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vendredi, 02 mars 2012

Sven Hedin, la vita avventurosa del "Marco Polo" che veniva dal freddo

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Sven Hedin, la vita avventurosa del "Marco Polo" che veniva dal freddo

 

Articolo di Luigi G. de Anna

Dal Secolo d'Italia del 24 febbraio 2012

Sessanta anni fa, il 26 novembre del 1952, moriva Sven Hedin (era nato il 19 febbraio del 1865), l'esploratore svedese ultimo grande rappresentante della "scoperta" occidentale in Asia. Diventato famoso per aver individuato le fonti dell'Indo e del Bramaputra, soffrì negli ultimi anni della sua vita dell'ostracismo conseguenza delle simpatie da lui nutrite per il nazionalsocialismo. Al contrario di altri suoi connazionali come August Andrée o N.E. Nordenskiöld (sarà proprio la vista del trionfo a Stoccolma di Nordenskiöld a spingerlo, aveva solo quindici anni, alla ferma determinazione di esplorare una parte del mondo), resterà affascinato non dai deserti dell'Artico ma da quelli dell'Asia. 

 
Nel 1889 termina gli studi intrapresi a Uppsala e a Berlino, dove era stato allievo del grande geografo Ferdinand von Richthofen. Nel 1890, dopo essere stato nominato attaché presso l'ambasciata di Svezia a Teheran, prende congedo per esplorare il Khurasan e il Turkestan cinese. Le prime, importanti spedizioni sono intraprese tra il 1893 e il 1909. Hedin raggiunge l'Asia centrale, l'Ural, il Pamir, il Tibet e la Cina, raccogliendo una immensa mole di dati geografici e cartografici (già in occasione del primo viaggio aveva disegnato ben 552 carte), ma anche geopolitici, che saranno di grande utilità per le potenze occidentali che in questi anni stanno attuando la loro penetrazione nell'Asia continentale. Il viaggio del 1893-1897 è quello che lo vide affrontare la "marcia della morte" fatta nel deserto di Taklimakan, dove la temperatura toccava i 63,5 gradi e dove due delle sue guide e tutti i cammelli morirono di sete. Riuscì a raggiungere un lago e a portare l'acqua alla sua guida oramai agonizzante, trasportandola nello stivale. Fu il primo occidentale a tornare da questo deserto.

Esplorò la regione del Pamir e dello Xinjiang fino a Lop Nur. Questo viaggio lo rese famoso, tanto che il britannico Geographical Journal lo definì il più grande esploratore dell'Asia dopo Marco Polo. Due anni più tardi, nel 1899, riparte con lo scopo di percorrere aree dell'Asia centrale ancora non tracciate nelle carte geografiche e di visitare il Tibet, fedele all'imperativo che si era dato "vai là dove nessuno è mai stato prima". Cercò di entrare a Lhasa travestito da mercante mongolo, camuffamento che però non ingannò le guardie della città che gli imposero di tornarsene se non voleva che gli tagliassero la testa. Raggiunse nuovamente Lop Nur, dove investigò la vera natura del "Lago errante", che doveva il suo nome al fatto che nel corso dei secoli aveva cambiato di sede, un fenomeno che Hedin scoprì essere dovuto alla sabbia accumulata che lo faceva traboccare nel terreno sottostante.
Il suo resoconto venne pubblicato nel 1941 in italiano da Einaudi. In occasione di questo viaggio scoprì anche le rovine dell'antica città di Loulan, abbandonata nel IV secolo d.C. Nel 1905 ritenta la spedizione tibetana, questa volta con successo nonostante venisse ostacolato dalle autorità inglesi, evidentemente timorose che potesse aprire nuovi canali diplomatici con il Paese himalayano. Fu il primo occidentale a entrare nell'allora città proibita di Lhasa, dove riuscì a stringere un vera amicizia con il giovane Dalai Lama, il che gli permise di visitare quasi l'intero Tibet. Fu infatti instancabile viaggiatore, tanto da superare per otto volte la catena dell'Himalaya e da accumulare una distanza percorsa di 26.000 chilometri, e cioè superiore a quella che separa i due poli.

Tornato in patria nel 1908 lo aspetta una lunga pausa, fino al 1927, quando venne incaricato di dirigere una spedizione internazionale nel Xinjiang e nella Mongolia esterna. Questa volta il pericolo maggiore è rappresentato dalla guerra civile che divampa in Cina, tanto che ebbe a scrivere: «Mi sento essere un pastore che deve proteggere il suo gregge dai lupi, dai banditi e soprattutto dai governatori». Chang Kai-shek lo incaricò di studiare la possibilità di costruire una strada carrozzabile che ripercorresse l'itinerario della Via della Seta.

L'appoggio del generalissimo cinese fu peraltro essenziale per il successo della missione, terminata nel 1935. Fu il suo ultimo viaggio. Nel 1904 Sven Hedin ebbe l'onore di essere l'ultimo cittadino svedese a essere nobilitato, infatti dopo di lui il re di Svezia cesserà di concedere titoli nobiliari. Fu scrittore e saggista molto prolifico, con i suoi 65 volumi e le 25.000 lettere mandate a colleghi, amici e semplici corrispondenti. Il timore di una espansione prima zarista e poi bolscevica lo portò a simpatizzare per la Germania. Sono peraltro gli anni in cui una parte della cultura svedese riscopre le proprie radici "nordiche" e lo scandinavismo diventa la controparte del teutonismo germanico. È interessante ricordare che Hedin sarà in seguito emarginato per le sue simpatie filo-naziste, ma il suo libro del '37 non fu mai pubblicato in Germania perché aveva egli stesso radici ebraiche e aveva criticato le persecuzioni nei confronti degli ebrei. Hedin comunque non rinnegherà mai la posizione filo-tedesca da lui assunta, anche con i suoi scritti, non ultimo il pamphlet anti-Roosvelt del 1942 (Amerika im Kampf der Kontinente, pubblicato a Lipsia). Su Hedin agì in maniera fondamentale il legame con Karl Haushofer, il fondatore della geopolitica moderna. E come Haushofer, anche Hedin merita di essere "riscoperto" e di riaffiorare alla cultura europea. Proprio come fece il suo lago errante.

Luigi G. De Anna

mercredi, 15 février 2012

Admiral Alfred von Tirpitz

Admiral Alfred von Tirpitz

Ex: http://www.globalsecurity.org/

Tirpitz (1849-1930) German admiral and politician, was born at Kiistrin March Iq 1849. He entered the Prussian navy in 1865, and by 1890 had risen to be chief-of-staff of the Baltic station in the Imperial navy. In 1892 he was in charge of the work of the chief-of-staff in the higher command of the navy. He was promoted to be rear-admiral in 1895, and in 1896 and 1897 he was in command of the cruiser division in east Asiatic waters. In 1899 he reached the rank of vice-admiral and in 1903 that of admiral. For the long period of 19 years, from 1897 to 1916, he was Secretary of State for the Imperial navy, and in this capacity advocated the navy bills of 1898, 1900, 1907 and 1912 for increasing the German fleet and successfully carried them through the Reichstag. In 1911 he received the rank of grand-admiral, and he retired in 1916.

Germans had their own word for Tirpite; he was "Tirpitz the Eternal," which freely interpreted meant that among numerous qualities he possest one that was rare in German cabinets; he was the one minister who displayed tenacity in holding his job. No German since Bismarck had held public office so long. The Kaiser had had an endless succession of chancellors, foreign ministers, war ministers and colonial secretaries; but "Tirpitz the Eternal," until he was suddenly displaced early in 1916 on the submarine issue, apparently had a life tenure. With the adoption of unrestricted submarine warfare in February, 1917, however, he returned to power and on him was placed the chief responsibility for the warfare thereafter was carried on.

The best account of Adml. von Tirpitz's naval achievements and political activities is contained in the book which he published in 1919 under the title of Erinnerungen. In that book he shows how gigantic was the task of creating the new German navy with which Great Britain had to reckon at the outbreak of the World War. Not only had a whole array of subsidiary industries to be established and supplies of raw materials secured; thousands of skilled workmen and hundreds of directing personalities of strong character and exceptional ability had to be found and trained. It has been customary to attribute the creation of the German navy to the Kaiser William II., and it is true that in large part the initiative for successive increases, and the demagogic appeals by which they were supported, originated with the Emperor. On the other hand, it was Tirpitz who not only conducted the practical advocacy of these schemes in the Reichstag, but also organized the service of propaganda in the German press and on the platform, putting popular pressure on the parliamentary representatives of the nation and constraining them to agree to the enormous expenditure which these schemes entailed. William II. was often a hindrance as well as a help, and Tirpitz gives instances in which the work of the construction departments and even that of the Secretary of State were interrupted or hampered by wild-cat Imperial projects for the construction of architecturally impossible vessels or of mechanically impossible machinery. One of these projects, on which an elaborate report had actually to be submitted to the Emperor, was a device for which it was claimed that it had solved the problem of perpetual motion.

Tirpitz advances two contentions; first, that he would have sent the navy into decisive action at an earlier stage of the war; secondly, that he would have made an earlier and more ruthless use of the German U-boats; but his opponents traverse both these claims, and in particular assert that as Secretary of State he had neglected the construction of submarines, so that Germany entered the war with a comparatively small supply of these vessels.

Things that lay on the surface did not really produce the Great War - neither the ultimatum to Serbia nor hurried mobilizations, nor the invasion of Belgium. Back of all these stood in succession a long series of events which as deeply affecting national interests, ambitions, and fears had changed national policies and popular psychology. One fact that probably had most to do in changing the whole morale of the German people within a few years was the German navy and that meant Tirpitz.

He was more than a sailor, politician or administrator; he was a statesman who, for good or ill, fundamentally directed the course of European history. No longer ago than 1890 Lord Salisbury for lands in Africa had given Heligoland back to the Kaiser - that same Heligoland which in the World War served so effectively as a German naval base. The explanation was simple enough ; in 1890 the" German Empire had no fighting fleet. For many years afterward Great Britain still unallied with any other Power could glory in her "splendid isolation." For a generation Russia silently meditating the overthrow of British power in the East, had been playing the part in the British outlook that Germany came to play in later years. In 1893 England and France had been almost on the verge of war over Fashoda. In the nineties the tie that bound Great Britain to her colonies, and especially to Canada, Australia, and New Zealand, was slighter than it had been in years, but within fewer than ten years these conditions had so changed that instead of being splendidly isolated, England found herself splendidly allied. France and Russia, hereditary enemies, had become earnest friends and were now England's friends and the colonies and mother country found themselves reunited in a happy family.

The man chiefly responsible for this change was Tirpitz and his famous "preamble," which as put into the naval law of 1900, formed a new basis for the future history of Europe. "Germany must have a fleet of such strength," the preamble read, "that a war, even against the mightiest naval Power, would threaten the supremacy of that Power." No nation had ever before announced a national policy in such challenging fashion. Germany had declared her purpose to build a navy so strong that it could destroy the navy of Great Britain.

Hence came a change in British foreign policy, an abandonment of "isolation," and that series of alliances, ententes, understandings, and good feeling, that ultimately left Germany and her Austrian ally with no friend in Europe except the Turk. Despite official explanations, magazine articles, and interviews, Englishmen saw only one purpose in a steadily increasing German sea-power which in case of war was to isolate Great Britain and ferry a German army across the Channel. So long as Great Britain remained the greatest naval Power and Germany the greatest military Power, there had been no possibility of conflict. Germany's army and Britain's navy both served similar national ends; each protected the nation from obvious dangers, but neither could fight the other.

As the elder Moltke was the directing genius of German militarism, so Tirpitz started Germany on the path of navalism which was to become the Kaiser's absorbing passion. In looking for the real inspiration of the German fleet one had, however, to go beyond Tirpitz and the Kaiser. The inspiring mind was not a German but an American ; a man who wrote a book which, soon after its appearance, became the Kaiser's inseparable companion - Admiral Mahan and his "The Influence of Sea Power in History." "I have not read your book." said the Kaiser on meeting Mahan. "I have devoured it!"

Tirpitz's origin, although very respectable, was comparatively bourgeois; his father was a lawyer and judge in Frankfort-on-the-Oder. Tirpitz was born in the Mark of Brandenburg, more than one hundred miles from the sea. He grew up a somewhat raw-boned, ungainly, loutish boy, not especially marked for talent, distinguished only by a certain force of character and fixt determination. To his father he presented something of a problem and when only sixteen was placed on board one of several frigates which composed the Prussian navy and at that time served chiefly as havens for the younger sons of impecunious Prussian noblemen. In after years youthful aristocrats were often pained at Tirpitz's habit of advancing sons of tradesmen over their heads and would run to the Kaiser for consolation. "You'll have to pet along with him as well as you can," the Emperor would say, "That's what I have to do."

Once a ball-room favorite was discussing with Tirpitz his chances of naval promotion. "You have very white hands for a man who hopes to command a cruiser," was all the comfort he received. Another candidate for advancement discovered that, in the eyes of Tirpitz, he had one insuperable disqualification; he was a splendid dancer. "The fact that you waltz so divinely," said the Grand Admiral, "proves that you have no sea-legs. Sailors in the German navy can not waltz their way to the bridge. Go learn the hornpipe."

He never regarded social graces as desirable attributes for men who expected to fight battles at sea, and always frowned upon the practise of using warships in foreign ports for balls and receptions. His talents so stood upon the surface - initiative, industry, knowledge, commanding personality, the evidence which he gave, in every act and work. of a capacious brain - that his career became one success after another. He was a lieutenant at twenty; a lieutenant- commander at twenty-five and twenty years after entering the navy was flying the pennant of a rear-admiral. He first attracted the attention of the Kaiser by reorganizing the German torpedo fleet. He was also instrumental in establishing the German outpost of Kiaochow which was directly under his jurisdiction as Minister of Marine.

After serving on a commission for torpedo experiments, Tirpitz entered the Admiralty as chief of staff at Kiel, the headquarters of the fleet. In the prime of life, with his varied training and experience, he had now reached a position where his talent for organization and his initiative had full sway. Von Tirpitz had the imaginative constructiveness of the mathematician and the genius of the engineer. Under his fostering care the torpedo service became a flourishing branch of the German navy where formerly it had consisted of a few unimportant mosquito boats.

With his forked beard, large, round face, huge bulk, he incarnated physically the sea-god Neptune. With a genuine sailor he could easily unbend. He could roar out a sailor's ditty with the best of them. His business and his relaxations were all nautical and he had one favorite topic of conversation - the disgraceful inadequacy of the Kaiser's fleet and the necessity of placing German sea-power on a plane with its military strength. If he had one enthusiasm, it was the British Navy; he admired its history. traditions and great achievements. Nelson, Drake, Hawkins. and other great sea-rovers had been the guiding influences of his life. When he came to the United States with Prince Henry in 1902. American naval officers found him a delightful and congenial comrade as well as a wide-awake observer.

The task enjoined upon him by the Kaiser was a definite one; to create an effective German fleet. Public opinion, and public opinion only, as he manipulated it, created the German fleet. Before he was admiral, or a naval statesman, Tirpitz became a press-agent - probably the most successful in the world; certainly the one who operated on the largest scale. America never organized a press bureau that could compare with Tirpitz's.

His Navy League - started in 1898 - was the parent of all similar organizations. While Tirpitz organized his Flotten-verein Prince Henry was placed at its head, purely for the purpose of being the main instrument in a "campaign of education." Tirpitz sought to teach the German people why they needed a navy, what kind they needed, and how they could get it. The league had branches not only in every province, city, town, village, and hamlet in the empire, hut in every part of the world where Germans lived. Even England - the country against which the German navy was aimed - had branches of the German Navy League, and it had thousands of loyal and contributing members in the United States. It poured forth an unending stream of naval information. in the shape of newspaper articles, interviews, pamphlets, and lithographs; it had motion-picture shows and lecturers who visited the remotest villages. It even introduced its propaganda into public schools. As a result the most benighted Pomeranian peasant who had hardly known that salt water existed and had never imagined what a warship was began to discuss glibly the relative values of destroyers and light cruisers and to debate the possibilities of dreadnoughts and submarines.

The German navy, almost as much as the army, began to figure as a bulwark of the empire. Besides the Navy League, Tirpitz organized a regular press bureau. These agencies, always active. displayed particular liveliness when legislation was pending. He organized special excursion trips from the interior to the seaboard, at extremely low rates, so that the everyday German farmer and workman, with his wife and babies, might have an opportunity to see the Kaiser's battleships, inspect big guns, and so feel himself a part of a machine he had helped to pay for.

When the Reichstag met and took under consideration naval estimates they found they had a new master; back of Tirpitz were the "folks at home." He was not only a great press agent but a finished wire-puller and button-holer. He did not stiffly remain aloof and request the Reichstag to do certain things, but went among its members with an ingratiating smile and a quiet voice. making individual appeals. He cultivated members, joked with them told them funny stories, made them his friends.

In the United States von Tirpitz was later identified with the submarine campaign and that policy of ruthlessly sinking merchant-vessels, without warning, which brought the United States into the war, but the admiral was long an opponent of the submarine. For many years he favored the torpedo-boat above the U-boat as an effective naval weapon. In December, 1905, he wrote that the submarine was valuable for certain narrowly limited purposes only; in April, 1910, he still admonished the German Naval Department to place the interests of the torpedo-boat fleet before those of the submarine; as late as 1912 he gave little favor to the submarine.

The Dreadnought apparently destroyed at a stroke the strong navy that Tirpitz had laboriously built up on conventional lines, but Tirpitz saw the situation in another light. It really furnished him the great opportunity he had been seeking. The dreadnought was the most colossal instance of miscalculation that naval history records. It was true that, as Sir John had foreseen, it made obsolete the German navy, but it made obsolete the British Navy as well. After it was launched, the first-line battle strength of all navies would be measured by dreadnoughts and by dreadnoughts alone. This meant that, in the race for naval supremacy, every nation would start on even terms. England had had such a great lead that, had the status quo been preserved, Germany could never have caught up with her but when England voluntarily pigeon-holed her whole fleet, she lost this enormous handicap. Tirpitz sprang at this opportunity with all the rapidity of genius.

In 1908 the Reichstag amended its program so that an ultimate German navy of fifty-eight dreadnoughts became Tirpitz's answer to Sir John's challenge and an appropriation of $50,000,000 for rebuilding the Kiel Canal, so that these ships could pass through was promptly voted. Sir John had asserted that Germany, in 1906, hadn't a single slip big enough to build a dreadnought; three years later she had seventeen. Tirpitz had called together all the biggest shipbuilders and told them to prepare to build these warships. Such an enormous spurt followed in shipping equipment as the world had never seen before.

mercredi, 30 novembre 2011

Giorgio Freda : The Unclassifiable Revolutionary

Giorgio Freda : The Unclassifiable Revolutionary

Edouard Rix

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

 

 

 

 

“I hate this book. I hate it with all my heart. It gave me the glory, that poor thing called fame, but it is also the source of all my miseries. For this book, I have known many months in prison, (…) police persecution as petty as cruel. For this book, I experienced the betrayal of friends, enemies, bad faith, selfishness and the wickedness of men. From this book has originated the stupid legend that made me out to be cynical and cruel, a sort of Machiavelli disguised as Cardinal de Retz that they like to see in me.” Though written by Curzio Malaparte in the introduction to his famous essay ‘Technique of the coup’, Giorgio Freda, the author of ‘The Disintegration of the System’, could have made these lines his own. Because, in writing this small booklet of about sixty very dense pages that undermined the basis the of the bourgeois system, the young publisher has suffered years of judicial and media persecution.

 

THE EDIZIONI DI AR

 

On October 26, 1963, Senator Umberto Terracini, an influential member of the Jewish community and the Italian Communist Party, reported publicly to the Ministers of Interior and Justice the dissemination in Padua of “a vile pamphlet bearing the title Gruppo di Ar (Ar Group), which, taking up the most vile racist theories of Italian Nazism, openly portrays the authors as publishers advocating anti-democratic ideology”, and asks “whether and which measures have been proposed and taken to cauterize the wound and stop the infection before it gets wider dissemination and enters the sphere of action.”

 

Originally publicly stigmatized, the group found a young Platonist and Evolan lawyer named Giorgio Freda. The term chosen by the group for its name, Ar, was highly symbolic, as it is in many Indo-European languages, being the semantic root connoting the idea of nobility and aristocracy.

 

In 1964, Freda had to face trial for a pamphlet denouncing Zionist policy in Palestine. This was just the first of many. The same year, Edizioni di Ar, which he had just founded, published their first book, ‘An Essay on the Inequality of the Races’ by Arthur de Gobineau. Following were the minor writings of Julius Evola and the works of Corneliu Codreanu. Each title had a circulation of 2000 copies.

 

There were two constants in Freda’s militant commitment: the fight against international Zionism, including Israel, which he believed was only the tip of the struggle and against the bourgeois liberal system, expressed by American imperialism in Europe since 1945. About anti-Zionism, Freda was the first editor in Italy who supported Palestinian fighters, even as the Right, embodied by the MSI (Movimento Sociale Italiano), extolled Israel as a “bulwark of the West against the Arabs enslaved by Moscow”. It was he who organized in Padua in March 1969- in conjunction with the Maoist group, Potere Operairo (Workers’ Power)- the first major meeting in Italy to support the Palestinian resistance in the presence of representatives of Yasser Arafat’s Fatah. The Zionist lobby never forgave him. Moreover, not content with simple verbal support, like so many distinguished intellectuals, he would secretly provide timers to a supposed representative of Fatah.

 

THE DISINTEGRATION OF THE SYSTEM

 

But Giorgio Freda is above all a man of the text. And what a text! ‘The Disintegration of the System’ was written in 1969 as student protests were in full force. Italy then underwent, not a sudden explosion and fallout as fast as in France, but a “creeping May”. Convinced of the urgent need for the radical subversion of the bourgeois world, Freda believed that everything must be tried and, when so many young people were seeking to give a truly revolutionary content to the student revolt, that it would be recovered from the proponents of orthodox Marxist or social democratic reformism. It was for these young people that ‘The Disintegration of the System’ was intended, and far from being Freda’s personal program it synthesized the common demands of the entire national-revolutionary milieu, from Giovane Europe (Young Europe) to Lotta di Popolo (People’s Struggle).

 

The tone of the text is decidedly offensive. A disciple of Evola, Freda is the first to not just comment learnedly on his writings, but to move from theory to practice, so much so that one can see in ‘The Disintegration of the System’ the political practice of the theory outlined in ‘Riding the Tiger’, the last of Evola‘s writings. With this book, the Baron gave the intellectual framework affirming Freda’s belief that there can be no compromise with the bourgeois system. “There is a solution, writes Evola, which must be firmly ruled out: that is to build on what survives of the bourgeois world, and to defend it as a basis to fight against the currents of dissolution and the most violent subversion, after possibly trying to facilitate or strengthen the remains with some higher values that are more traditional.” And the Baron added: “It might be good to help bring down the already faltering and what belongs to the world of yesterday, instead of seeking to support and to artificially prolong life. This possible tactic, such as to prevent the final crisis, is the work of the opposing forces which would then undertake the initiative. The risk of this is obvious: we do not know who has the last word.”

 

In ‘The Disintegration’, Freda was not tender with the idols and values of bourgeois society. Order for the sake of order, sacrosanct private property, capitalism, moral conformism, and visceral blind, pro-Zionism and philo-Americanism, but also God, priests, judges, bankers- nothing and no one escaped his criticism. To the dominant market model, he offered a real alternative, reaffirming the traditional doctrine of the state, fully opposed to pseudo-bourgeois values, and developed a coherent state project, the most spectacular aspect including the organization of a Communist economy-a Spartan and elitist communism which owes more to Plato than to Karl Marx.

 

A man of action, Freda was sickened by pseudo-intellectual Evolo-Guénonians locked away in their ivory towers. He had harsh words for some Evolans: “sterile apologists of the discourse on the state”, “worshippers of abstractions,” “champions of conceptual gestures” that, in his eyes, were riders of paper tigers . “For us, he writes, be true to our vision of the world – and therefore of the state – means to comply with it, leaving nothing undone to achieve it historically.” In this perspective, he clearly shows the intention to reach out to sectors involved in the objective negation of the bourgeois world, including the ultra-extra-parliamentary left to which he proposes a strategy that was loyal to a united struggle against the System. It was then that he contacted various Maoist groups, such as Potere Operaio and the Communist Party of Italy-Marxist Leninist.

 

“For a political soldier, purity justifies any hardness, indifference all guile, while the impersonal imprinted in the fight dissolves all moral concerns.” These strong words ends the manifesto.

 

VICTIM OF DEMOCRACY

 

On December 12, 1969, a bomb exploded in the National Bank of Agriculture, Piazza Fontana in Milan, killing 16 people and injuring 87. The Italian section of the Situationist International of the ultra-left issued a manifesto entitled ‘The Reichstag Burns’, denouncing the regime as the real organizer of the massacre. The Situationists will continue to repeat that the Piazza Fontana bomb was “neither anarchist nor fascist.”

 

Giorgio Freda, meanwhile, continued his intellectual struggle against the System. In 1970, in a preface to a text by Evola, he welcomed the possibility of urban warfare in Italy. In April 1971, Edizioni di Ar publish officially for the first time in the peninsula since 1945, ‘The Protocols of the Elders of Zion’. That same month, Freda was arrested and accused of “having distributed books, printed and written information containing propaganda or incitement to violent subversion.” The repressive machine gets under way. For the first time since the end of the fascist regime, a magistrate intended to apply Article 270 (law against subversive association) of the Code Rocco (named after Mussolini’s attorney general). Soon after, the Edizioni di Ar published ‘The Enemy of Man’, a collection of Palestinian fighting poetry, provoking the fury of the Zionists.

 

In July 1971, the judge modified the charges and accused Freda of making “propaganda for the violent subversion of the political, economic and social development of the state” through ‘The Disintegration of the System’, “where he alludes to the need of subversion, by violent means, of the bourgeois democratic state and its replacement by a state defined and characterized as a people’s state”.

 

Undaunted by repression, Edizioni di Ar published in November 1971 the Italian translation of the ‘International Jew’ by Henry Ford.

 

On December 5, 1971, Freda was arrested again. He is no longer prosecuted for crimes of opinion, but bluntly accused of having organized the massacre of Piazza Fontana. Since they failed to catch the “anarcho-fascists” they decided to pinch the “Nazi-Maoists”. The charges against Freda was based on two pieces of evidence: that he bought timers like those found in the bank as well as the travel bags in which the bombs were placed. But Freda had indeed bought timers but had given them to a captain of the Algerian secret services who requested them for the Palestinians. The weekly Candido, investigating the RFA from the manufacturer, collected evidence that timers sold in Italy were not 57, as claimed by the judge – Freda had bought 50 – but hundreds, and that the models purchased by the publisher differed from those used in the attack. In addition, the merchant from Bologna who had sold four travel bags similar to those used in the attack did not recognize Freda as the buyer, but two police officers … Of course, the judge wouldn’t take into account exculpatory evidence. Freda began his lonely tour of Italian prisons in 1972- Padua, Milan and Trieste. Then Rome, Bari, Brindisi, Catanzaro.

 

Called a “Maoist” traitor or “agent of Communist China” by the Right, especially by the neo-fascist MSI or a “racist fanatic” and “delusional anti-Semite” by the legalistic left and Zionist circles, and fearfully rejected by some ultra-left men with whom he had actively collaborated, Giorgio Freda was then tricked by the press into taking the supposedly infamous label of “Nazi-Maoist.” Thanks to the hype, this only turned out to be positive as the stock of 1500 copies of ‘The Disintegration of the System’ were quickly exhausted. A few years later, Freda admitted that the text was taken more into consideration by extremists on the left than those on the right.

 

TRIAL

 

The long River Piazza Fontana trial was opened on January 1975, before the Assize Court in Catanzaro. Accused were the anarchist Pietro Valpreda and eleven accomplices, neo-fascist Giorgio Freda and twelve co-defendants. Reaching the end of his preventive detention, Freda was released and placed under house arrest in August 1976. But his convictions remained intact. Thus in 1977, when he was facing a life sentence, he did not hesitate: in an interview he gave to his friend Claudio Mutti he talked about armed struggle as the best form of opposition to the System in Italy!

 

Convinced that the dice were loaded and that his conviction wasn’t in doubt, Freda went on the run in October 1978. He was captured in the summer of 1979 in Costa Rica, from which he was not extradited, but forcibly returned by the Italian political police.

 

The judicial farce continued. In December 1984, the fourth trial for the massacre of Piazza Fontana was opened in Bari. After sixteen years of investigation, Freda was ultimately acquitted of the bombing but incarcerated for crimes of opinion, “subversive association” according to the Italian legal language, which earned him a sentence of fifteen years in prison.

 

On his release, the media was still talking about Freda because of his launching of the Fronte Nazionale (National Front), for which he was again arrested and charged in July 1993. Surely, good blood cannot lie!

 

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2003, n°17.

lundi, 28 novembre 2011

Koltchack le héros blanc de Sibérie

Koltchack le héros blanc de Sibérie

par Jean Bourdier

Ex: http://anti-mythes.blogspot.com

 

kolchak.jpgCertaines familles semblent vouées dès l'abord - on pourrait presque dire « abonnées » - à des destins exceptionnels. Tel fut le cas de la famille Koltchak.

Les ancêtres de l'amiral Alexandre Vassilievitch Koltchak, commandant en chef des Armées blanches de Sibérie durant la guerre civile qui suivit la révolution rouge de 1917, étaient, en fait, bosniaques. L'un d'eux, pacha de l'Empire turc, fut fait prisonnier par les Russes en 1739, alors qu'il combattait en Moldavie, et décida de devenir Cosaque et de se fixer en Russie. Toute une lignée de militaires valeureux était ainsi inaugurée.

C'est au cours de la guerre de Crimée que Vassili Koltchak, père de l'amiral et lui-même brillant officier du génie, connut une aventure hors du commun. Comme, après la prise du fort de Malakoff, des soldats français s'employaient à dégager un monceau de cadavres russes, ils s'aperçurent que l'un des « morts » respirait encore.

Vassili Koltchak se rétablit et termina sa carrière comme général, après avoir écrit un livre à succès « en captivité », sur son expérience de prisonnier de guerre.

Son fils Alexandre, né en 1872, a choisi, quant à lui, la marine et, d'emblée, sa carrière s'annonce fort brillante à plus d'un égard. Il s'est spécialisé dans les rercherches hydrographiques et océanographiques, sujets sur lesquels il publia des articles qui commencent à faire autorité.

En 1899, à l'âge de vingt-sept ans, il accompagne dans l'Arctique un célèbre explorateur polaire, le baron Toll. Il revient au bout de deux ans, Mais, en 1903, repart à la recherche du baron dont on est sans nouvelles.

Un mariage mouvementé

Cette fois, deux événements vont marquer son retour, en 1904 : le déclenchement de la guerre russo-japonaise et un mariage qui va se dérouler dans d'assez étranges conditions. S'étant rendu compte qu'il n'aurait pas le temps matériel de se rendre à Saint-Pétersbourg, où habite sa fiancée, avant de rejoindre son poste à Port-Arthur, le lieutenant de vaisseau Koltchak télégraphie à son père de lui amener la jeune fille à Irkoutsk, en Sibérie orientale. Là, la cérémonie a lieu, et, le jour même, les jeunes époux regagnent l'un Saint-Pétersbourg et l'autre Port-Arthur.

Après une congestion pulmonaire qui l'immobilise quelque temps, Koltchak prend le commandement d'un mouilleur de mines et se distingue rapidement par sa compétence et sa bravoure. Blessé, il est fait prisonnier et détenu au Japon, avant de pouvoir regagner la Russie par le Canada.
En 1906, à trente-quatre ans, il se voit confier la responsabilité de l'organisation tactique au sein de la nouvelle Amirauté impériale. En 1910, il prendra le commandement du « Vladivostok », un brise-glace dont il a lui-même imposé la construction.

Le sabre à la mer

En 1911, il revient à l'état-major comme responsable du secteur-clé de la Baltique, poste où le trouvera la Première Guerre mondiale.

Il se distingue - en particulier par son utilisation des mines, - au point qu'il sera nommé contre-amiral dès 1915, à l'âge de quarante-trois ans, vice-amiral et commandant en chef de la flotte de la mer Noire en 1916.


Il occupe encore ce poste lorsque éclatent les troubles de 1917. Les marins mutinés envahissent la passerelle du navire amiral, cernent Koltchak et le somment de rendre le sabre d'honneur gagné durant la guerre russo-japonaise, qu'il porte à la ceinture. Calme, méprisant, le regard lointain, l'amiral détache le sabre de son ceinturon et le jette par-dessus bord.

- Ce qui est venu de la mer retourne à la mer, dit-il seulement.

Les mutins reculent, impressionnés. Néanmoins, l'amiral doit se mettre à la disposition du gouvernement provisoire de Kerenski, qui, se méfiant de cet officier par trop intransigeant, le charge, pour l'éloigner, d'une mission technique auprès du Secrétariat à la Marine des Etats-Unis.

Il reste plusieurs mois aux Etats-Unis, puis, au mois de novembre, le gouvernement Kerenski étant tombé, il décide de regagner la Russie en passant par le Japon. A Tokyo, il apprend l'ouverture par les Bolcheviks des pourparlers de Brest-Litovsk en fin d'un armistice avec les Allemands. Il n'est pas question pour lui de servir un gouvernement qui déserte ses alliés en pleine guerre.

Il va donc trouver l'ambassadeur de Grande-Bretagne à Tokyo, sir Conyngham Greene, et lui propose, conformément à son devoir d'officier russe, d'aller combattre « si possible sur le front occidental, dans les troupes terrestres et, si nécessaire, comme simple soldat. »

De Kharbine à Orusk

L'ambassadeur britannique considère, à juste titre, que l'emploi d'un personnage de cette qualité à un rang obscur serait un incroyable gaspillage. Il télégraphie en ce sens à Londres, et, en janvier 1918, Koltchak est invité à rejoindre en Mésopotamie la mission militaire spéciale commandée par l'étonnant général Dunsterville - celui-là même qui servit de modèle à Kipling dans « Stalky and Co ».

Mais, faisant escale à Singapour, l'amiral y reçoit un message des Britanniques lui demandant de se mettre en rapport de toute urgence avec le prince Koudatchev, ambassadeur de Russie à Pékin, afin de se joindre aux dirigeants du Chemin de Fer de l'Est chinois, en Mandchourie. Il accepte avec beaucoup de réticence, pensant qu'on veut le mettre ainsi sur la touche en tant que combattant, mais se rend à Pékin pour être finalement expédié à Kharbine, au mois de mai, avec mission de réorganiser les troupes russes quelque 3.000 hommes - du Chemin de Fer.

Le climat d'intrigue, de chaos et de corruption qu'il trouve à Kharbine ne fait rien pour dissiper la méfiance initiale de l'amiral. Les Japonais, dirigés par le général Nakajima, le chef de leur mission militaire, contrôlent le territoire et tirent les ficelles. Koltchak ne l'admet pas, pas plus qu'il n'admet les prétentions du chef cosaque Semenov à se tailler un royaume personnel en Mandchourie.

Finalement, au mois de juillet, l'amiral se rend personnellement à Tokyo pour tirer la situation au clair avec le haut commandement japonais. Il n'obtient que des réponses dilatoires qui achèvent de l'exaspérer. Ce seront les Britanniques, une fois de plus, qui feront appel à lui. Afin qu'il se rende en Sibérie, où s'est installé un directoire politique pour le moins mélangé, et où une remise en ordre serait, de toute évidence, nécessaire. C'est le 13 octobre que l'amiral arrive par le Transsibérien à Omsk, où siège le gouvernement provisoire en question. On le nomme aussitôt ministre de la Guerre et de la Marine, mais il ne tarde pas à se rendre compte qu'un gigantesque coup de balai est nécessaire dans cet endroit où règnent en maîtres le marché noir et la gabegie, et où les troupes, mal encadrées et encore plus mal commandées, ont tendance à plier devant les offensives des Rouges.

Le dit coup de balai aura lieu dans la nuit du 17 au 18 novembre 1918.
En cette nuit, un détachement militaire, comprenant notamment de jeunes officiers, vient arrêter trois membres socialistes du directoire, dont le président Avksentiev, pour les conduire à la frontière. Le reste du directoire se réunit à l'aube et prononce sa propre dissolution, en demandant à Koltchak d'assumer le pouvoir suprême.

L'amiral met plusieurs heures à se laisser convaincre, mais accepte finalement en protestant de son absence totale d'esprit partisan dans le domaine politique.

« Je me fixe comme objectifs essentiels, proclame-t-il, la création d'une armée efficace, la victoire sur le bolchevisme et le rétablissement de l'ordre et de la légalité afin que le peuple puisse choisir librement et sans aucune entrave la forme de gouvernement répondant à ses vœux. »

Par moins 45 degrés

Le coup d'Etat est, dans l'ensemble, fort bien accueilli par la population, lasse de la corruption et de l'incapacité du défunt directoire. Il est également vu d'un œil très favorable par les Britanniques de la mission militaire du général Knox. Mais, du coup, il se heurte immédiatement à la méfiance et à l'hostilité du calamiteux général Janin, chef de la mission militaire française. Atteint du délire de la conspiration, cet officier général, dont la seule blessure de guerre répertoriée est une luxation de l'épaule gauche sur un quai de gare, veut à toutes forces voir « la main de la perfide Albion » derrière l'intervention de Koltchak, qu'il prend aussitôt en grippe. Il ne veut pas en démordre et son obstination maladive aboutira à livrer la Sibérie aux Rouges.

En revanche, l'accession au pouvoir de l'amiral rallie tous les suffrages du général Dénikine et de l'Armée blanche du sud de la Russie.

Dès le mois de décembre 1918, Koltchak fait reprendre l'offensive contre les Bolcheviques, avec d'appréciables succès. La jeune armée sibérienne, malgré les carences de son équipement, se bat avec brio, réussissant sur certains points du front de huit cents kilomètres sur lequel elle est engagée, à avancer de trente-cinq kilomètres par jour, par un froid de -45°. Des chefs militaires de haute valeur s'y révèlent, comme le jeune colonel Kappel, bientôt nommé général.

Mais l'amiral doit faire face à bien des problèmes. Le premier est celui de sa santé ; atteint d'une affection pulmonaire presque chronique, il est miné par la fièvre, sans, pour autant, ralentir son activité. De plus, à Omak, le désordre et le marché noir ont recommencé à sévir. Le 21 décembre, une tentative de soulèvement socialiste a été aisément jugulée par l'armée, mais les intrigues se poursuivent.

Le plus inquiétant de tout est l'attitude de la Légion tchèque, qui avait assuré, au début, une partie de l'effort militaire contre les Rouges. Cette légion avait toute une histoire. Elle avait été constituée à l'origine par Kerensky avec des Tchèques ayant servi, contraints et forcés, dans l'armée austro-hongroise et, faits prisonniers par les Russes, ayant accepté de reprendre les armes dans l'autre camp.

En mars 1918, les Bolcheviques avaient signé un accord les remettant à la disposition des Alliés. Ils devaient être acheminés avec leurs armes vers Vladivostok pour y être embarqués à destination du front occidental. Mais, en mai, alors que les trains les transportant se dirigeaient vers l'Oural, les Rouges avaient tenté de les désarmer, et de violents incidents avaient éclaté dans plusieurs gares, et notamment dans celle de Tcheliabinsk. Sur quoi, ayant mis les gardes rouges en déroute, les Tchèques avaient rejoint les forces antibolcheviques de Sibérie.

Mais ces soldats tchèques sont - à de remarquables exceptions près, comme le capitaine Rudolf Gaïda, devenu général russe à moins de trente ans - des « corps étrangers » dans les armées blanches. Beaucoup se réclament du gouvernement en exil social-démocrate fondé sous la protection des Alliés par Masaryk, qui considère Koltchak et les siens comme « réactionnaires ». Et, surtout, ils sont placés sous le commandement théorique du général Janin.

Lénine découragé

Dès le mois de décembre, ils doivent être relevés sur le front occidental et sont affectés à la garde du chemin de fer transsibérien entre Tcheliabinsk et le lac Baïkal.


Pourtant, au mois de mars 1919, l'offensive de l'armée sibérienne se poursuit avec un plein succès. Elle menace Kazan, et son objectif principal est bel et bien devenu Moscou. En avril, les troupes de Koltchak, qui progressent sur un front de trois cents kilomètres, sont à moins de six cents kilomètres de la capitale.

Le 14 mai, les Alliés adressent à l'amiral un télégramme où ils se déclarent prêts, contre certaines garanties politiques, à tenir le gouvernement d'Omsk comme représentant l'ensemble de la Russie, une assemblée constituante devant être convoquée« dès l'arrivée à Moscou ».

Koltchak répond favorablement, en faisant tenir un double de sa correspondance à Dénikine, qui, le 30 mai, dans un ordre du jour daté d'Eksterinoder, reconnaît spontanément l'autorité de l'amiral « comme le chef suprême du gouvernement russe et le commandant en chef de toutes les armées russes ».

