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jeudi, 23 avril 2009

Giano Accame : pensiero scomodo

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Giano Accame, pensiero scomodo

 

14 maggio 2001

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Classico "Umberto I" di Napoli"

STUDENTESSA: Ringraziamo Giano Accame per essere qui con noi. Prima di dare avvio alla discussione guardiamo la scheda filmata.

Pensieri scomodi, pensieri inquietanti, pensieri di difficile collocazione, attraversano, come ombre, il corso del secolo che è appena trascorso. Un secolo dove la massa si è fatta protagonista e il conformismo, l'automatismo mentale, l'inerzia, il torpore, sono diventati condotta comune, norma di comportamento. Il secolo dei grandi totalitarismi sicuramente è anche il secolo dell'indottrinamento di massa, ma, paradossalmente, è anche il secolo degli antagonismi, delle ribellioni, è il secolo in cui scrittori e pensatori, spesso solitari, emarginati, talvolta sconfitti dalla storia, conducono "esperimenti temerari" o semplicemente portano il peso di una "intelligenza scomoda", refrattaria a ogni conformismo. È il caso, ad esempio, dello scrittore tedesco Ernst Junger, una delle grandi figure della letteratura del Novecento. In età più che matura, all'inizio degli anni Cinquanta, Junger teorizza il comportamento del ribelle, al quale, "per sapere che cosa sia giusto, non servono teorie o leggi escogitate da qualche giurista di partito". Il ribelle "attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni". Il ribelle rifugge da ogni ordine costituito, non appartiene più a niente, ha varcato una volta per tutte il meridiano delle opinioni comuni. Pensatore scomodo è dunque Junger, come d'altra parte scrittore scomodo è stato Louis-Ferdinand Céline, definito "veggente del tramonto dell'Occidente". Poeta scomodo è Ezra Pound, una delle voci più alte della poesia del Novecento e uno dei critici più feroci della vita degradata, misurata dal denaro e dalla prestazione. E scrittore scomodo Yukio Mishima, la cui "intelligenza scomoda" si esprime nella ricerca della bellezza e nella fedeltà alla propria tradizione. Ma ogni ricerca ha il suo prezzo: Mishima muore suicida nel 1970.

STUDENTESSA: Possiamo arrivare a definire una "intelligenza scomoda"? Cioè quali sono i suoi tratti distintivi?

ACCAME: Questa espressione, "intelligenze scomode", viene da una trasmissione di Rai Educational dedicata a scrittori, intellettuali e artisti di destra, ma più che di destra, o fascisti, o accusati di fascismo, persone che sono state una parte ineliminabile, importante, del pensiero del Novecento; e che appartengono ormai non solo a una parte, ma al genere umano. Non si potrebbe fare a meno, nella letteratura italiana, di Gabriele D'Annunzio, anche se a Fiume ha creato la ritualità del fascismo, i saluti, il discorso dal balcone. La filosofia italiana non potrebbe fare a meno del più grande filosofo accademico del Novecento, Giovanni Gentile. L'arte italiana non potrebbe fare a meno del futurismo, anche se Marinetti è stato fascista. Il futurismo è stato, dopo il Barocco, la prima volta che l'arte italiana ha avuto di nuovo una dimensione universale. E così la cultura del mondo non potrebbe più rinunciare a Ezra Pound, che è stato il grande innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese, o di Céline, che ha cambiato completamente, rinnovato, il modo di fare prosa narrativa, o di Carl Schmitt, che è stato il più grande politologo del secolo scorso.

STUDENTESSA: Secondo Lei, quali sono i rischi, i pericoli, che una "intelligenza scomoda" corre al giorno d'oggi, e quali sono stati quelli dell'anticonformismo nel secolo appena passato?

ACCAME: Ad esempio, tra i rischi dell'anticonformismo, è esemplare la vita tormentata di Ezra Pound, che per essere stato vicino al fascismo e soprattutto alla repubblica sociale italiana, fu poi chiuso dai suoi concittadini americani in una gabbia, come una bestia, in un campo di concentramento a Pisa e poi confinato per tredici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti. Questa idea di curare le dissidenze come una forma di disturbo mentale non è stata adottata prima nell'Unione Sovietica, ma per prima in America. Non accettandosi l'idea che il più grande poeta americano fosse simpatizzante del fascismo, lo si è fatto passare per matto.

STUDENTE: Al di là del nostro secolo, come può manifestarsi oggi una "intelligenza scomoda"? E cosa vuol dire, nella nostra società, andare contro l'opinione comune?

ACCAME: È sempre una posizione rischiosa e naturalmente scomoda. Non lo è stata nella prima metà del secolo, dove il pensiero fascista è stato dominante in quasi tutta l'Europa, ma nella seconda metà del secolo queste forme di cultura sono state emarginate e quindi, tra l'altro, si sono rarefatti gli intellettuali che vi hanno aderito. Il massimo della scomodità oggi è nel ribellarsi alla pretesa del denaro, dei poteri finanziari, e di porsi come elemento principale della scelta politica. Oggi viene teorizzato dalla migliore cultura economica, quella che viene dalla Banca d'Italia in Italia, la compresenza di due elettorati: uno siamo noi, sarete Voi, quando ci arrivate, a diciotto anni, il popolo sovrano, quello che vota per dei deputati e dei senatori, che contano sempre di meno. E l'altro invece è il grande elettorato del mercato finanziario, che, si dice, ormai vota tutti i giorni in casa nostra, facendo salire o scendere le quotazioni della lira e della borsa, a seconda che il Parlamento e i governi si comportino bene, cioè secondo le indicazioni del mercato finanziario, oppure si comportino male. Se spendono troppo per i pensionati o gli ammalati, la lira cade. Ecco, ribellarsi a questo grande potere internazionale è certamente scomodo, perché la maggior parte degli organi di informazione importanti sono nelle mai del potere finanziario, e quindi liberissimi nel criticare i poteri politici, molto meno nel criticare i poteri economici. I grandi giornali, le televisioni, sono un po' delle pistole puntate alla tempia dei poteri politici, che devono adeguarvisi.

STUDENTE: Non pensa che sia il pericolo ad impedire l'esercizio dell'anticonformismo? E ancora: è forse per paura che ci si adegua all'opinione comune?

ACCAME: Per la verità l'anticonformismo oggi non viene impedito. Viviamo in un periodo di piena libertà, soltanto che nessuno gli dà poi retta. Diceva Ezra Pound che la libertà di parola, senza la libertà di esprimersi via radio, non vale nulla. Questo lo diceva quando non esisteva ancora la televisione. Se uno scrive, ma non arriva a esprimersi attraverso il nuovo grande mezzo di comunicazione, parla a vuoto, o parla a delle piccole minoranze. Non credo che oggi vi siano motivi di paura. Il grande vantaggio di essere usciti dai due secoli di cultura delle rivoluzioni, con la caduta del Muro di Berlino, che nessuno ha più legittimo motivo di avere paura per la vita, per la libertà, per i beni, di fronte a qualunque scelta politica. Il potere non fa paura. Il potere però può emarginare, è naturale insomma. Quindi esiste, è legittimo, anche per gli intellettuali, il timore, la paura di essere isolati, di essere emarginati, di non contare niente, quindi di non guadagnare. Ecco, questo è. Ridimensionando il timore, è lì oggi il vero nemico dell'anticonformismo, quello che spesso vengono reclamizzate sono forme di anticonformismo banale, ma quello più serio viene ancora ghettizzato.

STUDENTESSA: Recentemente ho visto un film, L'ultimo bacio, di Gabriele Muccino, e uno dei personaggi dice: "La normalità è la vera rivoluzione". Lei cosa ne pensa?

ACCAME: La rivoluzione è cambiamento, mentre la normalità è stabilizzazione. La grossa difficoltà nel rapporto tra gli intellettuali e la politica è che, soprattutto in periodo democratico di elezioni, la politica si muove appunto sulla normalità. La politica deve usare argomenti accessibili al grande pubblico, quindi argomenti ormai banalizzati. Mentre il compito dell'intellettuale è quello di spingersi oltre, di dire delle novità; il compito più difficile, insomma. Ma la normalità non è la vera rivoluzione. La vera rivoluzione è il cambiamento. La vera rivoluzione è stata - adesso ormai questo periodo di due secoli è finito -  l'ambizione delle filosofie a inverarsi nella storia. Un tempo ci si accontentava che le filosofie spiegassero il mondo. Da Marx a Gentile, che ha ripreso questa filosofia della prassi di Marx, invece si aggiunge o si era aggiunta una nuova pretesa, che la filosofia non solo spiegasse il mondo, ma che lo cambiasse. Ecco, la normalità non ha questa pretesa di cambiamento. La normalità di solito si adegua e non penso che possa essere rivoluzionaria.

STUDENTESSA: Nella scheda filmata abbiamo visto che gli scrittori e i pensatori citati sono tutti critici della democrazia occidentale. Ora l'atteggiamento antidemocratico può identificarsi con l'anticonformismo?

ACCAME: Certamente! Perché quelli anticonformisti sono atteggiamenti di minoranza, che quindi spesso si rivoltano, o si sono rivoltati in passato contro la democrazia. In realtà né Pound né Junger si sono particolarmente rivoltati contro la democrazia. Se mai solo Mishima, che è un curioso esempio di fascismo di ritorno, o di tradizionalismo di ritorno. Durante la guerra  Mishima fu scartato alla leva e ne fu contentissimo perché si risparmiava la vita. Diventò lo scrittore giapponese più noto in Occidente, e di solito in Italia tutti i suoi primi libri sono stati pubblicati da Feltrinelli, quindi anche molto gradito alla sinistra. Omosessuale, o almeno bisessuale, quindi trasgressivo, su un piano che il pensiero conservatore è meno orientato a accettare. E tuttavia, dopo aver riscosso successo internazionale e in Giappone naturalmente, a un certo punto ha sentito la vanità di questo successo e ha avuto un ritorno di pensiero conservatore, tradizionale ed è ritornato all'antica etica dei Samurai, sino a compiere il sacrificio rituale in una caserma giapponese, per protestare contro l'occidentalizzazione del Giappone e soprattutto contro l'asservimento dell'attuale classe politica giapponese agli americani. Ecco, quindi è l'unico, se mai, che si è ribellato a quel tipo di democrazia asservita. In realtà tutti poi dopo hanno fatto riferimento al popolo. In particolare Ezra Pound era fortemente critico del sistema politico americano, ma non perché fosse antidemocratico. Lui seguiva le idee di Jefferson, che è tra i creatori della democrazia americana, ma accusava la classe dirigente democratica americana di essersi asservita ai banchieri, di essersi asservita al grande capitale finanziario e di aver quindi tradito la stessa Costituzione degli Stati Uniti, che riservava al Congresso la sovranità monetaria e invece questa sovranità era stata trasferita ai banchieri. Questo era più legato alla vera idea dei pionieri americani. Si considerava infatti un vero patriota americano, in rivolta contro il tradimento della democrazia fatta delegando troppi problemi e troppi poteri alla finanza.

STUDENTE: Non crede che l'anticonformismo sia possibile solo in democrazia, e che invece il totalitarismo non sopporti le intelligenze scomode?

