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jeudi, 12 juillet 2012

Modernità totalitaria

Modernità totalitaria

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Augusto Del Noce individuò precocemente la diversità dei regimi a partito unico del Novecento, rispetto al liberalismo, nella loro natura “religiosa” e fortemente comunitaria. Vere religioni apocalittiche, ideologie fideistiche della redenzione popolare, neo-gnosticismi basati sulla realizzazione in terra del Millennio. Questa la sostanza più interna di quei movimenti, che in tempi e modi diversi lanciarono la sfida all’individualismo laico e borghese. Fascismo, nazionalsocialismo e comunismo furono uniti dalla concezione “totalitaria” della partecipazione politica: la sfera del privato andava tendenzialmente verso un progressivo restringimento, a favore della dimensione pubblica, politica appunto. E nella sua Nuova scienza della politica, Voegelin già nel 1939 accentrò il suo sguardo proprio su questo enigmatico riermergere dalle viscere dell’Europa di una sua antica vocazione: concepire l’uomo come zoòn politikòn, animale politico, che vive la dimensione dell’agorà, della assemblea politica, come la vera espressione dell’essere uomo. Un uomo votato alla vita di comunità, al legame, alla reciprocità, al solidarismo sociale, più di quanto non fosse incline al soddisfacimento dei suoi bisogni privati e personali.

 

 

Lo studio del Fascismo partendo da queste sue profonde caratteristiche sta ormai soppiantando le obsolete interpretazioni economiciste e sociologiche che avevano dominato nei decenni scorsi, inadatte a capire un fenomeno tanto variegato e composito, ma soprattutto tanto “subliminale” e agente negli immaginari della cultura popolare. In questo senso, la categoria “totalitarismo”, sotto la quale Hannah Arendt aveva a suo tempo collocato il nazismo e il comunismo, ma non il Fascismo (in virtù dell’assenza in quest’ultimo di un apparato di violenta repressione di massa), viene recuperata con altri risvolti: anche il Fascismo ebbe un suo aspetto “totalitario”, chiamò se stesso con questo termine, aspirò a una sua “totalità”, ma semplicemente volendo significare che il suo era un modello di coinvolgimento totale, una mobilitazione di tutte le energie nazionali, una generale chiamata a raccolta di tutto il popolo nel progetto di edificazione dello Stato Nuovo. Il totalitarismo fascista, insomma, non tanto come sistema repressivo e come organizzazione dello Stato di polizia, ma come sistema di aggregazione totale di tutti in tutte le sfere dell’esistenza, dal lavoro al tempo libero, dall’arte alla cultura. Il totalitarismo fascista non come arma di coercizione capillare, ma come macchina di conquista e promozione di un consenso che si voleva non passivo e inerte, ma attivo e convinto.

 

Un’analisi di questi aspetti viene ora effettuata dal libro curato da Emilio Gentile Modernità totalitaria. Il fascismo italiano (Laterza), in cui vari autori affrontano il tema da più prospettive: la religione politica, gli stili estetici, la divulgazione popolare, l’architettura, i rituali del Regime. Pur negli ondeggiamenti interpretativi, se ne ricava il quadro di un Fascismo che non solo non fu uno strumento reazionario in mano agli agenti politici oscurantisti dell’epoca, ma proprio al contrario fu l’espressione più tipica della modernità, manifestando certo anche talune disfunzioni legate alla società di massa, ma – all’opposto del liberalismo – cercando anche di temperarle costruendo un tessuto sociale solidarista che risultasse, per quanto possibile nell’era industriale e tecnologica, a misura d’uomo.

 

Diciamo subito che l’indagine svolta da Mauro Canali, uno degli autori del libro in parola, circa le tecniche repressive attuate dal Regime nei confronti degli oppositori politici, non ci convince. Si dice che anche il Fascismo eresse apparati atti alla denuncia, alla sorveglianza delle persone, alla creazione di uno stato di sospetto diffuso. Che fu dunque meno “morbido” di quanto generalmente si pensi.

 

E si citano organismi come la mitica “Ceka” (la cui esistenza nel ‘23-’24 non è neppure storicamente accertata), la staraciana “Organizzazione capillare” del ‘35-’36, il rafforzamento della Polizia di Stato, la figura effimera dei “prefetti volanti”, quella dei “fiduciari”, che insieme alle leggi “fascistissime” del ‘25-’26 avrebbero costituito altrettanti momenti di aperta oppure occulta coercizione. Vorremmo sapere se, ad esempio, la struttura di polizia degli Stati Uniti – in cui per altro la pena capitale viene attuata ancora oggi in misura non paragonabile a quella ristretta a pochissimi casi estremi durante i vent’anni di Fascismo – non sia molto più efficiente e invasiva di quanto lo sia stata quella fascista. Che, a cominciare dal suo capo Bocchini, elemento di formazione moderata e “giolittiana”, rimase fino alla fine in gran parte liberale. C’erano i “fiduciari”, che sorvegliavano sul comportamento politico della gente? Ma perchè, oggi non sorgono come funghi “comitati di vigilanza antifascista” non appena viene detta una sola parola che vada oltre il seminato? E non vengono svolte campagne di intimidazione giornalistica e televisiva nei confronti di chi, per qualche ragione, non accetta il sistema liberaldemocratico? E non si attuano politiche di pubblica denuncia e di violenta repressione nei confronti del semplice reato di opinione, su temi considerati a priori indiscutibili? E non esistono forse leggi europee che mandano in galera chi la pensa diversamente dal potere su certi temi?

 

Il totalitarismo fascista non va cercato nella tecnica di repressione, che in varia misura appartiene alla logica stessa di qualsiasi Stato che ci tenga alla propria esistenza. Vogliamo ricordare che anche di recente si è parlato di “totalitarismo” precisamente a proposito della società liberaldemocratica. Ad esempio, nel libro curato da Massimo Recalcati Forme contemporanee di totalitarismo (Bollati Boringhieri), si afferma apertamente l’esistenza del binomio «potere e terrore» che domina la società globalizzata. Una struttura di potere che dispone di tecniche di dominazione psico-fisica di straordinaria efficienza. Si scrive in proposito che la società liberaldemocratica globalizzata della nostra epoca è «caratterizzata da un orizzonte inedito che unisce una tendenza totalitaria – universalista appunto – con la polverizzzazione relativistica dell’Uno». Il dominio oligarchico liberale di fatto non ha nulla da invidiare agli strumenti repressivi di massa dei regimi “totalitari” storici, attuando anzi metodi di controllo-repressione che, più soft all’apparenza, si rivelano nei fatti di superiore tenuta. Quando si richiama l’attenzione sull’esistenza odierna di un «totalitarismo postideologico nelle società a capitalismo avanzato», sulla materializzazione disumanizzante della vita, sullo sfaldamento dei rapporti sociali a favore di quelli economici, si traccia il profilo di un totalitarismo organizzato in modo formidabile, che è in piena espansione ed entra nelle case e nel cervello degli uomini con metodi “terroristici” per lo più inavvertiti, ma di straordinaria resa pratica. Poche società – ivi comprese quelle totalitarie storiche –, una volta esaminate nei loro reali organigrammi, presentano un “modello unico”, un “pensiero unico”, un’assenza di controculture e di antagonismi politici, come la presente società liberale. La schiavizzazione psicologica al modello del profitto e l’obbligatoria sudditanza agli articoli della fede “democratica” attuano tali bombardamenti mass-mediatici e tali intimidazioni nei confronti dei comportamenti devianti, che al confronto le pratiche fasciste di isolamento dell’oppositore – si pensi al blandissimo regime del “confino di polizia” – appaiono bonari e paternalistici ammonimenti di epoche arcaiche.

 

Il totalitarismo fascista fu altra cosa. Fu la volontà di creare una nuova civiltà non di vertice ed oligarchica, ma col sostegno attivo e convinto tanto delle avanguardie politiche e culturali, quanto di masse fortemente organizzate e politicizzate. Si può parlare, in proposito, di un popolo italiano soltanto dopo la “nazionalizzazione” effettuata dal Fascismo. Il quale, bene o male, prese masse relegate nell’indigenza, nell’ignoranza secolare, nell’abbandono sociale e culturale, le strappò al loro miserabile isolamento, le acculturò, le vestì, le fece viaggiare per l’Italia, le mise a contatto con realtà sino ad allora ignorate – partecipazione a eventi comuni di ogni tipo, vacanze, sussidi materiali, protezione del lavoro, diritti sociali, garanzie sanitarie… – dando loro un orgoglio, fecendole sentire protagoniste, elevandole alla fine addirittura al rango di “stirpe dominatrice”. E imprimendo la forte sensazione di partecipare attivamente a eventi di portata mondiale e di poter decidere sul proprio destino… Questo è il totalitarismo fascista. Attraverso il Partito e le sue numerose organizzazioni, di una plebe semimedievale – come ormai riconosce la storiografia – si riuscì a fare in qualche anno, e per la prima volta nella storia d’Italia, un popolo moderno, messo a contatto con tutti gli aspetti della modernità e della tecnica, dai treni popolari alla radio, dall’auto “Balilla” al cinema.

 

Ecco dunque che il totalitarismo fascista appare di una specie tutta sua. Lungi dall’essere uno Stato di polizia, il Regime non fece che allargare alla totalità del popolo i suoi miti fondanti, le sue liturgie politiche, il suo messaggio di civiltà, il suo italianismo, la sua vena sociale: tutte cose che rimasero inalterate, ed anzi potenziate, rispetto a quando erano appannaggio del primo Fascismo minoritario, quello movimentista e squadrista. Giustamente scrive Emily Braun, collaboratrice del libro sopra segnalato, che il Fascismo fornì nel campo artistico l’esempio tipico della sua specie particolare di totalitarismo. Non vi fu mai un’arte “di Stato”. Quanti si occuparono di politica delle arti (nomi di straordinaria importanza a livello europeo: Marinetti, Sironi, la Sarfatti, Soffici, Bottai…) capirono «che l’estetica non poteva essere né imposta né standardizzata… il fascismo italiano utilizzava forme d’arte modernista, il che implica l’arte di avanguardia». Ma non ci fu un potere arcigno che obbligasse a seguire un cliché preconfezionato. Lo stile “mussoliniano” e imperiale si impose per impulso non del vertice politico, ma degli stessi protagonisti, «poiché gli artisti di regime più affermati erano fascisti convinti».

 

Queste cose oggi possono finalmente esser dette apertamente, senza timore di quella vecchia censura storiografica, che è stata per decenni l’esatto corrispettivo delle censure del tempo fascista. Le quali ultime, tuttavia, operarono in un clima di perenne tensione ideologica, di crisi mondiali, di catastrofi economiche, di guerre e rivoluzioni, e non di pacifica “democrazia”. Se dunque vi fu un totalitarismo fascista, esso è da inserire, come scrive Emilio Gentile, nel quadro dell’«eclettismo dello spirito» propugnato da Mussolini, che andava oltre l’ideologia, veicolando una visione del mondo totale.

 

* * *

 

Tratto da Linea del 27 marzo 2009.

 

lundi, 09 juillet 2012

Augustin Cochin on the French Revolution

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From Salon to Guillotine
Augustin Cochin on the French Revolution

By F. Roger Devlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

Augustin Cochin
Organizing the Revolution: Selections From Augustin Cochin [2]
Translated by Nancy Derr Polin with a Preface by Claude Polin
Rockford, Ill.: Chronicles Press, 2007

The Rockford Institute’s publication of Organizing the Revolution marks the first appearance in our language of an historian whose insights apply not only to the French Revolution but to much of modern politics as well.

Augustin Cochin (1876–1916) was born into a family that had distinguished itself for three generations in the antiliberal “Social Catholicism” movement. He studied at the Ecole des Chartes and began to specialize in the study of the Revolution in 1903. Drafted in 1914 and wounded four times, he continued his researches during periods of convalescence. But he always requested to be returned to the front, where he was killed on July 8, 1916 at the age of thirty-nine.

Cochin was a philosophical historian in an era peculiarly unable to appreciate that rare talent. He was trained in the supposedly “scientific” methods of research formalized in his day under the influence of positivism, and was in fact an irreproachably patient and thorough investigator of primary archives. Yet he never succumbed to the prevailing notion that facts and documents would tell their own story in the absence of a human historian’s empathy and imagination. He always bore in mind that the goal of historical research was a distinctive type of understanding.

Both his archival and his interpretive labors were dedicated to elucidating the development of Jacobinism, in which he (rightly) saw the central, defining feature of the French Revolution. François Furet wrote: “his approach to the problem of Jacobinism is so original that it has been either not understood or buried, or both.”[1]

Most of his work appeared only posthumously. His one finished book is a detailed study of the first phase of the Revolution as it played out in Brittany: it was published in 1925 by his collaborator Charles Charpentier. He had also prepared (with Charpentier) a complete collection of the decrees of the revolutionary government (August 23, 1793–July 27, 1794). His mother arranged for the publication of two volumes of theoretical writings: The Philosophical Societies and Modern Democracy (1921), a collection of lectures and articles; and The Revolution and Free Thought (1924), an unfinished work of interpretation. These met with reviews ranging from the hostile to the uncomprehending to the dismissive.

“Revisionist” historian François Furet led a revival of interest in Cochin during the late 1970s, making him the subject of a long and appreciative chapter in his important study Interpreting the French Revolution and putting him on a par with Tocqueville. Cochin’s two volumes of theoretical writings were reprinted shortly thereafter by Copernic, a French publisher associated with GRECE and the “nouvelle droit.”

The book under review consists of selections in English from these volumes. The editor and translator may be said to have succeeded in their announced aim: “to present his unfinished writings in a clear and coherent form.”

Between the death of the pioneering antirevolutionary historian Hippolyte Taine in 1893 and the rise of “revisionism” in the 1960s, study of the French Revolution was dominated by a series of Jacobin sympathizers: Aulard, Mathiez, Lefevre, Soboul. During the years Cochin was producing his work, much public attention was directed to polemical exchanges between Aulard, a devotee of Danton, and his former student Mathiez, who had become a disciple of Robespierre. Both men remained largely oblivious to the vast ocean of assumptions they shared.

Cochin published a critique of Aulard and his methods in 1909; an abridged version of this piece is included in the volume under review. Aulard’s principal theme was that the revolutionary government had been driven to act as it did by circumstance:

This argument [writes Cochin] tends to prove that the ideas and sentiments of the men of ’93 had nothing abnormal in themselves, and if their deeds shock us it is because we forget their perils, the circumstances; [and that] any man with common sense and a heart would have acted as they did in their place. Aulard allows this apology to include even the very last acts of the Terror. Thus we see that the Prussian invasion caused the massacre of the priests of the Abbey, the victories of la Rochejacquelein [in the Vendée uprising] caused the Girondins to be guillotined, [etc.]. In short, to read Aulard, the Revolutionary government appears a mere makeshift rudder in a storm, “a wartime expedient.” (p. 49)

Aulard had been strongly influenced by positivism, and believed that the most accurate historiography would result from staying as close as possible to documents of the period; he is said to have conducted more extensive archival research than any previous historian of the Revolution. But Cochin questioned whether such a return to the sources would necessarily produce truer history:

Mr. Aulard’s sources—minutes of meetings, official reports, newspapers, patriotic pamphlets—are written by patriots [i.e., revolutionaries], and mostly for the public. He was to find the argument of defense highlighted throughout these documents. In his hands he had a ready-made history of the Revolution, presenting—beside each of the acts of “the people,” from the September massacres to the law of Prairial—a ready-made explanation. And it is this history he has written. (p. 65)

aaaaacochinmeccannicca.gifIn fact, says Cochin, justification in terms of “public safety” or “self- defense” is an intrinsic characteristic of democratic governance, and quite independent of circumstance:

When the acts of a popular power attain a certain degree of arbitrariness and become oppressive, they are always presented as acts of self-defense and public safety. Public safety is the necessary fiction in democracy, as divine right is under an authoritarian regime. [The argument for defense] appeared with democracy itself. As early as July 28, 1789 [i.e., two weeks after the storming of the Bastille] one of the leaders of the party of freedom proposed to establish a search committee, later called “general safety,” that would be able to violate the privacy of letters and lock people up without hearing their defense. (pp. 62–63)

(Americans of the “War on Terror” era, take note.)

But in fact, says Cochin, the appeal to defense is nearly everywhere a post facto rationalization rather than a real motive:

Why were the priests persecuted at Auch? Because they were plotting, claims the “public voice.” Why were they not persecuted in Chartes? Because they behaved well there.

How often can we not turn this argument around?

Why did the people in Auch (the Jacobins, who controlled publicity) say the priests were plotting? Because the people (the Jacobins) were persecuting them. Why did no one say so in Chartes? Because they were left alone there.

In 1794 put a true Jacobin in Caen, and a moderate in Arras, and you could be sure by the next day that the aristocracy of Caen, peaceable up till then, would have “raised their haughty heads,” and in Arras they would go home. (p. 67)

In other words, Aulard’s “objective” method of staying close to contemporary documents does not scrape off a superfluous layer of interpretation and put us directly in touch with raw fact—it merely takes the self-understanding of the revolutionaries at face value, surely the most naïve style of interpretation imaginable. Cochin concludes his critique of Aulard with a backhanded compliment, calling him “a master of Jacobin orthodoxy. With him we are sure we have the ‘patriotic’ version. And for this reason his work will no doubt remain useful and consulted” (p. 74). Cochin could not have foreseen that the reading public would be subjected to another half century of the same thing, fitted out with ever more “original documentary research” and flavored with ever increasing doses of Marxism.

But rather than attending further to these methodological squabbles, let us consider how Cochin can help us understand the French Revolution and the “progressive” politics it continues to inspire.

It has always been easy for critics to rehearse the Revolution’s atrocities: the prison massacres, the suppression of the Vendée, the Law of Suspects, noyades and guillotines. The greatest atrocities of the 1790s from a strictly humanitarian point of view, however, occurred in Poland, and some of these were actually counter-revolutionary reprisals. The perennial fascination of the French Revolution lies not so much in the extent of its cruelties and injustices, which the Caligulas and Genghis Khans of history may occasionally have equaled, but in the sense that revolutionary tyranny was something different in kind, something uncanny and unprecedented. Tocqueville wrote of

something special about the sickness of the French Revolution which I sense without being able to describe. My spirit flags from the effort to gain a clear picture of this object and to find the means of describing it fairly. Independently of everything that is comprehensible in the French Revolution there is something that remains inexplicable.

Part of the weird quality of the Revolution was that it claimed, unlike Genghis and his ilk, to be massacring in the name of liberty, equality, and fraternity. But a deeper mystery which has fascinated even its enemies is the contrast between its vast size and force and the negligible ability of its apparent “leaders” to unleash or control it: the men do not measure up to the events. For Joseph de Maistre the explanation could only be the direct working of Divine Providence; none but the Almighty could have brought about so great a cataclysm by means of such contemptible characters. For Augustin Barruel it was proof of a vast, hidden conspiracy (his ideas have a good claim to constitute the world’s original “conspiracy theory”). Taine invoked a “Jacobin psychology” compounded of abstraction, fanaticism, and opportunism.

Cochin found all these notions of his antirevolutionary predecessors unsatisfying. Though Catholic by religion and family background, he quite properly never appeals to Divine Providence in his scholarly work to explain events (p. 71). He also saw that the revolutionaries were too fanatical and disciplined to be mere conspirators bent on plunder (pp. 56–58; 121–122; 154). Nor is an appeal to the psychology of the individual Jacobin useful as an explanation of the Revolution: this psychology is itself precisely what the historian must try to explain (pp. 60–61).

Cochin viewed Jacobinism not primarily as an ideology but as a form of society with its own inherent rules and constraints independent of the desires and intentions of its members. This central intuition—the importance of attending to the social formation in which revolutionary ideology and practice were elaborated as much as to ideology, events, or leaders themselves—distinguishes his work from all previous writing on the Revolution and was the guiding principle of his archival research. He even saw himself as a sociologist, and had an interest in Durkheim unusual for someone of his Catholic traditionalist background.

The term he employs for the type of association he is interested in is société de pensée, literally “thought-society,” but commonly translated “philosophical society.” He defines it as “an association founded without any other object than to elicit through discussion, to set by vote, to spread by correspondence—in a word, merely to express—the common opinion of its members. It is the organ of [public] opinion reduced to its function as an organ” (p. 139).

It is no trivial circumstance when such societies proliferate through the length and breadth of a large kingdom. Speaking generally, men are either born into associations (e.g., families, villages, nations) or form them in order to accomplish practical ends (e.g., trade unions, schools, armies). Why were associations of mere opinion thriving so luxuriously in France on the eve of the Revolution? Cochin does not really attempt to explain the origin of the phenomenon he analyzes, but a brief historical review may at least clarify for my readers the setting in which these unusual societies emerged.

About the middle of the seventeenth century, during the minority of Louis XIV, the French nobility staged a clumsy and disorganized revolt in an attempt to reverse the long decline of their political fortunes. At one point, the ten year old King had to flee for his life. When he came of age, Louis put a high priority upon ensuring that such a thing could never happen again. The means he chose was to buy the nobility off. They were relieved of the obligations traditionally connected with their ancestral estates and encouraged to reside in Versailles under his watchful eye; yet they retained full exemption from the ruinous taxation that he inflicted upon the rest of the kingdom. This succeeded in heading off further revolt, but also established a permanent, sizeable class of persons with a great deal of wealth, no social function, and nothing much to do with themselves.

The salon became the central institution of French life. Men and women of leisure met for gossip, dalliance, witty badinage, personal (not political) intrigue, and discussion of the latest books and plays and the events of the day. Refinement of taste and the social graces reached an unusual pitch. It was this cultivated leisure class which provided both setting and audience for the literary works of the grand siècle.

The common social currency of the age was talk: outside Jewish yeshivas, the world had probably never beheld a society with a higher ratio of talk to action. A small deed, such as Montgolfier’s ascent in a hot air balloon, could provide matter for three years of self-contented chatter in the salons.

Versailles was the epicenter of this world; Paris imitated Versailles; larger provincial cities imitated Paris. Eventually there was no town left in the realm without persons ambitious of imitating the manners of the Court and devoted to cultivating and discussing whatever had passed out of fashion in the capital two years earlier. Families of the rising middle class, as soon as they had means to enjoy a bit of leisure, aspired to become a part of salon society.

Toward the middle of the eighteenth century a shift in both subject matter and tone came over this world of elegant discourse. The traditional saloniste gave way to the philosophe, an armchair statesman who, despite his lack of real responsibilities, focused on public affairs and took himself and his talk with extreme seriousness. In Cochin’s words: “mockery replaced gaiety, and politics pleasure; the game became a career, the festivity a ceremony, the clique the Republic of Letters” (p. 38). Excluding men of leisure from participation in public life, as Louis XIV and his successors had done, failed to extinguish ambition from their hearts. Perhaps in part by way of compensation, the philosophes gradually

created an ideal republic alongside and in the image of the real one, with its own constitution, its magistrates, its common people, its honors and its battles. There they studied the same problems—political, economic, etc.—and there they discussed agriculture, art, ethics, law, etc. There they debated the issues of the day and judged the officeholders. In short, this little State was the exact image of the larger one with only one difference—it was not real. Its citizens had neither direct interest nor responsible involvement in the affairs they discussed. Their decrees were only wishes, their battles conversations, their studies games. It was the city of thought. That was its essential characteristic, the one both initiates and outsiders forgot first, because it went without saying. (pp. 123–24)

Part of the point of a philosophical society was this very seclusion from reality. Men from various walks of life—clergymen, officers, bankers—could forget their daily concerns and normal social identities to converse as equals in an imaginary world of “free thought”: free, that is, from attachments, obligations, responsibilities, and any possibility of failure.

In the years leading up to the Revolution, countless such organizations vied for followers and influence: Amis Réunis, Philalèthes, Chevaliers Bienfaisants, Amis de la Verité, several species of Freemasons, academies, literary and patriotic societies, schools, cultural associations and even agricultural societies—all barely dissimulating the same utopian political spirit (“philosophy”) behind official pretenses of knowledge, charity, or pleasure. They “were all more or less connected to one another and associated with those in Paris. Constant debates, elections, delegations, correspondence, and intrigue took place in their midst, and a veritable public life developed through them” (p. 124).

Because of the speculative character of the whole enterprise, the philosophes’ ideas could not be verified through action. Consequently, the societies developed criteria of their own, independent of the standards of validity that applied in the world outside:

Whereas in the real world the arbiter of any notion is practical testing and its goal what it actually achieves, in this world the arbiter is the opinion of others and its aim their approval. That is real which others see, that true which they say, that good of which they approve. Thus the natural order is reversed: opinion here is the cause and not, as in real life, the effect. (p. 39)

Many matters of deepest concern to ordinary men naturally got left out of discussion: “You know how difficult it is in mere conversation to mention faith or feeling,” remarks Cochin (p. 40; cf. p. 145). The long chains of reasoning at once complex and systematic which mark genuine philosophy—and are produced by the stubborn and usually solitary labors of exceptional men—also have no chance of success in a society of philosophes (p. 143). Instead, a premium gets placed on what can be easily expressed and communicated, which produces a lowest-common-denominator effect (p. 141).

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The philosophes made a virtue of viewing the world surrounding them objectively and disinterestedly. Cochin finds an important clue to this mentality in a stock character of eighteenth-century literature: the “ingenuous man.” Montesquieu invented him as a vehicle for satire in the Persian Letters: an emissary from the King of Persia sending witty letters home describing the queer customs of Frenchmen. The idea caught on and eventually became a new ideal for every enlightened mind to aspire to. Cochin calls it “philosophical savagery”:

Imagine an eighteenth-century Frenchman who possesses all the material attainments of the civilization of his time—cultivation, education, knowledge, and taste—but without any of the real well-springs, the instincts and beliefs that have created and breathed life into all this, that have given their reason for these customs and their use for these resources. Drop him into this world of which he possesses everything except the essential, the spirit, and he will see and know everything but understand nothing. Everything shocks him. Everything appears illogical and ridiculous to him. It is even by this incomprehension that intelligence is measured among savages. (p. 43; cf. p. 148)

In other words, the eighteenth-century philosophes were the original “deracinated intellectuals.” They rejected as “superstitions” and “prejudices” the core beliefs and practices of the surrounding society, the end result of a long process of refining and testing by men through countless generations of practical endeavor. In effect, they created in France what a contributor to this journal has termed a “culture of critique”—an intellectual milieu marked by hostility to the life of the nation in which its participants were living. (It would be difficult, however, to argue a significant sociobiological basis in the French version.)

This gradual withdrawal from the real world is what historians refer to as the development of the Enlightenment. Cochin calls it an “automatic purging” or “fermentation.” It is not a rational progression like the stages in an argument, however much the philosophes may have spoken of their devotion to “Reason”; it is a mechanical process which consists of “eliminating the real world in the mind instead of reducing the unintelligible in the object” (p. 42). Each stage produces a more rarified doctrine and human type, just as each elevation on a mountain slope produces its own kind of vegetation. The end result is the world’s original “herd of independent minds,” a phenomenon which would have horrified even men such as Montesquieu and Voltaire who had characterized the first societies.

It is interesting to note that, like our own multiculturalists, many of the philosophes attempted to compensate for their estrangement from the living traditions of French civilization by a fascination with foreign laws and customs. Cochin aptly compares civilization to a living plant which slowly grows “in the bedrock of experience under the rays of faith,” and likens this sort of philosophe to a child mindlessly plucking the blossoms from every plant he comes across in order to decorate his own sandbox (pp. 43–44).

Accompanying the natural “fermentation” of enlightened doctrine, a process of selection also occurs in the membership of the societies. Certain men are simply more suited to the sort of empty talking that goes on there:

young men because of their age; men of law, letters or discourse because of their profession; the skeptics because of their convictions; the vain because of their temperament; the superficial because of their [poor] education. These people take to it and profit by it, for it leads to a career that the world here below does not offer them, a world in which their deficiencies become strengths. On the other hand, true, sincere minds with a penchant for the concrete, for efficacy rather than opinion, find themselves disoriented and gradually drift away. (pp. 40–41)

In a word, the glib drive out the wise.

The societies gradually acquired an openly partisan character: whoever agreed with their views, however stupid, was considered “enlightened.” By 1776, d’Alembert acknowledged this frankly, writing to Frederick the Great: “We are doing what we can to fill the vacant positions in the Académie française in the manner of the banquet of the master of the household in the Gospel: with the crippled and lame men of literature” (p. 35). Mediocrities such as Mably, Helvétius, d’Holbach, Condorcet, and Raynal, whose works Cochin calls “deserts of insipid prose” were accounted ornaments of their age. The philosophical societies functioned like hired clappers making a success of a bad play (p. 46).

On the other hand, all who did not belong to the “philosophical” party were subjected to a “dry terror”:

Prior to the bloody Terror of ’93, in the Republic of Letters there was, from 1765 to 1780, a dry terror of which the Encyclopedia was the Committee of Public Safety and d’Alembert was the Robespierre. It mowed down reputations as the other chopped off heads: its guillotine was defamation, “infamy” as it was then called: The term, originating with Voltaire [écrasez l’infâme!], was used in the provincial societies with legal precision. “To brand with infamy” was a well-defined operation consisting of investigation, discussion, judgment, and finally execution, which meant the public sentence of “contempt.” (p. 36; cf. p. 123)

Having said something of the thought and behavioral tendencies of the philosophes, let us turn to the manner in which their societies were constituted—which, as we have noted, Cochin considered the essential point. We shall find that they possess in effect two constitutions. One is the original and ostensible arrangement, which our author characterizes as “the democratic principle itself, in its principle and purity” (p. 137). But another pattern of governance gradually takes shape within them, hidden from most of the members themselves. This second, unacknowledged constitution is what allows the societies to operate effectively, even as it contradicts the original “democratic” ideal.

The ostensible form of the philosophical society is direct democracy. All members are free and equal; no one is forced to yield to anyone else; no one speaks on behalf of anyone else; everyone’s will is accomplished. Rousseau developed the principles of such a society in his Social Contract. He was less concerned with the glaringly obvious practical difficulties of such an arrangement than with the question of legitimacy. He did not ask: “How could perfect democracy function and endure in the real word?” but rather: “What must a society whose aim is the common good do to be founded lawfully?”

Accordingly, Rousseau spoke dismissively of the representative institutions of Britain, so admired by Montesquieu and Voltaire. The British, he said, are free only when casting their ballots; during the entire time between elections there are as enslaved as the subjects of the Great Turk. Sovereignty by its very nature cannot be delegated, he declared; the People, to whom it rightfully belongs, must exercise it both directly and continuously. From this notion of a free and egalitarian society acting in concert emerges a new conception of law not as a fixed principle but as the general will of the members at a given moment.

Rousseau explicitly states that the general will does not mean the will of the majority as determined by vote; voting he speaks of slightingly as an “empirical means.” The general will must be unanimous. If the merely “empirical” wills of men are in conflict, then the general will—their “true” will—must lie hidden somewhere. Where is it to be found? Who will determine what it is, and how?

At this critical point in the argument, where explicitness and clarity are most indispensable, Rousseau turns coy and vague: the general will is “in conformity with principles”; it “only exists virtually in the conscience or imagination of ‘free men,’ ‘patriots.’” Cochin calls this “the idea of a legitimate people—very similar to that of a legitimate prince. For the regime’s doctrinaires, the people is an ideal being” (p. 158).

There is a strand of thought about the French Revolution that might be called the “Ideas-Have-Consequences School.” It casts Rousseau in the role of a mastermind who elaborated all the ideas that less important men such as Robespierre merely carried out. Such is not Cochin’s position. In his view, the analogies between the speculations of the Social Contract and Revolutionary practice arise not from one having caused or inspired the other, but from both being based upon the philosophical societies.

Rousseau’s model, in other words, was neither Rome nor Sparta nor Geneva nor any phantom of his own “idyllic imagination”—he was describing, in a somewhat idealized form, the philosophical societies of his day. He treated these recent and unusual social formations as the archetype of all legitimate human association (cf. pp. 127, 155). As such a description—but not as a blueprint for the Terror—the Social Contract may be profitably read by students of the Revolution.

Indeed, if we look closely at the nature and purpose of a philosophical society, some of Rousseau’s most extravagant assertions become intelligible and even plausible. Consider unanimity, for example. The society is, let us recall, “an association founded to elicit through discussion [and] set by vote the common opinion of its members.” In other words, rather than coming together because they agree upon anything, the philosophes come together precisely in order to reach agreement, to resolve upon some common opinion. The society values union itself more highly than any objective principle of union. Hence, they might reasonably think of themselves as an organization free of disagreement.

Due to its unreal character, furthermore, a philosophical society is not torn by conflicts of interest. It demands no sacrifice—nor even effort—from its members. So they can all afford to be entirely “public spirited.” Corruption—the misuse of a public trust for private ends—is a constant danger in any real polity. But since the society’s speculations are not of this world, each philosophe is an “Incorruptible”:

One takes no personal interest in theory. So long as there is an ideal to define rather than a task to accomplish, personal interest, selfishness, is out of the question. [This accounts for] the democrats’ surprising faith in the virtue of mankind. Any philosophical society is a society of virtuous, generous people subordinating political motives to the general good. We have turned our back on the real world. But ignoring the world does not mean conquering it. (p. 155)

(This pattern of thinking explains why leftists even today are wont to contrast their own “idealism” with the “selfish” activities of businessmen guided by the profit motive.)

We have already mentioned that the more glib or assiduous attendees of a philosophical society naturally begin exercising an informal ascendancy over other members: in the course of time, this evolves into a standing but unacknowledged system of oligarchic governance:

Out of one hundred registered members, fewer than five are active, and these are the masters of the society. [This group] is composed of the most enthusiastic and least scrupulous members. They are the ones who choose the new members, appoint the board of directors, make the motions, guide the voting. Every time the society meets, these people have met in the morning, contacted their friends, established their plan, given their orders, stirred up the unenthusiastic, brought pressure to bear upon the reticent. They have subdued the board, removed the troublemakers, set the agenda and the date. Of course, discussion is free, but the risk in this freedom minimal and the “sovereign’s” opposition little to be feared. The “general will” is free—like a locomotive on its tracks. (pp. 172–73)

 Cochin draws here upon James Bryce’s American Commonwealth and Moisey Ostrogorski’s Democracy and the Organization of Political Parties. Bryce and Ostrogorski studied the workings of Anglo-American political machines such as New York’s Tammany Hall and Joseph Chamberlain’s Birmingham Caucus. Cochin considered such organizations (plausibly, from what I can tell) to be authentic descendants of the French philosophical and revolutionary societies. He thought it possible, with due circumspection, to apply insights gained from studying these later political machines to previously misunderstand aspects of the Revolution.

One book with which Cochin seems unfortunately not to have been familiar is Robert Michels’ Political Parties: A Sociological Study of the Oligarchical Tendencies of Modern Democracy, published in French translation only in 1914. But he anticipated rather fully Michels’ “iron law of oligarchy,” writing, for example, that “every egalitarian society fatally finds itself, after a certain amount of time, in the hands of a few men; this is just the way things are” (p. 174). Cochin was working independently toward conclusions notably similar to those of Michels and Gaetano Mosca, the pioneering Italian political sociologists whom James Burnham called “the Machiavellians.” The significance of his work extends far beyond that of its immediate subject, the French Revolution.

The essential operation of a democratic political machine consists of just two steps, continually repeated: the preliminary decision and the establishment of conformity.

First, the ringleaders at the center decide upon some measure. They prompt the next innermost circles, whose members pass the message along until it reaches the machine’s operatives in the outermost local societies made up of poorly informed people. All this takes place unofficially and in secrecy (p. 179).

Then the local operatives ingenuously “make a motion” in their societies, which is really the ringleaders’ proposal without a word changed. The motion passes—principally through the passivity (Cochin writes “inertia”) of the average member. The local society’s resolution, which is now binding upon all its members, is with great fanfare transmitted back towards the center.

The central society is deluged with identical “resolutions” from dozens of local societies simultaneously. It hastens to endorse and ratify these as “the will of the nation.” The original measure now becomes binding upon everyone, though the majority of members have no idea what has taken place. Although really a kind of political ventriloquism by the ringleaders, the public opinion thus orchestrated “reveals a continuity, cohesion and vigor that stuns the enemies of Jacobinism” (p. 180).

In his study of the beginnings of the Revolution in Brittany, Cochin found sudden reversals of popular opinion which the likes of Monsieur Aulard would have taken at face value, but which become intelligible once viewed in the light of the democratic mechanism:

On All Saints’ Day, 1789, a pamphlet naïvely declared that not a single inhabitant imagined doing away with the privileged orders and obtaining individual suffrage, but by Christmas hundreds of the common people’s petitions were clamoring for individual suffrage or death. What was the origin of this sudden discovery that people had been living in shame and slavery for the past thousand years? Why was there this imperious, immediate need for a reform which could not wait a minute longer?

Such abrupt reversals are sufficient in themselves to detect the operation of a machine. (p. 179)

The basic democratic two-step is supplemented with a bevy of techniques for confusing the mass of voters, discouraging them from organizing opposition, and increasing their passivity and pliability: these techniques include constant voting about everything—trivial as well as important; voting late at night, by surprise, or in multiple polling places; extending the suffrage to everyone: foreigners, women, criminals; and voting by acclamation to submerge independent voices (pp. 182–83). If all else fails, troublemakers can be purged from the society by ballot:

This regime is partial to people with all sorts of defects, failures, malcontents, the dregs of humanity, anyone who cares for nothing and finds his place nowhere. There must not be religious people among the voters, for faith makes one conscious and independent. [The ideal citizen lacks] any feeling that might oppose the machine’s suggestions; hence also the preference for foreigners, the haste in naturalizing them. (pp. 186–87)

(I bite my lip not to get lost in the contemporary applications.)

The extraordinary point of Cochin’s account is that none of these basic techniques were pioneered by the revolutionaries themselves; they had all been developed in the philosophical societies before the Revolution began. The Freemasons, for example, had a term for their style of internal governance: the “Royal Art.” “Study the social crisis from which the Grand Lodge [of Paris Freemasons] was born between 1773 and 1780,” says Cochin, “and you will find the whole mechanism of a Revolutionary purge” (p. 61).

Secrecy is essential to the functioning of this system; the ordinary members remain “free,” meaning they do not consciously obey any authority, but order and unity are maintained by a combination of secret manipulation and passivity. Cochin relates “with what energy the Grand Lodge refused to register its Bulletin with the National Library” (p. 176). And, of course, the Freemasons and similar organizations made great ado over refusing to divulge the precise nature of their activities to outsiders, with initiates binding themselves by terrifying oaths to guard the sacred trust committed to them. Much of these societies’ appeal lay precisely in the natural pleasure men feel at being “in” on a secret of any sort.

In order to clarify Cochin’s ideas, it might be useful to contrast them at this point with those of the Abbé Barruel, especially as they have been confounded by superficial or dishonest leftist commentators (“No need to read that reactionary Cochin! He only rehashes Barruel’s conspiracy thesis”).

