iran hat soeben einen Milliarden-Vertrag mit einem deutschen Unternehmen über den Bau von 100 Gaskompressoren abgeschlossen. Diese Vereinbarung erklärt erneut, warum die großen EU-Länder kein Interesse daran zeigen, den Iran durch Wirtschaftssanktionen unter Druck zu setzen. Washingtons Iran-Politik ist ein einziger Scherbenhaufen, das Risiko, dass über die nuklearen Ambitionen des Iran ein Krieg ausbricht, sinkt.

Der Chef der iranischen Gas Engineering and Development Company, Ali Reza Gharibi, hat soeben bekannt gegeben, dass ein nicht genanntes deutsches Unternehmen einen Vertrag zum Bau der Turbo-Kompressoren unterzeichnet hat. Zum Vertragsumfang von einer Milliarde Euro gehört der Transfer von Know-how für Bau, Einrichtung und Betrieb der Anlagen zur Förderung und zum Transport iranischen Erdgases. Der Iran verfügt nach Russland wahrscheinlich über die zweitgrößten Erdgasreserven der Welt. Bisher hat das Land als Gasexporteur nur eine untergeordnete Rolle gespielt. Mit den neuen Kompressoren könnte sich das ändern.

Laut Quellen aus der Industrie handelt es sich bei dem deutschen Unternehmen um die Siemens AG, obwohl das staatliche iranische Gasförderunternehmen National Iranian Gas Company (NIGC) dies dementiert. Siemens hatte zuvor bereits 45 solche Turbo-Kompressoren an den Iran geliefert. Das NIGC sprach von einem Vertrag mit einem »iranischen Unternehmen zum Bau von 100 Turbo-Kompressoren im Iran, unter Nutzung des Know-hows des Partnerunternehmens«, ohne den Namen der Firma zu nennen.

Der Vertrag bezieht sich dem Vernehmen nach auf Anlagen, die nicht unter ein internationales Embargo fallen. Die Unterzeichnung erfolgt zu dem Zeitpunkt, wo dem Iran wegen des umstrittenen Atomprogramms ein neues Finanz-, Technologie- und Handelsembargo droht.

 

Durch den Vertrag mit einer deutschen Firma will der Iran seine Gasexporte erhöhen.

 

Die Entwicklung des iranischen Gassektors hat bislang unter mangelnden produktiven Investitionen gelitten. Außerdem hat der gestiegene heimische Gasverbrauch dazu geführt, dass von der täglichen Förderung von ca. 500 Millionen Kubikmetern kaum etwas für den Export übrig blieb.

Die in dem Vertrag mit der deutschen Firma zugesicherte Ausrüstung und das Know-how wird den Iran in die Lage versetzen, Anlagen zur Produktion von Flüssigerdgas (LNG) zu errichten, das dann Zeitungsmeldungen zufolge auf dem Seeweg exportiert werden soll. Die regierungsnahe Tageszeitung Iran Daily berichtet, der Vertrag sei Anfang letzter Woche unterzeichnet worden und ließe »viele deutsche Unternehmen, die sich seit Langem über die Handelsbeschränkungen [aufgrund von Sanktionen] mit dem Iran beklagen, aufatmen«. Offiziellen Statistiken zufolge sind Deutschland und China nach den Vereinigten Arabischen Emiraten die wichtigsten Handelspartner des Iran.

 

Mittwoch, 03.02.2010

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen

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vendredi, 05 février 2010

L'essentiel des think-tanks asiatiques

L'essentiel des think-tanks asiatiques

Pour connaître les réflexions non occidentales !

Puce:

<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/spip.php?article315&affichage=imprim>

Charmes_Asie-Geisha.jpgLa liste des centres de recherche asiatiques suivante vise à fournir des indications sur l'état de la pensée stratégique dans la région et l'organisation de la recherche dans le domaine. L'énumération n'est pas exhaustive.

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  CHINE

Shanghai Institute for International Studies (SIIS)

Date de fondation : 1960
Lieu : Shanghai
Nature : centre de recherche indépendant
Direction : MonsieurYang Jiemian
Lien internet :
http://www.siis.org.cn/en/default.aspx
Thèmes de recherche : politique internationale, économie, stratégie sécuritaire, politique extérieure de la Chine

Aires géographiques de recherche
Amériques / Asie-Pacifique / Europe / Japon / Russie-Asie Centrale / Asie du Sud / Taiwan-Hong-Kong-Macao / Asie de l'Ouest-Afrique

Organisation de la recherche
Institut for International Strategic Studies / Institute for Global Gouvernance Studies / Institut for Economic Comparative Studies / Institut for Foreign Policy Studies / Institute for Taiwan, Hong-Kong and Macao Studies / Institute for Data Processing and Studies

Principale publication (en anglais)
Global review, revue bimestrielle. Sujets traités : Politique étrangère américaine en générale, à l'égard de la Chine et relations sino-américaines / Politiques étrangères canadienne et des pays d'Amérique Latine / Stratégie globale américaine / Relations internationales entre grandes puissances et théorie des RI.

China Institute of Contemporary International Relations (CICIR)

Date de fondation : 1980
Lieu : Pékin
Nature : institut de recherche sous autorité du Conseil d'Etat
Direction : Monsieur Cui Liru
Lien internet :
http://www.cicir.ac.cn/tbshome/default.asp
Thèmes de recherche : études stratégiques, politiques, économiques, sécuritaires monographiques et régionales, relations extérieures de la Chine

Aires géographiques de recherche
Russie / Amérique du Nord et Amérique Latine / Europe / Japon / Asie du Sud et du Sude-Est / Asie de l'Ouest et Afrique

Organisation de la recherche
Instituts : Instituts par aires géographique / Institut of Information and Social Development Studies / Institut of Security and Arms Control Studies / Institut of World Political Studies / Institut of World Economic Studies Divisions : Division for Central Asian Studies / Division for Korean Peninsula Studies Centres : Centre for Hong-Kong and Macao Related Studies / Centre for Taiwan Related Studies / Centre for Ethnic and Religious Studies / Centre for Globalization Studies / Centre for Counter Terrorism Studies / Centre for Crisis Managment Studies / Centre for Economic Security Studies / Centre for Marine Strategy Studies.

Principale publication (en anglais)
Contemporary International Relations, revue bimestrielle. Sujets traités : questions politiques, économiques et sécuritaires au niveau international, questions régionales, relations inter-étatiques, contrôle des armements, questions de sécurité non-conventionnelle, politique étrangère de la Chine, théorie des relations internationales

China Institute for International Studies (CIIS)

Date de fondation : 1897
Lieu : Pékin
Nature : centre de recherche étatique
Direction : Monsieur Ma Zhengang
Lien internet :
http://www.ciis.org.cn/en/index.asp
Thèmes de recherche : questions internationales, diplomatie chinoise

Aires géographiques de recherche
Amérique du Nord / Asie / Europe

Organisation de la recherche
Department of Golbal Strategy / Department for Information and Contingencies Analysis / Department for American Studies / Department Asia-pacific Security and Cooperation / Department for UE Studies / Department for Developing Countires Studies / Department for SCO Studies / Department World economy and Development

Principale publication (en anglais)
China International Studies, revue bimestrielle. Sujets traités : relations internationales, diplomatie chinoise, questions économiques et politiques internationales.

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  INDE

asie333.jpgDelhi Policy Group (DPG)

Date de fondation : 1994
Lieu : New Delhi
Nature : think-tank indépendant
Direction : Monsieur VR Raghavan
Lien internet :
http://www.delhipolicygroup.com/
Thèmes de recherche : questions sécuritaires, conflits et processus de paix, situation stratégiques en Asie

Aires géographiques de recherche)
Asie (au sens large) Inde International

Organisation de la recherche)
Programme "National Security" : Asian Security Dynamic / Comprehensive Security / Nuclear Policy Stewardship Project / Non Traditional Security / Nation Building and Armed Conflicts / Programme "Peace and Conflicts"

Institute for Defense Studies and Analysis (IDSA)

Date de fondation : 1965
Lieu : New Delhi
Nature : centre indépendant
Direction : Monsieur AK Anthony
Lien internet :
http://www.idsa.in/
Thèmes de recherche : politiques de défense et de sécurité internationales et indiennes.

Aires géographiques de recherche)
Asie Asie du Sud Inde Monde occidental

Organisation de la recherche)
Groupes de recherche : South Asia / Military Affairs / Nuclear, USA and Europe / China and Southeast Asia / Terrorism and Internal Security / Defense, Economics and Industry / Russia, Central Asia, West Asia and Africa / Non-military Threats, Energy and Economics Security / Stategic Technologies, Modelling and Net Assessment

Principale publication)
Strategic Analysis, revue bimestrielle. Sujets traités : questions sécuritaires nationales et régionales

Observer Research Foundation (ORF)

Date de fondation : 1990
Lieu : New Delhi
Nature : fondation privée
Direction : Monsieur RK Mishra
Lien internet :
http://www.observerindia.com/cms/sites/orfonline/home.html
Thèmes de recherche : relations internationales, sciences politiques et économiques

Aires géographiques de recherche)
International

Organisation de la recherche)
Centre for International Relations / Institute of Security Studies / Center for Ressources Managment / Centre for Economy and Development / Center for Politics and Governance

Principales publications)
Policy Brief et Issue Brief, papiers occasionels sur un sujet. En ligne.
Derniers numéros :
Policy Brief 11, juillet 2009, "Issues in captive coal block development in India".
Issue Brief, Issue 21, 23 sept. 2009, "India-Pakistan relations after Mumbai attacks".

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  INDONESIE

Center for Strategic and International Studies (CSIS)

Date de fondation : 1971
Lieu : Jakarta
Nature : organisation indépendante non lucrative.
Direction : Monsieur Rizal Sukma
Lien internet :
http://www.csis.or.id/default.asp
Thèmes de recherche : relations internationales, changements politiques, économiques et sociaux, politiques publiques

Aires géographiques de recherche
Asie du Sud-Est Asie Pacifique ASEAN

Organisation de la recherche
Départements : Economics / Politics and Social Change / International Relations

Principale publication (en anglais)
The Indonesian Quartely, revue trimestrielle.
Sujets traités : science politique, relations internationales, Asie du Sud.