ACCAME: Certamente è più facile in democrazia che nei totalitarismi.  E tuttavia anche nei sistemi totalitari ci sono stati esempi di rivolta, di ribellione, che naturalmente sono costati di più. Io, come scrittore di destra, la libertà in questo mezzo secolo ho dovuto più faticosamente conquistarmela, giorno per giorno. A me non l'hanno regalata gli americani, insomma, non mi è stata importata. L'ho dovuta conquistare vincendo pregiudizi, difficoltà, tentativi di discriminazione. E quindi qualche difficoltà la si incontra anche in un sistema di piena libertà.

STUDENTE: Si può, paradossalmente, seguire la legge ed essere comunque scomodi? Pensavo, ad esempio, al Giudice Falcone.

ACCAME: Certamente! Ma il Giudice Falcone era scomodo per la delinquenza, per la grande criminalità organizzata. Non direi che sia un esempio di anticonformismo. È un esempio di eroismo, come quello del Giudice Borsellino, come quello delle forze dell'ordine quotidianamente impegnate nella difesa delle persone per bene, degli onesti, contro la grande criminalità. Ma non direi che questo sia un esempio di anticonformismo. Per quanto, lì dove la società è addormentata, dove esistono complicità tra poteri politici e grandi organizzazioni mafiose, anche questo, il coraggio di rivoltarsi, rischiando la pelle, può, a suo modo, essere interpretato come un anticonformismo. L'egoismo, il rischiare la vita, è sempre impresa di pochi. L'eroe è di per sé uno che si stacca dalla media, dalla normalità, e in questo si può considerare non perfettamente conformista. Non è uno che si fa i fatti suoi e pensa solo alla famiglia. Pensa alla Patria, alla generalità dei cittadini.

STUDENTESSA: Secondo Lei l'intelligenza scomoda è capace solo di demolire e criticare, o è in grado anche di costruire e affermare?

ACCAME: L'intelligenza scomoda vorrebbe anche costruire e affermare. In realtà, dalla lezione dei fascismi è venuto qualcosa che oggi, a livello debole, è estremamente diffuso. Cosa ha fatto il successo politico di Mussolini, ad esempio? È stato il ribellarsi a quella spaccatura, che è nel cuore dell'uomo e della società europea, che aveva provocato la presunzione illuministica, contrapponendo alla tradizione il progresso, contrapponendo alla fede la ragione e la scienza, e, poi il socialismo, contrapponendo alla aspirazione e alla giustizia sociale l'idea di Dio e della Patria. Il successo di Mussolini è stato quello di risaldare queste spaccature e legando e rendendo compatibile, con un'aspirazione alla giustizia sociale, l'idea di Dio e della Patria. Naturalmente poi gli errori hanno compromesso questo tentativo, che aveva suscitato tanti entusiasmi, aprendo nuovi conflitti: conflitto razziale, la discriminazione degli ebrei, e aprendo un conflitto sui temi della libertà. Ma questa idea di risaldare, di non spaccare le masse, sui temi di Dio e della Patria, e spingere il progresso delle masse, unificando questi sentimenti forti, oggi è condivisa da tutti. Nel socialismo italiano è stato Bettino Craxi che ha cercato di sanare queste imprudenti e stupide spaccature, queste fratture. Ha fatto un nuovo Concordato con la Chiesa, ha riscoperto il socialismo tricolore. Ma non c'è forza politica importante, sono solo marginali quelle che non abbiano il pieno rispetto del sentimento religioso e che rinneghino l'aspirazione, oggi più debole, all'identità nazionale. Questo è ormai da destra a sinistra. Tutte le volte che un'idea si affaccia, si affaccia di solito con violenza e con forza, mentre adesso, anche a livello di pensiero debole, tutti condividono questa aspirazione unificante di quelle che sono le grandi tendenze dell'uomo.

STUDENTESSA: Noi finora abbiamo parlato solo di anticonformismo. Ma cosa si intende e come si esprime il conformismo oggi?

ACCAME: Il conformismo, secondo me, si esprime soprattutto nell'economicismo, nell'assegnare, come obiettivo esistenziale e principale, l'idea dell'arricchimento. E questo porta a delle gare che possono essere addirittura distruttive per il genere umano, perché è probabile che l'assetto ecologico della terra non possa resistere a ulteriori progressi, a ulteriori escalation in questa ricerca del benessere e dello spreco. Un tempo ci si accontentava più facilmente della propria condizione economica e si cercava la gratificazione nel far bene certe cose. Il medico condotto non voleva arricchirsi, ma curare, il professore era completamente dedito al proprio lavoro di educatore e non era scontento, i servitori dello Stato e gli ufficiali peroravano la grandezza della nazione. E, comunque, chiunque faceva la propria professione, o il proprio lavoro, o il proprio mestiere di artigiano, di operaio, tendeva a trovare la gratificazione nell'esistenza e in altri valori oltre che quelli monetari. Oggi la ricerca dell'arricchimento, l'economicismo, spegnendo altre aspirazioni dell'uomo, altre tendenze, esprime una forma di conformismo che considero pericolosa. 

STUDENTE: Non pensa che il prezzo da pagare all'anticonformismo sia l'individualismo?

ACCAME: No, se mai proprio il conformismo di oggi è l'individualismo. Ci si lamenta, dopo la caduta del Muro di Berlino, della affermazione planetaria della formazione di un pensiero unico, che è il pensiero liberale individualista. E c'è addirittura una forma quasi di intolleranza liberal-liberista. Se mai, l'anticonformismo oggi si dovrebbe manifestare in un ritorno al pensiero comunitario, all'idea di sentirsi insieme, all'idea della società a cui aderire e da servire.

STUDENTESSA: Secondo Lei, si può essere anticonformisti nel rispetto dell'opinione comune?

ACCAME: L'anticonformismo e l'opinione comune di solito sono in conflitto. L'anticonformista è proprio contro l'opinione comune. Però ci può essere una forma di anticonformismo del conformismo, nel senso che spesso gli intellettuali ostentano forme di disprezzo del senso comune. E allora aderire al senso comune rappresenta in qualche modo una forma di anticonformismo. Il coraggio di pensarla un po' come tutti, perché questo tipo di pensiero viene snobbato.

Puntata registrata il 21 febbraio 2001

mardi, 21 avril 2009

L'OTAN et la Russie: entretien avec N. S. Babourine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

 

L'OTAN et la Russie: entretien avec Nicolaï Sergueï Babourine, vice-président de la Douma

 

La visite récente qu'a apportée à Moscou Madeleine Albright, secrétaire des affaires étrangères des Etats-Unis, avait pour but de faire fléchir l'attitude négative des Russes face à l'extension vers l'Est de l'OTAN et à l'inclusion de la Pologne, de la Tchéquie et de la Hongrie dans le système de défense atlantique. La rencontre entre Madeleine Albright et les plus hauts dirigeants de la Russie n'a pas eu les résultats escomptés. (...). Fin janvier 1997, sous la direction du Vice-Président de la Douma, Sergueï Nicolaï Babourine, un nouveau groupe parlementaire voit le jour, le groupe “anti-OTAN”. Fin février, 110 parlementaires y adhéraient, principalement des députés de l'extrême-gauche et de l'extrême-droite. Babourine, ancien recteur de la faculté de droit d'Omsk, la mégapole de Sibérie méridionale, est le plus farouche adversaire de l'élargissement de l'OTAN. Babourine a 38 ans, il est juriste et président de la “Fédération du Peuple Russe”, proche du PC de la Fédération de Russie. Il est un homme politique conservateur appartenant à la jeune génération. Il n'a pas été “mouillé” par le communisme, il a acquis sa maturité politique au début des années 90, après l'effondrement de l'Union Soviétique. «Babourine est l'un des rares, sinon le seul, parmi les hommes politiques nationalistes de gauche en Russie à manifester clairement son opposition à l'élargissement de l'OTAN à des pays ex-socialistes», nous a dit le chroniqueur parlementaire d'un journal moscovite à gros tirage.

 

Les adversaires de Babourine, les parlementaires qui ne partagent pas les mêmes opinions que lui dans la Douma, estiment qu'il est un homme politique clairvoyant. Plusieurs partis démocratiques cherchent à obtenir ses faveurs ou à l'attirer dans leurs rangs. Babourine est le plus jeune des hommes politiques russes à occuper d'aussi hautes fonctions, tout en étant membre d'une fraction parlementaire proche des communistes et dénommée “Le Pouvoir au Peuple” (Vlado VURUSIC, Zagreb).

 

VV: Quelle est la raison qui pousse la Pologne, la Tchéquie et la Hongrie à adhérer à l'OTAN? Ces pays ont-ils peur de la Russie?

 

NSB: Je ne crois pas que les problèmes se trouvent dans les pays qui veulent adhérer à l'OTAN. A mon avis, il faut chercher la raison dans l'OTAN elle-même, qui, en principe, est un système de sécurité collective en Europe. L'élargissement de l'OTAN vers l'Est conduit à une déstabilisation et contribuera à amener de nouveaux clivages et de nouvelles divisions en Europe. La question est la suivante: qui a besoin de ce système? De qui faut-il le protéger? De la Russie? Cela signifierait ipso facto que les relations entre l'Ouest et la Russie ne se sont pas modifiées d'un poil depuis la guerre froide? Absurde! Pour moi, la façon de procéder des pays membres de l'OTAN et des pays qui souhaitent y adhérer ou qui attendent d'en faire partie, est un acte de méfiance à l'égard de la Russie, quoi qu'ils veulent bien nous faire croire. Ce sentiment de méfiance est un danger pour la Russie.

 

VV: Pourquoi pensez-vous que l'OTAN est un danger pour la Russie? L'OTAN n'a-t-elle pas demandé à la Russie d'en faire partie elle aussi?

 

NSB: L'OTAN est un danger permanent pour notre sécurité. Elle possède un commandement unifié et constitue un système politique commun. Souvenons-nous des bombardements massifs subis par les Serbes en Bosnie et en Herzégovine. Qu'est-ce qui peut nous garantir qu'un jour nous ne subirons pas le même sort? Vous remarquez que l'OTAN a demandé à la Russie de faire partie de l'alliance, moi, je pense que cette proposition n'était pas honnête et sérieuse. Nous nous retrouverions dans une position subalterne, si nous demandions d'en faire partie, nous devrions faire la queue en attendant d'être acceptés et, finalement, nous risquerions d'être rejetés!

 

On nous dirait alors: “Les cartes d'entrée ont toutes été distribuées, vous avez attendu pour rien”. Pour nous, qui restons une grande puissance, ce serait une humiliation sans précédent. Ensuite, je me permettrais de vous rappeler qu'en son temps, l'URSS en la personne de Nikita Khrouchtchev, Secrétaire général du PCUS, avait demandé au Président américain Eisenhower notre adhésion à l'OTAN. Ils nous ont refusés. Après avoir rencontré des diplomates européens à Bruxelles et à Strasbourg ou en avoir reçus ici à Moscou, il me semble que les Européens conçoivent l'OTAN de la même façon que les Américains.