Father Barruel was a French Jesuit living in exile in London when he published his Memoirs Illustrating the History of Jacobinism in 1797. He inferred from the notorious secretiveness of the Freemasons and similar groups that they must have been plotting for many years the horrors revealed to common sight after 1789—conspiring to abolish monarchy, religion, social hierarchy, and property in order to hold sway over the ruins of Christendom.

Cochin was undoubtedly thinking of Barruel and his followers when he laments that

thus far, in the lives of these societies, people have only sought the melodrama—rites, mystery, disguises, plots—which means they have strayed into a labyrinth of obscure anecdotes, to the detriment of the true history, which is very clear. Indeed the interest in the phenomenon in question is not in the Masonic bric-a-brac, but in the fact that in the bosom of the nation the Masons instituted a small state governed by its own rules. (p. 137)

For our author, let us recall, a société de pensée such as the Masonic order has inherent constraints independent of the desires or intentions of the members. Secrecy—of the ringleaders in relation to the common members, and of the membership to outsiders—is one of these necessary aspects of its functioning, not a way of concealing criminal intentions. In other words, the Masons were not consciously “plotting” the Terror of ’93 years in advance; the Terror was, however, an unintended but natural outcome of the attempt to apply a version of the Mason’s “Royal Art” to the government of an entire nation.

Moreover, writes Cochin, the peculiar fanaticism and force of the Revolution cannot be explained by a conspiracy theory. Authors like Barruel would reduce the Revolution to “a vast looting operation”:

But how can this enthusiasm, this profusion of noble words, these bursts of generosity or fits of rage be only lies and play-acting? Could the Revolutionary party be reduced to an enormous plot in which each person would only be thinking [and] acting for himself while accepting an iron discipline? Personal interest has neither such perseverance nor such abnegation. Throughout history there have been schemers and egoists, but there have only been revolutionaries for the past one hundred fifty years. (pp. 121–22)

And finally, let us note, Cochin included academic and literary Societies, cultural associations, and schools as sociétés de pensée. Many of these organizations did not even make the outward fuss over secrecy and initiation that the Masons did.

 

By his own admission, Cochin has nothing to tell us about the causes of the Revolution’s outbreak:

I am not saying that in the movement of 1789 there were not real causes—[e.g.,] a bad fiscal regime that exacted very little, but in the most irritating and unfair manner—I am just saying these real causes are not my subject. Moreover, though they may have contributed to the Revolution of 1789, they did not contribute to the Revolutions of August 10 [1792, abolition of the monarchy] or May 31 [1793, purge of the Girondins]. (p. 125)

With these words, he turns his back upon the entire Marxist “class struggle” approach to understanding the Revolution, which was the fundamental presupposition of much twentieth-century research.

The true beginning of the Revolution on Cochin’s account was the announcement in August 1788 that the Estates General would be convoked for May 1789, for this was the occasion when the men of the societies first sprang into action to direct a real political undertaking. With his collaborator in archival work, Charpentier, he conducted extensive research into this early stage of the Revolution in Brittany and Burgundy, trying to explain not why it took place but how it developed. This material is omitted from the present volume of translations; I shall cite instead from Furet’s summary and discussion in Interpreting the French Revolution:

In Burgundy in the autumn of 1788, political activity was exclusively engineered by a small group of men in Dijon who drafted a “patriotic” platform calling for the doubling of the Third Estate, voting by head, and the exclusion of ennobled commoners and seigneurial dues collectors from the assemblies of the Third Estate. Their next step was the systematic takeover of the town’s corporate bodies. First came the avocats’ corporation where the group’s cronies were most numerous; then the example of that group was used to win over other wavering or apathetic groups: the lower echelons of the magistrature, the physicians, the trade guilds. Finally the town hall capitulated, thanks to one of the aldermen and pressure from a group of “zealous citizens.” In the end, the platform appeared as the freely expressed will of the Third Estate of Dijon. Promoted by the usurped authority of the Dijon town council, it then reached the other towns of the province.[2]

. . . where the same comedy was acted out, only with less trouble since the platform now apparently enjoyed the endorsement of the provincial capital. Cochin calls this the “snowballing method” (p. 84).

An opposition did form in early December: a group of nineteen noblemen which grew to fifty. But the remarkable fact is that the opponents of the egalitarian platform made no use of the traditional institutions or assemblies of the nobility; these were simply forgotten or viewed as irrelevant. Instead, the nobles patterned their procedures on those of the rival group: they thought and acted as the “right wing” of the revolutionary party itself. Both groups submitted in advance to arbitration by democratic legitimacy. The episode, therefore, marked not a parting of the ways between the supporters of the old regime and adherents of the new one, but the first of the revolutionary purges. Playing by its enemies’ rules, the opposition was defeated by mid-December.[3]

In Brittany an analogous split occurred in September and October rather than December. The traditional corporate bodies and the philosophical societies involved had different names. The final purge of the nobles was not carried out until January 1789. The storyline, however, was essentially the same. [4]  La Révolution n’a pas de patrie (p. 131).

The regulations for elections to the Estates General were finally announced on January 24, 1789. As we shall see, they provided the perfect field of action for the societies’ machinations.

The Estates General of France originated in the fourteenth century, and were summoned by the King rather than elected. The first two estates consisted of the most important ecclesiastical and lay lords of the realm, respectively. The third estate consisted not of the “commoners,” as usually thought, but of the citizens of certain privileged towns which enjoyed a direct relation with the King through a royal charter (i.e., they were not under the authority of any feudal lord). The selection of notables from this estate may have involved election, although based upon a very restricted franchise.

In the Estates General of those days, the King was addressing

the nation with its established order and framework, with its various hierarchies, its natural subdivisions, its current leaders, whatever the nature or origin of their authority. The king acknowledged in the nation an active, positive role that our democracies would not think of granting to the electoral masses. This nation was capable of initiative. Representatives with a general mandate—professional politicians serving as necessary intermediaries between the King and the nation—were unheard of. (pp. 97–98)

Cochin opposes to this older “French conception” the “English and parliamentary conception of a people of electors”:

A people made up of electors is no longer capable of initiative; at most, it is capable of assent. It can choose between two or three platforms, two or three candidates, but it can no longer draft proposals or appoint men. Professional politicians must present the people with proposals and men. This is the role of parties, indispensable in such a regime. (p. 98)

In 1789, the deputies were elected to the States General on a nearly universal franchise, but—in accordance with the older French tradition—parties and formal candidacies were forbidden: “a candidate would have been called a schemer, and a party a cabal” (p. 99).

The result was that the “electors were placed not in a situation of freedom, but in a void”:

The effect was marvelous: imagine several hundred peasants, unknown to each other, some having traveled twenty or thirty leagues, confined in the nave of a church, and requested to draft a paper on the reform of the realm within the week, and to appoint twenty or thirty deputies. There were ludicrous incidents: at Nantes, for example, where the peasants demanded the names of the assembly’s members be printed. Most could not have cited ten of them, and they had to appoint twenty-five deputies.

Now, what actually happened? Everywhere the job was accomplished with ease. The lists of grievances were drafted and the deputies appointed as if by enchantment. This was because alongside the real people who could not respond there was another people who spoke and appointed for them. (p. 100)

These were, of course, the men of the societies. They exploited the natural confusion and ignorance of the electorate to the hilt to obtain delegates according to their wishes. “From the start, the societies ran the electoral assemblies, scheming and meddling on the pretext of excluding traitors that they were the only ones to designate” (p. 153).

“Excluding”—that is the key word:

The society was not in a position to have its men nominated directly [parties being forbidden], so it had only one choice: have all the other candidates excluded. The people, it was said, had born enemies that they must not take as their defenders. These were the men who lost by the people’s enfranchisement, i.e., the privileged men first, but also the ones who worked for them: officers of justice, tax collectors, officials of any sort. (p. 104)

This raised an outcry, for it would have eliminated nearly everyone competent to represent the Third Estate. In fact, the strict application of the principle would have excluded most members of the societies themselves. But pretexts were found for excepting them from the exclusion: the member’s “patriotism” and “virtue” was vouched for by the societies, which “could afford to do this without being accused of partiality, for no one on the outside would have the desire, or even the means, to protest” (p. 104)—the effect of mass inertia, once again.

Having established the “social mechanism” of the revolution, Cochin did not do any detailed research on the events of the following four years (May 1789–June 1793), full of interest as these are for the narrative historian. Purge succeeded purge: Monarchiens, Feuillants, Girondins. Yet none of the actors seemed to grasp what was going on:

Was there a single revolutionary team that did not attempt to halt this force, after using it against the preceding team, and that did not at that very moment find itself “purged” automatically? It was always the same naïve amazement when the tidal wave reached them: “But it’s with me that the good Revolution stops! The people, that’s me! Freedom here, anarchy beyond!” (p. 57)

During this period, a series of elective assemblies crowned the official representative government of France: first the Constituent Assembly, then the Legislative Assembly, and finally the Convention. Hovering about them and partly overlapping with their membership were various private and exclusive clubs, a continuation of the pre-Revolutionary philosophical societies. Through a gradual process of gaining the affiliation of provincial societies, killing off rivals in the capital, and purging itself and its daughters, one of these revolutionary clubs acquired by June 1793 an unrivalled dominance. Modestly formed in 1789 as the Breton Circle, later renamed the Friends of the Constitution, it finally established its headquarters in a disused Jacobin Convent and became known as the Jacobin Club:

Opposite the Convention, the representative regime of popular sovereignty, thus arises the amorphous regime of the sovereign people, acting and governing on its own. “The sovereign is directly in the popular societies,” say the Jacobins. This is where the sovereign people reside, speak, and act. The people in the street will only be solicited for the hard jobs and the executions.

[The popular societies] functioned continuously, ceaselessly watching and correcting the legal authorities. Later they added surveillance committees to each assembly. The Jacobins thoroughly lectured, browbeat, and purged the Convention in the name of the sovereign people, until it finally adjourned the Convention’s power. (p. 153)

Incredibly, to the very end of the Terror, the Jacobins had no legal standing; they remained officially a private club. “The Jacobin Society at the height of its power in the spring of 1794, when it was directing the Convention and governing France, had only one fear: that it would be ‘incorporated’—that it would be ‘acknowledged’ to have authority” (p. 176). There is nothing the strict democrat fears more than the responsibility associated with public authority.

The Jacobins were proud that they did not represent anyone. Their principle was direct democracy, and their operative assumption was that they were “the people.” “I am not the people’s defender,” said Robespierre; “I am a member of the people; I have never been anything else” (p. 57; cf. p. 154). He expressed bafflement when he found himself, like any powerful man, besieged by petitioners.

Of course, such “direct democracy” involves a social fiction obvious to outsiders. To the adherent “the word people means the ‘hard core’ minority, freedom means the minority’s tyranny, equality its privileges, and truth its opinion,” explains our author; “it is even in this reversal of the meaning of words that the adherent’s initiation consists” (p. 138).

But by the summer of 1793 and for the following twelve months, the Jacobins had the power to make it stick. Indeed, theirs was the most stable government France had during the entire revolutionary decade. It amounted to a second Revolution, as momentous as that of 1789. The purge of the Girondins (May 31–June 2) cleared the way for it, but the key act which constituted the new regime, in Cochin’s view, was the levée en masse of August 23, 1793:

[This decree] made all French citizens, body and soul, subject to standing requisition. This was the essential act of which the Terror’s laws would merely be the development, and the revolutionary government the means. Serfs under the King in ’89, legally emancipated in ’91, the people become the masters in ’93. In governing themselves, they do away with the public freedoms that were merely guarantees for them to use against those who governed them. Hence the right to vote is suspended, since the people reign; the right to defend oneself, since the people judge; the freedom of the press, since the people write; and the freedom of expression, since the people speak. (p. 77)

An absurd series of unenforceable economic decrees began pouring out of Paris—price ceilings, requisitions, and so forth. But then, mirabile dictu, it turned out that the decrees needed no enforcement by the center:

Every violation of these laws not only benefits the guilty party but burdens the innocent one. When a price ceiling is poorly applied in one district and products are sold more expensively, provisions pour in from neighboring districts, where shortages increase accordingly. It is the same for general requisitions, censuses, distributions: fraud in one place increases the burden for another. The nature of things makes every citizen the natural enemy and overseer of his neighbor. All these laws have the same characteristic: binding the citizens materially to one another, the laws divide them morally.

Now public force to uphold the law becomes superfluous. This is because every district, panic-stricken by famine, organizes its own raids on its neighbors in order to enforce the laws on provisions; the government has nothing to do but adopt a laissez-faire attitude. By March 1794 the Committee of Public Safety even starts to have one district’s grain inventoried by another.

This peculiar power, pitting one village against another, one district against another, maintained through universal division the unity that the old order founded on the union of everyone: universal hatred has its equilibrium as love has its harmony. (pp. 230–32; cf. p. 91)

 The societies were, indeed, never more numerous, nor better attended, than during this period. People sought refuge in them as the only places they could be free from arbitrary arrest or requisitioning (p. 80; cf. p. 227). But the true believers were made uneasy rather than pleased by this development. On February 5, 1794, Robespierre gave his notorious speech on Virtue, declaring: “Virtue is in the minority on earth.” In effect, he was acknowledging that “the people” were really only a tiny fraction of the nation. During the months that ensued:

there was no talk in the Societies but of purges and exclusions. Then it was that the mother society, imitated as usual by most of her offspring, refused the affiliation of societies founded since May 31. Jacobin nobility became exclusive; Jacobin piety went from external mission to internal effort on itself. At that time it was agreed that a society of many members could not be a zealous society. The agents from Tournan sent to purge the club of Ozouer-la-Ferrière made no other reproach: the club members were too numerous for the club to be pure. (p. 56)

Couthon wrote from Lyon requesting “40 good, wise, honest republicans, a colony of patriots in this foreign land where patriots are in such an appalling minority.” Similar supplications came from Marseilles, Grenoble, Besançon; from Troy, where there were less than twenty patriots; and from Strasbourg, where there were said to be fewer than four—contending against 6,000 aristocrats!

The majority of men, remaining outside the charmed circle of revolutionary virtue, were:

“monsters,” “ferocious beasts seeking to devour the human race.” “Strike without mercy, citizen,” the president of the Jacobins tells a young soldier, “at anything that is related to the monarchy. Don’t lay down your gun until all our enemies are dead—this is humanitarian advice.” “It is less a question of punishing them than of annihilating them,” says Couthon. “None must be deported; [they] must be destroyed,” says Collot. General Turreau in the Vendée gave the order “to bayonet men, women, and children and burn and set fire to everything.” (p. 100)

Mass shootings and drownings continued for months, especially in places such as the Vendée which had previously revolted. Foreigners sometimes had to be used: “Carrier had Germans do the drowning. They were not disturbed by the moral bonds that would have stopped a fellow countryman” (p. 187).

Why did this revolutionary regime come to an end? Cochin does not tell us; he limits himself to the banal observation that “being unnatural, it could not last” (p. 230). His death in 1916 saved him from having to consider the counterexample of Soviet Russia. Taking the Jacobins consciously as a model, Lenin created a conspiratorial party which seized power and carried out deliberately the sorts of measures Cochin ascribes to the impersonal workings of the “social mechanism.” Collective responsibility, mutual surveillance and denunciation, the playing off of nationalities against one another—all were studiously imitated by the Bolsheviks. For the people of Russia, the Terror lasted at least thirty-five years, until the death of Stalin.

Cochin’s analysis raises difficult questions of moral judgment, which he does not try to evade. If revolutionary massacres were really the consequence of a “social mechanism,” can their perpetrators be judged by the standards which apply in ordinary criminal cases? Cochin seems to think not:

“I had orders,” Fouquier kept replying to each new accusation. “I was the ax,” said another; “does one punish an ax?” Poor, frightened devils, they quibbled, haggled, denounced their brothers; and when finally cornered and overwhelmed, they murmured “But I was not the only one! Why me?” That was the helpless cry of the unmasked Jacobin, and he was quite right, for a member of the societies was never the only one: over him hovered the collective force. With the new regime men vanish, and there opens in morality itself the era of unconscious forces and human mechanics. (p. 58)

Under the social regime, man’s moral capacities get “socialized” in the same way as his thought, action, and property. “Those who know the machine know there exist mitigating circumstances, unknown to ordinary life, and the popular curse that weighed on the last Jacobins’ old age may be as unfair as the enthusiasm that had acclaimed their elders,” he says (p. 210), and correctly points out that many of the former Terrorists became harmless civil servants under the Empire.

It will certainly be an unpalatable conclusion for many readers. I cannot help recalling in this connection the popular outrage which greeted Arendt’s Eichmann in Jerusalem back in the 1960s, with its similar observations.

But if considering the social alienation of moral conscience permits the revolutionaries to appear less evil than some of the acts they performed, it also leaves them more contemptible. “We are far from narratives like Plutarch’s,” Cochin observes (p. 58); “Shakespeare would have found nothing to inspire him, despite the dramatic appearance of the situations” (p. 211).

Not one [of the Jacobins] had the courage to look [their judges] in the eye and say “Well, yes, I robbed, I tortured and I killed lawlessly, recklessly, mercilessly for an idea I consider right. I regret nothing; I take nothing back; I deny nothing. Do as you like with me.” Not one spoke thus—because not one possessed the positive side of fanaticism: faith. (p. 113)

Cochin’s interpretive labors deserve the attention of a wider audience than specialists in the history of the French Revolution. The possible application of his analysis to subsequent groups and events is great indeed, although the possibility of their misapplication is perhaps just as great. The most important case is surely Russia. Richard Pipes has noted, making explicit reference to Cochin, that Russian radicalism arose in a political and social situation similar in important respects to France of the ancien régime. On the other hand, the Russian case was no mere product of social “mechanics.” The Russian radicals consciously modeled themselves on their French predecessors. Pipes even shows how the Russian revolutionaries relied too heavily on the French example to teach them how a revolution is “supposed to” develop, blinding themselves to the situation around them. In any case, although Marxism officially considered the French Revolution a “bourgeois” prelude to the final “proletarian” revolution, Russian radicals did acknowledge that there was little in which the Jacobins had not anticipated them. Lenin considered Robespierre a Bolshevik avant la lettre.

The rise of the “Academic Left” is another phenomenon worth comparing to the “development of the enlightenment” in the French salons. The sheltered environment of our oversubsidized university system is a marvelous incubator for the same sort of utopian radicalism and cheap moral posturing.

Or consider the feminist “Consciousness Raising” sessions of the 1970’s. Women’s “personal constructs” (dissatisfaction with their husbands, feelings of being treated unfairly, etc.) were said to be “validated by the group,” i.e., came to be considered true when they met with agreement from other members, however outlandish they might sound to outsiders. “It is when a group’s ideas are strongly at variance with those in the wider society,” writes one enthusiast, “that group validation of constructs is likely to be most important.”[5] Cochin explained with reference to the sociétés de pensée exactly the sort of thing going on here.

Any serious attempt to extend and apply Cochin’s ideas will, however, have to face squarely one matter on which his own statements are confused or even contradictory.

Cochin sometimes speaks as if all the ideas of the Enlightenment follow from the mere form of the société de pensée, and hence should be found wherever they are found. He writes, for example, “Free thought is the same in Paris as in Peking, in 1750 as in 1914” (p. 127). Now, this is already questionable. It would be more plausible to say that the various competing doctrines of radicalism share a family resemblance, especially if one concentrates on their negative aspects such as the rejection of traditional “prejudices.”

But in other passages Cochin allows that sociétés de pensée are compatible with entirely different kinds of content. In one place (p. 62) he even speaks of “the royalist societies of 1815” as coming under his definition! Stendhal offers a memorable fictional portrayal of such a group in Le rouge et le noir, part II, chs. xxi–xxiii; Cochin himself refers to the Mémoires of Aimée de Coigny, and may have had the Waterside Conspiracy in mind. It would not be at all surprising if such groups imitated some of the practices of their enemies.

But what are we to say when Cochin cites the example of the Company of the Blessed Sacrament? This organization was active in France between the 1630s and 1660s, long before the “Age of Enlightenment.” It had collectivist tendencies, such as the practice of “fraternal correction,” which it justified in terms of Christian humility: the need to combat individual pride and amour-propre. It also exhibited a moderate degree of egalitarianism; within the Company, social rank was effaced, and one Prince of the Blood participated as an ordinary member. Secrecy was said to be the “soul of the Company.” One of its activities was the policing of behavior through a network of informants, low-cut evening dresses and the sale of meat during lent being among its special targets. Some fifty provincial branches accepted the direction of the Paris headquarters. The Company operated independently of the King, and opponents referred to it as the cabale des devots. Louis XIV naturally became suspicious of such an organization, and officially ordered it shut down in 1666.

Was this expression of counter-reformational Catholic piety a société de pensée? Were its members “God’s Jacobins,” or its campaign against immodest dress a “holy terror”? Cochin does not finally tell us. A clear typology of sociétés de pensée would seem to be necessary before his analysis of the philosophes could be extended with any confidence. But the more historical studies advance, the more difficult this task will likely become. Such is the nature of man, and of history.

Notes

[1] François Furet, Interpreting the French Revolution (Cambridge: Cambridge University Press, 1981), 173.

[2] Furet, 184.

[3] Furet, 185.

[4] Furet, 186–90.

[5] http://www.uow.edu.au/arts/sts/bmartin/pubs/01psa.html [3]

Source: TOQ, vol. 8, no. 2 (Summer 2008)

 


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dimanche, 08 juillet 2012

Viol de masse des Françaises en 1945

 

Viol de masse des Françaises en 1945 (1 + 2)

jeudi, 21 juin 2012

Jean Prévost, homme libre et rebelle

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Jean Prévost, homme libre et rebelle

par Pierre LE VIGAN

 

Qui connaît encore Jean Prévost ? Assurément plus grand monde. Cet oubli est de prime abord étonnant. Voici un écrivain français, intelligent bien qu’intellectuel, patriote sans être anti-allemand, anti-hitlérien sans être communiste, il fut aussi maquisard et fut tué dans le Vercors durant l’été 44.

 

La France d’après-guerre a fort peu honoré cet homme, non plus que la France actuelle. L’air du temps est à la contrition mais pas à l’admiration. Jean Prévost a pourtant des choses à nous dire : sur le courage et sur l’intelligence, et sur le premier au service de la seconde comme l’avait rappelé Jérôme Garcin (1).

 

Dominique Venner écrit de son côté : « Pamphlétaire, critique littéraire et romancier, Jean Prévost venait de la gauche pacifiste et plutôt germanophile. C’est le sort injuste imposé à l’Allemagne par les vainqueurs de 1918 qui avait fait de lui, à dix-huit ans, un révolté. Depuis l’École normale, Prévost était proche de Marcel Déat. Il fréquentait Alfred Fabre-Luce, Jean Luchaire, Ramon Fernandez. À la fin des années Trente, tous subirent plus ou moins l’attrait du fascisme. Tous allaient rêver d’une réconciliation franco-allemande. Tous devaient s’insurger contre la nouvelle guerre européenne que l’on voyait venir à l’horizon de 1938. Lui-même ne fut pas indifférent à cet « air du temps ». En 1933, tout en critiquant le « caractère déplaisant et brutal » du national-socialisme, il le créditait de certaines vertus : « le goût du dévouement, le sens du sacrifice, l’esprit chevaleresque, le sens de l’amitié, l’enthousiasme… (2) ». Une évolution logique pouvait le conduire, après 1940, comme ses amis, à devenir un partisan de l’Europe nouvelle et à tomber dans les illusions de la Collaboration. Mais avec lui, le principe de causalité se trouva infirmé. « Il avait choisi de se battre. Pour la beauté du geste peut-être plus que pour d’autres raisons. Il tomba en soldat, au débouché du Vercors, le 1er août 1944.  (3) ».

 

Jean Prévost est d’abord un inclassable : ni communiste, ni catholique, ni même communiste-catholique comme beaucoup, rationnel sans être rationaliste, progressiste sans être populiste au sens démagogique, patriote sans être nationaliste. Un intellectuel nuancé et, dans le même temps, un homme privé vif, tourmenté, sanguin, passionné, exigeant vis-à-vis de lui-même. Un aristocrate. Stendhal dont Prévost fut un bon spécialiste disait que le « vrai problème moral qui se pose à un homme comblé » est : « que faire pour s’estimer soi-même ? ». Jean Prévost fit sien ce problème. Pour y répondre, il « raturait sa vie plutôt que son œuvre ». Et il se « dispersait » dans une multiplicité de centres d’intérêt : critique littéraire, cosmologie et polémologie, philosophie du droit et architecture… En fait, Jean Prévost foisonnait. Sa pseudo-dispersion était profusion. « Jamais de ma vie je n’ai pu rester un jour sans travailler. »

 

Éloigné de tout dandysme, Jean Prévost veut savoir pour connaître. Son travail intellectuel est ainsi un « rassemblement » de lui-même, une mise en forme de son être, qui se manifeste par des prises de position rigoureuses et souvent lucides. Grand travailleur tout autant que grand sportif, Jean Prévost attend que le sport lui fournisse « ce bonheur où tendait autrefois l’effort spirituel ». C’est aussi pour lui un antidote à la civilisation moderne. « Les Grecs, écrit-il, s’entraînaient pour s’adapter à leur civilisation. Nous nous entraînons pour résister à la nôtre. »

 

Malgré la diversité de ses dons, Prévost évoque le mot de Stendhal sur ceux qui « tendent leur filet trop haut ». Il fait partie de ceux qui « pêchent par excès ». Mais c’est un moindre défaut car, comme Roger Vaillant le dit à propos de Saint-Exupéry, « l’action le simplifie ». Et Prévost est un homme d’action. Jean Prévost est aussi aidé par une idée simple et robuste de ses devoirs et de ce qui a du sens dans sa vie : le plaisir, l’amour de ses enfants, les amis, le souci de l’indépendance de son pays.

 

vercors-tombe-jean-prevost-img.jpgTrop païen pour ne pas trouver que la plus détestable des vertus – ou le pire des vices – est la « reconnaissance » envers autrui, trop français pour ne pas avoir le sens de l’humour, « décompliqué des nuances », mais plein de finesse et de saillies (en cela nietzschéen). Jean Prévost se caractérise aussi par la temporalité rapide de son écriture qui est celle du journalisme. C’est ce sens du temps présent qui l’amène (tout comme Brasillach, mais selon des modalités fort différentes), à l’engagement radical, c’est-à-dire, dans son cas, à la lutte armée contre les Allemands dans le maquis du Vercors. C’est là que cet homme, multiple, entier, solaire, trouva sa fin. Il avait écrit : « il manque aux dieux-hommes ce qu’il y a peut-être de plus grand dans le monde; et de plus beau dans Homère : d’être tranché dans sa fleur, de périr inachevé; de mourir jeune dans un combat militaire ».

 

Pierre Le Vigan

 

Notes

 

1 : Jérôme Garcin, Pour Jean Prévost, Gallimard, 1994.

 

2 : Idem.

 

3 : Dominique Venner, dans La Nouvelle Revue d’Histoire, n° 47, 2010.

 

• Publié initialement dans Cartouches, n° 8, été 1996, remanié pour Europe Maxima.

 


 

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mercredi, 23 mai 2012

Os Guardas Brancos Contra a Internacional Vermelha

Os Guardas Brancos Contra a Internacional Vermelha

por Pavel Tulaev

Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/
 
 
 
Uma das peculiaridades da contrarrevolução Branca na Rússia foi o fato de que ela emergiu e se desenvolveu quando a Guerra Mundial ainda não havia terminado. Como a Alemanha era inimiga do Império Russo durante a Guerra Mundial, foi o Alto Comando Alemão que planejou enviar Lênin e seus associados a São Petersburgo em um trem fechado. Intencionava-se que eles se tornassem um fator de desestabilização; sua única tarefa era remover a Rússia do teatro de operações bélicas europeu do lado Aliado.
 
Tendo estabelecido sua própria ditadura dentro do Congresso de Sovietes Lênin convocou os trabalhadores e camponeses para um levante revolucionário. Em uma fria noite de 25 de outubro de 1917 após a tomada do Zimny Dvoretz (o Palácio de Inverno - a residência do Czar em São Petersburgo) ter sido realizada, Lênin declarou a asserção oficial do poder soviético (ou seja, do poder dos Sovietes).
 
"Terra para os camponeses", "Fábricas para os trabalhadores", "Paz sem anexações e sem tributo", "Convocação de uma Assembléia Constituinte" - esses foram os slogans oficiais declarados. Mas nenhum deles foi realmente cumprido. Em verdade foi o sangrento regime do "comunismo de guerra", chefiado predominantemente por judeus e não-russos, que foi estabelecido.
 
 
1. Guerra e Revolução
 
Durante a segunda fase da Guerra Mundial - após a investida do General Alexei Brusilov na Romênia em 1916, em um momento em que os quartéis-generais do exército eram liderados pelo talentoso general Mikhail Alexeyev - toda a situação na frente ocidental se tornou favorável à Rússia.
 
Mas o exército era bastante solapado pela atividade de provocadores revolucionários que encorajavam soldados e oficiais a desertarem. Posteriormente, as primeiras unidades da RKKA (Exército Vermelho de Operários e Camponeses) foi formada a partir desses desertores.
 
Um judeu ucraniano, Lev "Trotsky" Bronstein (1879-1940) ocupou a posição de Narkom (Comissário Popular) para Assuntos Militares e Defesa no recém-nascido governo soviético. Foi graças a sua iniciativa pessoal que o vergonhoso Tratado de Brest-Litovsk foi assinado em 3 de março de 1918. Após esse Tratado, os territórios ocidentais do Império, os mais desenvolvidos em termos econômicos (aproximadamente 1/3 da população e metade da indústria) foram arrancados. Tirando vantagem das fraquezas russas temporárias, os alemães conseguiram ocupar os estados bálticos, uma parte da Bielorrússia e o Cáucaso. Ademais, eles tecnicamente reinavam na Ucrânia, onde o hetman Skoropadsky se tornou seu protegido. Os resultados de três anos de batalhas intensas pelo povo russo em sua frente ocidental foram anulados.
 
Um "Comitê Revolucionário Militar" foi estabelecido no lugar dos antigos corpos estatais e do Governo Provisório Kerensky. Inúmeros comitês bolcheviques menores, bem como agências punitivas de terror, como a Cheka, posteriormente GPU e NKVD, também foram formadas.
 
Contando com a crença do povo comum no "Estado de Justiça Social", os comissários vermelhas chamaram o povo para realizar uma Revolução Global e estabelecer a "Ditadura Global do Proletariado". Em nome da "luta de classes" grandes propriedades, fábricas e casas foram expropriadas pelos bolcheviques por todo o país. Simultaneamente, representantes da aristocracia, do clero, do alto domando do exército e das classes superiores foram virtualmente exterminados. A economia começou a tropeçar graças a distúrbios e devastações.
 
A maior parte da população, que inicialmente acreditava que o poder dos bolcheviques seria temporário, se importava mais em salvar suas vidas e propriedade. Mas políticas e líderes experientes gradualmente começaram a guiar a nação no entendimento de que era necessário resistir à revolução e seu caos. A contrarrevolução começou; a cor branca foi escolhida como sua, já que ela tradicionalmente simbolizava a monarquia e a glória do estandarte russo.
 
2. Primeiras tentativas de resistência armada
 
Centros de resistência armada apareceram por todos os territórios do antigo império - do noroeste ao extremo oriente. Mas eles eram diferentes em termos de escala, duração das ações armadas, e de seus resultados. Levantes espontâneos ocorreram entre camponeses com bastante frequência, mas eles foram severamente suprimidos pelo exército vermelho. Os restos das forças militares organizadas, fiéis ao antigo Czar e à Pátria, tentaram se unir em um fronte sólido. Juntos eles formaram o Movimento Branco com centros ativos e quartéis militares por toda a Rússia.
 
As primeiras tentativas de resistência armada contra as forças revolucionárias foram realizadas durante o mando do Governo Provisório burguês-democrata, chefiado por Alexander Kerensky, em março de 1917, muito antes dos bolcheviques realizarem seu Golpe de Estado. A rebelião do Beneral Lavr Kornilov que ocorreu em setembro de 1917 mostrou que a própria idéia da "democracia parlamentar" era inaceitável nos círculos militares e patrióticos.
 
General Kornilov (1870-1918) foi um cossaco hereditário e um excelente líder militar. Tendo se graduado na escola de artilharia e posteriormente na Academia do Estado Maior (com uma medalha de ouro por feitos notáveis), ele serviu como adido militar na embaixada russa na China. Ele começou sua carreira militar como oficial durante a Guerra Russo-Japonesa (de 1904-1905), e foi promovido ao posto de Comandante-em-Chefe do Exército Imperial Russo durante a Primeira Guerra Mundial. Ele era um comandante experiente, foi decorado com a Cruz de São Jorge e desfrutou de um grande prestígio entre os soldados comuns do exército. Ele foi o primeiro a erguer o estandarte da Causa Branca e muitos esperavam que ele se tornaria um ditador, capaz de esmagar a revolução comunista vindoura.
 
Em 27 de agosto de 1917 o General Kornilov abordou o povo russo com um telegrama no qual ele acusava os bolcheviques de cederem aos alemães e convocava seus compatriotas a se unirem a suas fileiras para a salvação da Pátria. ele jurou "liderar o povo à Assembléia Constituinte, através da qual eles poderiam tomar seu destino em suas próprias mãos, para escolher a forma do novo Estado". Mas Kornilov não desfrutava de muito apoio nessa fase de sua luta e teve que baixar as armas.
 
A revolução comunista então eclodiu. O famoso batalhão da morte feminino, liderado pela comandante Maria Bochkareva demonstrou o verdadeiro exemplo de heroísmo e devoção à Pátria. Junto com várias centenas de cadetes militares elas defenderam o Palácio de Inverno contra os bolcheviques. Essa unidade feminina única foi criada no meio da Primeira Guerra Mundial para manter elevado a moral dos soldados, que estavam perdendo fé na vitória. O batalhão tinha por volta de 3.000 dessas amazonas russas e tinha seu próprio estandarte; ele foi solenemente santificado na Praça Vermelha. Mas as mulheres armadas não foram capazes de resistir aos revolucionários bolcheviques e seus aliados.
 
Submergindo nas profundezas do caos revolucionário, a Rússia teve que descontinuar suas operações militares nos frontes da Guerra Mundial. Graças ao golpe bolchevique, o país se tornou presa fácil para seus antigos aliados bem como para seus inimigos. Nessa situação apenas um exército contrarrevolucionário regular, liderado por profissionais das escolas militares czaristas, seria capaz de resistir ao perigoso inimigo que havia tomado os postos centrais do Estado. Havia necessidade de líderes Brancos de vontade férrea para unir a nação.
 
A contrarrevolução logo começou a assumir a forma de uma resistência armada organizada. A primeira tentativa de liberar São Petersburgo dos bolcheviques ocorreu nas Colinas de Pulkovo em 12 de novembro de 197. Ela foi realizada por um esforço conjunto de Alexander Kerensky (que havia conseguido fugir da capital) e do General Peter Krasnov (1869-1947). Esse foi efetivamente o início da luta armada Branca. Mas um regimento de 700 cossacos não foi o bastante para realizar essa difícil missão. Os tumultos e levantes de trabalhadores por toda a capital apenas aceleraram a situação. Sob essas circunstâncias, em 15 de novembro o General Alexeyev e todo seu séquito tomaram a decisão de formar o Exército Voluntário.
 
3. O Exército Voluntário e a "Marcha de Gelo" de 1918
 
O General Mikhail Alexeyev (1857-1918) foi um brilhante líder militar, um verdadeiro cientista da guerra e um homem culto. Ele nasceu na família de um oficial militar e seguiu o caminho de seu pai. Alexeyev concluiu a Escola de Infantaria Militar de Moscou, e a Guerra Russo-Turca de 1877 foi seu "batismo de fogo". Após isso, ele foi indicado professor, Alexeyev obteve uma cadeira em História Militar na Academia do Estado Maior. Lá seus talentos notáveis se tornaram evidentes.
 
Alexeyev não se ocupou apenas com serviço burocrático - durante a Guerra com o Japão ele foi indicado para o campo de batalha após ter pedido. Pouco antes da Primeira Guerra Mundial Alexeyev foi apontado chefe do Comando de Kiev por suas impressionantes realizações militares. Durante a guerra ele estava encarregado do fronte sudestino e foi graças a seu talento como seu comandante que a situação crítica no fronte alemão melhorou.
 
O Czar Nicolau II tendo abdicado, o Governo Provisório indicou Alexeyev Supremo Comandante-em-Chefe. Mas pouco depois o general foi dispensado graças a sua atitude crítica frente a política do governo burguês. Depois que o poder foi tomado pelos bolcheviques, Alexeyev e seus camaradas de armas tiveram que recuar para o sul para dar início a uma nova fase da guerra.
 
No vale do Rio Don viviam cossacos livres que haviam provado sua fidelidade à Pátira por meio do serviço militar por séculos. Foi lá que a formação dos primeiros Guardas Brancos teve início. O núcleo do exército estava agrupado ao redor da "Cruz Branca", uma sociedade secreta formada por oficiais militares. Logo, generais Kornilov e Denikin bem como os atamans (comandantes cossacos) Kaledin (1861-1918) e Dutov (1879-1921) se uniram à sede do Exército Voluntário. Os cossacos do Don, de Orenburg e Baikal, furiosos com a ditadura judaico-comunista e com o terror revolucionário ergueram-se para se unir aos voluntários. "Lá ergueram-se em sua nobre ira cristãos verdadeiros, filhos do Don, e ouviram o chamado da liberdade!" - assim seguiam as linhas de uma velha canção cossaca.
 
A chamada "Marcha de Gelo" do Exército Voluntário liderado por Kornilov se tornou o primeiro evento notável da primeira fase da guerra. Ela começou em fins de fevereiro de 1918 e prossegiu sob severas condições invernais, quatro mil voluntários com alta moral preparados para romper pelas linhas vermelhas após cruzarem o Don. Foi o "batismo de fogo" para o Exército Branco e Alexeyev chamou isso de "uma vela de fé e esperança nas trevas que estavam devorando a Rússia". Mas a campanha falou; os voluntários Brancos eram superados numericamente pelos Vermelhos e tiveram que recuar. O General Kornilov caiu como um verdadeiro guerreiro na Batalha de Ekatrinodar.
 
 
4. Ditadura Bolchevique e o Terror Vermelho
 
Os líderes militares acreditavam que uma força armada organizada era necessária para a recuperação da paz e da ordem civil, enquanto os cidadãos pacíficos, confusos pela propaganda constante, jamais abandonaram a esperança de restaurar a paz por meios democráticos legais.
 
Em 18 de janeiro de 1918, a Assembléia Constituinte de Todos as Rússias, apoiada por ativistas proletário, começou a funcionar em São Petersburgo. Mas apesar de ser pacífica, a Assembléia foi imediatamente atacada por bolcheviques armados com mais de dez manifestantes mortos. Mais uma ilusão liberal pereceu.
 