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  JAPON

Japan Institute of International Affairs (JIIA)

Date de fondation : 1959
Lieu : Tokyo
Nature : institution académique indépendante affiliée au Ministère des Affaires Etrangères
Direction : Monsieur Yoshiji Nogami
Lien internet :
http://www.jiia.or.jp/en/
Thèmes de recherche : politique étrangère du Japon

Aires géographiques de recherche
Asie du Nord Japon

Organisation de la recherche
Centres : Disarmament and Non-Proliferation / Council for Security Cooperation in the Asia-Pacific / Pacific Economic Cooperation Council

Principales publications (en anglais)
AJISS Commentary, papiers occasionnels. Perspectives japonaise sur la situation internationale.
Policy Report
Dernier numéro : AJISS Commentary n°80, 29 déc. 2009, "Improved cross-strait relations confusing to the Japanese".

Institute for International Policy Studies (IIPS)

Date de fondation : 1988
Lieu : Tokyo
Nature : institut de recherche indépendant non lucratif
Direction : Monsieur Ken Sato
Lien internet :
http://www.iips.org/
Thèmes de recherche : questions économiques, politiques, sécuritaires, environnementales, énergétiques, sécuritaires

Aires géographiques de recherche
Asie Pacifique International

Organisation de la recherche
Projets : Dialogue Trilatéral en Asie du Nord-Est / Japan-China Forum / Japan-Taiwan Forum / Prospection sur l'alliance nippo-américaine.

Principales publications (en anglais)
Policy Paper, rapports annuels des conférences, séminaires et projets de l'Institut.
Asia Pacific Review, revue biannuelle. Sujet : questions stratégiques en Asie Pacifique

Research Institute for Peace and Security (RIPS)

Date de fondation : 1978
Lieu : Tolkyo
Nature : institut non-lucratif sous contrôle du Minisyère des Affaires étrangères et de la Défense
Direction : Monsieur Nobuyuki Masuda
Lien internet :
http://www.rips.or.jp/english/index.html
Thèmes de recherche : contrôle des armements, sécurité

Aires géographiques de recherche
Asie du Nord Japon

Organisation de la recherche
Thèmes : Questions sécuritaires post-guerre-froide (désarmement, terrorisme, gestion des crises...) / Sécurité dans la région Asie Pacifique / Politique de sécurité japonaises et relations nippo-américaines / Questions sécuritaires pour le Japon, la Chine, les Etats-Unis, la Russie / Economie et Sécurité / Téchnologie et Sécurité / Rôle de l'ONU and du système international

Principale publication (en anglais)
RIPS Policy Perspectives, document occasionnel en ligne. Dernier numéro : juillet 2009, "Asian Perspectives in 2009 : Hopfull Signs and Growing Concerns".

asiexxxxxxx.jpgNational Institute for Research Advancement (NIRA)

Date de fondation : 1974
Lieu : Tokyo
Nature : organisation semi-gouvernementale
Direction : Monsieur Jiro Ushio
Lien internet :
http://www.nira.or.jp/english/index.html
Thèmes de recherche : politique intérieure du Japon, questions économiques et sociales, relations internationales, questions regionales

Aires géographiques de recherche
Japon

Principales publications (en anglais)
NIRA Policy Review, revue bimestrielle. Traitement simple de questions de politique interne japonaise.
NIRA Monograph Series, papier occasionel. Traitement par thèmes de problèmes spécifique.

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  SINGAPOUR

Lee Kwan Yew School of Public Policy

Date de fondation : 2004
Lieu : Singapour
Nature : université
Direction : Monsieur Wang Gungwu
Lien internet :
http://www.lkyspp.nus.edu.sg/home.aspx
Thèmes de recherche : science politique, politiques publiques en Asie.

Aires géographiques de recherche
Asie Asie du Sud et du Sud-Est International

Organisation de la recherche
Centres : Asia Competitivness Institute / Center for Asia and Globalization / Innovation and Information Policy Research Center / Institute of Policy Studies / Institute of Water Policy

Principale publication (en anglais)
Asian Journal of Public Affairs, revue trimestrielle, publiée par les étudiants de l'université et des centres de recherche. Sujets traités : affaires publiques, Asie. En ligne.

S. Rajaratnam School of International Studies (RSIS)

Date de fondation : 1996
Lieu : Singapour
Nature : centre de formation
Direction : Monsieur Eddie Teo
Lien internet :
http://www.rsis.edu.sg/
Thèmes de recherche : sécurité, affaires stratégiques et internationales.

Aires géographiques de recherche)
Asie Pacifique
International

Organisation de la recherche)
Départements : Asia Pacific Security / Conflict and non-traditionnal Security / International Political Economy / Coutry Studies (China, Indonesia, USA)

Principale publication (en anglais)
RSIS Commentary, série de papiers occasionnels d'analyses sur des questions contemporaines. En ligne.

 -
<http://www.c2sd.sga.defense.gouv.fr/puce.gif>  TAIWAN

Taiwan Think Tank

Date de fondation : 2001
Lieu : Taipei
Nature : organisation indépendante non-lucrative
Direction : Monsieur Chih Chenglo
Lien internet :
http://www.taiwanthinktank.org/ttt/servlet/OpenBlock?Template=Home&category_id=1&lan=en&BlockSet=
Thèmes de recherche : science politique, politiques publiques, relations internationales

Aires géographiques de recherche)
Taiwan Asie du Nord-Est

Organisation de la recherche)
Divisions : Taiwan Forum / Peace Forum / International Affairs Forum

asie222.jpgPrincipale publication (en anglais))
Think-tank Book Series, ouvrage annuel rassemblant l'ensemble des recherches des différentes divisions du centre.

Mac Arthur Center for Security Studies (MCSS)

Lieu : Taipei
Nature : centre de recherce indépendant, rattaché à la National Chengchi University
Direction : Monsieur Fu Kuoliu
Lien internet :
http://www.mcsstw.org/www/
Thèmes de recherche : relations internationales, questions sécuritaires

Aires géographiques de recherche)
Taiwan Asie du Nord-Est et Asie Pacifique

Organisation de la recherche)
Divisions : National Security / Defense / Non-traditionnal Security / Cross-Strait Peace

Principale publication (en anglais))
MCSS Analysis, articles occasionnels. En ligne. Dernier article : Nov. 2009, "Emerging connectivity of regional disaster managment ?".

21/01/2010

Sources : SGA/C2SD


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lundi, 25 janvier 2010

The Ataman and the Bloody Baron - About Russian warlords and their Assyrian connection

The Ataman and the Bloody Baron

About Russian warlords and their Assyrian connection

Ex: http://shlama.be/

August 1921 somewhere on the Russian-Mongolian border. A lonely warrior on horseback wanders through the endless steppe. He has lost most of his uniform and Mongolian talismans are swaying on his naked chest. It is the last ride of Ungern-Sternberg, the Mad Baron. His Mongolian soldiers will soon seize him and hand him over to the Red cavalry in pursuit of the small army that Ungern has lead from Mongolia into Soviet territory. And so the legend grows – the exploits of Baron Roman von Ungern-Sternberg, the most notorious partner in crime of the Cossack warlord Grigori Semenov in the Siberian Far East during the Russian Civil War.
 
Assyrians and Cossacks
 
In the autumn of 1914 Great-Britain, France and Russia have declared war on Turkey. In the spring of 1915 the Turkish government orders the mass deportation of the Armenians on its territory. The whole Armenian population is driven out of its homeland in eastern Anatolia and an awful number of Armenians is exterminated by Turkish zaptieh and Kurdish bands, while the survivors of these forced marches are left to their fate, without food or shelter in the Syrian desert. 

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Mar Shimun's homeland - Hakkari Mountains
In the summer of 1915 the Assyrian tribes in the Hakkari mountains in SE Turkey come under the sword of Islamic Jihad. Mar Shimun, the patriarch of the Assyrian mountaineers, presides at a general meeting of the Assyrian chieftains. They decide to throw in their lot with the Allied nations against Turkey. Turkish troops and Kurdish irregulars invade the Assyrian homeland. The Assyrians retreat to the high mountains, where they make their last stand. Mar Shimun crosses the passes with a small party and reaches Persian territory that has been occupied by the Russian army. He tries to get support from the Russians and returns to his besieged people in Hakkari.
   The Russians send a small expeditionary force of 400 Cossacks to the Hakkari Mountains. The Cossacks advance towards Oramar, the stronghold of the Kurdish chieftain Soto. Agha Soto is a fierce enemy of the Assyrian mountaineers. He sacks their villages, steals their flocks, he abducts their women and murders the male villagers. The Russian Cossacks are unaware of this. Blinded by Soto’s oriental hospitality, they accept his guides to lead them through the mountain passes. In a deep gorge the Cossacks are ambushed. Soto’s clansmen and other Kurds attack them from all sides and they are slaughtered to the last man. The 18 Cossacks who have stayed behind in Soto’s home as his honoured guests are massacred as well. So much for this Russian attempt to relieve the Assyrians of Hakkari in the summer of 1915.
   The Assyrian mountaineers can only rely on themselves. They break through the enemy lines, they suffer heavy losses when they flee from Hakkari, but the greater part of them survives and most of them become refugees in the Russian occupied northwestern part of Persia. In this region west of Lake Urmia they are among other Christians, Assyrians of the plain, who have been living there for many centuries.
 
Massacre at Gulpashan 
 
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Lake Urmia in northwestern Persia
Even before the arrival of the Assyrians from Hakkari the Assyrian inhabitants of the Urmia plain have endured terrible persecutions from their Muslim neighbours. During the first days of 1915 the Russian armed forces in control of the area suddenly retreat, leaving the Assyrian minority to its fate. Turkish troops occupy Urmia. Thousands of panic-stricken Assyrians of the Urmia region leave their homes and follow the trail of the Russian army, heading north towards the Caucasus. It is a horrendous exodus in midwinter, the weaker ones perish along the way. Those who have stayed behind hope to be spared in their villages or take refuge in the compounds of the British Anglican and the American Presbyterian Missions in Urmia town.  

Gulpashan is one of the most important and prosperous Assyrian villages in the Urmia plain. Paul Shimmon, an Assyrian who has returned to his homeland after his studies in the USA, describes what has happened in Gulpashan. The sister village of Gogtapa has already been plundered and burnt by Muslim mobs, while Gulpashan is at first left in peace. Shimmon mentions that this is probably due to the fact that one of the Assyrian village masters is related to the German consular agent in Urmia. The latter has sent his servant to Gulpashan and Turkish soldiers guard the place.