 

De toutes ces réunions, je suis revenu convaincu que les diplomates européens et américains conçoivent l'OTAN comme une forme de vie, comme un style de vie impassable. Cette façon de penser est profondément ancrée dans le subconscient de ces gens: il y a été enfoncé pendant toute la durée de la guerre froide. Ce subconscient, ils l'ont gardé jusqu'aujourd'hui, malgré le changement de donne. Pour eux, l'OTAN n'existe que contre la Russie. Or, s'ils voient les choses ainsi, il est tout naturel que nous, les Russes, nous nous montrions prudents. Pour ces diplomates, l'OTAN est l'élément principal dans l'architecture globale de la sécurité européenne.

 

C'est comme s'ils ne pouvaient pas comprendre que le Pacte de Varsovie n'existe plus, ce Pacte qui donnait a posteriori une raison d'être à l'OTAN. Ensuite, l'URSS, puissance nucléaire dont ils avaient peur, puissance qui était leur adversaire potentiel, n'existe plus non plus. Si l'on prend ces deux faits majeurs en considération, les efforts déployés par l'OTAN pour s'étendre vers l'Est menacent de fait la sécurité européenne dans son ensemble. Vu ainsi, cet élargissement en cours n'est pas seulement une reprise des hostilités à l'encontre de la Russie.

 

VV: Vous ne pensez donc pas que l'élargissement de l'OTAN soit une garantie pour la sécurité européenne, qu'elle soit une part du processus d'intégration qui anime l'Europe d'aujourd'hui et auquel la Russie est conviée?

 

NSB: Non. Pour moi, ce ne sont pas les garanties de sécurité qui constituent l'enjeu majeur; je crois qu'il s'agit en toute première instance de menacer la Russie. De plus, l'élargissement de l'OTAN vers l'Est pose problème pour l'avenir des accords et des traités signés jadis entre l'OTAN et la défunte URSS. De facto et de jure, ces accords et ces réglements, sur lesquels repose la sécurité européenne, ont été dénoncés unilatéralement par les membres européens et américains de l'OTAN.

 

En première instance, il s'agit des accords réglant la réduction des armes nucléaires. C'est justement l'OTAN, à ce niveau, qui menace la sécurité européenne dans ses fondements: même si l'OTAN n'acquiert qu'un seul nouveau membre, pour nous, cette situation crée une base juridique rendant caducs les accords du passé, par exemple ceux qui portent sur la limitation de l'emploi de missiles à courte et moyenne portée. C'est l'OTAN qui porte la responsabilité de la caducité de ces accords!

 

Car, enfin, osons poser la question: l'OTAN est-elle une alliance dirigée contre la Chine? Certes, les parties co-signatrices de ces accords devenus caducs par la volonté de l'OTAN, c'est-à-dire l'URSS et le Pacte de Varsovie, n'existent plus, mais il va tout de même de soi que c'est la Russie qui a hérité des obligations liées à ces accords.

 

Car on semble effectivement oublier que la Russie a repris à son compte les obligations liées à ces accords, signés par l'ex-URSS. Enfin, sur le plan juridique, si l'OTAN s'étend vers l'Est à des pays qui ont accepté eux aussi la teneur de ces accords au titre de membres du Pacte de Varsovie, alors la problématique peut être envisagée d'une toute autre façon. Quoi qu'il en soit, l'élargissement de l'OTAN vers l'Est constitue une entorse de taille aux accords passés qui avaient réglés les problèmes généraux de la sécurité européenne.

 

VV: Pourquoi affirmez-vous sans détours que l'OTAN menace la Russie?

 

NSB: La Russie et l'OTAN (du moins ses principaux membres) sont des puissances nucléaires. Ensuite, nous, les Russes, devons retirer tout notre potentiel nucléaire hors des pays qui faisaient jadis partie de l'URSS. Rien que la simple existence de l'OTAN est signe qu'il y a un ennemi, que cette alliance militaire existe contre quelqu'un. Si, finalement, la Russie vient à faire partie de l'OTAN, contre quel ennemi sera dirigée son adhésion? Sans doute contre notre plus gros voisin, la Chine, un pays de plus d'un milliard d'habitants? Ce pays considérera sans doute que notre adhésion à l'OTAN est un acte d'hostilité à son égard: avons-nous besoin de cela? Très logiquement, les Chinois se demanderaient si la Russie prépare la guerre contre eux. La Chine est un pays important, avec lequel nous entendons coopérer harmonieusement. Nous ne voulons pas le provoquer.

 

VV: La Russie prend-elle des mesures contre l'élargissement de l'OTAN vers l'Est?

 

NSB: Nous invitons toutes les forces de gauche en Europe à se mobiliser contre l'élargissement de l'OTAN vers l'Est. Nous avons déjà obtenu le soutien des représentants de la gauche dans le Conseil Européen. Ensuite, nous allons reprendre les meilleures relations possibles avec les pays non alignés.

 

L'OTAN est devenu une organisation qui n'a d'autre but que de se perpétuer. On peut se poser la question: l'OTAN existe-t-elle pour l'Europe, ou l'Europe existe-t-elle pour l'OTAN? Si les dirigeants européens l'avaient voulu, l'OTAN se serait auto-dissoute une semaine après l'auto-dissolution du Pacte de Varsovie voire même dès la dissolution de l'URSS. Dans les circonstances actuelles, je ne vois pas de raison objective pour que cette alliance atlantique se perpétue ou s'élargisse.

 

Je suis sûr que l'OTAN disparaîtra comme elle s'est jadis constituée. J'espère que dans quelques années, tout ce que je dis ici, ne sera plus qu'anecdotique, plus que matière pour les historiens et les chroniqueurs politiques et parlementaires.

 

VV: Mais pourquoi les Polonais, les Tchèques et les Hongrois veulent-ils intégrer l'OTAN?

 

Je vois et je comprends les motivations pour lesquelles des pays d'Europe orientale veulent adhérer à l'OTAN. Les Polonais et les Tchèques craignent surtout l'Allemagne réunifiée, ils craignent qu'elle ne réclame les territoires annexés en 1945. Si la Pologne et la Tchéquie deviennent membres de l'OTAN, elles obtiendront des garanties quant à leur sécurité mais aussi des garanties pour leurs frontières.

 

Lorsque l'on converse avec des hommes politiques est-européens, on perçoit chez eux une drôle de psychose, faite de tension et d'impatience. Ils parlent comme s'ils étaient agités par une fièvre et me disent: «Comprenez-vous? Tous autour de nous veulent entrer dans l'OTAN, alors pourquoi ne le ferions-nous pas?». J'interprète cela comme un phénomène psychologique, post-traumatique. Il y a quelques jours, j'étais en Bulgarie. Là-bas, les politiques m'ont dit souvent: «Pourquoi n'entrerions-nous pas dans l'OTAN, si tous les autres le font. Même si nous ne le souhaitons pas, nous devons y adhérer parce que tous nos voisins sont dans l'OTAN, nous ne pouvons pas rester en marge...».

 

VV: Manifestement, ni l'OTAN ni les pays est-européens ne sont en mesure de prendre leurs distances avec l'élargissement de l'alliance militaire atlantique...

 

NSB: Il faut que la Russie prenne des décisions claires, qui ne soient pas que paroles et qu'elle annonce aux Européens, qu'elle les convainc qu'un tel comportement induira des contre-mesures russes, par exemple, la reprise de la production de certains types d'armes, la remise en question de certains traités sur la réduction des armes nucléaires, de même que la reprise de tests ou l'adoption de nouveaux systèmes d'armes, ou encore la réactualisation de certains éléments de notre doctrine militaire, alors l'Ouest sera obligé de réfléchir... Justement, c'est dans le domaine de la doctrine militaire que je veux rester: une clause de cette doctrine est toujours théoriquement valable; elle dit que la Russie a le droit d'administrer la première frappe nucléaire. Le principe de la doctrine militaire soviétique, qui veut que la Russie garde pour elle le droit d'effectuer une première frappe, n'a pas été abandonné officiellement. La Russie peut donc conserver son droit de frapper la première.

 

Dès lors, la Russie a non seulement le droit de riposte mais aussi le droit d'initiative, si elle se sent menacée. Ce que pouvait la puissante URSS de jadis, la Russie affaiblie d'aujourd'hui le peut encore. Les dirigeants de l'OTAN devraient y penser. Ensuite, l'intégration de la Russie et de la Biélorussie progresse, bientôt ces deux pays seront à nouveau réunis. L'Occident doit aussi y réfléchir. La réunification russo-biélorusse sera un événement important, qui obligera l'OTAN à s'élargir encore davantage. De son côté, la Russie devra développer des processus d'intégration comparables avec les pays de l'ex-URSS. Ce sera sa réponse à l'OTAN et elle s'efforcera de créer en Europe un système efficace de sécurité collective, limité au territoire de l'ancienne URSS.

 

VV: Quelques pays de l'ancienne URSS se sont toutefois donné pour objectif de devenir eux aussi membres de l'OTAN...

 

NSB: Il n'en est pas question. Nous réclamerons le soutien du Conseil de l'Europe et nous ferons en sorte que l'Ukraine acquiert le statut d'un pays non aligné, qui, par sa propre volonté, renonce à l'arme nucléaire.

 

VV: Comment les futurs rapports entre la Russie et l'Europe évolueront-ils après l'adhésion des nouveaux membres de l'OTAN?

 

NSB: La Russie devra immédiatement réviser ses rapports avec les Etats qui viennent d'adhérer à l'OTAN et prendre toutes les mesures adéquates pour assurer la défense de ses frontières. On nous a dit assez souvent que la Fédération de Russie possédait une frontière commune avec la Pologne, en Prusse orientale. Nous allons devoir défendre nos frontières. L'élargissement de l'OTAN coûtera fort cher: aux nouveaux pays membres, à ceux qui les soutiennent et à la Russie. Toutes ces charges seront portées par nos contribuables. La Russie n'hésitera pas à défendre ses frontières: chaque région, chaque citoyen.

 

VV: Pouvez-vous nous dire quelles mesures la Russie compte-t-elle concrètement adopter après l'adhésion des nouveaux membres de l'OTAN?

 

NSB: La Russie prendre position face aux événements. Mais elle ne peut dévoiler ses cartes. Mais soyez-en sûrs, la Russie ne laissera pas l'élargissement de l'OTAN vers l'Est sans réponse.

(propos recueillis par Vlado Vurusic pour le journal Globus de Zagreb, le 28 février 1997. Trad. all.: Dr. Hrvoje Lorkovic; une version allemande écourtée est parue dans Junge Freiheit n°16/1997; trad. franç.: R. Steuckers). 

samedi, 04 avril 2009

A. Latsa: entretien avec A. Douguine

Alexandre DOUGUINE par Alexandre LATSA

 

*

1 - Alexandre DOUGUINE, je doute que mes lecteurs ne vous connaissent pas et renvoie sinon à vos écrits et à la biographie complète de Métapedia à votre sujet. Néanmoins pouvez vous présenter et synthétiser votre combat politique et géopolitique jusqu'à ce jour ?