Malgré les tergiversations des Alliés - et, en particulier, il faut bien le dire, des Français la partie semble presque gagnée pour les Blancs. D'autant qu'au Sud, les troupes de Dénikine ; passées, le 2 mars, à une offensive ayant connu, deux mois durant, un sort incertain, ont fini par s'imposer - à quarante-cinq mille contre cent cinquante mille Rouges - et avancent de telle manière qu'une jonction avec Koltchak est envisagée.

C'est au point qu'à Moscou, Lénine se laisse aller à une déclaration pieusement tue, maintenant, par les historiographes marxistes :
« C'est entendu, nous avons raté notre coup. Mais notre grande réussite peut se résumer par une comparaison capitale : à Paris, la Commune avait tenu quelques jours. En Russie, elle aura tenu quelques mois... »

Il est vrai qu'à la différence de son compère Trotski, toujours tenace, combatif et courageux, Lénine était facilement lâche devant l'événement comme il le montra aussi bien à Pétrograd en 1917 que lors de l'offensive du général Ioudénitch, commandant l'Armée blanche du nord-ouest, en octobre 1919. Mais sa réaction n'en demeure pas moins significative.

Malheureusement, la situation ne tarde pas à se dégrader sur le front tenu par les troupes sibériennes. A la fin du mois de mai 1919, alors que la victoire semblait en vue, la progression est stoppée. Puis on commence à reculer devant des forces bolcheviques considérablement renforcées et, surtout, mieux équipées et mieux ravitaillées.

L'Armée blanche de Sibérie a, en effet, des lignes de communication dangereusement étirées. Et si, depuis quelque temps, des navires alliés ont commencé à débarquer du matériel à Vladivostok, son acheminement jusqu'à la zone du front est extrêmement difficile, long et hasardeux.

En juin, l'armée sibérienne du centre doit se replier, et l'armée du nord, commandée par Gaïda, est contrainte de suivre le mouvement pour n'être pas prise à revers sur son flanc gauche. Durant tout l'été, la retraite se poursuit.

Face aux intrigues

A Omsk aussi, le temps se gâte. Les revers militaires n'ont fait qu'attiser les intrigues diverses, menées aussi bien par les politiciens locaux que par certains représentants des Alliés. Koltchak, de plus en plus miné par la maladie, continue néanmoins à se battre sur tous les fronts.

La corruption qui continue à régner parmi les fonctionnaires et même certains officiers indigne l'amiral.

Il mène une existence austère, sort peu, ne reçoit pas, n'assiste qu'aux dîners officiels et ne participe en rien à cette « dolce vita » fin de siècle qui fait tant de ravages parmi les cadres anciens et nouveaux du Gouvernement local.

Certes, il a une maîtresse, mais, bien qu'étant de notoriété publique, cette liaison unique, visiblement fondée sur des sentiments profonds, décourage les amateurs de scandales.

De plus, Anna Timireva, femme séparée d'un amiral, ancien subordonné de Koltchak, n'est pas de celles qui suscitent l'esclandre.

Le dernier convoi

Au mois d'octobre, l'offensive rouge est devenue carrément impossible à enrayer. Du côté sibérien, on ne compte plus guère que sur l'hiver pour ralentir la progression des Bolcheviques, mais l'hiver, précisément, tarde à venir cette année-là.

Le 10 novembre, les avantgardes rouges ne se trouvent plus qu'à une soixantaine de kilomètres d'Omsk, déjà abandonnée par les missions militaires alliées. Et le 14, la 27e Division rouge s'emparera de la capitale après quelques brèves escarmouches.

Le Gouvernement s'est embarqué quatre jours plus tôt en direction d'Irkoutsk. Koltchak, lui, attend le dernier moment et ne part que quelques heures avant l'entrée des troupes rouges dans les faubourgs d'Omsk.

Il a pris place avec Anna Timireva, son état-major, sa garde personnelle et quelques civils, à bord d'un extraordinaire convoi de sept trains, dont l'un, comportant, vingt-neuf fourgons clos, transporte la réserve d'or du Gouvernement russe, stockée en Sibérie. Il sera rejoint le 7 décembre, à la gare de Taïga, par le président du conseil, Victor Pepelaïev.

Ce dernier voyage de l'amiral va prendre rapidement les allures d'un véritable chemin de croix. Autour de lui, tout s'effrite et tout s'effondre. Les Tchèques, soutenus par l'éternel général Janin, sont passés de la neutralité hargneuse à un véritable sabotage.

Et, le 13 décembre, à la gare de Marinsk, ils n'hésitent pas à faire passer le convoi de Koltchak sur la voie annexe - où l'on n'avance qu'à vitesse réduite en raison de l'encombrement. Toutes les protestations envoyées par l'amiral, tant au général Janin qu'au général Syrovy, commandant les troupes tchèques, restent vaines. La trahison est en train de se consommer.

La situation est telle que, le 16 décembre, le jeune général Kappel, devenu commandant en chef des troupes sibériennes, envoie à Syrovy un télégramme furibond où il exige du général tchèque réparation immédiate. C'est en vain.

Cependant, à Irkoutsk, une organisation regroupant les socialistes révolutionnaires et les mencheviks tente un putsch. Bientôt, la ville se trouve partagée entre elle et les troupes fidèles à Koltchak...

L'amiral trahi

Le 5 janvier 1920, Janin fait transmettre à l'amiral, toujours bloqué par les Tchèques, la proposition suivante : il sera escorté jusqu'à Irkoutsk par les Alliés, mais à la condition qu'il abandonne son convoi et voyage dans un seul wagon. Après quelques hésitations, Koltchak accepte, et, le 8 janvier au soir, l'unique wagon, accroché à une locomotive, s'ébranle, avec, à son bord, l'amiral, Anna Timireva et Victor Pepelaïev. des sentinelles tchèques armées stationnent dans les couloirs. Et lorsque, le 15, le train arrive à lrkoutsk, ce sont des miliciens socialistes à brassards rouges qui occupent les quais de la gare : l'amiral Koltchak vient d'être livré à ses ennemis...

D'ailleurs, deux officiers tchèques montent à bord du train et précisent : sur ordre du général Janin, l'amiral et ses compagnons vont être remis aux « autorités politiques locales ».

Koltchak conserve son calme glacial.

- Ainsi, c'est vrai, dit-il simplement, les Alliés m'ont trahi...

Le 20 janvier, les dirigeants socialistes cèdent officiellement la place à un « Comité révolutionnaire » bolchevique, et le lendemain, 21, Koltchak est appelé à comparaître devant une « Commission d'enquête extraordinaire » de cinq membres, présidée par les commissaires politiques rouges Tchoudnovsky et Popov. Coïncidence : l'aimable général Janin est parti pour un long et mystérieux voyage...

Une double exêcution

Mais un homme n'abandonne pas la partie : Kappel.

Avec son adjoint Voitzek-Hovsky et les maigres troupes qui lui restent, il est décidé à sauver l'amiral à tout prix. Il fonce vers Irkoutsk, et, le 20 janvier, s'empare de Nijneoudinsk. Mais le jeune général a les deux jambes gelées et les poumons atteints. Il refuse de se faire évacuer et continue sa route sur un simple traîneau, sur la neige. Le 27 janvier, il expire, en passant son commandement à Voitzekhovsky.

Celui-ci est son digne successeur. Enlevant à un train d'enfer ses troupes, pourtant épuisées, il arrive le 5 février aux portes d'Irkoutsk en ayant tout balayé sur son passage.

Le jour même, la « Commission d'enquête extraordinaire », muée en tribunal avec l'approbation du soviet de Tomsk, a décidé de faire fusiller Koltchak et Victor Pepelaïev. Les deux condamnés sont amenés au bord de la rivière Outchakovka, entièrement gelée. On a creusé un trou dans la glace. Ayant récité leurs prières, les deux hommes viennent se mettre devant, le dos à la rivière. Koltchak a refusé qu'on lui bande les yeux.

Une salve, puis une seconde.

Frappés à mort, les deux corps ont basculé dans l'eau immobile. Au-dessus d'eux, la glace commence à se reformer.


Jean Bourdier, National Hebdo février 1988.
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dimanche, 20 novembre 2011

India's only communalist A short biography of Sita Ram Goel

India's only communalist
A short biography of Sita Ram Goel

Ex; http://koenraadelst.voiceofdharma.com/

Koenraad Elst

1. Is there a communalist in the hall ?

A lot of people in India and abroad talk about communalism, often in grave tones, describing it as a threat to secularism, to regional and world peace. But can anyone show us a communalist? If we look more closely into the case of any so-called communalist, we find that he turns out to be something else.

sitaramgoel.jpgCould Syed Shahabuddin be a communalist? After all, he played a key role in the three main "Muslim communalist" issues of recent years: the Babri Masjid campaign, the Shah Bano case and the Salman Rushdie affair (it is he who got The Satanic Verses banned in September 1988). Surely, he must be India's communalist par excellence? Wrong: if you read any page of any issue of Shahabuddin's monthly Muslim India, you will find that he brandishes the notion of "secularism" as the alpha and omega of his politics, and that he directs all his attacks against Hindu "communalism". The same propensity is evident in the whole Muslim "communalist" press, e.g. the Jamaat-i Islami weekly Radiance. Moreover, on Muslim India's editorial board, you find articulate secularists like Inder Kumar Gujral, Khushwant Singh and the late P.N. Haksar.

For the same reason, any attempt to label the All-India Muslim League as communalist would be wrong. True, it is the continuation of the party which achieved the Partition of India along communal lines. Yet, emphatically secularist parties like the Congress Party and the Communist Party of India (Marxist) have never hesitated to include the Muslim League in coalitions governing the state of Kerala. No true communalist would get such a chance.

On the Hindu side then, at least the Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, "National Volunteer Corps") could qualify as "communalist"? Certainly, it is called just that by all its numerous enemies. But then, when you look through any issue of its weekly Organiser, you will find it brandishing the notion of "positive" or "genuine secularism", and denouncing "pseudo-secularism", i.e. minority communalism. Moreover, in order to prove its non-communal character, it even calls itself and its affiliated organizations (trade-union, student organization, political party etc.) "National" or "Indian" rather than "Hindu". The allied political party, the Bharatiya Janata Party (BJP, "Indian People's Party"), shows off the large number of Muslims among its cadres to prove how secular and non-communal it is. Even the Shiv Sena shows off its token Muslims. No, for full-blooded communalists, we have to look elsewhere.

There is only one man in India whom I have ever known to say: "I am a (Hindu) communalist." To an extent, this is in jest, as a rhetorical device to avoid the tangle in which RSS people always get trapped: being called "communalist!" and then spending the rest of your time trying to prove to your hecklers what a good secularist you are. But to an extent, it is because he accepts at least one definition of "communalism" as applying to himself, esp. to his view of India's history since the 7th century. Many historians try to prove their "secularism" by minimizing religious adherence as a factor of conflict in Indian history, and explaining so-called religious conflicts as merely a camouflage for socio-economic conflicts. By contrast, the historian under consideration accepts, and claims to have thoroughly documented, the allegedly "communalist" view that the major developments in medieval and modern Indian history can only be understood as resulting from an intrinsic hostility between religions.

Unlike the Hindutva politicians, he does not seek the cover of "genuine secularism". While accepting the notion that Hindu India has always been "secular" in the adapted Indian sense of "religiously pluralistic", he does not care for slogans like the Vishva Hindu Parishad's advertisement "Hindu India, secular India". After all, in Nehruvian India the term "secular" has by now acquired a specific meaning far removed from the original European usage, and even from the above-mentioned Indian adaptation. If Voltaire, the secularist par excellence, were to live in India today and repeat his attacks on the Church, echoing the Hindutva activists in denouncing the Churches' grip on public life in christianized pockets like Mizoram and Nagaland, he would most certainly be denounced as "anti-minority" and hence "anti-secular".

In India, the term has shed its anti-Christian bias and acquired an anti-Hindu bias instead, a phenomenon described by the author under consideration as an example of the current "perversion of India's political parlance". Therefore, he attacks the whole Nehruvian notion of "secularism" head-on, e.g. in the self-explanatory title of his Hindi booklet Saikyularizm: râshtradroha kâ dûsra nâm ("Secularism: the Alternative Name for Treason"). The name of India's only self-avowed communalist is Sita Ram Goel.

2. Sita Ram Goel as an anti-Communist

Sita Ram Goel was born in 1921 in a poor family (though belonging to the merchant Agrawal caste) in Haryana. As a schoolboy, he got acquainted with the traditional Vaishnavism practised by his family, with the Mahabharata and the lore of the Bhakti saints (esp. Garibdas), and with the major trends in contemporary Hinduism, esp. the Arya Samaj and Gandhism. He took an M.A. in History in Delhi University, winning prizes and scholarships along the way. In his school and early university days he was a Gandhian activist, helping a Harijan Ashram in his village and organizing a study circle in Delhi.

8185990239.jpgIn the 1930s and 40s, the Gandhians themselves came in the shadow of the new ideological vogue: socialism. When they started drifting to the Left and adopting socialist rhetoric, S.R. Goel decided to opt for the original rather than the imitation. In 1941 he accepted Marxism as his framework for political analysis. At first, he did not join the Communist Party of India, and had differences with it over such issues as the creation of the religion-based state of Pakistan, which was actively supported by the CPI but could hardly earn the enthusiasm of a progressive and atheist intellectual. He and his wife and first son narrowly escaped with their lives in the Great Calcutta Killing of 16 August 1946, organized by the Muslim League to give more force to the Pakistan demand.

In 1948, just when he had made up his mind to formally join the Communist Party of India, in fact on the very day when he had an appointment at the party office in Calcutta to be registered as a candidate-member, the Government of West Bengal banned the CPI because of its hand in an ongoing armed rebellion. A few months later, Ram Swarup came to stay with him in Calcutta and converted him as well as his employer, Hari Prasad Lohia, out of Communism. Goel's career as a combative and prolific writer on controversial matters of historical fact can only be understood in conjunction with Ram Swarup's sparser, more reflective writings on fundamental doctrinal issues.

Much later, in a speech before the Yogakshema society, Calcutta 1983, he explained his relation with Ram Swarup as follows: "In fact, it would have been in the fitness of things if the speaker today had been Ram Swarup, because whatever I have written and whatever I have to say today really comes from him. He gives me the seed-ideas which sprout into my articles (...) He gives me the framework of my thought. Only the language is mine. The language also would have been much better if it was his own. My language becomes sharp at times; it annoys people. He has a way of saying things in a firm but polite manner, which discipline I have never been able to acquire." (The Emerging National Vision, p.1.)

S.R. Goel's first important publications were written as part of the work of the Society for the Defence of Freedom in Asia:

·        World Conquest in Instalments (1952);

·        The China Debate: Whom Shall We Believe? (1953);

·        Mind Murder in Mao-land (1953);

·        China is Red with Peasants' Blood (1953);

·        Red Brother or Yellow Slave? (1953);

·        Communist Party of China: a Study in Treason (1953);

·        Conquest of China by Mao Tse-tung (1954);

·        Netaji and the CPI (1955);

·        CPI Conspire for Civil War (1955).

Goel also published the book Blowing up India: Reminiscences of a Comintern Agent by Philip Spratt (1955), who, as an English Comintern agent, had founded the Communist Party of India in 1926. After spending some time in prison as a convict in the Meerut Conspiracy case (1929), Spratt had come under the influence of Mahatma Gandhi, and ended as one of the best-informed critics of Communism.

Then, and all through his career as a polemical writer, the most remarkable feature of Sita Ram Goel's position in the Indian intellectual arena was that nobody even tried to give a serious rebuttal to his theses: the only counter-strategy has always been, and still is, "strangling by silence", simply refusing to ever mention his name, publications and arguments.

An aspect of history yet to be studied is how such anti-Communist movements in the Third World were not at all helped (in fact, often opposed) by Western interest groups whose understanding of Communist ideology and strategy was just too superficial. Most US representatives starkly ignored the SDFA's work, and preferred to enjoy the company of more prestigious (implying: fashionably anti-anti-Communist) opinion makers. Goel himself noted in 1961 about his Western anti-Communist contacts like Freda Utley, Suzanne Labin and Raymond Aron, who were routinely dismissed as bores, querulants or CIA agents: Communism was "opposed only by individuals and groups who have done so mostly at the cost of their reputation (...) A history of these heroes and their endless endeavour has still to be written." (Genesis and Growth of Nehruism, p.212)

3. Sita Ram Goel and the RSS

gagon.jpgIn the 1950s, Goel was not active on the "communal" battlefield: not Islam or Christianity but Communism was his priority target. Yet, under Ram Swarup's influence, his struggle against communism became increasingly rooted in Hindu spirituality, the way Aleksandr Solzhenitsyn's anti-Communism became rooted in Orthodox Christianity. He also co-operated with (but was never a member of) the Bharatiya Jana Sangh, and he occasionally contributed articles on Communism to the RSS weekly Organiser. In 1957 he contested the Lok Sabha election for the Khajuraho constituency as an independent candidate on a BJS ticket, but lost. He was one of the thirty independents fielded as candidates by Minoo Masani in preparation of the creation of his own (secular, rightist-liberal) Swatantra Party.

In that period, apart from the said topical books in English, Goel wrote and published 18 titles in Hindi: 8 titles of fiction and 1 of poetry written by himself; 3 compilations from the Mahabharata and the Tripitaka; and Hindi translations of these 6 books, mostly of obvious ideological relevance:

·        The God that Failed, a testimony on Communism by Arthur Koestler, André Gide and other prominent ex-Communists;

·        Ram Swarup's Communism and Peasantry;

·        Viktor Kravchenko's I Chose Freedom, another testimony by an ex-Communist;

·        George Orwell's Nineteen Eighty-Four.

·        Satyakam Sokratez ("Truth-lover Socrates"), the three Dialogues of Plato centred round Socrates' last days (Apology, Crito and Phaedo);

·        Shaktiputra Shivaji, a history of the 17th-century Hindu freedom fighter, originally The Great Rebel by Denis Kincaid.

There is an RSS aspect to this publishing activity. RSS secretary-general Eknath Ranade had asked Goel to educate RSS workers about literature, and to produce some literature in Hindi to this end. The understanding was that the RSS would propagate this literature and organize discussions about it. Once Goel had set up a small publishing outfit and published a few books, he had another meeting with Ranade, who gave him an unpleasant surprise: "Was the RSS created to sell your books?" Fortunately for Goel, his friend Guru Datt Vaidya and son Yogendra Datt included Goel's books in the fund of their own publishing-house, Bharati Sahitya Sadan. This is Goel's own version, and Ranade is not there to defend himself; but Goel's long experience in dealing with the RSS leadership translates into a long list of anecdotes of RSS petty-mindedness, unreliability and lack of proper manners in dealing with fellow-men.

In May 1957, Goel moved to Delhi and got a job with a state-affiliated company, the Indian Cooperative Union, for which he did research and prospection concerning cottage industries. The company also loaned him for a while to the leading Gandhian activist Jayaprakash Narayan, who shared Goel's anti-Communism at least at the superficial level (what used to be called "anti-Stalinism": rejecting the means but not the ends of Communism).

During the Chinese invasion in 1962, some government officials including P.N. Haksar, Nurul Hasan and the later Prime Minister I.K. Gujral, demanded Goel's arrest. But at the same time, the Home Ministry invited him to take a leadership role in the plans for a guerrilla war against the then widely-expected Chinese occupation of eastern India. He made his co-operation conditional on Nehru's abdication as Prime Minister, and nothing ever came of it.

In 1963, Goel had a book published under his own name which he had published in 1961-62 as a series in Organiser under the pen name Ekaki ("solitary"): a critique of Nehru's consistent pro-Communist policies, titled In Defence of Comrade Krishna Menon. An update of this book was published in 1993: Genesis and Growth of Nehruism. The serial in Organiser had been discontinued after 16 installments because Eknath Ranade and A.B. Vajpayee feared that if any harm came to Nehru, the RSS would be accused of having "created the climate", as in the Gandhi murder case.

In it, Goel questioned the current fashion of attributing India's Communist-leaning foreign policy to Defence Minister Krishna Menon, and demonstrated that Nehru himself had been a consistent Communist sympathizer ever since his visit to the Soviet Union in 1927. Nehru had stuck to his Communist sympathies even when the Communists insulted him as Prime Minister with their unbridled scatologism. Nehru was too British and too middle-class to opt for a fully authoritarian socialism, but like many European Leftists he supported just such regimes when it came to foreign policy. Thus, Nehru's absolute refusal to support the Tibetans even at the diplomatic level when they were overrun by the Chinese army ("a Far-Eastern Munich", according to Minoo Masani: Against the Tide, Vikas Publ., Delhi 1981, p.45.), cannot just be attributed to circumstances or the influence of his collaborators: his hand-over of Tibet to Communist China was quite consistent with his own political convictions.

While refuting the common explanation that the pro-Communist bias in Nehru's foreign policy was merely the handiwork of Minister Krishna Menon, Goel also drew attention to the harmfulness of this policy to India's national interests. This critique of Nehru's pro-China policies was eloquently vindicated by the Chinese invasion in October 1962, but it cost Goel his job. He withdrew from the political debate, went into business himself and set up Impex India, a company of book import and export with a modest publishing capacity.

In 1964, RSS general secretary Eknath Ranade invited Goel to lead the prospective Vishva Hindu Parishad, which was founded later that year, but Goel set as his condition that he would be free to speak his own mind rather than act as a mouthpiece of the RSS leadership; the RSS could not accept this, and the matter ended there. Goel's only subsequent involvement in politics was in 1973 when he was asked by the BJS leadership to mediate with the dissenting party leader Balraj Madhok in a last attempt at conciliation (which failed); and when he worked as a member of the think-tank of the Janata alliance before it defeated Indira's Emergency regime in the 1977 elections. As a commercial publisher, he did not seek out the typical "communal" topics, but nonetheless kept an eye on Hindu interests. That is why he published books like Dharampal's The Beautiful Tree (on indigenous education as admiring British surveyors found it in the 19th century, before it was destroyed and replaced with the British or missionary system), Ram Swarup's apology of polytheism The Word as Revelation (1980), K.R. Malkani's The RSS Story (1980) and K.D. Sethna's Karpasa in Prehistoric India (1981; on the chronology of Vedic civilization, implying decisive objections against the Aryan Invasion Theory).

4. Sita Ram Goel as a Hindu Revivalist

hsus.jpgIn 1981 Sita Ram Goel retired from his business, which he handed over to his son and nephew. He started the non-profit publishing house Voice of India with donations from sympathetic businessmen, and accepted Organiser editor K.R. Malkani's offer to contribute some articles again, articles which were later collected into the first Voice of India booklets.

Goel's declared aim is to defend Hinduism by placing before the public correct information about the situation of Hindu culture and society, and about the nature, motives and strategies of its enemies. For, as the title of his book Hindu Society under Siege indicates, Goel claims that Hindu society has been suffering a sustained attack from Islam since the 7th century, from Christianity since the 15th century, this century also from Marxism, and all three have carved out a place for themselves in Indian society from which they besiege Hinduism. The avowed objective of each of these three world-conquering movements, with their massive resources, is diagnosed as the replacement of Hinduism by their own ideology, or in effect: the destruction of Hinduism.

Apart from numerous articles, letters, contributions to other books (e.g. Devendra Swarup, ed.: Politics of Conversion, DRI, Delhi 1986) and translations (e.g. the Hindi version of Taslima Nasrin's Bengali book Lajja, published in instalments in Panchjanya, summer 1994), Goel has contributed the following books to the inter-religious debate:

·        Hindu Society under Siege (1981, revised 1992);

·        Story of Islamic Imperialism in India (1982);

·        How I Became a Hindu (1982, enlarged 1993);

·        Defence of Hindu Society (1983, revised 1987);

·        The Emerging National Vision (1983);

·        History of Heroic Hindu Resistance to Early Muslim Invaders (1984);

·        Perversion of India's Political Parlance (1984);

·        Saikyularizm, Râshtradroha kâ Dûsrâ Nâm (Hindi: "Secularism, another name for treason", 1985);

·        Papacy, Its Doctrine and History (1986);

·        Preface to The Calcutta Quran Petition by Chandmal Chopra (a collection of texts alleging a causal connection between communal violence and the contents of the Quran; 1986, enlarged 1987 and again 1999);

·        Muslim Separatism, Causes and Consequences (1987);

·        Foreword to Catholic Ashrams, Adapting and Adopting Hindu Dharma (a collection of polemical writings on Christian inculturation; 1988, enlarged 1994 with new subtitle: Sannyasins or Swindlers?);

·        History of Hindu-Christian Encounters (1989, enlarged 1996);

·        Hindu Temples, What Happened to Them (1990 vol.1; 1991 vol.2, enlarged 1993);

·        Genesis and Growth of Nehruism (1993);

·        Jesus Christ: An Artifice for Agrression (1994);

·        Time for Stock-Taking (1997), a collection of articles critical of the RSS and BJP;

·        Preface to the reprint of Mathilda Joslyn Gage: Woman, Church and State (1997, ca. 1880), an early feminist critique of Christianity;

·        Preface to Vindicated by Time: The Niyogi Committee Report (1998), a reprint of the official report on the missionaries' methods of subversion and conversion (1955).         

Goel's writings are practically boycotted in the media, both by reviewers and by journalists and scholars collecting background information on the communal problem. Though most Hindutva stalwarts have some Voice of India publications on their not-so-full bookshelves, the RSS Parivar refuses to offer its organizational omnipresence as a channel of publicity and distribution. Since most India-watchers have been brought up on the belief that Hindu activism can be identified with the RSS Parivar, they are bound to label Sita Ram Goel (the day they condescend to mentioning him at all, that is) as "an RSS man". It may, therefore, surprise them that the established Hindu organizations have so far shown little interest in his work.

It is not that they would spurn his services: in its Ayodhya campaign, the Vishva Hindu Parishad has routinely referred to a "list of 3000 temples converted into or replaced by mosques", meaning the list of nearly 2000 such cases in Goel, ed.: Hindu Temples, vol.1. Goel also published the VHP argumentation in the government-sponsored scholars' debate of 1990-91 (titled History vs. Casuistry), and he straightened and corrected the BJP's clumsily drafted White Paper on Ayodhya. But organizationally, the Parivar is not using its networks to spread Ram Swarup's and Sita Ram Goel's books and ideas. Twice (1962 and 1982) the RSS intervened with the editor of Organiser to have ongoing serials of articles (on Nehru c.q. on Islam) by Goel halted; the second time, the editor himself, the long-serving arch-moderate K.R. Malkani, was sacked along with Goel. And ideologically, it has always turned a deaf ear to their analysis of the problems facing Hindu society.

Most Hindu leaders expressly refuse to search Islamic doctrine for a reason for the observed fact of Muslim hostility. RSS leader Guru Golwalkar once said: "Islam is a great religion. Mohammed was a great prophet. But the Muslims are big fools." (Delhi ca. 1958) This is not logical, for the one thing that unites the (otherwise diverse) community of Muslims, is their common belief in Mohammed and the Quran: if any wrong is attributed to "the Muslims" as such, it must be situated in their common belief system. Therefore, Goel's position is just the opposite: not the Muslims are the problem, but Islam and Mohammed.

In the Ayodhya dispute, time and again the BJP leaders have appealed to the Muslims to relinquish all claims to the supposed birthplace of the Hindu god Rama, arguing that destroying temples is against the tenets of Islam, and that the Quran prohibits the use of a mosque built on disputed land. In fact, whatever Islam decrees against building mosques on disputed property, can only concern disputes within the Muslim community (or its temporary allies under a treaty). Goel has demonstrated in detail that it is perfectly in conformity with Islamic law, and established as legitimate by the Prophet through his own example, to destroy Pagan establishments and replace them with (or turn them into) mosques. For an excellent example, the Kaaba itself was turned into a mosque by Mohammed when he smashed the 360 Pagan idols that used to be worshipped in it.

Therefore, S.R. Goel is rather critical of the Ayodhya movement. In the foreword to Hindu Temples, vol.2, he writes: "The movement for the restoration of Hindu temples has got bogged down around the Rama Janmabhoomi at Ayodhya. The more important question, viz. why Hindu temples met the fate they did at the hands of Islamic invaders, has not been even whispered. Hindu leaders have endorsed the Muslim propagandists in proclaiming that Islam does not permit the construction of mosques at sites occupied earlier by other people's places of worship (...) The Islam of which Hindu leaders are talking exists neither in the Quran nor in the Sunnah of the Prophet. It is hoped that this volume will help in clearing the confusion. No movement which shuns or shies away from truth is likely to succeed. Strategies based on self-deception stand defeated at the very start."

Goel's alternative to the RSS variety of "Muslim appeasement" is to wage an ideological struggle against Islam and Christianity, on the lines of the rational criticism and secularist politics which have pushed back Christian self-righteousness in Europe. The Muslim community, of course, is not to be a scapegoat (as it is for those who refuse to criticize Islam and end up attacking Muslims instead), but has to be seen in the proper historical perspective: as a part of Hindu society estranged from its ancestral culture by Islamic indoctrination over generations. Their hearts and minds have to be won back by an effort of consciousness-raising, which includes education about the aims, methods and historical record of religions.

5. Conclusion

One of the grossest misconceptions about the Hindu movement, is that it is a creation of political parties like the BJP and the Shiv Sena. In reality, there is a substratum of Hindu activist tendencies in many corners of Hindu society, often in unorganized form and almost invariably lacking in intellectual articulation. To this widespread Hindu unrest about the uncertain future of Hindu culture, Voice of India provides an intellectual focus.

The importance of Ram Swarup's and Sita Ram Goel's work can hardly be over-estimated. I for one have no doubt that future textbooks on comparative religion as well as those on Indian political and intellectual history will devote crucial chapters to their analysis. They are the first to give a first-hand "Pagan" reply to the versions of history and "comparative religion" imposed by the monotheist world-conquerors, both at the level of historical fact and of fundamental doctrine, both in terms of the specific Hindu experience and of a more generalized theory of religion free from prophetic-monotheistic bias.

Their long-term intellectual importance is that they have contributed immensely to breaking the spell of all kinds of Christian, Muslim and Marxist prejudices and misrepresentations of Hinduism and the Hindu Revivalist movement.

jeudi, 17 novembre 2011

Жан Тіріар – Макіавеллі Об’єднаної Європи

Жан Тіріар – Макіавеллі Об’єднаної Європи

Ревний читач Гоббса, Макіавеллі та Паретто, бельгієць Жан Тіріар (1922–1992), засновник пан’європейської організації «Молода Європа» («Jeune Europe») був теоретиком Великої Європи від Ґолвея до Владивостока.

Народжений в 1922 році, в ліберальній сім’ї бельгійського міста Льєж, Жан Тіріар був молодим активістом в лавах ліво-радикальних марксистів, прибічників Об’єднаної молодіжної соціалістичної варти та Соціалістичної антифашистської спілки. Він радо вітав Пакт Молотова-Ріббентропа в 1939 році: «Найпрекраснішою, найбільш захоплюючою частиною мого життя, я зазначу, був німецько-радянський договір». Оскільки, для нього, «національний соціалізм був не ворогом комунізму, а тільки суперником».

Від війни до війни

В 1940 році, коли йому минало вісімнадцять, Жан долучивсь до «Друзів Великонімецького рейху» (AGRA – Amis du Grand Reich allemand), об’єднання франкомовних бельгійських прихильників колаборації, які проте не поділяли ідеї рекситів, будучи організації секулярною та соціалістичною. Він також належав до «Спілки Фіхте» («Fichte Bund»), базованого в Гамбурзі руху, що постав з тогочасних націонал-більшовиків. Засуджений до трьох років ув’язнення після так зв. «визволення», він полишив будь-яку політичну діяльність.

Він повернувся в політику тільки на зорі 60-х, у віці 38 років, під час деколонізації Бельгійського Конго, беручи участь в заснуванні Комітету дії та захисту бельгійців у Африці (Comité d’action et de défense des Belges d’Afrique – CADBA). Незабаром, захист бельгійців у Конго перетворився в боротьбу за європейську присутність в Африці, зокрема за французів Алжиру, а CADBA стала Рухом громадянської дії (MAC – Mouvement d’action civique). Тіріар, за допомоги Поля Тайхмана, перетворив групу пужадистського зразка в революційну структуру, що ефективно організувала бельгійську мережу підтримки OAS («L’Organisation armée secrète» – «Таємна оброєна організація» – французький спротив проти деколонізації Алжиру – прим.пер.).

4 березня 1962 року, на зустрічі в Венеції, що проходила під проподом сера Осальда Мослі, керівництво MAC, Movimento Sociale Italiano (MSI – Італійський соціальний рух), Юніоністський рух (англійський ліво-фашистівський рух на чолі з О.Мослі – прим. пер.), та Соціалістична рейхспартія зібрались для заснування «Національної європейської партії зосередженої на ідеї європейської єдності». Але з цього нічого толком не вийшло. Поклявшись створити справжню європейську революційну партію, в січні 1963 року, Жан Тіріар перетворює MAC в «Молоду Європу», міжнаціональний європейський рух під знаком кельтського хреста. Попри те, що він був заснований в шести країних, чисельність руху ніколи не перевищувала 5000 учасників по всій Європі, і це як зазначав сам Тіріар, «тільки крихти з дна скрині». Загалом, дві третіх членства було зосереджено в Італії. У Франції за підтримку OAS, «Молоду Європу» було заборонено, що призвело до напівпідпільності й слабкого впливу руху, лави якого не перевищували 200 чоловік.

Європейський націонал-комунітарист

В 1961 році, в Маніфесті Європейської нації («Le Manifeste à la Nation Européenne»), Жан Тіріар оголосив себе прибічником «об’єднаної могутньої, комунітаристської Європи… що протистоїть радянському і американському блокам». Більш докладно він представив свої ідеї в книзі «Імперія 400 мільйонів чоловік: Європа» («Un Empire de 400 millions d’hommes : L’Europe»). Швидко перекладена на сім основних європейських мов, цей твір, доповнений виданою в 1965 році 80-сторінковою брошурою «Велика нація: Об’єднана Європа від Бреста до Бухареста», справила глибокий вплив на кадри європейський ультра-правих, особливо в Італії.

Самобутність «Молодої Європи» полягає в її ідеології, національному європейському комунітаризмі, який Тіріар підносив у вигляді «європейського і елітистського соціалізму», позбавленого бюрократії і з опорою на європейський націоналізм. Ставлячи під сумнів романтичну концепцію нації, успадковану з дев’ятнадцятого століття, що зазнала поразки через етнічні, мовні та релігійні чинники, він надавав перевагу концепції динамічної нації, що рухається до набуття відповідності націїспільноти долі, описаної Хосе Ортегою і Гасетом. Не відкидаючи минуле в цілому, Тіріар вважав, що «минуле – це ніщо, в порівнянні з величним спільним мабутнім… Що робить націю справжньою і життєздатною, так це єдність її історичної долі».

Змальовуючи себе як «великоєвропейського якобінця», він прагнув побудови єдної нації, і пропагував «сплавлену державу», централізовану і понаднаціональну, політичного, правового і духовного спадкоємця Римської імперії, яка б надавала всім мешканцям спільно європейське громадянство. В 1989 році, він підсумовував: «Головною віссю моєї політико-історичної думки є цілісна держава, централізована політична держава, а не держава расова, ностальгічна, історична чи релігійна». Ніщо не було таким чужим для нього як «Європа тисячі прапорів» Яна Фуере чи дорога для Сент-Лу «Європа кровних батьківщин».

Тіріарів націоналізм ґрунтувавсь суто на геополітичних міркуваннях. Згідного його думок, тільки країни континентального виміру на зразок США, СРСР чи Китаю мають майбутнє. Дрібні традиційні націоналізми суть перешкодами, ба навіть анахронізмами, якими маніпулюють великі держави. Отож для повернення до величі та могутності, Європа має бути об’єднана.

Об’єднання має відбутись під проводом Європейської революційної партії, заснованої на ленінській моделі демократичного централізму, яка організує маси та добере еліту. Історична партія, за прикладом третьосвітових експериментів на зразок FLN в Алжирі чи FNL у В’єтнамі, стане зародковою державою, що розвинеться в об’єднану європейську державу. Партія провадитиме національно-визвольну боротьбу проти американської окупації, відданих їй колаборантів, тисяч зрадників з числа про-системних партій та колоніальних військ НАТО. Таким чином Європа буде звільнена та об’єднана від Бресту до Бухаресту, силою в чотириста мільйонів чоловік, здатною згодом укласти тактичний альянс з Китаєм та арабськими країнами для повалення американо-радянського панування.

Попри геополітичну ясність, ідеї Тіріара, матеріалістичні та раціоналістичні до краю, спантеличують своїм надзвичайно модерним характером. Як наголосив італійський традиціоналіст Клавдіо Мутті, колишній активіст «Молодої Європи»: «обмеженість Тіріара полягала насамперед в його секулярному націоналізмі, підкріпленому маківеліанським світоглядом, та позбавленим будь-якої опори трансцендентного змісту. Для нього історичні протистояння можуть мати тільки грубу силову розв’язку, і разом з тим, держава є не більше ніж втілена ніцшеанська воля до влади на службі проекту європейської гегемонії, позначеної виключною, безоглядною та величною гордістю».

В економічній галузі, Тіріар пропонував, як альтернативу до «економіки прибутку» – капіталізму, та «утопічної економіки» – комунізму, «економіку сили», єдиним життєвим виміром якої буде «європейський». Беручи за наріжний камінь економістів Фіхте та Ліста, він висував «автаркію великих просторів». Європа мала покинути Міжнародний валютний фонд, запровадити єдина валюту, захистити себе тарифними бар’єрами, та працювати на забезпечення самодостатності.

Від «Молодої Європи» до Європейської комунітаристської партії

Після 1963 року, роздори пов’язані з Південним Тиролем (німецькомовна область в Італії – прим. пер.) спричинили глибоку схизму, що призвела до утворення Європейського фронту в Німеччині, Австрії та Фландрії.

Однак, апогею в своїй діяльності рух досяг в 1964 році, зігравши, завдяки доктору Тайхману, провідну роль в страйку бельгійських лікарів, і беручи участь в місцевих виборах в Квіеврані. Представники робітничого класу, що брали участь в русі, зорганізувались в Європейські комунітаристські синдикати (Syndicats communautaires européens). В 1964 році, журналіст Еміль Лесер і доктор Нансі відійшли через ідеологічні розбіжності з Тіаріаром. Лесер став на чолі Європейської революційної групи , що мала більш-менш подібні позиції з французькою «Europe-Action», «ностальгічним» і «літературним» рухом за словами Тіріара. Відхід цього історичного лідера з організації, приклад якого повторив в грудні 1964 року й Поль Тайхман, спричинив діяльнісний занепад «Молодої Європи».

В 1965 році, «Молода Європа» стала Європейською комунітаристською партією (PCE—Parti communautaire européen). Надмірна зайнятість ідеологічними питаннями відвела в бік діяльнісний активізм. Теоретичний альманах «L’Europe communautaire» виходив щомісяця, а тижневик «Jeune Europe» що два тижні. Після Кадрової школа, що проводилась по всій Європі в жовтні 1965 року, Тіріар працював над «фізикою політики», заснованої на творах Макіавеллі, Густава ле Бона, Сергія Чахотіна, Карла Шмітта, Юліана Фройнда та Раймонда Арона.

Більше того, партія публікувала, між 1965 та 1969, щомісячний часопис «Європейська нація» («La nation européenne» – французькою, «Nazione europea» – італійською), де пропонувала противагу традиційним ультраправим, ставила континентальну спілку понад окремим націями, простояла НАТО, пропагувала автономні сили стримування (ідея підтримувана де Голлем), приділяла увагу визвольній боротьбі в Третьому світі, описуючи Кубу, арабській країни та Північний В’єтнам як союзників Європи! Часопис мав понад 2000 підписників та виходив в 10 тисячах примірників на кожен номер.

В червні 1966 року, Жан Тіріар за ініціативи Чаушеску зустрівся в Бухаресті в прем’єр міністром Китаю Чжоу Енлаєм. Пекін в той час висував тезу про «боротьбу трьох континентів». Тіріар натомість виступав за боротьбу «чотирьох континентів», пропонуючи розпалити В’єтнам у Європі. Для цього Тіріар передбачив створення «Європейських бригад» за моделлю Гарібальді, які після боїв на Близькому Сході та в Латинській Америці, повернуться для визвольної війни в Європі.

Слід зазначити, що після цієї бесіди, італійські активісти «Молодої Європи» здійснювали спільні акції з місцевими маоїстами, об’єднані спільною мінімальною програмою ворожості до двох наддержав, протидією окупації Європи янкі, анти-сіонізмом, та підтримкою визвольної боротьби країнами Третього світу.