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Gogtapa - Assyrian graveyard
End February 1915 a band of fanatic Persian Muslims invades the village. They pretend to have come in peace, but then they seize the Assyrian men of Gulpashan, tie them up and drag them to the cemetery. The victims are barbarously butchered and finally the bloodthirsty intruders turn to the village women. After the massacre at Gulpashan American missionaries come from Urmia town to the village to bury the dead. Shimmon concludes: ‘The awful deeds that were perpetrated here were telegraphed to America, whereupon such strong representations were made by the United States Government that an order was given for their cessation.’ Although the Russian army pushes back the Turkish enemy and reoccupies the Urmia region in the early spring of 1915, later events will prove that Shimmon has been too optimistic. 
   In January 1916 Patriarch Mar Shimun, acting as the leader of the united Assyrians, visits the headquarters of the Russian Caucasian Army in Tiflis (Tbilisi), the capital of Georgia. He is received there with great honour by Grand Duke Nicholas, the Tsar’s uncle and the commander in chief of the Russian Caucasian Army. The result of the meeting is that the Russians agree to supply the Assyrians with weapons and ammunition. After Mar Shimun’s return the Russian consul Nikitin, stationed in Urmia, publicly reads the telegram in which Tsar Nicholas II expresses his gratitude towards the Assyrian Patriarch ‘for the help he has rendered in the war and for his willingness to co-operate with us.’
   Soldiers are recruited among Mar Shimun’s mountaineers, they are trained by Russian officers and in the autumn of 1916 two Assyrian battalions are ready for  battle. Russian protection however won’t last much longer. The Tsarist Empire is about to collapse in the turmoil of the revolution of 1917.
 
Enter Semenov and Ungern
 
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Grigori Semenov
Grigori Semenov is a Russian officer of mixed blood. His father was a Siberian Cossack, his mother belonged to the Buryat people living on the steppe east of Lake Baikal, and this distant Transbaikal area is Grigori Semenov’s homeland. When the Fist World War rages at its peak, he serves on the Galician Front that runs through western Ukraine and he distinguishes himself in battle against the Austrian-German enemy. From that period dates his long lasting friendship with a colleague officer, Baron Roman von Ungern-Sternberg.
   The latter has his roots in Baltic Estonia. He is the descendant of German crusaders, the warlike Teutonic Knights, and later on his family builds up a tradition in military service of the Russian Tsarist Empire. His superior, General Wrangel, writes about Ungern in his memoirs: ‘War was his natural element... When he was promoted to a civilised environment, his lack of outward refinement made him suspicious.’
   Semenov and Ungern are reactionary officers, devoted to Russian imperial autocracy and fanatically opposed to all kinds of democratic changes. In other words: the Tsar rules; without his supreme authority chaos is inevitable and Russia will fall apart. It is needless to say that the Russian Revolution of 1917 causes the final and fatal breaking-point in their careers.  
   Towards the end of 1916 Semenov and Ungern request to be posted on the Persian Front. The transfer is granted and in January 1917 they are stationed together in the Urmia region. Semenov joins the Transbaikal Cossacks, the fierce warriors of his Siberian homeland who already serve in that Russian occupied part of Persia, and he becomes the commander of a sotnia or cavalry squadron of the Third Verchne-Udinsk Regiment. That unit has its cantonment ‘in a village close to the shore of Lake Urmia’,  as Semenov puts it. It is Gulpashan, the Assyrian village where about a year before his arrival Persian Muslims have slaughtered a lot of Christian villagers. Bloodshed and massacre – Semenov and Ungern are surrounded by their natural elements. 

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Roman von Ungern-Sternberg
The February Revolution breaks out in Petrograd (Saint Petersburg) and the last Russian emperor, Tsar Nicholas II, abdicates. The Provisional Revolutionary Government issues Army Order 1, which orders the formation of elected soldiers committees. The garrison of Transbaikal Cossacks at Gulpashan elects Semenov as their representative and he leaves for Urmia town where the committee of the Russian Caucasian Army Corps meets. One of the representatives proposes to increase the soldiers’ pay at the expense of the officers’ salary. Such stupid nonsense, Semenov sneers, the revolt of the unleashed rank and file. It gets even worse when Semenov notices that the commander of the Russian army corps in Urmia takes an active part in the public celebration of the revolution.

Semenov and Ungern decide to counter the events with drastic counterrevolutionary action. April 1917 permission is obtained from the local Russian army staff to start recruiting new volunteers among the Assyrians in the Urmia region. They will be trained under the personal command of ‘the exceptionally brave officer Baron RF Ungern-Sternberg’, as Semenov characterizes his companion. 
   The Assyrian volunteers, mainly tribal warriors from the Hakkari mountains, know how to fight, but due to the revolutionary upheaval among the Russian soldiers the efforts of the Assyrian fighters fail to restore military discipline. The Russians are fed up with the war. Domoj! they shout, they want to go home.
 
Guerrilla and Exodus
 
The Russian writer Viktor Shklovsky, who serves in Persia after the February Revolution of 1917, notices that a guerrilla band under the command of the Assyrian general Agha Petros raids the country. Shklovsky writes: ‘The exiled Assyrian mountaineers starved, plundered and aroused the burning hatred of the Persians. They visited the bazaars dressed in small felt caps, multicolored vests and wide pants made from scraps of calico and tied above the ankles with ropes. The Christian religion, which bound the Assyrians together, had long since grown slack and subsisted only as another means of differentiating them from the Muslims.’
   Apparently with the support of Semenov Ungern has trained a tough Assyrian militia, fit for guerrilla fighting and eager to annihilate the enemy. No mercy, raid and kill – it is the kind of warfare Semenov and Ungern will put into practice during the civil war in eastern Siberia. Is it far-fetched to presume that the uncompromising behaviour of the Assyrian warriors has inspired them to some extent?   
  
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Chal castle - Soto's stronghold
Well trained and highly motivated by feelings of revenge, Assyrian militias under the command of Mar Shimun’s brother David and General Agha Petros cross the Persian-Turkish border in the summer of 1917 and march against the Kurdish chieftain Soto at Oramar. Among the Russian Cossack officers who accompany this punitive expedition are neither Semenov nor Ungern. In those days they have already left the Urmia region.
   The Assyrian expeditionary force engages in heavy fighting against the Oramar Kurds. Assyrian warriors conquer and sack Oramar. Soto has fled and the Assyrians hunt him down in his last mountain stronghold at Chal. In a dashing attack they storm the castle and break through its main gate. The Kurdish defenders are slain, others are taken captive and the fortress is burnt to the ground. Soto himself has escaped once more, but the Assyrians have ravaged his territory and back in Urmia they get their reward – Russian military medals for bravery under fire. Viktor Shklovsky cynically  points out the other support the Assyrian fighters have got from their Russian allies: ‘We gave them nothing but rifles and cartridges, and even the weapons supplied were mediocre French three-shot Lebel rifles.’

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Urmia today - Central Square
What follows is sad history. In Russia the Bolsheviks have seized power after the October Revolution of 1917 and in January 1918 the Russians hastily retreat from Urmia. Once again the Assyrians are abandoned and left at the mercy of their enemies. Patriarch Mar Shimun is murdered close to Salmas, during negotiations with the treacherous Kurdish chieftain Simko. Assyrian militias crush a rebellion of Persian bands in Urmia and occupy the town, while Turkish troops are closing in on them. Harsh fighting devastates the region. Agha Petros holds out with his mounted fighters at first, but in plain summer Turkish armed forces break through and invade Urmia.
   The Assyrians have just one option left – a general exodus. The whole Assyrian nation, men, women and children, flee in a desperate attempt to reach the advance guard of a British expeditionary force that is approaching from the south. After the Russian retreat the British have promised to support the Assyrians, but promises is once more the only thing the Assyrians get. They are constantly under attack, there is no food, no shelter, and thousands of Assyrians perish during that awful march of a whole month through the Kurdish mountains of Persia. Those who make it are assembled by the British and taken to a refugee camp north of Baghdad. That summer of 1918 marks the end of the Assyrian nation in the Urmia region. It is also a turning point in the life of Semenov and Ungern, but for them it means the start of their most notorious exploits.
 
Siberian Warlords
 
End 1917 Semenov and Ungern prepare their next move in Manchuli, a gloomy garrison town in eastern Siberia at the Russian-Chinese border. According to them Russia will perish without the Tsar, whose autocratic regime must be restored at all costs. Semenov has been in Petrograd in the summer of 1917, a few months before the Bolshevik October Revolution. He has seen the Petrograd Soviet in action and he is absolutely convinced that the Soviet is dominated by deserters and German agents like Lenin and Trotsky. It is time to stop them.
   The first weeks of 1918 Semenov and Ungern advance from their Manchurian base in northern China with a small force of Buryat cavalry and Russian officers. They engage in guerrilla fighting against the Red Guards along the Trans-Siberian Railroad.  Semenov’s men are pushed back, but in the summer of 1918 anti-Soviet rebellions break out in Siberia. The Bolsheviks are obliged to loosen their grip and Semenov’s Special Manchurian Detachment dashes again into Siberian Russia. He conquers the major railroad centre Chita and makes this town the capital of his territory.
   Civil war with Reds fighting against Whites tears the Russian Empire apart. The former tsarist admiral Kolchak is in full control of the White Siberian government established in Omsk, west of Lake Baikal. The Siberian Far East is set ablaze. Japan has sent a contingent of troops, while an American expeditionary force is about to disembark in Vladivostok. In Transbaikalia, east of Lake Baikal, Semenov pulls the strings with money and weapons he gets from the Japanese. He is promoted ataman, supreme leader, of the Transbaikal Cossacks and that period in Transbaikalia is called the Atamansjtsjina, which means the Ataman’s Reign of Terror. His armoured trains terrorize the area and other trains get the even worse reputation of death trains. They transport Bolshevik prisoners of war to their doom. The Red captives are executed along the way or starved to death and when such a train stops at last on a side track near a station the stench of the corpses in the closed wagons is almost unbearable.

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Ataman Semenov in Soviet jail
Ataman Semonov drinks champagne by the bottle and enjoys the company of a whole bunch of mistresses. Then the Bolsheviks strike back. The Red Army has already defeated Kolchak’s White troops and the next offensive is directed against Semenov’s Transbaikalia. End 1920 the Reds march into Chita. Semenov escapes and flees to Vladivostok. He crosses the Pacific and seeks asylum in the United States. His request is rejected, he is called a criminal of war in the American press and he will have to stand trial. Semenov leaves the States and goes to Japan.
   Finally he settles down in Chinese Manchuria, a puppet state of Japan after 1930, and there he keeps agitating against Soviet Russia as the leader of the White Cossacks. At the end of the Second World War the Soviets invade Manchuria.  Semenov is arrested, put to trial and sentenced to death by a Soviet court. End of August 1946 he is hanged in a basement. The Bolshevik hangmen prolong his agony and shout at him Repent, reptile! And that is how die-hard Cossack warlord Grigori Semenov meets his end.
 