Je suis né le 7 janvier 1962 à Moscou, dans une famille de militaires. Mon père était officier et mère médecin. Au début des années 80 en étant dissident et ayant l'aversion pour le système communiste en peine décadence, j'ai fait connaissance des petits groupes traditionalistes et des cercles politico-littéraires de Moscou, où participaient le romancier Youri Mamleev, qui émigrera par la suite aux Etats-Unis, le poète Evgueni Golovine et l’islamiste Gueydar Djemal, fondateur en 1991 du Parti de la renaissance islamique. C’est aussi à cette époque que j'ai découvert les écrits d’Evola, de Guénon, de Coomaraswamy et de bien d’autres auteurs (en 1981, j'ai traduit en russe le livre de Julius Evola Impérialisme païen, qui sera diffusé clandestinement en samizdat).

Après la désintégration du système soviétique, au début des années 1990, j'ai crée l’association Arctogaia et le Centre d’études méta stratégiques, après les revues Milyi Angel et Elementy, qui paraîtront jusqu’en 1998-99. Mes idées ont été influencées a partir des années 80 par la Nouvelle Droite européenne et au premier lieu par Alain de Benoist que je tiens en plus grand estime jusqu'à présent. Je le considère un des meilleurs intellectuels français actuels – peut être même le meilleur.

Dernièrement je m’intéresse beaucoup à la philosophie de Martin Heidegger, à la sociologie de M.Mauss, L.Dumont, P.Sorokin et surtout à Gilbert Durand (récemment découvert par Alain de Benoist), mais également à l’anthropologie de G.Dumézil et de Claude Levy-Strauss. J’ai écrit plusieurs textes sur l’économie – entre autres sur les idées de Friedrich List, sur Schumpeter et F.Brodel.

A l’Université de l’Etat de Moscou, j’ai donné des cours de la Postphilosophie étudiant la philosophie de la postmodernité etc. Maintenant je suis professeur à la faculté sociologique et dispense les cours de Sociologie structurelle (sur la base des idées durandiennes sur l'imaginaire)

Si j'étais obligé de définir mes positions philosophiques je les décrirais comme appartenant au "traditionalisme".
Au premier lieu, je suis le disciple de René Guenon et de Julius Evola.

Dans la grande publique en Russie et dans quelques autres pays (Turquie, Serbie, le monde arabe etc) mes écrits géopolitiques sont très connus.

Mon idée est simple: il faut combattre l'impérialisme américain, le monde unipolaire et l'universalisme des valeurs libérales, marchandes et technocrate. Comme Alternative cela devrait être l'organisation du monde multipolaire comme ensemble de grandes espaces – chacun avec ses systèmes des valeurs propres – sans aucun préjugés.

Pour réaliser ce projet il faut créer le projet eurasien – commun pour l'Europe et la Russie mais avec les alliances stratégiques avec d'autres forces et cultures qui rejettent le mondialisme américain et la dictature libérale planétaire. L'eurasisme que je défends c'est le pluralisme absolu des valeurs.

2 - Les bruits ont courus que vous seriez en quelque sorte un "conseiller" (plus ou moins proche) de Vladimir Vladimirovitch Poutine. Pouvez vous le confirmer ? Et est ce que cela a changé depuis la présidence Medvedev ?

Je travaille avec les gens qui sont assez proches de Poutine et de Medvedev.
Je crois que pour l'instant Medvedev suit la même direction que Poutine.

3 - La Russie semble sortir d'une longue hibernation et se préparer a être un acteur de premier plan. Pensez vous que ce pays est les moyens de surmonter les défis en cours ? (démographie, santé, provocations militaires occidentales, immigration très forte.. etc etc). Comment jugez vous la situation en Russie en 2009, avec la crise financière mondiale ?

L'histoire est ouverte. Personne ne connais l'avenir. Je crois que la Russie va a entrer dans la période cruciale de son histoire. La crise va avoir un grand impact sur l'économie russe qui reste, hélas, libérale.
Mais cela va peut être guérir les illusion du pouvoir quant a l'efficacité des préceptes libéraux.

4 - L'unilatéralisme totalitaire décrété en 1991 par l'Amérique semble être arrivé a son terme. On assiste à une sorte de renaissance de grands espaces auto-centrés en Asie (Chine, Inde), dans le monde musulman (Turquie, union panafricaine ..), en Eurasie (Russie ..), en Amérique du sud (Brésil, Vénézuela ..), pensez vous que l'on doive s'en réjouir et pourquoi ?

Je voudrais que cela soit ainsi, mais il est trop tôt pour fêter la victoire. Un jour les États Unis tomberont mais pas maintenant. Je crois qu'ils vont faire LA guerre – Une Troisième Guerre mondiale pure et dure – qui causera d'immenses peines a l'humanité. Les États Unis ne peuvent plus gouverner le monde c'est sur, mais ils ne peuvent pas non plus se résigner – Cela serait pour eux une catastrophe. Leur seule solution – essayer de transposer leur problèmes sur les autres. Ca veut dire la guerre. Sans la fin previsible.

 

5 - L'Europe semble totalement absente de cette renaissance géopolitique, tellement elle est inféodée au parapluie Américain, quelle est votre opinion sur l'Union Européenne et sur la place que devrait avoir l'Europe dans le monde, et avec avec la Russie ?

Je crois que il y a deux Europe. L'Europe continentale (Franco-Allemande) et l'Europe atlantiste (Nouvelle Europe inclue). Ces deux Europes sont géopolitiquemet opposées en tout. Cela explique le blocage. Avec Sarkozy et Merkel la position des forces continentales est devenu plus faible. Je n'ai aucune recette pour l'Europe. C'est l'affaire des européens – quoi choisir.

 

6 - Vous êtes membre du mouvement eurasien, pouvez vous nous présenter ce mouvement (et sa structure jeune) et en définir le projet politique ?

Quelles sont ces ramifications en Europe, et ailleurs ? Pensez vous que ce "projet Eurasien" est proprement Russe ou est adaptable et conciliable avec la pensée pan-européenne (une europe libérée des chaînes Américaines) ?
Alexandre DOUGUINE ayant eu l'amabilité de détailler le programme global du mouvement Eurasien, je renvoie mes lecteurs à ce texte extrêmement intéressant ici.

7 - Pour beaucoup de Français la Russie est un modèle pour sa capacité à proposer un contre modèle civilisationnel, autre que le modèle libéral anglo-saxon et capitaliste. Cela dépasse le clivage droite-gauche, et réunit autant des communistes que des gaullistes historiques ou encore des nationalistes. Des voix s'élèvent même pour que la France intègre l'organisation de la coopération de Shanghai et quitte l'OTAN.
Pourtant au même moment, l'administration Sarkosy semble jouer sur deux tableaux : l'adoucissement avec la Russie (cf avec la guerre en Georgie) tout en réintégrant le commandement armé de l'OTAN ! Jugez vous cette double orientation crédible, et quel en est d'après vous le sens profond ?

Je la juge non crédible et contradictoire.
Quant a la Russie il est un peu naïf de croire que notre économie fonctionne bien. Il manque chez nous le secteur réel et le développement des technologies nouvelles. La Russie a besoin de l'Europe comme l'Europe a besoin de la Russie pour avoir des économies mutuelles garanties par les ressources nécessaires et l'accès aux technologies nouvelles.


8 - Pour les Européens, les grandes inquiétudes du futur sont le plausible leadership économique Chinois et l'explosion démographique des populations musulmanes, notamment à l'intérieur de l'Europe. Comment estimez vous compatible / incompatible ces deux éléments ? Il apparaît que le sujet de l'Islam, ou celui des "relations" avec la Chine par exemple n'est pas abordé de la même façon en Europe et en Russie.
On a les mêmes soucis géopolitiques. Mais on doit commencer par hiérarchiser les dangers.

Premièrement il faut se débarrasser des américains et de la dictature de la pensée unique, et seulement après s'occuper des chinois et de musulmans. Ils faut proposer aux musulmans le modèle de l'intégration dans la culture européenne mais pour cela il faut garder – parfois sauver – cette culture-la. Les chinois sont très sympathiques quand ils vivent en Chine.

Mais pour régler cette affaire de contrôle des vagues migratoires il est de nouveau – nécessaire de se débarrasser des mondialistes, libéraux et des atlantistes. Ce cercle vicieux ne peut être brisé qu'en commençant par la lutte antiaméricaine. Les musulmans et les chinois sont des défis secondaires. C'est pareil que cela soit pour l'Europe et pour la Russie.


9 - L'amérique de Obama "semble" vouloir faire la paix avec le monde entier, j'ai lu son programme, celui ci est pourtant largement plus offensif que celui de McCain notamment en Afghanistan/Pakistan pour poursuivre la lutte contre les "Talibans". Comment jugez vous cette élection et quels changements peux on attendre d'après vous dans les relations avec la Russie ?

Vous avez raison. Obama dépend du consortium politique et géopolitique américain. Donc il n'est pas libre de faire quoi que ce soit. Il va faire la guerre exactement comme le ferrait Mac cain.
C'est la logique des lois géopolitiques et non les opinions personnelles qui comptent dans les affaires réelles globales.

10 - Le pentagone semblait vouloir aspirer l'Ukraine dans l'OTAN (après l'échec Georgien) et installer sa flotte dans la mer noire. Ajouté aux remous politiques en cours et aux échéances électorales proches en Ukraine, peut on d'après vous imaginer un "conflit" proche dans ce pays et une scission en deux ou trois entités, a la manière yougoslave ?
En Ukraine habitent au moins deux peuples avec des orientations géopolitiques, stratégiques, culturelles et religieuses contraires. Il n’y a pas un peuple ukrainien. C’est l’appellation générale basée sur le critère territorial – les Ukrainiens ce sont littéralement « les habitants d’Ukraine » (en slave, ça veut dire « provence »). Ethniquement on les appelle « malorossy » -- « petits russes » littérairement. La langue ukrainienne a été créée artificiellement dans XIX siècle par les Polonais qui ont stylisé plusieurs dialectes « malorosses » avec les formes artificielles et assez affreuses imitant maladroitement le Polonais. En créant ce monstre linguistique, on a L’Ukraine actuelle est profondément divisée. L’élite politique est orange, orientée envers OTAN, l'UE et se base sur l’appui des habitants de l’Ouest ukrainien. Cette zone n’entre pas dans l’espace eurasien, il faut le reconnaître. Mais cette élite orange veut imposer sa volonté sur les masses de l’Est où la population se considère russe, rejette l'UE et l'OTAN et veut exister dans le grand espace commun avec les Russes de la Russie. Cette masse forme le second peuple (ou le premier) de l’Ukraine. Ce peuple est chrétien orthodoxe, malorosse (petit-russe) ou velikorosse (grand-russe), il consiste pour la plupart en des descendants des cosaques, et s’identifie à l’Empire eurasien. Ce peuple vote régulièrement pour le « Parti des régions » et en faveur de Yanoukovitch. La carte électorale de l’Ukraine montre comment ce pays est devisé en deux parts.
Dans le cas de l’Ukraine les eurasistes russes et ukrainiens agissent en logique avec leur vision du monde. Nous sommes contre l’Etat-Nation ukrainien parce qu’il est pro-américain, atlantiste et anti-eurasien. Mais aussi parce que le régime du néo-nazisme orange c’est une des parts du "système à tuer les peuples".
C’est le peuple de l’Ukraine de l’Est et de Crimée qui est maintenant en danger d’être oppressé, épuré et anéanti.