Ця співпраця залишила по собі слід. Чисельні націонал-європейські діячі зрештою долучились до лав маоїстів. Так, в 1971 році Клавдіо Орзоні, небіж ватажка італійських фашистів Італо Бальбо і член-засновник «Молодої Європи» заснував Центр вивчення та застосування маоїстської думки. В 1975 році, Піно Больцано, останній редактор «La Nazione europea», очолив щоденну ліво-радикальну газету «Боротьба триває» («Lotta Continua»). Ренато Курчіо долучивсь до Італійської марксистко-ленінської комуністичної партії перед тим заснувавши … «Червоні бригади»!

«Молода Європа» мала прихильників в деяких країнах в Східній Європі та на Близькому Сході. Так, 1 серпня 1966 року Тіріар оприлюдний статтю сербохорватською мовою, під назвою «Європа від Дубліна до Бухареста», в офіційному дипломатичному часописі уряду Югославії «Medunarodna Politika». Лютий анти-сіоніст, Жан Тіріар підтримував зв’язок з Ахмедом Шукейрі, попередником Арафата на чолі Організації Визволення Палестини, а першим європейцем, що зі зброєю в руках загинув на боці палестинці був французький інженер і член «Молодої Європи» Роже Кудруа.

Тіріар також був пов’язаним з арабськими соціалітично-секулярними режимами. Восени 1968 року, він здійснив тривалу мандрівку на Близький Схід за запрошення урядів Іраку та Єгипту. Він провів кілька дискусій з міністрами, давав інтерв’ю пресі, взяв участь у з’їзді Арабського соціалістичного союзу – партії Гамаля Абдель Насера, з ким мав нагоду зустрітись. Засмучений браком конкретної співпраці з боку згаданих країн, в 1969 році, він відмовивсь від збройної боротьби, що спричинило занепад «Молодої Європи».

Євро-радянська імперія

Однак він продовжував займатись своїми глибокими теоретичними роздумами. Коли на в 70-х Вашингтон почав налагоджувати зв’язки з Пекіном, він запропонував Євро-радянський альянс проти Китайсько-американської осі, з метою побудови «надвеликої Європи від Рейк’явіка до Владивостока», що було, на думку Тіріара, єдиним способом протистояти новому американському Карфагену та мільярдному Китаю. Це привело його до заяви, зробленої 1984 році: «Якщо Москва хоче зробити Європу європейською, я проповідуватиму тотальну співпрацю з Радянською ініціативою. Я тоді буду першим, хто причепить червону зірку собі на капелюха. Радянська Європа, так, без застережень».

Тіріар мріяв про Євро-радянську імперію, яку він описував як «гіпер-національну державу оснащену де-марксифікованим гіпер-комунізмом», сполучену з Євросибіром: «Між Ісландією і Владивостоком, ми можемо об’єднати 800 мільйонів чоловік… і знати в сибірській землі всі наші стратегічні й енергетичні потреби. Я кажу, що Сибір є найбільшою економічною життєдайною силою Європейської імперії». Згодом він написав дві книги: «Євро-радянська імперія від Владивостока до Дубліна: після Ялти», і разом з Хосе Квадрадо Костою – «Перетворення комунізму: нарис про просвітлений тоталітаризм», яка так і лишилась на чернетках через раптовий розвал СРСР. Він вийшов зі свого політичного вигнання лише в 1991 році щоб підтримати створення Європейського фронту визволення (FEL— Front européen de libération). В 1992 році він відвідав Москву з делегацією FEL і помер від серцевого нападу одразу після повернення до Бельгії, залишивши контроверсійну, але оригінальну добірку теоретичних робіт, що надихнули проповідника Євросибіру – Гійома Фея та євразійця – Алєксандра Дугіна.

Едуард Рікс

jeudi, 12 mai 2011

O Barao "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Mistico?

 

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O Barão "Sangrento" von Ungern-Sternberg - Louco ou Místico?

 
por Dr. Richard Spence
 
 
"Meu nome está cercado por tamanho ódio e medo que ninguém pode julgar o que é verdade e o que é mentira, o que é história, e o que é mito."
(Barão Roman Fedorovich von Ungern-Sternberg, 1921)
Na Mongólia, havia uma lenda do príncipe guerreiro, Beltis-Van. Notável por sua ferocidade e crueldade, ele derramou "enormes quantidades de sangue humano antes de ter encontrado sua morte nas montanhas de Uliasutay." Seus assassinos enterraram os corpos do Príncipe e de seus seguidores bem fundo na terra, cobriram as tumbas com pedras pesadas, e adicionaram "encantamentos e exorcismo para que seus espíritos não irrompessem novamente, carregando morte e destruição." Essas medidas, foi profetizado, prenderia os terríveis espíritos até que sangue humano se derramasse novamente sobre o local.
No início de 1921, prossegue a história, "russos vieram e cometeram assassinatos perto das temíveis tumbas, manchando-as com sangue." Para alguns, isso explicava o que se seguiu.
Quase no mesmo instante, um novo chefe guerreiro apareceu em cena, e pelos próximos seis meses ele espalhou terror e morte pelas estepes e montanhas da Mongólia e mesmo nas regiões adjacentes da Sibéria. Entre os mongóis ele ficou conhecido como o Tsagan Burkhan, o "Deus da Guerra" encarnado.
Posteriormente, o Dalai Lama XIII proclamou-o uma manifestação da "divindade furiosa" Mahakala, defensor da fé budista. Historicamente, o mesmo indivíduo é mais conhecido como o "Barão Louco" ou o "Barão Sangrento". Seus detratores não se encabulam de chamá-lo um bandido homicida ou de psicopata.
O homem em questão é o Barão Roman Fedorovich von Ungern-Sternberg. Seus feitos podem apenas ser esboçados aqui. Com a eclosão da Revolução Russa, Barão Ungern achou-se na Sibéria oriental onde ele se alinou com o movimento anti-bolchevique "Branco". Porém, seus sentimentos monarquistas extremos e modos independentes o tornaram um perigo nessa facção.
Em 1920, ele liderou sua "Divisão Asiática Montada", uma coleção heterogênea de russos, mongóis, tártaros e outras tropas, para os ermos da Mongólia, uma terra efervescendo com resistência contra a ocupação chinesa. Reunindo mongóis sob sua bandeira, no início de fevereiro de 1921 Ungern conquistou uma aparentemente miraculosa vitória tomando o controle da capital mongol, Urga (hoje Ulan Bator), de uma grande guarnição chinesa. Ele então restaurou o líder temporal e espiritual dos mongóis, o "Buda Vivo" Jebtsundamba Khutukhtu Bogdo Gegen, ou, mais simplesmente, Bogdo Khan e se estabeleceu como chefe guerreiro sobre a Mongólia Exterior e os destacamentos russos Brancos que haviam se refugiado ali.
Cercando-se com um círculo interno de bajuladores homicidas e videntes, ele instituiu um reino de terror que clamou como vítimas judeus, comunistas autênticos ou suspeitos, e centenas de outros que, de algum modo, despertaram a ira ou suspeita do Barão. Em junho do mesmo ano, ele lançou uma mal-fadada invasão à Sibéria soviética que terminou com sua captura pelo Exército Vermelho e seu subsequente julgamento e execução em 17 de setembro.
Esse artigo foca no misticismo real e alegado do Barão Ungern e sua influência sobre suas ações. Uma questão chave é se sua suposta "loucura", em todo ou em parte, era uma interpretação equivocada de sua devoção ao budismo esotérico e outras crenças.
Background e Primeiros Anos
Enquanto o Barão passou a maior parte de sua vida no serviço dos Romanov, ele era quase completamente alemão por sangue. Ele veio ao mundo como Robert Nicholaus Maximilian von Ungern-Sternberg em 10 de janeiro de 1886 em Graz, Áustria. Na Estônia governada pela Rússia, seu pai, Teodor Leonard Rudolf von Ungern-Sternberg, introduziu seu filho na nobreza tzarista como Roman Fedorovich. Os Ungern-Sternbergs eram uma antiga e ilustre família. O Barão datava sua linhagem pelo menos em mil anos e se vangloriava com seus captores bolcheviques de que 72 de seus ancestrais haviam dado suas vidas pela Rússia em muitas guerras.
Existe a sugestão de instabilidade mental, mesmo loucura, em sua linhagem próxima. Por exemplo, um ancestral do fim do século XVIII, Freiherr Otto Reinhold Ludwig von Ungern-Sternberg, ganhou infâmia como pirata e assassino que morreu no exílio siberiano. O próprio pai de Roman tinha uma reputação de "homem mau" cuja violência e crueldade levou ao seu divórcio e a uma proibição de que ele tivesse qualquer "influência" sobre seus filhos.
No que concerne o estado mental de Roman von Ungern-Sternberg, obviamente um diagnóstico de insanidade só pode ser feito após um exame por um psiquiatra, algo impossível nesse caso. Porém, Dmitry Pershin, uma testemunha que tinha uma visão razoavelmente positiva do Barão, ainda sentia que Ungern sofria de alguma "anormalidade psicótica" que fazia com que ele perdesse a cabeça sob a mais "mínima provocação", usualmente com resultados terríveis.
História posteriores afirmaram que o comportamento aberrante de Roman era o resultado de um corte de sabre em sua cabeça, mas ele manifestava tendências violentas e rebeldes desde muito antes. Seus dias escolares foram marcados por constantes problemas; no Corpo de Cadetes Navais, ele recebeu não menos que 25 punições disciplinares antes de se retirar antes de uma expulsão garantida. Sua educação o deuxou com uma aversão permanente pelo "pensamento" que ele equiparava a "covardia."
Como oficial júnior antes e durante a Primeira Guerra Mundial, ele estabeleceu uma reputação como um encrenqueiro violento com uma tendência para a embriaguez. Porém, ele também recebeu medalhas por feridas e bravura inconsequente. Nas palavras de um superior, o jovem Barão era um "guerreiro por temperamento," que "vivia para a guerra" e aderia a seu próprio conjunto de "leis elementais." Essas últimas eram influenciadas por um interesse no misticismo e no ocultismo, principalmente da variedade oriental.
O Barão como Guerreiro Místico
Exatamente quando e onde esse interesse começou é incerto. A variedade pessoal de fé de Ungern, se é que era Budismo, aderia à seita mística tibetana Vajrayana ou Tântrica. O jovem Roman ganhou seu primeiro gosto do Oriente como parte da infantaria durante a Guerra Russo-Japonesa, e ele passou de 1908 a 1914 como um oficial cossaco na Sibéria e na Mongólia. Foi então, ele afirmou depois, que ele formou uma "Ordem de Budistas Militares" para servir ao Czar e lutar contra os males da revolução. As regras dessa Ordem incluíam o celibato e o "uso ilimitado de álcool, haxixe e ópio." Esse último era para ajudar os iniciados a superarem sua própria "natureza física" através dos excessos, mas como o Barão confessou, isso não funcionou como ele tinha planejado. Posteriormente, na Mongólia, ele impôs uma proibição rígida sobre a bebida. Ainda assim, ele afirmou, ele reuniu "três centenas de homens, ousados e ferozes," e alguns que não pereceram durante a luta contra a Alemanha e os Bolcheviques ainda estavam com ele em 1921.
Ungern abandonou sua comissão regular no fim de 1913. Sozinho, ele partiu para a vastidão da Mongólia Exterior que havia proclamado independência da China. Segundo um relato, ele ergueu-se como comandante das forças de cavalaria do inexperiente Exército Mongol, enquanto outro mantém que ele uniu-se a um bando de saqueadores do sanguinário rebelde anti-chinês, Ja Lama. Em algum ponto, Ungern acabou na cidade de Kobdo (Khovd) na Mongólia ocidental como um membro da guarda do consulado russo local.
Um de seus camaradas lembra que "quando se observava Ungern, sentia-se levado de volta à Idade Média...; ele era um retrocesso aos seus ancestrais cruzados, com a mesma sede por guerra e a mesma crença no sobrenatural." Outro lembra-se que ele demonstrava "um grande interesse pelo Budismo," aprendeu mongol e passou a frequentar lamas videntes. Segundo Dmitri Aloishin, um tardio e involuntário membro do exército do Barão, os "professores budistas de Ungern o ensinaram sobre a reencarnação, e ele firmemente acreditava que em matar pessoas fracas ele apenas fazia a elas um bem, já que elas poderiam ser criaturas mais fortes na próxima vida."
Os paralelos entre o anteriormente mencionado Ja Lama e o Barão parecem bem próximos para serem mera coincidência. Também conhecido como o "Lama com uma Mauser", Ja Lama brevemente tornou-se mestre da Mongólia ocidental. Outro "budista militante," ele ganhou uma temível reputação por arrancar o coração de seus infelizes prisioneiros e oferecê-los em taças em forma de crânio humano como bali (sacrifício) aos "deuses tibetanos do terror." Um desses rituais "tântricos" de execução ocorreu em Kobdo no verão de 1912, pouco antes de Ungern aparecer no local. Em fevereiro de 1914, o cônsul russo em Kobdo prendeu Ja Lama e algumas tropas cossacas, possivelmente incluindo Ungern, e escoltou os cativos ao exílio na Rússia. Teria Ja Lama se tornado um modelo para o Barão, ou mesmo uma inspiração religiosa?
Um ângulo tibetano figura proeminentemente na subsequente fuga mongol de Ungern. O Buda Vivo era ele mesmo um filho da Terra das Neves Perpétuas, e existia uma pequena comunidade tibetana em Urga. Uma centena, aproximadamente, desses homens formaram uma sotnia (esquadrão) especial nas forças do Barão e tiveram um papel crítico no ataque sobre Urga, tendo resgatado o Bogdo de sob os narizes de seus guardas chineses. Os chineses e mongois estavam convencidos de que o feito havia sido realizado através de feitiçaria. Esses tibetanos mantinham uma distância do resto do exército do Barão; aparentemente outros eram afastados por seu hábito de jantar em tijelas feitas com crânios humanos, talvez o mesmo tipo de vasilhames usados nos ritos de sacrifício de Ja Lama.
O nexo tibetano também garantiu para o Barão um elo com Lhasa e o Dalai Lama, a quem ele enviou cartas pessoais. Após se poder na Mongólia ter entrado em colapso, Ungern sonhou com liderar os remanescentes de sua diversão até o Tibet para se colocar a serviço do santo budista. O prospecto dessa missão extenuante e potencialmente suicida foi a gota d'água em provocar motim contra o Barão.
Também servindo sob Ungern em sua aventura mongol estava aproximadamente 50 soldados japoneses. Isso alimentou acusações de que ele seria um instrumento do imperialismo japonês. Enquanto está claro que as Forças Armadas japonesas monitoravam as atividades do Barão e achavam que ele poderia ser útil, é igualmente evidente que eles não tinham qualquer controle sobre ele. Ainda assim, esse minúsculo contingente japonês recebia rações melhores e o privilégio único de consumir álcool. Registros militares japoneses sugerem que os homens eram em sua maioria "pequenos aventureiros" atuando por conta própria, mas isso não está muito claro. Seu comandando, um Major ou Capitão Suzuki, havia conhecido o Barão em 1919 em um "Congresso Pan-Mongol" e a dupla mantinha uma amizade especial e secreta.
Uma possibilidade intrigante é que Suzuki não era um emissário do Exército de Mikado, mas de uma das sociedades secretas que o permeava, como a Sociedade do Dragão Negro, ou a ainda mais secreta Sociedade do Dragão Verde. Essa última era baseada em uma seita de Budismo esotérico, e sua agenda Pan-Asiática e Pan-Budista se confundia com as próprias crenças de Ungern. O Barão sentia que o Ocidente havia perdido seu ancoradouro espiritual e havia entrado em uma fase de desintegração moral e cultural. A Revolução Russa não era mais que uma manifestação dessa corrupção avançada. Apenas no Oriente, especificamente no Budismo, ele via uma força capaz de resistir a essa decadência e de restaurar uma ordem espiritual no Ocidente.
Os Lamas e Videntes do Barão
Ungern era fascinado por todas as formas de advinhação. Ele supostamente carregava consigo um baralho de cartas de Tarô, mesmo no calor da batalha. Como notado, em Kobdo ele se reunía com lamas advinhos e em Urga ele se cercava com um pequeno exército de videntes (tsurikhaichi), feiticeiros e xamãs. Aloishin recorda que os advinhos do Barão estavam sempre consultando as omoplatas assadas de ovelhas, se debruçando nas linhas "para determinar onde as tropas devem ser estacionadas, e como avançar contra o inimigo." Em outras ocasiões, Ungern ordenou que suas tropas parassem "em vários locais segundo velhas profecias mongois."
O médico do Barão, Dr. N. M. Riabukhin, maldisse os advinhos como "insolentes, sujos, ignorantes e mancos" e lamentou o fato de que Ungern "nunca dava um passo importante" sem consultá-lo. Os advinhos o convenceram de que ele era a encernação de Tsagan Burkhan, o Deus da Guerra. Para o oficial Branco Boris Volkov, a dependência do Barão nesses tipos parecia prova da "mentalidade imbecil do degenerado que se imaginava o salvador da Rússia."
Antes de sua investida contra a Sibéria Vermelha, Ungern gastou 20.000 preciosos dólares mexicanos para contratar milhares de lamas para "realizar para ele elaborados serviços nos templos e para convocar para seu auxílio todos os seus poderes místicos." A previsão de uma feiticeira drogada de que o fim do Barão se aproximava provou-se sombriamente precisa, e ajudou a convencê-lo de realizar a desastrosa invasão. Os lamas videntes falharam com ele quando eles o aconselharam a atrasar em dois dias o ataque contra Troitskosavsk, uma cidade fronteiriça chave. Isso deu aos vermelhos a oportunidade de trazer reforços e repelir o ataque. Posteriormente, oficiais subornaram um advinho buriat para mudar as previsões, o que levou Ungern a cancelar outros ataques e ordenar uma retirada para a Mongólia.
Mas se Ungern foi influenciado - e ludibriado - pelo sobrenatural, ele também sabia como usá-lo para sua vantagem. Antes de seu último ataque contra Urga, ele enviou advinhos para a cidade onde eles "encheran os soldados chineses com medo supersticioso" pela previsão de sua iminente chegada e espalhando rumores de que o Barão Branco era imune a balas e podia aparecer e desaparecer à vontade. Ele também ordenou que fossem acesas fogueiras noturnas nas colinas circundantes. Seus agentes mongois disseram aos crédulos chineses que as fogueiras eram Ungern oferecendo sacrifícios aos espíritos que se vingariam contra os filhos da China.
Uma pessoa impressionada desde cedo pela natureza peculiar do Barão foi o filósofo místico Conde Hermann Keyserling que conhecia Roman e seu irmão Constantin desde a infância. Keyserling depois considerou o Barão como "a pessoa mais impressionante que eu já tive a sorte de conhecer," mas também como uma massa de contradições. Ele via Ungern como alguém cuja "natureza havia sido suspensa...no vácuo entre o céu e o inferno," alguém "capaz das mais altas intuições e gentis amabilidades" junto com "a mais profunda aptidão para a metafísica da crueldade." As idéias metafísicas do Barão, acreditava Keyserling, estavam "fortemente relacionadas àquelas dos tibetanos e hindus." Keyserling estava convicto de que Roman possuía o poder oculto da "segunda visão" e "a faculdade da profecia".
Keyserling não foi o único que chegou a essas conclusões. Anos depois, o filósofo fascista e ocultista Julius Evola opinou que o Barão Ungern possuía "faculdades supranormais" incluindo clarividência e a habilidade de "olhar dentro das almas" dos outros. Ferdynand Ossendowski afirmou que ele fez exatamente isso em seu encontro inicial: "Eu estive em sua alma e sei tudo," afirmou o Barão, e a vida de Ossendowski estava garantida.
Muito do mesmo é repetido nos testemunhos de outros que conheceram Ungern. Aloishin achava que o Barão era patentemente insano, mas também sentia que ele "possuía um poder perigoso de ler os pensamentos das pessoas." Ele relembra como Ungern inspecionava recrutas olhando no rosto de cada homem, "sustentava aquele olhar por alguns momentos, e então rosnava: 'Para o Exército; 'De volta para o gado'; 'Liquidar'." Riabukhin menciona que em seu primeiro encontro "era como se o Barão quisesse saltar na minha alma." Outro oficial anônimo relembra que "Ungern olhava para todo mundo com os olhos de um predador," e isso instilava medo em todos os que o encontravam. Um soldado polonês em serviço mongol, Alexandre Alexandrowicz, aceita a "segunda visão" do Barão, mas acreditava que era seu intelecto "superior" que o ajudava a "avaliar qualquer homem em alguns minutos."
O Misterioso Ferdynand Ossendowski
 
 
Aparentemente, ninguém fez mais para criar a imagem recorrente do Barão Ungern do que o acima mencionado escritor polonês Ferdynand Ossendowski. Porém, ele é longe de ser uma fonte impecável. Antes de seu encontro com o Barão, Ossendowski tinha uma longa história como espião, criador de intrigas e fornecedor de documentos falsos. Ele quase certamente foi um agente da polícia secreta czarista, a Okhrana. Em 1917-1918 ele estava envolvido com os infamens Documentos Sissons, um dossiê fraudulento (ainda que acertado) sobre as intrigas germano-bolcheviques. Posteriormente, na Sibéria, Ossendowski serviu ao "Supremo Governante" Branco Almirante Kolchak como conselheiro econômico e, provavelmente, um espião. Ossendowski chegou na Mongólia como refugiado da maré Vermelha. Em seu muito lido livro de 1922, "Feras, Homens e Deuses", o polonês descreve seu encontro com o "Barão Sangrento" em detalhes vívidos, e não sem alguma simpatia pelo indivíduo. Não obstante, Ossendowski sabia que "diante de mim estava um homem perigoso," e que "eu senti alguma tragédia, algum horror em cada movimento do Barão Ungern." Nem Ossendowski mediu palavras sobre o clima de medo que assolava Urga sob o Barão. Ele descreve o suporte de subalternos homicidas de Ungern tais como o "estrangulador" psicótico Leonid Sipailov, o igualmente repelente Evgeny Burdukovsky e o sádico Dr. Klingenberg. O que Ossendowski convenientemente se esquiva de explicar é o mistério de sua própria sobrevivência nesse ambiente precário.
Nas opiniões de outros que testemunharam o governo do Barão, Ossendowski não era apenas sortudo e observador inocente. Konstantin Noskov observa que do momento de sua chegada na Mongólia, o "Professor" Ossendowski teve um "estranho papel compreendido por ninguém." "Ele interferia em tudo," afirma Noskov, "brigava muito habilmente e tecia complicadas intrigas políticas..." Pershin acusa que Ossendowski era outro que explorava a obsessão de Ungern com o sobrenatural, uma opinião ecoada por outro dos oficiais do Barão, K.I. Lavrent'ev. Ao encorajar "a fé do Barão no ocultismo e em outras coisas do além," Ossendowski tornou-se "conselheiro" do Barão, o que pod explicar uma afirmação posterior de que o polonês tornou-se o "Chefe de Inteligência" de Ungern.
Ossendowski, segundo Pershin, "cavou um caminho até uma posição próxima ao Barão" e então "extraiu todas as vantagens que ele queria." Essas incluíam dinheiro e passagem segura para a Manchúria "em conforto e, talvez, com algo mais que isso." Dr. Riabukhin e Noskov, ambos se lembram que Ossendowski foi inexplicavelmente o único sobrevivente entre um grupo de refugiados cujos outros membros foram assassinados sob as ordens de Ungern. Boris Volkov afirma ainda que Ossendowski teve um papel chave na formulação da infame e "mística" Ordem do Barão, e assim garantiu sua vida e uma grande soma de dinheiro. Noskov claramente declara que Ossendowski foi o autor da Ordem.
A "Ordem #15", o mais perto que Ungern chegou de definir uma filosofia ou missão, merece um exame mais atento. Como o Barão não estava no hábito de pronunciar ordens numeradas, a #15 é desprovida de sentido nesse contexto. Segundo Aloishin, esse número e a data de seu pronunciamento eram mais a obra de "lamas eruditos" que os escolheram como números da sorte. Basicamente, a Ordem define um esquema grandioso de iniciar uma onda expansiva de Contra-Revolução que limparia a Rússia de seu contágio radical e restauraria o trono Romanov sob o irmão do czar Nicolau, Mikhail Alexandrovich. O Barão, como muitos outros, não sabia que Mikhail já estava morto desde junho de 1918. A Ordem proclamava que "o mal que veio à Terra para destruir o princípio divino da alma humana deve ser destruído em sua raiz," e que "a punição só pode ser uma: a pena de morte, em vários graus."
O artigo mais notório, porém, era o #9 que declara que "Comissários, comunistas e judeus, junto com suas famílias, devem ser destruídos." O Barão possuía um ódio patológico dos judeus, e onde quer que seu poder alcançasse preponderância havia um impiedoso extermínio dessa comunidade. Até mesmo Pershin, que sentia que "as histórias acerca da impiedade de Ungern tem sido muito exageradas," admitiu que os assassinatos em massa dos judeus eram infelizmente verdadeiros e que o Barão era implacável nessa questão. Volkov sentia que Ungern usava pogroms como um instrumento para explorar o anti-semitismo entre os emigrados e as tropas, mas havia um zelo quase religioso em seu ódio. Em uma carta a um associado russo Branco em Pequim, o Barão alertou contra o "Judaísmo Internacional" e mesmo contra a influência insidiosa dos "Capitalistas Judeus" que eram um "onipresente, ainda que normalmente não percebido, inimigo." Em seu julgamento, o Barão garantiu a seu promotor judeu-bolchevique, Emelian Yaroslavsky, que "a Internacional Comunista foi organizada 3.000 anos atrás na Babilônia." Em seus sentimentos em relação aos judeus, Ungern certamente prefigura a mentalidade nazista, e muito do mesmo poderia ser dito a respeito de toda sua mistura estranha de anti-modernismo místico.
Em agosto de 1921, o reino despótico do Barão chegou a um fim quando oficiais desesperados da Divisão Asiática Montada ensaiou um golpe contra ele e sua pequena elite de lealistas. Quase miraculosamente, Ungern escapou o massacre geral e encontrou um refúgio final breve entre seus soldados mongóis. Eles também logo o abandonaram aos Vermelhos que se aproximavam, mas sim arrancar um fio de seu cabelo; eles ainda estavam convencidos de que ele era o Tsagan Burkhan e não podia ser morto.
Os soviéticos não sofriam dessas ilusões. Em seu julgamento em Novo-Nikolaevsk, ele foi um prisioneiro calmo, até mesmo digno. Ele havia previsto seu destino e o aceitado. A promotoria estava mais interessada em retratá-lo como um agente dos japoneses, o que ele negou. Porém, o Barão imediatamente admitiu os massacres e outras atrocidades. No que concerne sua disciplina brutal, ele se proclamou um crente em um sistema que havia existido "desde Frederico o Grande." Ele foi diante do pelotão de fuzilamento muito convicto de que eventualmente ele retornaria.
Um último ponto nos traz de volta a Ossendowski, que afirmou que o Barão buscava contato com o reino subterrâneo místico de Agarthu e seu governante misterioso, o "Rei do Mundo." Agarthi, é claro, é idêntica com Agarttha ou Shambhala, uma terra mística exaltada na mitologia hindu e budista. No início do século XX, a história foi pega e elaborada por escritores esotéricos ocidentais como Alexandre Saint-Yves d'Alveydre e Nikolai Roerich que acreditavam que ela descrevia um reino realmente oculto em algum lugar no norte do Tibet ou na Ásia Central. Por uma interessante coincidência, outro oficial da Divisão de Ungern foi Vladimir Konstantinovich Roerich, o irmão mais novo de Nikolai. Então novamente, talvez isso não seja nenhuma coincidência. Mas isso nos leva a outra história que é melhor guardada para outro artigo: "Estrela Vermelha sobre Shambhala: Inteligência Soviética, Britânica e Americana e a Busca pela Civilização Perdida na Ásia."

mardi, 26 avril 2011

Nicola Bombacci: de Lênin a Mussolini

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Nicola Bombacci: de Lênin a Mussolini

 
por Erik Norling
 
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/ 
 
A 29 de Abril de 1945 eram assassinados os principais líderes fascistas às mãos dos guerrilheiros comunistas. E entre estes fascistas encontramos, curiosamente, Nicola Bombacci, antiga figura máxima do comunismo italiano, fundador do Partido Comunista de Itália (PCI), amigo pessoal de Lenine com quem esteve na URSS durante os anos da Revolução, apodado de “O Papa Vermelho” pela burguesia e finalmente incondicional seguidor de Mussolini, a quem se juntou nos últimos meses do seu regime. A sua história é uma história de conversão ou de traição?... Ou, talvez, de evolução natural de um nacional-bolchevique?... 
 
Um jovem revolucionário

Nicola Bombacci nasce no seio de uma família católica (o seu pai era agricultor, antigo soldado do Estado Pontifício) da Romagna, na província de Forli, a 24 de Outubro de 1879, a escassos quilómetros de Predappio, onde quatro anos mais tarde nascerá o futuro fundador do Fascismo. Trata-se de uma região marcada por duras lutas operárias e por um campesinato habituado à rebelião, terra de paixões extremas. Por imposição paterna ingressa no seminário mas rapidamente o abandona aquando da morte do seu progenitor. Em 1903 ingressa no anticlerical Partido Socialista (PSI) e decide tornar-se professor para poder assim servir as classes menos favorecidas na sua luta (novamente as semelhanças com o Duce são evidentes, tendo chegado a estudar na mesma escola superior) mas rapidamente passa a dedicar-se de corpo e alma à revolução socialista. A sua capacidade de trabalho e os seus dotes de organizador valem-lhe a direcção dos órgãos da imprensa socialista, o que lhe permitirá aumentar a sua influência no seio do movimento operário, chegando a ser Secretário do Comité Central do Partido, onde conhecerá um jovem uns anos mais novo: Benito Mussolini, que, não nos esqueçamos, foi a promessa do socialismo italiano antes de se tornar nacional-revolucionário. [1]

Opondo-se à linha moderada da social-democracia, Bombacci fundará juntamente com Gramsci o Partido Comunista de Itália após a cisão interna do PSI e viajará em princípios dos anos 20 para a URSS, para participar na revolução bolchevique, aonde já antes tinha estado como representante do Partido Socialista tendo sido conquistado pela causa dos sovietes. Aí trava amizade com o próprio Lenine que lhe dirá numa recepção no Kremlin estas famosas palavras sobre Mussolini: “Em Itália, companheiros, em Itália só há um socialista capaz de guiar o povo para a revolução: Benito Mussolini”, e pouco depois o Duce encabeçaria uma revolução, mas fascista… [2]

Como líder (António Gramsci era o teórico, Bombacci o organizador) do recém-criado PCI, torna-se no autêntico “inimigo público nº 1” da burguesia italiana, que o apoda de “O Papa Vermelho”. Revalidará brilhantemente o seu lugar de deputado, desta vez nas listas da nova formação, enquanto que as esquadras fascistas começam a tomar as ruas enfrentando as milícias comunistas em sangrentos combates. Bombacci empenhar-se-á em deter a marcha para o poder do fascismo mas fracassará, desde as páginas dos seus jornais lança invectivas contra o fascismo arengando a defesa da revolução comunista. É uma época em que os esquadristas de camisa negra cantam canções irreverentes como “Não tenho medo de Bombacci / Com a barba de Bombacci faremos spazzolini (escovas) / Para abrilhantar a careca de Benito Mussolini”. Etapa em que o comunismo se vê imerso em numerosas tensões internas e o próprio Bombacci entra em polémica com os seus companheiros de partido sendo um dos pontos de fricção a opção entre nacionalismo e internacionalismo. Já antes tinha demonstrado tendências nacionalistas, que faziam pressagiar a sua futura linha. Quando ainda estava no Partido Socialista e como consequência de um documento protestando contra a acção de Fiume levada a cabo por D’Annunzio que o Partido queria apresentar, Bombacci rebelou-se e escreveu sobre este que era “Perfeita e profundamente revolucionário; porque D’Annunzio é revolucionário. Disse-o Lenine no Congresso de Moscovo”. [3]
 
O primeiro fascismo

Em 1922 os fascistas marcham sobre a capital do Tibre; nada pode impedir que Mussolini assuma o poder, ainda que este não seja absoluto durante os primeiros anos do regime. Como deputado e membro do Comité Central do Partido, assim como encarregado das relações exteriores do mesmo, Bombacci viaja ao estrangeiro frequentemente. Participa no IV Congresso da Internacional Comunista representando a Itália, e, no Comité de Acção Antifascista, entrevista-se com dirigentes bolcheviques russos. Leva já metade da sua vida dedicada à causa do proletariado e não está disposto a desistir do seu empenho em levar à prática o seu sonho socialista. Torna-se fervente defensor da aproximação da Itália à URSS na Câmara e na imprensa comunista, falando seguramente em nome e por instigação dos dirigentes moscovitas, mas utilizando um discurso nacional-revolucionário que incomoda no seio do Partido, que por outro lado está em plena debandada após a vitória fascista. As relações com o revolucionário Estado soviético seriam uma vantagem para a Itália enquanto nação que também atravessa um processo revolucionário, ainda que fascista. É imediatamente acusado de herético e pedem-lhe que rectifique as suas posições. Não podem admitir que um comunista exija, como o faz Bombacci, “superar a Nação (sem) a destruir, queremo-la maior, porque queremos um governo de trabalhadores e agricultores”, socialista e sem negar a Pátria “direito incontestável e sacro de todo o homem e de todos os grupos de homens”. É a chamada “Terceira Via” onde o nacionalismo revolucionário do fascismo se encontra com o socialismo revolucionário comunista.

Bombacci é progressivamente marginalizado no seio do PCI e condenado ao ostracismo político, embora não deixe de manter contactos com alguns dirigentes russos e com a embaixada russa para a qual trabalha, além de que um dos seus filhos vivia na URSS. Acreditava sinceramente na revolução bolchevique e que, ao contrário dos camaradas italianos, os russos tinham um sentido nacional da revolução pelo que jamais renegará a sua amizade para com a URSS, nem sequer depois de aderir definitivamente ao fascismo.

Com a expulsão definitiva do partido em 1927, Bombacci entra numa etapa que podemos qualificar como os anos do silêncio que dura até 1936, altura em que lança a sua editorial e a revista homónima baptizada “La Veritá” e que culminará em 1943 numa progressiva conversão ao fascismo. No entanto é demasiado fácil considerar que Bombacci simplesmente se passou de armas e bagagens para o fascismo como pretendem os que o acusam de ser um “traidor”. Assistiremos a um processo lento de aproximação, não ao fascismo mas sim a Mussolini e à ala esquerdista do movimento fascista, onde Bombacci se sente aconchegado e em família, próximo das suas concepções revolucionárias, o corporativismo e as leis sociais deste fascismo de que “todo o postulado é um programa do socialismo”, segundo dirá em 1928 reconhecendo a sua identificação. [4]
 

Bombacci1.gifComprovamos assim que Bombacci não é um fascista, mas defende as conquistas do regime e a figura de Mussolini. Não se aproximou do partido fascista – jamais se inscreveu no Partido Nacional Fascista – apesar da sua amizade reconhecida com Mussolini, não aceitou cargos que lhe poderiam oferecer nem renegou as suas origens comunistas. A sua independência valia mais. No entanto convenceu-se de que o Estado Corporativo proposto pelo fascismo era a realização mais perfeita, o socialismo levado à prática, um estado superior ao comunismo. Jamais camuflará os seus ideais, em 1936 escrevia na revista “La Veritá”, confessando a sua adesão ao fascismo mas também ao comunismo:

“O fascismo fez uma grandiosa revolução social, Mussolini e Lenine. Soviete e Estado fascista corporativo, Roma e Moscovo. Muito tivemos que rectificar, nada de que nos fazer perdoar, pois hoje como ontem move-nos o mesmo ideal: o triunfo do trabalho”. [5]

Enquanto isto sucedia Bombacci tem um longo intercâmbio epistolar com o Duce tentando influenciar o antigo socialista na sua política social. O máximo historiador do fascismo, Renzo de Felice, escreveu a este respeito que Bombacci tem o mérito de ter sugerido a Mussolini mais do que uma das medidas adoptadas nesses anos 30. [6] Numa destas missivas, datada de Julho de 1934, propõe um programa de economia autárquica (que Mussolini aplicará) que, diz Bombacci ao Duce, é mostra da sua “vontade de trabalhar mais naquilo que agora concerne, no interesse e pelo triunfo do Estado Corporativo…”, como faz também desde as páginas da sua revista onde uma e outra vez batalha por uma autarcia que faça da Itália um país independente e capaz de enfrentar as potências plutocráticas (entenda-se os EUA, mas também a França e a Inglaterra). Por isso apoia decididamente a intervenção na Etiópia em 1935, mas não como campanha colonial senão como prelúdio da confrontação entre os países “proletários” (entre os quais estaria a Itália fascista) e os “capitalistas” que irremediavelmente chegaria, essa “revolução mundial (que) restabelecerá o equilíbrio mundial”. A acção italiana seria uma “típica e inconfundível conquista proletária”, destinada a derrotar as potências “capitalistas” e cuja experiência “deverá ser assumida… como um dado fundamental para a redenção das gentes de cor, ainda sob a opressão do capitalismo mais terrível”. [7]

Contra Estaline

Entre os anos de 1936 e 1943, difíceis para o fascismo pois iniciam-se os conflitos armados, prelúdio da derrota, Bombacci acrescenta a sua adesão ideológica a Mussolini. É um homem com quase 60 anos, viu como muitos dos seus sonhos socialistas não se realizaram, mas é um eterno idealista e não está disposto a abandonar a luta pelo socialismo, por “essa obra de redenção económica e de elevação espiritual do proletariado italiano que os socialistas da primeira hora tínhamos iniciado”. A sua editorial é uma ruína económica, os seus biógrafos deixaram constância das dificuldades e penúrias que sofre. Ter-lhe-ia bastado um passo oportunista e integrar-se no fascismo oficial e teria disposto de todas as ajudas do aparato do Estado mas não quer perder a sua independência ainda que em ocasiões deva aceitar subvenções do Ministério de Cultura Popular.
 

Esta etapa coincide com uma profunda reflexão sobre os seus erros passados e uma série de ataques ao comunismo russo que se tinha vendido às potências capitalistas traindo os postulados de Lenine. Assim, escreve Bombacci em Novembro de 1937, as relações entre a URSS e os países democráticos só tinha uma explicação que revelaria tudo o resto: “a razão é só uma, frívola, vulgar, mas real: o interesse, o dinheiro, o negócio”, pelo que este antigo comunista podia declarar abertamente que “nós proclamamos com a consciência limpa que a Rússia bolchevique de Estaline se tornou uma colónia do capitalismo maçónico-hebraico-internacional…”. A alusão anti-semita não é nova em Bombacci, nem nos teóricos socialistas do início do século, pois não devemos esquecer que o anti-semitismo moderno teve os seus mais ferventes defensores precisamente entre os doutrinários revolucionários de finais do século XIX, quando o judeu encarnava a figura do odiado capitalista. Em Bombacci não encontramos um anti-semitismo racialista mas sim social, de acordo com os posicionamentos mediterrânicos do problema judeu diferentemente do anti-judaismo alemão ou gaulês.

Quando estala a II Guerra Mundial, e especialmente ao estalar na frente Leste, Bombacci participa em pleno nas campanhas anticomunistas do regime. Como dirigente comunista conhecedor da URSS a sua voz faz-se ouvir. No entanto não renega os seus ideais, pelo contrário aprofunda a tese de que Estaline e os seus acólitos traíram a revolução. Escreve numerosos artigos contra Estaline, sobre as condições reais de vida no chamado “paraíso comunista”, as medidas adoptadas por este para destruir todos os sucessos do socialismo leninista. Em 1943, pouco antes da queda do Fascismo, concluía Bombacci resumindo a sua posição num folheto de propaganda:

“Qual das duas revoluções, a fascista ou a bolchevique, fará história no século XX e ficará na história como criadora de uma ordem nova de valores sociais e mundiais?

Qual das duas revoluções resolveu o problema agrário interpretando verdadeiramente os desejos e aspirações dos camponeses e os interesses económicos e sociais da colectividade nacional?

Roma venceu!

Moscovo materialista e semi-bárbara, com um capitalismo totalitário de Estado-Patrão quer juntar-se à força (planos quinquenais), levando à miséria mais negra os seus cidadãos, à industrialização existente nos países que durante o século XIX seguiram um processo de regime capitalista burguês. Moscovo completa a fase capitalista.

Roma é outra coisa.