Back to 1920. Semenov still rules in Transbaikal Siberia when Ungern claims his own dominion at the Manchurian border. Russian refugees heading on trains for China are robbed and thank their good fortune if they get through alive. Ungern is equally ruthless towards his own men, a bunch of wild and often sadistic warriors.  Drunkenness and attempts to desert are severely punished. Flogging to death is one of Ungern’s methods. ‘Did you know’, he once said, ‘that men can still walk when their flesh is separated from their bones?’
   In the autumn of 1920, when Semenov is about to leave Transbaikia, Ungern starts his most stunning campaign. He invades Mongolia with a cavalry division of Mongolians, Cossacks and Tibetans, altogether some five thousand troops. The Tibetans have been sent to him by the Thirteenth Dalai Lama, who hopes that Ungern’s army will free Mongolia and Tibet from the Chinese. The first attack of the invaders is driven off, but in February 1921 Ungern’s men storm the Mongolian capital Urga (Ulan-Bator), they massacre the Chinese garrison and sack the city.
   Ancient times of terror and bloodshed revive in Urga during Ungern’s rule. He adopts the features of a militant Buddhist, as appears from his new colourful outfit. In the eyes of his Mongolian followers he is the God of War, the incarnation of Genghis Khan, and he reveals his ultimate plan – restoring the Great Mongolian Empire through fire and sword. He will advance against Soviet Russia and, as he puts it, create a lane of gallows with the corpses of Bolsheviks and Jews.

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Ungern in Mongolia
In the early summer of 1921 Ungern leads his force into Soviet territory. The invaders are crushed by Red Army troops and what is left of Ungern’s ragged mob is scattered in a desperate retreat. Surrender is not an option for the Mad Baron, he urges his men to follow him and strike back from the last stronghold – Tibet. Even extreme madness has its limits, though. The White Russians in his army camp revolt and fire their guns at him. Ungern jumps on his white horse and disappears into the night, looking for his faithful Mongolian outriders. Precisely these men will hand him over to the Red cavalry in pursuit of the invaders.
   In September 1921 he stands trial in a Soviet court in Novosibirsk. When asked by the Bolshevik prosecutor, a Siberian Jew, if he often beat people to death, Ungern answers: I did, but not enough! He is put before a Red firing squad and executed. Legend has it that Baron von Ungern-Sternberg even in better times more than once declared: Ich war ungern von Sternberg. In English: I have always hated being me.
 
Semenov and Ungern – after the Great War Siberian warlords of the worst kind and in the spring of 1917 Russian Cossack officers training Assyrian militias in the Persian Urmia region. The Russian writer Viktor Shklovsky liked the Assyrians, he called them a fantastic people. This may be true, but they have all too often picked the wrong allies. Or maybe these dubious allies picked them. Wrong place, wrong moment and wrong alliances – it seems to be the fate of the small Assyrian nation in history. 
 
Sources: Viktor Shklovsky, Sentimental Journey (Berlin, 1923); James Palmer, The Bloody White Baron (London, 2008); Jamie Bisher, Cossack Warlords of the Trans-Siberian (New York, 2005); Ataman Semenov, O sebe (Moscow, 2002).                                   Text - A. Thiry    

vendredi, 22 janvier 2010

L'Iran, futur allié des Etats-Unis et d'Israël?

L’Iran, futur allié des États-Unis et d’Israël ?

Ex: http://lalettredulundi.fr/

La République Islamique d’Iran intervient indirectement depuis trois décennies dans de très nombreux conflits au Liban, en Palestine, en Turquie, en Arabie Saoudite, en Jordanie, en Syrie, en Égypte, aux Émirats. Ces interventions prennent place sur fond de rivalité historique entre la Perse et le monde arabe qui l’entoure ; elles sont marquées, bien sûr, par l’opposition, historique elle aussi, entre musulmans chiites et musulmans sunnites. Comment cette situation peut-elle évoluer après l’élection de Barack Obama à la présidence des États-Unis et la formation probable du gouvernement de Benyamin Netanyahu, très marqué à droite, en Israël ?

Commençons par rappeler quelques données historiques de ces interventions iraniennes et des relations irano-américaines.

Les Gardiens de la Révolution, la « Garde Révolutionnaire », sont un bras armé, au sens propre du terme, de l’Iran, indépendants de l’armée et du Président, rattachés directement à l’Imam Khomeini puis à son successeur l’Imam Khamenei. Il s’agit d’une véritable armée qui a joué un rôle très important avec ses jeunes kamikazes (chez les chiites, le sacrifice est un acte valorisé) dans la guerre contre l’Irak (1980-1988), arrêtée après le constat par les généraux iraniens qu’ils n’avaient pas les moyens en armements pour la gagner.

Pendant cette guerre, la fourniture par certains pays occidentaux à l’Irak d’armements sophistiqués, alors que l’Iran était sous embargo occidental, ainsi que le silence occidental sur l’utilisation par l’Irak d’armes chimiques interdites, a engendré chez les dirigeants iraniens un profond ressentiment à l’égard des États-Unis et de leurs alliés. L’embargo occidental est toujours en vigueur. Sa suppression pourrait servir de monnaie d’échange dans le grand marchandage Iran-pays occidentaux que l’élection de Barack Obama rend envisageable.

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En 1982, lorsque Israël a envahi le Liban, l’Imam Khomeini, plutôt que d’intervenir directement dans les combats, a ordonné à la Garde Révolutionnaire d’aider les chiites libanais (les Iraniens sont majoritairement chiites) en assistant le Hezbollah dans le recrutement et l’entraînement de ses soldats. Cette assistance a débouché sur un succès militaire : Israël a dû quitter le Liban en 2000. De surcroît, les Iraniens ont durablement étendu leur influence sur le Hezbollah libanais et ses « filiales » syrienne, irakienne et jordanienne.

En utilisant les mêmes méthodes (assistance technique, aide financière et fourniture d’armements sans intervention directe visible), les Gardiens de la Révolution ont développé le Hamas et le Djihad islamique (pourtant sunnites tous les deux) en Palestine, eux-mêmes initialement suscités par les Frères musulmans (sunnites) égyptiens. Ils ont soutenu le PKK kurde en Turquie et en Irak, sans doute pour mieux le contrôler et éviter une contagion de sécession des Kurdes iraniens.

En Irak, après la défaite de Saddam Hussein par la coalition occidentale, ils ont soutenu puissamment les milices chiites de l’Armée du Mahdi, dont le chef est aujourd’hui réfugié en Iran, sous influence iranienne par conséquent. Dans le petit émirat de Bahrein, l’emprise iranienne sur la population majoritairement chiite est patente, le chef de l’État ne conservant son pouvoir que grâce à la proximité protectrice de l’armée saoudienne.

Tous ces mouvements de résistance menacent les pouvoirs en place de pays alliés des États-Unis : Égypte, Arabie Saoudite, Jordanie, Turquie, Israël, Émirats. La situation en Syrie est moins bien connue publiquement sur ce plan.

D’un autre côté, la volonté attribuée à l’Iran de se doter d’un armement nucléaire inquiète tous ses voisins et les pays déjà détenteurs de ces armements. L’Iran affirme ne préparer qu’un  nucléaire civil. Mais la construction avérée de milliers de centrifugeuses lui permettrait de fabriquer de l’uranium enrichi, dont le seul usage est militaire. La partie de cache-cache avec l’AIEA (Agence internationale de l’énergie atomique) se poursuit depuis une dizaine d’années. Le renoncement par l’Iran à l’armement  nucléaire ou sa mise sous contrôle international concomittament à celui d’Israël serait une autre monnaie d’échange.

Dans ce climat d’opposition frontale, à deux reprises au moins depuis 1982, l’Iran a collaboré avec les Américains :

  • Une première fois dans les années 1980 au Liban, occupé par Israël. L’Iran a accepté d’user de son influence sur le Hezbollah pour faire libérer des otages américains, en échange d’une promesse d’un geste américain en retour. Ce geste ne serait jamais venu, augmentant le ressentiment iranien contre les USA ;
  • Une seconde fois, au début des années 2000, en Afghanistan, alors entièrement occupé par les talibans afghans sauf la vallée du Panchir tenue par l’Alliance du Nord du commandant Massoud. Après l’assassinat de Massoud, Iraniens et Américains ont aidé l’Alliance du Nord a reconquérir la capitale Kaboul et à chasser (provisoirement !) les talibans du pays.

Le Président Obama, l’Imam Khamenei, le futur Président de l’Iran, le futur Premier ministre israélien peuvent-ils en 2009 trouver un terrain d’entente ? Dans cette hypothèse, celui-ci pourrait comporter plusieurs axes :

  • Fin de l’embargo occidental (qui empêche notamment la maintenance des avions civils iraniens et gène l’Iran dans la modernisation de ses installations pétrolières) en échange du renoncement de l’Iran à l’armement nucléaire, simultanément avec Israël (mais quid du Pakistan et de l’Inde, puissances nucléaires de cette région ?) ;
  • Reconnaissance d’une place de grande puissance pour l’Iran (un siège permanent dans un organisme international ou, solution plus radicale, gouvernance confiée à l’Iran de la partie de l’Irak qu’il contrôle de fait) contre renoncement iranien (contrôlé par qui ?) à armer les mouvements révolutionnaires ;
  • Nouvelle coopération militaire entre les États-Unis et l’Iran pour chasser définitivement les talibans d’Afghanistan et du Pakistan ;
  • Alliance secrète entre l’Iran, les États-Unis et Israël. L’Iran y gagnerait en puissance face aux Arabes, ennemis historiques de la Perse. Israël se protègerait du risque iranien et n’aurait à gérer que les menaces des pays arabes. Les États-Unis trouveraient là un renfort pour résoudre le péril taliban en Afghanistan.

N’est-il pas temps pour les Occidentaux de regarder l’Iran comme une des solutions aux problèmes que pose la République islamique à ses voisins et au monde, en associant les Iraniens à la recherche de solutions ? Le président Obama aura-t-il cette audace et cette puissance ?