 

11 - L'agitation est également grande autour de l'arctique, cette zone énergétique essentielle. Récemment, les pays de l'OTAN ont organisé des manoeuvres militaires à grande échelle en Norvège (7.000 soldats de 12 pays) pour simuler une invasion de l'arctique et une sécurisation des champs pétroliers. Pensez vous que l'arctique puisse devenir la zone de conflit essentielle du 21ième siècle comme le pensent certains spécialistes en géopolitiques ?

Je pense que l'Arctique devient la place centrale de la stratégie d 'encerclement de la Russie – pour des raison stratégiques et pour la raison des ressources naturelles.

 

12 - Pensez vous plausible, ou souhaitable une alliance de l'hémisphère nord (amerique- europe - russie), comme l'a évoqué Dmitri Rogozine récemment pour parer à une éventuelle anarchie dans l'hémisphère "sud" ?

Je considère Rogozine comme atlantiste, opportuniste et neo-nazi antisémite. Il discrédite l'idée nationale russe et travaille toujours pour les américains. Il participait en Kiev à la révolution orange au cote des oligarques Berezovski et ses valets (tel Belkovsky).

13 - Comment voyez vous la situation mondiale en disons 2020 ? Et la Russie (alors que le Kremlin a développé ce fameux plan 2020) ?

Le plan 2020 ne vaut rien. Il n'existe pas. Je crois qu'au Kremlin maintenant prévalent les idées tactiques.
Donc j'attends la guerre et je crois que dans les prochaines années la situation changera trop pour faire quelques prévisions que ce soit.

14 - Le 24 mars dernier, c'était l'anniversaire des bombardements de 1999 sur la Serbie, que vous inspire cet évènement ?

La haine contre les américains et la solidarité avec le peuple serbe héroïque qui a eu assez de dignité de lancer ce "défi" au monstre américain.


jeudi, 12 mars 2009

Entretien avec Robert Poulet

Entretien familier avec Robert Poulet :
romancier de l'invisible et moraliste sans illusion
Ex: http://robertpoulet.chez.com
À 88 ans, Robert Poulet est assurément le doyen des critiques littéraires de langue française. Ce liègeois, aujourd'hui exilé à Paris et fort content d'y être, a également produit une importante œuvre romanesque, ainsi que divers essais polémiques. À l'occasion de l'édition revue et corrigée de son roman "Prélude à l'Apocalypse", paru fin 1944, nous avons souhaité le rencontrer.
Il nous reçoit dans son bureau envahi par les livres : ceux qu'il a lus et ceux qu'il doit encore lire et dont il assurera prochainement la critique. L'œil vif et souvent malicieux, cet alerte octogénaire parle un français irréprochable, qui ne surprend pas le lecteur de son œuvre, tout empreinte de rigueur et de clarté.
 
Un certain Marcel Proust
 
- Quel jugement rétrospectif portez-vous sur votre carrière de critique ?
 
- Je l'ai commencée en 1913. J'était alors étudiant à la Faculté des Mines de l'université de Liège et je donnais des petits articles à un journal qui s'appellait "L'Etudiant libéral". Récemment, j'ai retrouvé un de ces articles : il était consacré à un écrivain alors complètement inconnu, et dont le livre m'avait paru à la fois curieux et intéressant. J'avais donc écrit un article ridicule, comme on en fait à cet âge là mais dans lequel j'affirmais que c'était là un auteur à suivre, car profondément original. Le livre s'appelait "Du côté de chez Swann" et était dû à un certain Marcel Proust. Ce n'était pas mal débuter, pour un critique. Ensuite, la guerre est arrivée. Puis, j'ai entamé une brève carrière de scénariste et d'assistant-metteur en scène, au cours de laquelle je donnais aussi des articles à des revues d'avant-garde. C'est ainsi que ma carrière de critique s'est amorcée. Le jour où je suis devenu un écrivain, je me suis rapidement aperçu qu'on ne pouvais pas être que cela et j'ai donc choisi, dans le journalisme - outre la rubrique politique, par devoir de conscience - la critique littéraire, c'est-à-dire ce qui se rapproche le plus du métier d'écrivain. Pendant la seconde guerre mondiale, j'ai poursuivi assidûment cette activité, et ce, non seulement dans les journaux belges. En prison, j'ai continué à écrire. Je suis un être qui continuent volontiers !... Après, je suis rentré en France et j'ai été obligé, pour vivre, de poursuivre mon activité d'aristarque, dont je vous dirai, au risque de vous surprendre, qu'elle m'assomme. Mais on peut à la fois s'ennuyer et être honnête. À partir du moment où l'on accepte de faire ce métier-là, il faut le faire convenablement. Là, je puis constater avec satisfaction que durant cette longue période, soit depuis près de septant ans, je n'ai "raté" rien d'important, et que, d'autre part, les découvertes que j'ai eu la chance de faire se sont révélées presque toutes authentiques.
 
- En marge de votre œuvre critique, vous avez composé une œuvre romanesque que vous qualifiez vous-même d' "itinéraire du visible vers l'invisible".
 
- Oui. Le jour où je suis devenu romancier, c'est-à-dire lors de la publication d' "Handji", j'ai compris que le roman n'avait d'intérêt pour moi que s'il apportait une découverte importante dans la distribution des sentiments et des idées à l'intérieur de l'homme. Pour moi, tout s'est ordonné dans mon esprit en fonction d'une image qui m'est apparue avec grande force vers l'âge de douze ans, et qui était que le monde n'existe pas. Cela signifie que nous sommes devant une vision de notre esprit, occupés à rêver une aventure qui n'est pas tout-à-fait réelle. Derrière cette aventure, il y a une autre vérité, incomparablement supérieure, d'une autre nature. Pour moi, le roman consiste donc à partir de la réalité apparente pour essayer d'arriver à la "réalité réelle". Dans tous mes romans, j'ai donc cherché des chemins pour aller de l'une à l'autre, et chaque fois, en saisissant des occasions. Dans "Handji", c'est la solitude passionnée. Dans "Les Sources de la vie", c'est le contact avec l'humanité primitive.
 
Une espèce de suicide de l'humanité
 
- Dans "Préluse à l'Apocalypse", c'est le contact avec la fin du monde ?
 
- En effet. Il s'agit de savoir comment le monde pourrait passer de la sensibilité vulgaire, la plus plate (je l'ai, exprès, placée aussi bas que possible) au sentiment de la dissolution dans un autre univers. Il s'agit donc d'aller de ce qui semble être à ce qui est réellement, par l'intermédiaire des catastrophes. Dites-vous que ce livre a été écrit en 1943, c'est-à-dire à une époque où personne n'avait encore pleinement vu ce à quoi la sottise et la méchanceté des hommes peuvent aboutir lorsqu'elles sont déchaînées. L'idée d'une espèce de suicide de l'humanité pouvait traverser l'esprit. Avant même la révélation décisive de la bombe atomique. Aujourd'hui, nous avons de nouvelles raisons de nous ancrer dans une telle conception...
 
- "Prélude à l'Apocalypse", c'était, en quelque sorte, de la littérature fantastique ?
 
- Oui, mais je n'aime pas cette appellation car le fantastique consiste à s'installer dans une réalité différente. Or, moi, je ne m'y installe pas, je m'y dirige. Et, fatalement, je n'y arrive pas. Pour autant que l'on puisse le dire soi-même, "Les ténèbres" me semblent, à cet égard, le plus caractéristique de mes romans. Je m'y suis fixé pour tâche de partir de la vie pour arriver à la mort sans que le lecteur ni le héros ne s'aperçoivent du passage. Mais "Les Ténèbres" débouchent dans un tunnel où l'obscurité se fait de plus en plus profonde. C'est dire que je n'en ai pas atteint le bout. Je ne puis d'ailleurs pas le découvrir, ce bout. Cela supposerait que j'aie des vues sur un au-delà que j'ignore et que je n'appréhende - très fermement - que par la foi religieuse.
 
- Précisement, l'aspect religieux est fondamental dans votre œuvre. Dans "Prélude à l'Apocalypse", on trouve d'ailleurs plus d'une correspondance avec l' "Apocalypse" de Saint-Jean, dont on rejoint même le texte, à la fin du roman.
 
- C'est parce que j'ai cherché des références dans les connaissances que l'on peut avoir de l'apocalypse humaine. On trouve très peu de ces éclaircissements dans la littérature universelle. Le texte de Saint-Jean en est un mais c'est une référence trompeuse et littérairement peu efficace car elle s'articule sur des allusions devenues incompréhensibles. Cela étant, je crois tout de même être parvenu à poser des jalons, où un peu de cette réalité différente, que l' "Apocalypse" de Saint-Jean paraît décrire, s'insinue dans la réalité tout court, qui est obscurcie aujourd'hui par le rationalisme, le raidissement et l'appauvrissement de la pensée moderne.
 
Un pessimisme gai
 
- Vos essais sont sans doute plus connus que vos romans. Parmi ces essais figure la fameuse trilogie "Contre l'amour", "Contre la jeunesse" et "Contre la plèbe". Les titres de ces pamphlets ont permis à vos détracteurs de vous taxer abusivement de négativisme. Or il s'agit bien du contraire.
 
- Bien sûr. Il va de soi que ces "contre" sont, en réalité, des "pour". En tant que moraliste, il s'agissait pour moi de détruire ce qui est faux pour arriver à ce qui est vrai. Si j'avais, par exemple, écrit un livre intitulé "Pour l'amour conjugal", il est bien clair qu'il n'aurait guère attiré l'attention des gens. Il fallait abattre la muraille pour voir ce qui était derrière. Il en va de même pour "Contre la jeunesse", qui est, en fait, une apologie de la maturité, pour "Contre la plèbe", qui se ramène à l'illustration et la défense de la qualité humaine. C'est à cela que j'ai voulu arriver. Je suis en train d'écrire actuellement un petit "Traité de misanthropie bien tempérée". L'idée du misanthrope qui explique comment il faut procéder pour être méchant à bon escient; cela a l'air très négatif mais je sais déjà que le dernier mot de ce livre sera le mot "charité". Comme vous voyez, ce sera une fois de plus un "contre" qui se transforme en "pour".
 
- Vous vous considérez vous-même comme un "pessimiste gai". Qu'entendez-vous par là ?
 