Ao invés de desenvolver a democracia e proteger direitos civis e liberdades, os bolcheviques se concentraram em fortalecer o próprio poder. Nikolai Krylenko (1885-1938), um membro proeminente do Partido Bolchevique, Supremo Comandante-em-Chefe e chefe da VRK (Comitê Revolucionário Militar) tomou a decisão de formar o Exército Vermelho de Trabalhadores e Camponeses (RKKA). A mobilização compulsória de todos os homens de 18 a 40 anos de idade começou. Nas condições severes e caos ideológico da Revolução uma parte dos corpos militares czaristas se uniu aos bolcheviques: de 130.000 oficiais do Exército Imperial, por volta de 30.000 se uniram à RKKA, incluindo oficiais proeminentes como Brusilov, Snesarev, Svechin e Tukhachevsky.
 
Operações militares nos frontes da Primeira Guerra Mundial foram suspensas graças ao "Decreto de Paz". Agora os bolcheviques estavam bem mais preocupados em defender a "Pátria Socialista" e as "conquistas da Revolução". Em realidade isso significava mais luta de classes e guerra civil fratricida. Por essa razão muitos recrutas se recusaram a lutar sob os estandartes vermelhos. Casos de deserção e troca de lados por recrutas ocorriam normalmente nos frontes da Guerra Civil.
 
O Alto Comando da RKKA oficialmente considerava essas ações como deserção e, emitindo novas ordens, os desertores deviam ser fuzilados à primeira vista. Esse método foi primeiro aplicado pelo já mencionado Leon Trotsky, que escreveu:
 
"É impossível construir um exército forte sem repressão. Não se pode levar massas de pessoas à morte, sem ter a pena de morte como meio de punição. Devemos confrontar o soldado com sua possível morte em sua frente e sua inevitável morte atrás".
 
Não foi acidental que a estrela vermelha de cinco pontas, junto com os emblemas do martelo e foice, foram escolhidos como emblema da RKKA (em medalhas e estandartes do Exército Vermelho ela era normalmente representada virada para cima, o que também requer explicação). Ao falar no Quinto Congresso Anual dos Sovietes no verão de 1918, Trotsky explicou essa escolha: quando a rebelião dos judeus contra o domínio romano, liderada por Bar Kochba, ocorreu na Palestina (132-135 d.C.), a estrela vermelha foi representada no estandarte judaico. Em outras palavras, para os bolcheviques a estrela era um símbolo de luta revolucionária contra o Império.
 
No início da primavera de 1918 os bolcheviques, deliberadamente tentando "transformar uma guerra mundial em uma guerra civil" tiveram que confrontar a abertura de um segundo fronte externo. Em março e abril, as tropas da Entente foram dispostas na rússia: tropas inglesas e francesas desembarcaram em Murmansk e Archangelsk no norte, tropas francesas em Odessa e Sevastopol no sul, tropas inglesas, apoiadas por japoneses e americanos em Vladivostok no extremo oriente.
 
Durante o caos da intervenção aliada, um corpo tcheco de milhares de soldados (cujos líderes estavam ligados à quartel-general da Entente) excitou uma rebelião na região do Volga. Tropas inglesas entraram no Turquestão e na Transcaucásia; a Romênia ocupou a Bessarábia. O Império Russo estava se dissolvendo, se transformando em regiões mal controladas sem qualquer governo unificado. Enquanto isso, o comando alemão continuava a apoiar Lênin. Com a ajuda de Mirbach (o embaixador da Alemanha para a República Soviética) eles transferiram para os bolcheviques mais de 3 milhões de marcos por mês; em maio de 1918 - 40 milhões de marcos foram transferidos. A Guerra Mundial virtualmente continuava no território do império dissolvente, e países rivais continuavam a participar nela, diretamente ou indiretamente.
 
Lênin compreendia muito bem que a ação unida das forças externas da Entente com as forças de oposição interna representavam uma grande ameaça ao governo bolchevique. Era a razão, ele declarou abertamente, para o terror que ele instituiu contra todos os que se opunham à "ditadura do proletariado", incluindo seus próprios camaradas de ontem: mencheviques, socialistas revolucionários, e anarquistas. Com centenas de socialistas revolucionários presos como reféns, o "líder da revolução mundial" pediu por execuções em massa em 26 de junho de 1918:
 
"Nós devemos encorajar e promover o terror contra os contrarrevolucionários, especialmente em São Petersburgo, para dar um exemplo decisivo".
 
Em julho de 1918, sob ordens pessoais de Lênin (e parcialmente pela iniciativa de seu camarada Jakob Sverdlov), o Czar e sua família foram executados (sem investigação ou julgamento) em Yekaterinbug. Vários dias depois, seis outros representantes da dinastia Romanov foram assassinados.
 
Tendo suprimido a imprensa independente (que era mais ou menos influente e continuava a comentar os eventos atuais, influenciado dessa ou daquela maneira a opinião das pessoas), os bolcheviques começam sua perseguição sistemática da Igreja. Como uma instituição religiosa fundamental ela ainda exercia uma ampla influência sobre muitos ortodoxos do povo e era um oponente ideológico evidente à política de ateísmo agressivo promovida pelos bolcheviques.
 
Em relação aos camponeses, supunha-se que eles fossem aliados do proletariado na "luta de classes". Não obstante, uma severa política de "prodrazverstka" (ou "guerra do pão") começou em relação a eles, com mais de 75.000 soldados do Exército Vermelho participando. Concretamente, a comida produzida foi expropriada no local. Por todo o país não menos do que 300 rebeliões campesinas ocorreram.
 
Os trabalhadores também estavam insatisfeitos com o poder soviético, já que ao invés de justiça social, prometida pelos bolcheviques, eles não receberam nada além de fome e dificuldades. Antigos sindicatos foram dissolvidos, a liberdade de opinião foi suprimida e greves foram virtualmente banidas. Rebeliões de cossacos, camponeses, trabalhadores qualificados e adversários políticos do bolchevismo eclodiam por todo o país.
 
Os bolcheviques estavam conscientes, e preocupados com o perigo da resistência armada por todo o país, bem como com o perigo da intervenção estrangeira. A sede do governo foi logo transferida para Moscou, longe das linhas do conflito. Na "nova" velha capital da Rússia, estrelas vermelhas de rubi logo ergueram-se sobre as torres do Kremlin como símbolo do poder bolchevique. Em Moscou, os bolcheviques tomaram a decisão de cumprir a estratégia da revolução mundial organizando a Comintern. Ela foi financiado com os bens expropriados da família do Czar e dos mosteiros russos (predominantemente seu ouro); e parcialmente - graças à exportação dos "excedentes de pão", tomados dos camponeses.
 
Cidadãos pacíficos, aterrorizados por revoluções, guerras, terror e fome fugiram de ambas capitais; Moscou e São Petersburgo ficaram logo desertas. Em apenas três anos (1918-1930) pelo menos 5.750.000 civis morreram. O mundo da ciência reconhece que essa foi uma das maiores catástrofes demográficas da história.
 
 
 
5. O Sul como o Bastião dos Guardas Brancos
 
Aldeias e cidades do norte foram devoradas pela revolução. Civis e ex-soldados do exército tentaram fugir para o sul, já que as regiões sulistas não eram controladas pelos bolcheviques ou pelos anarquistas.
 
O sul da Rússia logo se tornou um poderoso bastião de forças contrarrevolucionárias. Os restos do exército czarista se reuniram lá vindos de todo o Império. Logo, novas unidades militares do emergente Exército Branco começaram a se formar. Foi no Rio Don que o Exército Voluntário, liderado pelo General Denikin, passou por seu "renascimento": em janeiro de 1919. Denikin uniu forças com o Exército do Rio Don do General Krasnov. Esse exército se tornou a base das forças armadas contrarrevolucionárias do sul da Rússia.
 
O General Anton Denikin (1872-1947) nasceu de uma família pobre na província da Varsóvia. Tendo escolhido uma carreira militar, ele se graduou na Academia do Estado Maior. Seu "batismo de fogo" ocorreu durante a Guerra Russo-Japonesa. Ele foi promovido à patente de major general em 1914. À parte do serviço militar, Denikin foi também conhecido como um escritor e prolífico memorialista: aqueles que leram seus primeiros contos sobre a vida militar, jamais imaginaram que ele se tornaria um dos mais famosos memorialistas da Guerra Civil.
 
Como Denikin foi um camarada de armas de Kornilov desde a época da Marcha de Gelo, após a morte de Kornilov foi Denikin que ergueu novamente o estandarte da Causa Branca. Sob o comando de Denikin, o Exército Branco teve muitas conquistas militares. Ele lançou uma campanha ofensiva em direção a Moscou, e logo ocupou grandes territórios contendo aproximadamente 42 milhões de pessoas: eles liberaram Kharkov, Kiev, Kursk, Orel, Voronezh e Tsaritsin, bem como os territórios do norte do Cáucaso. O exército de Denikin representava uma grande ameaça aos bolcheviques: os revolucionários estavam efetivamente cercados por um anel de forças contrarrevolucionárias. Poderosas forças combatentes foram enviadas contra ele. Após resistir em sangrentas batalhas, as tropas de Denikin tiveram que recuar das cidades outrora ocupadas.
 
Novorossyisk foi a última cidade a ser perdida pelos Guardas Brancos. O próprio Denikin fugiu para um navio e continuou sua luta no exterior. Graças a sua autoridade e influência, Denikin logo se tornou um influente e proeminente líder social dos emigrados russos. Em seu famoso livro em cinco volumtes "A Perturbação Russa", escrito logo após os eventos de 1921-1926, ele refletiu sobre as causas, razões e possíveis resultados da Revolução. Ele foi publicado em Paris, Berlim e nos EUA, para onde Denikin depois emigrou. Ele morreu na América em 1947, um patriota leal até a morte a sua Pátria russa.
 
Os Brancos não conseguiram conectar os exércitos do sul e do extremo oriente, e uma aliança tática temporária com as tropas ucranianas de Petlyra (um anarquista radical) bem como com o Exército Nacional Ucraniano não pôde ser duradoura, já que os Guardas Brancos e os Anarquistas buscavam propósitos diferentes.
 
As tropas do General Nikolai Yudenich (1862-1933) no noroeste estavam efetivamente separadas das forças principais da contrarrevolução.Yudenich não conseguiu ocupar São Petersburgo, apesar da ajuda maciça dos países ocidentais, incluindo a ajuda dos "Freikorps", batalhões voluntários nos quais anti-comunistas de todas as nações, inclusive alemães, lutavam lado a lado. O Exército Vermelho, apoiado por separatistas estonianos, deteu a ofensiva do General Yudenich próximo a aldeia de Gatchina.
 
Então um grande avanço das tropas do General Denikin por um fronte de 1000 quilômetros de largura foi detido. Essa foi uma falha fatal do Estado Maior Branco, já que os Brancos eram várias vezes superados numericamente pelos Vermelhos. Ademais, os bolcheviques eram indiretamente apoiados por várias gangues armadas de anarquistas, a maioria dos quais eram criminosos comuns. Um exemplo a se considerar era o Exército Anarquista de Nestor Makhno - que lutou contra todas as forças, tanto Vermelhas como Brancas.
 
6. Criméia - o Bastião Sulista dos Brancos
 
Tendo estabelecido e fortalecido a "Ditadura do Proletariado" na Rússia central, os bolcheviques lançaram uma contra-ofensiva no leste e no sul. Custou à RKKA esforços imensos para forçar os Brancos em direção à península da Criméia no Mar Negro, isolada do continente. Nos primeiros anos da revolução, uma luta política massiva entre várias forças étnicas e políticas teve início na Criméia (ou a "província de Tavria" ou "Taurida"). À parte de russos, havia comunidades tártaras, ucranianas e judaicas lá.
 
Nacionalistas tártaros conseguiram convocar uma Assembléia Nacional Tártara ("Kurultai"), objetivando criar um estado muçulmano seguindo as tradições dos Khans, com Bahchisarai como capital. A Rada Central (conselho) da República Popular Ucraniana era favorável a tendências separatistas (em relação a Rússia) e apoiava o governo independente tártaro em suas fases iniciais. 
 
Os líderes russos Brancos tinham atitudes diversas em relação aos tártaros. Em geral, o Conselho de Representantes Populares que criou um quartel-general de tropas criméias em Simferepol considerava os tártaros como possíveis aliados contra os Vermelhos. Por exemplo, Kerensky era a favor de criar unidades especiais muçulmanas.
 
Os bolcheviques se aproximavam a partir do Mar Negro; eles eram apoiados por soldados revolucionários e marinheiros dos portos de Sevastopol e Yevpatoria. Tendo reunido um exército de 40.000 mil homens sob o comando de um Comitê Revolucionário Provisório, os Vermelhos derrotaram o Exército da Criméia. No início de 1918 o "poder soviético" foi declarado sobre a península.
 
O governo tártaro e o Conselho dos Representantes Populares foram dissolvidos e a República Socialista da Taurida declarada em março de 1918. Muito depois, ela ganhou o status de "SSR Crimeiana" (República Socialista Soviética). Pouco mais de um mês se passou antes que os bolcheviques tivessem que enfrentar outra ameaça: as tropas alemães na Criméia. Quando o ataque alemão foi repelido, a Taurida foi liberada dos bolcheviques pelo General Branco Wrangel.
 
Peter Wrangel (1878-1928) era um líder carismático e de vontade férrea. Ele era descendente de linhagem escandinava antiga, cujos representantes serviram os czares russos por séculos. (Ao todo, sua família deu ao mundo sete marechais, sete almirantes, e mais de 30 generais; à Rússia ela deu 18 generais e 2 almirantes).
 
Como um digno camarada de armas dos antigos líderes dos Brancos, Wrangel liderou o governo e as tropas da Criméia em um momento crucial quando o Exército Branco no continente estava sofrendo graves derrotas. No verão de 1918, tendo reorganizado o Exército Voluntário em uma formação regular, Wrangel começou a preparar sua contra-ofensiva contra o Exército Vermelho. Simultaneamente, ele melhorou a vida civil na península, tendo adotado muitas leis progressistas (como a reforma agrária) e mudou a política militar para melhor.
 
Não muito antes de sua campanha oriental, o General Wrangel tomou a ação simbólica de instituir a Ordem de São Nicolau. Ele abordou o público em uma carta aberta:
 
"Ouvi, povo russo, aquilo pelo que lutamos. Nós queremos vingança por nossa fé desgraçada e nossos templos profanados! Lutamos pela liberação do povo russo do jugo dos comunistas, dos vadios e criminosos que levaram a Santa Rússia a ruína. Pelo fim da guerra civil! Para que os camponeses tenham uma chance de possuir terra como propriedade e trabalhar em paz. Nós lutamos para que as verdadeiras liberdade e justiça governem na Rússia. Para que o povo russo escolha seus líderes por conta própria. Ajudai-me, filhos autênticos da Nação, a salvar nossa Pátria!"
 
Esse chamado foi ouvido. Logo, aqueles que estavam buscando por um firme bastião de vingança contra a ditadura comunista (ancorada nas cidades capitais) foram para o sul. O exército russo de Peter Wrangel cresceu até os 80.000 homens, o que tornou possível apoiar a resitência cossaca nos vales dos rios Don e Kuban.
 
Quando a Guerra Polaco-Soviética de 1920-1921 começou, Wrangel tomou a decisão de atacar a retaguarda do Exército Vermelho. Os Vermelhos, enfraquecidos por uma guerra em duas frentes, tiveram que recuar. Mas quando os bolcheviques viram os Brancos seguindo para o leste para unir forças com os cossacos no continente, eles mudaram de estratégia imediatamente. Em outubro de 1920, apesar das condições humilhantes do armistício para a União Soviética, a guerra com a Polônia terminou oficialmente. Os comissários vermelhos fortaleceram o exército do fronte sulista até os 250.000 homens, concentrado o máximo de suas forças em atacar o baluarte Branco na Criméia. Em 28 de outubro eles lançaram sua ofensiva.
 
Primeiro, o exército de Wrangle foi detido pelos Vermelhos, comandado no fronte sulista por um membro proeminente do partido bolchevique, Michael Frunze. Depois, a recém formada Cavalaria Budyony foi enviada. Finalmente, em uma fria noite de novembro os Vermelhos vadearam através das águas geladas do Golfo de Sivash para ultrapassar o Istmo Perekop, que estava muito bem protegido pelos Brancos. Apesar de perder centenas de soldados mortos e feridos pelo fogo das metralhadoras, as forças Vermelhas conseguiram chegar à península e fortificar suas posições para ofensivas posteriores.
 
As unidades Brancas defendendo Perekop, a cidade guardando o istmo, ficaram chocadas e desmoralizadas. O exército de Wrangel tinham que lutar simplesmente para proteger sua retaguarda. Depois de 15 de novembro de 1920 uma evaciação em massa da península começou - primeiro, cidadãos pacíficos foram evacuados, então soldados e oficiais do exército de Wrangel. Às vezes a evacuação se transformava em uma fuga em pânico. Ao todo, mais de 120 navios levaram mais de 150.000 refugiados a Istambul.
 
As represálias e massacres contra os "inimigos da Revolução" começaram na Criméia. O Comitê Revolucionário da Criméia, liderado por um judeu húngaro, Bela Kun, foi formado. Em três anos do governo de Wrangel na Criméia, por volta de 1.500 foram presos pelos Brancos, com tantos quanto 300 fuzilados. Quanto ao terror Vermelho, não menos do que 50.000 pessoas moreram na península (segundo outros dados estatísticos, até 100.000). Rozalia Zalkind, uma comunista judia da Ucrânia, se sobressaía durante a repressão. Ela chefiava um departamento político do Exército Vermelho e pessoalmente participava em execuções por fuzilamento. O épico trágico do movimento Branco no sul estava terminado.
 
 
 
7. Guerra Civil no Extremo Oriente
 
Tendo alcançado uma vitória temporária, os bolcheviques conseguiram estabelecer uma severa ditadura na Rússia central nos três primeiros anos da Revolução apesar do estrago sem precedentes em vítimas civis e perdas territoriais. Mas isso nunca levou a paz, prosperidade ou justiça como originalmente prometido pelos bolcheviques. Graças à crise política e econômica, a indústria diminuiu 82% em relação a 1913.
 
O número de refugiados russos ricos cresceu constantemente e alcançou os 1.5 milhões ao fim da Guerra Civil. Os camponeses, não tendo para onde fugir, protestavam e lutavam a sua própria maneira pelos direitos que os bolcheviques estavam suprimindo. Houve inúmeros levantes camponeses que posteriormente se transformaram em uma guerra popular.
 
A Revolta Tambov, liderada por Alexander Antonov (1888-1922), ocorreu em 1920-1921. Todo um exército de partisans camponeses logo foi formado, com 30.000 homens.
 
Antonov era um "socialista revolucionário de direita", um esquerdista não-bolchevique, e um patriota russo. Ele lutou contra a "supressão do povo pela exploração capitalista" durante o período czarista. Mas quando os bolcheviques efetivamente usurparam o poder tomando vantagem da situação revolucionária, Antonov declarou guerra contra os impostores que ousavam falar em nome dos proletários e camponeses. Ele abordou o povo com um panfleto, no qual ele convocava "o guerreiro russo para se erguer e salvar a Pátria liberando Moscou das mãos dos açougueiros Vermelhos".
 
Para suprimir a Revolta Tambov, o marechal Vermelho Tukhachevsky enviou mais de 100.000 soldados do exército regular, incluindo mercenários de unidades lituanas e chinesas do Exército Vermelho (mais de 40.000 chineses serviram na RKKA durante a Guerra Civil e depois). A força repressiva utilizou tropas blindadas, aviões e armas químicas. Elas foram severos com a população local, às vezes incendiando casas com as famílias dentro. Ainda que as guerrilhas não fossem numerosas, levou aos repressores quase um ano para suprimir a rebelião. Mas os partisans armados podiam ser vistos na floresta de Tambov muito após isso.
 
Em março de 1921 outra rebelião foi suprimida pelos bolcheviques - a rebelião de Kronstadt, na baia diante de São Petersburgo). Ela foi iniciada por marinheiros da frota báltica; um dos slogans da rebelião era: "Governo sem judeus e comunistas!" Rebeliões camponesas assolaram o país: nas regiões das Urais, Sibéria e no Volga. Centenas e milhares foram mortos como resultado dos conflitos armados ocm os camponeses.
 
Extermínios em massa de camponeses ricos (conhecida como a "aniquilação dos kulaks") e de proprietários de terras durante o estabelecimento do poder soviético nas aldeias levou à devastação das grandes fazendas, resultando em fomes maciças. A fome de 1921 (golodomor) ocorreu na região do Volga e começou a se espalhar por toda a Rússia. Nas cidades, que ficaram sem suprimentos de comida, os cidadãos mais pobres estavam destinados a morrer, bem como alguns representantes da elite intelectual, que deliberadamente recusavam aceitar as pensões alimentícias dos bolcheviques.
 
De modo a silenciar os críticos, os bolcheviques começaram uma perseguição sistemática dos dissidentes. Sob ordem pessoal de Lênin, mais de 200 representantes da intelligentsia e dos trabalhadores culturais foram expulsos do país em um navio especialmente preparado: estes eram os escritores, filósofos, e cientistas Berdyaev, Iliin, Lossky, Karsavin e muitos outros. Poetas famosos e prolíficos como Gumilev, Esenin ou Klyev foram ou mortos ou levados ao suicídio. Quanto aos escritores e poetas que sobreviveram à perseguição, uma forte censura pela Glavlit (Comitê Central de Literatura) foi impota sobre eles.
 
***
 
O movimento contrarrevolucionário Branco no leste da Rússia teve muitos políticos e líderes talentosos em suas fileiras. O nome do Almirante Alexander Kolchak merece menção especial.
 
Alexander Kolchak foi um líder notável com uma impressionante biografia. Sua educação profissional ocorreu na escola militar naval e ele tomou parte em várias expedições no Oceano Pacífico; ele também comandou um quebra-gelo durante uma expedição ao Pólo Norte. Ao todo, ele cruzou quatro oceanos em sua carreira.
 
Por seus feitos notáveis, na Primeira Guerra Mundial Kolchak foi indicado comandante da Frota do Mar Negro. Primeiro, ele era favorável à Revolução, mas uma vez que ele compreendeu que ela estava levando à devastação da Pátria, ele começou seu próprio movimento de resistência.
 
Ele deu início a resistência armada aos bolcheviques e seus aliados no Extremo Oriente, na Sibéria central e na região dos Urais. Em setembro de 1918 Kolchak foi indicado Ministro de Defesa no Governo Provisório. Em janeiro de 1919 seu recém-criado exército tomou Perm na região dos Montes Urais. O exército logo cresceu até 112.000 homens e deu início a uma ofensiva em um fronte amplo - de Uralsk e Orenburg a Vyatka. Inspirados pelos sucessos do Almirante, seus irmãos-de-armas e muitos outros representantes do movimento Branco o consideraram o líder supremo da verdadeira Rússia.
 
Um papel estranho, ambíguo e mesmo misterioso no fronte oriental da Guerra Civil foi desempenhado pela chamada Legião Tchecoslovaca. Ela consistia predominantemente de soldados tchecos e eslovacos do exército austro-húngaro, mais de 30.000 soldados, que se renderam ou foram capturados pela Rússia durante a Primeira Guerra Mundial. Originalmente, eles foram mantidos na área da Ucrânia.
 
Após a revolução, agentes da Entente conseguiram colocar a Legião sob comando francês, que então ordenou que a Legião fosse enviada para a França. Teria sido racional enviar os soldados por navio dos portos do Mar Negro.
 
Mas graças a uma lógica que agora parece estranha, em 26 de março de 1918 o governo revolucionário decidiu evacuar os assim chamados "soldados internacionalistas" para o leste pela Sibéria e Vladivostok, obrigando-os a entregar suas armas aos sovietes locais. Poucos dos soldados tchecos voltaram para casa viajando através da Europa. Os bolcheviques estavam com medo (e seus medos eram bem compreensíveis) de que os tchecos unissem forças com o Exército Voluntário no sul. As tropas da Legião Tcheca acabaram espalhadas por toda a região ferroviária siberiana, ao longo de mais de 7000km!
 
Em seu caminho para o leste, os soldados prisioneiros se rebelaram e uniram forças com os contrarrevolucionários: socialistas revolucionários, cadetes, e social-democratas. Juntos com os Brancos, eles conquistaram Novosibirsk, Penza, Syzran, Tomsk, Omsk, Samara, e Krasnoyarsk. Depois disso, tendo lançado uma contra-ofensiva, eles liberaram Ufa, Simbirsk, Ekaterinburg, e Kazan. Nas regiões do Volga e dos Urais, bem como na Sibéria, a Legião auxiliou autoridades locais em criar governos provisórios para a convocação de uma Assembléia Constituinte. Esse se tornou um dos pontos de virada da Guerra Civil.
 
Tendo impedido a junção dos Exércitos Brancos no leste e no sul, os Vermelhos lançaram uma contra-ofensiva nos Urais e na Sibéria no início de 1920. À parte de ataques frontais eles também usaram propaganda revolucionária e serviços secretos ativos (contra-reconhecimento) objetivando erodir o inimigo desde dentro. Os Brancos eram sobrepujados numericamente pelos Vermelhos; as forças do exército de Kolchak (junto com a Legião Tcheca) foram bastante enfraquecidas então.
 
Nem a presença viril ou a bravura do Almirante puderam deter a agressão dos Vermelhos. Após o recuo de Irkutsk, com o poder lá assumido pelos socialistas revolucionários de esquerda, Kolchak foi então forçado a entregar comando do exército para o ataman George Semenov (1890-1946).
 
Em 4 de janeiro de 1920 traído por seus camaradas de armas, o Almirante Kolchak demitiu-se. Nessa situação o General Denikin se tornou o líder supremo da verdadeira Rússia. Sob circunstâncias que permanecem obscuras até hoje, Kolchak foi tomado em custódia pelos tchecos, que em 14 de janeiro os entregaram aos socialistas revolucionários. Estes transferiram Kolchak para os bolcheviques e ele foi fuzilado sob ordem pessoal de Lênin.
 
A história posterior dos Guardas Brancos no leste foi trágica. As tropas do General Vladimir Kapell (1883-1920), que morreu logo após Kolchak, tentaram uma dura travessia do Lago Baikal até Chita. O Tenente-General Mikhail Diterichs (1874-1937), que sucedeu Kolchak como líder supremo da verdadeira Rússia, teve que recuar e depois emigrar após mais dois anos resistindo aos Vermelhos. Ao todo, centenas de milhares de pessoas emigraram através de Vladivostok (bem como através da Criméia), incluindo mais de 56 mil civis, ligados à Legião Tcheca.
 
Na região marítima do Pacífico as batalhas contra os Vermelhos continuaram até o outono de 1922. Depois, os restos das unidades Brancas dos atamans Dutov e Semyonov deixaram a Rússia através da China e da Coréia. Conflitos armados menores ocorreram no extremo oriente até 1923, mas nesses conflitos primariamente guerrilhas, e não tropas organizadas tomaram parte.
 
 
 
8. Barão Ungern e suas Tropas Mongóis
 
A história da Divisão de Cavalaria Asiática, liderada pelo Barão Roman von Ungern-Sternberg (1886-1921), um parente distante do Czar e um monarquista fanático, merece menção especial.
 
Os fatos mais famosos da biografia de Ungern estão ligados com a Mongólia, onde ele queria criar um novo Império próprio e uma plataforma de lançamento para a Vingança Branca. Durante os anos da Revolução, essa vasta região montanhosa havia perdido sua independência (que ela havia conquistado em 1911 da China, apoiada pela Rússia). Os chineses estavam planejando tirar vantagem da fraqueza temporária da Mongólia e subjugar novamente seu vizinho ao Norte enviando tropas para a cidade de Urga (agora Ulan-Bator).
 
Tendo reunido os restos das divisões do ataman Semyonov (800 cossacos montados e 6 canhões), Ungern criou um plano audacioso para liberar Urga dos invasores estrangeiros. Primeiro, buscando apoio do povo comum, ele abordou os mongóis com uma proclamação religiosa. Depois disso ele deu início a uma sofisticada operação clandestina e conseguiu liberar Bogdo Geghen, o Khan da Mongólia da capital ocupada pelos chinesa. Finalmente, ele atacou Urga e tomou a cidade de assalto, apesar de sua defesa por uma guarnição chinesa de mais de 10.000 soldados.
 
Tendo obtido uma área de descanso e suprimento, e apoiado pelos nativos, o barão entusiasticamente começou a gerar seu grande plano. Ele acreditava que após a revolução bolchevique não se poderia ter mais esperança de restaurar as monarquias tradicionais na Europa, pois os povos do ocidente estavam pervertidos pelas idéias do materialismo e do socialismo:
 
"A Rússia está devastada em termos de sua economia, moralidade e espiritualidade; seu futuro é assutador é dificilmente pode ser previsto. A revolução triunfará e a cultura superior perecerá sob os massacres de uma plebe grosseira, cobiçosa e ignorante, apanhada pela loucura da destruição revolucionária e liderada pela Judiaria internacional" - Ungern escreveu em uma de suas cartas.
 
O barão afirmava que para estabelecer a paz, espiritualidade e ordem no mundo, não se devia esperar por qualquer ajuda do Ocidente decadente. Ao invés, ele propunha criar um "Reino do Meio" no Oriente. Serviria para unir Mongólia, Sindzyan e Tibet  (todas agora na China ocidental) em um "Império Branco do Oriente" com o objetivo de erradicar o mal mundial que veio a terra para "destruir o Divino nas almas dos homens".
 
Para realizar essa missão divina, o barão adotou o Budismo. Ele depois se casou com uma donzela chinesa de origem nobre e recebeu o título de "Príncipe da Mongólia" do Khan Bogdo Gegen. Depois, ele orgulhosamente vestiu um caftã principesco da melhor seda chinesa junto com o uniforme de oficial czarista. O barão começou a enviar cartas oficiais nas quais ele propunha aos voluntários dos exércitos Brancos que se unissem a suas tropas.
 
Os restos das unidades Brancas da região do Baikal, Tuva e das estepes mongóis se reuniram sob os estandartes do Barão (chamado "o Deus da Guerra"). Junto com brigadas lideradas pelos atamans Kazagrandi, Kaigarodov, Bakich, e outros, o exército de Ungern logo cresceu até alcançar mais de 4.000 sabres e dúzias de unidades de artilharia. O exército era capaz de executar pequenos saques ao longo das costas do Rio Selenga. Ele também atacou Kyachta, uma pequena cidade na fronteira mongol, onde os bolcheviques tinham Chan Sukhe-Bator como seu protegido. Foi nessa época uqe a unidade Branca foi particularmente cruel com comunistas, comissários e judeus, aos quais (segundo o Barão) "só uma punição era adequada - morte!". Mas a milícia do Barão era superada numericamente pelos Vermelhos e seus esforços não foram suficientes para vencer.
 
Um corpo expedicionário foi enviado desde Chita para destruir as tropas do Barão. Ele tinha 7.500 de infantaria, 2.500 sabres, 20 armas de campo, 4 avisões e 4 navios a vapor. Como os Vermelhos eram apoiados por revolucionários mongóis, eles conseguiram suprimir a resistência dos contrarrevolucionários. Os líderes Brancos do leste, incluindo o próprio Ungern foram aprisionados, interrogados e depois executados.
 
O terror Vermelho no extremo oriente tinha suas próprias peculiaridades, já que não apenas mosteiros e propriedades de khans, mas também departamentos russos e instituições oficiais foram saqueadas. Muito depois, Lênin anulou a dívida pública da Mongólia de 5 milhões de rublos de ouro e premiou o general pró-soviético Sukhe-Bator com a condecoração da Estrelha Vermelha durante a visita oficial do líder mongol ao Kremlin em 1921.
 
 
 
9. Conclusões
 
Confrontando os bolcheviques na Guerra Civil não estavam apenas monarquistas Brancos, mas também socialistas revolucionários, democratas e anarquistas, bem como uma grande porção dos cossacos livres e camponeses ricos. O caos de toda a situação revolucionária levou confusão e atrapalhou as pessoas de perceberem o perigo da Ditadura do Proletariado, que na realidade se transformou na tirania dos bolcheviques, chefiada por Lênin e então Stálin.
 
É porém uma afirmação falsa a de que durante a Guerra Civil "russos enfrentaram russos". Em realidade foi a Internacional Vermelha que combateu os Guardas Brancos. É verdade, porém, que certos russos bem como cossacos das diferentes regiões do Império, e ucranianos, alemães, e tchecos, estavam presentes nos postos de comando da Revolução. Mas dentro da liderança revolucionária, os russos eram uma minoria absoluta.
 
Judeus russófonos, ucranianos, poloneses, lituanos, húngaros, tártaros, chineses, e pequenos povos do Cáucaso predominavam. As unidades não-russas, internacionais dos Vermelhos contavam mais de 200.000 homens.
 
Em geral, o exército Vermelho venceu graças ao fanatismo revolucionário e a superioridade numérica, mas não devido aos sucessos estratégicos ou talentos de seus líderes. O Exército Vermelho ocupou posições estratégicas fundamentais, e ademais era aproximadamente dez vezes maior que o Exército Branco. Mas ele sofria com muitas deserções e estava quase em colapso total em 1919.
 
Ambos os lados exibiram brutalidade, mas os Brancos jamais fizeram do terror um instrumento nuclear de sua política do mesmo modo que os comissários Vermelhos fizeram. Eles jamais exterminaram classes ou grupos populacionais inteiros e jamais criaram campos de concentração.
 
No final das contas, a guerra civil acabou se tornando um verdadeiro genocídio racial.
 
Declarando e promovendo slogans e idéias ideológicamente opostas, os Vermelhos e Brancos se massacraram mutuamente em uma guerra sangrenta. Sua prontidão para derramar sangue e marchar por batalhas fratricidas se refletiam nas canções daqueles tempos impiedosos. Quando marchando e antes dos ataques, os Vermelhos costumeiramente cantavam uma canção com as seguintes linhas: 
 
Nós marcharemos para lutar pelo Poder dos Sovietes
E morreremos como quem luta por isso.
 
Os Brancos usavam a mesma melodia, mas as letras eram diferentes:
 
Nós marcharemos para lutar pela Santa Russia
E derramaremos como um só homem nosso sangue por Ela.
 
Mas seja qual fosse o texto da canção, o sangue de soldados e oficiais russos sempre era derramado, o que quase arruinou a reserva genética da Nação.
 
A maioria dos camponeses acreditou no "Decreto Agrário" e jamais esperou que os bolcheviques se voltassem contra um de seus principais aliados de classe em poucos anos. Eles jamais viram os Brancos como seus protetores potenciais e na maioria das vezes travaram suas próprias guerras locais, lutando por conta própria durante rebeliões.
 
O povo tradicionalmente acreditava que todos os generais czaristas fossem monarquistas, mas na realidade, suas visões ideológicas eram bem mais amplas. Em verdade, no início das revoluções, a maioria dos generais e oficiais do Alto Comando eram a favor da derrubada do Czar. Por exemplo, o General Kornilov e o Almirante Kolchak prenderam os membros mais importantes da família do Czar em São Petersburgo e na Criméia.
 
Os oficiais czaristas superestimavam as próprias forças, conforme eles se atolaram nos frontes da Guerra Mundial. Eles esperavam por um milagre de Deus através de sua fé cristã, e contavam com a bravura dos cossacos, com apoio militar ocidental e com a ajuda dos camponeses. Mas nenhuma de suas esperanças se fez realidade.
 
Essa firme crença no poder da Verdade e no triunfo da Justiça Divina e na Lei foi mantida pelos Guardas Brancos em exílio. Um dos líderes mais proeminentes dos emigrados russos escreveu em seu diário:
 
"Anos passarão, os comunistas terão partido, e a Revolução não será mais que uma coisa do passado.
 
Mas a Causa Branca, renovada nessa luta não terá partido: seu espírito permanecerá com nossas gerações futuras e se tornará uma parte de nosso ser nacional e ajudará a construir uma Nova Rússia".

mardi, 22 mai 2012

Maurice Bardèche, Européen fidèle

Maurice Bardèche, Européen fidèle

par Georges FELTIN-TRACOL


I-Grande-6153-bardeche.net.jpgAprès avoir écrit pour la même collection la biographie condensée d’Henri Béraud, de Léon Daudet, de Henry de Monfreid, de Hergé et de Saint-Loup, Francis Bergeron évoque cette fois-ci la vie d’une personne qu’il a bien connue : Maurice Bardèche.

 

On sait que Bardèche fut l’exemple-type de la méritocratie républicaine hexagonale. Ce natif d’un village du Cher en 1907 montra très tôt de belles dispositions intellectuelles pour l’étude et la littérature. Excellent élève, ce boursier se retrouve à l’École normale supérieure (E.N.S.) où il allait côtoyer une équipe malicieuse constituée de José Lupin, de Jacques Talagrand (le futur Thierry Maulnier) et de Robert Brasillach, l’indéfectible ami. « Brasillach lui fait du thé, lui offre des gâteaux catalans. Mais la culture littéraire de Brasillach date un peu; Bardèche lui fait découvrir à son tour Proust, alors qu’il vient d’obtenir le prix Goncourt, Barrès, dont les funérailles nationales datent tout juste de deux ans, et Claudel, ancien de Louis-le-Grand, dont l’œuvre est déjà reconnue (p. 16). »

 

À l’E.N.S., Maulnier et Brasillach commencent à publier dans la presse tandis que « Bardèche […] se destine réellement à l’enseignement supérieur, et […] voit son avenir dans l’approfondissement de la connaissance des grands textes et des grands auteurs (p. 20) ». À côté de sa passion littéraire, Maurice Bardèche éprouve de tendres sentiments pour la sœur de son ami Robert, Suzanne Brasillach. Ils se marient en juillet 1934 et partent en voyage de noce pour l’Espagne en compagnie de Robert qui vivra avec eux jusqu’en 1944 ! Francis Bergeron raconte qu’au cours de ce voyage, Maurice Bardèche faillit mourir dans un accident de la route. Bardèche fut trépané et conserva sur le front un « enfoncement dans le crâne (p. 26) ».

 

On ne va pas paraphraser cet ouvrage sur le talentueux parcours universitaire de Bardèche qui suscita tant d’aigreurs et de jalousie. Sous l’Occupation, si Robert Brasillach travaille à Je suis partout, Bardèche préfère se tenir à l’écart des événements et se dévoue à Stendhal et à Balzac. Or le mois de septembre 1944 marque un tournant majeur dans la destinée du jeune professeur : il est arrêté, puis emprisonné. Il voit ensuite son cher beau-frère jugé, condamné à mort et exécuté le 6 février 1945. Dorénavant, « la vie et, plus encore, peut-être, le martyre et la mort de Robert [vont] occup[er] une place centrale tout au long de l’existence de Maurice (p. 43) ». Guère attiré jusque-là par la politique, Maurice Bardèche s’y investit pleinement et va produire une œuvre remarquable, de La lettre à François Mauriac (1947) à Sparte et les Sudistes (1969). En outre, afin de publier les œuvres complètes de Robert Brasillach, il fonde une maison d’édition courageuse et déjà dissidente, Les Sept Couleurs.