Moscovo, com a reforma de Estaline, retrata-se institucionalmente ao nível de qualquer Estado burguês parlamentar. Economicamente há uma diferença substancial, porque, enquanto que nos Estados burgueses o governo é formado por delegados da classe capitalista, aqui o governo está nas mãos da burocracia bolchevique, uma nova classe que na realidade é pior que essa classe capitalista porque dispõe sem qualquer controlo do trabalho, da produção e da vida dos cidadãos”. [8]
 

A República Social Italiana

bombacci2.jpgQuando Mussolini é deposto em Julho de 1943 e resgatado pelos alemães uns meses depois, o Partido Nacional Fascista já se desagregou. A estrutura orgânica desapareceu, os dirigentes do partido, provenientes das camadas privilegiadas da sociedade passaram-se em massa para o governo de Badoglio e a Itália encontra-se dividida em dois (ao sul de Roma os Aliados avançam em direcção ao norte). Mussolini reagrupa os seus mais fiéis, todos eles velhos camaradas da primeira hora ou jovens entusiastas, quase nenhum dirigente de alto nível, que ainda acreditam na revolução fascista e proclama a República Social Italiana. Imediatamente o fascismo parece voltar às suas origens revolucionárias e Nicola Bombacci adere à república proclamada e presta a Mussolini todo o seu apoio. O seu sonho é poder levar a cabo a construção dessa “República dos trabalhadores” pela qual tanto ele como Mussolini se bateram juntos no início do século. Tal como Bombacci, outros conhecidos intelectuais de esquerda juntam-se ao novo governo: Carlo Silvestri (deputado socialista, depois da guerra defensor da memória do Duce), Edmondo Cione (filosofo socialista que será autorizado a criar um partido socialista aparte do Partido Fascista Republicano), etc.

O primeiro contacto com Mussolini ocorre a 11 de Outubro, apenas um mês depois da proclamação da RSI, e é epistolar. Bombacci escreve a Mussolini a partir de Roma, cidade onde o fascismo ruiu estrepitosamente (os romanos destruíram todos os símbolos do anterior regime nas ruas), mas onde ainda existem muitos fascistas de coração, e é este o momento que escolhe para declarar a Mussolini que está consigo. Não quando tudo corria bem, mas sim nos momentos difíceis como tão-só o fazem os verdadeiros camaradas:

“Estou hoje mais que ontem totalmente consigo” – confessa Bombacci – “a vil traição do rei-Badoglio trouxe por todos os lados a ruína e a desonra de Itália mas libertou-a de todos os compromissos pluto-monárquicos de 22.

Hoje o caminho está livre e em minha opinião só se pode recorrer ao abrigo socialista. Acima de tudo: a vitória das armas.

Mas para assegurar a vitória deve ter a adesão da massa operária. Como? Com feitos decisivos e radicais no sector económico-produtivo e sindical…

Sempre às suas ordens com o grande afecto já de trinta anos.”
 
Mussolini, acossado pela situação militar mas mais decidido que nunca a levar a cabo a sua revolução agora que se libertou dos lastros do passado, autoriza que os sectores mais radicais do partido assumam o poder e inicia-se uma etapa denominada de “socialização” (nome proposto por Bombacci e aceite pelo Duce) que se traduzirá na promulgação de leis de inspiração claramente socialista, em relação à criação de sindicatos, à co-gestão das empresas, à distribuição de lucros e à nacionalização dos sectores industriais de importância. Tudo isto foi resumido nos 18 Pontos do primeiro (e único) congresso do Partido Fascista Republicano em Verona, documento redigido conjuntamente por Mussolini e Bombacci, que se constituiria como a base do Estado Social Republicano. Na política exterior tentará convencer Mussolini a assinar a paz com a URSS e a prosseguir a guerra contra a plutocracia anglo-saxã, ressuscitar o eixo Roma-Berlim-Moscovo dos pensadores geopolíticos do nacional-bolchevismo dos anos 20, proposta que parece ter tido êxito em Mussolini que escreverá vários artigos para a imprensa republicana sobre este assunto mesmo sabendo que esta proposta tinha uma tenaz oposição por parte de um amplo sector do partido, em particular de Roberto Farinacci. Bombacci viaja para o norte e reinstala-se perto do seu amigo Walter Mocchi, outro veterano dirigente comunista convertido ao fascismo mussoliniano que trabalha para o Ministério de Cultura Popular.

Se para muitos o último Mussolini era um homem acabado, títere dos alemães, não deixa de surpreender a adesão que recebe de homens como Bombacci, um verdadeiro idealista, de estatura imponente, com a barba crescida e uma oratória atraente, alérgico a tudo o que pudesse significar acomodar-se ou aburguesar-se, que tão-pouco agora aceitará salário ou prebendas (apenas em princípios de 1945 aparecerá o seu nome numa lista de propostas de salários do ministério da Economia ou como Chefe da Confederação Única do Trabalho e da Técnica). Bombacci tornar-se-á assessor pessoal e confidente de Mussolini, para atrair de novo às bases do partido os trabalhadores. Propõe a criação de comités sindicais, abertos a não militantes fascistas, eleições sindicais livres, viajará pelas fábricas do norte industrializado (Milão-Turim) explicando a revolução social do novo regime e o porquê da sua adesão. O velho combatente revolucionário parece de novo rejuvenescer, após um comício em Verona e várias visitas a empresas socializadas escreve ao Duce a 22 de Dezembro de 1944: “Falei durante uma hora e trinta minutos num teatro entregue e entusiasta… a plateia, composta na maior parte por operários vibrou gritando: sim, queremos combater por Itália, pela república, pela socialização… pela manhã visitei a Mondadori, já socializada, e falei com os operários que constituem o Conselho de Gestão que achei cheio de entusiasmo e compreensão por esta nossa missão”. Enquanto a situação militar se deteriorava, os grupos terroristas comunistas (os tragicamente famosos GAP) já tinham decidido eliminá-lo pelo perigo que a sua actividade representava para os seus objectivos. [9]

Mas a guerra está a chegar ao fim. Benito Mussolini, aconselhado pelo deputado ex-socialista Carlo Silvestri e Bombacci, propõe entregar o poder aos socialistas, integrados no Comité Nacional de Libertação. [10] Em Abril de 1945 as autoridades militares alemãs rendem-se aos Aliados, sem informar os italianos, é o fim. Abandonados e sós.
 
Crepúsculo de um nacional-revolucionário

Durante os últimos meses da RSI Bombbaci continuou a campanha para recuperar as massas populares e evitar que se decantassem pelo bolchevismo. Em finais de 1944 publicava um opúsculo intitulado «Isto é o Bolchevismo», reproduzido no jornal católico «Crociata Italica» em Março de 1945. Bombacci insiste nas críticas aos desvios estalinistas do comunismo real que destruiu o verdadeiro sindicalismo revolucionário na Europa com as ingerências russas. Nestas últimas semanas de vida da experiência republicana, Bombacci está ao lado dos que ainda acreditam numa solução de compromisso com o inimigo para assim evitar a ruína do país. Leal até ao fim, ficará com Mussolini mesmo quando tudo já está definitivamente perdido. Profeticamente fala disso aos seus operários numa das suas últimas aparições públicas, em Março de 1945:

“Irmãos de fé e de luta… não reneguei aos meus ideais pelos quais lutei e pelos quais, se Deus me deixar viver mais, lutarei sempre. Mas agora encontro-me nas fileiras das cores que militam na República Social Italiana, e vim outra vez porque agora sim é a sério e é verdadeiramente decisivo reivindicar os direitos dos operários…”

Nicola Bombacci, sempre fiel, sempre sereno, acompanhará Mussolini na sua última e dramática viagem até à morte. A 25 de Abril está em Milão. O relato de Vittorio Mussolini, filho do Duce, sobre o seu último encontro com o seu pai, acompanhado por Bombacci, mostra-nos a inteireza deste:

“Pensei no destino deste homem, um verdadeiro apóstolo do proletariado, em certa altura inimigo acérrimo do fascismo e agora ao lado do meu pai, sem nenhum cargo nem prebenda, fiel a dois chefes diferentes até à morte. A sua calma serviu-me de consolo”. [11]

Pouco depois, após Mussolini se separar da coluna dos seus últimos fiéis para os poupar ao seu destino, Bombacci é detido por um grupo de guerrilheiros comunistas junto com um grupo de hierarcas fascistas. Na manhã de 28 de Abril era colocado contra o paredão em Dongo, no norte do país, ao lado de Barracu, valoroso ex-combatente, mutilado de guerra, de Pavolini, o poeta-secretário do partido, de Valério Zerbino, um intelectual e Coppola, outro pensador. Todos gritam, perante o pelotão que os assassina, “Viva Itália!”. Bombacci, enquanto tomba crivado pelas balas dos comunistas, grita: “Viva o Socialismo!”.
 

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Notas:

1. Em português, sobre o movimento revolucionário do pré-fascismo veja-se o excelente trabalho do professor israelita Zeev Sternhell e dos seus colaboradores, «Nascimento da ideologia fascista», onde curiosamente quase não se menciona Bombacci.

2. Sobre a trajectória revolucionária de Bombacci há um excelente trabalho de Gugliemo Salotti intitulado «Nicola Bombacci, da Mosca a Saló».

3. Referimo-nos à tomada da cidade dálmata em 1919 pelo poeta-soldado Gabrielle D’Annunzio, que é considerada por muitos autores como o primeiro capítulo da revolução fascista. Veja-se Carlos Caballero, “La fascinante historia D’Annunzio en Fiume”, em Revisión, Alicante, ano I, 2, vol. IV, Outubro de 1990.

4. Sobre a ala esquerdista do fascismo: Luca Leonello Rimbotti, «Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al congresso di Verona», Roma, Settimo Sigillo, 1989. Ver também: Giuseppe Parlato, “La Sinistra fascista. Storia de un progetto mancato”, Bolinia, Il Mulino, 2000.

5. Cit. Arrigo Petacco, «Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini», Milão, Mondadori Editori, 1996, p. 115.

6. «Mussolini il Duce. II. Lo Stato totalitario 1936-1940», Turim, Einaudi, 1981 (2a, 1996), p. 331 n.

7. A correspondência de Bombacci para Mussolini (mas não a do Duce para este) está conservada em parte no Arquivo Central do Estado Italiano.

8. Nicola Bombacci, «I contadini nell’Italia di Mussolini», Roma, 1943, pp. 34 e ss.

9. Mais de 50 mil fascistas serão executados por estes grupos terroristas durante estes dois anos, e mais 50 mil na trágica Primavera-Verão de 1945. Foram especialmente visados os dirigentes fascistas que possuíssem uma certa aura de popularidade e que pudessem encarnar uma face mais populista do fascismo. O caso mais chamativo foi o do filósofo Giovanni Gentile, que deu lugar inclusivamente a protestos no seio da resistência antifascista. Existe uma ampla bibliografia sobre o assunto, embora na actualidade se tente reduzir as cifras e o impacto desta sangrenta guerra civil.

10. É curioso comprovar como em vários países da Europa, com o aproximar do final da guerra, os únicos elementos fieis à nova ordem são as chamadas alas “proletárias” dos movimentos nacional-revolucionários e que se negoceie a entrega do poder aos grupos socialistas da resistência por oposição aos comunistas e aos burgueses. Assim sucederá na Noruega onde os sectores sindicais propõe um governo de coligação à resistência social-democrata em Abril de 1945, ou em França onde após a queda do governo de Petain no Outono de 1944 Marcel Deat e Jacques Doriot pugnam por instaurar um governo socialista.

11. «La vida con mi padre», Madrid, Ediciones Cid, 1958, p. 267.

dimanche, 24 avril 2011

Léon Daudet, sa vie, son oeuvre et ses astralités

par Daniel Cologne

Ex: http://geminilitteraire.wordpress.com/

Dans la riche banlieue Est de Bruxelles, à l’angle des avenues de l’Yser et de Tervueren, on découvre aujourd’hui un immeuble moderne abritant, entre autres locataires, une chemiserie de luxe et une agence bancaire. Là s’élevait jadis l’hôtel particulier de la marquise de Radigues, où Léon Daudet séjourna durant son exil belge de vingt-neuf mois (1927 – 1929). L’entrée du Parc du Cinquantenaire est à quelques mètres et, sur une photographie reproduite dans le livre de Francis Bergeron en page 122, à l’arrière-plan de Léon Daudet et de son fils Philippe, on aperçoit les arcades édifiées à l’initiative du roi-bâtisseur Léopold II pour les cinquante ans de la Belgique en 1880. Au sommet de cet arc de triomphe, Le char de Phébus est emporté par des chevaux qui galopent vers Le Soleil Levant.

 

Léon Daudet arrive en Belgique après s’être évadé de la prison de la Santé, où il purgeait une peine de cinq mois pour diffamation. Il est toujours marqué par le suicide de son fils Philippe en 1923. Il soupçonnait un assassinat politique maquillé en suicide, mais Francis Bergeron pense que l’adolescent fugueur et épileptique a vraiment mis fin à ses jours. Publié en annexe par Marin de Charette, l’horoscope de Philippe Daudet né à Paris, Le 7 janvier 1909 à 4 h 00, semble confirmer la thèse de l’auteur.

En dépit de ce deuil encore récent et de cette blessure non cicatrisée, Léon Daudet déborde d’activité à Bruxelles : conférences, réceptions, rédaction d’une vingtaine de volumes. C’est le rythme de travail habituel de Daudet : une « déferlante effroyable » (p. 43) au détriment de la qualité, du moins en ce qui concerne l’œuvre romanesque. En revanche, le critique littéraire et artistique mérite de passer à la postérité avec ses surprenants éloges de Proust, Gide, Kessel et Picasso. « La patrie [ou la France, selon les versions], je lui dis merde quand il s’agit de littérature » (p. 90). Ainsi parlait celui qu’Éric Vatré qualifie judicieusement de « libre réactionnaire » (cité p. 116).

Léon Daudet naît à Paris Le 16 novembre 1867 à 23 h 00. Il est le fils d’Alphonse Daudet (1840 – 1897). Moins prolixe que son père dans la veine provençale héritée du Félibrige (Fièvres de Camargue, roman publié en 1938), il en partage jusqu’en 1900 les convictions politiques de républicain antisémite.

D’Alphonse Daudet, Francis Bergeron écrit : « Il déjeune chez Zola et dîne chez Drumont » (p. 45). Le moindre mérite de son livre n’est certes pas de rappeler que l’origine de l’antisémitisme se situe à gauche.

Entre autres influences, celle de sa cousine Marthe Allard, qui devient sa seconde épouse, et « dont les idées catholiques et monarchistes sont bien arrêtées » (p. 48), fait basculer Léon Daudet dans l’orbite de l’Action française.

Au lendemain de la Première Guerre mondiale, Léon Daudet est élu député d’une « Chambre bleu-horizon ». Il joue un rôle important dans la décision de la France d’occuper la Ruhr. Farouche adversaire d’Aristide Briand, Léon Daudet est apprécié par André Tardieu qui, devenu président du Conseil en 1929, lui accorde sa grâce. Après deux ans et demi de bannissement, Léon Daudet rentre à Paris non sans avoir une ultime réception dans son hôtel bruxellois, le 30 décembre.

« Léon fut un redoutable polygraphe » (p. 109). À ses cent vingt-sept œuvres (romans, essais, pamphlets, recueils d’articles), il faut ajouter plus de quarante préfaces et contributions à des ouvrages collectifs. Parmi les livres qui emportent l’enthousiaste préférence de Francis Bergeron, citons : Paris vécu (deux tomes paradoxalement écrits à Bruxelles), l’incontournable Stupide XIXe siècle (1922), La vie orageuse de Clémenceau (1938), car Léon Daudet vénérait Le « Tigre », Panorama de la IIIe République (1936), Charles Maurras et son temps (1928), les romans historiques de 1896 et 1933 mettant en scène les personnages de Shakespeare et Rabelais.

Le 1er juillet 1942, Léon Daudet s’éteint à Saint-Rémy-de-Provence, dans cette région inspiratrice de son père, dans ce Midi dont on a chanté les marchés (Gilbert Bécaud), les fifres et les tambourins (Robert Ripa), Le « mistral qui décoiffe les marchandes, jouant au Tout-Puissant » (Mireille Mathieu).

Léon Daudet meurt là où naquit Nostradamus. Le point commun de « l’enfant terrible de la IIIe République » (Louis Guitard, cité p. 114) et du faux prophète du XVIe siècle est Le cursus universitaire médical, inachevé chez l’un, accompli chez l’autre.

Dans notre famille de pensée, l’on demeure volontiers sceptique, voire méfiant, envers l’astrologie. D’autant plus nécessaires sont les études qui terminent tous les ouvrages de la collection « Qui suis-je ? ». Marin de Charette interprète l’horoscope de Léon Daudet (pages 123 à 126).

Son analyse est convaincante. De Léon Daudet, l’astrologue écrit : « Dans son ciel de naissance, aucune planète n’est faible : elles sont toutes puissamment reliées entre elles » (p. 125). Sur le plan personnel, le trigone Lune – Mercure (angle de 120 °) incline à la sur-activité littéraire et à la toute particulière prédisposition à la critique. Le romancier « solaire » produit, le critique « lunaire » reproduit, à l’instar du luminaire nocturne qui reproduit la lumière du Soleil en la reflétant.

« Né, en outre, au moment d’un carré exact et croissant d’Uranus à Neptune (dont l’axe mitoyen passe par Saturne !) – aspect générationnel -, Daudet incarne comme une sorte de déchirement entre l’ancien et le nouveau, et, aussi, un pont » (p. 126).

Mis en perspective dans les statistiques de Michel Gauquelin, cet horoscope se caractérise par l’occupation des quatre « zones d’intensité maximale » : la Lune vient de se lever, Jupiter se couche, Pluton culmine et cinq planètes sont amassées au nadir. Parmi cette quintuple conjonction, relevons le couple Soleil – Saturne (deux degrés d’orbe). Saturne « ensoleillé » indique la quête du Vrai sachant s’affranchir des a priori (le « libre réactionnaire »). mais Saturne « brûlé » (« combuste », disent les astrologues traditionalistes), peut expliquer « l’extrême violence de ton avec laquelle il a toujours défendu ses idées, ses convictions, ses goûts » (p. 94).

Cela ne fait pas pour autant de Léon Daudet un « extrémiste ». Même les actuels et pernicieux censeurs de la plus sournoise des polices de la pensée ne s’y trompent pas et lui laissent le bénéfice d’une « relative indulgence ».

 

Note

 

 

 

 

 

 

 

• Francis Bergeron, Léon Daudet, Éditions Pardès, coll. «Qui suis-je ?», 2007, 128 p

 

vendredi, 21 janvier 2011

Frans Eduard Farwerck

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Frans Eduard Farwerck

by Roy

Ex: http:://www.new-antaios.net/

Some 8 years ago I met my girl­friend. We were both involved in a short-lived Dutch ‘spir­i­tual mag­a­zine’ that liked to treat con­tro­ver­sial sub­jects. Through the edi­tor of the mag­a­zine my girl­friend got acquinted with a Flem­ish ‘Asatru’ group and later so did I. At the time my inter­est still mainly laid at Renais­sance eso­teri­cism, Medieval magic, etc. This was already a bit closer to home, since before I had an inter­est in more exotic, East­ern sub­jects. In any case, meet­ing Asatru excelled my shift towards even more domes­tic inter­ests, the old reli­gion of North­ern Europe. While becom­ing active in the group I ini­tially sticked to my inter­ests, but I heard a lot of inter­est­ing new paths.

In the Nether­lands and Flan­ders we have a chain of fairly large anti­quar­ian book­shops called “De Slegte” and at the time I fre­quently vis­ited our local store. Nowa­days I specif­i­cally hunt for titles instead of just see­ing what I run into. Con­trary to my hab­bits of the time, I took a look through the folklore/faery tales sec­tion and my eye fell on the back of an enor­mous, red book. I took it from the shelf, paged through it and I realised that this had to a be title often used by the founder of the Asatru group. Sim­i­lar ideas, sim­i­lar sub­jects. The back said: Noordeu­ropese Mys­ter­iën. It was not cheap, but I bought it, read it and was blown away.

Since that time, this book has become a true cult-work among Dutch speak­ing hea­thens. The book has been out of print since 1978, but as there is demand for it, the price is pushed upwards. It has not yet become another Alt­ger­man­is­che Reli­gion­s­geschichte (Jan de Vries, 1956 and 1974, this two vol­ume work is usu­ally sold for sev­eral hun­dreds euros), but you do not just visit a (web)shop and buy it. Noordeu­ropese Mys­ter­iën is not impos­si­ble to find and it does not even have to be really expen­sive, but you have to look around not to pay an absurd price for it, since espe­cially after the inter­net cat­a­logues of anti­quar­ian book­shops, some peo­ple fig­ured out what they can ask for the title.

Con­trary to Alt­ger­man­is­che Reli­gion­s­geschichte, Noordeu­ropese Mys­ter­iën is writ­ten in Dutch (De Vries’ book is in Ger­man), nar­row­ing its audi­ence. This and the fact that is no longer in print, caused the fact that the book is unknown and over­looked in the non-Dutchspeaking world, espe­cially in the English-speaking world. I hope that this small arti­cle might change that. Of course, this might put even more pres­sure on the price, but per­haps a for­eign pub­lisher gets the idea of repub­lish­ing or even trans­lat­ing it. But at least, peo­ple who ‘should’ know the book, might now hear of it.

The book I am talk­ing about has the full title Noordeu­ropese Mys­ter­iën en hun sporen tot heden. This is trans­lated as ‘Northern-European mys­ter­ies and their traces to the present’. We know about the mys­tery cults of the medit­er­anean area, Greece, Egypt, etc.; we know about the mys­tery reli­gions of the near and far east, but mys­ter­ies in North­ern Europe? Was ancient North­ern Europe not inhab­ited by stu­pid plun­der­ing bar­bar­ians? Some schol­ars even doubt our ances­tors had a reli­gion to start with, let along a mys­tery cult. This book shows us oth­er­wise and shows more, much much more.

Noordeu­ropese Mys­ter­iën is the result of a life­long inves­ti­ga­tion and the result of a respect­full list of pub­li­ca­tions of the Dutch­man Frans Eduard Far­w­erck who lived from 1889 to 1978. Far­w­erck was a suc­ces­full trader of car­pets and joined Freema­sonry in 1918. It took a while before his first pub­li­ca­tion saw the light of day, in 1927 he pub­lished a book about the world’s mys­tery reli­gions through a reg­u­lar pub­lisher, but under the obvi­ously Masonic pseu­do­nym B.J. van der Zuylen (“Zuylen” is an old way of writ­ing “zuilen”, “pil­lars” and the ini­tials of course refer to Boas an Jachin). This impres­sive 565 paged book gives but lit­tle room to Ger­manic and Celtic mys­ter­ies, but they are already present. Farwerck’s next book is a truly Masonic one about the Hiram myth, pub­lished by “the lodge”. Then the Ger­mans raised to power, Far­w­erck joined the NSB (“nationaal-socialistische beweg­ing”, the Dutch national social­ist party) and he was expelled from “the lodge” in 1934 after a 16 year car­reer in which he reached the absolute high­est rank in his order.

With his national social­ist friends he founded a pub­lish­ing com­pany called “Der Vaderen Erfdeel” (losely trans­lated with “fathers’ her­itage”) through which in 1938 he pub­lished his clas­sic work Lev­end Verleden set­ting the tone for his later writ­ings. Far­w­erck trav­elled exten­sively, mak­ing count­less pho­tos, inves­ti­gat­ing local myths, sto­ries and folk­lore and ‘liv­ing past’ is a col­lec­tion of mostly build­ing and frontage sym­bol­ism, the ori­gins of which he traces back to the prechris­t­ian past. Then a few years of silence follow.

Again as Van der Zuylen in 1953 Far­w­erck pub­lishes Noord-Europese Mys­ter­iën en Inwi­jdin­gen in de Oud­heid (‘Northern-European Mys­ter­ies and Ini­ti­a­tions in ancient times’), a rough ver­sion of his much later Noordeu­ropese Mys­ter­iën. In the same year Far­w­erck pub­lished a book about that mys­te­ri­ous object that is nowa­days called the “Frank’s cas­ket” and after that the extremely inter­est­ing and (almost) impos­si­ble to find Noord-Europa, een der bron­nen van de Maçonieke sym­bol­iek (‘North­ern Europe, one of the sources of Masonic sym­bol­ism’ 1955). This lit­tle book con­tains infor­ma­tion that Far­w­erck appar­ently did not want/dare to pub­lish in his pub­lic pub­li­ca­tion, but roughly it rep­re­sents the next step in his inves­ti­ga­tions that would lead to Noordeu­ropese Mys­ter­iën.

This time under his own name, Far­w­erck again pub­lishes about the mys­tery reli­gions in gen­eral in 1960 and 1 year later fol­lows the final result, the man’s mag­num opus. It is sold out in no-time, but has but one reprint, since Farwerck’s war-past sud­denly became an obsta­cle. The sec­ond print­ing did not sell too well either.

Unfor­tu­nately the war past is a big issue in these parts. Many authors with inter­est in the pagan past of North­ern Europe thought that join­ing the national social­ists could be good for their cause and after the dis­as­ter of WWII they all remained with an inerad­i­ca­ble stain on their per­sons. Some even kept the ide­ol­ogy, oth­ers realised their mis­take, but the result remains that when some peo­ple started to raise ques­tions about cer­tain author’s past, they were banned. Their books were no longer printed or repub­lished, new authors who had no war-past what­so­ever can­not use these authors as their sources. The col­lec­tive shame for the actions of some of our peo­ple have made inves­ti­ga­tions in the sub­ject of the prechris­t­ian reli­gion of North­ern Europe vir­tu­ally impos­si­ble. Even the stan­dard works of Jan de Vries (1890–1964), no mat­ter how highly acclaimed by schol­ars, are no longer avail­ble. Iron­i­cally enough among schol­ars De Vries is pop­u­lar enough to give him some credit, so his Edda trans­la­tion can be found in most book­shops to this day and many authors cite him by lack of bet­ter sources. I do not expect a reprint, let alone a trans­la­tion of the Alt­ger­man­is­che Reli­gion­s­geschichte any time soon. The same goes for Farwerck’s superb work.

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But enough about all that, let us talk a bit about the ideas in the book. Of course in a small arti­cle in which I want to give a biog­ra­phy and sum­merise the find­ings of half a decade of inves­ti­ga­tions, I can­not go into much detail. I hope to present you just enough to sparkle your inter­est in the sub­ject and/or inspire peo­ple to learn Dutch and/or do their own investigations.

Noord-Europese Mys­ter­iën

Far­w­erck starts with describ­ing “reli­gious and myth­i­cal con­cep­tions of the Ger­mans con­cern­ing rites of ini­ti­a­tion”. Death and the under­world, bur­ial prac­tices, life after death, imag­i­na­tions of the dead. This is all infor­ma­tion you can also find else­where, but it of course sets the tone, since the next part is about can­di­dates for the Ger­manic God of ini­ti­a­tion. Is it Wodan, is it Balder, is it Donar? Most exten­sively treated is Wodan/Odin. His con­nec­tion to the dead (con­form Mer­cury), his wolves, the eight-legged horse, hang­ings, offer­ing rit­u­als, the Ein­her­jar, all ele­ments that, put in the right per­spec­tive, could sug­gest Wodan has some­thing to do with ini­ti­a­tions. An entire chap­ter is ded­i­cated to the wild hunt(er) that goes around the nightly sky in the Yule-period, Wodan with his legion of the dead. Far­w­erck quotes from folk­lore and local myths to show that the idea of the Wild Hunt(er) can be found from France to Nor­way and from Slavic coun­tries to Ire­land. Wodan in con­nec­tion to fer­til­ity (and there­for again with the dead) is the sub­ject of the next chap­ter. After this Far­w­erck starts look­ing for infor­ma­tion about rites of ini­ti­a­tion, and we are not talk­ing about rites de pas­sage in which a boy becomes a man and a girl a woman. The first story that comes to mind is of course the story of Balder’s death and res­ur­rec­tion, the sec­ond Odin hang­ing down the world tree and learn­ing the runes or the hang­ing of king Vikarr by Starkadr, but first we go to another subject.

Män­ner­bünde

After the ground­break­ing work Kul­tische Gehe­im­bünde der Ger­ma­nen (‘cul­tic secret soci­eties of the Ger­mans’ 1934) the sub­ject of “Män­ner­bünde” (‘men bonds’) was ‘hip’ for a while. But… also Höfler became a mem­ber of the Ahnenerbe and the NSDAP so after WWII this was another sub­ject ‘not done’. Only recently schol­ars start to write about the sub­ject again. Even Eng­lish writ­ing schol­ars usu­ally use Höfler’s term “Män­ner­bünde”, so let us stick to that tra­di­tion. Män­ner­bünde, as the term sug­gests, are groups of men that stand with one leg out­side nor­mal soci­ety, they are secret groups. In the con­text of North­ern Euro­pean peo­ples we quickly think about some sort of elite war­rior groups such as the Ein­her­jar, the Uld­hed­nar and the Berz­erkr, but Far­w­erck sug­gests that many of the names that we think were tribes in the writ­ings of the Romans, actu­ally referred to such elite war­rior groups. The Harii, the Chat­tii, the Lan­go­b­ards, even the Vikings in the orig­i­nal mean­ing sup­pos­edly were such groups. Should the Män­ner­bünde have been mere war­rior groups, they would have not been as inter­est­ing as they are though.

When not at war, mem­bers of these groups had all kinds of spe­cial priv­iledges. The right of rep­ri­mand, the right to steal, they had cer­tain dances, fes­tiv­i­ties, dress­ing (such as ani­mal cloth­ing) and spe­cial roles in pub­lic cer­e­monies for fer­til­ity or sea­sonal feasts. Many things sug­gest that mem­bers of these groups ful­filled a spe­cial role in soci­ety, a role which even came with oblig­a­tions such as that of secrecy and sev­eral duties. Far­w­erck shows what he finds around these sub­jects and con­tin­ues to show that such groups have sur­vived much much longer than we may expect. They were cul­tic groups that sur­vived the com­ing of Chris­tian­ity by remod­el­ing to Chris­t­ian groups that we came to know as guilds. Besides such ‘reli­gious guilds’, there were of course the famous work­ers guilds of the masons, the tim­ber­men and the tan­ners, groups that have remark­able sim­i­lar­i­ties to the Män­ner­bünde of old.

Far­w­erck sums up a stag­ger­ing amount of folk­loris­tic hab­bits and other remains that are unmis­tak­enly con­nected to these groups. All kinds of saints seem merely Chris­tian­i­sa­tions of pagan deities and the tra­di­tions around them have but a thin layer of var­nish. Horn– and Mor­ris­dances, Mummer’s plays, sword dances, Schlem­laufen and Klaus­ja­gen, Far­w­erck lets a lot of these nice folk­loris­tic feasts pass the reader. It is amaz­ing how the steal­right or the right to rep­ri­mand are still rights of youth-groups as late as the early 20th cen­tury, groups that have some watered-down ele­ment of wear­ing ani­mal skin and cer­tain dances that have been per­formed in churches until the Ref­or­ma­tion. Of course much infor­ma­tion comes from Chris­t­ian sources try­ing to ban these pagan prac­tices, but this often did not work too well so they were tried to be Christianised.

Recon­struc­tion of ancient initiations

Chap­ter 10 is ded­i­cated to the sum­ming up of infor­ma­tion that Far­w­erck has been able to find to see if he can recon­struct the rites. He starts with the pos­si­ble places where the cer­e­monies would be held. Of course lakes, for­rests, hills, etc. were the sacred places for Ger­mans and Celts alike. There are many toponyms (place names) that sug­gest cer­tain cer­e­monies. Mur­der pits, wolf pits, devil’s hills even  “woensberg”en or places named “Woensel” (now part of the city of Eind­hoven) and “Woens­drecht” all clearly refer to Wodan and in the case of the mur­der pits, could there death-and-resurrection cer­e­monies have been held? There are also toponyms that seem to refer to (sacred) meals (cul­tic meals?), so called “troja burchten” (con­struc­tions or draw­ings in the form of a spi­ral) about which a lot is to say (Far­w­erck uses 24 pages). Then we have the sacred times of the sol­stices and equinoxes around which (folk)stories exist that sug­gest cul­tic rites vague shad­ows of which have been kept in folk­lore and recent fes­ti­vals. After this Far­w­erck comes to cloth­ing, sacred weapons, cer­tain songs and dances, hang­ings and spear-woundings, trav­els to the under­world and res­ur­rec­tions there­from, new names, the sacred potion (usu­ally some­thing made with honey) and old and less old ref­er­ences to broth­er­hoods of all sorts.

Far­w­erck con­tin­ues with guilds. Since they are fairly recent there is more infor­ma­tion avail­able about their struc­ture, hab­bits, legal sta­tus, etc. Not only workers-guilds are spo­ken about, but also for exam­ple shoot­ing guilds, a beloved sub­ject for peo­ple who want to find the traces back to a fur­ther past.

With “build­ing huts” and build­ing guilds we are a step closer to our own time, because you will prob­a­bly know that they are well rep­re­sented in the his­tory the Freema­sons give them­selves. Dif­fer­ent kinds of guilds have all kinds of secrets that are both prac­ti­cal, but also reli­gious. You can read all about it in the pop­u­lar his­to­ries of Freema­sonry, but Far­w­erck presents a nice overview and very inter­est­ing details. Now also fol­low more pho­tos that Far­w­erck took in churches with faces with a hand below their chin, sup­pos­edly a secret sign of mas­ter masons. Of course there are also the master-signs (some sort of sig­na­tures) that often remind of runes, but we are already talk­ing about the 11/12th cen­tury here. Quite some infor­ma­tion about these guilds seems to come directly from Masonic writ­ings, but of course, Masons says that these guilds are their pre­de­ces­sors. And then we get pho­tos of all kinds of strange orna­ments in churches with one-eyed fig­ures (Wodan?), mock­eries of the church, pic­tures of men in strange pos­tures and all kinds of sug­ges­tive scenes that seem too unchris­t­ian to be built into a church.

Freema­sonry

And there we have it, Far­w­erck spends the last 150 pages of his book show­ing that “Freema­sonry [is] one of the youngest descen­dants of the ancient men bonds”. Hav­ing been a high-ranking Mason him­self, he quotes all kinds of Masonic texts, rit­u­als, etc. (but I think he tells us noth­ing he should bet­ter not) and com­pares them to what we find in myths, sagas, pagan art or folk­lore. The form of the tem­ple, the place where the dif­fer­ent offi­ciants can be found, rit­u­al­is­tic sym­bol­isms such as the limp­ing or signs of recog­ni­tion, sym­bol­ism on the “tableau”, the three pil­lars, the large and the small lights, Masonic cloth­ing (Thor’s iron gloves and gir­dle), the con­se­crat­ing ham­mer and even the open­ing and clos­ing rites, they all seem to have North­ern Euro­pean ori­gins rather than Jew­ish or Egyptian.

There is a lot more to say, but here you have the red thread. In work­ing to his con­clu­sion, Far­w­erck sheds light on a great many ele­ments of folk­lore and (folk) sym­bol­ism, giv­ing new inter­pre­ta­tions of tales, sagas and texts that we know, cross ref­er­enc­ing dif­fer­ent myths and dif­fer­ent folk­tales and all together his book is a true gold­mine and a just rea­son to have grown into being a cult book. This is the kind of book that I hope to run into some time again, but I doubt I ever will. Besides all the works that I own of Dumézil, Eli­ade, Guénon or De Vries, I often first check Far­w­erck, then the rest. Espe­cially when I am look­ing for visu­als, I go to Far­w­erck, since his books are as much stuffed with pho­tos and draw­ings as they are with infor­ma­tion and until this day, he has col­lected an unprece­dented amount of visu­als of details and sym­bol­ism. These alone are a rea­son to get the book.

Even when you are not inter­ested in the North­ern Euro­pean his­tory of Freema­sonry (most peo­ple who buy this book are not), you will find enough infor­ma­tion in the uplighted parts that Far­w­erck needs to present his proof. Per­son­ally I admire the book too for being a non-Traditionalist, he presents a story that almost no Tra­di­tion­al­ist has ever told even though (s)he should have: the unbro­ken chain has been kept in the West though West­ern organ­i­sa­tions until this very day.

vendredi, 31 décembre 2010

Roald Amundsen

Roald Amundsen’s The South Pole: An Account of the Norwegian Antarctic Expedition in the Fram, 1910–1912

Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

Roald Amundsen
The South Pole: An Account of the Norwegian Antarctic Expedition in the Fram, 1910–1912
London: Hurst & Company, 2001
(First Published in 1912 by John Murray)

Having reviewed Apsley Cherry-Garrard’s account of Robert Falcon Scott’s Terra Nova Expedition, and having over the Yuletide read Scott’s diaries from the latter, I deemed it opportune to read Roald Amundsen’s account of his pioneering journey to the South Pole. After all, Scott and Amundsen reached the Pole within a month of each other, and this is, so to speak, the other side of the story.

If you are not familiar with the history of Antarctic exploration, for this review to make sense you will need to know that in the year 1910 two teams of explorers, one British, lead by Scott, and the other Norwegian, led by Amundsen, set sail to Antarctica, with the aim of being the first to reach the South Pole. Both men were successful, but Amundsen arrived first and he and his team returned to their base, and then home, without incident; while Scott and his men perished on the Ross Ice Shelf during their return journey. Scott’s tent was found eight months later by a rescue party, who discovered Scott’s frozen body and those of two of his party of five, along with their diaries. Scott’s fate turned him into a tragic national hero, and, being a skilled wordsmith, it was his story that was told across the English-speaking world: his diaries underwent numerous editions and re-prints, from popular to lavishly-illustrated, and became mandatory reading for schoolchildren, until eventually his tale was made into a film in 1948, starring John Mills. Amundsen’s story, on the other hand, had a much more limited readership and is, therefore, less well known.

Scott’s and Amundsen’s accounts, however, are equally interesting, albeit for entirely different reasons. While Scott’s possesses romance and pathos, Amundsen’s is engaging on a technical level: here is where you learn how to mount a successful expedition, and get a sense of the Norwegian temperament as well.

The South Pole is a considerable work, spanning 800 pages in the modern reprint edition (the original edition came in two volumes). It begins with Amundsen’s preparations in Norway in 1909 and concludes with Amundsen’s disembarkation at Hobart, Tasmania, in 1912; what lies in between is more or less as detailed a relation of events as Cherry’s own, written ten years later. Amundsen’s tone and style is very different from that of the Englishmen: the 43-year-old Scott was anxious and prone to depression; the 36-year-old Cherry (writing nearly a decade after the events) was more philosophical and psychological; the 39-year-old Amundsen, by contrast, is colder, calmer, relatively detached, and prone to ironic understatement. In some ways, his tone is very similar to mine in Mister, except my diction and syntax are somewhat more baroque.

Amundsen arrived in Antarctica in January 1911, and established his base, Framheim, on the Ross Ice Shelf (then known as “the Barrier”), at the Bay of Whales, 803 miles away from the South Pole and 350 miles to the East of Scott’s base, in Cape Evans, Ross Island. This placed Amundsen’s base 60 miles nearer to the Pole than Scott’s – a considerable distance considering that it was to be covered without the aid of motorized transport.

Amundsen111.jpgThe shore party consisted of 97 dogs and eight humans, all Norwegian: Olav Bjaaland, Helmer Hanssen, Sverre Hassel, Oscar Wisting, Jørgen Stubberud, Hjalmar Johansen, Kristian Prestrud, and Roald Amundsen. Like Scott, they built a hut, but, unlike Scott, when the snow and drift started to cover it, Amundsen’s party allowed it to be buried, and expanded their living quarters by excavating a network caverns in the ice, where they set up their kennel and their workshops. This not only afforded them more space, but also insulated them from the elements.

During the Winter months leading up to the polar journey, Amundsen and his team continuously optimized their equipment, testing it and refining it for the conditions on the ground. Scott’s team were doing exactly the same over at their base, of course, but it seems, from this account, that Amundsen went further, being extra meticulous and paying close attention to every detail. Boots and tents were redesigned; sledges and cases were shaved down to make them lighter; stacking, storage, and lashing techniques were perfected, and so on. In the end, Amundsen ended up with truly excellent equipment and highly efficient arrangements. For example: while Scott’s parties had to pack and unpack their sledges every time they set up camp, Amundsen’s sledges were packed in such a way that everything they needed could be retrieved without unlashing the cases or disassembling the cargo on their sledges. This was a significant advantage in an environment prone to blizzards and where temperatures are often so low that touching metal gives instant frostbite.

Amundsen had spent time observing and learning from the Inuit and possessed a thorough understanding of working with dogs. Scott, on the other hand, although the most experienced Antarctic explorer of the age and indeed a valuable source of information for Amundsen and his men, had become reluctant to use dogs due to their poor performance during the Discovery Expedition he had lead in 1901-1903, during which many of the animals visibly suffered. The problem, however, was not so much dogs in general but the choice of dogs, and Amundsen’s chosen breed of canine was better adapted for Antarctic conditions. So much so, in fact, that Amundsen eventually decided to travel by night, because his dogs preferred the colder temperatures.