- Il y a l'idée qu'on se fait de l'homme, de la nature humaine, et puis, il y a l'idée qu'on se fait de la vie. Ce sont deux choses différentes. La connaissance que j'ai des hommes se fonde sur une expérience complète. Je crois qu'il n'y a pas beaucoup d'écrivains qui aient eu l'occasion, comme je l'ai eue, de vivre dans des milieux aussi différents. J'ai été tour à tour paysan, ouvrier, soldat, prisonnier, forçat, et j'ai parcouru le monde entier. Bref, je crois être parvenu à savoir ce qu'est l'homme tel qu'il s'est présenté au bout d'un certain développement de sa race et de son espèce. J'ai résumé cela, un peu sommairement, en disant que "l'homme est une sale bête". Au fond, il est presque impossible de supporter sans agacement un autre être vivant, sauf sous le couvert d'un miracle extraordinaire qui s'appelle l'amour véritable et qui se confond, à des degrés divers, avec l'amour conjugal. C'est un de mes étonnements et de mes éblouissements les plus constants. Que l'extraordinaire égoïsme dont tout homme est pétri puisse s'ouvrir, ne serait-ce que pour un seul être, à côté de lui, c'est quelque chose de merveilleux. Je dis parfois, en plaisantant, qu'il y a beaucoup de défauts dans la création, mais que l'invention du mariage les compense tous. Ma constation est aussi celle-ci : d'une part, l'homme est une sale bête mais d'autre part il n'existe pas d'homme qui ne gagne à être connu. C'est cela que j'appelle mon pessimisme. En face de ça, il y a l'idée qu'on se fait de la vie. Récemment, je me suis aperçu, avec une certaine satisfaction, que parmi tous les livres que j'ai écrits, il y en a un bon tiers qui finissent par le mot "vie". Cela m'a frappé. Mon amour de la vie, l'extrême bonheur que j'éprouve chaque matin à me retrouver plongé dans cette aventure, se sont projetés, comme malgré moi, jusque dans mes ouvrages les plus sombres. Il y a trois ans, j'ai été très gravement malade. J'ai compris que ma substance physique en avait assez. Je puis improviser le dialogue qui s'est alors engagé entre la carcasse de Robert Poulet et Robert Poulet lui-même. La carcasse disait : "Ça suffit, laisse-moi tranquille maintenant. Je suis fatigué." Eh bien, Robert Poulet n'était pas d'accord et répondait : "Mais non, pas du tout, c'est trop intéressant. Il y a encore quelques découvertes à faire et quelques joies à éprouver". C'est ainsi que j'ai fait l'effort nécessaire pour franchir cet obstacle-là, après beaucoup d'autres.
 
Le moment de bonheur de Céline
 
- Au cours de votre vie, vous avez eu la chance de rencontrer les plus grands écrivains de ce siècle. Vous fûtes notamment l'ami de Céline.
 
- Oui, je l'ai connu dès 1931, c'est-à-dire avant la révélation du "Voyage au bout de la nuit". Le Céline de cette époque était un personnage bien différent de celui des dernières années de sa vie. Il était alors joyeux, sarcastique, fort porté sur le jupon et très préoccupé de ne pas gâcher sa carrière médical. Il avait aussi un côté gandin. Certes, il ne s'habillait pas comme une gravure de modes mais il surveillait sa toilette d'assez près. L'athlète tiré à quatre épingles ne ressemble évidemment en rien au fantôme dépenaillé que j'ai vu revenir du Danemark quelques années plus tard. Que voulez-vous : il avait peur. Le personnage de Céline était la superposition d'une extrême audace d'imagination et d'une couardise physique à peu près illimitée.
 
- Sauf en 1914, tout de même !
 
- Vous savez, tout le monde est courageux pendant deux ou trois jours. Mais je ne veux pas diminuer les mérites guerriers de Céline, que j'ai aimé vraiment plus que l'on aime un ami ordinaire, c'est-à-dire avec une indulgence et une tendresse particulières. Je suis aussi le seul de ses amis qu'il n'ait pas un jour insulté, fichu à la porte et traité de tous les noms. Jamais il n'a osé. Il savait que, s'il eût dit la moindre chose blessante, il ne m'aurait jamais revu. Dans "Rigodon", roman posthume paru en 1969, il y a quelques pages fielleuses, et d'ailleurs absurdes, à mon égard. Elles ne m'ont évidemment pas fait plaisir. Je les ai pardonnées à sa mémoire. Ce qui était extraordinaire, c'était de le voir travailler. Je ne l'ai jamais vu aussi heureux que lorsqu'il écrivait. Pourtant, ce genre de bonheur faisait froid dans le dos. Voir Céline travailler, c'était assister au supplice des cent mille plaies. Spectacle atroce. Il s'arrachait les mots les uns après les autres comme si c'étaient des morceaux de chair. Mais il était heureux... De temps en temps, il me lisait la page qu'il avait écrite, et il avait alors son moment de bonheur.
 
- Vous avez bien connu Montherlant également...
 
- Nous nous voyions de loin en loin, mais très volontiers, de 1935 jusqu'à la fin de sa vie. Nous avons dîné ensemble quinze jours avant son suicide. Il m'a d'ailleurs, à ce moment-là, laissé entendre quelles étaient ses intentions et m'a dit des choses que je n'ai jamais écrites car cela aurait pu déformer l'idée qu'il voulait laisser de lui et qui était peut-être la vraie. Cependant, entre Montherlant et moi, ce n'était pas une véritable amitié car il n'était l'ami de personne. Plutôt une familiarité, un compagnonnage agréable, qui n'a pas engagé mon cœur comme ce fut le cas avec Céline, Drieu La Rochelle ou Brasillach, qui furent, pour moi, de véritables amis. Cela aussi, c'est un miracle.
 
Propos recueillis par
Marc Laudelout
Le Nouvel Europe-Magazine, n° 143, mai 1982
 
 

mercredi, 22 octobre 2008

Entretien avec Aurel Cioran

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Entretien avec Aurel Cioran

 

Q.: Dans la nouvelle nomenclature des rues de Bucarest, on trouve aujourd'hui le nom de Mircea Eliade, mais à Sibiu, il n'y a pas encore de rue portant le nom d'Emil Cioran. Que représente Cioran pour ses concitoyens de Sibiu à l'heure actuelle?

 

AC: Donner un nom à une rue ou à une place dépend des autorités municipales. Normalement, il faut qu'un peu de temps passe après la mort d'une personnalité pour que son nom entre dans la toponymie. Quant à ce qui concerne les habitants de Sibiu et en particulier les intellectuels locaux, ils ne seront pas en mesure de donner une réponse précise à votre question.

 

Q.: Je vais vous la formuler autrement. Dans une ville où il y a une faculté de théologie, comment est accueilli un penseur aussi négativiste (du moins en apparence...) que votre frère?

 

AC: Vous avez bien fait d'ajouter “en apparence”. Dans un passage où il parle de lui-même à la troisième personne et qui a été publié pour la première fois dans les “œuvres complètes” de Gallimard, mon frère parle très exactement du “paradoxe d'une pensée en apparence négative”. Il écrit: «Nous sommes en présence d'une œuvre à la fois religieuse et antireligieuse où s'exprime une sensibilité mystique». En effet, je considère qu'il est totu-à-fait absurde de coller l'étiquette d'“athée” sur le dos de mon frère, comme on l'a fait depuis tant d'années. Mon frère parle de Dieu sur chacune des pages qu'il a écrites, avec les accents d'un véritable mystique original. C'est justement sur ce thème que je suis intervenu lors d'un symposium qui a eu lieu ici à Sibiu. Je vais vous citer un autre passage qui remonte à 1990 et qui a été publié en roumain dans la revue Agorà: «Personnellement, je crois que la religion va beaucoup plus en profondeur que toute autre forme de réflexion émanant de l'esprit humain et que la vraie vision de la vie est la vision religieuse. L'homme qui n'est pas passé par le filtre de la religion et qui n'a jamais connu la tentation religieuse est un homme vide. Pour moi, l'histoire universelle équivaut au déploiement du péché originel et c'est de ce côté-là que je me sens le plus proche de la religion».

 

Q.: Parlons un peu des rapports entre Emil Cioran et les lieux de son enfance et de sa jeunesse. Vous demandait-il de lui parler de Rasinari et de Sibiu?

 

AC: Il se souvenait de choses que moi j'avais complètement oubliées. Un jour, il m'a dit au téléphone: «Je vois chaque pierre des rues de Rasinari». Pendant toute sa vie, il a conservé en son fors intérieur les images avec lesquelles il a quitté la Roumanie.

 

Q.: Il n'a jamais manifesté le désir de revenir?

 

AC: Quand nous nous sommes séparés en 1937, il m'a dit, en avalant sa salive, dans le train: «Qui sait quand nous nous reverrons». Et nous ne nous sommes revus que quarante ans plus tard, mais pas dans notre pays. Il a toujours désiré revenir. En 1991, il a été sur le point de s'embarquer pour la Roumanie. C'est alors que la maladie l'a frappé, qu'il a dû rentrer à l'hôpital. Dans ces derniers moments, il a été contraint d'utiliser une chaise roulante. Il craignait forcément de voir une réalité toute autre, s'il était revenu. Et effectivement il y a eu beaucoup de changements; à Rasinari, la composition sociale a complètement changé: quasi la moitié des habitants du village travaillent à la ville, ce qui conduit forcément à un changement de mentalité. Tout est bien différent du temps où nous étions adolescents. A Rasinari, nous étions des gamins de rue, nous allions en vadrouille toute la journée à travers champs, forêts et rivières...

 

Q.: ... et à Coasta Boacii.

 

AC: Oui, en effet, il évoquait sans cesse, avec énormément de regrets, ce paradis qu'était Coasta Boacii. «A quoi bon avoir quitté Coasta Boacii?», disait-il. Ensuite, il y avait ce pacage, près de Paltinis, où nous nous rendions tous les étés. Nous y restions un mois, dans une baraque tellement primitive, située dans une clairière où régnait une atmosphère extraordinaire.

 

Q.: Vous avez été très proche de votre frère non seulement dans les années d'enfance mais aussi pendant votre adolescence et votre jeunesse. Parlez-moi de vos expériences communes...

 

AC: Nous assistions aux cours de Nae Ionescu à l'Université. Ce professeur était une figure extraordinaire! Beaucoup de gens venaient l'écouter et pas seulement des étudiants. Mon frère y retournait même après avoir quitté l'université, pour rendre visite au professeur. Un jour, dès que la leçon fut terminée, Nae Ionescu a demandé: «De quelles choses devrais-je encore parler?». Et mon frère, spontanément lui a répondu: «De l'ennui». Alors Nae Ionescu a prononcé deux leçons sur l'ennui. Par la suite, ses adversaires ne sachant plus quelles armes utiliser pour l'attaquer, parce qu'il était le maître à penser de toute la jeune génération d'intellectuels qui soutenaient le “Mouvement Légionnaire”, ils l'ont accusé d'être... un plagiaire! Ce genre d'attaques est une manifestation infernale... L'œuvre d'une mafia de criminels, qui a commencé par s'attaquer à Heidegger, puis à chercher à faire le procès d'Eliade...

 

 

Q.: ... et même de Dumézil!

 

AC: Toujours sous prétexte d'antisémitisme. En Roumanie, à l'époque, il y avait bien sûr de l'antisémitisme, en réaction à l'arrivée massive d'un million de juifs venus de Galicie. En ce temps-là, c'était un véritable problème. Mais j'ai l'impression que cette manœuvre visant à criminaliser Eliade, Noica et les autres intellectuels de la “jeune génération” produira des effets contraires à ceux désirés.

 

Q.: Vous avez milité dans le Mouvement Légionnaire. Avez-vous connu Corneliu Codreanu?