 

Le respectable spécialiste de littérature du XIXe siècle se mue en fasciste, terme qu’il endosse et qu’il revendique d’ailleurs fièrement dans Qu’est-ce que le fascisme ? (1961). Dès la fin des années 1940, il se met en relation avec d’autres réprouvés européens dont les militants du jeune M.S.I. (Mouvement social italien). En 1952, il participe au célèbre congrès de Malmö qui lance le Mouvement social européen dont le bulletin francophone est Défense de l’Occident (titre ô combien malvenu, car les positions qui y sont défendues ne rappellent pas l’occidentalisme délirant d’Henri Massis – il faut comprendre « Occident » au sens d’« Europe » et de « civilisation albo-européenne pluricontinentale »). Sorti en décembre 1952, ce titre est dirigé par Bardèche. Si le M.S.E. s’étiole rapidement, miné par des divergences internes et des scissions, Défense de l’Occident devient une revue qui accueille aussi bien les nationaux que les nationalistes, les nationalistes-révolutionnaires que les traditionalistes. La revue disparaîtra en novembre 1982. Francis Bergeron n’en cache pas l’ensemble inégal du fait, peut-être, d’une forte hétérogénéité thématique visible à la lecture de ses nombreux collaborateurs.

 

Par fascisme, Bardèche soutient une troisième voie hostile au capitalisme et au socialisme. Mais son fascisme, anhistorique et éthéré, cadre mal avec les réalités historiques du fascisme. Dès 1963 dans L’Esprit public, Jean Mabire rédigeait un article roboratif intitulé « L’impasse fasciste » repris successivement dans L’écrivain, la politique et l’espérance (1966), puis dans La torche et le glaive (1994). Au-delà des blessures vives de la Seconde Guerre mondiale, « Maît’Jean » esquissait de nouvelles perspectives européennes et authentiquement révolutionnaires.

 

Déjà marqué par son fascisme assumé, Maurice Bardèche accepte d’être un paria de l’histoire parce qu’il ose un avis révisionniste sur les événements contemporains. « Ses exercices de “ lecture à l’envers de l’histoire ”, comme il les appelle lui-même, font partie des points les plus détonants de son discours. Ils démontrent son courage tranquille, et ne peuvent que susciter l’admiration. Sur le fond, il y aurait certes beaucoup à dire, explique Bergeron. De toute façon, comme l’a rappelé Bardèche lui-même à Apostrophe, on ne peut plus s’exprimer librement sur ces questions (p. 87). » Saluons toutefois sa clairvoyance au sujet de la mise en place d’une justice internationale mondialiste. Déjà prévue dans l’abjecte traité de Versailles de 1919, cette pseudo-justice planétaire se réalise à Nuremberg et à Tokyo avant de réapparaître dans les décennies 1990 et 2000 à La Haye pour l’ex-Yougoslavie, à Arusha pour le Rwanda et avec l’ignominieuse Cour pénale internationale qui veut limiter la souveraineté des États.

 

Tout en étant fasciste et après avoir prévenu en 1958 le camp national du recours dangereux à De Gaulle, Maurice Bardèche n’hésite pas à vanter le caractère fascisant des régimes de Nasser et de Castro, et à faire preuve dans Défense de l’Occident d’une grande lucidité géopolitique. « Bardèche […] faisait bouger les lignes de la vision géopolitique de son camp (p. 67). » Cet anti-sioniste déterminé encourage le panarabisme et, dès l’automne 1962, appelle les activistes de l’Algérie française à délaisser leur nostalgie et à relever le défi de la nouvelle donne géopolitique. Il est l’un des rares à cette époque à prôner une entente euro-musulmane contre le condominium de Yalta.

 

1752.jpgC’est sur la question européenne que Maurice Bardèche a conservé toute sa pertinence. Quand on lit L’œuf de Christophe Colomb (1952) ou Sparte et les Sudistes, on se régale de ses fines analyses. Bardèche réfléchissait en nationaliste français et européen. À la fin de l’opuscule, avant l’habituelle étude astrologique de Marin de Charette et après les annexes biographiques, bibliographiques, de commentaires sur Bardèche et de quelques-unes de ses citations les plus marquantes, Francis Bergeron reproduit l’entretien que lui accorda Bardèche dans Rivarol du 5 avril 1979 (avec les parties supprimées ou modifiées par Bardèche lui-même). Cet entretien est lumineux ! « Devons-nous accepter […] de ne pas nous défendre contre la concurrence sauvage, déclare Bardèche, accepter le chômage, le démantèlement d’une partie de notre industrie, la dépendance à laquelle nous risquons d’être contraints ? » On croirait entendre un candidat à l’Élysée de 2012… Le sagace penseur de la rue Rataud estime que « l’Europe qu’on nous prépare ne sera qu’un bastion avancé d’un empire économique occidental dont les États-Unis seront le centre »… Il prévient qu’« il ne faut pas que l’Europe ne soit que le cadre agrandi de notre impuissance et de notre décadence », ce qu’elle est désormais. Il importe néanmoins de ne pas rejeter l’indispensable idée européenne comme le font les souverainistes nationaux. L’Europe demeure plus que jamais notre grande patrie civilisationnelle, identitaire et géopolitique. « L’Europe indépendante constitue un idéal ou plutôt un objectif », juge Bardèche avant d’ajouter, prophétique, que « la crise économique peut nous aider à la faire plus vite qu’on ne le croit ».

 

Ce nouveau « Qui suis-je ? » est bienvenu pour découvrir aux plus jeunes des nôtres l’immense figure de ce fidèle Européen de France, ce magnifique résistant au politiquement correct !

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Francis Bergeron, Bardèche, Pardès, coll. « Qui suis-je ? », (44, rue Wilson, 77880 Grez-sur-Loing), 2012, 123 p., 12 €.


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lundi, 21 mai 2012

Ein idealistischer Prophet der Tat

Ein idealistischer Prophet der Tat

Von Günter Zehm

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

290_Johann_Gottlieb_Fichte_als_Berliner_Landsturmmann_.jpegJohann Gottlieb Fichte war nicht nur ein gewaltiger Tribun und einer der größten Philosophen, die die Welt je trug, er war vor allem auch ein bis ins letzte aufrechter, ja knorriger Mann, dem man nichts vormachen konnte. Man muß lesen, wie unnachsichtig er gegen alle Formen ziviler Geschmeidigkeit ankämpfte, wie abgrundtief seine Verachtung für beifallheischendes Literatengeschmeiß und karrierebedachte Katzbuckelei war und wie schneidend er diese Verachtung zu formulieren verstand.

Er war kleiner Leute Kind, Sohn eines Bandwirkers aus der Oberlausitz, hatte dank der Unterstützung des örtlichen Gutsbesitzers Haubold von Miltitz das berühmte Elitegymnasium Schulpforta besuchen können und danach jahrelang das Hauslehrer- und Hofmeisterschicksal der damaligen deutschen Intellektuellen geteilt. Es bedeutete für ihn viel, als er 1794 als Professor nach Jena berufen wurde, aber gerade diese Stelle verscherzte er sich bald wieder durch seine Unnachgiebigkeit.

Ein von ihm mit einem Nachwort versehener Artikel von Friedrich Karl Forberg im Philosophischen Journal hatte der Vermutung Ausdruck gegeben, daß die Existenz Gottes nicht notwendig sei für die Errichtung einer moralischen Wertordnung. Das hatte das äußerste Mißfallen diverser Obrigkeiten erregt, der berüchtigte „Atheismusstreit“ brach aus, Sachsen und Preußen drohten, die Universität Jena zu boykottieren und ihr sämtliche Fördermittel zu entziehen.

Meinungsfreiheit aus Prinzip

Fichte stimmte nicht mit dem fraglichen Aufsatz überein, doch um des Prinzips der wissenschaftlichen Freiheit willen warf er sich stürmisch in den Kampf und ließ „gerichtliche Verantwortungsschriften“ und „Appellationen an das Publikum“ erscheinen. Nicht Forberg, sondern Fichte rückte unversehens in den Fokus der Auseinandersetzung. Er wurde aus seinem Lehrverhältnis entlassen, und aufgehetzte Studenten warfen ihm abends die Fenster ein.

Der zuständige sachsen-weimarische Minister, Johann Wolfgang von Goethe, der Fichte als Person an sich sehr achtete, kommentierte spöttisch: „Eine unangenehme Art, von der Existenz der Außenwelt Kenntnis zu nehmen.“ Seine Worte bezogen sich auf die Philosophie Fichtes, seine „Wissenschaftslehre“, die das berühmte „Ding an sich“ der Kantischen Theorie seiner Objektivität entkleidet und zum Produkt der dialektischen Vernunft gemacht hatte.

Goethe vermochte in Fichte nur eine Neuausgabe des seinerzeitigen englischen Bischofs George Berkeley (1685–1753) zu sehen, der das Vorhandensein einer unabhängig vom individuellen Bewußtsein existierenden Außenwelt leugnete und die Gegenstände als bloße individuelle Vorstellungen auffaßte. Die Reduktion Fichtes auf Berkeley und andere „subjektive Idealisten“ und Sensualisten ging jedoch völlig an der wesentlichen Problematik vorbei.

Das Ich setzt sich sein Nicht-Ich

Entscheidend war, daß Fichte als erster ein einheitliches voluntaristisches System entwarf, das keines Anstoßes von außen bedurfte, weil das Prinzip seiner Bewegung in ihm selbst ruhte. Es handelte sich bei diesem Prinzip nicht um irgendeinen biologischen „Trieb“, sondern um jenen Widerspruch in jedem denkenden Selbstbewußtsein, daß sich das „Ich“ nur dann als Ich denken kann, wenn es gleichzeitig auch ein „Nicht-Ich“ denkt.

Fichte konstatierte, daß sich der allgemeine Widerspruch zwischen Ich und Nicht-Ich in jeder konkreten Situation des Ich wiederhole. Immer und überall könne es nur im Nicht-Ich seine Bestimmung finden, es sei also ins Nicht-Ich hinein entfremdet, und sein wesentliches Bestreben sei es, diese Entfremdung aufzuheben und sich mit seinen konkreten Bestimmungen zu vereinigen. Dadurch aber entstehe der Weltprozeß wie auch der Prozeß jedes Individuums.

Diese Dialektik, als deren Schöpfer also mit Fug Fichte gelten kann, ist ungeheuer folgenreich gewesen: Hegel faßte ein wenig später die Entfremdung des Ich ins Nicht-Ich als „Negation“ und das Bestreben des Ich, das Nicht-Ich einzuholen, als „Negation der Negation“, baute diese Begriffe zu einer kompletten Methode aus und faßte mit ihrer Hilfe das ganze Material der damaligen Wissenschaften zu seinem epochemachenden System zusammen. Marx bediente sich bei seinen ökonomischen Analysen ebenfalls der Dialektik und gelangte dadurch zu seiner revolutionären Theorie vom Proletariat als der leibhaftigen Negation der bürgerlichen Gesellschaft.

Ein prophetischer Philosoph der Tat

Aber nicht genug damit. Dadurch, daß Fichte nicht gewillt war, die Dialektik zu objektivieren, mußte er folgerichtig zu dem Schluß gelangen, daß die Empfindung der äußeren Gegenstände nichts anderes sei als der freie Wille des Ich, sich Gegenstände zu setzen, um sie später wieder „einzuholen“, also zu zerstören. Der Denker war in erster Linie Täter, mag sein Untäter. Er formte die Welt nach seinem Willen – und nach dem Willen Gottes, von dem das Ich gleichsam ein „Teilchen“ und ein „Fünklein“ war.

Fichte war der Prophet der Tat, das Ich hatte sich bei ihm unentwegt an sozialen und politischen Konstellationen abzuarbeiten. So war er also, wie wir heute sagen würden, ein ungeheuer „engagierter“ Denker, der sich ungeniert und mit der ganzen Kraft seiner schier dämonischen Rhetorik in die politischen Händel einmischte. Er war nach seiner Vertreibung aus Jena nach Berlin gegangen, und dort stieg er in kürzester Zeit zu einem der bekanntesten Publizisten des Reiches auf.

Deutschland sah sich um die Jahrhundertwende vom 18. zum 19. Jahrhundert den massiven Angriffen und Vereinnahmungen Napoleons ausgesetzt, und der Widerstand dagegen trug entscheidend zur Formierung des Landes als moderne Nation bei. Und Fichte war (mehr noch als Herder) von der Geschichte tatsächlich dazu ausersehen, diesen objektiven Prozeß klar und machtvoll ins öffentliche Bewußtsein zu heben. Seine „Reden an die deutsche Nation“ von 1808 waren ausdrücklich als Medizin gedacht, welche den Widerstand gegen die Fremdherrschaft und den Prozeß der Nationwerdung befördern sollte.

„Wo das Licht ist, ist das Vaterland“

Nichts Dümmeres gibt es, als Fichte als geborenen „Franzosenfresser“ und die „Reden“ als Ausdruck eines ignoranten Chauvinismus hinzustellen. In den ersten Jahren der Revolution von 1789 hatte Fichte Frankreich ja noch als Hort der Freiheit gefeiert, man denke an Schriften wie „Zurückforderung der Denkfreiheit von den Fürsten Europas“. „Ubi lux, ibi patria“, schrieb er da, „wo das Licht ist, ist das Vaterland“.

Erst unter dem Einfluß der Napoleonischen Kriege gab der Philosoph seine transrheinische Begeisterung auf. „Der Staat Napoleons“, hieß es nun in den „Reden“, „kann nur immer neuen Krieg, Zerstörung und Verwüstung erzeugen. Man kann damit zwar die Erde ausplündern und wüste machen und sie zu einem dumpfen Chaos zerreiben, nimmermehr aber sie zu einer Universalmonarchie ordnen.“

Zur selben Zeit, da Fichte vor größter Öffentlichkeit in Berlin seine Reden an die deutsche Nation hielt, trug er vor akademischem Publikum auch seine „Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters“ vor, will sagen: seine Geschichtsphilosophie, die natürlich ein überzeitliches, jeder politischen Aktualität enthobenes historisches Schema zu liefern begehrte. Dennoch bereitet es hohen Reiz, die „Reden“ sich in den „Grundzügen“ spiegeln zu lassen und umgekehrt.

Deutschland zum Licht heben

Fichte unterschied drei gesellschaftliche Grundstadien. Da ist erstens das „arkadische Zeitalter“, in dem primitive Zustände und allenfalls ein „Vernunftinstinkt“ herrschen, und zweitens das sogenannte „Zeitalter der vollendeten Sündhaftigkeit“, in dem das Gemeinwesen sich von sich selbst entfremdet hat und in unendlich viele divergierende Individuen auseinandergefallen ist. In dieser Sündhaftigkeit, daran läßt der Philosoph keinen Zweifel, leben wir jetzt.

Abgelöst aber wird diese Ära der Sündhaftigeit, drittens, vom „elysischen Zeitalter“, dem Zeitalter der „Vernunftkunst“. Dieses letzte Zeitalter, meint Fichte, wird sich erheben, wenn die sündhafte Willkür der Individuen ihren Höhepunkt erreicht hat und sie nur noch wie Atome konturlos durcheinanderschwirren. Angesichts der politischen Zustände im damaligen Deutschland mag der Geschichtsdenker ernsthaft überzeugt gewesen sein, daß das Zeitalter der Sündhaftigkeit nun also komplett sei und es „nur“ noch der Zusammenfassung aller individuellen Energien bedürfe, um Deutschland zu einem Land des Lichts und der Vernunft emporzuheben.

Wenn Fichte gut von den Deutschen sprach, dann sprach er immer in der Zukunft. In den „Reden“ betont er an vielen Stellen, daß eine Erhebung aus dem gegenwärtigen Zustande einzig unter der Bedingung denkbar sei, daß dem deutschen Volk eine neue Welt aufginge. Johann Gottlieb Fichte starb im Januar 1814, mitten im Siegeslärm der Befreiungskriege, am Lazarettfieber, das seine Frau, die in einem Hospital verwundete Landsturmleute pflegte, von daher mitgebracht hatte.

Ein tragisch-banaler, früher Tod. Aber er ersparte dem großen Philosophen immerhin so manche Enttäuschung, die die Nachkriegszeit mit ihren Demagogenverfolgungen und ihrer feigen Biedermeierei mit sich brachte. Sein Vermächtnis weht uns heute wundersam ungebrochen an.

vendredi, 18 mai 2012

Dominique Venner: l'imprévu dans l'histoire


Dominique Venner: l'imprévu dans l'histoire

par dredl

00:14 Publié dans Livre, Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, nouvelle droite, dominique venner, histoire | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 17 mai 2012

Yukio Mishima: Man of Pure Action

Yukio Mishima: Man of Pure Action

In Action, Contemplation, and the Western Tradition, Julius Evola writes that action can take on the qualities of ‘Being’ only if the action is ‘pure.’ According to Evola, the pure act does not aim at “contingent and particular fruits, considering as the same happiness and calamity, good and evil, even victory and defeat, looking neither at the ‘I’ nor at the ‘you’, overcoming love as well as hatred and any other pair of opposites.”

Evola sees a man in the motion of a pure act as becoming truly free. In it, such a man breaks away from the bonds of individualism and everything that grounds him to the material order of things. Here, man can act from “the deep and in a way supra-individual core of being” and with a quality that “never varies, divides, or multiplies: they are a pure expression of the self,” as Evola writes in Ride the Tiger.

Evola explains that pure action is taken regardless of the pleasure or pain implied in one of its acts. This does not mean that pure action is devoid of pleasure, but rather it enjoys only heroic pleasure, or the superior pleasure derived from “decisive action that comes from ‘being’.” Evola considers in the realm of ‘heroic pleasure’ the type of pleasure that is derived from “action in its perfection” or actions that require training to the point of becoming an acquired skill.

A popular literary figure who lived and died embodying these principles is Yukio Mishima. Although in no way associated with the Traditionalist school and more of an intellectual than a strict metaphysician, Mishima sought the revival of the Samurai “Tradition” and attempted to live his life by the code and ethics described in the Hagakure, despite his living in an era far more decadent and removed from Tradition than the one Hagakure’s writer, Yamamoto Tsunetomo, lived in and sought to overcome.

Mishima famously committed suicide in the traditional Seppuku way after taking several capitalist governmental figures hostage. Mishima’s obsession with death and his suicide can be interpreted as conformance with the Hagakure’s dictate that the Samurai “decide to die” and the advice that it should probably be done before old age because by that time one would likely have little reason to continue living. Mishima’s suicide should also be seen as an expression of the pure act though.

Scorning modern man’s and Japan’s loss of tradition and contempt for the body, Mishima died not as a martyr for his cause and much less a savior for his people, but instead, he died in service to the pure idea. Mishima overcame petty individuality and in his act died as a Samurai. Mishima himself wrote that he wished to “achieve pure action that admitted of no imagination, either by the self or by others” in Sun and Steel. Mishima clearly acquired Being in its actual sense while making death his heroic pleasure.

Throughout Mishima’s text, other Traditional attitudes can be observed. Mishima explains that the “glorification of individual style in literature” is “no more than a beautiful ‘perversion of words’.” Here, Guenon’s observation that art is first reduced to Quantity through the introduction of “individuality” is seen.

Mishima also saw a universality in man from what was highest in him as opposed to the lowest. Despising the frailty of his youth, Mishima used body building to strip “my muscles of their unusualness and individuality.” Doing this, he realized “the triumph of knowing that one was the same as others.” Using both words and muscles, Mishima did not deny his individuality or being, but achieved the supra-individuality Evola referred to. He used both to “universalize my own individuality” and created a “general pattern in which individual differences ceased to exist.”

Mishima undoubtedly captures the spirit of the warrior in Sun and Steel, but he also has the powers of the spiritual/intellectual class as well. He would fit the mold of Evola’s conception of the early Brahmin. Mishima himself stated that contemplation to the point of discounting the body leads to a “steadily perverted and altered reality.” Instead, through an asceticism of strength, Mishima claimed to have found “a reality that rejected all attempts to make it abstract… that flatly rejected all expression of phenomena by resort to abstraction.”

Here, the problem of the modern notion of spirituality as abstract, renouncing, and soft is solved. Like Buddha, Mishima combated the infernal becoming of the Kali Yuga by developing a spirituality that sought direct contact with reality, overcoming what he saw as the nihilism of this state by living a philosophy of steel and pure action.

lundi, 14 mai 2012

Nolte, Nexus und Nasenring

Nolte, Nexus und Nasenring

von Thor v. Waldstein

Ex: http://www.sezession.de/

gerlich-nolte.jpgÜber die Späten Reflexionen und die Italienischen Schriften Ernst Noltes ist es zwischen Siegfried Gerlich, Thorsten Hinz und Stefan Scheil zu einer Debatte gekommen (Sezession 45 und Sezession 46). Sie hat deutlich gemacht, wie ambivalent der Blick auf das Werk des im 90. Lebensjahr stehenden Geschichtsdenkers sein kann. Das spricht nicht zuletzt für den Autor Nolte, dessen Feder es offensichtlich gelungen ist, geistige Attraktion für ganz unterschiedliche historische Denkansätze zu entfalten.

Dieser Befund deckt sich mit der Erfahrung des Verfassers dieser Zeilen, der fast jedes Werk Noltes gerade wegen dessen nüchtern-sezierendem Stil mit Gewinn gelesen hat, obwohl er die Anhänglichkeit Noltes zu dem »liberistischen Individuum« bzw. zu dem von diesem verkörperten »liberalen System« weder teilt noch versteht. Was aber bei jedem, der Nolte gerecht werden will, bleibt, ist der Respekt vor der souveränen Stoffbeherrschung, vor einer bewundernswürdigen Lebensleistung und vor der Unbeirrbarkeit, mit der Nolte die eigenen wissenschaftlichen Erkenntnisse und Thesen gegen das Meer der bundesdeutschen Anfeindungen spätestens seit dem Habermas-Skandal 1986 (dem sogenannten »Historikerstreit«) verteidigt hat.

Und damit sind wir schon bei dem, was bei dem »Sezession-Autorenstreit« vielleicht etwas zu kurz gekommen ist: nämlich der Erforschung der – eminent politischen – Frage, weswegen Ernst Nolte heute in der Bundesrepublik ein historiographischer Paria ist, der unter dem Verdacht des »Verfassungsfeindes« steht (Stefan Breuer) und dessen Werke wertfrei oder gar positiv zu zitieren der beste Weg sein dürfte, die eigene akademische Karriere gegen die Wand zu fahren. Hat diese Stigmatisierung allein mit mißliebigen wissenschaftlichen Erkenntnissen Noltes zu tun oder offenbart die Causa Nolte nicht vielmehr polit-psychologische Wirkmechanismen, die für das Verständnis des Staates, in dem wir leben, von nicht unmaßgeblicher Rolle sind? Hat Nolte mit seiner zentralen These von dem Kausalnexus zwischen Bolschewismus und Nationalsozialismus möglicherweise an Tabus der »Vergangenheitsbewältigung« gerüttelt, die in tieferen Bewußtseinsschichten der homines bundesrepublicanenses fest verankert sind?

Bekanntlich war es Armin Mohler, der sich 1968 – pikanterweise veranlaßt durch einen Auftrag der Bonner Ministerialbürokratie – erstmals gründlich mit dem Phänomen der Vergangenheitsbewältigung befaßte. 1989 widmete er sich demselben Thema erneut und legte im einzelnen dar, wie die Deutschen seit 1945 am Nasenring der Vergangenheitsbewältigung vorgeführt werden. Ausgangspunkt Mohlers war zunächst die Feststellung, daß es weder möglich noch wünschenswert sei, daß ein Volk seine Vergangenheit bewältige. Nicht nur jedem Individuum, sondern auch einem Volk sei ein Recht auf Vergessen zuzubilligen. Diejenigen, die gleichwohl die Maschinerie der unablässigen Vergangenheitsbewältigung in Gang gesetzt hätten, würden dies in der Absicht tun, sozialpsychologisch determinierte Komplexe heranzuzüchten, um diese anschließend in den Dienst bestimmter politischer Ziele zu stellen. Endstufe sei der entortete Deutsche, der angesichts der NS-Katastrophe nach und nach ein perverses Verhältnis zu den Traditionen seiner Vorfahren entwickle, und dessen Deutschsein man am Ende vor allem daran erkenne, daß er alles sein wolle: Europäer, Weltbürger, Pazifist usw. – nur kein Deutscher mehr. Damit erwies sich die Vergangenheitsbewältigung als konsequente Fortsetzung der nach 1945 von der US-amerikanischen Besatzungsmacht ins Werk gesetzten »Re-education«, also des »Versuchs, den deutschen Volkscharakter einschneidend zu ändern, auf daß die politische Rolle Deutschlands in Zukunft von außen kontrolliert werden könne« (Caspar von Schrenck-Notzing).

Man braucht keine besonders gute Beobachtungsgabe für die Feststellung, daß dieser Versuch einer »Charakterwäsche« der Deutschen heute als weitgehend gelungen angesehen werden kann. Der Prototyp des ferngesteuerten, von historischen Komplexen regelrecht aufgeblasenen Deutschen begegnet einem auf Schritt und Tritt. Es gibt keine Talk-Show, kein Lehrerzimmer, keine Redaktionsstube, keinen Seminarraum, wo man sich nicht laufend der zu Tode gerittenen Distanzierungsvokabel »Nazi« bedient, um die Kappung der historischen Entwicklungslinien Deutschlands als »demokratische Errungenschaft« zu feiern. Kurioserweise läßt sich der Bundesbürger durch dieses permanente »Strammstehen vor den politisierten, mythologisierten Begriffen« (Frank Lisson) nicht in seiner höchstpersönlichen Glückseligkeit stören, was Johannes Gross einmal zu der paradox-treffenden Bemerkung veranlaßte, »die Bundesrepublik Deutschland (sei) ein übelgelauntes Land, aber ihre Einwohner sind glücklich und zufrieden«.

1079598_3049332.jpgJenseits dieser privaten Partydauerstimmung, in der man die eigene Vita der Amüsementsteigerung widmet, weiß der Deutsche von heute aber sehr genau, wo und auf welche Schlüsselworte hin er auf Moll umzuschalten hat: beim Befassen mit dem Düsterdeutschland der Jahre vor Neunzehnhundert-Sie-wissen-schon. Gerät man auf diesem kontaminierten Gelände auch nur unter Verdacht, die geschichtspolitischen Dogmen nicht hinreichend verinnerlicht zu haben oder offenbart man gar Ermüdungserscheinungen bei dem Distanzierungsvolkssport Nummer eins, dem Einprügeln auf die herrlich toten »Nazis«, darf man sich nicht wundern, wenn man eines schönen Tages als »Rechtsextremist« o.ä. aufwacht. Diesem Umstand ist es zu verdanken, daß sich zwischenzeitlich die meisten NS-Forschungsfelder in politisch-psychologische »No-go-areas« verwandelt haben, in denen nicht Erkenntnisdrang, sondern penetranter Dogmatismus den (Buß-)Gang der Dinge bestimmt.

Der Nationalsozialismus ist daher weiter der zentrale »Negativ-Maßstab der politischen Erziehung« (Martin Broszat) und darf im Sinne derer, die sich der politischen (Ver-)Bildung von bald drei Generationen in Deutschland gewidmet haben und weiter zu widmen sich anschicken, gerade nicht historisiert werden. Gefragt ist moralisch-verschwommene Befindlichkeit, nicht wissenschaftlich-präzise Analyse. Auf diesem Terrain herrscht ein zivilreligiös aufgeladener Machtanspruch, der hinter Kant und die Aufklärung zurückfällt und der in der Geschichte der europäischen Neuzeit ohne Beispiel ist. Auf diesem, von Psycho-Pathologien beherrschten Feld ist »souverän …, wer über die Einhaltung von Tabus und Ritualen verfügt« (Frank Lisson).

Es geht also um Macht und nicht um Wahrheit, um Deutungshoheit und nicht um historische Erkenntnis, um Kampagnenfähigkeit und nicht um seriöse wissenschaftliche Methode. Es geht darum, jeglichen jenseits des aufoktroyierten Neusprechs liegenden, originären geistigen Denkansatz zu dem historischen Phänomen des Nationalsozialismus sofort zu skandalisieren und damit seiner Wirkung zu berauben.

Der seit 1986ff. in der Öffentlichkeit der Bundesrepublik Deutschland geführte »Streit um Nolte« ist also in seinem Kern keine historische Fachdiskussion, er ist – neben vielen anderen Beispielen dieser Art – ein besonders sig¬nifikanter Ausdruck eines gesteuerten Debatten¬ablaufs in einem unfreien Land. Noltes Nexus-Theorie ist den Politgewinnlern der deutschen historischen Tragödie 1914ff. ein Dorn im Auge, weil sie durch ihren actio-reactio-Ansatz das NS-Singularitätsdogma und den darauf aufbauenden Machtanspruch der Vergangenheitsbewältigung gefährdet.

Daß Lenin und erst recht Stalin keine russischen Dalai Lamas waren, wissen zwar alle; die Bedrohung Europas durch den bolschewistischen Ideologiestaat aus dem Osten muß aber aktiv beschwiegen werden, um den dialektischen Prozeß, von dem die Geschichte des Zweiten Dreißigjährigen Krieges 1914–1945 wie kaum eine andere Epoche zuvor bestimmt wurde, zu entkoppeln. Das dient zwar nicht dem historischen Verständnis, befördert aber den Tunnelblick auf die deutschen Untaten, mit dem sich auch im 21. Jahrhundert gute Geschäfte und konkrete Politik machen läßt.

Diese selektive, dauerpräsente Vergangenheit darf nicht vergehen. Sie stellt ein wichtiges Instrument dar, auf das auch morgen nicht verzichtet werden kann, soll die Bundesrepublik weiter als ein politisch desorientierter Staat erhalten bleiben, dem die Pflege der deutschen Neurosen wichtiger ist als die Gestaltung der deutschen Zukunft. Deswegen kann es nicht verwundern, daß eben dieses sozialpsychologische Neurosenfeld groteskerweise an Umfang und an Ansteckungskraft in dem Maße zunimmt, wie sich der zeitliche Abstand zum 8. Mai vergrößert.

Die seit bald 70 Jahren währende Dauerbesiegung des Zombies aus Braunau hat freilich ihren Preis: Es ist ein – von dem unablässig rotierenden Freizeit-, Unterhaltungs- und Urlaubskarussell nur mühsam zu übertönendes – Klima der Zukunftslosigkeit in Deutschland entstanden, das durch nichts besser gekennzeichnet wird als durch die Kinderlosigkeit eines Landes, in dem die Attribute deutsch und alt immer häufiger zusammenfallen. Manches spricht dafür, daß die ethnische Abwärtsspirale, in der sich die Deutschen heute befinden, viel zu tun hat mit der mentalen Todessehnsucht, von deren süßlichem Verwesungsduft das unablässige Rattern der Vergangenheitsbewältigungsmaschinerie umschleiert wird.

Die Abwicklung der Deutschen (demographische Implosion und »Umvolkung«) ist dabei nur die letzte Konsequenz eines Geschichtsbildes, das den (Auto-)Genozid der Deutschen seit ca. 1970 als gerechte Strafe für das Geschehen vor 1945 auffaßt. Schließlich kann das abstrakt-moralische Gebot, von deutschem Boden dürfe nie wieder Krieg ausgehen, am besten dadurch erfüllt werden, daß die Deutschen von eben diesem Boden ihrer Väter und Vorväter verschwinden, und zwar endgültig. Bei der Vergangenheitsbewältigung geht es somit um alles andere als um historische Erkenntnis oder um wissenschaftliche Seriosität, es geht um Zukunftsverhinderung, »um die Vernichtung alles dessen, was deutsch ist – was deutsch fühlt, deutsch denkt, sich deutsch verhält und deutsch aussieht« (Armin Mohler).

2261792492.jpgWer als junger Deutscher zu einem solch aberwitzigen »mourir pour Auschwitz« nicht bereit ist, wird gnadenlos mit der »Hitler-Scheiße« (Martin Walser) zugedeckt und läuft Gefahr, als »Heide der Gedenkreligion des Holokaust« (Peter Furth) über Nacht seine sozialen Beziehungen zu verlieren. Denn wer ein Tabu übertreten hat, wissen wir seit Freud, wird selbst tabu. Die dazu erforderliche braune Lava wurde und wird von den Niemöllers, Eschenburgs, Wehlers, Benz’, Knopps e tutti quanti seit Jahrzehnten am Blubbern gehalten. Ein Solitär wie Nolte, der – ganz ohne den Mundgeruch der Bewältigungstechnokraten – die historischen Abläufe 1917ff. nüchtern und mit luziden Zwischentönen analysiert, könnte bei diesem Simplifizierungsgeschäft nur stören.

Es spielt dann auch keine Rolle mehr, daß es gerade Nolte war, der, weil er Hitler verstanden und nicht zu »bewältigen« versucht hat, das geschichtsphilosophisch Einzigartige des NS-Judenmordes präzise herausgearbeitet hat (Der Europäische Bürgerkrieg, S. 514–517). Um die jüdischen Opfer des Nationalsozialismus – darunter eine große Zahl patriotischer Reichsdeutscher, für die das Deutschland des Jahres 2012 einen Alptraum dargestellt hätte – geht es den Matadoren der Vergangenheitsbewältigung ohnehin nicht. Ihr Andenken mißbrauchen sie genauso, wie sie jenes an die Männer schänden, die für das Land der Deutschen als Soldaten ihren Kopf hingehalten haben.

Das selektive Erinnern und das Nichtvergessenwollen erweist sich dabei als der sicherste Weg, eine Zukunft der Deutschen zu verhindern. Denn die Kraft zur geschichtlichen Existenz eines Volkes setzt stets voraus, daß es den Willen hat weiterzuleben. Und diesen Willen kann ein Volk nur dann behaupten, wenn man ihm ein Recht zubilligt, nicht nur mit anderen, sondern zuallererst mit sich selbst in Frieden zu leben. Das wiederum setzt voraus, daß Wunden verheilen und irgendwann ein mentaler Neuanfang stattfindet. Dieser ist indes nur denkbar, wenn zuvor der an allen Orten und zu allen Zeiten ausschlagende »Nazometer« (Harald Schmidt) endlich ausgeschaltet wird. Das Geheimnis der Versöhnung ist eben nicht die Erinnerung, schon gar nicht die sakralisierte und instrumentalisierte Erinnerung der heutigen Hüter unserer Vergangenheit, die sich anmaßen, noch die deutschen Jahrgänge 2000ff. nach dem Pawlowschen Taktstock der Vergangenheitsbewältigung tanzen zu lassen.

Deren Zweck erschöpft sich heute nicht nur in »der totalen Disqualifikation eines Volkes« (Hellmut Diwald); Ziel dieser 27. Januar-Kultur (ausgerechnet Mozarts Geburtstag!) ist es, das seelische Immunsystem der Deutschen – auch an den 364 übrigen Tagen des Jahres – so weit(er) zu zerstören, daß die Deutschen schließlich die ethnische Verabschiedung von ihrem eigenen Grund und Boden, die Zweite Vertreibung der Deutschen, die in vielen Stadtteilen deutscher Großstädte schon weit fortgeschritten ist, mindestens gleichgültig hinnehmen, wenn nicht gar als »Urteil« der Geschichte begrüßen.

Ein altes Kulturvolk Europas, dem die Menschheit in der Musik fast alles, in der neuzeitlichen Philosophie das wesentliche und in den Natur- und Geisteswissenschaften sehr viel zu verdanken hat, wäre dann verschwunden. Ob diese »Endlösung der deutschen Frage« (Robert Hepp) eintritt oder nicht, liegt nicht zuletzt an den Deutschen selbst, denen es freisteht, morgen den Nasenring abzulegen und das zu tun, was für jeden Kirgisen, jeden Katalanen und jeden Kurden selbstverständlich ist: nämlich als Volk frei über die eigene Zukunft zu bestimmen.

Literatur:
Siegfried Gerlich: Ernst Nolte. Profil eines Geschichtsdenker, Schnellroda 2010
Ernst Nolte: Späte Reflexionen, Wien 2011
Ernst Nolte: Italienische Schriften, Berlin 2011

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Syrië & Iran: Een reëel-historische visie

http://omroepodal.podomatic.com/entry/2012-05-03T15_19_10-07_00

http://podcast.radiorapaille.com/show/rapaille-reportages/item/2431-syri%C3%AB-iran-een-re%C3%ABel-historische-visie

Syrië & Iran: Een reëel-historische visie

Geschreven door

Lezing door Robert Steuckers voor NSV! Gent op 08-03-2012

Iran: schurkenstaat en bedreiging voor de wereldvrede of land in isolement gedreven?
Syrië: onderdrukte massa in opstand tegen een dictator of een Egyptische wissel van de wacht?


Voor beide landen zijn de voorbeelden reeds gekend. In Irak zijn 9 jaar na de start van de oorlog nog steeds geen massavernietigingswapens gevonden, laat staan vrede. Libië wacht nog steeds op haar democratie die de NAVO-interventie ze in de schoot zou werpen. Intussen horen we telkens dezelfde verhalen weer terugkomen en dringt de vraag op of we geen self-fulfilling prophecy in de hand werken.


Robert Steuckers is een van de meer ervaren geopolitieke experts van het land. Hij houdt onder andere een blog in zeven talen bij (http://euro-synergies.hautetfort.com/). Tijdens de conflicten in Libië hield hij voor NSV! Hasselt reeds een diepgaande uiteenzetting (http://www.youtube.com/watch?v=Q_nAXrbnP4Y).

Een uitgelezen kandidaat om deze conflictzones toe te lichten!


 

vendredi, 11 mai 2012

Le Procès de Tokyo

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Moestasjrik / “ ’t Pallieterke”:

Le Procès de Tokyo

archive029.jpgNous savions déjà que l’Inde a fourni au casting de la seconde guerre mondiale un personnage très original, Subhas Chandra Bose. L’acte final de la seconde guerre mondiale s’est joué sur un front judiciaire et non plus guerrier avec les procès de Nuremberg et Tokyo, où les vainqueurs ont soumis les vaincus à leur jugement. Lors du procès de Tokyo, c’est un autre Indien qui a ravi la vedette, le juge Radhabinod Pal.