The postmortem examination of Scott’s and Amundsen’s expeditions have led experts to conclude that Amundsen’s decision to base his transport on dogs was decisive in the outcome of their respective polar journeys. Scott’s transport configuration, relying on motorized sledges, ponies, dogs, and man-hauling has been described as ‘muddled’. This is certainly the conclusion one draws from reading the accounts of the two expeditions. Amundsen’s dogs afforded him with pulling power that was up to seven times greater than Scott’s. What is more, Amundsen’s men ate the dogs along the way, in the measure that they were no longer needed because of the staged depoting of supplies for the return journey; this provided them with an additional source of fresh meat (the other was seal meat, obtained at the edge of the barrier), which they needed to stave off scurvy. Scott’s party, on the other hand, was blighted by the early failure of the motorized sledges and the poor performance of the ponies. Although he and his men ate the ponies, they relied heavily – and once on the plateau exclusively – on man-hauling. Man-hauling is far more strenuous than skiing, like Amundsen’s men did, and this soon led to a deterioration in Scott’s party’s physical condition.

Amundsen_llega_al_Polo_Sur.jpgThis takes us to the diet. Scott’s understanding of a polar explorer’s nutritional requirements was the best that could be expected from the Edwardian era, so he cannot be blamed for having had inadequate provisions. Indeed, having learned from his failed bid for the Pole in 1902 and from Shackleton’s own failure in 1909 (in both cases the men starved and developed scurvy), Scott paid close attention to nutrition and worked closely with manufacturers to obtain specially-formulated food supplies. Moreover, Scott also had the Winter party (Cherry, Edward Wilson, and Henry Bowers) experiment with proportions during their journey to Cape Crozier to secure Emperor penguin eggs. Yet, the fact remains that, in terms of its energy content, his diet of pemmican, biscuits, chocolate, butter, sugar, and tea fell well short of what was needed. Ranulph Fiennes and Mike Stroud, the first explorers ever to achieve the unsupported (you-carry-everything) crossing of the Antarctic, found their caloric consumption averaging 8,000 calories a day, and sometimes spiking at over 11,500 calories a day. The Scott team’s intake was around 4,000, and the result was, inevitably, starvation, cold, and frostbites. Worse still, lack of vitamin C, the primary cause of scurvy, caused wounds to heal very slowly, a situation that eventually led to the breakdown and death of 37-year-old Petty Officer Edgar Evans in Scott’s South Polar party. Amundsen’s men had an abundant supply of fresh meat, coming from dog and seals, as well as the typically Scandinavian wholegrain bread, whortleberries, and jam, so they were very well supplied of vitamin C. With a lower caloric consumption (typically at 5,000 calories a day), they were very well fed throughout their journey, and Amundsen was able to progressively increase rations well beyond requirements. As a result, Amundsen’s men remained strong, staved off scurvy, and suffered no frostbites.

Scott blamed the failure of his expedition on poor weather and bad luck. Amundsen, who greatly respected Scott, says in the present volume, written before he learnt of Scott’s fate:

I may say that this is the greatest factor — the way in which the expedition is equipped — the way in which every difficulty is foreseen, and precautions taken for meeting or avoiding it. Victory awaits him who has everything in order — luck, people call it. Defeat is certain for him who has neglected to take the necessary precautions in time; this is called bad luck.

It would be too harsh to say this applied to Scott, because Amundsen did, after all, enjoy relatively good weather (he even eventually dispensed with the very warm fur outfits we see in the photographs), whereas unseasonably low temperatures and harsh conditions hit Scott’s party during the return journey across the Ross Ice Shelf. (Remember this is a huge geographical feature: a platform, hundreds of miles long, comprised entirely of iron-hard ice up to half a mile deep, flat (except near land) in every direction as far as the eye can see – it is so large that it has its own weather system.) Similarly, on their approach to the Pole, Scott’s team had found conditions on the plateau, particularly after 87°S, especially severe, with bitter head-on winds, rock-hard sastrugi, and snow frozen into hard, abrasive crystals – this made pulling sledges especially difficult. Imagine pulling 200 lb sledges on sandpaper, day after day, week after week, with 50-70 degrees of frost, eating less than half what you need. It must be remembered, at the same time, that the Antarctic was for most part terra incognita: Scott’s furthest South in the Discovery Expedition was 82°17′S, a latitude located on the Ross Ice Shelf; Shackleton’s 88°23′S, somewhere on the plateau; no one knew what the South Pole looked like or what they would find there, and Scott only had Shackleton’s verbal account of the conditions on the Beardmore Glacier and Antarctic plateau to go by. Today we know that the continent, approximately the size of Europe and once located on the Earth’s equator, is under a sheet of ice several kilometers deep; that the ice covers 98% of its surface; that the plateau, extending a thousand kilometers, is nearly 10,000 feet above sea level; that there are mountain ranges and nunataks in its more Northernly latitudes; and much more. Also today there is an enormous American-run research station on the South Pole, as well as dozens of stations spread across the continent; we have radio and satellite communications, high resolution imaging, mountains of very detailed data; we also have aeroplanes and motor vehicles able to operate in the Antarctic airspace and terrain. None of this existed in 1911. Much of the nutritional, meteorological, and glaciological knowledge we have today was discovered decades later. The early explorers were doing truly pioneering work on a landscape as mysterious and as alien as another planet.

It is interesting to note that both Amundsen and Scott were quite surprised to find themselves descending as they approached the South Pole. Indeed, once past the glaciers that give access to the Antarctic plateau from the Ross Ice Shelf, the Pole is hundreds of feet below the plateau summit on that side of the continent.

Amundsen222.jpgAmundsen’s original ambition had been to conquer the North Pole. For most of his life, he tells us, he had been fascinated by the far North. That he turned South owed to his being beaten to the North Pole by the American explorers Fredrick Cook (in 1908) and Robert Peary (in 1909), who made independent claims. Therefore, upon reaching the South Pole, Amundsen experienced mixed feelings: he says that it did not feel to him like the accomplishment of his life’s ambition. All the same, aware of the controversies surrounding Cook’s and Peary’s polar claims, he determined to make absolutely certain that he had indeed reached the geographical South Pole, and spent several days taking measurements with a variety of instruments within a chosen radius. He named his South Pole station Polheim. There he left a small tent with a letter for Scott to deliver to the King Haakon VII of Norway, as proof and testimony of his accomplishment in the event he failed to return to base safely.

As it happens, subsequent evaluations of the Polar party’s astronomical observations show that Amundsen never stood on the actual geographical Pole. Polheim’s position was determined to be somewhere between 89°57’S and 89°59’S, and probably 89°58’5’’ – no further than six miles and no nearer than one and a half miles from 90°S. However, Bjaaland and Hanssen, during the course of their measurements, walked between 400 and 600 meters away from the Pole, and possibly a few hundred meters or less. Scott, arriving a month later, did not manage to stand on the actual Pole either. This, however, was the best that could be done with the instruments available at the time.

Amundsen’s success resulted not only from his careful planning and good fortune, but also from his having set the single goal of reaching the South Pole. Comparatively little science was done on the field, as a result, although geological samples were brought back, both from Amundsen’s Polar party as well as Kristian Pestrud’s Kind Edward VII Land’s party, and meteorological and oceanographical studies were conducted. Scott’s expedition, by contrast, was primarily a scientific expedition, and was outfitted accordingly. It was certainly not designed for a race. Conquering the Pole was important in as much as the expedition’s success or failure was to be judged by the press and the numerous private sponsors on that basis: a hundred years ago, the whole enterprise of polar exploration was fiercely nationalistic in character, in marked contrast to the internationalist character of Antarctic research since the signing of the Antarctic Treaty of 1959.

Scott found out about Amundsen’s plans while on route to the Antarctic. Needless to say that this caused a great deal of anger, particularly as Amundsen had kept his plans secret until he was well on his way. Scott’s men obviously hoped that Amundsen would be having a rough time on his side of the barrier (indeed, he experienced lower temperatures, but, on the other hand, he enjoyed fewer blizzards). Yet, when the Englishmen aboard the Terra Nova paid a visit to the Norwegians at Framheim, they quite naturally had a number of questions but were otherwise cordial. They all took it like the soldiers a number of them were.

It is inspiring to read the accounts from the heroic era of Antarctic exploration. They highlight the most admirable qualities of European man, and serve as an example to modern generations in times when men of the caliber we encounter in these tales have (apparently) become rare. Enthusiasts have noted the marked difference in tone between the books written by explorers Fiennes and Stroud in the early 1990s, and the books and diaries written by Scott, Amundsen, and Douglas Mawson a hundred years ago: the latter, they say, come across as far more stoic, far harder, and able to write poetically about the hostile Antarctic environment even in the most adverse of situations. This perhaps not surprising when one considers that European civilization was at its zenith in terms of power and confidence in the years immediately preceding the Great War. I think truly hard men still exist, but sensibilities have obviously changed, perhaps because of the outcome of two great European civil wars, perhaps because the equality-obsessed modern culture encourages men to adopt feminine qualities in the same measure that it encourages women to adopt masculine ones. Whatever the reasons, this type of literature is most edifying and a healthy antidote to all the whining, fretting, and apologizing – not to mention in-your-face fruitiness from certain quarters – that has become so prevalent in recent decades.

The South Pole is not as intimidating as it might at first appear: there are numerous photographs and the print is quite large, so a fast reader can whiz through this tome at the speed of light, if he or she so wishes. In addition, it is not all Amundsen’s narrative: the last 300 pages consist of Kristian Pestrud’s account of his journey to King Edward VII’s land; first lieutenant Thorvald Nilsen’s account of the voyage of the Fram; and scientific summaries dealing with the geology, oceanography, meteorology, and the astronomical observations at the Pole. Pestrud’s and Nilsen’s contributions are also written in a tone of ironic detachment, blending formality with humor, which suggests to me, having met and dealt with Norwegians over the years, that this might be characteristic of the Norwegian temperament.

There is certainly more to Antarctic literature than conspiracy theories about Zeta Reticulans and Nazi UFOs.

TOQ Online, March 3, 2010

lundi, 20 décembre 2010

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung

Bruno Wille und die Freidenkerbewegung*

von Erik Lehnert (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


Bruno-Wille-WDR-3.jpgDas Freidenkertum entstand im 17. Jahrhundert in England und gelangte im Laufe des 18. Jahrhunderts auf den europäischen Kontinent, v. a. nach Frankreich. Das ursprüngliche Ziel der Bewegung war die Religionsfreiheit. Das "freie Denken" sollte die Evidenz aller Gegenstände aus der Sache ableiten, nicht aus der Autorität. Erst im "eigentümlichen Freiheitsraum des 19. Jahrhunderts" (Friedrich Heer) vollzog sich innerhalb der Freidenkerbewegung ein Wandel: man organisierte sich, versuchte die ursprünglich elitäre Idee zu popularisieren und so politischen Einfluß auszuüben - man wollte das Denken allgemein von religiösen Vorstellungen befreien. Ein Resultat war, daß die Bezeichnung Freidenker, jetzt zu Recht, synonym für Atheisten gebraucht werden konnte. 1881 wurde der Deutsche Freidenker-Bund (DFB) durch Ludwig Büchner gegründet. 1905 bzw. 1908 folgten sozialdemokratische bzw. proletarische Abspaltungen, die sich 1927 vereinigten. Ihren Höhepunkt hatte die Bewegung am Anfang der 30er Jahre. Am Zweiten Weltkrieg zerbrach der Fortschrittsglaube, mit dem Einflußverlust (und der blutigen Unterdrückung) der Kirchen kam der Hauptfeind abhanden und die Naturwissenschaft stieß v. a. in der Atom- und Astrophysik an Grenzen, die einen weltanschaulichen Materialismus unglaubwürdig machen.

Nietzsche, ein ganz anders gearteter "freier Geist" (Im Nachlaß finden sich sogar "Die zehn Gebote des Freigeistes", von denen das zweite lautet: "Du sollst keine Politik treiben."), war bemüht, sich gegen die organisierten Freidenker abzugrenzen: "Sie gehören, kurz und schlimm, unter die Nivellierer, diese fälschlich genannten 'freien Geister' - als beredte und schreibfingrige Sklaven des demokratischen Geschmacks und seiner 'modernen Ideen'; allesamt Menschen ohne Einsamkeit, ohne eigne Einsamkeit, plumpe brave Burschen, welchen weder Mut noch achtbare Sitte abgesprochen werden soll, nur daß sie eben unfrei und zum Lachen oberflächlich sind, vor allem mit ihrem Grundhange, in den Formen der bisherigen alten Gesellschaft ungefähr die Ursache für alles menschliche Elend und Mißraten zu sehn: wobei die Wahrheit glücklich auf dem Kopf zu stehn kommt!" (Jenseits von Gut und Böse II, 44) Nicht die Umstände sondern die Unvollkommenheit des Menschen ist die Ursache. Ein "freier Geist" wie Nietzsche glaubt nicht einmal an die Wahrheit und demzufolge auch nicht an die Wissenschaft, die natürlich ebenfalls metaphysische Voraussetzungen hat. (Zur Genealogie der Moral III, 24)

Wille tritt erstmals im Oktober 1892 öffentlich im Zusammenhang mit dem DFB in Erscheinung. Er schreibt im Correspondenzblatt des Bundes: "was mich bisher vom Freidenker-Bunde zurückhielt, war die Meinung, hier werde das soziale Problem mit seinen bedeutsamen Konsequenzen für unsere Taktik, Moral und Pädagogik ungenügend oder unrichtig betrachtet und angefaßt." (1. Jg.,1892/93, S. 31) Bereits ein Jahr später übernimmt Wille die Redaktion des "Freidenkers" (bekommt dafür eine Aufwandsentschädigung von 300 Mark jährlich) und wird Vorstandsmitglied des DFB. Ab dem 1. März 1916 ist Wille Herausgeber der Zeitschrift und bleibt dies bis zur Einstellung des Erscheinens 1921. Rückblickend schreibt er 1920: "Zu den Geistesbewegungen, die ich mit besonderer Arbeitsamkeit fördere, gehört neben der Freireligiosität das Freidenkertum. Seit Anfang der neunziger Jahre gehöre ich zur Leitung des Deutschen Freidenkerbundes, redigiere dessen Blatt ("Der Freidenker") und habe auf vielen Kongressen des Bundes gewirkt, auch auf internationalen (Rom und München). Die anfangs im deutschen Freidenkertum vorherrschende Richtung des Materialisten Ludwig Büchner habe ich durch meine idealistische Weltanschauung ergänzt, damit das Freidenkertum sich nicht beschränke auf rationalistischen Volksaufkläricht."

Die Geschichte der Zeitschrift soll hier nicht das Thema sein. Obwohl diese sehr interessante Aufschlüsse über die Organisationstrukturen der freigeistigen Bewegungen etc. geben könnte, da der "Freidenker" im Laufe seines Bestehens zahlreiche Wandlungen vollzog, die sich u. a. in Zusammenschlüssen mit anderen Bünden und deren Zeitschriften zeigen. Die Zeitschrift erschien am 1. Juli 1892 erstmals als "Correspondenzblatt des Deutschen Freidenker-Bundes" und wurde mit der Ausgabe vom 1. Juli 1893 umbenannt in "Der Freidenker. Correspondenzblatt und Organ des Deutschen Freidenker-Bundes". Die Erscheinungsweise war bis zum 1. Juli 1894 vierwöchentlich, danach zweiwöchentlich. Die Verlagsorte wechselten oft, je nachdem welcher Ortsverband mit der Herausgabe betraut war. Von Mitte 1895 an war es für kurze Zeit Friedrichshagen (Berlin). In der Juniausgabe 1906, die rückblickend das 25jährige Jubiläum des Freidenkerbundes feiert, wird ein Ansteigen der Auflage der Bundeszeitschrift von 800 (1892) auf 3600 (1906) Exemplare verzeichnet.(14. Jg., 1906, S. 84-86).

In der September-Ausgabe des "Correspondenzblattes" erschien 1892 ein anonymer Beitrag: "Die Scheidung der Geister". (1. Jg., 1892/93, S. 19-22). Darin versucht der Autor den Idealismus vom Materialismus, der seiner Meinung nach einzig richtigen Weltanschauung, zu scheiden: "Hie Materialismus, dort Idealismus: es giebt keine Ueberbrückung." Die materialistische Position wird auf den Einzelnen und die Gesellschaft angwandt. Der bekannte Schluß lautet, daß alles Geschehen "dem Zwang äußerer und innerer Verhältnisse" unterliegt. Jede Handlung eines Menschen sei, durch seine soziale Lage oder weil ihm der freie Wille fehlt, determiniert. Dieser Beitrag löste eine interessante Debatte aus, die dem Verfasser Widersprüche in seiner Argumentation aufzeigte, insbesondere wie man politisch oder kulturell wertsetzend wirken wolle, wenn man keinen freien Willen hat. Wille beteiligt sich an dieser Diskussion und hebt lobend hervor, daß "die materialistische Geschichtsauffassung [...] den gebührenden Einzug" bei den Freidenkern gehalten hat. (1. Jg., 1892/93, S. 31f.). Wille ist der Auffassung, daß der Determinismus keinen Einschränkungen unterworfen ist und begründet das mit der Definition von Freiheit, als Möglichkeit, zu können was man will. Das Wollen ist allerdings motiviert, d. h. von einer oder mehreren auslösenden Ursachen abhängig bzw. determiniert. So artet die Diskussion in Wortklaubereien aus.
Wille stieß in einer Zeit zur Freidenkerbewegung, als diese an Einfluß verlor. Seit 1890 war den Arbeiterparteien die Versammlungsfreiheit wieder gewährt worden, so daß die Arbeiterschaft ihre eigenen Versammlungen besuchte. Der Gegensatz zwischen der Führung der Freidenker, die aus dem liberalen Bürgertum hervorging, und der Masse der Arbeiter trat jetzt deutlich zu Tage. Eine vermutlich von Wille auf dem Kölner Freidenkerkongreß 1894 eingebrachte Resolution sah zwar die Lösung der sozialen Frage als dringendes Problem, stellte die Wahl der Mittel jedoch dem Einzelnen frei. Der Gegensatz zur marxistischen Sozialdemokratie war offensichtlich. Hinzu kam der beginnende Einfluß Nietzsches und der verschiedener Ersatzreligionen, der nach und nach weite Teile der Bevölkerung erfaßte. Erst die Bestseller Haeckels, ermöglicht durch den "'pathologischen Zwischenzustand' einer philosopischen Anarchie" der Jahrhundertwende (Oswald Külpe), und die internationalen Freidenkerkongresse in Rom und Paris (1904/05) brachten einen neuen Aufschwung der Bewegung. Die Macht der Orthodoxie in der Arbeiterbewegung, die das Freidenkertum als bürgerliche Ideologie ablehnte, ging zunächst zurück. Später jedoch folgte die Auseinandersetzung mit dem 1908 in Eisenach gegründeten "Zentralverband Deutscher Freidenker", einer proletarischen Abspaltung. (Vgl. 16. Jg., 1908, S. 153-156). Wille versuchte sich insbesondere des Vorwurfs, der DFB sei unter seiner Federführung zunehmend sozialliberal und damit (in den Augen der Abspaltung) reaktionär geworden, zu erwehren. Anlaß war eine Äußerung von Wille, in der er ein Zusammengehen von Sozialdemokraten und linksliberalen Freisinnigen ("Linker Block" als sozialliberaler Übergang) in der Kulturpolitik gefordert hatte. (16. Jg., 1908, S. 21). Die Person Willes war oft Ziel solcher Art von Vorwürfen. (Vgl. 3. Jg., 1894/95, S. 3-5, 58-62). Wohl auch weil er kategorisch feststellte: "Parteifanatismus ist nicht minder wie religiöser Fanatismus ein Erbfeind des Freidenkertums." (Ebd. S. 58). Das sollte sich im Laufe der Geschichte bewahrheiten.

Was Freidenkertum seiner Meinung nach sei, schreibt Wille in einer Ausgabe der Zeitschrift "ohne Verbindlichkeit für unseren Bund". (15.Jg.,1907, S. 41f). Dem Namen nach (also bloß oberflächlich?) tritt Freidenkertum für "grundsätzlich freies Denken" und "für schrankenlose Entwicklung der höchsten Geisteskräfte in Persönlichkeit und Volksleben ein". Unterdrückung im geistigen Kampf wird abgelehnt, da die Wahrheit durch "ungehemmten Wettbewerb" (natürliche Zuchtwahl) hervortreten soll. Die Wahrheit müßte demzufolge stärker als die Lüge sein. Heißt es noch sehr frei, der Einzelne ist für die Bildung seiner Überzeugungen selbst verantwortlich, werden wenige Zeilen später letztlich dogmatisch "gewisse Weltanschauungen" abgelehnt: "Wer an ein höchstes Wesen glaubt, das als ein persönlicher Herrscher das Weltall regiert und den Menschen absolut gültige Vorschriften gegeben hat, kann kein Freidenker sein, da ihn seine Unterordnung unter die geglaubte Autorität zur Intoleranz verführt." Gemeint ist hier natürlich v.a. das Christentum, das durch eine "natürliche Weltanschauung" ersetzt werden soll. Damit meint Wille in jedem Fall einen Monismus, sei er nun "idealistisch, materialistisch oder mechanistisch". Der Freidenker kann nach Wille ruhig einer "religiösen Stimmung" nachgeben, da dies auch die alten Ägypter, Babylonier etc. getan hätten. Scheinbar fallen deren Ansichten nicht unter "gewisse" sondern unter "natürliche Weltanschauungen". Eine Unterscheidung, die Wille nicht erläutert. Religion sei nicht das "Glauben an übernatürliche Dinge" sondern: "Hingabe an das Höchste, das ein Mensch erlebt, gleichviel welche Begriffe er damit verbindet." Um den Einfluß der Bewegung zu erhöhen, schlägt Wille die Gründung eines Kartells aller mit den Freidenkern gleichgesinnten Geistesrichtungen vor. 1909 kam es dann tatsächlich zur Gründung des "Weimarer Kartells", in dem Monistenbund, "Bund freireligiöser Gemeinden" und DFB zusammenarbeiteten. Der DFB und der Bund bildeteten 1921 den "Volksbund für Geistesfreiheit" mit der monatlich erscheinenden Zeitschrift "Geistesfreiheit" statt des "Freidenkers" als Organ. Im Nachruf dieser Zeitschrift auf Willes Tod heißt es u. a., daß Wille sich "mit der Richtung des Volksbundes für Geistesfreiheit nicht befreunden" konnte. Aber: "In der Geschichte des Freidenkertums nimmt er eine hervorragende Stelle ein." (37. Jg.,1928, S. 147)
Wie oben angedeutet, sieht Wille die Entwicklung der Wahrheit (für ihn gleichbedeutend mit Wissenschaft) in Analogie zur Entwicklung der Wirtschaft. In beiden solle "freies Spiel der Kräfte" herrschen. Der positive Lauf, den die Wirtschaft seit dem Liberalismus genommen habe, zeige die Möglichkeiten, die in der Wissenschaft ruhen. Durch gleiche Bedingungen für alle soll brachliegendes geistiges Potential freigesetzt werden. (17. Jg.,1909, S. 17-19). Der Wirtschaftsliberalismus setzte tatsächlich ungeheure Energien frei, den notwendigen Konkurrenzkampf gewinnen jedoch die Stärkeren wie in der Natur auf Kosten der Schwachen (Monopolbildung). Eine andere interessante Frage schließt sich daran an: Gehören Darwinismus und Sozialismus zusammen? Bebel sagte ja, Haeckel nein. (2. Jg.,1893/94, S. 65-68) Also: Befördert die Selektionstheorie den Sozialismus oder widerspricht sie ihm? Haeckel bezog das darwinistische Prinzip auf den Einzelnen, Bebel auf die Gesellschaftsform. Auf den ersten Blick scheint eher der Liberalismus dem Darwinismus zu entsprechen, in dem sich der Tüchtigste o.ä. durch setzt. Wille führt dagegen an, daß es in der Natur Schutzbündnisse gebe. Ob aber, wie er behauptet, "gerade der Kampf ums Dasein [...] solche Solidarität" auch in der Menschheit herbeiführen wird, ist zweifelhaft, da Wille nur den Zusammenhalt innerhalb einer Klasse meint. Der Sozialismus nach seiner Definition "sucht die Existenz-Bedingungen nicht etwa durch Abtragung ihrer sonnigen Höhen, sondern durch Zuschüttung ihrer grauenvollen Schluchten zu nivellieren." Er ist davon überzeugt, daß sich die unzweckmäßigen Einrichtungen der Gesellschaft zurückbilden und sich die Volkswirtschaft den Bedürfnissen des Volkes anpaßt. Also kommt der Sozialismus zwangsläufig? Wozu braucht man dann den "Umstürzler" Wille? Die Widersprüche sind dem darwinistischen Dogmatismus geschuldet.

Mit seiner Kritik an Haeckels nationalökonomischer Einstellung zeigt Wille nur einen Teil der unterschiedlichen politischen Auffassungen, die im Freidenkertum nebeneinander existierten. Generell kann man für die Beiträge Willes im "Freidenker" sagen, daß er im wesentlichen die Themen seiner Bücher behandelt und teilweise wörtlich daraus zitiert. Weiterhin nahm er zu aktuellen Fragen in der Regel kurz Stellung und redigierte die Zeitschrift mit einem m. E. erstaunlich hohen Maß an Meinungsfreiheit - getreu dem idealistischen Motto: "Das Freidenkertum ist eine Methode, eine Art zu denken, weniger ein bestimmter Inhalt des Denkens; es betont weniger das Was, als das Wie." (3. Jg.,1894/95, S. 5)

* Anmerkung: Der Text stellt einen Auszug aus einem Vortrag dar, den der Autor am 26. März 2001 auf Einladung des Berliner Landesverbandes der Deutschen Freidenker im Rahmen der philosophisch-weltanschaulichen Gespräche zur 120jährigen Geschichte der Freidenker in Deutschland gehalten hat.

mercredi, 15 décembre 2010

Les dissidents de l'Action Française: Georges Valois

Archives 2008

Les dissidents de l’Action française : Georges Valois

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De Sorel à Maurras

valois.jpgPresque oublié aujourd’hui, Georges Valois fut l’un des écrivains politiques importants du début du siècle. Ayant dû abandonner ses études à l’âge de quinze ans, à cause de ses origines populaires, il avait été rapidement attiré par les milieux de gauche. Il commença par fréquenter différents groupes de tendance libertaire : L’Art social, de Charles-Louis Philippe, Les Temps nouveaux, de Jean Grave, L’Humanité nouvelle, de Charles Albert et Hamon. Parmi les collaborateurs de la revue qu’animait L’Humanité nouvelle figurait notamment Georges Sorel, qui devait exercer sur Valois une influence décisive. « Lorsque Sorel entrait (au comité de rédaction de la revue), écrit Valois dans D’un siècle à l’autre, il y avait un frémissement de l’intelligence chez les assistants et l’on se taisait. Nous l’écoutions. Ce n’étaient pas ses cinquante ans qui nous tenaient en respect, c’était sa parole. Sorel, forte tête de vigneron au front clair, l’œil plein de bonté malicieuse, pouvait parler pendant des heures sans que l’on songeât a l’interrompre ».

De quoi parlait ainsi Sorel ? Sans doute de ce qui lui tenait le plus à cœur : de la lutte, révolutionnaire, de l’avenir des syndicats, menacés non seulement par la ploutocratie capitaliste au pouvoir, mais aussi par le conformisme marxiste de la social-démocratie. Sans renier l’essentiel de la doctrine marxiste, Sorel reprochait notamment â l’auteur du Capital sa vision trop schématique de la lutte de classes, et sa méconnaissance des classes moyennes. Et il craignait par-dessus tout l’influence des intellectuels et des politiciens dans le mouvement ouvrier. Le mouvement ouvrier devait préserver son autonomie, et c’est à ce prix seulement qu’il pourrait donner naissance à l’aristocratie d’une société nouvelle. Son mépris de la médiocrité bourgeoise, à laquelle il opposait la vigueur populaire, triomphant dans le syndicalisme révolutionnaire, avait conduit Sorel à l’antidémocratisme. La démocratie n’était pour lui que le triomphe des démagogues, dont la justification la plus abusive. était le mythe du Progrès. C’est ainsi qu’un penseur primitivement situé à l’extrême-gauche se rapprochait sans l’avoir expressément cherché, des théoriciens réactionnaires, condamnant eux aussi, au nom de leurs principes, la démocratie capitaliste.

Influencé par Sorel, et aussi par la pensée de Proudhon et de Nietzsche, Georges Valois écrivit son premier livre : L’Homme qui vient, philosophie de l’autorité. C’était l’œuvre d’un militant syndicaliste révolté par la corruption démocratique, aspirant à un régime fort. Ce régime, Georges Valois pensait que ce devait être la monarchie : il la concevait « comme un pouvoir réalisant ce que la démocratie n’avait pu faire contre la ploutocratie ». Ayant présenté son manuscrit à Paul Bourget, celui-ci le communiqua à Charles Maurras. Telle fut l’origine des relations entre l’ancien socialiste libertaire et le directeur de L’Action française.

Relatant après sa rupture avec Maurras son premier contact avec celui-ci, Valois écrivait : « C’est sur le problème économique et social que nous nous heurtâmes immédiatement. Dans la suite, Maurras s’abstint de renouveler cette dispute. Sa décision avait été prise ; il avait compris qu’il était préférable de m’associer à son œuvre et de m’utiliser en s’efforçant de m’empêcher de produire toute la partie de mon œuvre qu’il n’acceptait pas » (1). On comprend sans peine que ce que Valois gardait d’esprit socialiste et révolutionnaire n’ait pas convenu à Maurras. Il ne faut pas oublier cependant qu’à cette époque, Maurras s’exprimait en termes fort sévères contre le capitalisme, auquel il opposait l’esprit corporatif de l’ancien régime. Tout en défendant les principes d’ordre et d’autorité, il n’hésitait pas à défendre les syndicats contre le faux ordre et l’autorité abusive des dirigeants républicains. C’est ainsi que Maurras fut le seul grand journaliste de droite à flétrir la sanglante répression organisée par Clemenceau, président du Conseil, contre les grévistes de Draveil, dans les derniers jours de juillet 1908 :

« Cuirassiers, dragons et gendarmes », écrivait Maurras dans L’Action française, se sont battus comme nos braves troupes savent se battre. À quoi bon ? Pourquoi ? Et pour qui ? « Nous le savons. C’est pour que le vieillard à peine moins sinistre que Thiers, à peine moins révolutionnaire, puisse venir crier à la tribune. qu’il est l’ordre, qu’il est la propriété, qu’il est le salut. Nous ne dirons pas à ce vieillard sanglant qu’il se trompe. Nous lui dirons qu’il ment. Car il a voulu ce carnage. Cette tuerie n’est pas le résultat de la méprise ou de l’erreur. On ne peut l’imputer à une faute de calcul. Il l’a visée... Ce fidèle ministre d’Édouard VII ne mérite pas d’être flétri en langue française. L’épithète qui lui revient, je la lui dirai en anglais, où elle prendra quelque force : Bloody ! »

Les jours suivants, Maurras écrivait encore :

« La journée de Draveil a été ce que l’on a voulu qu’elle fût. M. Clemenceau n’a pratiqué ni le système du laisser-faire ni le système des justes mesures préventives, parce que dans les deux cas, surtout dans le second, il y avait d’énormes chances d’éviter cette effusion de sang qu’il lui fallait pour motiver les arrestations de vendredi et pour aboutir à l’occupation administrative et à la pénétration officielle de la Confédération générale du travail » (2).

Il est normal que le Maurras de cette époque ait pu attirer Georges Valois. Il attira aussi, pendant quelque temps, Georges Sorel lui-même : « Je ne pense pas, écrivait ce dernier à Pierre Lasserre en juin 1909, que personne (sauf probablement Jaurès) confonde l’ardente jeunesse qui s’enrôle dans l’Action française avec les débiles abonnés du Gaulois ». Il voyait dans le mouvement de Charles Maurras la seule force nationaliste sérieuse. « Je ne suis pas prophète, disait-il à Jean Variot. Je ne sais pas si Maurras ramènera le roi en France. Et ce n’est pas ce qui m’intéresse en lui. Ce qui m’intéresse, c’est qu’il se dresse devant la bourgeoisie falote et réactionnaire, en lui faisant honte d’avoir été vaincue et en essayant de lui donner une doctrine ». En 1910, Sorel écrivait à Maurras pour le remercier de lui avoir envoyé son Enquête sur la monarchie. « Je suis, disait-il notamment, depuis longtemps frappé de la folie des auteurs contemporains qui demandent à la démocratie de faire un travail que peuvent seules aborder les royautés pleines du sentiment de leur mission » (3).

Cependant, Sorel gardait ses distances vis-à-vis de l’Action française. Georges Valois avait au contraire adhéré au mouvement peu de temps après sa première rencontre avec Maurras. On trouve l’expression de ses idées à l’époque dans La révolution sociale ou le roi et dans L’Enquête sur la monarchie et la classe ouvrière. Le titre du premier de ces essais suffit à montrer la rupture de Valois avec les formations de gauche. La thèse de Valois est que la Révolution de 1789 n’a pas été le triomphe de la bourgeoisie contre le peuple, comme on le dit souvent, mais le triomphe de « déclassés de toutes les classes » aussi bien contre la bourgeoisie que contre le peuple et l’aristocratie. Sans doute les républicains surent-ils se concilier une partie de la bourgeoisie, plus spécialement celle « qui, au temps de Louis-Philippe et sous l’Empire, voit sa puissance économique s’accroître avec une rapidité extrême, c’est-à-dire la bourgeoisie industrielle, urbaine, qui fait à ce moment un effort de production énorme et se croit volontiers dominatrice » (4). Mais en fait cette bourgeoisie a été dupée par les politiciens qui gouvernaient en son nom. Après avoir séparé cette bourgeoisie urbaine des agriculteurs. les politiciens républicains ont excité le peuple contre elle. Et la bourgeoisie qui domine vraiment l’État n’est pas cette bourgeoisie dupée, c’est celle de ce que Maurras appelle « les quatre États confédérés » : les Juifs, les Métèques, les Protestants et les Maçons.

La trahison socialiste

Ce phénomène politique, remarque Valois, échappe au prolétariat, qui n’est pas représenté par les siens au Parlement. Il y a en France un parti socialiste, mais Valois pense, comme Georges Sorel et Édouard Berth, que ce parti ne vaut pas mieux que les autres partis républicains, qu’il est d’ailleurs le complice des partis dits bourgeois. Et il cite à ce sujet l’opinion de Sorel dans ses Réflexions sur la violence :

« Une agitation, savamment canalisée, est extrêmement utile aux socialistes parlementaires, qui se vantent, auprès du gouvernement et de la riche bourgeoisie, de savoir modérer la révolution ; ils peuvent ainsi faire réussir les affaires financières auxquelles ils s’intéressent, faire obtenir de menues faveurs à beaucoup d’électeurs influents, et faire voter des lois sociales pour se donner de l’importance dans l’opinion des nigauds qui s’imaginent que ces socialistes sont de grands réformateurs du droit. Il faut, pour que cela réussisse, qu’il y ait toujours un peu de mouvement et qu’on puisse faire peur aux bourgeois » (5).

Bref, les dirigeants socialistes dupent la classe ouvrière, exactement comme ceux des partis républicains libéraux dupent la classe bourgeoise ; ce ne sont pas de véritables anti-capitalistes, mais les serviteurs d’un capitalisme étranger, auquel ils sacrifient le mouvement syndical. « C’est pourquoi, écrit Valois, les républicains nourrissent une hostilité irréductible à l’égard du mouvement syndicaliste, et c’est ce qui doit montrer à nos camarades qui sont profondément pénétrés de la nécessité de l’action syndicale que l’État républicain et l’organisation syndicale ouvrière sont deux faits qui s’excluent l’un l’autre » (6). Certains militants syndicalistes en sont d’ailleurs convaincus, et ils préfèrent l’action directe à une action s’exerçant par l’intermédiaire des pouvoirs publics. Valois se déclare d’accord avec eux, mais il entend leur faire admettre que leur esprit de classe n’est nullement incompatible, bien au contraire, avec l’adhésion à la monarchie.

Ce n’est pas, précise Valois, la violence révolutionnaire qui peut effrayer les militants monarchistes, qui comptent dans leurs rangs plus de non-possédants que de possédants. Les monarchistes rejettent la révolution sociale parce qu’elle représente l’extension à la vie économique de l’erreur politique démocratique, parce qu’elle introduirait la démagogie au cœur de la production. Il y aurait sans doute une réaction contre les conséquences de cette démagogie, mais les travailleurs en seraient les premières victimes : « Il se constituerait rapidement, dans chaque groupe de producteurs, une petite aristocratie qui régnerait sur la masse par la terreur et la corruption, embrigaderait une sous-aristocratie par de menues faveurs, et imposerait ainsi à la majorité la même loi de travail qu’imposent aujourd’hui les capitalistes, et en profiterait » (7). De plus, la révolution entraînerait la disparition de l’or, lequel constitue une garantie irremplaçable. Pour en retrouver, les révolutionnaires devraient faire appel aux capitalistes soi-disant favorables à leur cause, c’est-à-dire aux capitalistes juifs. « C’est vers eux, écrit Valois, que l’on se tournera pour résoudre le problème de la circulation des produits interrompue par l’absence d’or, et si l’on ne songe pas à eux tout d’abord, leurs agents, juifs et non juifs, seront chargés de diriger les pensées vers eux. On leur demandera de l’or, et ils le prêteront ; ils le prêteront en apparence sans exiger de garanties, mais en s’assurant en fait des garanties solides ». Les travailleurs ne se libéreraient d’une exploitation nationale que pour tomber sous le joug d’une exploitation internationale, plus dangereuse parce que plus puissante. « Il est probable qu’un terrible mouvement antisémite se développerait et se manifesterait par le plus beau massacre de Juifs de l’histoire ; mais les Juifs feraient alors appel aux armes étrangères pour leur défense, et se maintiendraient avec le concours de l’étranger, avec qui ils dépouilleraient la nation toute entière » (8). N’oublions pas que ces lignes furent écrites peu après l’affaire Dreyfus, en un temps où l’antisémitisme le plus frénétique fleurissait dans de vastes secteurs de l’opinion française.

L’appel au roi, solution sociale

Pour éviter ce remplacement de l’exploitation présente par une exploitation plus dure encore, Valois ne voit qu’une solution : l’appel au roi. Le roi ne saurait être le défenseur d’une seule classe sociale ; il est l’arbitre indépendant et souverain dont toutes les classes ont besoin pour défendre leur intérêt commun. Il ne peut souhaiter que la prospérité générale de la nation, et donc la prospérité de la classe ouvrière. « Il sait que des bourgeois, ou des politiciens qui n’ont aucune profession avouable, ne peuvent en aucune manière représenter le peuple des travailleurs ; pour connaître les besoins de la classe ouvrière, il appelle donc dans ses conseils les vrais représentants de cette classe, c’est-à-dire les délégués des syndicats, des corporations, des métiers. Le roi doit donc non seulement favoriser, mais provoquer le développement intégral de l’organisation ouvrière, en faisant appel à ce qui lui donne son caractère rigoureusement ouvrier : l’esprit de classe. En effet, pour que les républiques ouvrières envoient auprès du roi leurs vrais représentants, il faut qu’elles soient impénétrables à tout élément étranger à la classe ouvrière ; il faut donc que les travailleurs aient une vive conscience de classe qui les amène à repousser instinctivement les politiciens, les intellectuels et les bourgeois fainéants qui voudraient pénétrer parmi eux pour les exploiter » (9).

L’esprit de classe ainsi envisagé ne conduit donc pas à la lutte de classe au sens marxiste du terme, il n’est pas question d’établir la dictature du prolétariat ; la bourgeoisie a un rôle nécessaire à jouer dans la société nationale, et il importe qu’elle joue ce rôle en développant au maximum l’effort industriel. Les ouvriers ont besoin de patrons, et même, dit Valois, de patrons « durs », car la classe ouvrière préfère infiniment des capitalistes ardents au travail, et sachant rémunérer les services rendus, que des patrons « philantropiques », dont l’attitude est pour elle offensante. Autrement dit, l’égoïsme vital du producteur est préférable à la bienveillance du paternaliste, à condition que cet égoïsme soit orienté dans le sens de l’intérêt national.