Mardi
© La Lettre du Lundi 2009

Sources : débats radio et TV (janvier et février 2009) ; Robert Baer, Iran, l’irrésistible ascension ; BBC et France 3, L’Iran et l’Occident : un État marginalisé (1982-2001), Le défi nucléaire (2001-2008)

jeudi, 21 janvier 2010

Un autre regard sur l'Iran

Iran01.jpgUn autre regard sur l’Iran

par Georges FELTIN-TRACOL

2010 : année de l’attaque de l’Occident (ou des États-Unis ou d’Israël) contre l’Iran ? Nul ne peut l’affirmer pour l’instant même si Téhéran reste sur le devant de la scène diplomatique avec la question de son nucléaire, les péripéties subversives de sa « révolution colorée » qui semblent redoublées de violence et d’illégalité et l’« affaire Clotilde Reiss ». Un fait est néanmoins certain : le grand public ne connaît pas la République islamique et cette méconnaissance, voire cette ignorance quasi-complète, est habilement utilisée par les médias peu scrupuleux.

Sorti quelques semaines avant l’élection présidentielle de juin 2009, le n° 5 de la Revue française de géopolitique (R.F.G.) dirigée par Aymeric Chauprade entend faire découvrir un autre Iran, un Iran réel et non fantasmé. Afin de comprendre les enjeux et les ambitions de la « république des mollah », Aymeric Chauprade n’hésite pas à faire appel à des spécialistes qui ne craignent pas d’aller à contre-courant des certitudes ambiantes.

Soucieux de s’inscrire dans la longue durée chère à Fernand Braudel et considérant que le présent demeure inintelligible sans l’aide de l’histoire, il revient à Philippe Conrad d’expliquer le XXe siècle tumultueux de l’ancienne Perse. Le pays traverse des révolutions (de la constitutionnaliste de 1906 à l’islamique de 1979 en passant par l’échec nationaliste de Mossadegh) qui la marquent durablement. Conscient de son très long passé de grande puissance régionale, l’Iran, meurtri par la période d’affaiblissement voulu par les Anglo-Saxons, entend renouer avec des moments plus glorieux. Grâce aux contributeurs de ce numéro de la R.F.G., on comprend que Téhéran dispose d’indéniables atouts.

Outre de substantielles informations sur l’émancipation féminine en cours, les structures bancaires, le cas des fondations (vaqf et bonyad) ou le rôle de la diaspora iranienne malgré l’inorganisation volontaire, les analyses les plus percutantes tournent autour des relations de l’Iran avec son voisinage, immédiat ou non. Au risque de se mettre à dos la bonne conscience, Aymeric Chauprade explique « Pourquoi l’Amérique veut “ casser ” l’Iran et pourquoi l’Iran n’est pas seul ? » Bien qu’encerclée par les troupes étatsuniennes en Irak, en Afghanistan et en Arabie, la République islamique cultive un ardent sentiment national qui se mêle à la culture martyrologique du chiisme duodécimain. Cela n’empêche pas Téhéran de conduire une habile politique arabe en renforçant son alliance avec la Syrie baasiste contrôlée par la minorité chiite alaouite, en soutenant activement le Hezbollah libanais et le Hamas palestinien, en suivant au plus près les affaires irakiennes, en nouant d’utiles et fructueux liens commerciaux avec Dubaï, etc. Il s’agit aussi pour l’Iran d’exprimer vers l’opinion arabe son intransigeance envers Tel-Aviv, son opposition aux menées du terrorisme sunnite djihadiste et sa volonté de contenir l’influence saoudienne.

La diplomatie iranienne ne se limite pas au seul monde arabo-musulman. Elle noue de fructueuses relations avec le Venezuela, la Chine, la Russie et, plus surprenant pour l’observateur européen, l’Inde. Or l’histoire montre Téhéran et La Nouvelle-Delhi ont souvent été soumis aux mêmes maîtres. Par ailleurs, les zoroastriens d’Iran – que le régime reconnaît – n’ont jamais rompu le contact avec les Parsis de Bombay. Il est ainsi logique que « l’Inde participe […] à un des projets d’équipement les plus importants de l’Iran : la création d’un port en eau profonde à Chah-Bahar. Il sera le pendant du port de Gwadar réalisé au Pakistan avec l’aide chinoise », rappelle Denis Lambert. Il aurait pu préciser que ces liens datent des origines de la République et se recoupent avec l’attachement de l’ayatollah Khomeiny pour l’Inde. En effet, vers la fin du XVIIIe siècle, ses ancêtres quittèrent le Khorassam pour, suivant les sources familiales, l’Uttar Pradesh ou le Cachemire. C’est le grand-père du futur ayatollah qui revint s’installer en Perse après un pélerinage. Dans sa jeunesse, Khomeiny signait ses poèmes Hindi (l’Indien). Il y a aussi l’espace caucasien. Téhéran l’islamiste apporte une aide précieuse à l’Arménie chrétienne contre l’Azerbaïdjan turcophone et chiite duodécimain alors même le Guide suprême, Ali Khamenei, et le président Ahmadinejad sont d’origine azérie… Par ce positionnement géopolitique original, l’Iran veut ainsi empêcher tout irrédentisme azéri dans sa propre région d’Azerbaïdjan au profit final d’Angora (Ankara).

On peut cependant critiquer l’absence de tout ensemble cartographique qui aurait été souhaitable. Regrettons par ailleurs qu’aucun article ne traite de l’hétérogénéité ethnique du territoire iranien. Depuis la dynastie safavide, le chiisme sert de ciment à l’unité nationale car, avec les Azéris et les Kurdes, les autres minorités nationales sont les Arabes chiites du Khouzistan ou les sunnites du Sistan-Baloutchistan. Cette dernière, proche du Pakistan et de l’Afghanistan, est depuis quelques temps en proie à des menées séparatistes proto-talibanes orchestrées par quelques services spéciaux pakistanais, saoudiens et yanquis…

Un des prétextes qu’utiliseraient des États occidentaux pour justifier une intervention militaire serait d’exciper une soi-disant atteinte au droit des minorités à disposer d’elles-mêmes par le gouvernement islamique « totalitaire » avec le risque majeur d’une déflagration planétaire… Effectivement, « ne pouvant compter sur des Européens de l’Ouest, plus soumis que jamais à Washington, Moscou va renforcer ses liens avec la Chine, l’Iran, le Venezuela, le Hamas, le Hezbollah… Bref l’ensemble des forces nationalistes dressés contre le mondialisme américain, avertit Aymeric Chauprade. L’Iran n’est pas seul. » La thèse de l’isolement international ne tient donc pas, surtout que « l’Iran d’aujourd’hui – face à un monde arabe qui n’en finit pas de digérer sa phase post-ottomane et post-impérialiste et face à une Amérique plombée par le conflit israélo-palestinien et enlisé en Irak et en Afghanistan, explique Philippe Conrad – peut prétendre accéder au rang de grande puissance régionale, appelée à retrouver la place qui a été la sienne dans un passé apparemment lointain mais qui ne l’est pas jamais vraiment – la Chine le montre aujourd’hui de manière éclatante – pour les peuples qui ont été capables de conserver leur longue mémoire ». Ces facteurs objectifs invitent à plaider « pour la réintégration de l’Iran dans la communauté des nations » comme le fait Jean-François Cuignet qui invite les Occidentaux de cesser de se crisper dans leur défense d’intérêts qui ne sont ni français, ni européens.

En plus de sept recensions d’ouvrages de géopolitique, saluons pour finir le très remarquable article de Christophe Kuntz sur « Un nouveau choc États-Unis / Russie : l’indépendance de la Transnistrie ? » qui soulève de très nombreuses interrogations sur l’adéquation (géo)politique entre la pérennité d’une minorité localement majoritaire, l’intangibilité supposée des frontières et la persistance de l’État-nation.

Un numéro à lire et à méditer pour l’excellence des études publiées !

Georges Feltin-Tracol

• « L’Iran réel. Des spécialistes civils et militaires décryptent librement la question iranienne », Revue française de géopolitique, n° 5, 2009, 192 p., 21 €.

samedi, 16 janvier 2010

Machtpoker entlang der historischen Seidenstrasse

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Machtpoker entlang der historischen Seidenstraße

Wolfgang Effenberger / http://info.kopp-verlag.de/

Knapp drei Wochen vor der Londoner Afghanistan-Konferenz berichten die Medien über den Kursstreit zwischen Außen- und Verteidigungsminister. (1) Während Westerwelle aus seiner Ablehnung für weitere Truppenzusagen keinen Hehl macht, steht zu Guttenberg allen Wünschen aus Washington sehr pragmatisch gegenüber. Aber auch die Kanzlerin möchte sich profilieren. Obwohl bei einer vergleichbaren Afghanistan-Tagung in Paris nur die Außenminister geladen waren, möchte die soeben vom Time-Magazine zur »Frau Europa« gekürte Kanzlerin in London eine Rede halten. Dabei wäre es im Vorfeld dieser Konferenz angebracht, eine hinreichende Antwort auf die Gretchenfrage zu finden: Warum wird entlang der historischen Seidenstraße getötet und gestorben?

Eine seriöse Antwort findet sich beim US-Geostrategen Ariel Cohen – Mitarbeiter des renommierten Davis Institute for International Studies der Heritage Foundation. Bereits im Juli 1997 erschien von ihm ein bemerkenswerter Artikel über den Aufbau einer »Neuen Seidenstraße« zur Erhöhung der US-ökonomischen Prosperität. (2) Dazu sei in der ersten Hälfte des 21. Jahrhunderts der adäquate Zugang zu den kaukasischen und zentralasiatischen Öl- und Erdgasreserven  zu sichern. (3) Mit den reichlichen Ressourcen im postsowjetischen Raum hätten die USA eine Lösung für die gegenwärtigen Herausforderungen und würden sich vom instabilen Nahen Osten unabhängig machen. Neben dem Zugang zum Öl und Erdgas der Kaspischen Meerregion verbinden die USA nach Cohen mit Eurasien weitere geostrategische Interessen. So würden mache US-Politiker das Entstehen eines neuen russisches Imperiums zunehmend mit Sorge betrachten. Russland könnte versucht sein, die amerikanischen Pläne zu durchkreuzen und selbst die exklusive Kontrolle über die Kaspi-Region gewinnen. Als nicht weniger bedrohlich wird das radikale islamische Regime im Iran gesehen und dessen potenzieller Einfluss auf die islamischen zentralasiatischen Staaten. Auch China hätte das Potenzial, in diesem großen Spiel verwickelt zu werden.

In vorderster Front der besorgten US-Politiker steht der geostrategische Vordenker und ehemalige Sicherheitsberater von US-Präsident Jimmy Carter, Zbigniew Brzeziński. Anfang der 1980er-Jahr hat er die nach Carter benannte Doktrin (4) zur Kontrolle über den Persischen Golf entworfen und dazu die militärische Sicherheitsarchitektur gezimmert: das zentrale US-Kommando CENTCOM. Erst diese Voraussetzung ermöglichte es US-Präsident Bush (senior), 1991 den ersten Krieg gegen Saddam Hussein zu führen. Während die USA siegreich den Golfkrieg beendeten, zerfiel die Sowjetunion und der von ihr geführte Warschauer Vertrag. Nun sollte nach dem Willen des damaligen US-Präsidenten eine »Neue Weltordnung« errichtet werden. 