A l’époque, et aussi ultérieurement, de nombreux juristes ont émis des jugements négatifs sur la correction du procès de Nuremberg. Parmi eux, il faut compter Hartley Shawcross, le procureur britannique. Mais il n’a émis ses doutes que plusieurs décennies après la clôture du procès. Le procès de Tokyo, qui s’est tenu d’avril 1946 à décembre 1948, a subi des critiques pendant les assises mêmes par l’un des juges qui y siégeaient. Le tribunal était constitué d’un représentant de chaque pays qui avait été en guerre avec le Japon, soit le Canada, la Nouvelle-Zélande, l’Australie (dont le Président William Webb), la Chine, l’URSS, les Etats-Unis, la France, les Pays-Bas, le Royaume-Uni, les Philippines et l’Inde.

Dès le début du procès, le juge indien Pal, alors âgé de soixante ans, s’est fait remarqué en s’inclinant chaque matin poliment devant les accusés japonais. Le jour où l’on a lu le jugement, il fut l’un des cinq juges à faire connaître une opinion contradictoire. Le juge philippin Delfin Jaranilla, un survivant de la marche de la mort de Bataan, estimait que les peines n’étaient pas assez sévères (un certain nombre d’officiers échappèrent à la peine de mort et furent libérés en 1958). Le Président Webb et le juge français Henri Bernard protestèrent contre la décision américaine de ne pas poursuivre l’Empereur Hiro-Hito, alors que le chef de l’Etat allemand, l’Amiral Karl Dönitz, avait été condamné à Nuremberg. Le juge néerlandais Bernard Röling, pour sa part, estimait que plusieurs questions fort complexes, comme, par exemple, savoir à quel moment exact, la paix avait été rompue et la guerre avait commencé, n’avaient pas été définies correctement sur le plan juridique.

Le rapport, minoritaire, rédigé par le juge indien Pal, compte 1235 pages et contient des critiques bien plus fondamentales. Sa publication a été interdite pendant sept ans par les forces d’occupation américaines. Sur le plan du contenu, ce rapport est composé des deux parties, chacune reposant sur une batterie d’arguments spécifiques: l’une portait sur les faits, l’autre sur la légalité du procès.

Dans son récit factuel des événements de la guerre, Pal sort plusieurs fois des sentiers battus en cherchant parfois très loin des arguments pour “blanchir” les Japonais. Il reconnaît par exemple que des crimes de guerre ont été commis, notamment quand l’armée impériale japonaise a violé Nankin (au propre comme au figuré), mais met en doute la culpabilité des chefs militaires car, ultérieurement, ceux-ci ont toujours pris des mesures pour éviter une telle indiscipline de leurs troupes et de tels débordements. Tout comme les autres juges, il traite surtout des mauvais traitements infligés aux prisonniers de guerre, qu’il minimalise trop en arguant de la nature et de la responsabilité “impérialistes” de leurs pays respectifs. En énonçant ces arguments, Pal oubliait que le Japon n’avait pas seulement maltraité des soldats britanniques ou américains capturés mais aussi et surtout la population civile d’un pays non impérialiste, la Chine. Quant à la catégorie la plus misérable et la plus pitoyable des prisonniers, comme les milliers d’esclaves sexuelles ou “fille de consolation”, pour la plupart coréennes mais aussi néerlandaises, il ne dit mot, pas plus d’ailleurs que le jugement officiel.

Les soi-disant “crimes contre la paix”, commis par le Japon, Pal les rejette d’un revers de la main. L’attaque contre Pearl Harbour est, pour lui, le résultat de provocations américaines avérées, comme l’embargo sur le pétrole, que les Etats-Unis justifiaient comme une mesure de rétorsion contre l’invasion japonaise de la Chine mais qui, en réalité, visait tout simplement à étrangler un concurrent économique. Pal justifie l’agression japonaise contre la Chine comme une démarche nécessaire, vu la pénétration soviétique dans le pays. Pal n’était certainement pas hostile au communisme, car il fera carrière plus tard dans le “Bloc des Gauches” au Bengale, mais, dans son argumentation, il percevait l’URSS comme la puissance qui avait succédé à l’Empire des Tsars, battu par le Japon en 1905; pour Pal, l’URSS, comme la Russie de Nicolas II, était une “puissance blanche”. Son explication était finalement peu convaincante: si le Japon avait voulu combattre la Russie ou le communisme, il se serait rangé du côté des Allemands en juin 1941, quand l’invasion de l’URSS a commencé, un projet qui aurait rapporté certainement plus de fruits que l’attaque contre les Etats-Unis en décembre 1941.

Le deuxième volet de son argumentation est nettement plus solide: ce procès de Tokyo était une farce; concrètement, parce que toute une série de normes juridiques ont été purement et simplement ignorées ou foulées aux pieds, principalement parce qu’il s’agissait d’une “jurisprudence de vainqueurs”.

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Le monument en l'honneur du Juge Pal à Yasukuni au Japon

Les droits de la défense ont été bafoués; les avocats des prévenus n’avaient qu’un accès limité aux dossiers (même s’ils étaient mieux lotis que leurs collègues allemands à Nuremberg, car chaque accusé bénéficiait d’un avocat japonais et d’un avocat américain).

Les accusés et les témoins qui ne comprenaient pas l’anglais devaient signer des déclarations, des aveux ou des témoignages rédigés dans la langue de Shakespeare et qui allaient être utilisés à charge de codétenus après avoir été arrachés sous la torture ou suite à de fausses promesses. Ensuite, il y avait surtout ceci: on poursuivait des hommes sur base de lois rétroactives. Face à n’importe quel tribunal américain, de telles fautes de procédure seraient suffisantes pour acquitter immédiatement l’accusé et l’affranchir de toute poursuite.

Pal plaidait en effet l’acquittement de tous les accusés.

Finalement, ce procès relevait d’une justice fabriquée par les vainqueurs car les normes étaient différentes selon que l’on était vainqueur ou vaincu. Les armées alliées fonctionnaient comme celles de l’Axe et du Japon selon le principe “les ordres sont les ordres” (Befehl ist Befehl) mais leurs officiers n’ont jamais été jugés pour des actes commis suite à des injonctions données par des instances supérieures. Le Japon n’était pas représenté parmi les juges et les crimes de guerre alliés n’ont jamais été jugés. Le juge Pal fut le seul à avoir évoqué le lancement des bombes atomiques sur Hiroshima et Nagasaki. Même si leur lancement a contribué à sauver indirectement de nombreuses vies humaines, comme on l’affirme très souvent, il correspond bel et bien à la définition de “crime de guerre”, notamment parce qu’il visait en toute conscience des objectifs civils. Depuis la “Paix de Westphalie” (1648), on a beaucoup travaillé en Europe à humaniser la guerre, pour remplacer le droit du plus fort par un véritable système de droit international, notamment via les conventions de Genève et de La Haye et l’oeuvre neutre de la Croix-Rouge. Les procès de Nuremberg et de Tokyo ne sont nullement une étape complémentaire dans ce processus d’humanisation de la guerre mais constitue clairement une rupture dans cette évolution positive. Selon Radhabinod Pal, ces procès constituent un façade cynique et pseudo-juridique derrière laquelle les vainqueurs imposent butalement leur volonté et se dotent d’une jurisprudence spéciale pour masquer leurs propres exactions.

MOESTASJRIK.

(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 2 novembre 2005; trad. franç., avril 2012).

jeudi, 10 mai 2012

Jésus au Cachemire?

Moestasjrik / “’t Pallieterke”:

Jésus au Cachemire?

carte.gifUn récit traditionnel évoque parfois la présence des tribus perdues d’Israël sur le territoire afghan actuel. D’autres parlent de leur présence au Cachemire voisin, où, dit-on, elles auraient reçu la visite d’un certain Jésus de Nazareth. Telle était, de toutes les façons, la thèse d’un aristocrate russe, Nicolaï Notovitch qui l’a consignée dans un ouvrage “Le Voyage de Jésus au Cachemire et ses prêches aux tribus perdues d’Israël”, publié en 1890 après une expédition aventureuse dans l’Himalaya. Notovitch affirmait qu’il avait trouvé un manuscrit de la main même de Jésus dans un monastère lamaïste du Ladakh, la partie ethniquement tibétaine du Cachemire.

Selon Notovitch, Jésus aurait voyagé entre sa treizième et sa vingt-neuvième année à travers l’Iran, se serait rendu auprès des communautés juives d’Afghanistan puis aurait visité les sites sacrés de l’Inde. Il y aurait étudié les traditions les plus profondes, parfois pour les reprendre à son compte mais aussi, plus souvent, pour les rejeter car, tout comme les Pharisiens de Palestine, les sages de l’Orient l’auraient considéré comme un polémiste original et innovateur. Jésus aurait ainsi rejeté le système indien des castes, ce qui confèrerait à sa pensée une dimension égalitaire et finalement très moderne, trop moderne, dirions-nous, pour ne pas être suspecte. Ce n’est qu’après avoir littéralement fait le plein de savoir que Jésus est revenu en Palestine, où il a commencé son étonnante carrière de “Messie”. Ses mémoires sur ses années de formation en Orient, il les aurait laissées dans la bibliothèque d’un monastère, où Notovitch les aurait vues dix-huit siècles plus tard. Jusqu’à présent, Notovitch aurait donc été le seul à les avoir vus, car personne n’a plus jamais retrouvé ultérieurement ce fameux manuscrit.

Le récit de voyage de Notovitch a été immensément populaire dans les cercles qui s’adonnaient à la théosophie, sorte de doctrine mélangeant bouddhisme et christianisme, dont est issu l’actuel mouvement “New Age”. La thèse de Notovitch y est considérée comme une preuve du statut de gourou de Jésus, un gourou qui se mettait en travers de toutes les religions institutionalisées et se plaçait ipso facto dans la communauté mondiale des “Maîtres de la sagesse”. Jésus est ainsi dépouillé de son aura de “Fils de Dieu” pour devenir, plus simplement, un des guides qui nous mènent vers le sentier d’une spiritualité universelle. Ainsi, Jésus aurait dit aux prêtres du culte du feu en Iran, en des termes très anarchisants et très “New Age”: “Tant que le peuple n’avait pas de prêtres, les âmes de ses fils étaient en Dieu”. Voilà qui est clair: pas besoin d’église, il faut directement “expérimenter Dieu”.

Pourtant, le manuscrit que Notovitch aurait vu au Ladakh contient des détails qui ne vont nullement dans le sens du message théosophique d’ “une profonde unité de toutes les religions”, du moins selon les termes qu’en rapporte l’aristocrate russe. Ainsi, Jésus aurait lancé une polémique contre la doctrine de la réincarnation. C’est logique: la réincarnation implique que la mort n’est qu’une phase intermédiaire et sans importance qui “passe” sans effort, tandis que la Bible pose la mort comme un problème central, notamment comme une punition suite au péché originel, tant et si bien que la mission de Jésus consiste à surmonter la mort. Les adeptes du New Age affirment au contraire que “les premiers chrétiens croyaient eux aussi à la réincarnation”, jusqu’au jour où “l’Eglise autoritaire et patriarcale de Rome” décida de combattre cette croyance pour des motifs purement intéressés et vénaux.

Cependant, le récit de Notovitch ne se termine pas par le retour de Jésus vers sa terre natale. Après sa résurrection, il aurait désigné Pierre comme son représentant, son pape, et serait retourné en Orient. Il se serait installé au Cachemire où il serait mort de sa belle mort à l’âge de 115 ans. Depuis lors, ou du moins depuis un changement de tombeau, ses restes reposeraient au mausolée de Rauzabal à Srinagar. Cette ville est aujourd’hui le théâtre permanent d’attentats à la bombe et de tirs entre factions rivales mais toute personne qui a le goût de l’aventure peut aller s’incliner, là-bas, sur le tombeau du Christ. Le corps est soustrait aux regards et déposé dans un cercueil car, autrement, craignent les musulmans, les chrétiens pieux pourraient se mettre à le manger, s’ils interprètent au sens large le sacrement de l’eucharistie.

Que Jésus, après sa vie publique, serait revenu au Cachemire et qu’il y repose, est aussi la thèse d’un philosophe local, Mirza Ghulam Ahmad de Qadian qui l’a consignée dans un petit livre, “Jésus en Hindoustan” (1899). Dans cet ouvrage, la légende a des implications politiques. Lorsqu’Ahmad a entendu parler du récit de Notovitch, il a aussitôt compris qu’il pouvait le solliciter pour se conférer personnellement la dimension d’un prophète. Le problème qui tourmentait Ahmad, c’est que, selon l’islam, Mohammed est le prophète définitif; après lui, aucun autre prophète ne viendra. Il n’y a pas de “postcriptum” possible dans le Coran! Ensuite, tous les prophètes que reconnaît l’islam ont vécu au Proche-Orient. La présence de Jésus en Inde pouvait prouver, au moins, que ce pays, à son tour, était un lieu idoine pour accueillir un prophétisme. Et cela appuyait la revendication d’Ahmad de devenir prophète à son tour.

Cela ne l’a guère aidé car ses disciples, les “ahmadijjas” ou “qadianis” sont poursuivis au Pakistan en tant qu’hérétiques. Cela ne signifie pas pour autant qu’ils sont de pauvres brebis innocentes: souvent, ils désespèrent de ne pouvoir prouver à la masse des musulmans de la région qu’ils entendent pratiquer un islam plus pur et, pour compenser cette frustration, ils se montrent très souvent plus fanatiques que les autres à l’endroit des non-musulmans. Les musulmans ne les considèrent pourtant pas comme des coreligionnaires, malgré la légitimité qu’ils cherchent à se donner via Jésus (rappelons aussi que les musulmans rejettent le seul Prix Nobel de physique qui soit “musulman”, le Pakistanais Abdus Salma, parce qu’il est un “ahmadijja”).

Quel est le résultat de tout cela? Nous avons donc un noblion russe égaré, qui découvre un manuscrit qui devrait bouleverser le monde entier, mais ne le laisse voir à personne. Nous avons ensuite un musulman narcissique qui utilise un récit nouveau sur la vie (et la mort) de Jésus pour justifier sa propre prétention à devenir l’envoyé de Dieu. Bref: nous avons là un cas classique de folie religieuse ou, plutôt, de folie privée que l’on affuble d’oripeaux religieux. L’affaire Notovitch-Ahmad est un exercice réussi, le premier dans la liste, où des imaginations fertiles ont cherché à ébranler les convictions religieuses conventionnelles. Ce fut bien une variante antérieure de la démarche qui sous-tend le “Da Vinci Code”.

MOESTASJRIK.

(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 8 mars 2006; trad. franç.: avril 2012).

 

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mercredi, 09 mai 2012

La Hongrie de Horthy: une monarchie sans roi

 

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Erich KÖRNER-LAKATOS:

La Hongrie de Horthy: une monarchie sans roi

Miklos Horthy ou un militaire de petite noblesse qui rêvait d’occuper le trône de Saint-Etienne

NAZIPORT0326.jpg“Il est vrai que je n’ai jamais pensé à une dynastie Horthy et je ne peux que déplorer le fait que certains cercles, en Hongrie, affirment qu’une telle pensée aurait pu exister”. Telles sont les paroles qu’a couchées sur le papier le régent du royaume Miklos Horthy dans ses mémoires, où il exprime son point de vue sur l’éventuelle fondation d’une dynastie. Les faits sont pourtant différents. Très tôt, le régent a cultivé l’idée d’assurer dans le futur le pouvoir aux siens, et surtout à son fils Istvan qu’il adulait. Son épouse Magdolna, très ambitieuse, et la camarilla qui l’entourait confortaient le régent dans ses intentions.

Le 1 mars 1920, l’assemblée nationale de Budapest élit l’ancien amiral comme chef d’Etat provisoire. Avant même de prononcer son serment de régent du royaume, il réclame un élargissement de ses prérogatives, ce que le parlement lui accordera pas à pas.

Dès le 19 août 1920, le régent du royaume obtient les droits d’accorder l’amnistie et d’engager la Honved (l’armée) en dehors des frontières en cas de crise. Six ans plus tard, le Parlement, autrement dit la Diète constituée de deux chambres, accorde au Chef de l’Etat provisoire une autre prérogative régalienne: le droit de nommer une partie des membres de la Haute Assemblée. A partir de 1933, Horthy peut ajourner la Diète de l’assemblée populaire “aux calendes grecques”. Quatre ans plus tard, la Diète renonce à son droit de demander des comptes au régent au cas où il enfreindrait les règles constitutionnelles. La personne Horthy est désormais “sacrée et inviolable”.

De cette façon, la Hongrie s’était dotée d’une sorte de “roi de remplacement”, auquel, pourtant, on n’avait pas accordé trois prérogatives: Horthy ne disposait pas du “droit de patronage” sur l’Eglise romaine du pays, ne disposait pas du droit d’annoblir des sujets hongrois et son office n’était pas héréditaire.

Le droit de patronage sur l’Eglise ne semblait pas intéresser le calviniste qu’était Horthy, même si le droit de parole qu’il impliquait en cas de changement de personnel, notamment quand il s’agissait d’accorder des sièges d’évêchés, pouvait procurer un pouvoir appréciable. Ce représentant de la “gentry” hongroise semble avoir été davantage géné par l’interdiction d’annoblir ou d’octroyer des titres plus importants aux nobles qu’il estimait méritants. Le terme “gentry”, que j’utilise ici à dessein, est repris de l’anglais et désigne, au 19ème siècle, la petite noblesse de Hongrie, laquelle, bien qu’appauvrie, tient à conserver son style de vie et considère toute participation triviale à la vie économique comme indigne de son rang.

Pour cette raison, Horthy crée l’Ordre des Héros (“Vitézi Rend”). Ne peuvent en devenir membres que les anciens combattants décorés qui sont réputés farouches patriotes. Cette nouvelle “noblesse” de remplacement se réparti en trois niveaux: les officiers, les soldats et les postulants. Ces derniers ne sont donc pas des membres à part entière de l’Ordre mais détiennent en quelque sorte un statut d’ “aspirant”. Dans le cadre d’une cérémonie d’allure médiévale, dont la première se déroulera le 22 mai 1921 dans la citadelle royale, le Maître de l’Ordre, Horthy lui-même, confère la dignité de “héros” à ceux qu’il adoube “Chevalier” en leur posant l’épée sur l’épaule. Au début de l’année 1943, il y a déjà 4342 Héros du rang d’officier, 11.189 Héros du rang de soldat et environ 8000 aspirants.

L’appartenance implique plusieurs prérogatives. Le Héros peut, par exemple, faire précéder son patronyme du terme de “Vitéz” (“Héros”). Ensuite, il se voit accorder un patrimoine immobilier héréditaire inaliénable et indivisible, qui ne sera transmis qu’à son seul fils aîné. Les officiers de l’Ordre peuvent donc bénéficier de fermes-châteaux avec terres adjacentes d’une dimension de près de 50 “jougs cadastraux” (le “joug cadastral” hongrois équivalait à 0,5754 ha, soit 5754 m2). Les Soldats de l’Ordre devaient se contenter de dix à quinze “jougs cadastraux”.

Les Héros ne sont toutefois pas considérés comme “pairs” par les anciens aristocrates. La taille des biens immobiliers et des terres accordées ne peut que faire sourire avec condescendance les barons et comtes installés depuis toujours, pour ne pas parler des 200 familles de “magnats” comme les Esterhazy, les Schönborn ou les Cobourg-Gotha, dont les terres sont immenses.

Les idées qui hantent le vieux régent du royaume concernent surtout la question de l’hérédité de sa charge. A la fin de l’automne 1941, le Cardinal Justinian Serédi, archevêque de Gran (Esztergom) et donc primat-prince de Hongrie, remarque suite à une conversation avec Horthy: “J’ai appris des paroles mêmes du Régent du Royaume qu’il souhaiterait, pour sa fonction (celle du “représentant”, du “stathouder” avec droit de transmission héréditaire), que celle-ci soit transmissible à son propre fils Istvan; car il m’a dit, et pas seulement comme s’il évoquait une image ou un exemple, que celui qui possède une maison aime toujours qu’après sa mort celle-ci aille à ses enfants; il a même ajouté qu’il aimerait transmettre sa fonction de régent du Royaume à son fils”.

Miklos Horthy s’est aussi adressé par lettre à son premier ministre Laszlo Bardossy qu’il considérait comme bon que le parlement élise bientôt un “stathouder”, “cum iure successionis” (avec droit de succession).

Le 9 février, le premier ministre dépose un projet de loi. A cause de la résistance de la haute noblesse et de l’église, la clause de succession a été omise dans le texte. Les deux chambres acceptent à l’unanimité le projet de loi et, le 19 février, la Diète élit, sans aucune surprise, Istvan Horthy comme “réprésentant du régent”. L’élection est suivie d’applaudissements généralisés et de cris “Eljen”, “Qu’il vive!”.

Le porteur potentiel de la plus haute fonction de l’Etat doit, selon son père, faire ses preuves au front. Istvan Horthy est un pilote chevronné: il s’engage dans les forces aériennes. Il meurt, victime d’un accident, dans les premières heures du matin du 20 août 1942, sur le terrain d’aviation de la 2ème Armée hongroise à Alexeïevka.

Mais la famille n’abandonne pas le projet caressé par le régent Miklos Horthy. Dans les vitrines des magasins de Budapest, on pouvait voir des photos de la veuve d’Istvan Horthy avec son fils, Istvan junior, à peine âgé de deux ans, flanquées du texte “Mindent a hazaért!”, “Tout pour la patrie!”. Le jeune enfant est au centre des discussions dynastiques. Il faudrait, disent ses partisans, qu’il se convertissent à la foi catholique pour qu’il soit ensuite couronné roi ou prince de Hongrie.

Dans l’ébauche d’une loi sur la pérennisation du souvenir du vice-régent Istvan Horthy, nous trouvons le passage suivant: “Après les familles des Arpad, des Anjou et des Hunyadi, le destin nous a envoyé la famille Horthy...”, ce qui suscite de nouvelles polémiques. Après que le Prince-Primat Serédi ait déclaré au régent du royaume qu’il prendrait position contre ce projet de loi à la Chambre Haute de la Diète et que, par-dessus le marché, il appelerait l’opinion publique à exiger le couronnement d’Otto de Habsbourg, Miklos Horthy abandonne définitivement ses ambitions dynastiques en octobre 1942.

Exactement deux ans plus tard, le vieux régent perd sa fonction. Sous la contrainte, car les Allemands maintiennent en détention son fils cadet Miklos, Horthy signe le soir du 15 octobre 1944, une déclaration de démission rédigée en allemand: “Aux présidents des deux Chambres, par la présente, je déclare avoir pris la décision, en cette heure fatidique de l’histoire hongroise, et dans l’intérêt d’une belligérance optimale, de l’unité intérieure et de la cohésion de la nation hongroise, de me retirer de mon poste de régent du royaume. J’ai chargé Monsieur Ferenc Szalasi de former un nouveau gouvernement d’unité nationale”.

Le 4 novembre 1944 a lieu la cérémonie de la prestation de serment dans la salle de marbre blanc de la citadelle de Buda. Les membres des deux Chambres de la Diète, présents à Budapest, et parmi eux l’ancien régent du royaume, l’archiduc Joseph de Habsbourg, assistent à la cérémonie en tenue d’apparat. Les gardes du corps de Horthy défilent. Alors Ferenc Szalasi prête serment, dans un costume civil usé, avec une chemise verte et une cravate de même couleur, le chapeau à la main, devant la couronne de Saint Etienne. En dehors de la citadelle, l’ambiance est toute différente: dans le lointain, on entend distinctement tonner les canons soviétiques.

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°40/2005; trad. franç.: avril 2012; http://www.zurzeit.at/ ).

 

Keine US-Atombomben im Juli/August 1945!

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Keine US-Atombomben im Juli/August 1945! 

220 Seiten - Leinen - 110 Abbildungen

ISBN 978-3-87847-268-1

Kurztext:

Dieses Buch enthüllt ein seit Kriegsende von den Siegermächten streng gehütetes Geheimnis des deutschen Untergangs 1945.Die sofortige Geheimhaltung der bei Kriegsende in Mitteldeutschland erbeuteten nuklearen Hochtechnologie wurde mit der lapidaren Behauptung »die US-Army hat nichts gefunden« verbunden. Die Untersuchung des historischen Sachverhaltes bestätigt jetzt eine von den USA inszenierte und seit 1945 gepflegte Falschdarstellung der Atombomben-Entwicklungsgeschichte. Die Reichsregierung hatte sich felsenfest auf den von der Wissenschaft zugesicherten Besitz der Atombombe verlassen. So wurde  die Entwicklung der ›Siegeswaffe‹ gegenüber der eigenen Bevölkerung bis zum Kriegsende streng geheimgehalten. Als der Zusammenbruch kam, bevor die Atombomben eingesetzt wurden, brauchte  die Geheimhaltung der deutschen Atombombe von den USA lediglich fortgeführt zu werden.

Das Buch räumt mit bisherigen Ansichten zur Frühzeit der Atombomben auf und zeigt, wie das offizielle Amerika die Zeitgeschichte in einem wichtigen Bereich fälschte.  

Klappentext:

Für Jahrzehnte stand es nach dem Zweiten Weltkrieg fest, daß die USA die bei den auf Hiroshima und Nagasaki abgeworfenen Atombomben in Oak Ridge bauten und damit den Deutschen, die auch an der Entwicklung dieser Waffe arbeiteten, zuvorkamen. Die deutschen Physiker seien an dem Problem der Anreicherung von Uran 238 gescheitert und hätten bis Kriegsende keine fertigen Atombomben zusammengebracht. Doch in jüngster Zeit melden sich Zweifel an dieser Ansicht.

Mehrere Autoren haben in der jüngeren Vergangenheit aus gewissen Hinweisen und Berichten von Zeitzeugen auf die Existenz der deutschen Atombombe geschlossen. Manche Indizien sind ohne diese Annahme schwer zu erklären. Aber handfeste Beweise lagen kaum vor. Solche will Peter Brüchmann vorlegen. Er hat die offiziellen Verlautbarungen der Alliierten gesammelt, die Widersprüche in ihnen aufgedeckt und die Tatsachen aus der westlichen Presse zusammengetragen. Sie vermitteln nach seiner Ansicht ein falsches Bild von der damaligen Wirklichkeit um die Atombomben und versuchen, gezielt eine Legende zum Ruhme der USA zu verbreiten. 

Das Buch räumt außerdem mit einer Reihe Legenden auf. So hatte es sich bei den drei Bomben um keine Plutonium-Anordnung gehandelt. Die Bomben sind an Fallschirmen, was sonst immer verschwiegen wird, in die richtige Entzündungshöhe über den japanischen Städten gebracht worden. 

Der Autor hat als Sohn eines Wehrmachtbeamten bereits während des Zweiten Weltkrieges Kenntnisse über den technischen Entwicklungsstand der deutschen Atombombe erhalten. Der Vater Wilhelm Brüchmann hatte als KVOI (Kriegsverwaltungs-Oberinspektor, später Amtmann) den Rang eines Hauptmanns und die Aufgabe, die Kosten innerhalb der Standorte von Geheimwaffen-Hochsicherheitsanlagen zu kontrollieren und finanzbehördlich zu bearbeiten. Seine sensationellen Kenntnisse über die technischen Unzulänglichkeiten der im Prinzip abwurfbereiten deutschen Atombomben konnten vom Autor aufgearbeitet und voll bestätigt werden.
 
Dieser konnte für seine Forschungen seine ingenieurtechnischen Kenntnisse mit seinen privaten Verbindungen in die USA kombinieren. Erst kürzlich nutzte er seine Kontakte, um weitere Hinweise auf die Erbeutung der deutschen Atombomben im April 1945 durch US-Spezialkommandos aufzuspüren. Überraschend ergab sich dabei, daß die Amerikaner die gesamte erbeutete deutsche Hochtechnologie samt mindestens drei fertigen Atombomben gegenüber der Welt als ihre eigene, exklusive Entwicklungsarbeit ›verkauft‹ haben. Tatsächlich begann die Geschichte der Atombombe in Amerika erst mit dem Funktionstest einer der deutschen Beutebomben am 16. Juli 1945. Nachdem den Amerikanern die erfolgreiche Explosion gelang, haben sie die beiden anderen Bomben auf Japan abgeworfen.

Über den Autor:

Peter Brüchmann, geboren 1931. Luftfahrt-Pensionär. Knapp 40 Jahre aktive Tätigkeit als Versuchsingenieur in der militärischen und zivilen Luftfahrtindustrie sowie als Technischer Lehrer (Fachbereichsleiter) bei einem der weltgrößten Luftverkehrs-Unternehmen. Der Autor veröffentlichte zahlreiche Beiträge zu deutschen und ausländischen Fachmagazinen und schrieb Fachbeiträge (luftfahrttechnische Forschungsaufträge für das Bundesverkehrsministerium und das Luftfahrt-Bundesamt (LBA). Er ist Mitautor im Studienbuch Technologie des Flugzeuges seit dessen Erstauflage (letzte Revision 2007), ISBN 3-88064-159-5. Er hat im Selbstverlag ( BoD) zwei weitere Sachbücher mit Fragen zur Erdgeschichte herausgegeben: Warum die Dinosaurier starben ISBN 13 978-3-8311-4213-2, (2004) sowie Mars und Erde, Katastrophenplaneten, ISBN 13-978-3-8334-4053-3, (2007). Beide Bücher werden seit einigen Jahren auf den internationalen Buchmessen in Leipzig und in Frankfurt am Main präsentiert. Für das wissenschaftliche Magazin Synesis (EFODON) schrieb er seit 2000 bisher weitere zehn Abhandlungen zu ungelösten geotechnischen Problemen der Erdgeschichte.

mardi, 08 mai 2012

"Vendée, du génocide au mémoricide" : entretien avec Reynald Secher

"Vendée, du génocide au mémoricide" :

entretien avec Reynald Secher

mercredi, 02 mai 2012

Une maîtresse imprévisible

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Une maîtresse imprévisible

par Georges FELTIN-TRACOL

En 1988, Dominique Venner, futur responsable de la Nouvelle Revue d’Histoire, publiait chez Plon Treize meurtres exemplaires, un ouvrage consacré à l’assassinat de treize personnalités politiques du XXe siècle. Vingt-quatre ans plus tard, il réédite le livre dans une version revue, corrigée et augmentée chez un nouvel éditeur plein d’avenir, Pierre-Guillaume de Roux, fils du célébrissime écrivain et éditeur anticonformiste Dominique de Roux.

Dominique Venner a remplacé les chapitres sur une bavure du Mossad en 1973 contre Ahmed Bouchiki et l’assassinat toujours  inexpliqué de Jean de Broglie en 1976 par l’attentat contre Hitler en juillet 1944 fomenté par le colonel von Stauffenberg et par la disparition – qui laisse perplexe – de son ami François de Grossouvre « suicidé » en avril 1994 dans son bureau de l’Élysée. Il a aussi tenu à y adjoindre un prologue et un épilogue explicatifs et en a modifié l’intitulé, « Treize meurtres exemplaires » devenant le sous-titre de L’imprévu dans l’Histoire.

En fin historien et ayant lui-même jadis envisagé d’abattre Charles de Gaulle pendant la Guerre d’Algérie comme il l’écrivit dans le merveilleux Cœur rebelle (1994), Dominique Venner s’intéresse aux attentats contre des personnes connues. En effet, à part le cas de Grossouvre, les douze choix du livre appartiennent à un mode opératoire qu’on désigne habituellement comme du terrorisme même si, ici, les actes ne concernent que des victimes individuelles et non des masses comme pour le 11 septembre 2001. À l’exception de John Fitzgerald Kennedy, son étude se concentre sur des événements européens quand bien même Léon Trotsky est exécuté à Mexico et que l’amiral Darlan meurt à Alger, à l’époque ville française.

On note une répartition équilibrée des sujets traités : trois pour la Russie (Pierre Stolypine, Raspoutine, Trotsky), quatre pour le monde slave si on y ajoute la mort d’Alexandre de Yougoslavie à Marseille en 1934 par des militants croates soutenus par les redoutables partisans de l’O.R.I.M. (Organisation révolutionnaire intérieure macédonienne); trois pour la France (Gaston Calmette, Darlan et Grossouvre), voire quatre avec l’exécution à Paris en 1941 de l’aspirant Moser par des communistes; trois pour l’Allemagne et le monde germanique (François-Ferdinand à Sarajevo, Walter Rathenau en 1922, Stauffenberg), quatre avec Moser. Il y a enfin les États-Unis avec J.F.K. en 1963 et, pour l’Italie, Aldo Moro en 1979.

Ce n’est pas par hasard si Dominique Venner a pris ces exemples. Il les inscrit dorénavant dans l’imprédictibilité de l’histoire. L’histoire n’est pas une science dure, mathématique, logique et causaliste. Clio est une maîtresse imprévisible, irascible et impétueuse pour les civilisations, les peuples et les êtres. Hormis les questions démographiques, les prévisions des historiens ne se réalisent que très rarement, d’où leur réputation de « prophètes du passé » ! L’histoire est le domaine de l’hétérotélie, terme forgé par Jules Monnerot pour désigner des résultats contraires à ce que l’on désirait. Oui, l’histoire est toujours inattendue parce qu’elle est l’amante du Kairos, de ce moment décisif, qu’il faut saisir immédiatement. Pour s’approprier cet instant crucial, il importe de posséder des qualités fondamentales. « Un certain héritage historique et culturel, la fortune (l’inattendu) et la virtù sont les déterminants majeurs que l’on peut voir à l’œuvre derrière tous les grands événements de l’Histoire, plaide Dominique Venner (p. 268). »

Certains cas qu’il examine le prouvent aisément. Dominique Venner ne cache pas son admiration pour Stolypine, le Premier ministre de Nicolas II de Russie de 1906 à 1911. Ce traditionaliste réformateur s’opposa aussi bien aux révolutionnaires rouges qu’aux réactionnaires noirs. Très au fait des équilibres continentaux, sa présence à l’été 1914 lors de la crise entre la Serbie et l’Autriche-Hongrie aurait peut-être permis de temporiser l’antagonisme entre Belgrade et Vienne et de contenir le bellicisme germanophobe de certains milieux russes. Stolypine aurait pu s’appuyer sur le Français Joseph Caillaux, certainement président du Conseil si celui-ci n’avait pas été contraint de démissionner à la suite de l’assassinat du directeur du Figaro, Gaston Calmette, le 16 mars 1914, par Henriette Caillaux, son épouse lasse des attaques incessantes et vénéneuses contre son ministre de mari. L’historien féru d’uchronies peut même se demander si la survie de Raspoutine n’aurait pas incité Nicolas II à imposer aux belligérants une paix des braves comme le suggèrent Jacqueline Dauxois et Vladimir Volkoff dans leur étonnant roman Alexandra (1994).

Les assassinats de Stolypine, de Calmette et de François-Ferdinand démontrent qu’il y a bien un « effet-papillon » en histoire, terrain propice à la théorie du chaos. La disparition d’une personnalité-clé peut avoir des répercussions considérables dans le monde… L’inattendu est le synonyme de la tragédie et celle-ci n’œuvre pas que dans le terrorisme. Ainsi, Ernst Jünger a-t-il souvent médité sur la catastrophe estimée impossible du Titanic en 1912. Pour lui, ce naufrage annonçait la tendance titanesque du nouveau siècle.

On ne détaillera pas, même succinctement, les treize meurtres politiques décrits par Dominique Venner. On se permettra en revanche d’émettre quelques critiques. Il est dommage, concernant Darlan, que l’auteur ne mentionne pas l’extraordinaire De Gaulle et Giraud : l’affrontement, 1942 – 1944 (2005) de Michèle Cointet qui démêle avec brio la grande complexité politique de l’Afrique française du Nord en novembre – décembre 1942. On notera que l’enlèvement et l’assassinat d’Aldo Moro restent obscurs. Dominique Venner peut n’avoir pas pris connaissance des thèses situationnistes et/ou d’ultra-gauche qui avancent avec une argumentation probante, la manipulation des groupes armés d’extrême droite et d’extrême gauche par l’O.T.A.N. et certains cénacles occultes liés à l’État profond U.S. Par ailleurs, ce même État profond est largement impliqué dans l’élimination de John Fitzgerald Kennedy. Lee Harvey Oswald et le complot soviéto-cubain ne sont que des leurres, des couvertures, qui masquent l’immense et néfaste influence bankstériste à Washington.

Nonobstant ces quelques désaccords, L’imprévu dans l’Histoire doit être lu et médité non seulement pour le XXe siècle, mais aussi et surtout pour le XXIe. Les attentats contre Rathenau, Alexandre de Yougoslavie et Trotsky sont le fait d’hommes (et de femmes !) déterminés, prêts à sacrifier leur vie pour leur cause; ils sont les grains de sable qui entravent la « grande roue de l’histoire ». Ils sont les vecteurs de l’aléa. Or « penser l’inattendu serait un sujet de réflexion philosophique aussi utile que celui de penser la guerre (p. 268) ». Cet ouvrage nous ouvre enseigne donc une philosophie de l’histoire immédiate, celle des chocs entre la foi, les mémoires et les identités.

Georges Feltin-Tracol

Dominique Venner, L’imprévu dans l’Histoire. Treize meurtres exemplaires, Pierre-Guillaume de Roux (41, rue de Richelieu, F – 75 001 Paris, www.pgderoux.fr), 2012, 272 p., 22 €.


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mardi, 24 avril 2012

Je Suis Partout - Anthologie (1932-1944)

Vient de paraître : Je Suis Partout - Anthologie (1932-1944)

 
Ex: http://lepetitcelinien.com/

La dernière production des éditions Auda Isarn s'intéresse à Je Suis Partout en proposant une anthologie de cet hebdomadaire paru entre 1932 et 1944.
 
Comme le rappelle Philippe d'Hugues, auteur de la préface de cet ouvrage de près de 700 pages, le journal fasciste, antisémite et antidémocratique a réussi à connaître un large succès, le tirage s'élevant à "70 000 exemplaires à la veille de la guerre, plus de 300 000 à la veille de la Libération, avec un pic à 350 000 au printemps 1944." Succès qui s'explique en partie par les rubriques littéraires et cinématographiques : "Il faut dire qu'il y avait matière à satisfaire les plus exigeants : romans et nouvelles de Marcel Aymé, André Fraigneau, La Varende, René Barjavel, Pierre Véry, Jacques Decrest, Pirandello, Moravia, Malaparte, Jean de Baroncelli, Albert Paraz, Gaston Derycke (futur Claude Elsen), pièces de Jean Anouilh ou de Drieu La Rochelle, chroniques d'Emile Villermoz, André Thérive, Michel Mohrt, François Charles Bauer (futur François Chalais), reportages de Lucien Rebatet [...] et n'oublions pas une attraction de poids : la chronique cinématographique de François Vinneuil alias Rebatet."