Telles étaient les idées que Georges Valois tentait de répandre dans les milieux ouvriers. Certaines réponses au questionnaire qu’il avait adressé à des personnalités syndicalistes sur la Monarchie et la classe ouvrière le fortifièrent dans ses convictions. Ces personnalités étaient en effet d’accord avec lui pour penser que « le régime républicain parlementaire est incompatible avec l’organisation syndicale, et que la République est essentiellement hostile aux classes ouvrières » (10). La raison de cet état de choses résidait pour Valois dans le libéralisme hérité de 89, ennemi des associations ouvrières détruites par la loi Le Chapelier. Mais il prenait soin de montrer que le socialisme n’était pas un remède aux maux du libéralisme. « Les systèmes socialistes collectivistes, écrivait-il, développent les principes républicains, transportent le principe de l’égalité politique dans l’économie, et, construits en vue d’assurer à tous les hommes des droits égaux et des jouissances égales, ils refusent aux citoyens, comme le fait l’État républicain, le droit de « se séparer de la chose publique par un esprit de corporation ». En face de la collectivité propriétaire de tous les biens, en face de l’État patron, les travailleurs sont privés du droit de coalition. Ils devront subir les conditions de travail qui seront établies par la collectivité, pratiquement par l’État, c’est-à-dire par une assemblée de députés, et ils ne pourront les modifier que par l’intermédiaire de leurs députés... » (11).

Refusant l’étatisme socialiste, Valois condamnait également l’anarchie, celle-ci refusant les disciplines syndicales aussi bien que toutes les autres, et étant « en rébellion aussi bien contre les nécessités de la production que contre les lois des gouvernements ».

Les syndicats doivent avant tout se défendre contre la pénétration d’éléments qui tentent de les politiser. Valois s’inquiète à ce propos de l’évolution de la Confédération générale du travail, victime des conséquences d’une centralisation abusive : « Mille syndicats, cinquante fédérations, réunis par leurs chefs dans un seul organisme, loin de leurs milieux naturels, installés dans des bureaux communs, où pénètre qui veut, sont sans défense contre la bande de journalistes, d’intellectuels et de politiciens sans mandat qui envahissent les bureaux, qui rendent des services personnels aux fonctionnaires syndicaux, recherchent leur amitié et leur demandent, non l’abandon de leurs principes mais une collaboration secrète. Le péril pour le syndicalisme est là » (12).

Pour rendre à la vie syndicale son vrai caractère, il faut revenir à la vie corporative : non pas ressusciter les anciennes corporations, mais fonder de nouvelles associations professionnelles répondant aux nécessités modernes. Toutefois, Valois est formel sur ce point : aucune nouvelle vie corporative ne sera possible tant que la démocratie parlementaire ne sera pas remplacée par la monarchie.

Valois à l’Action française

Les idées politiques et sociales de Georges Valois s’accordaient donc exactement avec celles de Maurras et de L’Action française. Cependant Maurras ne fit pas immédiatement appel à lui pour traiter des questions économiques et sociales dans sou journal : il préférait dans ce domaine la collaboration de disciples de La Tour du Pin, plus modérés ou plus effacés que Valois. Ce dernier chercha à s’exprimer dans des publications autonomes. La création d’une revue réunissant des syndicalistes et des nationalistes, La Cité française, fut décidée. Georges Sorel, qui avait promis sa collaboration, rédigea lui-même la déclaration de principe. « La démocratie confond les classes, y lisait-on, afin de permettre à quelques bandes de politiciens, associés à des financiers ou dominés par eux, l’exploitation des producteurs. Il faut donc organiser la cité en dehors des idées démocratiques, et il faut organiser les classes en dehors de la démocratie, malgré la démocratie et contre elle. Il faut réveiller la conscience que les classes doivent posséder d’elles-mêmes et qui est actuellement étouffée par les idées démocratiques. Il faut réveiller les vertus propres à chaque classe, et sans lesquelles aucune ne peut accomplir sa mission historique » (13).

Mais la Cité française ne fut qu’un projet. Selon Pierre Andreu, historien de Georges Sorel, c’est l’Action française, « voulant s’assurer à la faveur d’une querelle Valois-Variot une sorte de mainmise occulte sur l’avenir de la revue », qui empêcha celle-ci de voir le jour. Les jeunes « soréliens » de l’Action française ne se découragèrent pas, et en mars 1911, Valois créait avec Henri Lagrange le Cercle Proudhon. Les plus audacieux, et les plus ouverts des jeunes intellectuels de l’Action française furent attirés par ce groupe, dont Maurras approuvait les intentions. Mais Georges Sorel se montrait maintenant sceptique sur la possibilité de. défendre la pensée syndicaliste en subissant trop étroitement l’influence maurrassienne. L’éclatement de la guerre de 14 mit un terme à cette tentative de réunion des éléments monarchistes et syndicalistes.

Cette tentative portait cependant quelques fruits. Georges Valois prit la parole dans les congrès de l’Action française de 1911, 1912 et 1913, afin d’expliquer aux militants « bourgeois » du mouvement les raisons pour lesquelles ils devaient souhaiter l’alliance des syndicalistes, victimes du régime démocratique. Ses interventions obtinrent un grand succès, ce qui n’est pas surprenant, car le tempérament « révolutionnaire » des militants d’Action française leur permettait de comprendre le point de vue de Valois, même lorsqu’il faisait appel à des notions ou à des principes assez éloignés, du moins en apparence, de leurs propres convictions traditionalistes.

D’autre part, Valois fut bientôt appelé à diriger une maison d’édition, la Nouvelle librairie nationale, destinée à grouper les auteurs membres ou amis de l’Action française. Maurras, Daudet, Bainville, Bourget et aussi Maritain et Guénon, furent parmi les auteurs de cette maison, qui devait subsister jusqu’en 1927. Mobilisé en 1914, Valois put reprendre son activité en 1917. Outre la direction de la Nouvelle librairie nationale, il décida de donner une nouvelle impulsion à son action sociale. Il eut l’idée de créer des sociétés corporatives, et d’organiser des semaines - notamment du Livre et de la Monnaie - pour mieux faire comprendre la portée concrète de ses idées. « Tout cela, écrira-t-il plus tard, était pour moi la construction de nouvelles institutions. Les gens de l’Action française n’y comprenaient absolument rien. Je cherchais le type nouveau des assemblées du monde moderne. Pendant que les gens de l’Action française continuaient de faire des raisonnements, je travaillais à la construction de ces institutions ».

En parlant de la sorte des « gens d’Action française », Georges Valois vise évidemment les dirigeants et les intellectuels du mouvement, et non ses militants, auprès desquels il jouissait d’une importante audience. Il se heurtait en effet à une certaine méfiance de la part des comités directeurs de l’Action française, qui n’avaient sans doute jamais pris très au sérieux les intentions du Cercle Proudhon. Pour éclaircir la situation, Valois eut un entretien avec Maurras et Lucien Moreau. Il déclara à Maurras que, selon lui, il fallait maintenant préparer la prise du pouvoir, et ne plus se contenter de l’action intellectuelle. Il lui demanda s’il avait un plan de réalisation de ses idées. « Maurras, écrit-il, fut extrêmement embarrassé par mes questions. Il nous fit un discours d’une demi-heure pour me démontrer que, nécessairement, il avait toujours pensé à faire ce qu’il disait. Je lui demandais des ordres, il n’en donna aucun. Alors je lui indiquai un plan et lui déclarai qu’il était absolument impossible de faire adhérer les Français à la monarchie ; que la seule chose possible était de sortir du gâchis parlementaire par une formule pratique, de faire une assemblée nationale et d’y poser les questions fondamentales » (14).

Il y avait donc eu, chez Valois, une évolution assez sensible par rapport à ses positions d’avant 1914. À ce moment-là, il ne s’employait pas seulement à faire comprendre aux monarchistes traditionalistes la légitimité du syndicalisme, mais aussi à faire comprendre aux syndicalistes la nécessité de la monarchie. En 1922, l’idée de rallier les élites du monde du travail à la solution monarchiste lui semblait donc assez vaine. D’autre part, il ne s’intéressait plus seulement aux forces ouvrières, mais, semble-t-il, à l’ensemble des forces économiques du pays. Le doctrinaire élargissait son horizon, peut-être parce que les nécessités de l’action l’obligeaient à le faire.

Son idée principale était de lancer à travers toute la France une « convocation des États généraux », créant ainsi la représentation réelle des forces nationales, par opposition à la représentation artificielle du parlementarisme. Maurras pouvait difficilement être contre un principe aussi conforme à sa doctrine, et notamment à sa fameuse distinction entre le pays réel et le pays légal. Il donna donc son accord pour ce projet. Celui-ci n’eut qu’un commencement de réalisation, l’assassinat par une militante anarchiste du meilleur ami de Valois à l’Action française, Marius Plateau, ayant interrompu le travail en cours. Les autres dirigeants de l’Action française étaient plus ou moins hostiles au projet de Valois, auquel ils préféraient la préparation de leur participation aux élections de 1924. Mais à ces élections, les candidats de l’Action française furent largement battus.

C’est alors que Georges Valois songea à mener son combat en marge de l’Action française, sans rompre cependant avec celle-ci. Il prépara notamment « une action en direction des Communistes, pour extraire des milieux communistes des éléments qui n’étaient attachés à Moscou que par déception de n’avoir pas trouvé jusque-là un mouvement satisfaisant pour les intérêts ouvriers ». Naturellement, l’action comportait une large participation ouvrière à tout le mouvement, par incorporation de militants ouvriers au premier rang du mouvement (15). Pour appuyer cette action, Valois décidait de créer un hebdomadaire, Le Nouveau Siècle.

Dans le premier numéro du journal, paru le 25 février 1925, on peut lire une déclaration que vingt-huit personnalités - parmi lesquelles Jacques Arthuys, Serge André, René Benjamin, André Rousseaux, Henri Ghéon, Georges Suarez, Jérôme et Jean Tharaud, Henri Massis - ont signée aux côtés de Valois. Le Nouveau Siècle, y lit-on notamment, est fondé pour « exprimer l’esprit, les sentiments, la volonté » du siècle nouveau né le 2 août 1914. Il luttera pour les conditions de la victoire, que l’on a volée aux combattants : « Un chef national, la fraternité française, une nation organisée dans ses familles, ses métiers et ses provinces, la foi religieuse maîtresse d’elle-même et de ses œuvres ; la justice de tous et au-dessus de tous ».

« Nous travaillerons, disent encore les signataires, à former ou à reformer les légions de la victoire, légions de combattants, de chefs de familles, de producteurs, de citoyens ». On peut penser qu’il s’agit de faire la liaison entre différents mouvements nationaux tels que l’Action française, les Jeunesses patriotes et quelques autres. Mais le 11 novembre de cette même années 1925, Georges Valois annonce la fondation d’un nouveau mouvement, le Faisceau, qui sera divisé en quatre sections : Faisceau des combattants, Faisceau des producteurs, Faisceau civique et Faisceau des jeunes.

La ressemblance avec le fascisme italien est évidente. Valois a d’ailleurs salué l’expérience italienne avant de fonder son parti. Le mouvement fasciste, dit-il, est « le mouvement par lequel l’Europe contemporaine tend à la création de l’État moderne ». Ce n’est pas une simple opération de rétablissement de l’ordre : c’est la recherche d’un État nouveau qui permettra de faire concourir toutes les forces économiques au bien commun. Mais Valois souligne le caractère original du mouvement : « Le fascisme italien a sauvé l’Italie en employant des méthodes conformes au génie italien, le fascisme français emploiera des méthodes conformes au génie français ».

valois2livre.jpgMaurras se fâche

Maurras n’avait pas fait d’objections à ce que Valois entreprit un effort parallèle à celui de l’Action française. Valois fut bientôt désagréablement surpris de voir que Maurras cherchait à faire subventionner L’Action française par le principal commanditaire de son propre hebdomadaire, qu’il avait lui-même encouragé à aider l’Action française à un moment donné. D’autres difficultés surgirent. Maurras reprocha à Valois l’orientation qu’il donnait à sa maison d’édition. Mais Valois eut surtout le sentiment que les campagnes de son hebdomadaire « concernant les finances, la monnaie et la bourgeoisie », déplaisaient souverainement, sinon à L’Action française elle-même, du moins à certaines personnalités politiques ou financières avec lesquelles L’Action française ne voulait pas se mettre en mauvais termes. Un incident vint transformer ces difficultés en pure et simple rupture. Tout en animant son hebdomadaire, Valois continuait à donner des articles à L’Action française. Maurras lui écrivit à propos de l’un d’eux, regrettant de ne pas avoir pu supprimer cet article faute de temps, et se livrant à une vive critique de fond :

« Il suffit de répondre « non » à telle ou telle de vos questions pour laisser en l’air toute votre thèse. Il n’est pas vrai que « la » bourgeoisie soit l’auteur responsable du parlementarisme. Le régime est au contraire né au confluent de l’aristocratie et d’une faible fraction de la bourgeoisie (...) Les éléments protestants, juifs, maçons, métèques y ont joué un très grand rôle. L’immense, la déjà immense bourgeoisie française n’y était pour rien. Pour rien. « Maigre rectification historique ? Je veux bien. Mais voici la politique, et cela est grave. Depuis vingt-six ans, nous nous échinons à circonscrire et à limiter l’ennemi ; à dire : non, la révolution, non, le parlementarisme, non, la république, ne sont pas nés de l’effort essentiel et central du peuple français, ni de la plus grande partie de ce peuple, de sa bourgeoisie. Malgré tous mes avis, toutes mes observations et mes adjurations, vous vous obstinez au contraire, à la manœuvre inverse, qui est d’élargir, d’étendre, d’épanouir, de multiplier l’ennemi ; c’est, maintenant, le bourgeois, c’est-à-dire les neuf dixièmes de la France. Eh bien, non et non, vous vous trompez, non seulement sur la théorie, mais sur la méthode et la pratique. Vous obtenez des résultats ? Je le veux bien. On vous dirait en Provence que vous aurez une sardine en échange d’un thon. Je manquerais à tous mes devoirs si je ne vous le disais pas en toute clarté. Personne ne m’a parlé, je n’ai vu personne depuis que j’ai lu cet article et ai dû le laisser passer, et si je voyais quelqu’un, je le défendrais en l’expliquant, comme il m’est arrivé si souvent ! Mais, en conscience, j’ai le devoir de vous dire que vous vous trompez et que cette politique déraille. Je ne puis l’admettre à l’AF ».

Pour Georges Valois, l’explication de l’attitude de Maurras était claire : « Maurras et ses commanditaires avaient toléré ma politique ouvrière, tant qu’ils avaient pu la mener sur le plan de la littérature, mais du jour où je déclarais que nous passions à l’action pratique, on voulait m’arrêter net » (16).

Entre les deux hommes, une explication décisive eut lieu. Maurras reprocha notamment à Valois de détourner de l’argent de L’Action française vers son propre hebdomadaire. Valois contesta bien entendu cette affirmation, et démissionna de l’Action française et des organisations annexes de celle-ci auxquelles il appartenait.

La rupture était-elle fatale ? Y avait-il réellement incompatibilité totale entre la pensée de Maurras et celle de Valois ? Il est intéressant d’examiner à ce propos les « bonnes feuilles » d’un livre de Valois, parues dans l’Almanach de l’Action française de 1925 - c’est-à-dire un peu plus d’un an avant sa rupture avec celle-ci - livre intitulé : La révolution nationale. (Notons en passant que c’est probablement à Valois que le gouvernement du maréchal Pétain emprunta le slogan du nouveau régime de 1940).

Valois affirme d’abord que l’État français a créé une situation révolutionnaire, parce qu’il s’est révélé « totalement incapable d’imaginer et d’appliquer les solutions à tous les problèmes nés de la guerre ». Et selon Valois, cette révolution a commencé le 12 août 1914 avec ce que Maurras a appelé la monarchie de la guerre : c’est le moment où l’esprit héroïque s’est substitué à l’esprit mercantile et juridique. Mais après l’armistice, l’esprit bourgeois a repris le dessus, et cet esprit a perdu la victoire. Les patriotes le comprennent, ils se rendent compte qu’ils doivent détruire l’État libéral et ses institutions politiques, économiques et sociales, et le remplacer par un État national.

À l’échec du Bloc national - faussement national, selon Valois -, succède l’échec du Bloc des gauches. Ces deux échecs n’en font qu’un : c’est l’échec de la bourgeoisie, qu’elle soit conservatrice, libérale ou radicale. « La bourgeoisie s’est révélée impuissante, en France comme dans toute l’Europe, au gouvernement des États et des peuples ». Valois n’entend pas nier les vertus bourgeoises, qui sont grandes lorsqu’elles sont à leur place, c’est-à-dire dans la vie municipale et corporative, économique et sociale, mais il estime qu’elles ne sont pas à leur place à la tête de l’État. C’est qu’originairement, le bourgeois est l’homme qui a restauré la vie économique, dans des villes protégées par les combattants, qui tenaient les châteaux-forts et chassaient les brigands. Pour l’esprit bourgeois, de ce fait, « le droit, c’est un contrat, tandis que le droit, pour le combattant, naît dans le choc des épées. La loi bourgeoise a été celle de l’argent, tandis que la loi du combattant était celle de l’héroïsme ».

La paix ayant été restaurée, l’esprit bourgeois a voulu commander dans l’État. Or l’esprit bourgeois ne peut réellement gouverner : et le pouvoir est usurpé par les politiciens et la ploutocratie. L’illusion bourgeoise consiste à croire que la paix dépend de la solidarité économique, alors qu’elle dépend d’abord de la protection de l’épée. L’exemple de Rome le prouve : la paix romaine a disparu quand l’esprit mercantile l’a emporté sur l’esprit héroïque.

À la tête de l’État national dont rêve Valois, il y aura évidemment le roi, dont l’alliance avec le peuple sera le fruit de la révolution nationale. Et Valois veut espérer que certains Français, « qui paraissent loin de la patrie aujourd’hui », se rallieront à cette révolution, et notamment certains communistes : « Parmi les communistes, il y a beaucoup d’hommes qui ne sont communistes que parce qu’ils n’avaient pas trouvé de solution au problème bourgeois ». Le communisme leur dit qu’il faut supprimer la bourgeoisie, mais cette solution est absurde : la seule solution réaliste consiste à remettre les bourgeois à leur place, et au service de l’intérêt national. « Quand cette solution apparaît, le communiste est en état de changer ses conclusions, s’il n’a pas l’intelligence totalement fermée. Alors, il s’aperçoit qu’il n’est pas autre chose qu’un fasciste qui s’ignore ».

À l’époque où Valois écrit ces lignes, Mussolini est au pouvoir depuis deux ans. Valois n’ignore pas que son maître Georges Sorel est l’un des doctrinaires contemporains qui ont le plus fortement influencé le chef du nouvel Flat italien. Et il estime que le fascisme n’est pas un phénomène spécifiquement italien, qu’il y a dans le fascisme des vérités qui valent pour d’autres pays que l’Italie :

« Il y a une chose remarquable : le fascisme et le communisme viennent d’un même mouvement. C’est une même réaction contre la démocratie et la ploutocratie. Mais le communisme moscovite veut la révolution internationale parce qu’il veut ouvrir les portes de l’Europe à ses guerriers, qui sont le noyau des invasions toujours prêtes à partir pour les rivages de la Méditerranée. Le fasciste latin veut la révolution nationale, parce qu’il est obligé de vivre sur le pays et par conséquent d’organiser le travail sous le commandement de sa loi nationale ».

L’œuvre de la révolution nationale ne se limitera pas à la restauration de l’État ; celle-ci étant accomplie, la France prendra l’initiative d’une nouvelle politique européenne :

« Alors, sous son inspiration (la France), les peuples formeront le faisceau romain, le faisceau de la chrétienté, qui refoulera la Barbarie en Asie ; il y aura de nouveau une grande fraternité européenne, une grande paix romaine et franque, et l’Europe pourra entrer dans le grand siècle européen qu’ont annoncé les combattants, et dont les premières paroles ont été celles que Maurras a prononcées au début de ce siècle., lorsque par l’Enquête sur lu monarchie, il rendit à l’esprit ses disciplines classiques ».

Dans ce même Almanach de l’Action française, on peut lire également un reportage d’Eugène Marsan sur l’Italie de Mussolini. L’un des principaux dirigeants fascistes, Sergio Panunzio, ayant déclaré que le nouvel Etat italien devait être fondé sur les syndicats, Eugène Marsan commente :

« Une monarchie syndicale, pourquoi non ? Le danger à éviter serait un malheureux amalgame du politicien et du corporatif, qui corromprait vite ce dernier et rendrait vaine toute la rénovation. Puissent y songer tous les pays que l’on aime. Un siècle de palabre démocratique nous a tous mis dans un chaos dont il faudra bien sortir ».

Ce commentaire correspond exactement aux idées de Valois, telles que nous les avons examinées ci-dessus. Il faut noter également qu’il vient en conclusion d’un article extrêmement élogieux pour Mussolini et son régime. Or l’Almanach d’Action française était un organe officiel de celle-ci, les articles qui y paraissaient étaient évidemment approuvés par Maurras. Ce dernier avait-il changé d’avis sur l’Italie fasciste un an plus tard. en 1926 ? Rien ne permet de l’affirmer, au contraire : douze ans après, en 1937, Maurras lui-même publiait dans Mes idées politiques, un vibrant éloge du régime mussolinien. Remarquons encore que l’on peut lire dans ce même Almanach d’AF de 1925 un article d’Henri Massis figurant entre celui de Valois et celui de Marsan, sur « L’offensive germano-asiatique contre la culture occidentale », et dénonçant la conjonction du germanisme et de l’orientalisme contre la culture gréco-latine. On sait que Maurras voyait précisément dans le fascisme une renaissance latine, et qu’il comptait beaucoup sur le rôle qu’une Italie forte pourrait jouer dans une éventuelle union latine pour résister à la fois à l’influence germanique et à l’influence anglo-saxonne en Europe. La position de Georges Valois concernant le fascisme s’accordait donc avec ses propres vues.

C’est plutôt, semble-t-il, les positions de Valois en politique intérieure française qui provoquèrent son inquiétude. La lettre que nous avons citée prouve que l’« antibourgeoisisme » de Valois, admis par Maurras en 1925. lui parut inquiétant l’année suivante. Toutefois ce dissentiment d’ordre doctrinal aurait peut-être pu s’arranger, sans les malentendus qui s’accumulaient entre les dirigeants de l’Action française et Georges Valois. À tort ou à raison, certains membres des comités directeurs de l’Action française - et notamment Maurice Pujo - persuadèrent Maurras que Valois, loin de servir l’Action française, ne songeait qu’à s’en servir au profit de son action personnelle. Dans un tel climat, la rupture était inévitable.

L’heure du faisceau

Après avoir démissionné de l’Action française, Valois décida de fonder un nouveau mouvement politique : ce fut la création du Faisceau, mouvement fasciste français. La parenté du mouvement avec le fascisme italien se manifestait non seulement par sa doctrine. mais aussi par le style des militants, qui portaient des chemises bleues. Si Valois n’entraîna guère de militants d’Action française, il obtint en revanche l’adhésion d’un certain nombre de syndicalistes, heureux de sa rupture avec Maurras. À la fin de l’année 1925, le Faisceau bénéficiait de concours assez importants pour que Valois pût décider de transformer le Nouveau Siècle hebdomadaire en quotidien.

Mais, pour ses anciens compagnons de l’Action française, Georges Valois devenait ainsi un gêneur et même un traître, dont il fallait au plus vite ruiner l’influence. En décembre 1925, les camelots du roi réussirent à interrompre une réunion du Faisceau. Un peu plus tard, les militants de Valois se vengèrent en organisant une « expédition » dans les locaux de l’Action française. Le quotidien de Maurras déclencha une très violente campagne contre Valois, qu’il accusait d’être en rapport avec la police, d’avoir volé les listes d’adresses de l’Action française au profit de son mouvement, d’avoir indûment conservé la Nouvelle librairie nationale, d’émarger aux fonds secrets, et enfin d’être à la solde d’un gouvernement étranger, le gouvernement italien.

Après une année de polémiques, Valois intenta un procès à l’Action française. Ce fut l’un des plus importants procès de presse de cette époque : le compte-rendu des débats, réuni en volume, remplit plus de six cents pages. On entendit successivement les témoins de l’Action française et ceux de Valois. Rien n’est plus pénible que les querelles entre dissidents et fidèles d’un même mouvement, quel qu’il soit. De part et d’autre, les années de fraternité, de luttes communes pour un même idéal, sont oubliées : les dissentiments du présent suffisent à effacer les anciennes amitiés. Il en fut naturellement ainsi au procès Valois-Action française.

Nous n’évoquerons pas ici les discussions des débats, concernant mille et un détails de la vie du journal et du mouvement de Maurras. Nous dirons seulement que le compte-rendu du procès prouve que la querelle relevait davantage de l’affrontement des caractères que des divergences intellectuelles.

Les dirigeants de l’Action française insistèrent avant tout sur le « reniement » de Georges Valois, qui traitait Charles Maurras de « misérable » après l’avoir porté aux nues. L’un des avocats de l’Action française, Marie de Roux, donna lecture d’un hommage de Valois destiné à un ouvrage collectif, dans lequel le futur chef du Faisceau écrivait notamment :

« Maurras possède le don total du commandement. Ce n’est pas seulement ce don qui fait plier les volontés sous un ordre et les entraîne malgré ce mouvement secret de l’âme qui se rebelle toujours un peu au moment où le corps subit l’ordre d’une autre volonté. Le commandement de Maurras entraîne l’adhésion entière de l’âme ; il persuade et conquiert. L’homme qui s’y conforme n’a pas le sentiment d’être contraint, ni de subir une volonté qui le dépasse ; il se sent libre ; il adhère ; le mouvement où il est appelé est celui auquel le porte une décision de sa propre volonté. Il y a deux puissances de commandement : l’une qui courbe les volontés, l’autre qui les élève, les associe et les entraîne. C’est celle-ci que possède Maurras. Vous savez que c’est la plus rare, la plus grande et la plus heureuse » (17).

Celui qui avait écrit ces lignes avait-il vraiment commis les vilenies que lui reprochait l’Action française ? À distance, l’attitude de Valois ne semble pas justifier ce qu’en disaient ses anciens compagnons. Il avait tenté d’agir selon la ligne qui lui semblait la plus efficace ; Maurras ne l’avait pas approuvé, il avait repris sa liberté. Avait-il vraiment utilisé, pour sa nouvelle entreprise, les listes de l’Action française ? C’est assez plausible mais n’était-ce pas jusqu’à un certain point son droit, s’il estimait que Maurras ne tenait pas ses promesses et qu’il fallait le faire comprendre à ses militants ? L’affaire de la Nouvelle librairie nationale était complexe : Valois y tenait ses fonctions de l’Action française, mais il avait beaucoup fait pour la développer, et il était excusable de considérer que cette entreprise d’édition était plus ou moins devenue sienne. Quant aux accusations les plus graves - l’émargement aux fonds secrets, l’appartenance à la police et les subventions du gouvernement italien - l’Action française faisait état d’indices et de soupçons, plutôt que de preuves. On constatait que l’action de Valois devenu dissident de l’Action française divisait les forces nationalistes, on en concluait qu’elle devait avoir l’appui de la police politique ; celle-ci se réjouissait certainement de cet état de choses, mais cela ne suffisait pas à prouver qu’elle l’eût suscité. De même, les fonds relativement importants dont disposait Georges Valois pouvaient provenir aussi bien de capitalistes, désirant dans certains cas garder l’anonymat, que des fonds secrets. Les subventions du gouvernement italien étaient une autre hypothèse : Valois avait été reçu par Mussolini, il connaissait certaines personnalités du fascisme italien ; cela permettait des suppositions, et rien de plus.

Sans doute était-il gênant, pour Georges Valois, d’entendre rappeler l’éloge qu’il avait fait de l’homme qu’il traitait désormais de « misérable ». Mais on assistait, dans l’autre camp, à un phénomène analogue. Si Valois n’était plus pour Maurras, depuis la fondation du Faisceau, que « la bourrique Gressent, dit Valois » ou « Valois de la rue des Saussaies », il avait été tout autre chose peu de temps auparavant. Le 12 octobre 1925, Maurras, annonçant à ses lecteurs la fondation du Nouveau Siècle, s’exprimait en ces termes :

« Je n’ai pas la prétention d’analyser la grande œuvre de spéculation et d’étude que Valois accomplit dans les vingt ans de sa collaboration à l’Action française. Les résultats en sont vivants, brillants, et ainsi assez éloquents ! de la librairie restaurée et développée à ces livres comme Le Cheval de Troie, confirmant et commentant des actes de guerre ; des admirables entreprises de paix telles que les Semaines et les États généraux à ces pénétrantes et décisives analyses de la situation financière qui ont abouti à la Ligue du franc-or, et aux ridicules poursuites de M. Caillaux. Georges Valois, menant de front la pensée et l’action avec la même ardeur dévorante et le même bonheur, a rendu à la cause nationale et royale de tels services qu’il devient presque oiseux de les rappeler ».

La déviation mussolinienne

Valois sortit vainqueur de sa lutte judiciaire contre l’Action française. Les membres du comité directeur du mouvement qu’il avait poursuivis furent condamnés à de fortes amendes. Mais cette victoire judiciaire ne fut pas suivie d’une victoire politique.

À sa fondation, le Faisceau avait recruté un nombre important d’adhérents, et le journal Le Nouveau Siècle avait obtenu des collaborations assez brillantes. Mais ni le nouveau parti, ni le nouveau journal ne purent s’imposer de façon durable. En 1927, le Faisceau déclinait rapidement ; le Nouveau Siècle quotidien redevenait hebdomadaire, et disparut l’année suivante. Cet échec avait plusieurs causes. La violente campagne de l’Action française contre Valois impressionnait vivement les sympathisants de. celle-ci et l’ensemble des « nationaux ». Le style para-militaire, l’uniforme que Valois imposait à ses militants paraissaient ridicules à beaucoup de gens. D’autre part, l’opinion publique se méfiait d’un mouvement s’inspirant trop directement d’un régime politique étranger. Les bailleurs de fonds du mouvement et du journal s’en rendirent compte, et coupèrent les vivres à Valois. Celui-ci fut bientôt mis en accusation par certaines personnalités du mouvement : né d’une dissidence, le Faisceau eut lui-même ses dissidents, entraînés par l’un des fondateurs du mouvement, Philippe Lamour Valois restait avec quelques milliers de partisans ; ceux-ci se séparèrent finalement de lui, pour former un Parti fasciste révolutionnaire, dont l’existence ne fut pas moins éphémère que celle du Faisceau.

Valois s’était efforcé de rompre avec les schémas idéologiques de l’Action française, aussitôt après l’avoir quittée. Férocement antisémite au début de son action, il estimait en 1926 que la rénovation économique et sociale qu’il appelait de ses vœux ne pouvait aboutir sans la participation des Juifs :

« Supposez que les Juifs entrent dans ce prodigieux mouvement de rénovation de l’économie moderne, et vous vous rendrez compte qu’ils y joueront un rôle de premier ordre, et qu’ils hâteront l’avènement du monde nouveau. « À cause de leur appétit révolutionnaire. À cause également de vertus qui sont les leurs, et qui s’exercent avec le plus grand fruit dans une nation sachant les utiliser. « En premier lieu, la vertu de justice. Il est connu dans le monde entier que les Juifs ont un sentiment de la justice extraordinairement fort. « C’est ce sentiment de la justice qui les portait vers le socialisme. Faites que ce sentiment s’exerce vers le fascisme, qui, parallèlement au catholicisme, aura une action sociale intense, et vous donnerez un élément extraordinaire à la vie juive » (18).

Cet appel à la compréhension des « fascistes » envers les Juifs ne pouvait évidemment que déconcerter les anciens militants d’Action française que Valois avait groupés dans le Faisceau. D’autant plus qu’à cette ouverture envers Israël, Valois ajoutait quelques mois plus tard un renoncement à l’idéal monarchique au profit de la République :

« Nous avons tous au Faisceau le grand sentiment de 1789, la grande idée de la Révolution française et que résume le mot de la carrière ouverte aux talents. C’est-à-dire aux possibilités d’accession de tous aux charges publiques. Nous sommes ennemis de tout pouvoir qui fermerait ses propres avenues à certaines catégories de citoyens. Là-dessus nous avons tous la fibre républicaine » (19).

Regrettant de plus en plus d’avoir fait trop de concessions au capitalisme et à la bourgeoisie, Valois se montrait décidé à rompre avec la droite :

« Nous ne sommes ni à droite ni à gauche. Nous ne sommes pas pour l’autorité contre la liberté. Nous sommes pour une autorité souveraine forte et pour une liberté non moins forte. Pour un État fortement constitué et pour une représentation nouvelle régionale, syndicale, corporative. « Ni à gauche ni à droite. Et voulez-vous me laisser vous dire que nous ne voyons à droite aucun groupe, aucun homme capable de faire le salut du pays. Et que nous en voyons parmi les radicaux, les radicaux-socialistes et même chez les socialistes, mais que ceux-ci sont désaxés par des idées absurdes » (20).

Puis, non content d’avoir répudié le monde de droite, Georges Valois renoncera également à n’être « ni à droite, ni à gauche ». Il constatera en effet que ce dépassement des vieilles options classiques de la vie politique française et européenne est au-dessus de ses forces. Il avait espéré que le fascisme était précisément la solution pour un tel dépassement. Ce qu’il apprend de l’évolution italienne le déçoit profondément. Mussolini, estime-t-il, s’oriente maintenant « dans le sens réactionnaire ». Il voudrait que le fascisme français « puisse l’emporter sur un fascisme italien dévié, et que l’Europe tienne ce fascisme français pour le type du fascisme ». Mais il ne tardera pas à s’apercevoir qu’aucun avenir politique n’est possible pour ses amis et lui s’ils gardent les vocables de fascisme et de Faisceau, définitivement associés par les partis de gauche à la pire réaction.

L’échec de la République syndicale

Ce n’est donc pas pour le maintien d’une politique « ni à droite, ni à gauche » mais bien pour un retour à la gauche que Georges Valois va se décider. En mars 1928, à l’heure où Le Nouveau Siècle disparaît, Valois publie un Manifeste pour la République syndicale. Tout en affirmant que « le fascisme a accompli en France sa mission historique, qui était de disloquer les vieilles formations, de provoquer, au-delà des vieux partis, le rassemblement des équipes de l’avenir », l’ancien leader du Faisceau opte maintenant pour un État gouverné par les syndicats. En quoi il ne fait que revenir aux aspirations de sa jeunesse, d’avant la rencontre de Maurras.

La publication du Manifeste est rapidement suivi de la fondation par Valois et son fidèle ami Jacques Arthuys du Parti républicain syndicaliste. Parmi les personnalités qui donnent leur adhésion à cette nouvelle formation figure notamment René Capitant, futur ministre du général de Gaulle. Mais, de l’aveu même de Valois, ce parti ne sera en fait qu’un groupe d’études, sans influence comparable à celle du Faisceau.

Dès lors, Valois s’exprimera surtout à travers plusieurs revues, tout en continuant à publier des essais sur la conjoncture politique de son temps. Les revues qu’il suscitera s’appelleront Les Cahiers bleus, puis Les Chantiers coopératifs, et enfin Le Nouvel Âge. Parmi leurs collaborateurs, on doit citer notamment Pietro Nenni, le grand leader socialiste italien, Pierre Mendès-France, Bertrand de Jouvenel et Jean Luchaire : quatre noms qui suffisent à situer l’importance de l’action intellectuelle de Georges Valois dans les années de l’entre-deux-guerres.

Dans son étude sur Valois, M. Yves Guchet (21) remarque le caractère quasi-prophétique de certaines intuitions de ce dernier. C’est ainsi que dans Un nouvel âge de l’Humanité, Valois amorce une analyse de l’évolution du capitalisme que l’on trouvera plus tard chez des économistes américains tels que Berle et Means, et aussi Galbraith, dans Le nouvel état industriel. Mais le drame de Georges Valois est d’arriver trop tôt, dans un monde où certaines vérités ne seront finalement comprises ou reconnues qu’après de terribles orages.

Vers 1935, Valois tente de se faire réintégrer dans les formations de gauche. Il n’y parvient pas. Si l’Action française ne lui pardonne pas d’avoir renié la monarchie et d’être retourné au socialisme, les partis de gauche, eux, refusent d’oublier son passé. C’est en vain qu’il écrit à Marceau Pivert pour solliciter son admission au Parti socialiste : d’abord acceptée, sa demande sera finalement rejetée par les hautes instances de ce parti.

En fait, l’ancien fondateur du Faisceau est désormais condamné à l’hétérodoxie par rapport aux formations politiques classiques. Son anti-étatisme, notamment, le rend suspect aux animateurs du Front populaire. Valois pense comme eux que le communisme est intellectuellement et politiquement supérieur au fascisme, mais il estime que, tout comme les dirigeants italiens, les dirigeants soviétiques ont trahi leur idéal initial en construisant une société socialiste privée de liberté.

Brouillé avec la majorité de ses anciens amis - ceux de gauche comme ceux de droite - Valois épuise son énergie dans de nombreux procès contre les uns et les autres, tandis que son audience devient de plus en plus confidentielle. Qui plus est, sa pensée devient parfois contradictoire : ancien apologiste des vertus viriles suscitées par la guerre, il se proclame soudain pacifiste devant l’absurdité d’un éventuel conflit mondial, tout en reprochant à Léon Blum de ne pas soutenir militairement l’Espagne républicaine...

Georges Valois appartenait à cette catégorie d’esprits qui ne parviennent pas à trouver le système politique de leurs vœux, et dont le destin est d’être déçus par ce qui les a passionné. Mais c’était aussi, de toute évidence, un homme qui ne se résignait pas à la division de l’esprit public par les notions de droite et de gauche. Ce qui l’avait séduit avant tout, dans l’idée monarchique, c’était la possibilité de mettre un terme à cette division, d’unir les meilleurs éléments de tous les partis, de toutes les classes sociales, dans un idéal positif, à la fois national et social. Ayant constaté que l’idée monarchique se heurtait à trop d’incompréhension ou de méfiance dans certains milieux, et notamment dans le milieu ouvrier, il pensa que l’idée fasciste, étant une idée neuve et moderne, permettrait plus aisément l’union des meilleurs. Sans doute se remit-il mal de cette double déception.

Cette volonté d’unir les meilleures forces nationales existait aussi chez Charles Maurras, mais de manière plus théorique, plus abstraite. Convaincu d’avoir raison, d’avoir trouvé la doctrine la plus conforme à l’intérêt national, il se Préoccupait au fond assez peu de l’hostilité qu’il suscitait dans de très vastes secteurs de l’opinion française. Valois, au contraire, ne pouvait supporter la pensée que les meilleurs éléments populaires fussent hostiles à son propre combat politique. S’il en était ainsi, pensait-il, c’est qu’il y avait dans la doctrine elle-même quelque chose qui devait être modifié. Telle est l’explication psychologique de ses positions successives. En un mot, Valois voulait agir sur les masses, ce qui apparaissait à Maurras comme une tendance démagogique.

serant10.jpgAu moment où il fonda son mouvement, Valois était persuadé que l’Action française n’en avait plus pour bien longtemps. Ce fut le contraire : l’Action française, forte de sa doctrine et de son organisation, survécut largement au Faisceau. On peut conclure de cette erreur d’appréciation que les qualités proprement politiques de Valois étaient médiocres, et que l’Action française n’eut pas à regretter beaucoup son départ.

Et cependant, Valois voyait juste lorsqu’il se préoccupait d’accorder les idées politiques de Maurras avec les grands courants sociaux du début du siècle, et de compléter l’action politique par l’action sociale. Sans doute était-il très difficile de réunir, au sein d’un même mouvement, des éléments de l’aristocratie et de la bourgeoisie traditionaliste et des éléments du syndicalisme ouvrier et paysan : mais c’était bien dans cette direction qu’il fallait tenter d’agir. Maurras éprouvait peu d’intérêt pour les questions économiques et sociales : sa formule : « L’économique dépend du politique », lui servait d’alibi pour les ignorer. Mais un mouvement politique du vingtième siècle ne pouvait pas impunément négliger les grandes luttes sociales ; s’il les négligeait, il limitait son influence à certains milieux, consommant ainsi cette division de 1a nation qu’il réprouvait en principe.

Maurras, qui avait montré de la compréhension, de la sympathie même, pour l’action des syndicats vers 1914, semble s’y être beaucoup moins intéressé par la suite. Dans le monde ouvrier français et européen, l’influence de Marx l’avait emporté sur celle de Proudhon et de Sorel ; et la politisation du mouvement syndical se poursuivait clans le sens que l’on sait. Pour Maurras, le devoir était de combattre cette mauvaise politique à laquelle adhérait plus ou moins ardemment la classe ouvrière ; la défaite des partis de gauche permettrait la libération du syndicalisme français. Le monde ouvrier ne pouvait entendre un tel langage : il assimilait le combat contre les partis de gauche à un combat contre la classe ouvrière en elle-même. Telle était l’équivoque dont Valois, après Sorel, avait senti le danger, et qu’il avait voulu à tout prix éviter. Les succès de. ses conférences, les recherches du Cercle Proudhon, prouvaient que quelque chose dans ce sens était possible. En admettant que Maurras ait eu de bonnes raisons de prendre ses distances vis-à-vis de Valois, il commit probablement une erreur en réduisant la place des questions économiques et sociales dans son journal et dans la vie de son mouvement : le drame de l’Action française, comme des autres ligues nationalistes, fut de ne pas avoir de doctrine sociale précise à opposer aux campagnes du Front populaire.