Dazu definierte  Brzeziński mit bemerkenswerter Offenheit die Prämissen, mit denen die USA ihre Politik in Eurasien auf das Ziel globaler Vorherrschaft ausrichten sollten: Europa im Westen Eurasiens als »demokratischer Brückenkopf« und mit dem Hauptverbündeten Japan im Osten als »fernöstlicher Anker«. Russland solle als das »Schwarze Loch« und der Kaukasus und Zentralasien als der »Eurasische Brückenkopf« behandelt werden. (5)

Im Vergleich zu den früheren Weltmächten beschreibt Brzeziński in seinem richtungsweisenden Buch den Geltungsbereich der heutigen Weltmacht Amerika als einzigartig. Die Vereinigten Staaten kontrollieren nicht nur sämtliche Ozeane und Meere, sondern verfügen auch über die militärischen Mittel, ihrer Macht politische Geltung verschaffen zu können: »Amerikanische Armeeverbände stehen in den westlichen und östlichen Randgebieten des eurasischen Kontinents und kontrollieren außerdem den Persischen Golf.« Somit »ist der gesamte Kontinent von amerikanischen Vasallen und tributpflichtigen Staaten übersät, von denen einige allzu gern noch fester an Washington gebunden wären.« (6)

»Das Buch von Zbigniew Brzezinski wird ohne Zweifel eine wichtige Rolle spielen bei der Diskussion über die Struktur einer künftigen dauerhaften und gerechten Weltordnung« (7), schreibt der langjährige deutsche Außenministers Hans-Dietrich Genscher in seinem sechsseitigen Vorwort zu deutschen Ausgabe. Die UNO wird von Genscher im Rahmen der »gerechten Weltordnung« nicht mehr erwähnt. »Aber genau diese Sicht betrifft den Hauptinhalt und das Wesen dessen, was die Politiker der einzigen Weltmacht USA und die ihrer tributpflichtigen Vasallen mit dem Begriff Neue Weltordnung meinen.« (8) Anderthalb Jahre später muss sich die UN anlässlich des Jugoslawienkrieges mit der Statistenrolle begnügen.

Dankbar waren die visionären geostrategischen Ideen des ehrbaren Zbigniew Brzezinski noch im gleichen Jahr vom Kongress aufgenommen worden. (9) Am 12. Februar 1998 befasste sich ein Unterkomitee des Repräsentantenhauses mit der Rolle der USA in diesem »new great game«. Die  seit 1991 unabhängigen ehemaligen zentralasiatischen Sowjetrepubliken Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan, Turkmenistan und Usbekistan hätten phänomenale Reserven an Öl und Erdgas und wären bestrebt, Beziehungen zu den Vereinigten Staaten herzustellen. Das Komitee empfahl, die Unabhängigkeit dieser Staaten und ihre Verbindungen zum Westen zu fördern; Russlands Monopol über Öl- und Gastransportwege zu brechen; die westliche Energiesicherheit durch diversifizierte Lieferanten zu fördern; den Bau von Ostwest-Pipelines unter Umgehung des Irans zu ermutigen und Irans gefährlichen Einfluss auf  die zentralasiatischen Länder streitig zu machen. (10)

Nur fünf Tage vor Beginn der 78-tägigen Bombardierung Jugoslawiens verabschiedete der US-Kongress am 19. März 1999 das sogenannte Seidenstraßen-Strategiegesetz (»Silk Road Strategy Act«). Mit diesem Gesetz gossen sich die USA ein grundlegendes Dokument ihrer langfristig angelegten imperialen Geostrategie in Blei. Unverblümt werden die umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen der USA in einer riesigen Region definiert, die sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt. (11)

Militärisch knapp werden in zahlreichen Unterpunkten Feststellungen getroffen und Handlungsanweisungen gegeben: Die südlichen Länder des Kaukasus mit ihren säkularen moslemische Regierungen würden ein näheres Bündnis mit den Vereinigten Staaten suchen – was auch engere diplomatische und kommerzielle Beziehungen zu Israel bedeuten würde. Die Region des Südkaukasus und Zentralasiens produziere Öl und Gas in ausreichender Menge. Das würde die Abhängigkeit der USA von der unberechenbaren persischen Golfregion reduzieren. Dazu unterstützen die USA die notwendige infrastrukturelle Entwicklung für Kommunikation, Transport, Erziehung, Gesundheit, Energie und Handel in einer Ost-West-Achse, um starke internationale Beziehungen und Handel zwischen jenen Ländern und den stabilen, demokratischen und marktorientierten Ländern von der euroatlantischen Gemeinschaft zu bauen. (12)

Dieses Gesetz lässt die Handschrift von Brzezinski erkennen. In Übereinstimmung mit seinem geostrategischen Konzept zur Beherrschung des eurasischen Kontinents zielt die Seidenstraßen-Strategie darauf ab, die Wettbewerber der USA im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und die gesamte Region vom Balkan und dem Schwarzen Meer bis an die chinesische Grenze in einen Flickenteppich amerikanischer Protektorate zu verwandeln. (13)

Wie alle Weltmächte zuvor sehen sich die USA gezwungen, ihre durch Weltbank, Internationalem Währungsfonds (IWF) und Welthandelsorganisation (WTO) regulierten Märkte auch militärisch abzusichern. In alter angelsächsischer Tradition stützen sie sich auf die Beherrschung der Meere und auf ein System militärischer Stützpunkte. Hinzu gekommen ist die absolute Lufthoheit und der rapide angestiegene Einsatz sogenannter Drohnen (unbemannter Flugzeuge). Weiter wird an einer Raketenabwehr mit dem Ziel einer »Full Spectrum Dominanz« gearbeitet.

Thomas Friedman, früherer Assistent der US-Außenministerin Madelaine Albright, hat dieses System sehr anschaulich so beschrieben: »Damit die Globalisierung funktioniert, dürfen die Vereinigten Staaten nicht zögern, als die unbesiegbare Weltsupermacht zu agieren, die sie sind. Die unsichtbare Hand des Marktes funktioniert nicht ohne die sichtbare Faust.« (14)
Daneben agierte in den 1990-er Jahren die von der US-Administration gesteuerte Non-Profit-Organisation National Endowment for Democracy (NED) (15) sehr erfolgreich. Die farbenfrohen Revolutionen unter dem Banner der Menschenrechte dürften jedem in Erinnerung sein. Doch bald nach dem 11. September 2001 schien der Terrorismusbegriff zur Kriegsrechtfertigung viel geeigneter als der Begriff der Menschenrechte zu sein (16), wie es die jüngsten Ereignisse im Jemen beweisen.

Sofort nach dem Angriff auf New York begann die US-Regierung ihre »vorderen Basen« in Asien auszubauen. Am 7. Oktober 2001 wurde Afghanistan unter dem Vorwand, Osama bin Laden nicht sofort ausgeliefert zu haben, mit Cruise Missiles und Marschflugkörper des US-amerikanischen und britischen Militärs angegriffen. Hauptangriffsziele  waren Kabul und Khandahar.

Treffend bemerkte die damalige stellvertretende Außenministerin Elizabeth Jones: »Wenn der afghanische Konflikt vorbei ist, werden wir Zentralasien nicht verlassen. Wir haben langfristige Pläne und Interessen an dieser Region.« (17) Heute können die USA von Basen aus dem Irak, Afghanistan, Pakistan, Usbekistan, Turkmenistan, Kasachstan, Kirgisistan, Tadschikistan und Georgien agieren. Als Gegenkraft hat sich die Shanghaier Organisation für Zusammenarbeit (SOZ) (18) gebildet. In ihr sind  vor allem Russland und China bestrebt, eine regionales Gegenstück zur US-Silk-Road-Strategy zu bilden.

Wie würden sich die USA im umgekehrten Fall verhalten?

Ein Meilenstein in der Seidenstraßen-Strategie ist die 2005 fertiggestellte Pipeline BTC, die von Baku am Kaspischen Meer über Georgiens Hauptstadt Tbilisi zum türkischen Mittelmeerhafen Ceyhan führt. Die 1.770 Kilometer lange Leitung ist die erste (größere) auf dem Gebiet der früheren Sowjetunion, die Russland umgeht. Erfolgreich konnte der Einfluss Russlands und Irans auf die Anrainer des Kaspischen Meeres zurückgedrängt werden. Am 13. Juli 2009 unterschrieben Österreich, Ungarn, Rumänien, Bulgarien und die Türkei in Ankara den Vertrag für den Bau der etwa 3.300 Kilometer langen Nabucco-Pipeline, die ebenfalls an Russland vorbeiführen wird. »Nabucco ist damit ein wahrhaft europäisches Projekt«, so EU-Kommissionspräsident José Manuel Barroso in Ankara. Nabucco öffne aber auch die Tür für eine neue Ära in den Beziehungen zwischen der Europäischen Union und der Türkei. Als Berater fungiert der ehemalige deutsche Außenminister Joseph Fischer.

Noch liegen nicht alle Karten in diesem »Großen Spiel« auf dem Tisch. Sicher scheint nur zu sein, dass sich die USA nur durch verlorene Kriege oder einen Staatsbankrott von ihrer Seidenstraßen-Strategie abbringen lassen werden. Der Sieg über Saddam Hussein spielte den USA die nach Saudi-Arabien, Kanada und Iran viertgrößten Ölvorräte in die Hände. Der Zugang zu diesen Reserven wird von ExxonMobil, Shell, BP und Chevron erschlossen. Auch künftig wird es permanente US-Basen im Irak geben. Sie sind notwendig, um glaubwürdig kommerzielle Forderungen im Irak und den umliegende Nahostländer Nachdruck zu verleihen.