De Louis-Ferdinand Céline, il y est question à plusieurs reprises dans ces archives : de la simple citation dans l'article de Ralph Soupault du 21 janvier 1944, à la publication d'un extrait d'une lettre de Céline adressée au journal et publiée le 9 juillet 1943 pour accuser la bourgeoisie française du désastre de 1940, c'est Lucien Rebatet qui laisse le plus de place au Céline pamphlétaire : d'abord en 1938 où il évoque les différentes réactions d'hostilité à la publication de Bagatelles pour un massacre, puis en 1939 dans un article intitulé "L'antisémitisme d'aujourd'hui et de demain", dans lequel il se flatte du grand succès de librairie de Bagatelles ; Enfin, dans un long article de mars 1944, le "prodigieux Céline" à la "verve géniale de visionnaire" est mis en avant dans un passage sur la recension des talents français. Toujours attachés aux écrits politiques de Céline,  Pierre Drieu La Rochelle, Pierre-Antoine Cousteau prennent la défense de Céline dans deux articles de 1938 et 1943. Une compilation qui intéressera les lecteurs souhaitant faire une plongée, du côté des vaincus, dans cette période mouvementée et trouble...

M.G.
Le Petit Célinien, 15 avril 2012.
 
Je Suis Partout, Anthologie 1932-1944, Editions Auda Isarn, 2012. ISBN 978-2-917295-35-9.
Commande auprès de l'éditeur (30 €, port gratuit) : Auda Isarn, BP 90825, 31008 Toulouse cedex 6. Chèque à l'ordre d'Auda Isarn.

dimanche, 22 avril 2012

Das amerikanische Konzept zur Sicherung der Westbindung Deutschlands nach 1945

Der neue Scheil: Das amerikanische Konzept zur Sicherung der Westbindung Deutschlands nach 1945      

Geschrieben von: Simon Meyer   

 http://www.blauenarzisse.de/

 

Ernst Jünger notierte am 11. April 1945 angesichts der in Kirchhorst einrückenden amerikanischen Kolonnen in sein Tagebuch: „Von einer solchen Niederlage erholt man sich nicht wieder wie einst nach Jena oder Sedan. Sie deutet eine Wende im Leben der Völker an, und nicht nur zahllose Menschen müssen sterben, sondern auch vieles, was uns im Innersten bewegte, geht unter bei diesem Übergang.“ Nicht nur die künftige Machtlosigkeit dessen, was nach dem Krieg an deutscher Staatlichkeit in den verschiedenen Teilstaaten übrig bleiben sollte, nimmt Jünger hier vorweg. Auch die künftige innere Loslösung der Deutschen von allen Wurzeln mag er bereits geahnt haben, als die amerikanischen Panzer an ihm vorüberratterten.

Neufassung der territorialen und intellektuellen Landkarte

Und das seismographische Gespür Jüngers sollte nicht trügen. Insbesondere die einzige echte Siegermacht der Westalliierten, die USA, wollte die Chance nicht wie nach dem Ersten Weltkrieg ungenutzt lassen. Eine völlige Umgestaltung nicht nur der territorialen sondern auch der intellektuellen Landkarte der besiegten Nation Deutschland sollte herbeigeführt werden. Jedenfalls soweit diese ihrem Machtbereich unterlag.

Stefan Scheil, als Autor bisher vor allem zur Geschichte des Ausbruchs und Verlaufs des Zweiten Weltkrieges hervorgetreten, beschreibt in seiner neuesten Studie umfassend die Maßnahmen, die seitens der USA in die Wege geleitet wurden, um nach dem militärischen Sieg einen Wechsel der Eliten bzw. der Denkweise der Eliten in Westdeutschland und auch in Österreich herbeizuführen. Der Plan ging dabei weit über die Beseitigung des Nationalsozialismus hinaus, den die Deutschen nach der militärischen Niederlage ohnehin selbst vollzogen hätten. Auf den Punkt gebracht: das deutsche Sonderbewußtsein als Nation zwischen Ost und West, der metaphysische Anker des alten Europas, sollte komplett aus den Köpfen verschwinden.

Die Umgestaltung des Bildungswesens

Das amerikanische Programm war von langer Hand geplant. Es setzte bereits vor der Kapitulation in den Kriegsgefangenenlagern ein, wo geeignet erscheinende deutsche Kriegsgefangene für eine Mitwirkung rekrutiert wurden. Nach der Kapitulation entfaltete es sich sodann in einem Umfang, wie es in der Geschichte des Umgangs mit besetzten Staaten bislang noch nicht durchgeführt worden war. Vor allem der Bildungsbereich im weitesten Sinne sollte im Sinne der Siegermacht durchdrungen werden, um die Umgestaltung der Denk- und Lebensweisen der Besiegten im amerikanischen Sinne zu gewährleisten. Nach der Erlangung der tatsächlichen Gewalt begann die Siegermacht daher mit einem umfassenden Programm zur Neuordnung des gesamten Schul- und Universitätswesens. Das Bildungswesen im weitesten Sinne erlebte seine Stunde Null.

Hierbei war der amerikanischen Siegermacht klar, daß eine offene Repression, wie sie unmittelbar nach Kriegsende noch auf der Tagesordnung stand, auf Dauer nicht zielführend sein konnte. Mit allzu plumpen Mitteln, einer Umerziehung mit Feuer und Schwert, konnte man nicht mehr vorgehen. Die Besiegten sollten sich gleichsam selbst ändern, ohne die Änderung als aufgezwungen zu empfinden. Erwünscht war eine Änderung, die der zu Ändernde für sich als Ergebnis der eigenen Erkenntnis erlebt und einem eigenen freien Entschluß zuschreibt, nicht dem Druck einer Besatzungsmacht.

Reorientation statt Repression

Keine Kolonialpolitik im Sinne des 19. Jahrhunderts also, denn im Hinblick auf den beginnenden kalten Krieg war die Bundesrepublik zu wertvoll für die westliche Staatengemeinschaft. Was der Siegermacht vorschwebte und dann stattfand, war vielmehr ein Imperialismus der Gedanken, der zu einem letztlich selbst gewählten Anschluß an die westliche Staats- und Ideenwelt führt. Wie wir heute wissen, war das Konzept in seinem Ausmaß von einem vielleicht für die Amerikaner selbst unerwarteten Erfolgt gekrönt. Denn mit dem Austausch der intellektuellen Elite über verschiedenste Programme bis in die heutige Zeit (z.B. die „Atlantik-Brücke“) war nach dem militärischen Sieg auch die Schlacht um die Köpfe gewonnen. Der überwiegende Teil eines jeden Volkes der Welt denkt nun mal hauptsächlich daran, was es am nächsten Tag zu essen gibt und was die Kinder anziehen sollen. Politisch verdaut ein Volk zumeist das, was ihm vorgekaut wird. Und vorgekaut wird durch die – im weitesten Sinne – Eliten.

Scheil zeichnet in detailreicher Fülle die einzelnen Maßnahmen auf und beschreibt die Verstrickung einer Vielzahl von Personen, sowohl Angehörigen der Siegermächte als auch Deutschen bei der Erfüllung des amerikanischen Programms. Er ist in seiner Arbeit Historiker, nicht Essayist und zuweilen benötigt man ein gewisses Maß an Selbstdisziplin, um ihm in alle Verästelungen des aufgeschlüsselten Detailreichtums zu folgen. Dies umsomehr, als die Spannung, das Knistern zwischen den Zeilen, die Scheils Werke über den zweiten Weltkrieg so lesenswert machen, dem Buch völlig abgehen. Doch dies liegt nicht etwa an Scheil, sondern einzig an der Thematik. Der Krieg ist lange ausgefochten und es geht nicht mehr um Alles oder Nichts, sondern nur noch um die Art und Weise der Behandlung der Leiche.

Stefan Scheil: Transatlantische Wechselwirkungen. Der Elitenwechsel in Deutschland nach 1945. Dunker & Humblodt 2012. 28,00 Euro

vendredi, 20 avril 2012

Quando Céline era solo un giovane corazziere in armi nella Grande Guerra

Quando Céline era solo un giovane corazziere in armi nella Grande Guerra

di Andrea Lombardi

Fonte: barbadillo


Cuirassier-Destouches.jpg Louis-Ferdinand Destouches (in arte Céline), uno dei massimi romanzieri del ‘900, dopo il successo del suo libro di esordio Viaggio al termine della notte (1932) e di Morte a credito (1936), e le polemiche suscitate da Bagatelle per un massacro (1938), operò con i suoi romanzi una vera rivoluzione dello stile narrativo, culminata nella cosidetta Trilogia del nord (Nord, Rigodon e Da un castello all’altro). Uomo dalle molte vite, soldato nella prima guerra mondiale, direttore di piantagioni, membro di una commissione sanitaria della Società delle Nazioni, medico di periferia, scrittore, bohemienne, e infine Collabo e reprobo, la prima vita di Céline sarà quella di corazziere a cavallo: infatti Louis Destouches, nato il 27 maggio 1894 a Courbevoie (Parigi) si arruolerà il 28 settembre 1912, con ferma triennale, nel 12eme Régiment Cuirassiers (12° Reggimento Corazzieri) di stanza a Rambouillet, nel dipartimento degli Yvelines nella regione dell’Île-de-France. Il 12eme “Cuir” era un’unità scelta, con una lunga tradizione militare risalente al 1668: creato da Luigi XIV per suo figlio quale Régiment “Dauphin-Cavallerie”, fu rinominato 12° Reggimento di Cavalleria nel 1791 dopo la Rivoluzione Francese. Il reparto si distinse in numerose battaglie: dalle Campagne del Re Sole alle Guerre della Rivoluzione, subordinato all’Armata del Reno; da Austerlitz, Jena e Waterloo a Solferino, alla disastrosa guerra franco-prussiana del 1870-1871. I primi tempi di servizio presso il 12° ben difficilmente potevano ricordare al giovane Louis queste antiche glorie, preso come doveva essere, da buona recluta, a spalare letame, strigliare il pelo dei cavalli e centellinare i pochi spiccoli della diaria, vessato dalla disciplina di ferro dei sottuff’ di carriera, come ricordato d’altronde da lui stesso in Casse-Pipe! Dopo un anno da militare di truppa, Louis è promosso Brigadiere il 5 agosto 1913, e quindi Maresciallo d’alloggio il 5 maggio 1914.

Il 31 luglio, a Saint-Germain, il Reggimento è mobilitato e il 2 agosto si assembra nella regione a sud di Commercy. Louis accoglierà la notizia della guerra con lo stesso entusiasmo patriottico di milioni di giovani come lui in tutta Europa, come testimoniato da questa lettera ai genitori scritta poco prima della partenza per il fronte, tanto diversa per stile e spirito dal Viaggio al termine della notte:

“Cari genitori: l’ordine di mobilitazione è arrivato partiamo domani mattina alle 9 h 12 per Étain nelle pianure della Voevre non credo che entreremo in azione prima di qualche giorno […] è una sensazione unica che pochi possono vantarsi di aver provato […] Ognuno è al suo posto sicuro e tranquillo tuttavia l’eccitazione dei primi momenti ha fatto posto a un silenzio di morte che è il segno di una brusca sorpresa. Quanto a me farò il mio dovere sino in fondo e se per fatalità non dovessi tornare… siate sicuri per attenuare la vostra sofferenza che muoio contento, e ringraziandovi dal profondo del cuore. Vostro figlio”.

Il 12°, al comando del Colonnello Blacque-Belair, e facente parte della 7ª Divisione di Cavalleria, condurrà numerose missioni di ricognizione tra la Wöevre, la Mosa e l’Argonne nell’agosto e settembre 1914: il terreno dove opererà, boscoso, con campi cintati da muretti a secco tagliati da fossi e canali, è inadatto all’impiego della cavalleria, men che meno quella pesante. La guerra del ’14 inizia a mostrarsi per quello che è: niente eroiche cariche di cavalieri, ma un cieco tritacarne. Louis scriverà allora a casa lettere di ben altro tono rispetto a quelle precedenti; l’assurdità della guerra inizia a far nascere in lui Céline:

“La lotta s’impegna formidabile, mai ne ho visto e ne vedrò di così tanto orrore, noi camminiamo lungo questo spettacolo quasi incoscienti per l’assuefazione al pericolo e soprattutto per la fatica schiacciante che subiamo da un mese davanti alla coscienza si para una specie di velo dormiamo appena tre ore per notte e marciamo quasi come automi mossi dalla volontà istintiva di vincere o morire Nessuna nuova sul campo di battaglia quasi sulla stessa linea del fuoco da 3 giorni i morti sono rimpiazzati continuamente dai vivi a tal punto che formano dei monticelli che bruciamo e in certi punti si può attraversare la Mosa a piè fermo sui corpi tedeschi di quelli che tentano di passare e che la nostra artiglieria inghiotte senza posa. La battaglia lascia l’impressione di una vasta fornace dove s’inghiottono le forze vive delle due nazioni e dove la più fornita delle due sarà la vincitrice”.

Ad ottobre il Reggimento è inviato nelle Fiandre, partecipando a duri combattimenti assieme ad alcune unità di fanteria nel settore tra Ypres e Poelkapelle; il 27 ottobre, quest’ultima località è battuta incessantemente dal tiro dell’artiglieria e delle mitragliatrici tedesche, tanto che sembra impossibile garantire con staffette le comunicazioni tra il 125° e il 66° Reggimento di fanteria, che stanno cercando di strappare l’abitato di Poelkapelle al nemico. È in questo momento che il Maresciallo d’alloggio Destouches, comandato presso il Comando di Reggimento, si fa avanti, dandosi volontario per questa missione quasi suicida. Louis riuscirà a condurre a termine il pericoloso compito, ma al ritorno, intorno alle ore 18, è ferito gravemente al braccio destro. Dopo essersi ricongiunto alla sua unità, data la mancanza di posti disponibili nelle ambulanze o tende-ospedale a causa del gran numero di feriti e moribondi, dovrà raggiungere a piedi, camminando per sette chilometri, un ospedale da campo presso Ypres. Sarà poi da lì evacuato a Hazebrouck, dove sarà operata la frattura del braccio, e poi ricoverato in degenza all’ospedale militare Val-de-Grâce a Parigi, dove subirà un secondo intervento chirurgico il 19 gennaio 1915. Dichiarato inabile al servizio a causa della sua ferita, viene riformato il 2 settembre 1915: finisce così il servizio attivo di Louis Destouches nell’Armée.

Per l’eroismo dimostrato sul campo sarà citato nell’ordine del giorno del 29 ottobre del Reggimento, insignito della Medaglia Militare il 24 novembre 1914 e della Croce di Guerra con Stella d’Argento.

La rivista L’Illustré National del dicembre 1914 dedicherà al fatto d’arme che lo vide protagonista una tavola a colori a tutta pagina: Louis-Ferdinand Céline la mostrerà sempre con orgoglio a ogni suo visitatore nell’eremo di Meudon, tanti anni e tante vite più tardi.

Bibliografia:

Dauphin-Boudillet, Album Céline

Gibault, Céline

Ruby – de Labeau, Historique du 12eme Régiment Cuirassiers (1668-1942)

Le 12eme Régiment Cuirassiers (1871-1928)


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

samedi, 14 avril 2012

La guérilla espagnole contre l'armée napoléonienne

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Ex: http://anti-mythes.blogspot.com/

La guérilla espagnole contre l'armée napoléonienne sous l'éclairage de Carl Schmitt

 

C’est dans le contexte des guerres napoléoniennes, et plus précisément à l’occasion de la guerre de résistance espagnole contre l’occupation française, entre 1808 et 1813, que va émerger pour le juriste politique allemand Carl Schmitt (1888-1985) la figure conceptuelle du "partisan" moderne, à savoir d’un "soldat irrégulier" pensé en tant que tel ; à cette occasion, pour la première fois, un cadre juridico-politique explicite lui est conféré. Ce qui ne sera pas sans conséquences quant au droit de la guerre classique qui avait prévalu jusque-là.

LE CONTEXTE HISTORIQUE DU SOULÈVEMENT ESPAGNOL 

Rappelons brièvement les faits : pour établir un "blocus continental" efficace contre la Grande-Bretagne, puissance maritime et commerciale et principale ennemie de la France, Napoléon entendait contrôler l’ensemble de la péninsule ibérique. Il envoya donc Murat avec des troupes en Espagne en 1808, sans provoquer de véritables réactions de la part d’une famille royale espagnole par trop affaiblie. Dans ce contexte de décomposition du pouvoir royal légitime, une première émeute populaire à Aranjuez poussa d’ailleurs le roi Charles IV à abdiquer au profit de son fils Ferdinand VII dans l’espoir de stabiliser la situation politique.

Mais l’entrée de Murat dans Madrid provoqua une véritable insurrection, celle du 2 mai, que le général français réprima durement. Sous la pression de Napoléon, Ferdinand VII abdiqua à son tour au profit, cette fois, de Joseph Bonaparte, frère aîné de l’Empereur, qui fut reconnu par une assemblée de notables Afrencesados (1). Mais le soulèvement du peuple était déjà quasi général. Il fut formellement encadré par des Juntas (juntes militaires) auto constituées qui refusèrent de reconnaître le coup de force français et qui, au nom du roi pourtant déposé, allaient diriger une résistance à l’occupant. Cette résistance héroïque rassembla, dans un premier temps, troupes régulières et civils en armes, ces derniers devant progressivement en constituer l’âme. Dès juin 1808, en effet, commença ce qu’on appellera bientôt une "guérilla" – le terme en tant que tel n’apparaîtra qu’en 1812 – qui se développa au fur et à mesure des défaites de l’armée régulière espagnole face à Napoléon. Ces défaites successives pousseront d’ailleurs de nombreux déserteurs à accroître le nombre de ces partisans. Ce qui va intéresser au premier chef Carl Schmitt dans la guerre de résistance espagnole à Napoléon, c’est précisément le fait que "le partisan de la guérilla espagnole de 1808 fut le premier à oser se battre en irrégulier contre les premières armées régulières modernes" (Schmitt, La notion de Politique – Théorie du Partisan, préface de Julien Freund ; traduction de Marie-Louise Steinhauser, Paris, Calmann-Lévy, 1972, page 214). Par "armées régulières modernes", il convient ici d’entendre celles issues des expériences de la Révolution française qui sont à l’origine d’une reformulation radicale du concept de "régularité" hérité de l’âge classique, et dont – aussi paradoxal que cela puisse paraître de prime abord – le "partisan", en tant que combattant irrégulier, constitue en quelque sorte le produit.

DE LA NOTION PROBLÉMATIQUE "D’IRRÉGULARITÉ"

Comme le relève Schmitt, il se trouve que "la différence entre combat régulier et combat irrégulier est fonction de la nette définition de ce qui est régulier et une antinomie concrète donnant lieu à une délimitation du concept n’apparaît qu’avec les formes modernes nées des guerres de la Révolution française" (op. cit., p. 213). Jusque-là avait prévalu un droit interétatique classique – le Jus Publicum Europaeum – au sein duquel le phénomène de l’hostilité était maintenu dans le cadre de guerres limitées, apanage exclusif des princes contre un ennemi stricto sensu "conventionnel". La principale caractéristique de ce droit classique résidait dans le fait qu’il comportait des distinctions nettes entre guerre et paix, entre combattants et non-combattants, entre un ennemi et un criminel. Et, comme le souligne Schmitt, "en regard de cette régularité toute classique" (op. cit., p. 218), l’idée même de soldat irrégulier était tout simplement inconcevable : "Le droit classique de la guerre (…) ne laisse pas de place au partisan au sens moderne. Ou bien celui-ci est, comme dans la guerre au XVIIIe siècle, qui est une affaire entre cabinets, une espèce de troupe légère, particulièrement mobile mais régulière, ou bien il est un criminel particulièrement méprisable, et il est alors tout simplement un hors-la-loi" (op. cit., p. 219). 

Cette alternative tranchée est remise en cause à l’issue des bouleversements révolutionnaires, sur la base d’une délimitation nouvelle de la notion de "régularité", lorsque la notion d’État dynastique est reformulée comme État national et que l’armée des princes est conduite à se transformer en armée nationale. Schmitt discerne d’ailleurs la faillite du droit classique dans cette configuration juridico-politique qui voit la "victoire du civil sur le soldat le jour où le citoyen passe l’uniforme tandis que le partisan le quitte pour continuer à se battre sans uniforme" (op. cit., p. 306). À cet égard, loin de constituer une anomalie, l’émergence de la figure du partisan, en tant que combattant irrégulier, face à cette nouvelle "régularité" post révolutionnaire, ne constitue somme toute que l’une des deux faces d’un même Janus, celle du soldat-citoyen. En déferlant sur toute l’Europe continentale, le nouvel art militaire de l’armée napoléonienne, comme héritier de cette mutation fondamentale, va se trouver être, à la fois, vecteur et victime de ce nouveau modèle, dans la mesure où la guerre de l’âge classique, qui ne peut plus que faire figure de jeu conventionnel, va laisser la place à de véritables guerres des peuples, dont la guerre de résistance espagnole n’est que le premier d’une longue suite d’avatars. Ce qui intéresse Schmitt, c’est précisément de montrer que l’apparition du partisan en Espagne entérine une situation inédite qui a transformé l’ennemi "conventionnel", au cœur des guerres limitées que se livraient les princes dans le droit classique, en ennemi pour le coup bien "réel", au cœur de guerres devenues nationales : "L’élément principal de la situation du partisan de 1808 est qu’il risque le combat sur le champ limité de son terroir natal, alors que son roi et la famille de celui-ci ne savaient pas encore très bien quel était l’ennemi réel" (op. cit., p. 215).

En dépit de l’aura involontaire dont Ferdinand VII bénéficiait auprès de son peuple et qui l’a préservé, malgré lui, d’une condamnation sans appel de l’Histoire, ses hésitations devant l’événement majeur qui se joue s’expliquent sans doute par le fait qu’il se situe toujours par rapport à un droit classique de la guerre dérivé du Jus Publicum Europaeum. En revanche, le partisan espagnol, lui, appartient déjà au monde nouveau qui est en train d’advenir en matière stratégico-politique. "Seul le partisan espagnol rétablit le sérieux de la guerre, et ce fut contre Napoléon, c’est-à-dire dans le camp défensif des vieux États continentaux européens dont la vieille régularité devenue convention et jeu n’était plus en mesure de faire face à la nouvelle régularité napoléonienne et à son potentiel révolutionnaire. De ce fait, l’ennemi redevint un ennemi réel, la guerre, une guerre réelle. Le partisan défenseur du sol national contre le conquérant étranger devint le héros qui se battait réellement contre un ennemi réel" (op. cit., p. 304-305).

Mais l’apparition du phénomène du partisan n’allait pas forcément de soi pour des esprits encore largement imprégnés de l’idée de la vieille "régularité" militaire. Paradoxalement, c’est peut-être dans cette perspective qu’on peut saisir la portée des diverses tentatives juridiques de "régularisation" de la guerre de partisans par ce qui restait de l’État espagnol légitime ou de ce qui s’en réclamait alors, en l’occurrence les Juntas militaires.

LE PRÉCÉDENT EN 1808 D’UNE LÉGITIMATION DE LA GUERRE DE PARTISANS PAR LA JUNTA DE SÉVILLE

Ce qui est en effet capital dans l’apparition de cette forme de guerre irrégulière espagnole, c’est qu’elle va recevoir de la part de Juntas militaires régionales et/ou nationales, une sorte de réglementation juridico-politique – fait sans précédent dans l’Histoire – lui conférant une légitimité inédite rendue nécessaire par les circonstances. La passivité, face à l’envahisseur français, d’un gouvernement dépassé par les événements devait mettre au premier plan ces Juntas militaires, d’une part, les guérillas, d’autre part. Un premier cadre juridico-politique est donné dès le 6 juin 1808 par la Junta Suprema de Gobierno de Espana e Indias (la Junte de Séville), auto-constituée le 28 juin 1808, et qui déclare la guerre à l’Empereur Napoléon en ces termes : "… Nous déclarons la guerre sur terre et sur mer à l’Empereur Napoléon Ier et à la France, dont nous supportons la domination et le joug tyrannique ; et nous demandons à tous les Espagnols d’œuvrer hostilement à leur encontre et de leur causer le plus de dommages possibles selon les lois de la guerre" (Blanch, Historia de la guerra de la Independencia en Cataluna, Barcelone, 1968, p. 64).

Cette dernière précision a ceci de paradoxal et d’étrange qu’elle méconnaît le fait que la guerre patriotique espagnole n’est déjà plus une guerre de l’âge "classique". Les dites "lois de la guerre", selon la conception classique dans laquelle, comme le rappelle Schmitt, « l’ennemi a son statut », et dans laquelle "il peut être imposé des limites à la guerre" (Schmitt, op. cit., p. 12), sont d’ores et déjà sapées par la nouvelle forme d’hostilité "réelle" développée par la guerre de partisans qu’on cherche illusoirement à réglementer. Sans que ces auteurs en mesurent peut-être toutes les conséquences à terme, cette déclaration de juin 1808 apparaît comme le précédent le plus direct de légitimation de la guerre irrégulière. Il est complété le jour même par un second texte. Celui-ci, intitulé Prevenciones, s’adresse au peuple espagnol pour qu’il sache que certaines mesures sont indispensables à la bonne conduite de la lutte contre l’ennemi : "Il faut éviter les actions générales et privilégier les initiatives individuelles. Il est nécessaire de ne pas laisser l’ennemi se reposer un instant, de harceler sans répit ses flancs et son arrière-garde, de l’affamer, d’intercepter ses convois de vivres, de détruire ses entrepôts et de lui couper toutes les voies de communication entre l’Espagne et la France d’autre part" (Queipo de Llano, Historia del Levantamiento, Guerra y Revolucion de Espana, Madrid, 1835-1837, p. 232-233). 

Ainsi est en train d’être "régularisée" une guerre de partisans dont la Junta pressent pourtant d’ores et déjà les éventuelles dérives, ce qui apparaît clairement dans l’article final des Prevenciones : "Il s’agira de faire comprendre et de persuader la nation que libérés, comme nous l’espérons, de cette guerre cruelle, et le trône à nouveau entre les mains de notre seigneur et Roi Ferdinand VII, les Cortes, sur sa convocation, réformeront les abus et établiront les lois dictées par l’expérience, pour le bien et la félicité publics ; deux notions que les Espagnols connaissent sans que les Français aient eu à les leur enseigner" (Queipo de Llano 1835, p. 233). 

Pour l’heure, la Junta de Séville fait figure localement de pouvoir suprême, à l’image d’un organe de souveraineté nationale (comme les autres Juntas provinciales), et apparaît donc pour les Espagnols politiquement "compétente", dans la mesure où elle se réclame de l’ancien pouvoir légitime du roi Ferdinand VII. C’est bien à ce titre qu’elle ordonne d’ailleurs l’enrôlement massif de partisans comme auxiliaires des dernières troupes régulières espagnoles combattant encore Napoléon.

LE TOURNANT DE L’AUTOMNE 1808

La méthode paraît pour un temps donner de bons résultats puisque, le 19 août 1808, advient la première défaite française, celle de Baylen, face à 40.000 hommes de troupes régulières espagnoles unies à un noyau de volontaires et de francs-tireurs et au peuple andalou en armes. Ce succès ponctuel entretient en fait l’illusion sur les capacités réelles de l’armée régulière espagnole de résister durablement à l’armée napoléonienne. En effet, à l’automne 1808, devant les mauvais résultats de son armée, Napoléon, pour résoudre rapidement le problème espagnol avant de se mesurer à l’Autriche, décide de prendre en personne, le commandement des troupes le 6 novembre 1808. En virtuose militaire qu’il est, il retourne la situation en très peu de temps, remportant victoire sur victoire, et entre à Madrid le 4 décembre 1808 où il réinstalle aussitôt son frère Joseph. En Catalogne, le 15 décembre, le général Vivès est battu et lève le siège de Barcelone. Saragosse, assiégée pour la seconde fois par les Français le 20 décembre, capitule le 20 février 1809 en dépit d’une résistance héroïque. 

La confiance relative qui perdurait dans ce qui restait de l’armée "régulière" espagnole née de la bataille de Baylen, s’en trouva considérablement altérée. La guérilla espagnole reste alors seule à s’opposer à l’envahisseur français et va, pour cette raison, prendre une ampleur inégalée. Comme le souligne Schmitt : "À l’automne de 1808, Napoléon avait vaincu l’armée régulière espagnole ; la guérilla espagnole proprement dite ne se déclencha qu’après cette défaite de l’armée régulière" (op. cit., p. 214). C’est à partir de là, en effet, que les Espagnols commencèrent véritablement à organiser des bandes de partisans sur une grande échelle pour continuer la résistance à Napoléon.

LE MANIFESTE DU 28 DÉCEMBRE 1808

Dans ce contexte d’échecs militaires retentissants pour ce qui se réclamait encore de l’armée régulière espagnole, la Junta Centrale , abasourdie, se réunit à Séville et publie le 28 décembre 1808 le Reglemento de partidas y cuadrillas, qui reprend en l’accentuant l’esprit du règlement de juin 1808. Ce règlement du 28 décembre 1808, en trente-quatre articles, est le premier texte réglementaire de portée nationale. On n’y parle cependant pas encore de "guérillas" ni de "guérilleros". À cette époque, le terme "guérilla" n’est pas encore intégré dans la terminologie de la guerre patriotique espagnole. Il a toujours sa signification technique, dérivée de la guerre classique, de "ligne de tirailleurs devant attaquer l’ennemi de front et sur ses flancs, ou troupe légère utilisée pour les reconnaissances et les escarmouches". Il renvoie encore au "partisan" du XVIIIe siècle, celui qui appartient à un "parti", ou détachement battant la campagne, à l’un de ces détachements dont le maréchal de Saxe écrivait qu’ils pouvaient traverser un royaume entier sans être repérés.

Dans le règlement de décembre 1808, on parle plus spécifiquement de partida, ("bande"), qui signifie, d’après Almirante dans le Dictionnaire Militaire, "toute troupe peu nombreuse", aussi bien régulière qu’irrégulière, et de cuadrilla , littéralement "troupe", "bande". Les partidas, sans spécification notable quant à leurs effectifs, rassemblent toutes sortes d’individus à l’exclusion des alistados ou solteados (les appelés aux armées). Les cuadrillas sont, quant à elles, des bandes de contrebandiers de "mer et de terre". Lorsque ce règlement est publié, des actions de partisans existent déjà depuis huit mois. Mais elles sont appelées à se développer. Ces dispositions légales tendent, en fait, à les assujettir autant que faire se peut à des règles dans lesquelles l’esprit militaire dominerait. Les principaux points abordés dans le règlement ont trait à la finalité de la guerre de partisans, à la composition des unités, à la collation des grades, à l’armement, aux soldes, aux règles de discipline et au butin.

Les deux types d’unités distinctes que sont les partidas et cuadrillas se trouvent donc mises sur pied avec pour mission d’assurer la sécurité du pays en semant la terreur et la désolation chez l’ennemi. Les partidas, d’abord, forment des groupes d’environ une cinquantaine d’hommes à pied et à cheval. Le commandement, et c’est important, est assuré par un chef du grade de commandant, un second, deux subalternes à cheval et trois à pied, ayant respectivement les grades militaires réguliers de lieutenant de cavalerie, sergent, et ainsi de suite. Les articles 24 et 28 visent à encadrer avec une certaine souplesse ces unités "irrégulières" en adoptant la structure des armées opérationnelles, à la fois pour éviter une trop grande anarchie et pour opérer sur l’ennemi avec le plus de rapidité et d’efficacité possibles. On retrouve là deux des traits essentiels dans la perspective d’une "théorie du partisan" selon Carl Schmitt, traits le plus souvent liés, sinon indissociables, et qui font figure de critères pour définir le partisan moderne en train d’advenir en Espagne ; à savoir : "l’irrégularité" et "le haut degré de mobilité du combat actif" (op. cit., p. 229) – la mobilité n’impliquant pas l’irrégularité, mais celle-ci impliquant nécessairement celle-là. Il est en outre prévu de répartir ces unités "irrégulières" dans les différentes divisions de l’armée en les soumettant aux ordres des généraux respectifs qui leur sont donnés comme chefs, ainsi qu’un adjoint. On voit bien l’intention des autorités de faire des partidas une émanation de l’armée "régulière". Pourtant, en contraste avec les règles militaires précitées, l’article 26 précise : "Les chefs locaux (ceux de l’armée qui encadrent les bandes de partisans) devront laisser agir les partisans avec le plus de liberté possible, tout en les gardant à leur disposition, pour la bonne conduite des opérations" (Horta Rodriguez, "La législation de la guérilla espagnole dans l’Espagne envahie (1808-1814)", in Revue historique des Armées, 1986/3, p. 33).

Il convient ici de s’interroger sur la raison d’être du cadre juridico-politique conféré aux bandes de "partisans". Les rédacteurs du règlement savent pertinemment qu’il existe déjà depuis juin des groupes de partisans plus ou moins nombreux. Le règlement "reconnaît" donc une nouvelle fois leur existence et légitime leur lutte au regard de l’occupation française. Mais à cela s’ajoutent d’autres motivations ou plutôt, devrait-on dire, d’autres soucis. Il est intéressant de savoir que "ceux qui auront accompli leur temps de service obtiendront une place dans la Renta (2) ou d’autres postes selon les circonstances" (Horta Rodriguez, p. 33).

Cela prouve le souhait déclaré de réintégrer à moyen terme le "partisan" dans l’armée "régulière", ou à défaut dans une forme de "régularité" quelconque. Enfin, le butin fait l’objet d’une réglementation minutieuse. La répartition du butin sera proportionnée à la solde et personne ne pourra s’immiscer dans sa distribution pour prévenir de la sorte toute forme éventuelle de contestation.

Les mêmes règles s’appliquent aux cuadrillas. Dans les faits, on tente bel et bien d’organiser, par ce biais, les contrebandiers qui agissent "au grand préjudice du trésor royal" (Horta Rodriguez, p. 34). L’article 19 est directement conçu à leur intention. Avant tout, il apparaît nécessaire de leur reconnaître une légitimité "politique" en louant leur valeur, leur intrépidité, leurs talents militaires pour conclure que, "n’ayant pu trouver une activité qui leur permette de s’épanouir, ils se sont lancés dans la contrebande". On leur promet, en tout cas, désormais "une carrière glorieuse et utile à l’État dans les circonstances actuelles" (Horta Rodriguez 1986 : 34). C’est leur statut qui s’en trouve ainsi radicalement modifié. On attribue en effet à cette activité "irrégulière", voire illégale en d’autres temps, mais si populaire en Espagne, le privilège en quelque sorte juridique de s’exercer en toute quiétude puisque cela sert la fin politique de la résistance à l’envahisseur français. Le péril couru par la Nation espagnole autorise en quelque sorte le recours à tous les palliatifs. En conséquence, on pardonne les crimes passés aux contrebandiers se présentant dans les huit jours devant le chef militaire ou politique, et qui se verront accorder une reconnaissance politique faisant d’eux des "partisans" et non de simples bandits de grand chemin.

Pour Schmitt justement, outre l’irrégularité, "un autre critère distinctif qui s’impose aujourd’hui à notre attention réside dans l’engagement politique qui caractérise le partisan de préférence à d’autres combattants" (op. cit., p. 224). Et c’est ici qu’il faut souligner l’importance cardinale du "tiers intéressé", qui se trouve être un "tiers régulier", dont parle Schmitt : en l’occurrence, les Juntas militaires qui se réclament de la légitimité royale et, au-delà, la puissance anglaise qui reconnaît le "partisan" comme un allié. C’est en effet ce tiers "qui procure cette sorte de reconnaissance politique dont le partisan qui combat en irrégulier a besoin pour ne pas tomber, tel le bandit et le pirate, dans le domaine non politique, ce qui signifie ici : dans le domaine de la criminalité" (op. cit., p. 290). C’est toute la subtilité de cette dimension politique qui confère au "partisan" son statut et qui a rendu le sujet tellement polémique jusqu’à nos jours.

LES NOUVELLES DISPOSITIONS RÉGLEMENTAIRES DE 1809

"L’institutionnalisation" de la guérilla va se renforcer avec l’adoption de plusieurs dispositions. Elles sont au nombre de trois, en date respectivement du 1er janvier, du 28 février, et du 20 mars 1809. Elles contiennent les soubassements d’une guerre de partisans strictement définie, tout autant que les problèmes que celle-ci ne cessera de soulever.

La première disposition entend contrôler étroitement les Juntas provinciales qu’elle transforme en simple Juntas "d’observation et de défense". Celles-ci constituaient un des supports les plus efficaces pour l’esprit de résistance alimenté par des hommes qui défendaient avec ardeur la patrie de leurs ancêtres, le foyer familial, la terre qu’ils travaillaient, leur religion, et un mode de vie fermé aux ingérences étrangères. C’est là qu’on saisit avec une acuité toute particulière "le quatrième critère distinctif du partisan authentique" selon Carl Schmitt, "ce que Jover Zamora (3) a appelé son caractère tellurique. Celui-ci est très important pour la situation fondamentalement ‘défensive’ du partisan…" (op. cit., p. 229). Au reste, ces partisans étaient bien, comme le souligne encore Schmitt, "les défenseurs autochtones de la terre natale qui mouraient pro aris et focis, les héros nationaux et patriotiques (…) tout ce qui était réaction d’une force élémentaire, tellurique vis-à-vis d’une invasion étrangère (…), légitimité de son irrégularité de partisan" (op. cit., p. 288).

La seconde disposition, celle du 28 février, est un ordre royal émanant de la Junta Centrale : "La junte souhaitant donner une impulsion puissante en faisant appel à l’intérêt individuel, aux grandes motivations qui entraînent les habitants du royaume dans la lutte contre l’ennemi afin de lui causer le plus de tort possible, il a été décrété que les armes de toutes espèces, les chevaux, les vivres, les bijoux et l’argent qui seront pris à l’ennemi, par quelque particulier que ce soit, seront la propriété de celui qui les aura pris. Le droit de préférence dans l’achat des canons, armes, chevaux resteront à Sa Majesté ou au Trésor Royal ; le montant de ces choses leur sera payé avec ponctualité" (Horta Rodriguez, op. cit, p. 36).

La dernière des trois dispositions est le Manifeste édicté par la Junta Centrale le 20 mars 1809. Il reproche notamment aux généraux français les mauvais traitements infligés aux prisonniers et leur enjoint de considérer que tout Espagnol en mesure de prendre les armes est, aux yeux de la Junta un soldat de la patrie et doit être traité en conséquence par l’armée française – mais de manière unilatérale, et c’est précisément là tout le problème. Ce manifeste laisse entrevoir les conséquences et les difficultés insurmontables que fait surgir le "partisan" dans le droit classique de la guerre dont la Junta se réclame, alors même qu’elle légitimise ce type de combattant irrégulier. Comme l’explique Schmitt, en effet, "plus la discipline d’une armée régulière est stricte, plus elle est scrupuleuse dans sa distinction entre militaires et civils en ne considérant comme un ennemi que le seul adversaire en uniforme, et plus elle deviendra ombrageuse et irritable si, dans l’autre camp, une population civile qui ne porte pas l’uniforme participe, elle aussi, au combat. Les militaires réagiront par des représailles en fusillant, en prenant des otages, en détruisant des localités et ils tiendront ces mesures pour légitime défense face à des manoeuvres perfides et sournoises". (op. cit., p. 246-247). À cet égard, l’armée française est effectivement confrontée au problème du "traitement" à accorder à tout Espagnol pris les armes à la main, problème qu’elle ne parvient pas à résoudre, sinon le plus souvent par des exécutions sommaires, faisant de cette guerre d’Espagne l’une des plus cruelles et des plus horribles, et déjà perçue comme telle par ses contemporains. Le Manifeste poursuit en faisant allusion à la lutte de tout un peuple contre la tyrannie et l’envahisseur en ces termes : "Tout membre de cette nation doit trouver la protection des lois de la guerre, le général qui ne les respecte pas est un bandit qui s’expose à la colère du ciel et à la vengeance des hommes" (Canga-Arguelles, p.107).