Au lendemain de la Libération, on apprit que Georges Valois, arrêté par les Allemands pour son action dans un mouvement de résistance, était mort au camp de Bergen-Belsen. Son ami Jacques Arthuys, co-fondateur du Faisceau, ayant également choisi la Résistance, était lui aussi mort en déportation. Bientôt, l’un des premiers militants du Faisceau, fondateur en 193 ? d’un second mouvement fasciste français, Le Francisme, Marcel Bucard, tombait, lui, sous les balles de l’épuration après avoir été condamné pour collaboration. Le fascisme français dans son ensemble était assimilé à l’ « intelligence avec l’ennemi », et le mouvement de Georges Valois était oublié : Arthuys et lui-même furent de ces morts de la Résistance dont les partis politiques victorieux préféraient ne pas parler, puisqu’ils n’avaient pas été des leurs.

Paul Sérant in Les dissidents de l’Action française, Copernic, 1978, chapitre I, pp. 13-36.


Notes

1 - G. Valois, Basile ou la calomnie de la politique, Librairie Valois, 1927, introduction, p. X. 2 - C. Maurras, L’Action française, 1er et 4 août 1908. 3 - Cf. P. Andreu, Notre Maître, M. Sorel, Grasset, 1953, p. 325. 4 - G. Valois, Histoire et philosophie sociale – La révolution sociale ou le roi, Nouvelle librairie nationale, 1924, p. 288. 5 - Op. cit., p. 292. 6 - Ibid., p. 295. 7 - Ibid., p. 302. 8 - Ibid., pp. 307-308. 9 - Ibid., p. 313. 10 - Ibid., p. 356. 11 - Ibid., p. 360. 12 - Ibid., pp. 365-366. 13 - Cf. P. Andreu, Notre Maître, M. Sorel, pp. 327-328. 14 - G. Valois, Basile ou la calomnie de la politique, introduction, p. XVII-XVIII. 15 - Op. cit., p. XX. 16 - Ibid., p. XXX. 17 - Charles Maurras par ses contemporains, Nouvelle librairie nationale, 1919, pp. 43-44. 18 - Le Nouveau Siècle, 25 février 1926. 19 - Ibid., 21 juin 1926. 20 - Ibid., 28 novembre 1926. 21 - Y. Guchet, Georges Valois – L’Action française, le Faisceau, la République syndicale, éd. Albatros, 1975, pp. 206-207.

dimanche, 14 mars 2010

Notice sur Raymond De Becker

Notice sur Raymond De Becker

Ex: http://www.objectiftintin.com/

Moulinsart
Né en janvier 1912 à Schaerbeek, Raymond De Becker fréquente dès l'adolescence les cercles de l'Action Catholique dont la plupart des militants sont partagés entre monarchisme maurrassien et fascisme italien. Jeune homme enthousiaste et charismatique, Raymond impressionne son entourage par son intelligence et sa culture encyclopédique. En 1929, il rencontre Hergé pour la première fois au sein de la Jeunesse Indépendante Catholique dont il est le secrétaire général. Impressionné par ce brillant cadet, le père de Tintin accepte de dessiner pour "l'Effort", le bulletin de la J.I.C., et d’illustrer les propres ouvrages de Raymond : "Le Christ, roi des Affaires" (1930), "Pour un Ordre Nouveau" (1932) et "Destin de la France" (1937). Convaincu d’avoir un rôle important à jouer dans les années à venir, Raymond De Becker acquiert de plus en plus d’assurance : il s’éloigne du catholicisme et ne craint plus d’affirmer son homosexualité. Politiquement, il s’implique davantage et commence à fréquenter les salons germanophiles bruxellois. En décembre 1939, il fonde l’hebdomadaire neutraliste "L’Ouest" dans lequel Hergé publie les "exploits" de Monsieur Bellum, caricature du Belgicain francophile et va-t-en-guerre. Peu diffusé, encore moins lu, "L’Ouest" cesse rapidement de paraître.


La victoire des troupes de Hitler et l’Occupation sont accueillies favorablement par Raymond De Becker : le temps est venu pour lui d’exposer et d’imposer ses projets politiques au plus grand nombre. Dès l’été 1940, les autorités allemandes lui confient la direction du "Soir", le principal quotidien belge. Raymond ne manque pas de solliciter Hergé qui, le 17 octobre, entame dans le journal de son ami une nouvelle aventure de Tintin : "Le Crabe aux Pinces d'Or". Très vite, la ligne éditoriale du "Soir" se radicalise : déjà farouchement anticommuniste, De Becker n’hésite plus à publier des articles violemment antisémites. Parallèlement, il tente de fonder un "Parti Unique des Provinces Romanes" qui défendrait les intérêts des populations wallonnes dans la nouvelle Europe, mais les Occupants n’approuvent pas ce projet qui pourrait faire de l’ombre à Rex, le parti de Degrelle. A l’automne 1943, Raymond De Becker n’est plus convaincu de la victoire du Reich : il clame son intention d’abandonner la politique de Collaboration. Arrêté le 5 octobre, il est placé en résidence surveillée dans les Alpes bavaroises. Il y demeure jusqu’à la fin des hostilités puis rentre en Belgique où il se constitue prisonnier le 9 mai 1945.


Le 24 juillet 1946, le Conseil de Guerre de Bruxelles le condamne à mort, notamment pour avoir "ébranlé la fidélité des citoyens envers le Roi et l’Etat". Un an plus tard, sur appel, sa peine est commuée en prison à perpétuité puis, par voie de grâce, réduite à 17 ans de réclusion. Le 22 février 1951, De Becker est finalement libéré à condition de quitter sans délai la Belgique et de s’abstenir de toute activité politique et éditoriale. Pendant la détention de son ami, Hergé n’avait cessé de l'encourager et de correspondre avec lui. Raymond délivré, le dessinateur l’aide à se loger décemment à Paris et parvient même à lui trouver un emploi d’"inspecteur des ventes dans les librairies suisses".


En prison, Raymond De Becker s’était vivement intéressé à la psychanalyse. En liberté, il devient rapidement le principal exégète de l’œuvre de Carl Gustav Jung qu’il rencontre à plusieurs reprises. De Becker encourage Hergé à lire les ouvrages du père de l’"Inconscient Collectif" et à entamer une psychanalyse auprès de son disciple, le docteur Riklin.


En quête d’un nouvel auditoire, Raymond ne cesse de publier. D’une insatiable curiosité, il explore des domaines particulièrement variés : le cinéma ("De Tom Mix à James Dean, ou le mythe de l’Homme dans le cinéma américain", Fayard, 1959) , l’homosexualité ("L’Erotisme d’en face", Pauvert, 1964), le paranormal ("Les Machinations de la Nuit", Planète, 1965) ou encore les philosophies orientales ("L’Hindouisme et la crise du monde moderne", Planète, 1966). Dans les locaux de la revue "Planète", il côtoie deux très bons amis de Hergé : le scientifique Bernard Heuvelmans et l’"initié" Jacques Bergier (Mik Ezdanitoff dans "Vol 714 pour Sydney").


Jusqu’à sa mort à Paris, en 1969, Raymond De Becker sera pour Georges Remi plus qu’un ami fidèle : un véritable passeur qui, grâce à ses ouvrages et à ses conseils de lecture, l’aidera à surmonter ses crises, à tendre vers cette sérénité que le père de Tintin désirait plus que tout.

Entourage de Hergé

(Objectif Tintin remercie grimonpont, le capitaine Haddock, Tryphon Tournesol, Moulinsart, Jolyon Wagg, Tan Tan & Milou pour cet article :-)

mercredi, 04 novembre 2009

Hommage à Friedrich Naumann: visionnaire européen et homme politique national-libéral

0405x51a.jpgAnton SCHMITT:

Hommage à Friedrich Naumann: visionnaire européen et homme politique national-libéral

 

Les partis politiques de la République Fédérale allemande cherchent tous à se donner des  traditions spécifiques, ancrées dans leur propre histoire. Au cours de ces cinquante dernières années, la CDU, rassemblement de conservateurs, de catholiques, de libéraux et de nationaux, n’a pas cherché à se donner une légitimité historique et ne s’est pas davantage donné de ligne politique claire; ce n’est pas  le cas chez les sociaux-démocrates et les libéraux. Ces deux familles politiques donnent aux fondations et aux agences fédérales proches de leur parti le nom de personnalités historiques qui ont jadis structuré ou promu le parti.

 

La fondation proche de la FDP libérale a reçu le nom de Friedrich Naumann, mort il y a 90 ans. Naumann était né le 25 mars 1860 à Leipzig, dans la famille d’un pasteur évangélique. Après son examen dit de “maturité”, il s’en alla étudier la théologie évangélique à Leipzig et Erlangen. Sur la scène politique allemande, il se manifeste pour la première fois à l’âge de 21 ans en adhérant au VDSt (“Verein Deutscher Studenten” ou “Association des Etudiants Allemands”), un association étudiante d’inspiration nationale. De cette association naîtra plus tard le “Kyffhäuser Verband”. En 1883, Naumann accepte un poste à la “Rauhes Haus”, une institution sociale établie à Hambourg. En 1886, il est nommé pasteur à Glauchau en Saxe puis s’installe à la “Mission Intérieure” à Francfort sur le Main en 1890. Il vise à promouvoir une rénovation fondamentale du protestantisme. Lors du Congrès évangélique-social, structure nouvellement fondée, il devient porte-paroles d’un groupe chrétien-social  d’inspiration libérale. A partir de 1896, il mettra toujours davantage l’accent sur la nécessité de s’engager politiquement et fonde, dans cette optique, le “Nationalsozialer Verein” (“Association nationale et sociale”) et édite la revue “Die Hilfe”  que reprendra plus tard Theodor Heuss, qui devint le premier président de la République Fédérale allemande après 1945. Les deux hommes vont propager l’idée d’un libéralisme socialement responsable. Après la fusion entre le “Nationalsozialer Verein” et la “Freisinnige Vereinigung” (“Union libre-penseuse”), Friedrich Naumann obtient un mandat au Reichstag. Il sera désormais membre du parlement allemand jusqu’à sa mort, à l’exception d’une très brève interruption.

 

Parallèlement à ce mandat politique, le “Naumannkreis” ou “Cercle Naumann” rassemble tous les esprits se définissant comme “libéraux”, qu’ils appartiennent à la grande bourgeoisie, aux classes moyennes ou au monde ouvrier; Theodor Heuss, Gustav Stresemann, Max Weber, Luja Brentano et Hellmut von Gerlach oeuvreront au sein de ce réseau associatif. En 1910, Naumann  tente d’unifier tous les groupements libéraux de gauche et plaide pour une coopération active au sein du Reichstag avec les sociaux-démocrates. En 1914, il soutient le gouvernement dès qu’éclatent les hostilités mais rejette tout projet d’annexions trop importantes. Au lieu de cela, Naumann se fait l’avocat d’une fusion volontaire des Etats et puissances d’Europe centrale (Mitteleuropa) pour des motivations essentiellement économiques. Il veut donc une fédération économique étroite des pays centre-européens, flanquée d’une politique de développement des pays d’Europe orientale et d’Europe balkanique. A l’automne 1915 paraît son ouvrage “Mitteleuropa”, où il couche ses idées sur le papier. Rapidement, ce livre devient le plus lu de tous les écrits évoquant les buts de guerre de l’Allemagne. “Mitteleuropa” fut donc le travail qui exprima au mieux l’alternative que proposaient les civils aux annexions sauvages préconisées par les militaires, qui n’auraient provoqué  que des morcellements inutiles, assortis d’irrédentismes chez les nations lésées qui auraient crié vengeance. L’idée d’une “Europe des Patries”, formulée plus tard par De Gaulle, remonte en fait à Naumann. Les structures du pouvoir de l’époque et la pensée des élites monarchistes auraient contrecarré la réalisation du plan “mitteleuropéen” de Naumann, aurait rejeté la fusion volontaire de toutes les entités politiques centre-européennes car une telle fusion impliquait un droit élargi à l’autonomie, une auto-limitation de tous les nationalismes devenus exacerbés au cours du conflit, une auto-limitation dictée par le nécessité que les sentiments de supériorité déclarés ne pouvaient toutefois pas admettre.

 

En 1917, Naumann soutient au Reichstag une résolution émanant de tous les partis de centre-gauche en faveur d’une paix de compromis. Et pour améliorer et garantir la qualité du personnel politique en Allemagne, il fonde, toujours en 1917, la “Staatsbürgerschule” à Berlin (“L’école des citoyens”) qui  deviendra, à partir de 1920, la “Hochschule für Politik” (“Haute école de politique”). En 1918, on parvient enfin à rassembler les nombreux courants libéraux en deux partis, la DDP, libérale de gauche, et la DVP, libérale de droite. Naumann devient président de la DDP. Comment opérait-on, à l’époque, la distinction entre “libéraux de gauche” et “libéraux  de droite”? Ils se distinguaient par leurs attitudes différentes sur la question sociale, qui ne peuvent plus s’expliquer aujourd’hui par la terminologie et les concepts actuels. Naumann représentara, en tant que président du parti, la DDP à la Commission constitutionnelle. Avec son parti, il luttera publiquement contre la signature du Traité de Versailles. Naumann espérait que le redressement de l’Allemagne s’opèrerait par des réformes spirituelles-intellectuelles , comme ce fut le cas de la Prusse après sa défaite face aux armées napoléoniennes.

 

Le 24 août 1919, Naumann meurt à Travemünde des suites d’une thrombose. Son décès prématuré, l’assassinat de Walther Rathenau par d’anciens combattants des Corps Francs, ensuite la mort de Gustav Stresemann, ministre libéral des affaires étrangères, priveront la jeune démocratie allemande de ses  plus prestigieuses personnalités. Elles vivantes, la communauté populaire allemande aurait pu s’opposer efficacement aux bandes qu’Adolf Hitler et Ernst Thälmann ont lancées dans les rues. Dans ce contexte, il ne faut pas oublier non plus la mort prématurée du social-démocrate Friedrich Ebert. Theodor Heuss, Marie Elisabeth Lüders, Gertrud Bäumer et Wilhelm Heile ont tenté de poursuivre l’oeuvre intellectuelle de Naumann.

 

La FDP actuelle est un parti pour rire: son principal intérêt économique est de plaire aux grands  consortiums; elle a, disons-le en utilisant un euphémisme, un rapport assez difficile avec la question sociale. Rien ne rappelle l’oeuvre de Naumann dans cette FDP allemande. L’héritage de Naumann, dans l’espace linguistique allemand, n’est-il pas davantage incarné par la FPÖ autrichienne?

 

Anton SCHMITT.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°34/2009; traduction française: Robert Steuckers).

vendredi, 11 septembre 2009

Une biographie d'Henry de Monfreid

Une biographie d'Henry de Monfreid signée Francis Bergeron...

 

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Le monde des vertueux n'a jamais cessé de m'accabler, on m'a voulu négrier, vendeur de femmes, je fus opiomane, mais moi, contrairement à beaucoup d'autres, devant ma glace, chaque matin, je peux me serrer la main.

 

Henry de Monfreid est, avec Jack London, l'un des seuls authentiques aventuriers-écrivains. L'un tenté par le socialisme, l'autre par le fascisme, tout devrait les opposer, mais leur indifférence au danger et au "qu'en-dira-t-on" les fait se rejoindre dans la quête inassouvie d un absolu individualiste. L'œuvre de Monfreid, très autobiographique, se lit comme un roman. Mais le faux et le vrai se mêlent, surtout quand le héros, lui, a souvent le beau rôle. Ce pourrait être une première raison de ne pas aimer Monfreid. Il y en a mille autres encore : il a vécu du trafic de drogue ; il assure ne pas s' être livré à la traite des noirs, mais, là où il vivait, la frontière était étroite entre esclave et serviteur ; le trafiquant d'armes qu'il fut peut-il garantir n'avoir jamais traité avec l'ennemi ? Toutes ses femmes, européennes ou indigènes, les a-t-il rendu heureuses ?  Les a-t-il même aimé ? Quelle dureté avec certains de ses enfants ! Où sont passés les tableaux de Gauguin ? Combien de ses employeurs Monfreid a-t-il volé ? N'a-t-il pas du sang sur les mains ? Opiomane, converti à l'islam, initié à la franc-maçonnerie, peut-il être érigé en modèle ? Ce Qui suis-je ? Monfreid montre que l'auteur des Secrets de la Mer Rouge symbolise le génie propre à un Européen qui, fût-il seul, plongé dans un univers totalement étranger et hostile, sait triompher. Monfreid donne cette leçon de courage : prison, fortune, prison, fortune, prison ; les séquences se succèdent, mais, toujours, il relève la tête. C'est bien une sorte de héros, malgré tout. Un homme à admirer. Et à lire. 

Source : Cercle du 6 février

 

Qui suis-je? Henry de Monfreid par Francis Bergeron
128 pages - 12 euros (frais de port en sus)
A commander à : Editions Pardès 44, rue Wilson 77880 Grez-sur-Loing

jeudi, 02 avril 2009

De Machiavelli van het Elysee

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De Machiavelli van het Elysée

Een onthutsende kijk in de keuken van politicus François Mitterrand (1916-1996)

In een kritische biografie over ‘oompje’ Mitterrand wisselen intriges, verraad en wraak elkaar snel af. De president vernederde een rivaal desnoods net zo lang ‘tot hij door hem heen keek.’
Vincent Gounod: François Mitterrand. Een biografie. Aspekt, 633, €45,-
In 2006 bloeide de liefde tussen de Fransen en François Mitterrand ineens weer op. Tien jaar na zijn dood greep de tontonmania – een troetelnaam afgeleid van tonton, ‘oompje’ – om zich heen. In films, herinneringen en biografieën werd de staatsman gekoesterd en de socialistische politicus gekieteld. Nogal ironisch. Immers, Mitterrand was na afloop van zijn ambtstermijn in 1995 bij het grof vuil gezet. Het volk had zijn buik vol van het met schandalen omgeven fin de règne.

Het recentelijk verschenen François Mitterrand surft nadrukkelijk niet op gevoelens van nostalgie. Evenmin hanteert de auteur de kettingzaag. In plaats van ‘tonton’ laat Vincent Gounod het beeld domineren van de ‘Sfinx’ – die andere bijnaam van Mitterrand. Deze biografie is een knappe synthese van bestaande levensbeschrijvingen die de afgelopen tien jaar zijn verschenen. Bekende journalisten zoals Jean Lacouture en Pierre Péan of voormalige mitterrandistes als Jacques Attali en Hubert Védrine waren vol lof of schreven hun verbittering van zich af. Aanvullend materiaal haalde Gounod uit interviews met politici, onder wie de extreemrechtse Jean-Marie Le Pen, voormalig premiers Laurent Fabius en Edith Cresson of Mitterrand-vertrouweling Roland Dumas.

Gounods interpretatie is kritisch maar in balans. Mitterrand was geen ideoloog maar een machtspoliticus pur sang. Geen nieuw inzicht, maar Gounod overtuigt omdat hij precies analyseert, met veel gevoel voor de historische context en politieke omgeving, hoe Mitterrand politiek bedreef en, omgekeerd, zelf door de politiek gedreven werd. Dit levert een juweel van een Nederlandstalige politieke biografie op over de Mitterrand als machtspoliticus.

Gounod plaatst Mitterrands route naar het Élysée en zijn invulling van de macht prachtig in het perspectief van de naoorlogse Franse politiek en politieke cultuur. Intriges, verraad, wraak en – incidenteel – genade in Mitterrands dans om de politieke macht wisselen elkaar in adembenemend tempo af in de twee delen ‘ambitie’ en ‘macht’ waaruit het boek bestaat.

Haat
Gounod staat uitvoerig stil bij de diepgewortelde haat die Mitterrand koesterde tegen politieke vijanden, ook rivalen binnen zijn partij. Zo vernederde hij dertig jaar lang zijn partijgenoot en rivaal Michel Rocard. Uiteindelijk, in 1988, bood hij hem het premierschap aan. Een geste van verzoening? Integendeel. ‘Over 18 maanden kunnen we door hem heenkijken’, aldus de president. Rocard hield het bijna drie jaar vol maar was vervolgens politiek opgebrand. Dit voorbeeld tekent Mitterrand als Macher en machiavellist.

Mitterrand werd in 1916 geboren in een katholiek-provinciaal milieu. Tijdens zijn studententijd in Parijs flirtte hij wel met rechts-nationalistische kringen maar, en Gounod staat hier uitgebreid bij stil, een fascist of extreme nationalist was Mitterrand beslist niet. In de oorlog maakt hij carrière in het met de Duitse bezetter collaborerende Vichy-regime. En toen hem duidelijk werd dat de oorlog voor de Duitsers verloren was en er in Vichy geen toekomst schuilde, knoopte Mitterrand contacten aan met het verzet. Onder de schuilnaam Morland steeg zijn ster snel. Later zei hij over deze periode: ‘Mensen zijn niet zwart of wit, mensen zijn grijs.’ Zijn leven lang koesterde hij vriendschappen met personen die fout waren in de oorlog. Loyaliteit aan zijn persoon vond hij belangrijker dan ideologische zuiverheid.

De kneepjes van het politieke vak leerde Mitterrand tijdens de Vierde Republiek (1946-1958). Terwijl regeringen in dit instabiele parlementair systeem over elkaar heen buitelden, hopte het jeune talent vanaf zijn 30ste heel handig van ministerspost naar ministerspost. Terwijl hij genoot van het mondaine Parijse leven en van zijn reputatie als notoir rokkenjager, bekwaamde hij zich in de politique politicienne. Macht stelde hij in dienst van zijn eigen ambities. Gounod vergelijkt hem met een Florentijns prelaat: paternoster in de ene hand, dolk in de ander. In de jaren zestig trok Mitterrand fel van leer tegen president Charles de Gaulle. Diens Vijfde Republiek zag hij als een ‘permanente staatsgreep’. Eenmaal zelf president bleek het prettig toeven in deze autoritaire republiek.

Een ander kenmerk van de burgerlijk conservatieve Mitterrand is dat hij nooit een socialist is geweest maar wel socialistisch leerde spreken. Gounod analyseert dit op fraaie wijze. In 1971, bij zijn machtsgreep binnen de Parti Socialiste (PS), had hij nog geen partijkaart. Zijn filippica tegen de macht van het geld, in combinatie met meesterlijk strategisch manoeuvreren, leverden hem de voorzittershamer op. De PS, een politiek huis met vele kamers, hield hij vervolgens met verdeel-en-heerspolitiek onder controle.

Tamtam
In zijn jacht op het Élysée sloot Mitterrand een strategisch verbond met de communisten, in de jaren zeventig toch nog goed voor twintig procent van het electoraat. Dat hij na de oorlog een rabiate anticommunist was geweest, soit. In 1981, bij zijn derde gooi naar het presidentiële pluche, slaagde hij in zijn ambitie. Maar de met veel tamtam doorgevoerde nationalisaties werden vanaf 1983 teruggedraaid. Uiteindelijk was er weinig socialisme terug te vinden in zijn beleid. Op dezelfde overtuigende wijze toont Gounod ook aan dat Mitterrand geen Europeaan in hart en nieren was. Pas na het echec van het socialistisch experiment bekeerde Mitterrand zich tot Europa. Prestige-overwegingen en zijn eigen plek in de geschiedenisboekjes speelden daarin een grote rol.

Mitterrands presidentschap eindigde in mineur met financiële ophef rond de PS, teleurgestelde vertrouwelingen en zijn verborgen gehouden ziekte. Mitterrand leed vanaf 1981 aan prostaatkanker maar weigerde dat openbaar te maken. Pas vlak voor zijn vertrek uit het Élysée gaf hij openheid van zaken. De doodzieke president stond toen ook toe dat zijn oorlogsverleden werd opgerakeld en dat de Fransen werden ingelicht over Mazarine, zijn dochter uit een buitenechtelijke relatie.

Gounods biografie is rijk gevuld. Het enige dat ontbreekt is meer informatie over de privélevens die Mitterrand leidde of over zijn intellectuele belangstelling. Ook had Gounod aandacht mogen besteden aan een ander belangrijk aspect van de monarchale president: de grands travaux waarmee hij Parijs verfraaide zoals de piramide van het Louvre en de nieuwe Bibliothèque Nationale. Maar dat zijn details. François Mitterrand. Een biografie overstijgt het eenvoudige politieke portret van een president. Dit is ook een ‘handboek politiek’ door de onthutsende kijk in de keuken van het verschijnsel machtspolitiek.

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jeudi, 01 janvier 2009

Une figure du 20ème siècle : James Connolly

Une figure du 20ème siècle, James Connolly

Image Hosted by ImageShack.usMarxiste, révolutionnaire, syndicaliste et Irlandais. C’est ainsi que l’on peut définir James Connolly (1868-1916). S’il fut un infatigable rédacteur d’articles et auteur d’essais, il fut aussi un militant proche des ouvriers dont il défendait la cause que ce soit en Écosse, aux États-Unis ou en Irlande. Il est l’un des dirigeants de l’insurrection de Pâques 1916, les « Pâques sanglantes ».

La jeunesse

James Connolly (Séamas O Conghaile en gaélique) est né le 5 juin 1868 à Édimbourg, dans une famille d’origine irlandaise, émigrée suite aux famines des années 1840. Des conditions de vie misérables le font très tôt entrer en contact avec le monde du travail, puisqu’il est successivement apprenti imprimeur, apprenti boulanger et apprenti dans une tuilerie à Edimbourg, à partir des années 1878-1879. En 1882 (il a 14 ans) il s’engage au 1er bataillon du King’s Liverpool Regiment qui est affecté en Irlande, ce premier contact avec le pays de ses ancêtres s’avérera décisif ; il y rencontre Lillie Reynolds qui deviendra sa femme en 1889.

Les années écossaises

En 1889, son batailon revient en Angleterre et geste incompréhensible, à quatre mois de la fin de son engagement, il déserte l’armée anglaise, et s’exile en Écosse. Le 13 avril, il épouse Lillie Reynolds à Perth. À Édimbourg, il fait la connaissance du Français Léo Melliet, un communard qui fut maire du quartier des Gobelins en 1870. Ces années écossaises sont celles de l’apprentissage politique, au contact des militants socialistes (il rencontre à plusieurs reprises la fille de Karl Marx, Eleonor Aveling) et autres révolutionnaires, mais aussi de l’étude du Marxisme. Trois ans plus tard, il est nommé secrétaire de la Scottish Socialist Federation ; ses premiers articles sont publiés dans Justice, le journal de la Social Democratic Federation (SDF). En 1894 et 1895 il se présente par deux fois aux élections municipales de St Giles Ward à Edimbourg, ce sont deux échecs. Connolly, sans emploi, sa famille connaît la misère. John Leslie loue dans Justice les qualités rédactionnelles et organisationnelles de son ami ; la réponse vient d’Irlande, Le Dublin Socialist Club lui propose un poste de permanent.

L’activiste en Irlande

L’année suivante, il revient donc en Irlande pour s’y installer et travaille désormais au Dublin Socialist Club dont il veut faire une organisation marxiste. Le 29 mai, il crée, avec sept autres socialistes, le l’Irish Socialist Republican Party dont il est secrétaire. Au mois d’octobre, publication de son essai « L’Irlande aux Irlandais » dans Labour Leader et parallèlement « The Rights of Ireland and the Faith of a Felon » de James Fintan Lalor.

Au mois de mars 1897, nouvelle publication : « Erin’s Hope : The End and the Means ». Il est arrêté au mois de juin, alors qu’il participe à des manifestations contre le jubilé de la reine Victoria. À la fin de l’année il fonde le Club 98 pour commémorer la révolution de 1798. Il entreprend avec Maud Gonne la rédaction d’un manifeste sur le problème de la famine : « Les Droits de la vie et les Droits de la propriété ». Au mois de juin de cette année 1898, il se rend en Écosse et rencontre Keir Hardie du Independent Labour Party. Le 13 août il lance son journal Worker’s Republic dont la parution irrégulière (85 numéros) se poursuivra jusqu’en mai 1903 (une deuxième série hebdomadaire du Worker’s Republic paraîtra du 29 mai 1915 au 22 avril 1916 à Dublin. Le congrès de la IIe Internationale se déroule à Paris en 1900, E. W. Stewart et John Lying sont les représentants de l’Irish Socialist Republican Party.

1901 voit la publication de « The New Evangel » ; Connolly est élu au Trades Council de Dublin. En janvier de l’année suivante, il est candidat malheureux aux élections municipales de Dublin. Au mois d’août il participe à des meetings aux États-Unis à l’invitation du Socialist Labor Party de Daniel De Leon. Il collabore avec la rédaction de The People à New York 1903, après une nouvelle défaite électorale aux municipales, il part en tournée en Écosse où il préside en juin à Edimbourg le meeting inaugural du Socialist Labor Party (SLP), une dissidence de la Social Democratic Federation (SDF). De retour à Dublin, l’Irish Socialist Republican Party se transforme en section Irlandaise du SLP.

Le séjour américain

En septembre, Connoly part s’installer aux États-Unis, il prend un emploi d’agent d’assurance et adhère au SLP de De Leon. Il prend connaissance de la situation des Irlandais qui ont émigré antérieurement. Sa famille le rejoindra au mois d’août de l’année suivante. En 1906, il adhère à l’Industrial Workers of the World (IWW) syndicat, créé en 1905 par Eugene Debs ; il milite notamment auprès des travailleurs des usines Singer. Au mois de janvier 1907, il est élu à la direction du SLP, puis en mars il crée l’Irish Socialist Federation (ISF). En octobre, il démissionne du SLP suite à une violente polémique avec De Leon et achève la rédaction de « Mouvement ouvrier dans l’histoire irlandaise ». En janvier suivant, il crée The Harp, le journal de l’ISF à New York, tout en poursuivant son action au sein de l’IWW ; en décembre, il publie « Le Socialisme pour tous ». Au mois de juin 1909, Connolly est élu organisateur national du Socialist Party of America, dont le leader n’est autre qu’Eugene Debs. Connolly considérera son émigration comme une erreur et, témoin de l’évolution de la situation en Irlande, décide de rentrer.

Les dernières années

Le 16 juillet 1910, il est de retour en Irlande et en août il adhère au Socialist Party of Ireland (SPI), et s’en va créer les sections de Belfast et de Cork. Il poursuit son activité littéraire en publiant successivement Mouvement ouvrier, Nationalité et Religion, puis Mouvement ouvrier dans l’histoire irlandaise. 1911 voit son installation à Belfast (mars) et son adhésion au syndicat Irish Transport and General Workers’ Union (ITGWU). En octobre, il coordonne la grève des ouvrières dans les minoteries de Belfast et participe à la création d’une section textile de l’ITGWU. L’année suivante, il est l’un des co-fondateurs de l’Irish Labour Party (ILP) dont il rédige le programme. En janvier 1913, création de l’Ulster Volunteer Force (UVF - unioniste). Le 26 août marque le début de la grève générale à Dublin et le 31 de violents affrontements entre policiers et grévistes font une victime, une jeune ouvrière et des dizaines de blessés. Connolly est arrêté, il entame une grève de la faim et est relâché le mois suivant. Le 23 novembre, c’est la création de l’Irish Citizen Army (ICA - nationaliste) par James Connolly et James Larkin ; le but est de protéger les ouvriers et les grévistes. L’ICA sera une des composantes de l’IRA (Irish Republican Army). Dés 1914, Connolly se prononce contre la partition de l’Irlande et au mois d’août prend position contre la guerre dans un article de l Irish Worker. Parallèlement, il est nommé président de l’Irish Neutrality League (INL). Le 24 octobre, Larkin émigre aux États-Unis, Connolly occupe le poste de secrétaire général de l’ITGWU. Il prend la direction de l’Irish Worker (bientôt interdit par les autorités) et le commandement de l’ICA. 1915 est une année de préparation, annonciatrice de celle qui va suivre : outre l’organisation de meetings contre la conscription, il publie des articles sur la lutte armée. Il s’occupe de la formation militaire de l’Irish Citizen Army et négocie avec les Irish Volunteers les conditions d’un soulèvement. En décembre, il publie La Reconquête de l’Irlande au titre prémonitoire.

1916, en janvier il est décidé que le soulèvement aura lieu à Pâques. Le lundi 24 avril 1916, des membres de l’ICA et des Volunteers prennent le contrôle de divers bâtiments dans Dublin (Hotel des Postes, Mendicity Institute, Four Courts, biscuiterie Jacobs, moulins à farine Boland, etc). Proclamation du gouvernement provisoire de la République Irlandaise dont Connolly est vice-président (président : Patrick Pearse), il est aussi commandant général de la division de Dublin de l’Irish Republican Army (IRA - fusion de l’ICA et des Irish Volunteers). Les combats vont durer 6 jours et faire 450 morts et plus de 2600 blessés. Le 27, il est grièvement blessé. Le samedi 29, Pearse propose aux membres du Gouvernement provisoire d’arrêter les combats, dans le but d’épargner la population civile de Dublin ; son avis prévaut en dépit de l’acharnement des jusqu’au-boutistes ; Pearse signe la reddition inconditionnelle de l’armée républicaine irlandaise. La loi martiale décrète 16 exécutions capitales, 3226 arrestations, 1862 internements en Angleterre. Le 9 mai, James Connolly est condamné à mort par la cour martiale, et fusillé le 12 à la prison de Kilmainham à Dublin.

Source : Jeune Bretagne

 


 

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mercredi, 24 décembre 2008

Erasmus Darwin (1731-1802)

 

 

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - DÉCEMBRE 1992

 

Robert STEUCKERS:

DARWIN, Erasmus  (1731-1802)

Né à Elston Hall le 12 décembre 1731, Erasmus Darwin fréquente d'abord l'école de Chesterfield avant d'entrer en 1750 au St. John's College de Cambridge, où il obtint le grade de Bachelor of Art.  En 1754, il part à Edimbourg pour y étudier la médecine. En 1756, il est médecin, d'abord à Nottingham puis à Lichfield et à Radbourne Hall, après son second mariage. Médecin dévoué, Erasmus Darwin se rend célèbre en préchant contre les excès d'alcool. Poète fougueux, sceptique en matières religieuses, matérialiste dans l'esprit du XVIIIième siècle, correspondant de Rousseau, Erasmus Darwin est un précurseur du lamarckisme et de l'évolutionnisme de son petit-fils Charles Darwin. Bon observateur des phénomènes naturels, Erasmus Darwin n'a cependant pas pu transformer ses observations empiriques en théories, comme le fit en 1859 son très célèbre petit-fils. Son ouvrage majeur en quatre volumes, la Zoonomie,  est un monument de la médecine théorique de son époque, qui a indubitablement préparé la voie vers la biologie moderne. Erasmus Darwin meurt le 18 avril 1802 à la suite d'un malaise cardiaque. Ses travaux s'inscrivent dans un contexte familial très précis: son frère aîné, Robert Waring Darwin, écrivit un ouvrage intitulé Principia Botanica,  où l'on découvre déjà des notes très particulières sur les phénomènes biologiques. L'aîné de ses trois fils, issus de son premier mariage, étudie la médecine mais meurt accidentellement d'un malencontreux coup de bistouri lors d'une dissection. Le troisième fils de son premier mariage est le second Robert Waring Darwin, père de Charles Robert, initiateur de l'évolutionnisme. La fille aînée de son second mariage, Violetta Darwin, épouse S. Tertius Galton et sera la mère de Francis Galton, théoricien de l'eugénisme.

Zoonomia, or, the Laws of Organic Life  (Zoonomie, ou lois de la vie organique),  1794-1796

L'intention de l'auteur nous est d'emblée révélée par son traducteur, le médecin gantois Joseph-François Kluyskens: "Faire connaître les loix qui gouvernent tous les corps organisés; partir de ces mêmes loix, dans les corps les plus simples, pour remonter jusqu'à celles qui régissent l'homme, l'être le plus parfait; réduire toutes ces loix qui ont rapport à la vie organique en classes, ordres, genres et espèces, et les faire servir enfin à l'explication des causes des maladies; tel fut le but que se proposa la Docteur Darwin lorsqu'il composa la Zoonomie...".

Erasmus Darwin perçoit un lien entre métaphysique et physiologie, dans le sens où il affirme que nos facultés intellectuelles sont l'effet nécessaire de nos facultés physiques. Descartes, Mallebranche, Locke, Condillac et Hume, explique Erasmus Darwin, manquaient des notions physiologiques nécessaires pour percevoir cet état de chose ou ont négligé d'en faire l'application à leur système. Le corps de la démonstration, dans la Zoonomie, consiste en une exploration des facultés dites "sensoriales" (néologisme utilisé en français par le traducteur de la Zoonomie,  le Dr. Kluyskens). Celles-ci se répartissent en quatre classes, irritation, sensation, volition, association, auxquelles correspondent quatre classes de maladies. 

Les réflexions d'Erasmus Darwin sur l'instinct méritent amplement d'être évoquées; pour notre auteur, l'instinct n'est pas invariable; il est au contraire une sagacité susceptible de modification, se développant d'une manière différente suivant les différentes conjonctures qui en déterminent l'exercice. L'instinct provient donc d'une détermination raisonnée et non pas d'une obéissance aveugle et mécanique à une loi de la nature. La théorie zoonomique d'Erasmus Darwin, très proche du lamarckisme, repose sur un concept d'évolution, où l'action d'une "force vitale intérieure", amorcée par un filament primal originel de substance vivante, provoque le développement graduel de l'ensemble des diverses formes de vie par un processus analogue à celui de la reproduction des végétaux. La Zoonomie contient de ce fait un ensemble de réflexions sur la génération, qui font la nouveauté absolue des idées d'Erasmus Darwin. Sa méthode généalogique part d'une observation des bourgeons dans les arbres pour aboutir aux mammifères en passant par tous les animaux de la création. 

Pour Erasme Darwin, toute pathologie dérive d'un excès ou d'un défaut, d'un mouvement rétrograde des facultés du sensorium; les pathologies consistent de ce fait dans l'aberration des mouvements des fibres vivantes.

(Robert Steuckers).

- Bibliographie. Poésie: The Botanic Garden  (1794-95); The Temple of Nature or the Origin of Society  (1803; publication posthume). Ouvrages scientifiques: Zoonomia; or, the Laws of Organic Life,  in four volumes, London, J. Johnson, 1794-96 (la traduction française est basée sur la 3ième édition anglaise de 1801; Zoonomie, ou lois de la vie organique,  trad. de Joseph-François Kluyskens, en quatre volumes, Gand, P.F.  de Goesin-Verhaeghe, 1810); Phytologia, or the Philosophy of Agriculture and Gardening  (1800). Autres ouvrages: A Plan for the Conduct of female Education in Boarding Schools  (1797).

- Sur Erasmus Darwin: Ernst Krause, Erasmus Darwin, trad. anglaise de W.S. Dallas, avec notice préliminaire de Charles Robert Darwin, 1879; Anna Seward, Memoirs of the Life of Dr. Darwin,  1804 (voir également la correspondance de Miss Anna Seward); Memoirs of Richard Lovell Edgeworth;  John Dowson, Erasmus Darwin, Philosopher, Poet and Physician,  1861; cf. également, Samuel Butler (l'auteur d'Erewhon), Evolution Old and New, où le célèbre romancier tente de faire revivre l'ancien évolutionnisme d'Erasmus Darwin contre le nouvel évolutionnisme de son petit-fils Charles; Leslie Stephen, "Erasmus Darwin", in Leslie Stephen (ed.), Dictionary of National Biography,  vol. XIV, London, Smith, Elder & Co., 1888; D. M. Hassler, Erasmus Darwin,  Twayne, New York, 1973; D. King-Hele, Doctor Darwin: The Life and Genius of Erasmus Darwin, Faber, London, 1977; cf. également: D.R. Oldroyd, Darwinian Impacts. An Introduction to the Darwinian Revolution,  New South Wales University Press, Kensington (Australia), 1980, Open University Press, Milton Keynes (England), 1980. 

 

jeudi, 11 décembre 2008

Une biographie de Carl Schmitt

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Une biographie de Carl Schmitt

Analyse: Paul NOACK, Carl Schmitt. Eine Biographie, Ullstein/Propyläen, Berlin, 1993, 360 p., ISBN 3-549-05260-X.