 

AC: C'était un homme exceptionnel à tous points de vue. Il avait du charisme. J'ai souvent dit qu'il était un trop grand homme pour le peuple roumain, trop sérieux, trop grave. Il voulait une réforme radicale, basée sur la religion. Il était un esprit très intensément religieux. Il y a encore une chose qui m'impressionne profondément aujourd'hui: la manière dont le Mouvement Légionnaire abordait les problèmes économiques. Le Mouvement avait ouvert des restaurants, des réfectoires, où l'on vous servait un très bon repas, avec du vin en quantité limitée. L'idée qui me paraissait extraordinaire, c'est que les prix n'étaient pas fixés. Chacun payait selon ses propres moyens ou selon son bon plaisir.

 

Q.: Où avez-vous connu le Capitaine?

 

AC: A Bucarest, parce que j'y étudiait la jurisprudence. Mais je l'ai rencontré deux ou trois fois dans un camp de travail légionnaire. C'était un homme exceptionnel à tous points de vue.

 

(propos recueillis à Sibiu le 3 août 1995 par Claudio Mutti et parus dans la revue Origini, n°13/février 1996; trad. franç. : Robert Steuckers).

mardi, 14 octobre 2008

Entretien avec A. A. Prokhanov

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ARCHIVES de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

 

Russie: identité nationale, impérialité, post-commu­nisme, nationaux-capitalistes et “compradores”

Entretien avec Alexandre Andreïevitch Prokhanov

 

L'un des principaux conseillers “nationalistes” de Guennadi Ziouganov  —le principal adversaire de Boris Eltsine lors des élections présidentielles du 16 juin 1996 en Russie—  nous a accordé un entretien exclusif le 28 mai à Moscou: il s'agit d'Alexandre Andreïevitch PROKHANOV, par ailleurs directeur de l'hebdomadaire d'opposition nationale Zavstra, ancien directeur de Dyeïnn (interdit après les jour­nées du 3 et 4 octobre 1993) et de Lettres soviétiques, un mensuel d'avant la peres­troïka, publié en plusieurs langues et où les lettres russes sortaient progressive­ment de la cangue marxiste pour retrouver pleinement leur russéité.  Cet entretien avec A. A. Prokhanov aidera nos lecteurs à y voir plus clair dans les arcanes de la politique moscovite et aussi à mieux comprendre l'étrange alliance entre nationa­listes et socialistes, entre “bruns” et “rouges” comme dit la presse à sensation, qui est en train de se sceller en Russie et pourrait, en cas de victoire des “nationaux-communistes”, bouleverser l'actuel rapport des forces en Europe (Loukian STROGOFF).

 

Q.: Vous êtes en général considéré par les media occidentaux comme l'un des principaux conseillers “nationalistes” du candidat Guennadi Ziouganov. L'identité nationale russe est toujours difficile à définir pour les Occidentaux qui n'y retrouvent pas les clivages auxquels ils sont habitués... Certains nationalistes russes privilégient la définition d'une “nation ethnique”, fondée sur l'idée de “peuple majoritaire”. Telle ville ou telle région serait russe parce que peuplée d'une majorité de Russes. D'autres nationalistes définissent la nation russe comme héritière de l'histoire de la Russie impériale. Ils en appellent à la défense des “intérêts traditionnels” de la Russie. Votre référence à vous est-elle la nation ethnique ou la nation impériale?

 

AAP: Je privilégie plutôt la deuxième définition. Depuis longtemps, j'essaie de comprendre pourquoi les nationalistes russes n'arrivent pas à s'unir dans un grand mouvement. J'ai moi-même déployé des efforts en faveur d'un mouvement de droite na­tionale russe, mais sans succès jusqu'à présent. Je crois que l'homme russe ne peut se débarrasser de la tradition impériale. L'approche purement ethnique soulève plus de problèmes qu'elle n'en résoud. Que l'on songe aux millions de mariages mixtes, à l'imbrication des peuples et des langues. Il faudrait aussi rendre les territoires où les Russes sont minoritaires. Les partisans de la nation ethnique “pure” sont peu nombreux et constituent des groupes “exotiques”. En général, le nationalisme russe est synonyme de conscience impériale. Les mouvements nationalistes et “impérialistes” ont dispersé leur soutien à tous les candidats à l'exception de Grégori Yavlinski, qui serait donc, d'un certain point de vue, le seule candidat représentant un “mouvement ethniquement pur...”.

 

Q.: Comment analysez-vous les rapports de forces parmi les forces politiques “nationalistes”, “socio-démocra­tiques” et “communistes-orthodoxes” qui soutiennent la candidature de Ziouganov?

 

AAP: Les communistes de “stricte obédience”, il n'y en a pratiquement plus, et depuis longtemps. Toute l'élite politique et idéologique a trahi la première le Parti en devenant “libérale” et en formant le camp “démocratique”. Sont restés dans le Parti des gens aux idées pragmatiques, imprégnés par l'idéal d'un grand Etat soviétique. Pour eux, l'URSS représentait le commu­nisme. Je pense en particulier aux scientifiques, aux “bâtisseurs”, aux militaires. C'est ce type de communistes qui prédo­mine aujourd'hui dans un Parti où il n'y a plus de discussions idéologiques comme dans les années 1905-1917. Le Parti actuel ne prétend plus au monopole de la vérité. De ce point de vue, on peut le qualifier de parlementaire et de “social-démocrate”. Je ne doute pas qu'en cas de victoire il conservera cette orientation. Il est dans une période de transition. Peu à peu, il devient le parti des intérêts russes, où domine l'idée de justice et d'harmonie sociales et dans lequel se retrouvent des gens qui perçoi­vent le monde de manière rationnelle, mais aussi irrationnelle, je veux dire les croyants. Provisoirement, on peut effective­ment le qualifier de “national-communiste”. Deux sources d'énergie l'animent: l'énergie de la nation blessée et l'énergie de la souffrance sociale.

 

Q.: On a accusé Ziouganov d'anti-sémitisme parce que dans son livre Je crois en la Russie, il a écrit: «La diaspora juive contrôle traditionnellement la vie financière du Continent et devient chaque jour davantage l'inspiratrice principale du système socio-économique occidental». Pensez-vous que Ziouganov soit antisémite?

 

AAP: En Russie, comme en Europe, une situation s'est créée qui fait que quiconque prétend parler des rapports des Juifs à la société est qualifié d'antisémite. Les relations entre Russes et Juifs sont effectivement tourmentées, comme elles l'ont tou­jours été, parce qu'il y a eu beaucoup de souffrances de part et d'autre. Ziouganov, en tant qu'analyste politique, parle de ques­tions qui débordent du cadre de la Russie. Mais il n'est pas antisémite. Homme d'Etat, il doit prendre en compte toutes les forces du pays et tenter de restaurer la justice et l'harmonie partout où elles ont été bafouées.

 

Q.: Eltsine est clairement le candidat de l'étranger, des forces financières mondialistes. Mais qu'en est-il de Yavlinski? Doit-il être considéré comme le candidat de secours de l'étranger? Le maintien de sa candidature s'explique-t-il par un ordre venu d'ailleurs ou simplement par le fait qu'il se serait montré trop gourmand lors de ses marchandages avec Eltsine?

 

AAP: Autour d'Eltsine gravitent deux types de politiciens; les uns que l'on peut qualifier de “nationaux-capitalistes” et les autres que j'aime à appeler les “compradores”. Le conflit entre eux est permanent. A un certain moment, Eltsine s'est séparé des li­béraux radicaux. Il a rempli son administration de nationaux-capitalistes et, en ce sens, on ne peut plus dire qu'il soit absolu­ment une créature des Etats-Unis. Et les intérêts des libéraux radicaux se trouvent réellement représentés par Yavlinski qui n'est donc pas un candidat de secours mais une créature autonome, un “produit pur”. Le conflit entre Eltsine et Yavlinski pro­vient de deux visions du monde différentes. C'est un conflit entre clans et intérêts capitalistes divergents. Aujourd'hui, les na­tionaux-capitalistes, les “durs”, les “ministres de force” autour du Général Koriakov, sont l'un des piliers sur lequel s'appuie Eltsine pour contrebalancer l'influence de l'autre pilier constitué des “compradores” comme son conseiller économique Livchits et son premier ministre Tchernomyrdine. Ce second pilier est proche de Yavlinski.

 

Q.: Déjà pendant l'été 1995, Oleg Boiko, parlant au nom d'un certain nombre de banquiers, souhaitait le report des élections législatives en échange d'un soutien financier au sommet de l'Etat. En quelque sorte, il voulait “privatiser” la présidence de la Russie et le gouvernement fédéral. Il déclarait: «Le choix est entre le capitalisme et la démocra­tie». Aujourd'hui, la “lettre des 13” (banquiers et grands hommes d'affaires) réclame un compromis historique et un gouvernement d'union nationale qui préseveraient leurs intérêts. Ils font un chantage à la guerre civile. Que pensez-vous de cette démarche? Guennadi Ziouganov devrait-il accepter de débattre d'un tel compromis avant les élections?

 

AAP: La menace de guerre civile n'est pas une abstraction. Si elle était un mythe, elle ne serait pas employée comme un ins­trument de guerre psychologique. La situation est si conflictuelle qu'elle interdit aujourd'hui toute renaissance du pays. Les forces antagonistes en présence s'annulent. Ces 13 banquiers que nous appelons les “13 vampires” ont une motivation cachée à l'opinion publique: la peur d'un nouveau coup de force d'Eltsine s'appuyant sur les “nationaux-capitalistes”. Ce groupe serait alors en position de grande force et le clan des “compradores” autour de Tchernomyrdine, qui sert ces treize banquiers, ont peut d'être les prochaines victimes d'une sorte de “fascisme de droite”. Il faut se souvenir du conflit de l'an dernier entre le Général Koriakov et Vladimir Goussinski, président du groupe financier et de presse Most, élu récemment président du Congrès des Juifs de Russie après quelques mois d'exil à Londres. C'est cette peur, non pas des “nationaux-communistes” mais des “nationaux-capitalistes” qui les a contraints à formuler des propositions de compromis entre les différentes forces politiques.

 

Q.: En cas de victoire de Guennadi Ziouganov, quelles seront les mesures de première urgence qui seront deman­dées au nouveau gouvernement par votre hebdomadaire   Zavstra?

 

AAP: Nous ne cherchons pas de revanche. Une amnistie sera nécessaire pour retrouver la paix sociale. Nous honorerons nos morts. La vengeance ne viendra que de Dieu et la grâce, du chef de l'Etat.

 

Q.: Vous avez été le chroniqueur quasi officiel de la campagne militaire soviétique en Afghanistan. Comment jugez-vous de l'opportunité et des résultats de la campagne militaire russe en Tchétchénie, en particulier à la lumière du “cessez-le-feu” qui vient d'être signé au Kremlin?

 

AAP: Le conflit en Tchétchénie est le résultat du développement d'un monde criminel, à Grozny comme à Moscou. Il s'agit en fait d'un règlement de comptes entre groupes mafieux. C'est pourquoi cette guerre n'en était pas vraiment une. Elle a été “instrumentalisée” par les lobbies du pétrole, de la drogue, etc. A ma connaissance, ce sont des émissaires de Tchernomyrdine qui se sont entendus avec les chefs tchétchènes sur une nouvelle répartition des bénéfices des oléoducs existants et en projet. Eltsine a arrêté pour l'instant la guerre et peut en tirer un bénéfice électoral, mais rien n'est résolu au fond et la criminalisation de la Caucasie a été dopée par cette guerre. Les empires criminels n'ont pas le droit d'exister.