Mais cela relève de l’anathème pur et simple dans la mesure où l’on touche là à une espèce de paradoxe : ce paradoxe réside dans le fait d’en appeler à des "lois de la guerre" d’un droit classique de la guerre, alors même que l’émergence de la figure du "partisan" les rend, de fait, caduques. Ces problèmes insolubles vont prendre une ampleur sans précédent avec le dernier règlement de 1809, intitulé "Instruction sur le corso terrestre".

"L'INSTRUCTION SUR LE CORSO TERRESTRE" D’AVRIL 1809

Le second grand texte réglementaire de portée nationale, "l’Instruction sur le corso terrestre" (4) du 17 avril 1809 suit le même esprit que les trois dispositions du début de l’année 1809. Ce texte, comportant dix-huit articles, a pour but de donner des directives concrètes aux "partisans", et, ipso facto, en détermine la figure "irrégulière". Le terme de "corso terrestre" est une alliance de mots circonstancielle (5), celle-là même qui consisterait à parler d’un "corsaire de terre", par opposition à un "pirate de terre".
D’après la doctrine traditionnelle espagnole, le corso a pour but d’empêcher l’ennemi de pouvoir se servir, lorsqu’il en a besoin, des voies de communication sur mer. Le corso est donc l’oeuvre du combattant qui, en état d’infériorité, ne peut livrer une bataille décisive ni détruire la force armée de l’ennemi. Ces similitudes avec ce que sera la guerre de partisan ne s’arrêtent pas là. Ce sont des forces peu nombreuses qui luttent contre un ennemi omniprésent et qui, en l’absence d’une lettre de patente, comme celle qui était accordée au corsaire des siècles précédents, risquent constamment de sombrer dans le brigandage. La distinction entre corsaire et pirate s’avère essentielle. Schmitt insiste sur l’importance discriminante du critère politique : "le caractère politique a (dans l’ordre inverse) la même structure que chez le pirate du droit de la guerre maritime dont le concept inclut le caractère non politique de son aspect néfaste qui vise le vol et le gain privé" (op. cit. p. 224). Par conséquent, poursuit Schmitt, il faut éviter de désigner le partisan, "de le définir comme un pirate de la terre ferme". Le comportement du "pirate" est sans référence aucune à une quelconque "régularité". Et d’ajouter : "Le corsaire, au contraire, court la prise de guerre sur mer et est muni de lettres par le gouvernement d’un État ; son irrégularité à lui n’est donc pas sans lien avec la régularité et c’est ainsi qu’il resta jusqu’à la déclaration de Paris de 1856 une figure juridiquement reconnue du droit international européen. De ce fait, une certaine comparaison est possible entre le corsaire de la guerre sur mer et le partisan sur terre…" (op. cit., p. 284).

Les projets et motivations de ce "corso terrestre" de 1809 se trouvent, pour l’essentiel, exposés dans le préambule de "l’Instruction" : à l’instar du "corso maritime", le "corso terrestre" a pour but principal d’anéantir les communications terrestres de l’ennemi. Ordre est donné d’entraver "l’approvisionnement en vivres et en moyens de subsistance de l’armée française dans le pays (…), de faire de même avec les courriers, d’observer leurs déplacements (…), de tenir les Français dans un état d’alerte et de fatigue permanentes (…) en leur faisant le plus de mal possible" (Horta Rodriguez , p. 37).

De cet ensemble de projets visant à durcir la conduite de la guerre en Espagne se détache la motivation qui justifie et légitime aux yeux des Espagnols cette guerre d’un nouveau type. Le préambule de "l’Instruction" stipule d’emblée : "Maintenant que nous connaissons la manière la plus vile que Napoléon a utilisée pour détruire et désorganiser la force militaire espagnole (…), n’est-il pas évident qu’il revient aux paysans de se regrouper pour combattre ses armées ?" (Horta Rodriguez, p. 38).

Les autorités n’ont pas eu le temps d’enrégimenter les Espagnols ni de leur donner un uniforme ; mais tous sont néanmoins des soldats pour ces mêmes autorités. Si le règlement de 1808 cherchait à "militariser" les bandes de "partisans", "l’Instruction sur le corso terrestre", de son côté, met plutôt l’accent sur les représailles qui entendent constituer la réponse aux actions ennemies. Dans le même texte, on souligne d’ailleurs le fait que l’ennemi ne reconnaît pas un statut de combattants aux paysans et en fait "d’innocentes victimes" (Horta Rodriguez, p. 37). On retrouve – posé de manière de plus en plus nette – le problème précédemment évoqué par le Manifeste de la Junta Centrale du 20 mars 1809 sur le "statut" des combattants lorsqu’apparaît la figure du "partisan", lequel ne permet plus de faire une distinction nette entre le combattant et le non-combattant. En 1809, les paysans majoritaires dans les rangs des partisans ne pratiquent pas une guerre "réglée", avec des limites bien définies. L’ennemi le lui rend d’ailleurs bien. Cette relation d’inimitié absolue tend à l’anéantissement mutuel. C’est ce danger de la "guerre folle", inhérente à la faillite du droit classique, sur lequel insiste Schmitt : "Le partisan moderne n’attend de son ennemi ni justice, ni grâce. Il s’est détourné de l’hostilité conventionnelle de la guerre domptée et limitée pour se transporter sur le plan d’une hostilité différente qui est l’hostilité réelle dont l’escalade de terrorisme en contre-terrorisme va jusqu’à l’extermination" (op. cit., p. 219).

L’objectif principal consiste de fait à mener une guerre "à outrance", susceptible de devenir une guerre encore plus inhumaine. Fait sans précédent, on arme tous les habitants des provinces occupées afin "d’assaillir et de dépouiller" les soldats français "chaque fois qu’une occasion favorable se présentera". Et ce, avec toutes les armes, quelles qu’elles soient, même les "interdites" (Horta Rodriguez, p. 37), ce que ne mentionnait pas le règlement de 1808. C’est de cette manière qu’on souhaite résoudre le problème de la disproportion des forces en présence pour être en mesure de se battre "à armes égales", imitant ainsi "la conduite barbare du satellite de Buonaparte » – pour reprendre les termes du texte – afin de « guérir le mal par le mal" (Horta Rodriguez, p. 37). La forme inhumaine que va prendre cette guerre est inhérente à la justification que tous les moyens sont bons pour pouvoir lutter "à barbarie égale". Le fait sans précédent, c’est de l’institutionnaliser. Il n’échappe naturellement pas à Alcano Galiano, l’auteur du "corso", que les raisons qui le sous-tendent sont dépourvues de noblesse, mais son règlement qui, pour la première fois, préconise la guerre totale, est présenté comme une réponse imposée par l’adversaire et un mode de combat induit par les circonstances. C’est pourquoi, "l’Instruction sur le corso" est, par nécessité, plus expéditive, plus cruelle et moins "militaire" que le règlement de 1808.

Après les motivations, examinons plus en détail l’organisation. Les paysans peuvent se regrouper en "cuadrillas d’infanterie et de cavalerie". La plupart des combattants "irréguliers" peuvent se grouper en cuadrillas, même loin du territoire occupé, dans les provinces limitrophes, ou proches de celles qui sont occupées. Mais, dans ce dernier cas, les cuadrillas ayant moins de raison d’être que celles de la zone occupée, doivent demander la "permission de justice" pour se constituer. Cette limitation témoigne du fait qu’on tente, dans cette guerre "irrégulière" sans règles fixes, de poser un cadre juridique minimal susceptible d’éviter, malgré tout, de véritables dérives "criminelles". De même, si la "bonne conduite" des membres de ces cuadrillas est reconnue, un passeport leur est alors délivré, lequel est censé les garantir des mauvais traitements par l’ennemi en zone occupée. Signalons enfin que, si la part du butin, dans le règlement de 1808, était accordée proportionnellement à la solde, en 1809, il n’y a dans ces cuadrillas ni solde, ni grade. Le butin est réparti d’un "commun accord", ce qui apparente davantage ce type de guerre au corso maritime auquel il se réfère.

LES DERNIERS TEXTES DE LA GUÉRILLA

Les derniers textes officiels de l’époque relatifs à une réglementation de la guérilla interviennent en 1812 et 1814. Entre 1809 et 1812, beaucoup de choses ont changé pour "l’envahisseur français". Et 1812 constitue d’une certaine manière l’année de la fin pour "l’ordre français" en Europe, et en Espagne plus particulièrement. Certes, le 9 janvier 1812, Valence tombe aux mains des troupes napoléoniennes, mais la guerre entre dans une phase d’offensive de grande envergure du côté des forces hispano-britanniques. Le 19 janvier, les troupes de Wellington conquièrent Ciudad Rodrigo, puis Badajoz, le 7 avril.

En 1812, Napoléon, alors en pleine campagne de Russie, se voit contraint d’ordonner, pour la première fois, le retrait de 30 000 hommes de la péninsule. Ils feront largement défaut sur le front espagnol. De fait, l’offensive de Wellington, le 22 juillet 1812, permit à celui-ci de remporter sur le général français Marmont la victoire des Arapiles. C’est à la suite de ce succès hispano-britannique que fut publié un nouveau règlement. Il prouve combien les Espagnols étaient conscients des dangers pour l’avenir de la nouvelle forme de guerre irrégulière qu’ils venaient pourtant de prôner. Il s’agit d’un reglemento para las partidas de guerillera, en date du 11 juillet 1812. Dans le même esprit, un dernier règlement sera publié en juillet, alors que la guerre était pratiquement terminée : le reglemento para los cuerpos francos o partidas de guerilla .

Le premier règlement du 11 juillet 1812, comportant un préambule et sept chapitres, entend apparaître comme une structure légale (6). Il n’a pas été établi avec précipitation, comme celui de 1808, ou dans le feu de l’action, comme "l’Instruction sur le corso terrestre". Il annonce la "normalisation", qui sera nettement édictée en 1814, lorsque se posera le problème de la réinsertion des guérilleros dans la société.

La stratégie demeure inchangée : "harceler l’ennemi et soutenir l’esprit patriotique des régions envahies (…)". Il faut "couper les routes militaires de l’ennemi, intercepter ses courriers et ses convois, attaquer ses hôpitaux et ses entrepôts" (Horta Rodriguez, p. 39). Le fait de souligner l’attaque des hôpitaux montre à quel point cette guerre est cruelle, faute de règles à respecter. Cela ne signifie pas que tous les guérilleros fussent toujours cruels : la guerre, la conduite de l’ennemi qui ne pouvait être indulgente par ces raisons mêmes, la personnalité des chefs des guérilleros, déterminaient bien souvent leur attitude. Notons, toutefois, qu’aucun des règlements de la guérilla n’a jamais fait allusion aux prisonniers, sujet épineux et vaste s’il en est.

Peut-être en contrepoint des dangers induits par cette forme de guerre sans limites, on cherche désormais à souligner le caractère "militaire" des guerillas de manière bien plus nette que dans le règlement de 1808. Ce caractère "militaire" se concrétise par la dépendance accrue des groupes de "partisans" vis-à-vis du général-en-chef ou du commandant de district, la soumission à la discipline et aux lois militaires, la suspension de fonction en cas de mauvaise conduite. On a le sentiment d’une reprise en main du phénomène par les instances "régulières". Fait capital, la collaboration avec l’armée s’établit dorénavant pour "chaque opération militaire importante". Le commandant a toute liberté d’action avec sa bande de « partisans » dans "l’attente des ordres du général en chef". L’élément nouveau, c’est que, lorsque ces troupes reçoivent des ordres des autorités citées, elles sont tenues de leur obéir en "allant jusqu’à abandonner leurs projets" (Horta Rodriguez, p. 39).

Les problèmes apparaissent lorsqu’on aborde la question du butin des bandes de "partisans", en particulier lorsqu’il s’y trouve des biens appartenant à des Espagnols. Il est établi que tout ce qui est pris devient la propriété exclusive des "partisans", exception faite de ce qui appartient "aux corps constitués de l’armée" ou aux "bons" Espagnols. Les biens pris et abandonnés par l’ennemi doivent, en effet, être rendus à leurs propriétaires, en laissant cependant aux "corps-francs" un quart de la valeur de ces biens. 

Un élément inquiétant apparaît dans ces articles : c’est la notion problématique de "bons" Espagnols, ce qui suppose qu’il y en a de « mauvais » (Horta Rodriguez, p. 40). C’est l’un des aspects inévitables et tragiques de cette guerre patriotique qui tourne parfois à la guerre civile. Sont considérés comme "bons" Espagnols ceux qui soutiennent la lutte contre l’occupant français, et comme "mauvais" Espagnols les Afrancesados, autrement dit appartenant au parti pro-français et considérés comme de vulgaires collaborateurs. Mais, comme toujours dans de tels cas, les abus et les dérapages risquent d’être nombreux. 
Immanquablement se pose la question de savoir si cela n’est pas susceptible de favoriser un banditisme pur et simple. Cela constitue un vrai problème dès lors que le contrôle du "tiers régulier" dont parle Carl Schmitt s’amenuise. De fait, l’article de 1812 enjoint de manière assez problématique, celui qui procède à l’arrestation, d’agir "avec justice", à l’instar du "bandit généreux". On mesure les dangers qui risquent, à terme, de surgir. Par définition, toute "justice" ne peut relever que d’une institution étatique, seule compétente en la matière : en d’autres termes, tout particulier n’est justiciable que devant une institution politique dont la régularité dérive du caractère souverain du pouvoir étatique constitué. Or, le texte autorise un particulier à la rendre en faisant appel à sa "bonne volonté" individuelle. Le règlement de 1812 insiste d’ailleurs sur les relations entre le peuple et les "bandes" (7). Violences et abus sont énumérés, ainsi que les sanctions que leurs auteurs peuvent encourir. Pour chercher à prévenir des dérapages, on interdit d’arrêter ou de poursuivre qui que ce soit, hormis les déserteurs. On révèle ainsi en creux les cas de détention arbitraire commis par quelques bandes qui s’érigent en juges des "mauvais Espagnols".

La comparaison des deux règlements de 1812 et 1814 s’avère particulièrement intéressante pour saisir l’évolution des esprits quant au problème du partisan espagnol. Pour la première fois, en effet, le terme de guerilla apparaît en tant que tel dans une réglementation. L’article II du règlement de 1812 précise que les partidas devront désormais porter le nom de "corps-francs" ; ces derniers préfigurent ceux qui existeront par la suite, notamment en France durant la guerre de 1870. Le règlement de 1814 s’intitule, pour sa part, "Règlement sur les corps francs et les partis de guérilla" – un substantif promis à la postérité.

La reconnaissance des services rendus par les "partisans" est, certes, explicite dans le préambule des deux règlements. Mais des différences entre les deux textes sont manifestes, en partie à cause du changement de conjoncture politique entraînée par la défaite de Napoléon (8) et le désir d’un retour à une normalisation politique. Ainsi, dans le premier règlement, celui du 11 juillet 1812, on exalte encore l’esprit patriotique et on préconise toujours l’augmentation du nombre des guérilleros, en accord toutefois avec les décisions prises aux Cortes, à savoir le parlement espagnol. Mais le préambule de 1812 reconnaissait déjà l’existence de guérillas qui, "profitant du désordre et de la confusion engendrée par les malheurs de la nation, ont abusé de la confiance qu’on avait mise en elles" (Horta Rodriguez, p. 41).

Le règlement du 28 juillet 1814, quant à lui, va jusqu’à porter un jugement très critique sur les précédents règlements et sur la guérilla dont "les circonstances et les troubles passés n’ont pas permis de fixer les règles avec discernement…" (Horta Rodriguez, p. 41). Ce dernier règlement est clairement dicté par le désir de dissoudre les guérillas. De fait, on se prépare à "réformer et dissoudre les bandes de partisans dont la conduite n’a pas été des plus brillantes" (Horta Rodriguez, p. 41). On abandonne non seulement la création de ces "corps", mais aussi l’idée de leur intégration éventuelle dans l’armée, comme cela avait pu être envisagé antérieurement. 

Ainsi, les autorités renforcent des positions héritières de l’Ancien Régime qui trouveront leur consécration lors de la tenue du Congrès de Vienne, entre novembre 1814 et juin 1815. Schmitt considère d’ailleurs que ce Congrès peut se présenter comme une gigantesque œuvre de "Restauration", au sens propre comme au sens figuré : par-delà la "restauration" du principe de légitimité dynastique en Europe se trouve induit celui du droit classique de la guerre, mis à mal par la tornade révolutionnaire. C’est bien ce qu’annonce le règlement espagnol de 1814, qui sonne en fait comme une reprise en main, avec un retour à travers la « régularité » de l’armée, à la légitimité royale, une fois le danger passé.

Le problème délicat entre tous est celui de la réintégration de ces hommes dans la vie civile. Le règlement de 1812 avait prévu d’une manière imprécise mais néanmoins généreuse, la possibilité pour les officiers de la guérilla d’entrer dans l’armée. Le règlement de 1814 réaffirme encore cette possibilité, mais avec beaucoup plus de réserves. Il est stipulé que, "afin de ne pas porter préjudice en aucune manière aux classes méritantes de l’armée, ils occuperont, lorsqu’ils l’auront obtenu, à grade égal, un poste inférieur" (Horta Rodriguez, p.41). On ne saurait être plus explicite.

Les conséquences sur le plan européen induites par l’exemple espagnol de la guérilla et la légitimation juridico-politique qui lui est donnée sont considérables. Les différents règlements pour la guérilla espagnole constituent un précédent et un exemple décisif qui sera repris par d’autres pays en lutte contre Napoléon, notamment à travers l’Édit royal prussien d’avril 1813 – le Landsturm Ordnung –, puis lors de la campagne de Russie, voire bien au-delà. 

Le Congrès de Vienne qui suit la défaite de Napoléon apparaît certes comme une tentative inédite de Restauration de l’ancien nomos européen de la terre et du droit classique qui lui était afférent. Il semble même renvoyer le "partisan" aux oubliettes de l’Histoire. Mais, pour Carl Schmitt, c’était mal mesurer l’importance de ce qui venait de se passer. L’émergence de la figure conceptuelle du partisan au sein d’un cadre juridico-politique sans précédent avait irréversiblement sonné le glas du droit  "classique", et le fait est qu’il sera appelé au destin extraordinaire que l’on sait au XXe siècle.

David RIGOULET-ROZE
http://www.theatrum-belli.com

article paru dans les Cahiers du Centre d'Etudes d'Histoire de la Défense n°18 (2002)

NOTES :

1/ Littéralement "afrancisés", c'est-à-dire membres du parti pro-français.
2/ L'armée royale.
3/ Cf. Jover Zamora (José Maria), "La guerra de la Independencia Espanola en el marco de las guerras europas de liberacion (1808-1814)", in Historia de la guerra 1. La guerra de la Independencia Espanola y los sitios de Zaragoza, Universidad Ayuntamiento de Zaragoza, Saragosse, 1958, 636 pages, p. 41-165.
4/ Instruccion que Sa Majestad se ha dignado aprobar par el Corso terrestre contra los exécritos francesos, soumis par V. Alcala Galiano à la Junte Centrale.
5/ Selon le dictionnaire de la langue espagnole, le corso est "la campagne que les marchands, patentés par leur gouvernement, mènent contre les pirates ou les embarcations ennemies" ; la patente du corso, quant à elle, est une "cédule ou un brevet par lequel le gouvernement d'un État qui autorise un sujet à participer à l'expédition maritime contre les ennemis de la nation". Cf. Dictionario de la lengua espanola, Real Academia Espanola, Madrid, 1956, p. 374.
6/ Le règlement de 1812 fut publié à Cadix par Don Nicolas Gomez Requena.
7/ La régence avait déjà tenté de corriger par des décisions de portée limitée les abus que les règlements antérieurs n'ont pu que favoriser. Ainsi, le 15 septembre 1811, elle avait donné des instructions pour dissoudre les cuadrillas qui causent des torts à la population.
8/ La campagne de Russie s'achève en novembre 1812 par la Bérézina, et 1813 est l'année de la coalition générale contre Napoléon (Autriche, Russie, Prusse), lequel sera vaincu à la bataille de Leipzig en octobre 1813.

vendredi, 13 avril 2012

Histoire des Berbères, des origines à nos jours

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Sortie du nouveau livre de Bernard Lugan :
Histoire des Berbères, des origines à nos jours. Un combat identitaire pluri-millénaire.
 
IMPORTANT : Ce livre édité par l'Afrique Réelle n'est pas disponible dans les librairies ou les sites de commandes en ligne. Seule l'Afrique Réelle le distribue.
 
Prix (frais de port compris) :
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- 38 € pour livraison dans le reste du monde (en recommandé avec AR)
- 25 € à partir de 5 livres
 
Pour le commander, 2 possibilités :
- Par carte bleue ou Paypal :
- Par chèque avec le bon de commande ci-joint à imprimer et à nous retourner
 

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Présentation de l'ouvrage
 

Les Berbères ou Imazighen (Amazigh au singulier) constituent le fond ancien de la population de l’Afrique du Nord. Ils formaient à l’origine un seul Peuple peu à peu fragmenté par une histoire à la fois riche, complexe et mouvementée. Des dynasties berbères régnèrent  sur le Maghreb jusqu’au XVI° siècle.

Les partisans de l’arabo-islamisme affirment que les Berbères sont sortis de l’histoire, leur conversion à l’Islam les ayant inscrits de façon irréversible dans l’aire politico-culturelle de l’arabité. Dans les années 1950, la revue Al Maghrib alla ainsi jusqu’à écrire qu’ils ne peuvent accéder au Paradis que s’ils se rattachent à des lignées arabes. Quant auministre algérien de l’Education nationale, il déclara en 1962 qu’ils « sont une invention des Pères Blancs ».

 Aujourd’hui, les dirigeants arabo-islamiques nord africains doivent faire face au réveil berbère si fortement exprimé en 2004 par Mohammed Chafik au travers de sa célèbre question réponse: « Au fait, pourquoi le Maghreb arabe n’arrive-t-il pas à se former ? C’est précisément parce qu’il n’est pas Arabe ». Cette phrase était incluse dans un article dont le titre explosif était : « Et si l’on décolonisait l’Afrique du Nord pour de bon ! », intitulé signifiant qu’après avoir chassé les Français, il convenait désormais pour les Berbères d’en faire de même avec les Arabes…

Qui sont donc les Berbères ? Quelle est leur origine ? Comment furent-ils islamisés ? Quelle est leur longue histoire ? Comment se fait aujourd’hui la renaissance de la berbérité? Peut-elle être une alternative au fondamentalisme islamique ?

C’est à ces questions qu’est consacré ce livre qui n’a pas d’équivalent. Son approche est ethno historique et couvre une période de 10 000 ans. Il est illustré par de nombreuses cartes en couleur et par des photographies.

 

Table des matières

 

Première partie : La Berbérie jusqu’à la conquête arabe

 

Chapitre I : Une très longue histoire

A) L’état des connaissances
B) L’Egypte, une création berbère ?

 

Chapitre II : Les Berbères durant l’Antiquité classique

A) Les Peuples et les Etats
B) Les Berbères furent-ils romanisés ?

 

Chapitre III : Les Berbères, les Vandales et les Byzantins

A) L’intrusion vandale
B) L’échec de Byzance

 

Deuxième partie : Les Berbères se convertissent à l’islam mais ils résistent à l’arabisation (VI°-XV°siècle)

 

Chapitre I : Les Berbères face à la conquête et à l’islamisation

A) Les résistances à la conquête
B) La révolte berbère du VIII° siècle

 

Chapitre II : Le monde berbère du IX° au XII° siècle

A) La Berbérie au IX° siècle
B) Le Maghreb berbéro musulman du X° au XII° siècle

 

Chapitre III : Les  grandes mutations du monde berbère (XII°-XV° siècle)

A) Les Berbères almohades et l’arabisation du Maghreb (XII°-XIII°)
B) La question arabe
C) Le tournant des XIII°-XV° siècles

 

Troisième partie : Des Berbères dominés à la renaissance de la Tamazgha

 

Chapitre I : Les Berbères perdent la maîtrise de leur destin (XVI°-XIX° siècle)

A) Le Maroc entre Arabes et Berbères
B) Les Berbères et les Ottomans (XVI°-XIX° siècle)

 

Chapitre II : Les Berbères et la colonisation

A) Algérie : de la marginalisation à la prise de conscience
B) Maroc : les Berbères victimes du Protectorat ?

 

Chapitre III : La renaissance berbère aujourd’hui

A) Maroc : de la stigmatisation à la cohésion nationale
B) Algérie : entre berbérisme et jacobinisme arabo-musulman
C) Les autres composantes de la Tamazgha

 

- Bibliographie
- Index des noms de personnes
- Index des tribus et des peuples

 

vendredi, 06 avril 2012

La Germania dionisiaca di Alfred Bäumler

La Germania dionisiaca di Alfred Bäumler

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

Baeumler_Alfred.jpgAlfred Baeumler fu il primo filosofo tedesco a dare di Nietzsche un’interpretazione politica. Prima di Jaspers e di Heidegger, che ne furono influenzati, egli vide nella Germania “ellenica” pensata da Nietzsche la raffigurazione eroica di una rivoluzione dei valori primordiali incarnati dalla Grecia arcaica, il cui perno filosofico e ideologico veniva ravvisato nel controverso testo sulla Volontà di potenza. Asistematico nella forma, ma coerentissimo nella sostanza.

In una serie di scritti che vanno dal 1929 al 1964, Baeumler ingaggiò una lotta culturale per ricondurre Nietzsche nel suo alveo naturale di pensatore storico e politico, sottraendolo ai tentativi di quanti – allora come oggi -, insistendo su interpretazioni metafisiche o psicologizzanti, avevano inteso e intendono disinnescare le potenzialità dirompenti della visione del mondo nietzscheana, al fine di ridurla a un innocuo caso intellettuale.

Ora questi scritti di Baeumler vengono riuniti e pubblicati dalle Edizioni di Ar sotto il titolo L’innocenza del divenire, in un’edizione di alto valore filologico e documentale, ma soprattutto filosofico e storico-politico. Un evento culturale più unico che raro nel panorama dell’editoria colta italiana, così spesso dedita alle rimasticature piuttosto che allo scientifico lavoro di scavo in profondità.

Inoltre, l’edizione in parola reca in appendice una postilla di Marianne Baeumler, consorte del filosofo, in cui si chiariscono i temi della famosa polemica innescata da Mazzino Montinari, il curatore di un’edizione italiana delle opere di Nietzsche rimasto famoso per i suoi tenacissimi sforzi di edulcorarne il pensiero, sovente deformandone i passaggi culminali.

 

La polemica, vecchia di decenni (data dall’insano innamoramento della “sinistra” per Nietzsche, tra le pieghe dei cui aforismi cercò invano consolazione per l’insuperabile dissesto culturale e ideologico, precipitato nella sindrome del “pensiero debole”), è tuttavia ancora di attualità, stante il mai superato stallo del progressismo, non ancora pervenuto ad un’ onesta analisi del proprio fallimento epocale e quindi dedito da anni a operazioni di strumentale verniciatura della cultura europea del Novecento. È anche per questo che il breve scritto di Marianne Baeumler acquista un particolare significato, anche simbolico, di raddrizzamento dell’ esegesi nietzscheana, dopo lunghe stagioni di incontrollate manomissioni interpretative.

 

Effettivamente, una falsificazione di Nietzsche è esistita – soprattutto in relazione alla Volontà di potenza ma non dalla parte di Elisabeth Nietzsche, bensì proprio di coloro che, come Montinari e Colli, si studiarono di trasformare l’eroismo tragico espresso da Nietzsche con ruggiti leonini nel belato di un agnello buonista : uno sguardo alla postfazione del curatore e traduttore Luigi Alessandro Terzuolo, basterà per rendersi conto, testi alla mano, della volontà di mistificazione ideologica lucidamente perseguita dai soliti noti, con esiti di aperta e democratica contraffazione.

 

Negli scritti (studi, postfazioni, saggi estratti da altre opere) raccolti in L’innocenza del divenire, Alfred Baeumler misura la forza concettuale di Nietzsche in relazione alla storia, al carattere culturale germanico e al destino della cultura europea. Egli individua come ultimo elemento di scissione lo spirito borghese, che si è inserito sotto la dialettica hegeliana per operare una sciagurata sovrammissione tra mondo classico antico e cristianesimo, ottenendo così un nefasto obnubilamento tanto del primo quanto del secondo. Un procedimento, questo, che Nietzsche riteneva decisivo per la perdita di contatto tra cultura europea e identità originaria. Una catastrofe del pensiero che si sarebbe riverberata sul destino europeo, consegnato al moralismo e sottratto all’autenticità, per cie prima speculative e poi politiche. Solo in quella nuova Ellade che doveva essere la Germania, preconizzata prima dalla cultura romantica e dalla sua sensibilità per le tradizioni mitiche popolari, poi da Holderlin e infine da Nietzsche, si sarebbe realizzata, secondo Baeumler, la riconquista dell’unità dell’uomo, finalmente liberato dalle intellettualizzazioni razionaliste e ricondotto alla verità primaria fatta di mente, di corpo, di volontà, di lotta ordinatrice, di eroismo dionisiaco, di legami di storia e di natura, di verginità di istinti e di slanci, di serena convivenza con la tragicità del destino, di oltrepassamenti verso una visione del mito come anima religiosa primordiale, come superumana volontà di potenza. Col suo duro lavoro di studioso, è come se Baeumler ci restituisse, insomma, il vero Nietzsche. Il profeta del ritorno alle radici di popolo della Grecia pre-socratica, quando valeva la prima devozione agli dèi dell’Europa, secondo quanto cantò Holderlin, in un brano ripreso non a caso da Baeumler nel suo Hellas und Germanien uscito nel 1937 : “Solo al cospetto dei Celesti i popoli / ubbidiscono al sacro ordine gerarchico / erigendo templi e città.. .”.

 

La pubblicazione degli scritti di Baeumler – dovuta all’unica casa editrice italiana che si stia metodicamente interessando al filosofo tedesco, volutamente occultato in omaggio ai perduranti blocchi mentali – si inquadra nello sforzo culturale di porre termine, per quanto possibile, alla stagione delle dogmatiche falsificatorie. Un decisivo documento che va in questa stessa direzione è, tra l’altro, il recente lavoro di Domenico Losurdo su Nietzsche come ribelle aristocratico. Pubblicare Baeumler – come le Ar hanno fatto anche coi precedenti Estetica e Nietzsche filosofo e politico – significa lasciare tracce eloquenti di quel contro-pensiero intimamente radicato nell’anima europea e incardinato sulla denuncia del modernismo progrossista come finale maschera del caos, che oggi o viene semplicemente ignorato per deficienza di mezzi intellettuali, o viene piegato alle esigenze del potere censorio, oppure viene relegato tra le voci della dissonanza. Il che, nella logica del pensiero unico, significa condanna e diffamazione.

 

* * *

 

Tratto da Linea del 1 dicembre 2003.

dimanche, 01 avril 2012

Ephémérides d'avril

Ephémérides d'avril

AVRIL :

3 avril 1866 : Naissance à proximité de la ville de Wellington dans la Colonie du Cap de James Barry Munnik Hertzog, militaire et homme politique au service des Britanniques, qui devint Premier Ministre de l'Union Sud-Africaine entre 1924 et 1939. Face aux gouvernements de Londres, Hertzog a toujours défendu deux principes de base: primauté des intérêts sud-africains propres, même aux dépens de ceux de Londres, et la politique dite des “deux courants” (Two-Streams-Policy), où les deux communautés européennes d'Afrique du Sud, la Britannique et l'Afrikaander pourraient amorcer un développement séparé mais harmonieux, où ni la première ni la seconde ne domineraient l'autre de manière insupportable. Hertzog, juriste de formation, avait présidé la Haute Court de justice de l'Etat Libre d'Orange, pour ensuite devenir un organisateur hors pair de la guérilla des Boers contre les Britanniques. Après ce conflit sanglant, qui n'a certes pas doré le blason de l'Empire britannique, Hertzog fonde le "Orangia Unie Party", réclamant l'auto-détermination des colons de souche hollandaise, allemande et huguenote. Dans ce combat politique, il sauve de la disparition la langue afrikaander, en en faisant l'une des deux langues officielles de l'Union Sud-Africaine. En désaccord avec Louis Botha, il fonde en 1914, l'Afrikaander Nationalist Party, qui gagne rapidement le soutien de certaines strates de la population, parce qu'il s'oppose à la guerre contre l'Allemagne. Hertzog fait ensuite voter des lois pour protéger l'industrie sud-africaine contre la spéculation libérale et cosmopolite, dès qu'il accède au pouvoir en 1924, avec l'appui des travaillistes. Il oblige Londres à concéder la “Statut de Westminster” (1931), accordant aux républiques afrikaander le droit de faire sécession de l'Empire britannique. Il amorce également une politique équilibrée de “développement séparé” des Noirs et des Blancs, que dénonceront les extrémistes du “Purified Nationalist Party” de Daniel F. Malan, préconisant un apartheid pur et dur. En 1938, Hertzog triomphe aux élections et en­tend mener une politique de neutralité dans le conflit qui s'annonce en Europe. Mais Smuts, son allié, est pro-britannique et fait passer une motion qui condamne la neutralité; logique avec lui-même, Hertzog démissionne et devient le chef de file de l'opposition au nouveau gouvernement Smuts, allié aux extrémistes de Malan, qui, finalement, torpillent ses mesures de ségrégation tempérée. Il se retire, dégoûté, de la politique à la fin de l'année 1940. Il meurt à Pretoria le 21 novembre 1942.
 
4 avril 1949 : Les Etats-Unis, le Canada et dix pays européens signent à Paris le “Pacte Atlantique”, l’OTAN. En réalité, ce pacte ne représente nullement l’adhésion libre de pays souverains mais l’aliénation totale de la souveraineté des membres européens de ce pacte. Il n’a pas servi à contrer le communisme, comme le croient les naïfs et les traitres, mais à placer les pays européens sous un contrôle étroit, afin qu’ils soient incapables de développer une industrie militaire, aéronautique et navale autonome. En théorie, l’OTAN devait, en matière de développement de matériels militaires et de commerce des armements, être une “Two-Ways-Street”, une “voie à deux sens”. Les Américains ont intrigué, acheté de vils politiciens corrompus, des canailles souvent socialistes, pour que cette “voie à deux sens” devienne rapidement une “voie à un seul sens”, une “One-Way-Street”, où les Etats-Unis  devenaient les principaux fournisseurs de matériels, surtout en aviation (on se rappelera du “contrat du siècle” de 1975, ayant servi à fourguer des F-16 sous-équipés au plein prix pour casser l’élan de Dassault et de Saab; l’opération s’est répétée récemment en Pologne). De Gaulle a tenté de réagir à cette inféodation dangereuse, car l’industrie militaire est presque toujours à l’origine de développements civils importants, mais sans les résultats escomptés à long terme. Dans un premier temps, la France a effectivement pu accroître ses industries aéronautiques, en vendre les produits, dont les Mirages III, dans le monde (Amérique Latine, Israël, Australie, Inde), mais la crise de mai 68, plus que probablement téléguidée depuis Washington, a chassé le vieux général du pouvoir et surtout privé ses collaborateurs, plus intelligents que lui, de tout soutien politique. Comme aiment à le dire les “vieux gaulliens”, la France est alors tombée aux mains des “comploteurs auvergnats” (Pompidou, Giscard, Mitterrand), qui ont détricoté les acquis de ce gaullisme offensif des années 60 et ramené bravement la France dans le giron atlantiste.
 
5 avril 1920 : En dépit des engouements pro-américains qui sévissent en Europe à la suite de l’intervention des troupes du Général Pershing en France en 1918, le journaliste de Paris-Midi, Maurice de Waleffe, fustige l’invasion des écrans français par les films américains. Il s’agit là d’un des tout premiers actes de résistance identitaire face à un fléau qui allait disloquer les fondements mêmes de l’identité européenne, soit l’invasion de fictions distrayantes dont l’objectif est de créer des loisirs artificiels déconnectés des traditions folkloriques et littéraires et de l’histoire réelle des peuples. Cette réaction de Maurice de Waleffe montre que l’intention américaine de coloniser le mental des peuples européens ne date pas seulement d’après la seconde guerre mondiale. Dès la fin de la première des “grandes conflagrations” fratricides d’Europe, l’industrie américaine du loisir avait planifié la mise au pas des peuples de notre continent, par le biais d’une technique nouvelle, celle de l’art cinématographique, qui en était à ses premiers balbutiements.
 
6 avril 1875 : Mort à Paris du socialiste et militant juif Moses Hess, fortement influencé dans ses démarches par sa lecture approfondie de Spinoza et de Hegel. Hess fonde une forme de socialisme libertaire, idéaliste, assorti de la création de groupes ouvriers de travail politique, auxquels participera également Karl Marx. Mais Marx se détachera rapidement de lui et l'insultera dans le “Manifeste Communiste”, qualifiant son système d'“utopique”. Moses Hess passera surtout à la postérité pour son ouvrage Rom und Jerusalem, qui aura un impact considérable sur des figures du sionisme comme Ahad Ha'am et Théodore Herzl : Hess y définit l'identité juive, considérée comme inassimilable dans toute autre nation. Il en déduit que les Juifs doivent avoir un sol quelque part dans le monde. Hess critique toutes les formes d'universalisme qu'adopte le judaïsme réformé, car elles abandonnent la spécificité juive pour se perdre dans des mirages sans consistance. La lecture d'Hess demeure des plus intéressantes aujourd'hui, dans la mesure où il plaide, au sein du judaïsme, pour une spécificité qu'il ne faut pas noyer dans des discours soi-disant universalistes (constat qui vaut évidemment pour toutes les nations, celles qui sont considérées par lui comme nomades, dont les Juifs, ou celles qui sont sédentaires). Ipso facto, ses démonstrations peuvent nous aider à lutter contre les discours universalistes médiatiques actuels, notamment en francophonie, où l'on assiste à cette curieuse collusion entre un certain discours prononcé par de vrais ou de faux Juifs sur un nomadisme qui serait universaliste et transcenderait toutes les appartenances, et l'idéologie ethnocidaire et arasante de la République, qui refuse de tenir compte des données anthropologiques naturelles et des idiosyncrasies individuelles ou communautaires.