 

Si les exégèses de l'œuvre de Carl Schmitt sont fort nombreuses à travers le monde depuis quelques années, si les interpréta­tions de sa notion de “décision” ou de sa “théologie politique” se succèdent à un rythme ahurissant, personne ne s'était encore at­telé à écrire une biographie personnelle du prince des politologues européens. Paul Noack (*1925), germaniste, romaniste et histo­rien, ancien rédacteur des rubriques politiques de la Frankfurter Allgemeine Zeitung  et du Münchener Merkur, actuellement profes­seur d'université à Munich, vient de combler cette lacune, en suivant chronologiquement l'évolution de Schmitt, en révélant sa vie de famille, en évoquant ses souvenirs personnels, consignés dans des journaux, des lettres et des entretiens inédits, et en repla­çant l'émergence des principaux concepts politologiques dans le vécu même, dans l'existentialité intime, de l'auteur. Noack sait qu'il est difficile de périodiser une existence, a fortiori quand elle s'étend presque sur tout un siècle, entrecoupé de guerres, de bouleversements, de violences et d'effondrements. Mais dès le départ, toutes les tranches de la première moitié de la longue vie de Schmitt sont marquées par des coupures: l'enfance (1888-1890) par l'arrachement à la patrie de ses ancêtres, l'Eifel mosellan profondément catholique, et l'exil en Sauerland; l'adolescence (1900-1907), elle, est imprégnée d'une éducation humaniste dans une ambiance cléricale édulcorée, qui a abandonné cette “totalité” mobilisatrice et exigeante, propre du catholicisme intransi­geant; la jeunesse (1907-1918) de Schmitt baigne, quant à elle, dans une Grande Prusse dés-hégélianisée, de facture wilhel­mienne, où l'engouement philosophique dominant va au néo-kantisme; le premier âge adulte (1919-1932) se déploie dans une germanité dé-prussianisée, où règne la démocratie parlementaire de Weimar contestée par les divers mouvements nationaux et par la gauche musclée.

 

Bref, cette périodisation claire, qu'a choisie Noack, indique que les bouleversements, les abandons, les relâchements se succè­dent pour aboutir au chaos des dernières années de la République de Weimar et du grand “Crash” de 1929. Cette effervescence, de la Belle Epoque au Berlin glauque où s'épanouisent au grand jour toutes les perversités, est peut-être féconde sur le plan des ruptures, des idées, des modes, des variétés, des innovations artistiques, des audaces théâtrales: elle plaît assurément aux Romantiques de tous poils qui aiment les originalités et les transgressions. Mais Schmitt reproche aux Romantiques, ceux de la première vague comme leurs héritiers à son époque, de s'engouer temporairement pour telle ou telle beauté ou telle ou telle origi­nalité: ils sont “occasionalistes”, “irresponsables”, incapables de développer, affirmer et approfondir des constantes politiques ou conceptuelles. Toute pensée fondée sur le goût ou le plaisir lui est étrangère: il lui faut de la clarté et de l'efficacité. Sa conviction est faite, il n'y changera jamais un iota: le “moi” n'est pas, ne peut pas être, un objet du penser. Celui qui hisse le “moi” au rang d'objet du penser, participe à la dissolution du monde réel. Ne sont réels et dignes de l'attention du penseur que les hommes qui s'imbriquent dans une histoire, s'en déclarent les héritiers et sont porteurs d'une attitude immuable, éternelle, qui incarnent des constances, sans lesquelles le monde et la cité tombent littéralement en quenouille.

 

Cette option, constate Noack, est le meilleur antidote contre le nihilisme et le désespoir. Pour y échapper, l'homme Schmitt entend ne pas être autre chose que lui-même et ses circonstances, notamment un Catholique impérial et rhénan, comme l'ont été ses an­cêtres. C'est dans ces circonstances-là que Schmitt s'imbrique pour ne pas être emporté par le flot des modes de la Belle Epoque ou du Berlin décadant des années 20. La politique, dès lors, doit être servie par une philosophie du droit fondée sur des concepts durs, impassables, éprouvés par les siècles, comme l'ont été ceux de la théologie jadis. Les concepts politiques qu'il s'agit d'élaborer pour sortir de l'ornière doivent être résolument calqués sur ceux de la théologie, s'ils n'en sont pas des reflets rési­duaires, inconscients ou non. Schmitt, au seuil de sa maturité, demeure quelque peu en marge de la “révolution conservatrice”, dont l'objectif majeur, dans le sillage de Moeller van den Bruck et des autres nationalistes de tradition prusso-protestante, était d'approfondir les fondements de l'“idéologie allemande”, née dans le sillage du romantisme et de la guerre de libération anti-napo­léonienne. Cette “idéologie allemande” véhicule, aux yeux de Schmitt, trop de linéaments de ce romantisme et de cet occasiona­lisme qu'il abomine. Ses références seront dès lors romanes et non pas germaniques, plus exactement franco-espagnoles: Donoso Cortès, de Bonald, de Maistre. C'est dans leurs œuvres que l'on trouve les matériaux les plus solides pour critiquer et dé­construire la modernité, pour jeter bas les institutions boîteuses et délétères qu'elle a générées, reponsables des bouleversements et des arrachements que Schmitt a toujours ressenti dans son propre vécu, quasiment depuis sa naissance. Ces institutions libé­rales, insuffisantes selon Schmitt, sont défendues avec brio, à la même époque, par Hans Kelsen et son école positiviste. Schmitt juge ce libéral-positivisme d'une manière aussi pertinente que lapidaire: «Kelsen résout le problème du concept de souve­raineté en le niant. La conclusion de ses déductions est la suivante: le concept de souveraineté doit être radicalement refoulé». S'il n'y a plus de souveraineté, il n'y a plus de souverain, c'est-à-dire plus de pouvoir personnalisé par des hommes charnellement imbriqués dans une continuité historique précise. par le truchement de ce positivisme froid, le pouvoir devient abstrait, incontrô­lable, incontestable. Son épine dorsale n'est plus une forme héritée du passé, comme la forme catholique pour laquelle opte Schmitt. Sans épine dorsale, le pouvoir chavire dans l'“informalité”: il n'a plus de conteneur, il s'éparpille. Dans ce contexte, quelle est la volonté de Schmitt? Forger un nouveau conteneur, créer de nouvelles formes, restaurer ou re-susciter les formes anciennes qui ont brillé par leur rigueur et leur souplesse, par leur solidité et leur adaptabilité.

 

Quand paraît le “concept du politique” en 1927, il est aussitôt lu par un autre maître des formes et des attitudes, Ernst Jünger, tout aussi conscient que Schmitt de la liquéfaction des formes anciennes et de la nécessité d'en restaurer ou, mieux, d'en forger de nouvelles. Enthousiasmé, Ernst Jünger écrit une lettre à Schmitt le 14 octobre 1930, qui sera l'amorce d'une indéfectible amitié personnelle. Pour Jünger, l'homme des “orages d'acier” de 1914-1918, la démonstration de Schmitt dans le "concept du politique” est une “évidence immédiate” qui “rend toute prise de position superflue” et balaie “tous les bavardages creux qui emplissent l'Europe”. «Cher Professeur», ajoute Jünger, «vous avez réussi à découvrir une technique de guerre particulière: la mine qui ex­plose sans bruit». «Pour ce qui me concerne, je me sens vraiment plus fort après avoir ingurgité ce repas substantiel». Les deux hommes étaient pourtant fort différents: d'une part le guerrier décoré de l'Ordre Pour le Mérite; de l'autre, un pur intellectuel qui n'avait jamais livré d'autres batailles que dans les livres. Jünger essaiera avec un indéniable succès d'introduire la clairvoyance de Schmitt dans les cercles néo-nationalistes, notamment les revues Die Tat, de Hans Zehrer et Erich Fried, et Deutsches Volkstum  de Wilhelm Stapel. La participation des deux hommes aux activités littéraires, philosophiques et journalistiques de la “Konservative Revolution” n'efface par leurs différences: Armin Mohler, nous rappelle Paul Noack, écrit très justement qu'ils sont demeurés chacun dans leur propre monde, qu'ils ont continué à chasser chacun dans leur propre forêt. Césure qui s'est bien visibi­lisée à l'époque du national-socialisme: retrait hautain et aristocratique de l'ancien combattant, engagement sans résultat du jur­site.

 

Mais, souligne Paul Noack, une grande figure de la gauche, en l'occurrence Walter Benjamin, écrivit aussi à Schmitt en 1930, quelques semaines après le “néo-nationaliste” Jünger, exactement le 9 décembre. Benjamin envoyait ses respects et son nou­veau livre au juriste catholique et conservateur, admirateur de Mussolini! Il soulignait dans sa lettre des similitudes dans leur ap­proche commune du phénomène du pouvoir. Cette approche est interdisciplinaire et c'est l'interdisciplinarité qui doit, aux yeux du Benjamin lecteur de Schmitt, transcender certains clivages et rapprocher les hommes de haute culture. Effectivement, l'interdisciplinarité permet seule de pratiquer un véritable “gramscisme”, non un “gramscisme de droite” ou un “gramscisme de gauche”, mais un gramscisme anti-établissement, anti-installations. Paul Noack écrit: «[Schmitt et Benjamin] sont tous deux ad­versaires de la pensée en compromis. Benjamin disait que tout compromis est corruption. Tous deux sont aussi adversaires du parlementarisme, du libéralisme politique et du système politique qui en procède. Tous deux pensent que ce n'est que dans l'état d'exception de l'esprit d'une époque se dévoile véritablement; tous deux manifestent une tendance pour l'absolu et la théologie». Et de citer Rumpf: «Benjamin et Schmitt se rencontrent dans leur rejet et leur mépris d'une bourgeoisie qui s'encroûte dans ce culte générateur du Moi». Ce rapport entre Schmitt et l'un des plus éminents représentants de la “Nouvelle Gauche”, voire de l'“Ecole de Francfort”, permet d'accréditer la thèse longtemps contestée d'Ellen Kennedy, spécialiste américaine de l'œuvre de Schmitt, qui a toujours affirmé que ce dernier a bel et bien influencé en profondeur cette fameuse “Ecole de Francfort” en dépit de ce que veulent bien avouer ses tristes légataires contemporains.

 

Avec l'avènement du national-socialisme, les positions vont se radicaliser. L'effondrement de la République de Weimar laisse un vide: Schmitt croit pouvoir instrumentaliser le nouveau régime, sans assises intellectuelles, s'en servir comme d'un Cheval de Troie pour introduire ses idées dans les hautes sphères de l'Etat. Ses anciennes accointances avec le Général von Schleicher, li­quidé lors de la “nuit des longs couteaux” en juin 1934, la nationalité serbe de son épouse Duchka Todorovitch (les services se­crets se méfiaient de tous les Serbes, accusés de fomenter des guerres depuis l'attentat de Sarajevo) et son catholicisme affiché (son “papisme” disaient les fonctionnaires du “Bureau Rosenberg”): autant de “tares” qui vont freiner son ascension et même préci­piter sa chute. Schmitt laisse des textes compromettants, qui le marqueront comme autant de stigmates, mais échoue face à ses adversaires dans les rangs du nouveau parti au pouvoir. Pire, à cause de son zèle intempestif, il traîne parfois aussi une réputa­tion de naïf ou, plus grave encore, d'opportuniste sans scrupule qui souhaite toujours et partout être le “Kronjurist”, le “juriste prin­cipal”. Plus tard, en 1972, dans un interview à la radio, Schmitt a avoué avoir agi sous l'impulsion d'un bon vieil adage français: «On s'engage et puis on voit». Paul Noack croit déceler dans cette attitude collaborante une certitude de type hégélien: Schmitt, l'homme des livres, l'homme de culture, était persuadé, est demeuré persuadé, qu'au bout du compte, l'esprit finit toujours par triompher de la médiocrité. Le national-socialisme, pour ce catholique de Prusse, pour ce catholique frotté à une idéologie d'Etat de facture hégélienne, était une de ces médiocrités propre de l'homme pécheur, de l'homme imparfait: elle devait forcément suc­comber devant la lumière divine de l'esprit. Erreur fatale et contradiction étonnante chez ce pessimiste qui n'a jamais cru en la bonté naturelle de l'homme, commente Noack (Robert Steuckers).

vendredi, 21 novembre 2008

Savitri Devi: Hellénisme et hindouisme, la grande aventure

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Savitri Devi:

Hellénisme et hindouisme, la grande aventure

par Jean Mabire

Le goût très moderne pour le scandale et l’étrange peut parfois transfigurer les aventures intellectuelles les plus captivantes en trompeuse pâture médiatique. C'est ainsi que le livre de Nicholas Goodrick-Clarke, Hitler’s priestess, récemment traduit en français sous l’étiquette La prêtresse d’Hitler, risque d'attirer les amateurs d’ésotérisme de pacotille en dissimulant l’itinéraire absolument passionnant de cette Grecque, née en France, qui devait découvrir aux Indes le point d'ancrage d’une singulière croyance politico-religieuse.

Personne ne connaissait cette femme, auteur d’une vingtaine de livres, où un authentique chef-d’œuvre, L’Etang aux lotus, témoignage d’une fort poétique conversion, voisinait avec un portrait fabuleux du pharaon Akhenaton, fils du soleil s’il en fut, et des pamphlets d’une rare violence publiés après la guerre en éditions semi-clandestines.

Celle qui se faisait appeler Savitri Devi et épousa le militant nationaliste hindou Asit Krishna Mukherji devait, sur la fin de sa vie, fréquenter les milieux les plus extrémistes d’Europe et d’Amérique où elle passa pour une sorte d’illuminée.

Les chemins intellectuellement et spirituellement les plus insolites comme les plus dangereux qu’elle fréquenta par passion tout autant que par devoir, ne peuvent faire oublier les longues années où elle rechercha, toujours sincère, une sorte de foi indo-européenne exaltée, dont elle fut, plus qu’une prêtresse, un véritable « gourou », à la fois oriental et « polaire ».

L’hérédité est là. Implacable. Celle qui se fera un jour appeler Savitri Devi est née le 30 septembre 1905, dans le Rhône, d’une mère originaire de Cornouaille britannique nommée Nash et d'un père moitié italien de Londres [Lombardy—ed.] et moitié grec de Lyon, qui portait le nom de Portas. L’enfant reçoit le prénom de Maximiani, forme féminine hellénique de Maximien. En remontant fort loin dans le temps, elle pouvait se dire « nordique », Jutlandaise du côté maternel et Lombarde du côté paternel.

Elle était aussi « Barbare », influencée par les poèmes de Charles Leconte de Lisle, le dieu littéraire de sa jeunesse.

Curieusement, sa germanophilie remonte à un premier séjour en Grèce, où elle rêvait des Doriens sur les ruines de l’Acropole d'Athènes. De retour en France, elle devait acquérir la nationalité hellénique en 1928 par une démarche au consulat grec de Lyon, sa ville natale. De solides études la conduisent à un double doctorat en 1935, avec un essai critique sur son lointain compatriote Théophile Kaïris, poète et patriote, éveilleur du nationalisme hellénique, et une thèse sur La simplicité mathématique.

C’est tout à la fois une littéraire, une scientifique et surtout une passionnée aux élans fort romantiques. De son enthousiasme pour la Grèce, elle tire un engouement pour l’aventure indo-européenne qui la conduira en Inde, où elle découvre l'immense richesse d’une culture païenne pré-chrétienne.

Elle se veut désormais citoyenne de l’Âryâvarta, nom traditionnel des territoires aryens de l’Asie du Sud où elle va rechercher « les dieux et les rites voisins de ceux de la Grèce antique, de la Rome antique et de la Germanie antique, que les gens de notre race ont possédés, avec le culte du Soleil, il y a six mille ans, et auxquels des millions d’êtres vivants de toutes les races restent attachés ».

Au printemps 1932, à 27 ans, elle accomplit ce que Lanza del Vasto nommera un jour « le pèlerinage aux sources ».

Elle n’est pas une touriste mais une croyante. Elle va rapidement apprendre les langues du pays, l’hindî et le bengali, et vivre dans l’âshram de Rabîndranâth Tagore à Shantiniketan, dans le Bengale. Elle part ensuite comme professeur dans un collège non loin de Delhi, où elle enseigne l’histoire.

Maximiani Portas prend alors le nom de Savitri Devi, en l’honneur de la divinité solaire féminine.

En 1940, elle fait paraître à Calcutta son premier livre, L’Etang aux lotus, où elle raconte dans un style très lyrique sa « conversion » à l’hindouisme, à la fin des années trente. Ce livre, publié en français, est à la fois récit de voyage et longue quête spirituelle d’une jeune femme qui va désormais vivre illuminée par une foi qui ne la quittera plus jamais :

« Si j’avais à me choisir une devise, je prendrais celle-ci : Pure, dure, sûre, en d’autres termes :  inaltérable. J’exprimerais par là l’idéal des Forts, de ceux que rien n’abat, que rien ne corrompt, que rien ne fait changer ; de ceux sur qui on peut compter, parce que leur vie est ordre et fidélité, à l’unisson avec l’éternel. »

Dès la fin de 1936, elle s’est fixée à Calcutta, où elle enseigne à ses nouveaux « compatriotes » l’hindouisme, « gardien de l’héritage aryen et védique depuis des siècles, essence même de l’Inde ».

Tout naturellement, sa vision religieuse est aussi une vision politique et elle s’implique totalement dans le nationalisme hindou et notamment dans le mouvement de D.V. Savarkar. L’Inde n'est pas seulement une patrie, une future nation, c’est aussi une véritable Terre Sainte, celle des Védas, des dieux et des héros.

Elle écrit, cette fois en anglais : A Warning to the Hindus, où elle critique les influences chrétiennes et musulmanes, dans une optique à la fois païenne et anticolonialiste. Elle épouse alors Asit Krishna Mukherji, un éditeur hindou, assez anti-britannique pour s’affirmer pro-germanique.

Du combat culturel et religieux, elle passe, sous son influence, à la lutte clandestine dans le sillage du chef nationaliste Subhas Chandra Bose, qui rêve d’une armée capable de libérer les Indes, avec l’aide des Allemands et des Japonais.

Savitri Devi, devenue militante, n’en poursuit pas moins sa grande quête spirituelle. Elle se passionne alors pour le pharaon égyptien Akhenaton, époux de la reine Néfertiti et fondateur d’une religion solaire vieille de 3.300 ans.

Son penchant pour ce souverain, qu’elle nomme « fils de Dieu », se double d’un véritable culte de la Nature qui la conduit à prendre la défense des animaux dans son livre Impeachment of Man, critique radicale de l’anthropocentrisme.

Le livre paraît en 1945. Elle vient d’avoir 40 ans et décide de partir en Europe, où elle veut voir ce que devient l'Allemagne de la défaite. Elle séjourne d’abord à Londres et à Lyon. Puis elle se rend dans les ruines du IIIe Reich. Elle affirme vivre alors dans le « Kali-Yuga », l’Age de Fer, d’où repartira un nouveau cycle : Ages d’Or, d’Argent et de Bronze.

Elle défend la théorie des trois types d’Hommes : les Hommes dans le Temps, les Hommes au-dessus du Temps et les Hommes contre le Temps. Elle s’exalte de plus en plus et considère désormais Hitler comme un « avatar », une réincarnation des héros indiens de la Bhagavad Gîtâ !

Ses propos et ses brochures lui vaudront d’être emprisonnée à Werl par les autorités de la zone d’occupation britannique qui l’accusent de néo-nazisme.

Libérée en 1949, elle va désormais se partager entre l’Inde, l’Europe et l’Amérique, écrivant des pamphlets politico-religieux d’une rare violence : Défiance (1950), Gold in the Furnace (1953), Pilgrimage (1958), The Lightning and the Sun (1958).

Tandis que ses livres paraissent à Calcutta, elle parcourt le monde au hasard de ses obsessions et de ses amitiés, rencontrant, sans discernement, quelques rescapés de l’aventure hitlérienne et bon nombre de néo-nazis, souvent parmi les plus folkloriques.

Elle vit chichement de son métier d’institutrice et fera plusieurs séjours dans des asiles de vieillards indigents, alors qu’elle est devenue presque aveugle. Elle meurt chez une amie, dans un petit village anglais de l’Essex, le 22 octobre 1982, à l’âge de 77 ans.

Si le livre, assez hostile, que lui a consacré Nicholas Goodrick-Clarke la qualifie de « prêtresse d’Hitler », il aurait peut-être été plus juste de la présenter comme « prophétesse du New Age et de l’écologie profonde »


Publié dans la série de Jean Mabire, « Que lire ? », volume 7, 2003.

jeudi, 21 août 2008

N. Danilveski: esquisse biographique

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Nikolaï DANILEVSKI: esquisse biographique

Karl NÖTZEL

Nikolaï Jakovlevitch Danilevski est né le 28 novembre 1822 dans le village d'Oberets dans le gouvernement d'Orlov. Son père, Jakob Ivanovitch, commandait à l'époque un régiment de hussards et deviendra par la suite général de brigade. Au dé­part, ce militaire était étudiant en médecine, mais, quand les Français envahissent la Russie en 1812, il s'engage comme vo­lontaire dans l'armée. Pendant la guerre de Crimée, il démissionne parce qu'on refuse l'une de ses propositions qu'il estimait urgente et importante; il meurt peu après en 1855, victime d'une épidémie de choléra. Il aurait aimé l'art et la littérature et au­rait laissé le texte d'une comédie.

 

Nikolaï Jakovlevitch passera sa petite enfance en des lieux très différents, au gré des affectations du régiment de son père. A dix ans, il vit en pension chez un pasteur allemand de Livonie. A treize ans, il fréquente une école privée à Moscou. De qua­torze à vingt ans, il étudie au lycée de Tsarskoïe Zelo. C'était un élève très doué, animé par une véritable fringale spirituelle. Ses aspirations le conduisait à aimer les sciences naturelles; ainsi , pendant quatre ans, de 1843 à 1847, il étudiera à la faculté de sciences naturelles de Saint-Petersbourg, comme élève libre, et, simultanément sert dans la chancelerie du Ministère de la Guerre. Il choisit pour spécialité la botanique. En 1849, il obtient le grade de magister pour ses travaux sur la flore dans le gou­vernement d'Orlov. A la demande de la “Société d'Economie libre”, il s'occupe de recherche dans la zone des terres noires, plus particulièrement sur la flore; dans le cadre de ces activités, il est brusquement arrêté un jour et incarcéré dans la Forteresse Pierre-et-Paul. On l'avait accusé de participation à la fameuse affaire Petrachevski, qui était également à l'origine du bannissement de Dostoïevski. Danilevski passa cent jours en prison. Au début, toute lecture lui était interdite, mais, plus tard, il eut l'immense plaisir de pouvoir lire le Don Quichotte. Il put prouver devant le Tribunal que, entièrement absorbé par ses études et ses recherches, il n'avait plus vu Petrachevski depuis des années et qu'il ne savait pas ce qui se passait là. Dans un volumineux memorandum sur le système de Fourier, il démontra clairement, avec grande précision, qu'il s'agissait là d'une doctrine purement économique, qui ne contenait rien de révolutionnaire ou d'anti-religieux. Danilevski fut acquitté, mais il dut quitter la chancelerie du gouvernement et on le déplaça, d'abord à Vologda, ensuite à Samara. C'est là qu'il épousa en 1852 la veuve d'un général-major, Véra Nikolaïevna Beklemichev, qui décéda un an plus tard. L'année suivante, il participe, à titre de statisticien, à une expédition scientifique de deux ans, destinée à “explorer l'état des pècheries sur le cours de la Volga et dans la Mer Caspienne”. Cette expédition décida de son destin futur. Le chef de l'expédition, le grand naturaliste Karl Ernst Bär, reconnut les capacités et l'ampleur du savoir de son statisticien et lui ouvrit la voie. A peine cette première expédi­tion de trois ans était-elle terminée que Danilevski obtint sa nomination de chef d'une autre expédition, cette fois pour recenser les bans de poissons de la Mer Blanche et de l'Océan Arctique. Cette expédition dura elle aussi trois ans (jusqu'en 1861). Cette année-là, il épouse la fille d'un ami qui venait de mourir, Olga Alexandrovna Mechakova. Ensuite, il participa encore à sept autres expéditions, au cours desquelles il enquête sur tous les bancs de poissons de la Russie d'Europe et en tira des conclusions toujours valables aujourd'hui. C'est au cours d'un de ces voyages que Danilevski meurt d'une maladie cardiaque à Tiflis le 7 novembre 1885.

 

En 1880, il avait constaté la présence du phylloxera en Crimée et organisé un lutte systématique contre ce fléau par l'imposition de lois et règlements. Ce travail avait rempli les dernières années de sa vie.

 

Mais le caractère saisonnier de ces expéditions scientifiques lui laissait beaucoup de temps libre: son esprit toujours en éveil se consacra à toutes sortes de travaux intellectuels dans tous les domaines possibles et imaginables. Son livre le plus cé­lèbre, Rußland und Europa  a été écrit pendant les hivers de 1865 à 1867. Un ouvrage en deux volumes sur le darwinisme est malheureusement resté inachevé.

 

Danilevski était un homme de haute taille, puissamment bâti, qui jouissait d'une santé exceptionnelle. Son caractère ouvert et honnête l'éloignait de toute forme d'orgueil personnel. C'est pourquoi il est resté assez méconnu; il n'avait pas d'ennemi, ce qui lui permit d'officier dans le conseil secret du ministère de l'agriculture. Malgré la vivacité de son esprit insatiable, il ac­complit les tâches de sa profession avec beaucoup de conscience. Il fut bon père et bon époux. Il vécut heureux dans la sim­plicité. Le seul désagrément fut d'être séparé de sa famille à cause de sa profession qui le contraignait à de longues et fré­quentes absences.

 

L'amour qu'il portait à son pays fit de lui le fondateur scientifique du panslavisme; cet amour était passionné, mais au fond sans haine d'autrui: c'est justement dans cette attitude qu'il s'est révélé un vrai Russe. Ce naturaliste professionnel a certes pu se tromper dans les faits et dans l'interprétation de ceux-ci quand il a joué le rôle de l'historien des cultures. Mais ses senti­ments demeurent au-dessus de tout soupçon. Il y a quelque chose de l'esprit des prophètes de l'ancien testament dans l'amour qu'il portait à sa patrie. En aimant son peuple, il a aimé l'humanité tout entière.

 

Karl NÖTZEL.

(préface à Rußland und Europa. Eine Untersuchung über die kulturellen und politischen Beziehungen der slawischen zur ger­manisch-romanischen Welt, 1920, réédition, Otto Zeller Verlag, Osnabrück, 1965; trad. franç.: Robert Steuckers).

vendredi, 18 avril 2008

Thor Heyerdahl

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Aymeric GAUL:

Thor Heyerdahl, un héros pour le XXIème siècle

Il ne figurait même pas dans l'Encyclopédie Larousse en quinze volumes de 1982. Bien que son nom soit furtivement cité dans une note concernant le radeau Kon Tiki. Dans le Quid 2002, il apparaît dans l'articulet consacré aux expéditions de ses radeaux, le Kon Tiki, le Râ I, le Râ II et le Tigris.Lors de sa mort à 87 ans, le 17 avril 2002, une légère agitation médiatique, gênée et contrainte, retomba aussi vite qu'elle était apparue.

Et pourtant, Thor Heyerdahl demeure, pour le petit cercle réfractaire au crétinisme généralisé, un des hommes les plus géniaux du XXème siècle. Une âme étonnament trempée à l'acier le plus pur de la contestation l'a fait paria quand le plagieur et imposteur Einstein partageait avec Lyssenko la chaire d'excellence dont la moindre réfutation est assurance de bûcher. Il est, néanmoins, le héros national de la Norvège, pays où la compétition est rude en cette matière. Son livre le plus connu, Kon-Tiki, traduit dans 67 langues, s'est vendu à des millions d'exemplaires et le film éponyme qu'il en a tiré aurait dû faire de lui, et à bien meilleur titre, le héros populaire qu'est devenu Jacques-Yves Cousteau. Mais, pour être adoubé dans ce monde là, il ne faut pas aller contre les idéologies de cour. Heyerdahl n'était pas homme à troquer sa vérité contre la faveur du temps. A la lumière des spotlights il a préféré les rudes combats anonymes et la misère hautaine du chercheur demeuré aventurier dans l'âme. S'il reste un inconnu pour l'immense troupeau, son message commence à séduire de jeunes mavericks anglo-saxons agaçés que l'on prenne si facilement des vessies pour des lanternes et que soit falsifiée avec autant d'arrogance une Histoire devenue un tissu d'âneries.

Ainsi récemment Robson Bonnichsen, directeur du Centre pour l'Etude des Amériques Premières, à l'Université d'Etat de l'Orégon, reconnaissait en lui un « visionnaire en avance sur son temps ». Dennis Stanford, anthropologue au Smithsonian institute de Washington – celui qui se bat pour la reconnaissance de l'Homme de Kennewick – ou Walter Neves, de l'université de Palo Alto, reprenaient ses thèses sur les migrations post-néolithiques. Erika Hagelberg, généticienne à l'université d'Oslo, le disait plus brutalement : « Il va falloir que toutes les disciplines se décident à étudier les théories de Thor Heyerdahl. »

Crétinisme égalitariste

Et ce n'est pas rien de venir ainsi se ranger aux côtés de celui qui, au soir de sa vie osait fracasser sur l'établissement pseudo-scientifique mondial quelques projectiles vitriolés qu'on aimerait voir plantés au fronton de toutes les universités d'Occident : « Plus je fais et plus je vois, plus je réalise l'immensité stupéfiante de l'ignorance existant dans les cercles académiques qui prétendent être des autorités et affirment détenir le monopole du savoir. »

Combler cette ignorance crasse des académies de toutes espèces ne se fera pas du jour au lendemain. Comme il paraît insurmontable de refouler des consciences ahuries les croyances les plus farfelues des dogmes d'airain. L'Amérique découverte par Colomb. Colonisée, il y a dix mille ans, et exclusivement, par des Mongoloïdes descendus du Détroit de Béring. Les gigantesques constructions pyramidales des jungles meso-américaines attribuées aux ancêtres supposés – Aztèques, Mayas, Incas – des pauvres hères qui, aujourd'hui, grattent la terre alentour. La diffusion à travers le Pacifique d'étonnantes civilisations dont les schémas incohérents n'intriguent personne. Et les mythes, les légendes, les parentés universelles que la science académique, impavide, explique par des déterminismes génétiques selon lesquels tous les hommes étant semblables on ne saurait s'étonner qu'indépendamment de toute influence exogène ils en viennent fatalement à découvrir un jour les mêmes secrets et les mêmes techniques. De l'agriculture à la ziggurat monumentale, la duplication des mêmes gestes conduit tôt ou tard, à les en croire, aux mêmes expériences.

C'est à ce type de crétinisme que la « science » marxiste de l'égalitarisme et de l'unicité du monde et des hommes a fini par conduire. Thor Heyerdahl aura lutté toute sa vie contre une telle régression intellectuelle.

Une formidable logique aura guidé chacune de ses expéditions. La première, la plus célèbre, celle du Kon-Tiki, montra que des hommes embarqués au Chili sur des radeaux de balsa pouvaient atteindre la Polynésie. La chose n'était pas innocente et l'académie lyssenkiste réagit aussitôt en dénonçant l'infaisabilité du projet. Lorsqu'il fut réalisé en 1947 et que les navigateurs nordiques, après 107 jours de traversée, se furent échoués sur l'atoll de Raroia aux Tuamotous, il fallut des années aux protagonistes de l'opération pour parvenir à entrouvrir certaines portes, et quatre ans pour que le film le Kon Tiki commence enfin son éblouissante carrière cinématographique planétaire.

Pour la science encadrée, les Polynésiens étaient des Asiatiques arrivés par sauts de puce depuis la Malaisie. Certains osaient imaginer une descente de tribus « indiennes » depuis la future Californie. Mais qui se fut risqué à imaginer un peuplement de la Polynésie à partir de l'Amérique du Sud ? L'île de Pâques intriguait mais pas plus que les extraordinaires cités monumentales dites « pré-colombiennes ». Heyerdahl avait de la pré-Histoire une conception qui ne pouvait plaire aux Académies.

Qu'y avait-il avant ?

Ses autres expéditions mirent le feu aux poudres. Râ I et Râ II, en plus montrant qu'on pouvait rallier l'Egypte aux Caraïbes dans des radeaux de papyrus, apportèrent une explication rationnelle aux étranges ressemblances existant entre constructions monumentales d'Egypte et d'Amérique précolombienne. Le périple du Tigris, en 1977 – 4200 miles en 144 jours à travers l'Océan Indien – prouva que l'expansion de Sumer ne se fit pas seulement par la terre, comme on l'a cru longtemps. Ce fut d'ailleurs la grande contribution de Heyerdahl à la connaissance des mystères du passé : le rôle fondamental joué par les océans, à partir du Néolithique, dans la diffusion des civilisations antiques. Les statues de Fatu Hiva aux Marquises ressemblent trop à celles qu'on trouve en Amérique du Sud pour que ce ne soit qu'un hasard. Les pyramides à escaliers des Canaries, l'archipel des mythiques Guanches, ces Berbères dont l'Histoire prétend avoir perdu la trace, se trouve à mi-chemin entre l'Egypte et l'Amérique du Sud. Non seulement Thor Eyerdahl conteste que Christophe Colomb ait découvert quoi que ce soit, non seulement il reconnaît que 500 ans avant lui ses ancêtres Vikings s'étaient bien installés dans le Vinland et au-delà mais, affirme-t-il dans une sorte de provocation, « je dis qu'aucun Européen n'a jamais découvert autre chose que l'Europe... ». C'est dire que tout avait déjà été « découvert » bien avant qu'on ne le croit. Et que ne le prétend une mystification historique terrifiée que des peuples de géants aient dominé la planète en des temps que le progressisme bêtifiant assure avoir été celui de brutes vêtues de peaux de bêtes.

On tombe alors sur des vérités qui font trembler. Sur la présence par exemple dans le sud du continent américain de squelettes d'hommes non-mongoloïdes - australoïdes - bien antérieurs à la présence des ancêtres des « Indiens » sur ce continent. On rejoint les formidables travaux du Professeur de Mahieu sur la civilisation inca créée par les clans vikings qui accompagnaient le yarl Ullmann à la fin du Ier millénaire. Les communautés polynésiennes « blondes » découvertes par les premiers navigateurs européens en différents archipels du Pacifique. On rejoint aussi l'Homme de Kennewick, la « civilisation Clovis » du Sud Texas et ses pointes de flèches superbement solutréennes, la présence aux Etats-Unis de milliers de sites mégalithiques, la forte imprégnation de certaines langues indiennes par des termes, des formules et des signes gravés phéniciens et tamazight. L'obligation de reconnaître la présence na-dene, cette nouvelle classification linguistique, partie de l'ouest du Maghreb, remontée pour le Pays Basque, traversant toute l'Eurasie, pour aller se perdre chez certaines tribus du nord-ouest des Etats-Unis. On s'interroge sur les Aïnous, sur les dolmens des Nouvelles Galles du Sud, sur certaines légendes des Aborigènes australiens évocatrices de géants blancs qui habitaient le sud du continent du temps qu'il était verdoyant. Et qui un jour s'embarquèrent vers l'Est.

Derrière la remise en cause des dogmes imposés par le lyssenkisme idéologique, Thor Heyerdahl a jeté les bases d'une nouvelle lecture de l'Histoire et de la Préhistoire. C'est, à terme, un séisme de grande magnitude qui a été initié. Une reconsidération complète de la vision du monde falsifiée qui prévaut aujourd'hui. Elle ne se fera, on s'en doute bien, que dans les pays qui possèdent encore un minimum de liberté d'expression. Les Etats-Unis en premier. Dans ceux qui, comme en France, sont assujettis à des lois soviétoïdes du type loi Gayssot, il est peu probable que l'on voie se développer des études en ce sens. Il reste néanmoins que le vent qui se lève soufflera même sur les lieux les mieux gardés.

« Il y a quelque 5000 ans, pour une raison inconnue, une civilisation disparut de son site originel et s'établit le long du Nil, sur les berges des rivières mésopotamiennes, au bord de l'Indus... portée par des hommes barbus qui construisaient des bateaux de lianes, par des astronomes qui adoraient le soleil et lui élevaient des pyramides à escaliers telles qu'on en trouve en Egypte, en Mésopotamie, au Mexique, en Bolovie, à Ténérife. Il est impossible que de telles civilisations se soient developpées brusquement en une seule génération ou même en un siècle : il y avait quelque chose avant... » (Thor Heyerdahl).

par Aymeric GAUL, publié dans Réfléchir & Agir n° 12 – Eté 2002

Réfléchir & Agir

Revue autonome de désintoxication idéologique 
CREA - BP 80432, 31004 Toulouse cedex 6

contact : reflechiretagir2006@yahoo.fr

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dimanche, 30 mars 2008

Sur le juriste Pieter Stockmans

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Sur le juriste Pieter Stockmans

Pieter Stockmans, juriste brabançon, naît à Anvers le 3 septembre 1608. Il devint professeur à l’Université de Louvain en 1632, puis Conseiller d’Etat du Brabant en 1643. En 1663, il fait partie du « Conseil Secret » et, en 1665, de la « Cour Suprême de Guerre » (« Opperkrijgsraad » / « Oberkriegsrat »). En 1666, il prend la plume pour fustiger, avec force arguments, les prétentions de Louis XIV sur la rive occidentale du Rhin. Ses arguments sont collationnés dans le « Tractatus de jure devolutionis ». Stockmans est fasciné par l’antiquité grecque et par le stoïcisme, qui entend demeurer au-dessus de la petitesse humaine. Ami du gouverneur espagnol, le Marquis de Caracena, qui exerça ses prérogatives de 1659 à 1664, il est envoyé à la Diète Impériale de Ratisbonne pour réclamer l’intervention de l’Empire contre les prétentions françaises. Il soumet à cette lamentable assemblée deux écrits :  « Scriptum gallicum contra securitatem circuli Burgundici nuper in comitiis Ratisbonensis compositum » (36 pages) et « Refutatio scripti gallici contra circuli Burgundici securitatem compositi ». Il prouve et rappelle dans ces textes que le « Cercle de Bourgogne », menacé par la France, demeure une partie intégrante du Saint Empire et doit donc recevoir le soutien du Reich. Il ne sera pas écouté. La menace française devient de plus en plus pesante, surtout à partir du moment où Louis XIV énonce « les droits à la dévolution ». Stockmans y répond par une « Deductio » anonyme, en latin et en néerlandais. Ensuite, il récapitule tous ses arguments dans son « Tractatus de jure devolutionis » (1666). L’historien français Guy Joly lui répond. Stockmans rédige alors une « Pars Secunda » de son « Tractatus », puis une « Pars Tertia », qualifiant les prétentions françaises d’inepties et d’erreurs. Pieter Stockmans meurt à Bruxelles le 7 mai 1671 (Robert Steuckers).

 

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vendredi, 07 mars 2008

1940: naissance de Rudi Dutschke

07 mars 1940: Naissance à Schönefeld près de Berlin du futur activiste de l’“Opposition Extra-Parlementaire” ouest-allemande dans les années 1965-69, Rudi Dutschke [photo, 06 déc 76].

Né dans le foyer d’un fonctionnaire de la poste al­lemande, nationaliste et volontaire de guerre en dépit de ses 39 ans, Rudi Dutschke va d’abord développer une vision protestataire et luthérienne de la société, qui le conduira à rejeter le “socialisme réellement existant” de la RDA, pays où il est né. Il se réfugie à Berlin-Ouest, juste avant la construction du Mur de la honte. Il fon­de avec ses camarades le SDS (“Ligue des Etudiants Socialistes allemands”), puis, à l’avènement d’une “grande coalition” gouvernementale, unissant sociaux-démocrates et démocrates-chrétiens, il crée cette fameuse “Op­po­sition extra-parlementaire” (APO), jugeant qu’une coalition aussi vaste ne permet pas l’expression d’une con­tes­tation parlementaire normale. Cette initiative le place sous les feux de la rampe et à la tête de la con­tes­ta­tion étudiante, au cours de laquelle il s’intéresse aux mouvements révolutionnaires latino-américains (sous l’in­fluen­ce de son ami chilien Gaston Salvatore), au Printemps de Prague, à la notion de “socialisme à visage hu­main”, à la notion d’“homme unidimensionnel” de Marcuse et au révolutionnarisme religieux d’Ernst Bloch (a­vec il entretiendra une longue correspondance).

En avril 1968, juste avant les événements du Quartier Latin à Pa­ris, un individu, visiblement manipulé, lui tire une balle dans la tête. Dutschke survit, achève des études de phi­losophie à Berlin et termine sa carrière avec une chaire à l’Université d’Arhus au Danemark. Aujourd’hui, les com­pagnons de Dutschke ont rejoint en gros le camp national en Allemagne, dont Bernd Rabehl, Günter Masch­ke et surtout son avocat, Horst Mahler. Le frère de Dutschke a donné récemment un entretien à l’hebdo­ma­daire national-conservateur berlinois, Junge Freiheit. Ce glissement indique que la “gauche institutionnalisée” n’inspire plus les esprits rebelles. On doit au politologue suisse Ulrich Chaussy, une excellente biographie rai­sonnée de Dutschke, intitulée Die drei Leben des Rudi Dutschke, Pendo, Zurich, 1999, 3-85842-532-X.

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