Am 22. September 2009 traf sich Außenminister Hillary Clinton im New Yorker Plaza Hotel  mit Gurbangulu Berdimuhamedov, dem Präsidenten von Turkmenistan. Auf dieses öl- und gasreiche zentralasiatische Land richten sich die Wünsche der US-Energiegesellschaften, während die US-Regierung Hilfe im Afghanistan-Krieg erhofft. Artig bedankte sich Clintons Sekretär Robert O. Blake  für Überflugrechte und bescheidene Aufbauprogramme in Afghanistan. Dann wies Blake den turkmenischen Präsidenten auf die wichtige Rolle seines Landes bezüglich der Nabucco-Pipeline hin. Gas aus Zentralasien und auch möglicherweise aus dem Irak solle unter Umgehung Russlands, aber mithilfe Turkmenistans nach Europa transportiert werden. Zu gleichen Zeit führte das turkmenische Fernsehen im Hotel Interviews mit Rex Tillerson, Vorstand von ExxonMobil, mit  Jay Pryor, Chevrons Vizepräsident, und dem ehemaligen US-Außenminister Henry Kissinger. Letzterer sprach sich für  die Pipeline von Turkmenistan über Afghanistan nach Indien und Pakistan aus. Auch Blake hält diese Option für durchaus real. Doch die Energiekonzerne werden erst dann investieren, wenn die Lage in Afghanistan »stabil« geworden ist. Eine Exit-Strategie scheint es nur zur Beruhigung der Bevölkerung zu geben – es ist höchstens der vage Wunsch des Pentagons, dass die Afghanen eines Tages zur Vernunft kommen könnten. (19) Im Gegensatz dazu hoffen nicht nur die Afghanen, dass die amerikanische Bevölkerung dem globalen Streben ein Ende setzt. Das mutige Buch Rules of Disengagement (20) der amerikanischen Juristinnen Majorie Cohn, Präsidentin der National Lawyers Guild, und Kathleen Gilberd, stellvertretende Vorsitzende der Guild's Military Law Task Force, gibt Hoffnung. Darin scheuen sich die Juristinnen nicht, die US-Invasion von Afghanistan als ebenso illegal zu bezeichnen wie die Invasion des Iraks. Den nach Afghanistan abkommandierten Soldaten empfiehlt der US-Journalist Nick Mottern, die Teilnahme abzulehnen oder zumindest das Buch der beiden Damen zu lesen. (21) 

Doch vorerst wird die tiefe  Tragödie bleiben. Es darf befürchtet werden, dass nach dem 28. Januar 2010 das immense Maß Tod und Leid in dieser Region noch gesteigert wird. Eine Militäraktion gegen den Iran könnte die Situation im eurasischen Balkan zur Explosion bringen. Für die Pentagon-Strategen erscheint er immer noch verlockend, wäre doch der Iran als bedeutender Machtfaktor in der Region ausgeschaltet. Die USA erhielten auf der einen Seite eine (kosten-)günstige Verbindung zwischen Kaspischem Meer und Persischem Golf. Der bevorstehende Beitritt des Iran zur SOZ wäre verhindert und eine vergrößerte Operationsbasis für weitere Aktionen in Mittelasien gewonnen. Zugleich könnten die bedeutenden Wirtschaftspartner des Irans – Russland und Frankreich –  erheblich geschwächt werden.

Auf der anderen Seite würde ein entfesselter »eurasischer Balkan« auf ganz Eurasien ausstrahlen.

 

__________

Anmerkungen:

(1) Gebauer, Matthias: »Afghanistan-Strategie entzweit Westerwelle und Guttenberg«, Spiegel Online vom 8. Januar 2010 unter http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,670657,00.html.

(2) Cohen, Ariel: »U.S. Policy in the Caucasus and Central Asia: Building A New ›Silk Road‹ to Economic Prosperity vom 24. Juli 1997«, unter http://www.heritage.org/Research/RussiaandEurasia/BG1132.cfm.

(3) For an earlier discussion of this subject, see Ariel Cohen, »The New Great Game: Oil Politics in the Caucasus and Central Asia«, Heritage Foundation Backgrounder No. 1065, January 25, 1996. See also »Major Setbacks Looming for American Interests in the Caucasus Region«, Staff Report, Committee on International Relations, U.S. House of Representatives, September 6, 1996, p. 7.

(4) Jimmy Carter: State of the Union Address 1980, January 23, 1980. – »Jeder Versuch einer auswärtigen Macht, die Kontrolle über den Persischen Golf zu erlangen, wird als Angriff auf die vitalen Interessen der USA betrachtet und … mit allen erforderlichen Mitteln, einschließlich militärischer, zurückgeschlagen werden.« Vgl. http://www.jimmycarterlibrary.org/documents/speeches/su80jec.phtml.

(5) Brzeziński, Zbigniew: »A geostrategy for Eurasia«, Foreign Affairs, Sept./Oct. 1997, pp. 50-64; Brzeziński, Zbigniew: »The Grand Chessboard, American Primary and Its Geostrategic Imperatives«, New York 1997.

(6) Brzeziński, Zbigniew: Die einzige Weltmacht, Weinheim, Berlin 1997, S. 41.

(7) Ebenda, S. 14.

(8) Woit, Ernst: »Kolonialkriege  für  eine  Neue  Weltordnung«. Vortrag zum 7. Dresdner Symposium »Für eine globale Friedensordnung« am 23. November 2002; Print-Veröffentlichung: DSS-Arbeitspapiere, Heft 64-2003, S. 7–18.

(9) April 24, 1997: Full Committee Hearing on Conventional Armed forces in Europe Treaty, and Revisions of the Flank Agreement; May 5, 1997: Subcommittee on European Affairs Hearing on The Foreign assistance Program to the Former Soviet Union and Central and Eastern Europe; July 21, 1997: Subcommittee on European Affairs and Subcommittee on Near Eastern and South Asian Affairs Joint Hearing on US Foreign Policy Interests in the South Caucasus and Central Asia; October 22, 1997: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing on US Economic and Strategic Interests in the Caspian Sea Region, Policies and Implications; February 24, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Sea Oil Pipeline; June 16, 1998: Subcommittee on International Economic Policy, Export, and Trade Promotion Hearing: Implementation of US Policy on Construction of a Western Caspian Pipeline; and March 3, 1999: Subcommittee on International Economic policy, Export and Trade Promotion Hearing on Commercial Viability of a Caspian Sea Main Energy Pipeline …

(10) Anhörung des SUBCOMMITTEE ON ASIA AND THE PACIFIC im US-Repräsentantenhaus vom 12. Februar 1998, »ONE HUNDRED FIFTH CONGRESS, SECOND SESSION: U.S. INTERESTS IN THE CENTRAL ASIAN REPUBLICS« unter http://commdocs.house.gov/committees/intlrel/hfa48119.000/hfa48119_0.htm.

(11) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 391.

(12) Silk Road Strategy Act of 1999 (H.R. 1152 -106th Congress) vom 19. März 1999, Offizieller Titel: »To amend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the economic and political independence of the countries oft he South Caucasus and Central Asia«, unter http://ftp.resource.org/gpo.gov/bills/106/h1152ih.txt.

(13) Siehe M. Chossudowsky, GLOBAL BRUTAL. Der entfesselte Welthandel, die Armut, der Krieg, Frankfurt a.M. 2002, S. 392 f.

(14) Nach Jean Ziegler, »Der Terror und das Imperium«, in Junge Welt, Berlin, vom 21.05.2002, S. 10.

(15) NED wurde 1983 von Reagan als halbstaatlicher Arm der Außenpolitik gegründet. Das ermöglicht der US-Regierung Mittel an Nicht-US-Organisationen über einen Dritten weiterzugeben.

(16) J. Ross, »Arbeit am neuen Weltbild«, in Die Zeit, Hamburg, Nr. 45 vom 31.10.2001, S. 16.

(17) Monbiot, George: »World Views: A wilful blindness«, in Daily Times vom 12. März 2003, unter http://www.dailytimes.com.pk/default.asp?page=story_12-3-2003_pg4_6.

(18) Der SOZ gehören an Volksrepublik China, Russland, Usbekistan, Kasachstan, Kirgistan und Tadschikistan.

(19) ISAF-Oberkommandierender General Stanley McChrystal will durch den Einsatz von Spezialkommandos zum Ausschalten führender Taliban diesem Ziel näher kommen; Stars and Stripes, 02.01.2010, unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=66983.

(20) Cohn, Majorie und Gilberd, Kathleen: Rules of Disengagement: The Politics and Honor of Military Dissent, Sausalito 2009.

(21) Mottern, Nick: »Killing and Dying in ›the New Great Game‹«. A Letter to Members of the US Military on Their Way to Afghanistan, Thursday, 22. October 2009, unter http://www.truthout.org/10220910.

  

Mittwoch, 13.01.2010

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik, Terrorismus

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Intesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei

kash4.jpgIntesa Italia-Kazakistan nello stile di Enrico Mattei
Scritto da Antonio Albanese   