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8 avril 1946 : Juan Peron est élu président de la République argentine avec 1.527.231 voix, soit 55% des suffrages exprimés. La gauche avait déçu la classe ouvrière argentine en s’alliant avec des partis de droite, peu enclins à satisfaire ses aspirations sociales légitimes. Les vieux partis sont déconsidérés. Les schémas politiques traditionnels sont fracassés. Le peuple argentin a réussi une révolution en toute légalité. Il est intéressant de noter que lors de la campagne électorale, à l’instigation de l’ambassadeur des Etats-Unis, Braden, les services américains avaient composé de toutes pièces un “Livre Bleu”, qui attestait, soi-disant, de la collusion entre Peron et les nazis (pourtant vaincus depuis un an). Toute l’opposition à Péron reprenait à l’unisson ce thème du “nazisme” du Général et de son épouse. La classe ouvrière argentine n’a pas été dupe. Mais, sur fond de révolution orange en Ukraine et en Biélorussie aujourd’hui, on voit que les méthodes d’agit-prop n’ont pas changé, à la seule différence que les hitlériens ne sont plus guère invoqués, mais, en revanche, on agite à qui-mieux-mieux le croquemitaine du stalinisme... Dès le 22 février 1944, ce montage se dégonfle comme une baudruche: on peut prouver que le “Livre Bleu” est un montage fabriqué par Braden. L’objectif américain de déstabiliser l’Argentine et de la condamner à n’avoir que des gouvernements inefficaces s’inscrivait dans une logique géopolitique déjà ancienne. En 1933, le Pacte Roca-Runciman avait mis l’Argentine sous la coupe des Britanniques et arrêté ainsi toute pénétration américaine. Avec l’affaiblissement définitif de l’Angleterre à la suite de la deuxième guerre mondiale, les Américains ont tenté de remettre les pieds dans les pays du bassin du Rio de la Plata. Un pouvoir, tel celui qu’annonçait Peron, aurait bloqué ce retour. Voilà la raison pour laquelle, Péron était l’ennemi à abattre, le nouveau “nazi” de service. Ironie de l’histoire: les Britanniques ne manqueront pas de critiquer sévèrement les maladresses de Braden et de la politique étrangère américaine, vu que c’était eux qui étaient évincés du bassin du Rio de la Plata. Cependant, ni la tutelle britannique sur le commerce des viandes ni la tutelle américaine ne sont acceptables pour les peuples du Cône Sud de l’Amérique ibérique.
 
9 avril 1940 : Le chef du mouvement nationaliste norvégien “Nasjonal Samling”, Vidkun Quisling, forme un gouvernement qui annonce tout de go qu’il sera pro-allemand et mettra un terme à la politique traditionnellement pro-britannique de la Norvège. Les troupes allemandes entrent en Norvège, dans le but premier d’empêcher un débarquement britannique visant à couper à l’Allemagne la route du fer suédois. Quisling, qui n’avait jamais obtenu un seul mandat lors des législatives d’avant-guerre, devient chef d’un gouvernement sans assises populaires, comptant huit autres membres, tous issus du “Nasjonal Samling”. Les autorités allemandes dissolvent ce gouvernement le 15 avril 1940, vu  son impopularité et son absence d’ancrage dans la population. Quisling est nommé par les autorités d’occupation “Haut Commissaire à la Démobilisation”. Le pays sera gouverné par l’ancien Gauleiter de Düsseldorf, Josef Terboven. Quisling s’engagera dans une collaboration totale avec l’occupant, bien que le tribunal qui le jugera et le condamnera à mort en 1945 ne retiendra pas l’accusation d’avoir favorisé l’invasion ennemie. La biographie de Quisling est cepandant plus intéressante avant la création de  ses mouvements politiques dans les années 30, qui l’ont conduit à sa perte. Brillant étudiant au lycée puis à l’académie militaire norvégienne, il deviendra attaché militaire en Russie en 1917, au moment où éclate la révolution. Il sera à Moscou avec son compatriote Prytz (qui le rejoindra au “Nasjonal Samling” dans les années 30) et renseignera son gouvernement sur les événements tragiques qui secouèrent la Russie à l’époque. On s’étonnera d’apprendre, aujourd’hui, où son nom même désigne le “traitre” ou le “collaborateur” (des Allemands) en langue anglaise, qu’il a d’abord sympathisé avec la cause communiste et favorisé l’engagement de ses compatriotes dans l’armée rouge. En 1921, il accompagne Frithjof Nansen dans le cadre des activités de l’explorateur norvégien en Ukraine, au sein d’une “ONG” avant la lettre, le “Russian Relief Committee”. La situation épouvantable qu’il découvre en Ukraine, où la population connaît famines et massacres, l’oblige à prendre ses distances avec le communisme, qu’il avait trouvé dans un premier temps intéressant, rénovateur et prometteur. En 1925, toujours avec Nansen, il se rend en Arménie pour le compte de la SdN. Cette longue expérience soviétique fait de lui un anti-communiste convaincu. Il adhère aussi à certaines idées réformatrices de ce grand humaniste nordique que fut Frithjof Nansen (décédé en 1930). Dans son testament politique, Nansen avait appelé le peuple norvégien “à libérer la patrie de la lutte des classes et de la politique des partis et à lutter sur base de principes politiques et économiques sains pour l’unité nationale et la renaissance du pays”. Quisling reste donc fidèle à son ancien “patron”. Il n’abandonne pas pour autant sa vision d’un socialisme populaire: il écrit vouloir des “soviets sans communisme”. Les partis qu’il fonde dans les années 30 ne sont malheureusement qu’un simple calque du “grand frère” allemand. Toutefois, soucieux de maintenir la Scandinavie dans la paix, il adoptera des positions pacifistes dès les accords de Munich, entendra soustraire la Norvège à l’influence prépondérante de la Grande-Bretagne, et lancera en octobre 1939 un appel à la paix qu’il adressera au Premier Ministre britannique. Quand les troupes allemandes et leurs alliés entrent en Union Soviétique en 1941, Quisling, dont l’épouse est russe, lance un appel à la mansuétude des envahisseurs: il demande aux Allemands de rentrer dans les villes et les villages russes, biélorusses et ukrainiens en libérateurs, de donner l’autonomie aux peuples et de rendre la terre aux paysans. Il n’a guère été entendu.
 
10 avril 1864 : Maximilien d’Autriche devient empereur du Mexique, grâce au soutien de la France et de la Belgique. L’Europe profite par là de la Guerre de Sécession qui ravage les Etats-Unis pour reprendre pied dans le Nouveau Monde.  Nommer un “empereur” dans cette région peu paraître désuet, et ce l’est, mais ce geste, qui nous apparaît maintenant comme un vaudeville à la fin tragique, demeure malgré tout la dernière tentative européenne de contenir les Etats-Unis, de les empêcher de faire main basse sur toute l’Amérique ibérique. Mais dès la fin de la guerre civile nord-américaine, les Etats-Unis, sans perdre de temps, font pression et obligent les Mexicains à demander le retrait des troupes françaises du Maréchal Bazaine, le 18 décembre 1866. Sans l’appui de ces troupes européennes, l’Empereur Maximilien est battu par les armées de Benito Juarez, qu’appuient les Etats-Unis. Maximilien est capturé et exécuté le 19 juin 1867. Juarez restaure la République et entame une répression féroce, éliminant physiquement toutes les notabilités liées à la tradition européenne. La barbarie, une fois de plus, s’est déclenchée sous le masque d’une “libération”, qui n’annonçait évidemment rien d’autre qu’une domination américaine.
 
11 avril 1818 : Naissance à Hsiangyin dans la province chinoise du Hunan de Kuo Sung-tao, qui fut le premier ambassadeur de Chine à l'étranger, en l'occurrence à Londres. Il prit ses fonctions dans la capitale anglaise en 1877. En observant la vie quotidienne de la capitale britannique et l'explosion économique de la métropole impériale, il écrit à son gouvernement qu'il faut d'urgence introduire en Chine une politique d'occidentalisation technique, c'est-à-dire construire des chemins de fer et introduire le télégraphe. Ce conseil a été très mal vu dans les milieux officiels chinois, si bien que son journal de voyage (“De Changhaï à Londres”) est interdit de parution. En 1878 déjà, il reçoit l'ordre de revenir à Pékin. Méfiant, il se retire dans son village natal, où il meurt en 1891. Kuo Sung-tao a voulu un Meiji chinois. Ceux qui ne l'ont pas écouté sont responsables du retard chinois. Ils en portent la responsabilité devant l'histoire.
 
12 avril 1931 : Les républicains espagnols remportent les élections municipales, couplées à un référendum sur la monarchie, confirmant de la sorte une nette majorité en faveur de l’instauration d’une république plus sociale, que l’Europe, y compris l’Italie mussolinienne, s’empresse de reconnaître. Cette victoire force le roi Alphonse XIII à quitter le pays. La 2ième République est proclamée. Le 9 décembre, elle se donnera une constitution. Le 6 septembre 1932, les Cortes accordent l’autonomie à la Catalogne. Une ère nouvelle faite de liberté et de modernité semble s’annoncer au Sud des Pyrénées. Mais en octobre 1934, la République ordonne de réprimer cruellement le soulèvement ouvrier de la “Commune des Asturies”. 3000 ouvriers sont massacrés. 40.000 personnes sont arrêtées. Cela conduit à une radicalisation de la gauche, contre la gauche modérée mais répressive, permettant au “Front Populaire” d’emporter une victoire électorale aux Cortes le 16 février 1936. Le 18 juillet 1936, l’armée se soulève, amorçant ainsi la terrible guerre civile que connaîtra le pays jusqu’en 1939. La gauche n’aime pas rappeler que ce sont justement les Républicains qui ont maté, de la manière la plus cruelle qui soit, le soulèvement ouvrier des Asturies. La guerre d’Espagne, à la lumière de ces faits, ne doit pas être jugée et analysée selon des schémas binaires et manichéens.
 
200px-Frank_murphy_supreme_court_justice.jpg13 avril 1890 : Naissance à Harbor Beach dans le Michigan de Frank Murphy, juriste américain, appointé près la Court Suprême des Etats-Unis. Plusieurs principes politiques ont animé sa carrière : la défense absolue des libertés individuelles et civiles, la volonté de faire triompher une justice se basant sur l'argumentation de fond (substantielle) contre le poids des techniques de droit. Maire de Détroit de 1930 à 1933, il luttera efficacement contre le chômage et, gouverneur du Michigan, en 1937-38, il refusera de faire usage de la troupe pour briser les grèves non violentes dans l'industrie automobile. Haut commissaire américain aux Philippines, il œuvrera pour la décolonisation et l'indépendance de l'archipel. En 1944, il dénonce comme racisme et injustice l'internement systématique des citoyens américains de souche japonaise.
 
14 avril 1971: Le Président des Etats-Unis, Richard Nixon, amorce sa politique de normalisation à l’égard de la Chine communiste, dans la mesure où, désormais, le commerce entre les deux Etats est libéralisé. Cette mesure prend la suite d’une autre, décidée un mois auparavant, le 15 mars 1971, et qui autorisait dorénavant les citoyens américains à voyager en Chine. La normalisation commence par un acte symbolique et sympathique, bien médiatisable: la visite de joueurs américains de ping-pong en Chine, où ils affronteront l’équipe nationale chinoise. L’objectif géopolitique, basé sur les principes de la diplomatie traditionnelle, est de parfaire, par le biais d’une normalisation des relations sino-américaines, l’encerclement de l’Union Soviétique, où la Chine de Mao jouerait le rôle de l’allié de revers. Après Nixon, avec Reagan, le mode d’approche  des présidences républicaines ne sera plus diplomatique et traditionnel, mais basé sur un schéma manichéen, de lutte contre l’ “empire du mal”, qui sera encore renforcé sous les deux Bush, au point de devenir franchement caricatural. Les démocrates seront, eux aussi, atteint par cette maladie idéologique consistant à mêler diplomatie et théologie. Si Nixon était encore un Républicain classique, ses successeurs feront reculer les acquis de la diplomatie traditionnelle, donc de la civilisation et du principe du 18ième siècle, cher à Carl Schmitt, de la “guerre de formes”. Les guerres ne sont donc plus de “formes”, et, par voie de conséquence, limitées dans leurs objectifs et finalités, mais idéologisées et absoluisées, donc sans mesure ni modération, car, dans cette optique, l’ennemi n’est plus un Etat qui défend ses intérêts légitimes, mais l’incarnation du mal absolu, qu’il convient d’éradiquer. De telles postures sont susceptibles de déclencher des conflits sans fin, où la personnalité de l’ennemi n’est plus respectée comme telle. Aujourd’hui, les néo-conservateurs, anciens trotskistes reconvertis, qui ont investi et perverti le parti républicain américain, se moquent ouvertement des principes de la diplomatie, qu’ils considèrent comme des vieilleries bonnes à jeter aux orties, comme des oripeaux désuets d’un passé révolu, dont relève la “Vieille Europe”, centrée autour du binôme franco-allemand. La normalisation des rapports sino-américains, amorcée par Nixon et Kissinger au début des années 70 du 20ième siècle, portera bel et bien un premier coup dur à l’Union Soviétique, déjà en perte de vitesse. Ce coup de maître de la diplomatie nixonienne et kissingerienne scindera aussi définitivement le camp communiste en deux partis antagonistes, inféodés l’un à Moscou, l’autre à Pékin. Cela aura pour résultat que le Vietnam obtiendra le soutien de Moscou, le Cambodge celui de la Chine; les deux petites puissances du Sud-Est asiatique s’affronteront dans un combat sanglant, scellant définitivement la fin de l’unité dans le camp communiste. Dans la mouvance identitaire, l’ancien général italien Guido Giannettini, limogé et réprouvé parce qu’il n’était pas un béni-oui-oui atlantiste, sera le seul à avoir posé, à l’heure et à temps et de façon cohérente, une analyse méticuleuse de cette problématique, exhortant les européistes traditionalistes à soutenir la Russie dans ce combat  planétaire. Le reste de la mouvance restant désespérément fidèle à un atlantisme délirant ou refusant, par myopie politique et désintérêt pour la marche du monde, d’analyser les clivages au sein des divers communismes (trotskistes pro-occidentaux, communistes fidèles à Moscou, maoïstes soudainement devenus pro-occidentaux, etc.). Si le mouvement identitaire barbote, empétré dans ses contradictions, et se retrouve à la traîne aujourd’hui, c’est faute d’avoir posé les bonnes analyses au début des années 70, dene pas avoir suivi les leçons du Général Giannettini.

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15 avril 1927 : Pierre-Georges Latécoère, l’avioneur français, vend 93% de ses actions de la CGEA à Marcel Bouilloux-Lafont de la SUDAM, afin de pouvoir disposer d’une couverture financière plus solide pour assurer les liaisons, coûteuses et difficiles à l’époque, entre l’Europe et le continent sud-américain. De la fusion de ces énergies naîtra la fameuse “Aéropostale”, où s’illustreront Mermoz et Saint-Exupéry. Le 15 octobre, deux aviateurs, Costes et Le Brix réussisent pour la première fois à traverser l’Atlantique Sud au départ du Sénégal, sur un Bréguet 19, un appareil produit par la concurrence de Latécoère. Leur destination était Natal au Brésil. La France comptait exploiter ses atouts géopolitiques dans la conquête des lignes aériennes; possédant le Sénégal, elle est la plus proche du continent sud-américain. Les lignes longent l’Afrique du Nord en quelques escales, puis s’élancent vers le Brésil. C’est la réponse à un défi américain: en effet, au nom du “désarmement naval”, les Etats-Unis et la Grande-Bretagne ont imposé à leurs alliés français et italiens de la première guerre mondiale, ainsi qu’aux Allemands vaincus, une réduction drastique du nombre de leurs bâtiments et de leur tonnage. Les Allemands  sont condamnés à  ne plus avoir de flotte.  Les Européens tentent donc de remplacer les navires par une technique nouvelle, l’aviation, et pour les Allemands en particulier et en plus, par les dirigeables. L’objectif est aussi de renforcer les liens entre l’Europe et l’Amérique ibérique. Mais ils n’unissent pas leurs efforts, se font concurrence, et, après 1945, seront supplantés par les avioneurs américains. Airbus est une seconde tentative pour redonner à l’Europe une industrie aéronautique digne de ce nom: heureusement, cette fois, dans un esprit de coopération.
 
17 avril 1897 : L’Empire ottoman déclare la guerre à la Grèce, qu’il accuse d’avoir favorisé l’agitation de patriotes grecs-crétois, voulant libérer leur île du joug turc. La Grèce est écrasée par les armées ottomanes. Le 4 décembre 1897, le traité de Constantinople accorde toutefois l’autonomie à la Crète, que garantissent les grandes puissances européennes, mais elle reste sous suzeraineté ottomane. La Grèce conserve l’intégralité de son territoire, mais doit payer une lourde indemnité. Ce traité montre qu’il n’y a pas eu de solidarité européenne en faveur de la Grèce, alors qu’il aurait simplement suffi d’élever la voix pour faire reculer un empire ottoman aux abois. La maîtrise des grandes îles de la Méditerranée orientale est un atout stratégique majeur. La Turquie a du mal à y renoncer. Le scénario s’est répété en 1974 à Chypre. Pour justifier leur débarquement et leur conquête de la partie septentrionale de Chypre, les Turcs ont également accusé le gouvernement des colonels grecs d’avoir soutenu des milices hostiles aux Turcs et favorables à l’annexion de Chypre à la Grèce (l’ “Enosis”). Pour le mouvement identitaire, c’est une question de principe intangible: Chypre doit redevenir entièrement grecque.
 
18 avril 1912 : La marine italienne pénètre dans les Dardanelles et y bombarde des positions turques. A la suite de cette attaque surprise, dans le cadre de la guerre italo-ottomane dont l’enjeu premier était la Libye, les Turcs font fermer les Détroits. La guerre avait commencé en octobre 1911, par la volonté italienne de chasser toute présence turque hors de l’Adriatique, une menace ancienne, qui date du 15ième siècle. Ensuite, pour dégager les côtes africaines qui font face à la péninsule italique, l’armée de terre italienne envahit la Libye et en chasse les Turcs. Benito Mussolini est emprisonné pour avoir organisé des protestations violentes contre la conquête colonialiste de la Libye. En prison, il lira Nietzsche et abandonnera son socialisme eudémoniste, pour adopter l’idéologie plus belliciste et plus volontariste qui sera la sienne et donnera ultérieurement le fascisme. L’armée italienne, bien organisée, utilise de manière coordonnée et efficace sa marine, son aviation (avant toutes les autres puissances), ses fusiliers marins et son armée de terre. En février 1912, la marine italienne avait coulé deux contre-torpilleurs turcs dans le port de Beyrouth et bombardé la ville. Les troupes italiennes avaient débarqué dans les Iles du Dodécanèse en Mer Egée et en avaient fait des possessions italiennes, excellentes bases en Méditerranée orientale. Le 15 octobre 1912, la Turquie signe le Traité d’Ouchy (une petite ville suisse près de Lausanne), cède les Iles du Dodécanèse et la Libye aux Italiens. Au même moment, les petites nations balkaniques, avec l’appui de la Russie, déclenchent une guerre commune contre la présence ottomane résiduaire en Europe: Monténégrins, Serbes, Bulgares et Grecs pénètrent dans les territoires européens encore occupés par la Turquie et en chassent les armées ottomanes, qui s’enfuient en déroute, précédées par des flots de civils musulmans, autant de bourreaux détalant devant leurs victimes, qu’ils avaient oppressées pendant de longs siècles. L’armée bulgare campe même sur les rivages de la Mer de Marmara et menace directement Constantinople. Cet épisode montre que la solidarité entre Européens, quand ils mènent des actions communes, est invincible. Les victoires de 1912 seront toutefois réduites à néant par la zizanie entre pays balkaniques, qui déclenchera une seconde guerre des Balkans en 1913, une guerre fratricide entre Européens.
 
19 avril 1928 : Des troupes japonaises entrent en Chine pour prendre le contrôle de la ligne de chemin de fer de Pékin à Changhaï. C’est le début d’une volonté japonaise de mettre un terme à l’anarchie totale qui régnait en Chine, où les troupes du Kuo Min-Tang de Tchang Kaï-Tchek avaient noyé  dans le sang une révolte communiste à Changhaï en avril 1927, et à amorcer ainsi le projet impérial de “sphère de co-prospérité est-asiatique”. Cette volonté se heurte aux vieux projets américains de conquérir et de se réserver le marché chinois en toute exclusivité. Le débarquement de 1928 conduira au conflit nippo-américain de 1941 à 1945. A l’occasion de ce débarquement de 5000 soldats nippons, les Etats-Unis mettront au point un arsenal juridique fallacieux, dont ils ont le secret, pour exciter l’opinion internationale contre l’Empire du Soleil Levant. Derrière un paravent de beaux principes de droit, se dissimule en réalité la volonté de bloquer et de ruiner un adversaire et de prendre sa place. Cette méthode de manipulation du droit sera par la suite appliquée à d’autres, jusqu’à nos jours, où elle sert contre l’Irak et l’Iran. Carl Schmitt, juriste allemand, dénoncera l’inanité de ce droit, en démontera les  mécanismes et l’hypocrisie.  L’Europe n’a pas retenu sa leçon...
 
20 avril 1792 : Sous la pression des Girondins, l’Assemblée républicaine française déclare la guerre “au Roi de Bohème et de Hongrie”, autrement dit au Saint-Empire, l’Empereur étant simultanément roi de Bohème et roi de Hongrie. La première cible des hordes de sans-culottes sera notre pays, et plus particulièrement Anvers et la rive occidentale du Rhin.  Notre pays était directement, à l’époque dite “autrichienne”, sous la souveraineté de l’Empereur. Les puissances légitimes d’Europe centrale rassemblent leurs troupes et les Prussiens, mieux aguerris, reprennent les places fortes lorraines de Longwy et de Verdun, mais seront arrêtés à Valmy le 20 septembre. La retraite prussienne change le cours de la guerre: les sans-culottes marchent sur Mons et remportent la victoire de Jemmapes, le 6 novembre. La garnison hennuyère, dont le fer de lance est le Régiment du Feld-Marschall de Beaulieu n’est pas assez nombreuse pour contenir les centaines de milliers de baïonnettes, que l’on a recrutées de force dans les bas-fonds de Paris. Le pays est livré au pillage et les ancêtres idéologiques de notre crapulocratie politique socialiste et libérale participent à la curée, inaugurant une ère d’illégitimité fondamentale qui dure encore. L’année suivante, le retour de l’armée impériale, commandée par deux maréchaux impériaux wallons, un Hennuyer et un Namurois, de Beaulieu et de Clerfayt, emporte quelques victoires, libère une partie de la Flandre et du Hainaut arrachés aux Pays-Bas hispano-autrichiens par le “Roi-bandit” Louis XIV, mais, dès septembre 1793, les révolutionnaires, grâce à la pratique de la levée en masse, qui leur donne toujours une longueur d’avance face à des armées de métier au recrutement plus laborieux, finissent par battre la coalition à Hondschoote, en Flandre occupée, et à redresser la situation en leur faveur. Clausewitz, qui était à Valmy comme cadet à l’âge de douze ans, en tirera les conclusions et plaidera plus tard pour la levée en masse et la participation du peuple aux armées, dans ses mémoranda qui conduiront aux réformes prussiennes des années 1806-1815. Les “réformes prussiennes” visaient à moderniser la structure de l’Etat et de l’armée et surtout à les ouvrir aux classes populaires. Elles ont une connotation “nationale-révolutionnaire” évidente.
 
21 avril 1927 : En Italie, Mussolini promulgue la “Charte du Travail”, faisant de l’Italie fasciste un “Etat corporatiste”. Les industriels créatifs sont protégés contre tout débordement ouvrier (en fait: contre tout risque de grèves manipulées depuis  l’étranger pour briser un élan innovateur national), les ouvriers, en revanche, reçoivent la garantie d’une protection sociale généralisée. Mais les industriels doivent obéir aux injonctions de l’Etat, qui coordonne ainsi le développement de l’industrie nationale. Cette Charte est proclamée dans un contexte international houleux. L’Italie venait de s’allier à la Hongrie de Horthy, de lui livrer des armes, ruinant ainsi les projets perfides de la France de créer un vide politique au centre de notre continent, au nom d’une haine viscérale à l’endroit de la légitimité continentale que représentait, avant 1918, l’Autriche-Hongrie. Par cette alliance avec la Hongrie, réduite et enclavée, Mussolini réduit à néant les manigances de Poincaré et Clemenceau; il réarme Budapest et fragilise les satellites de la France dans la région. En Libye, les Anglais ont soudoyé les Senoussistes de l’est du pays pour créer des  manoeuvres de diversion et éloigner les Italiens d’Egypte: les généraux Graziani et Mezzeti mettent tous les moyens militaires en oeuvre pour mater cette rébellion d’intégristes musulmans se réclamant du wahhabitisme saoudien (l’alliance entre le wahhabitisme intégriste et les puissances anglo-saxonnes ne date pas d’hier...). Churchill, pourtant, lance un appel à Mussolini, pour tenter d’en faire un allié en Méditerranée. Cependant, Mussolini recule devant les protestations françaises à l’endroit de sa politique hongroise. Il refuse, épouvanté, les propositions du Comte Bethlen, ministre hongrois, qui souhaite forger un bloc  italo-germano-austro-hongrois, sanctionnant de facto l’Anschluss, pour réduire à néant les effets du Traité de Versailles. Julius Evola était partisan, lui, de ce bloc traditionnel, opposé à l’Ouest, au jacobinisme français et à la ploutocratie anglaise. Notons que les propositions de Bethlen ont été formulées bien avant l’avènement de Hitler au pouvoir, quand l’Allemagne était sociale-démocrate. Les nécessités géopolitiques transcendent les clivages idéologiques.
 
22 avril 1836 : Défaite mexicaine à San Jacinto au Texas. Le président du Mexique, Santa Anna, est pris prisonnier par des soldats texans commandés par Samuel Houston. Les hostilités avaient commencé en novembre 1835, quand les colons américains refusèrent d’abolir l’esclavage et le fédéralisme qui donnait une certaine autonomie au Texas. Le leader des Texans était Stephen Austin. L’objectif était de contrôler un maximum de côtes du Golfe du Mexique au bénéfice des Etats-Unis, puissance émergeante.  Cependant le Congrès refusera en août 1837 d’entériner l’admission de la nouvelle république dissidente du Texas au sein de l’Union, car ce Texas est constitutionnellement esclavagiste. Il faudra attendre le 28 mars 1845 pour que le Texas soit accepté dans l’Union, entraînant la rupture des relations diplomatiques entre les deux Etats. Le 13 mai 1846, à la suite d’un incident de frontière, les troupes américaines pénètrent sur le sol mexicain. En janvier 1847, la Californie est entièrement occupée. Les troupes américaines, commandée par Zachary Taylor débarquent à Veracruz. Le 20 septembre 1850, la Californie sera admise dans l’Union comme “Etat libre” (non esclavagiste), tandis que le Nouveau-Mexique et l’Utah le seront également, mais, eux, comme esclavagistes. On mesure toute l’hypocrisie de l’anti-esclavagisme de Washington, qui est, on le remarque, à la lumière de ces faits historiques, un “anti-esclavagisme à géométrie variable”, comme il y aura, plus tard, du “démocratisme” ou du “droit-de-l’hommisme” à géométrie variable. L’objectif  stratégique réel de la guerre contre le Mexique était de créer un Etat bi-océanique, de l’Atlantique au Pacifique, de lui donner une dimension continentale et donc, à terme, un statut de grande puissance globale. La conclusion du Traité de Washington du 15 juin 1846, entre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, fixe la frontière entre le Canada, possession britannique, et les Etats-Unis, au 49ième parallèle, assurant ainsi la domination américaine sur les territoires qui formeront les futurs Etats de Washington et de l’Oregon, riverains du Pacifique. L’élmination de la présence mexicaine du Texas à la côte californienne est donc l’étape suivante dans ce projet “bi-océanique”.
 
23 avril 1925 : Les troupes berbères rifaines d’Abd-el-Krim pénètrent dans le territoire marocain sous protectorat français. C’est le début de la guerre du Rif. Le conflit, qui avait commencé contre les Espagnols en 1921, durera, après l’invasion du protectorat, un an. Au bout de cette année, les insurgés berbères seront battus par une armée franco-espagnole de 250.000 hommes, commandée par le Maréchal Pétain. Abd-el-Krim est contraint de signer une capitulation inconditionnelle le 26 mai 1926. Issu de la tribu berbère du Rif, les Banu Uriaghel, Abd el-Krim avait reçu une éducation espagnole de haut niveau, était secrétaire au Bureau espagnol des affaires indigènes, puis juge musulman du district de Melilla. Insatisfait de la gestion par Madrid du Maroc septentrional, il soulèvera le Rif contre les dominations espagnole et française dès 1921, battant les troupes du Général espagnol Fernandez-Silvestre. En franchissant la frontière du protectorat français, il marche sur Fez/Fès, mais les troupes de Pétain s’emparent de la vallée de Wargha, d’où provenaient son approvisionnement et ses munitions. C’est la fin de l’insurrection. Il connaîtra l’exil à l’Ile de la Réunion, puis, à partir de 1947, en Egypte, où il dirigera le “Bureau maghrébin” en charge d’organiser la libération des pays d’Afrique du Nord-Ouest. Il meurt le 6 février 1963 au Caire. L’action d’Abd el-Krim est paradigmatique d’une guerre de libération menée par des partisans, enracinés dans leur sol. Il sera en cela l’inspirateur de Ho Chi Minh et de Giap, dans leur lutte pour la libération de l’Indochine contre les Français d’abord, contre les Américains ensuite.
 
24 avril 1877 : A la suite de répressions féroces perpétrées par la soldatesque turque en Bosnie-Herzégovine, après les interventions à l’issue malheureuse des Serbes et des Monténégrins en faveur des Bosniaques insurgés, les Russes, lassés de tant de violences à l’encontre des peuples slaves et orthodoxes, se décident à déclarer la guerre à l’Empire ottoman. Fortes contre des paysans faiblement armés, les hordes ottomanes ne font pas le poids devant les armées russes qui les écrasent sans pitié. Les malheureux peuples des Balkans sont vengés de la sauvagerie ottomane. Les Russes attaquent également dans le Caucase, libérant encore quelques portions du territoire caucasien de la présence turque. Le 9 mai 1877, les Roumains se déclarent indépendants, mobilisent leurs troupes et se joignent aux Russes et aux Serbes dans l’espoir de chasser définitivement la présence étrangère du sol européen. Les Anglais interviennent aux côtés des Turcs, comme en Crimée une vingtaine d’années auparavant. En échange de leur appui, ils exigent du Sultan qu’il leur abandonne Chypre. Le 3 mars 1878, le traité de San Stefano règle les nouvelles frontières dans les Balkans, mais sera révisé par le traité de Berlin du 13 juillet 1878, où l’Angleterre protège systématiquement les Ottomans, en voulant éviter la satellisation par la Russie de quelques puissances balkaniques, surtout la Bulgarie, ce qui lui donnerait un débouché sur l’Egée, donc sur le bassin oriental de la Méditerranée, que les Britanniques estiment être leur chasse gardée.
 
26 avril 1828 : Le Sultan turc déclare la guerre à la Russie. Les Grecs se soulèvent contre l’oppresseur, dans l’espoir de voir débouler les troupes du Tsar sur les rives de l’Egée. Le 11 octobre 1828, les Russes infligent aux Turcs une cuisante défaite à Varna en Bulgarie. Le 20 août 1829, ils prennent Andrinople (Edirne). Le Sultan doit signer la paix dans cette ville, le 14 septembre 1829: les Russes obtiennent le libre passage de leurs navires de commerce dans les Détroits; ils contrôlent désormais les bouches du Danube. Le Traité oblige les Turcs à accorder l’autonomie aux peuples balkaniques, soit à la Serbie, à la Moldavie et à la Valachie. La Grèce reste vassalle de l’Empire ottoman, en théorie, mais réussit à obtenir son indépendance, garantie par la France, la Grande-Bretagne et la Russie (protocole de Londres, 3 février 1830). Les armées russes ont permis une première libération (incomplète) des Balkans du joug étranger, extra-européen, qui pesait sur eux depuis la victoire des Ottomans au Champs des Merles (Kosovo) en 1389. Mais la Grande-Bretagne, obligée de composer en 1829-1830, voit d’un mauvais oeil cette avancée russe et slave en direction de la Méditerranée orientale. Elle reconnaît le fait accompli mais travaillera désormais à la ruine de la Russie dans la région. Les victoires russes contre l’ennemi héréditaire de l’Europe jetteront les bases d’un conflit ultérieur, la Guerre de Crimée, où la Russie perdra certains des atouts gagnés lors du Traité d’Andrinople de 1829. Londres ne cessera plus de soutenir l’Empire ottoman en pleine liquéfaction.
 
27 avril 1463 : Mort à Rome d'Isidore de Kiev, qui fut patriarche grec-orthodoxe en Russie, puis cardinal à Rome. Il a tenté de réunir les églises chrétiennes de l'Est et de l'Ouest devant la menace turque. L'Empereur byzantin Jean VIII Paléologue l'envoie en 1434 au Concile de Bâle, pour parfaire la réunification des églises. Byzance le nomme Patriarche de Kiev et de toutes les Russies. Après de nombreux avatars, il rédige, avec le Cardinal grec Jean Bessarion, le document de l'unification, proclamée le 5 juillet 1439, ce qui lui permet de devenir en même temps “Cardinal de Ruthénie” (= Ukraine). Kiev est donc “unie”, mais Moscou refuse la teneur du document d'unification. Le Pape Nicolas V renvoie Isidore à Constantinople en 1452. Il participe activement à la défense de la ville contre les Turcs; au cours du siège, il annonce aux Byzantins l'unification des deux églises au cours d'un prêche dans Sainte-Sophie, ce qui sied à la Cour et à la hiérarchie mais non au peuple, qui continue à proclamer sa haine de la papauté romaine. Isidore de Kiev et ses hommes prennent alors les armes et montent au créneau pour défendre la ville. Isidore y sera blessé, mais parviendra à fuir, vers la Crète d'abord, avant de rentrer à Rome en 1454, où il rédige un récit poignant de la chute de Constantinople, Epistula lugubris. Le Pape Pie II le nomme, à titre honorifique, “Patriarche Grec de Constantinople”.
 
27 avril 1959 : Décès à Talahassee en Floride du sociologue américain, professeur à la Columbia University et à l'Université de Chicago, William Fielding Ogburn, qui a forgé le concept de “cultural lag” (de sédiment culturel). Statisticien de premier ordre, il travaillera pendant de nombreuses années, au titre de directeur de recherches, auprès d'un institut fondé par le Président Herbert Hoover, chargé d'étudier les “tendances” (“trends”) de la société américaine. Pour Ogburn, les sociétés évoluent quand elles réussissent à combiner des éléments culturels déjà présents d'une manière nouvelle et originale. Cependant, les “sédiments culturels” ont la vie dure : ils résistent systématiquement à l'innovation, notamment sur le plan du droit. Les sédiments freinent l'avènement des novismes de tous ordres. Généralement, les sédiments culturels sont présents dans l'esprit des peuples de façon inconsciente, mais quand une innovation les menace, ils peuvent venir à la conscience de manière très aiguë, générer des désordres et faire courir le risque de la désintégration sociale. La sociologie d'Ogburn nous invite à innover sans toucher aux fondements quasi ontologiques d'une société, à adapter le rythme des changements nécessaires ou induits par la technique, afin de ne pas provoquer des désordres dangereux sur le moyen ou le long terme. Ogburn peut nous aider à combattre les prophètes anarchiques et délirants qui veulent à tout prix jeter aux orties les fondements anthropologiques de base de nos sociétés. On ne peut se débarrasser impunément des “cultural lags”. La folie de vouloir “intégrer”, de manière absoluisée et irréfléchie, des ressortissants de cultures possédant d'autres sédiments culturels conduit à la dislocation des sédiments autochtones et donc à l'implosion de la société, car ces sédiments ne sont pas des matières neutres, à la disposition des virtuoses de l'“ingénierie sociale”.

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vendredi, 30 mars 2012

Hero

 

chine, traditions, asie, affaires asiatiques, héros, héroïsme, histoire, histoire chinoise, Zhang Yimou

Hero

http://www.youtube.com/watch?v=g9hXqSSsh5g

http://www.youtube.com/watch?v=PPINKme5Bh4

http://en.wikiquote.org/wiki/Hero_%282002_film%29

Politieke betekenis

Ondanks het feit dat de film gedeeltelijk is geïnspireerd door het succes van films zoals Crouching Tiger, Hidden Dragon, bleef eenzelfde succes uit. Dit komt voornamelijk door buitenlandse kritieken op het pro-totalitair en het pro-Chinees reünificale karakter van de film. Maar ook de toestemming, afgegeven door de Chinese regering voor het maken van deze film wordt bekritiseerd, wat duidt op het ontbreken van vrijheid van meningsuiting. De kritieken stellen dat de algehele betekenis van de film staat voor de triomf, veiligheid en stabiliteit boven vrijheid en mensenrechten. Het concept van 'alles onder de hemel' wordt gebruikt om de annexatie van gebieden zoals Tibet en Sinkiang door de Volksrepubliek China te rechtvaardigen en de reünificatie van Taiwan met China te promoten.

Verder wordt de toekomstige eerste keizer van China geportretteerd als een zeer sympathieke koning, terwijl keizer Qín Shǐ Huáng eeuwenlang door Confuciaanse filosofen werd gezien als een brute tiran. Een andere, veel minder sympathieke vertolking van keizer Qín Shǐ Huáng kan men zien in de door Chen Kaige geregisseerde film 荊柯刺秦王 (jīng kē cì qín wáng, The Emperor and the Assassin). Terwijl zijn regeerstijl als bruut wordt gezien, kijkt men tegenwoordig objectiever naar zijn daden, zoals het brengen van eenheid in de taal, gewichts- en lengte-eenheden, valuta en voor het opzetten van een nationaal transport netwerk.

Regisseur Zhāng Yìmóu vocht deze beweringen aan op het Filmfestival van Cannes van 1999. Fans van Zhāng Yìmóu en zijn film stellen dat de toestemming van de Chinese regering in niets verschilt van het leger van de V.S., dat steun gaf aan films, zoals Top Gun, waarin het leger van de V.S. in een positief licht werd gezet. Anderen stellen zelfs dat Zhāng Yìmóu in het geheel geen politieke intenties had bij het maken bij de film. Zhāng Yìmóu zelf zegt geen politieke intenties te hebben.


http://nl.wikipedia.org/wiki/Hero_%282002%29