Ex: http://www.area-online.it/

«Ringrazio il premier Berlusconi per questo invito a visitare l’Italia e per il calore che ho sentito in tutti gli incontri». Così, Nursultan Nazarbayev, presidente del Kazakistan, ha espresso la sua soddisfazione per gli ottimi rapporti con l’Italia, commentando la firma di una serie di importanti accordi bilaterali (il partenariato strategico con il ministero degli Esteri e un’intesa per la lotta al narcotraffico e alla criminalità organizzata) e commerciali tra i due Paesi.
 Questi ultimi valgono «molti miliardi di dollari», come ha sottolineato lo stesso Berlusconi nel corso della conferenza stampa congiunta.
Le intese «riguardano nostre grandi aziende» come Eni, Finmeccanica, Ansaldo e Fs, ma, come ha poi sottolineato il nostro premier, «in questi giorni sono stati presi contatti anche con le nostre medie imprese e abbiamo preso accordi per una missione di nostre piccole e medie imprese per esportare in Kazakistan il nostro know how». 
Berlusconi ha inoltre espresso «la speranza di poter aumentare in maniera notevole la collaborazione economica». Ha poi sottolineato l’accordo sul turismo «per portare turisti italiani in questo Paese che è grande nove volte l’Italia». Il premier ha espresso poi «grande soddisfazione per l’impegno dei nostri imprenditori nei confronti di un Paese in grande espansione».
Di Kazakistan, è bene ricordarlo, Berlusconi avrebbe parlato a fine ottobre, durante la visita privata a Vladimir Putin. Nel corso della “trilaterale” Italia-Russia-Turchia, svoltasi proprio nella casa del primo ministro russo, Berlusconi, Erdogan (collegato in videoconferenza con gli altri due leader) e Putin hanno esaminato il progetto dell’oleodotto Samsun-Ceyhan (vi sono impegnate la turca Celik Enerji e l’Eni). Questo progetto collegherebbe il Mar Nero turco con le coste del Mediterraneo, attraversando da nord a sud l’Anatolia, con lo scopo di alleggerire il carico e il traffico attualmente sostenuto dalle petroliere che passano il Bosforo, con conseguenze ambientali indubbiamente positive. A questo progetto dovrebbe partecipare anche il Kazakistan. 
L’incontro di fine ottobre, come aveva fatto sapere Palazzo Chigi, era stato richiesto da Nazarbayev in occasione di una precedente breve visita di Berlusconi in Kazakistan e rientra nella strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico messa in atto dall’Italia, primo importatore di gas condensato e di petrolio dal Kazakistan. Gli accordi firmati durante l’incontro riguardano «investimenti reciproci di 6 miliardi» di dollari. Questa è la cifra indicata da Nursultan Nazarbayev, che ha spiegato come questi accordi possono essere «uno stimolo per il rilancio dei rapporti» tra i due Paesi. Il presidente della Repubblica kazaka ha poi precisato come l’interscambio tra Italia e Kazakistan abbia «raggiunto il 30% dell’intero interscambio con l’Unione europea, pari a 14 miliardi di dollari; e gli investimenti italiani hanno raggiunto i 6 miliardi di dollari con 97 imprese presenti in Kazakistan», un 8% in più, rispetto allo stesso periodo del 2008.
Grazie alle intese di Roma si è rafforzata, nel settore petrolifero, la collaborazione con l’Eni: l’amministratore delegato, Paolo Scaroni e il presidente di KazMunayGas (Kmg, la compagnia kazaka), Kairgeldy Kabyldin, hanno siglato, alla presenza di Nazarbayev e Berlusconi, un nuovo accordo di cooperazione per lo sviluppo di attività di esplorazione e produzione e la realizzazione di infrastrutture industriali in Kazakistan. In particolare, l’accordo, che fa seguito a un memorandum d’intesa preliminare firmato a luglio 2009, prevede che Eni e Kmg  conducano studi di esplorazione nelle aree di Isatay e Shagala, nel Mar Caspio, e studi di ottimizzazione dell’utilizzo del gas in Kazakistan. È prevista anche la valutazione di «numerose iniziative industriali», tra cui un impianto di trattamento del gas, un impianto di generazione elettrica a gas, un cantiere navale e l’upgrading della raffineria di Pavlodar, di cui Kmg possiede la quota di maggioranza. Le decisioni finali d’investimento per questi progetti «sono previste entro due anni dal completamento di studi tecnici e commerciali dettagliati», come ha fatto poi sapere la compagnia italiana. Eni prevede poi di «rafforzare ulteriormente la sua presenza in Kazakistan, dove è co-operatore nel giacimento Karachaganak ed è partner nel consorzio che gestisce il giacimento Kashagan».
Secondo Paolo Scaroni, «è un accordo molto importante che definisco “matteiano” perché ad ampio spettro». A Eni sono state assegnate, ha detto Scaroni, «due aree esplorative che sono al top delle brame delle compagnie mondiali, le due aree del petrolio più promettenti del Mar Caspio. È un grande risultato che testimonia il successo della nostra presenza in Kazakistan. Si è parlato tanto di Kashagan anche in modo non lusinghiero. Pensate che avrebbero fatto un accordo di questo tipo se le nostre performance non fossero al top?».
Per quel che riguarda gli altri accordi, il presidente della società kazaka Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna (società statale di gestione industriale e finanziaria), Kairat Kelimbetov, e il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, hanno firmato un memorandum d’intesa per sviluppare accordi di collaborazione industriale con le aziende del gruppo Finmeccanica nei settori del ferroviario, dell’elettro-ottica e dell’elicotteristica. L’intesa tra Finmeccanica e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna prevede la costituzione di un gruppo di lavoro che dovrà analizzare le nuove esigenze del Kazakistan e le opportunità di business per le aziende del gruppo italiano. Nel settore ferroviario, il presidente della società Temir Zholy, Askar Mamin, l’ad di Finmeccanica e quello delle Ferrovie dello Stato italiane, Mauro Moretti, hanno inoltre firmato un accordo di ampia cooperazione per lo sviluppo del settore ferroviario del Paese centroasiatico. Sempre in questo campo, Temir Zholy e Ansaldo Sts hanno firmato un accordo per la realizzazione di una joint venture nel segnalamento ferroviario, nei sistemi di elettrificazione e per la realizzazione di centri di comando e controllo per le stazioni ferroviarie in Kazakistan e nei Paesi limitrofi. L’accordo con le ferrovie kazake (Ktz) è il primo passo della cooperazione del sistema Italia nel settore ferroviario per lo sviluppo del trasporto su ferro dell’importante Paese centroasiatico. Le aree nelle quali Fs collaborerà con le Ferrovie kazake sono fra l’altro: assistenza tecnica per fornire supporto al loro processo di ristrutturazione; studio di fattibilità con Italferr per l’aggiornamento della linea Astana-Almaty, per una velocità commerciale di 200-250 chilometri orari; sviluppo di centri logistici nel Paese con Fs Logistica e Italferr; cooperazione per Traffic Management Centers (11 centri) e gestione del traffico merci e della logistica integrata. Il Kazakistan è il Paese dell’area centroasiatica che ha il piano di investimenti più significativo per lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria e quindi del trasporto su ferro.
Nel settore dell’elettro-ottica, la KazEngineering e Selex Galileo hanno firmato un accordo di collaborazione per lo sviluppo di applicazioni civili e militari, che prevede anche l’utilizzazione dei sistemi elettro-ottici italiani per l’ammodernamento dei veicoli corazzati T72, carri armati in servizio nelle forze armate kazake. Accanto a questi progetti si sono avviate le procedure per costituire una joint venture tra AgustaWestland e Sovereign Wealth Fund Samruk-Kazyna per la realizzazione di un centro di manutenzione e addestramento per elicotteri civili, nonché una joint venture per l’assemblaggio in Kazakistan di autobus a gas naturale della BredaMenarinibus (società di Finmeccanica).
Accanto agli accordi economici, abbiamo accennato agli accori politici siglati tra i due Paesi. L’Italia appoggerà il Kazakistan per la sua presidenza dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) nel 2010. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha confermato direttamente a Nursultan Nazarbayev, al Quirinale. «La presidenza dell’Osce da parte del Kazakistan nel 2010 è un fatto molto importante anzitutto per il rilancio stesso dell’Osce» ha detto il capo dello Stato, «sentiamo che questa organizzazione può svolgere un ruolo maggiore di quello che non sia riuscito a svolgere negli ultimi tempi». In particolare, Napolitano ha apprezzato l’idea di Nazarbayev di una convocazione dell’Osce a livello di vertice dei capi di Stato di tutti i Paesi aderenti: «È una proposta eccellente, che l’Italia appoggia e si augura che si possa realizzare. Non a caso la proposta arriva dal Kazakistan, ovvero da un Paese esempio e specchio di tolleranza, di moderazione e di convivenza pacifica; Paese che persegue una politica di equilibrio nei rapporti internazionali e rappresenta una grande garanzia per tutti, collocato in un’area strategica e in una regione irta di problemi», posta fra il Medio Oriente, l’Iran con il suo contenzioso nucleare, l’Afghanistan e il Pakistan al centro della minaccia del terrorismo internazionale. 
Quanto ai rapporti bilaterali fra i due Paesi, Napolitano, ricordando che per Nazarbayev si tratta della sua seconda visita al Quirinale, dopo il precedente invito della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, registra con soddisfazione «l’intenso sviluppo dei rapporti economici e dell’interscambio commerciale con un Paese ricco di grandi risorse che ha un ruolo chiave per l’approvvigionamento energetico» accanto alle «eccellenti possibilità di impegno comune  sui grandi temi della politica internazionale». 

jeudi, 14 janvier 2010

Teheran, epicentro di un terremoto geostrategico

340x.jpgTeheran, epicentro di un terremoto geostrategico

Ahmadinejad e Berdymukhamedov inaugurano un gasdotto in Turkmenistan

Pietro Fiocchi

Dopo aver riscosso un certo successo in Tajikistan, dove il presidente Rakhmon ha garantito sostegno al programma nucleare civile di Teheran, Ahmadinejad era ieri in Turkmenistan. Nella capitale Ashgabat ha incontrato il leader dell’ex repubblica sovietica Gurbanguly Berdymukhamedov, con il quale si è congratulato per la sua politica imparziale, approccio saggio per assicurare pace e stabilità nella regione.
A detta dello stesso Ahmedinejad, tra i governi dei due Paesi centroasiatici ci sarebbe una perfetta sintonia su una serie di questioni di carattere locale e internazionale. Posizioni vicine sulla questione Afghanistan. Il presidente iraniano è tornato a scandire concetti ormai noti: “l’Iran incoraggia soluzioni ai problemi della regione che siano giusti per tutti i Paesi e per tutti i popoli”.
Berdymukhamedov, forse per restare fedele alla sua fama di saggia neutralità, non ha fatto eco al suo ospite. In ogni caso, in precedenza aveva fatto sapere di non essere favorevole a interventi militari sul fronte afghano. Posizioni molto vicine a quelle di Mosca e di tutti gli altri cinque membri dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione, in cui Teheran è osservatore e aspirante membro. Ashgabat con questa organizzazione non ha niente a che fare, ma di recente ha riscoperto con il Cremlino l’antica amicizia e concluso vari accordi nel settore energetico.
Non è verosimile che il Turkmenistan si abbandoni a colpi di testa e si privi della simpatia di due alleati strategici come la Russia e l’Iran, così ben disposti. Quindi l’Eurasia, quella che conta, è compatta nel proporre compromessi che escludano l’uso della forza, tanto per Kabul quanto per l’intera Asia Centrale. Difficile che sia altrimenti: tra vicini di casa sono preferibili le buone maniere.
Discorsi sulla sicurezza a parte, il punto forte dei tre giorni di Ahmadinejad in Turkmenistan è l’inaugurazione, oggi, di un nuovo gasdotto. Lungo 30,5 chilometri, il gasdotto permetterà di aumentare le forniture destinate a Teheran fino 14 miliardi di metri cubi di gas all’anno, per raggiungere in seguito i 20 miliardi. Non sarà un problema: Ashgabat ne produce 80 miliardi l’anno, di cui 30 vanno in Russia e 6 in Cina. A quanto pare in tema di idrocarburi l’Iran per un po’ potrà stare tranquillo. C’è inoltre la banca del Qatar, che finanzierà prossimamente, con la cifra iniziale di 400 milioni di euro, lo sviluppo del giacimento petrolifero di Esfandiar, nel Golfo.
Sempre in tema di affari e prospettive c’è una novità: con l’anno nuovo è in vigore l’Unione doganale di Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un gigante economico, una nuova realtà politica, di cui l’alleato Iran saprà amichevolmente approfittare.


06 Gennaio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=261