 

Q.: Evguénié Primakov semble avoir rendu une certaine cohérence à la diplomatie russe. Le ministre de l'intérieur, Anatoli Koulikov, donne également l'impression d'être un homme intègre et sérieux. Ces deux ministres pour­raient-ils, à votre avis, conserver leur poste dans le cadre d'une nouvelle administration?

 

AAP: C'est possible. Connaissant bien Guennadi Ziouganov et son approche prudente en matière de changement, il ne peut qu'apprécier un spécialiste comme Primakov, brillant représentant de la tradition diplomatique soviétique. Il est sans doute unique. Il a su rétablir la situation après le départ de Kozyrev, le pion des Américains. Il peut donc être très utile. Koulikov est aussi un bon spécialiste. Nous n'oublions pas comment il a fait tuer beaucoup de nos amis les 3 et 4 ocotbre 1993. Il a certains mérites autres cependant. Le plus important est d'avoir refusé de participer au coup de force prévu le 17 mars dernier et qui avait connu un début d'exécution avec l'occupation de la Douma pendant quelques heures. Sa volonté déclarée en début d'année de contrôler les banques anti-nationales et ses tentatives pour lutter contre la corruption dans son ministères peuvent plaider en sa faveur.

 

Q.: Certains pays ouest-européens, en particulier la France, s'efforce d'affranchir l'Union Européenne de la tutelle américaine. Un nouveau pouvoir en Russie devrait-il appuyer une telle démarche vers une “Europe aux Européens”?

 

AAP: Tout ce qui est venu d'Europe en Russie a été négatif. L'Occident est pour nous synonyme du Mal. Les politiciens sont intéressés à un éloignement des Etats-Unis d'Europe, parce que le retrait américain affaiblirait celle-ci. Il y a des nœuds de contradictions qui handicapent heureusement son influence sur la Russie. En grande partie, l'Union Européenne est une illu­sion comme l'ont montré les contradictions entre la France et l'Allemagne à l'occasion du conflit dans les Balkans, dont la Russie a jouées. Elle continuera dans cette voie. Le recentrage de la politique améircaine vers l'Asie peut faire des Etats-Unis un partenaire de la Russie dans cette région.

 

(propos recueillis par Loukian STROGOFF).

vendredi, 10 octobre 2008

Entretien avec Anatoli Ivanov

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ARCHIVES DE "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1996

 

Identité et socialisme en Russie

Entretien avec Anatoli Ivanov

 

Tous les Européens tournent anxieusement leurs regards vers la Russie. Les élections de la Douma n'ont pas profité à l'opposition nationale, qui n'a pas obtenu la majorité des sièges escomptée. L'opposition de gauche a pris, elle, un poids considérable. Mais le vieux clivage gauche/droite, cher aux démocraties vermoulues d'Europe occidentale et des Etats-Unis, est beaucoup plus fluide en Russie car l'anticapitalisme et l'anti-américanisme sont aux programmes de ces deux blocs oppositionnels. C'est en tenant compte de cette réalité idéologique que le spécialiste allemand des questions russes, Wolfgang Strauss, est allé s'entretenir avec notre correspondant russe, Anatoli M. Ivanov, fin observateur de la vie politique russe actuelle (Robert Steuckers).

 

WS: Aviez-vous envisagé la victoire de l'opposition de gauche?

 

AMI: Oui. J'avais pronostiqué 30%. Mais la concentration des voix sur le parti de Ziouganov a été plus forte encore que je ne l'avais imaginé (au lieu de 15%, il a obtenu 22%). Les partisans du PC ont ainsi évité une dispersion des votes. Je connais même d'anciens détenus politiques qui ont voté pour le PCFR. Le parti “Troudovaïa Rossiya” (“La Russie au Travail”) de Viktor Ampilov a engrangé 4,5% des voix et obtenu un seul mandat direct. Le “Parti Agrarien” a eu 4% et 20 élus directs. Le bloc électoral “Le pouvoir au peuple” n'a, lui, obtenu que 1,5%, mais s'est assuré la majorité dans onze circonscriptions. Ses têtes de liste, Ruchkov et Babourine ont désormais un siège au Parlement.

 

WS: Ces résultats ont-ils été obtenus au détriment de l'opposition nationale?

 

AMI: Sans nul doute, on peut dire que l'aile nationale du spectre politique russe est sortie affaiblie de ces élections. Jirinovski a eu 11% et a subi ainsi une défaite dans toutes les circonscriptions où le vote personnel avait de l'importance. Parmi ses 180 candidats directs, un seul a obtenu un siège.

 

WS: Le fisco du “Congrès des Communautés Russes” (CCR) était inattendu: il n'est pas parvenu à passer la barre des 5%...

 

AMI: Dans les circonscriptions à vote majoritaire, le CCR a gagné cinq mandats, parmi lesquels celui du Général Alexandre Lebed. Tous les observateurs de la vie politique russe pensent que la raison principale de cet échec provient de la personnalité de Skokov, fort antipathique. Cet homme figurait en tête de liste. Le maigre résultat du CCR diminue considérablement les chances du Général Lebed dans la prochaine course à la présidence.

 

WS: Et qu'est-il advenu du mouvement social-patriotique “Derchava”, dirigé par le Général Routskoï, le héros de la Maison Blanche en octobre 1993?

 

AMI: Ce mouvement a dû encaisser une défaite totale. Il n'a obtenu que 2% des voix et n'a gagné aucun mandat direct.

 

WS: Et les autres figures de proue de l'opposition nationale qui se sont présentées dans les circonscriptions à élection directe?

 

AMI: Elles ont toutes été perdantes. Nikolaï Lyssenko, le chef des nationaux-républicains, a connu l'échec tout comme les candidats de la “Fédération des Patriotes”, les généraux Sterligov et Atchalov, et les militants du “Semskii Sobor” (“L'Assemblée du Pays”), parmi lesquels l'ancien député Astafiev, un chrétien démocrate. Le cinéaste Stanislav Govoroukhine de l'“Alliance Populaire”, porte-paroles de la fraction constituée par le petit “Parti Démocratique” dans l'ancienne Douma, a gagné les élections dans sa circonscription à vote majoritaire, grâce à l'appui des communistes; en revanche, ses co-listiers Axioutchiz (libéral) et Roumiantsev (social-démocrate) ont perdu. Les locomotives du “Parti National-Bolchevique”, Edouard Limonov et Alexandre Douguine, n'ont eu aucun succès à Moscou et à Saint-Petersbourg. Le célèbre animateur de télévision Alexandre Nevzorov a été réélu à Pskov. Le “Mouvement Populaire Russe”, fondé par les Cosaques de Sibérie, n'a obtenu que 0,13% des voix. Quant aux atamans des Cosaques du Don, Ratiyev et Kosytsine, ils n'ont pas pu s'affirmer dans leurs propres circonscriptions électorales.

 

WS: Mais quel est le résultat final de tout cela, en termes de sièges à la Douma...

 

AMI: ... les partis d'opposition nationale ont 20%, le parti gouvernemental de Tchernomyrdine n'a que 9%. Le rapport des forces est de 51-49. L'opposition, droites et gauches confondues, obtient 51%; Tchernormyrdine, c'est-à-dire Eltsine, et différents partis démo-libéraux, obtiennent 49%.

 

WS: Au vu de ses résultats, peut-on dire que les pronostics pour les élections présidentielles du 16 juin doivent être totalement révisés?

 

AMI: Certainement. Tous les pronostics émis avant le 17 décembre se basaient sur des appréciations exagérées de la popularité de Lebed. Il ne reste plus que deux favoris à l'heure actuelle: Ziouganov et Jirinovski. Chacun d'eux peut battre Tchernormyrdine, mais pas Eltsine! Le CCR fait contre mauvaise fortune bon cœur et cherche les causes de sa défaite dans les brouilles internes du mouvement, dans les intrigues de ses propagandistes, en un mot, partout, sauf, dans ses propres erreurs de gestion.

 

WS: Ce qui intéresse tout particulièrement les lecteurs allemands et ouest-européens, militants des diverses oppositions nationales comme anti-fascistes en quête de sensationnel, c'est l'échec complet du mouvement “Unité Nationale Russe”, qui a fait la une de beaucoup de journaux à cause de son style qui rappelait les années 30...

 

AMI: Pour ce qui concerne son leader, Alexander Barkachov, il faut dire que son avocate, Madame Dementyeva, a subi une défaite à Moscou, tandis que son second candidat a échoué dans la région de Kalouga. Un ancien partisan de Barkachov, Alexander Fiodorov, s'est porté candidat pour le “Parti Russe” à Mytichtchy dans la région de Moscou: en vain, résultats nuls! Quant au célèbre Wedekin, il a connu l'échec à Lioubertzy, également dans la région de Moscou. Nos grandes villes ne se prêtent pas à ce type d'“aventuriers politiques”, comme les appelent les libéraux. Alexander Nevzorov a été plus pertinent: il s'est porté candidat en province, à Pskov, et a gagné.

 

WS: Il est étonnant que ce mouvement national, si bien capillarisé dans la société, si diversifié, alignant tant de partis et de cartels électoraux, n'a obtenu que des résultats aussi misérables. En tant qu'analyste patenté de cette nébuleuse de partis d'opposition nationale, pourriez-vous nous expliquer les causes de cet échec?

 

AMI: Il y a deux causes principales, d'ordre technique et organisationnel. D'abord, ils n'ont pas été en mesure de réunir les 200.000 signatures par liste prévues par la loi électorale. Ensuite, ils ne possédaient pas de “réserves” de voix, ce qui permettait à la “commission électorale centrale” de les exclure très aisément de la course. Plusieurs partis ont été victimes de cette débâcle: le “Parti Russe” du Colonel Milozerdov, le parti “Renaissance”, le “Parti National Populaire’ de Vladimir Ossipov (un ami de jeunesse, prisonnier politique de 1961 à 1968 et de 1974 à 1982), la “Fédération des Patriotes”, enfin, le Semskii Sobor dans lequel militaient le célèbre sculpteur Klykov et le rédacteur en chef du journal “Rousski Vestnik” (= “Le messager russe”), Sénine, qui figurera en tête de liste.

 

WS: Donc, dès le départ, c'est Jirinovski qui a eu les meilleurs atouts en mains?

 

AMI: Quelle que soit la position que l'on adopte à son égard, quel que soit le jugement que l'on puisse porter sur sa personne, ses succès électoraux nous obligent à réfléchir. L'élément principal dans ce phénomène politique, c'est que Jirinovski incarne le type même de l'activiste politique moderne capable de conquérir la sympathie du public et qui ne palabre pas inlassablement sur le bon vieux temps d'il y a cent ans...

 

WS: Il est tout de même étonnant qu'aucun rival ne se mette en travers du chemin qu'emprunte cet homme haut en couleurs, qu'aucun concurrent crédible venu du camp de l'opposition nationale, qu'aucun populiste véritable ne se lève pour lui barrer la route...

 

AMI: Effectivement! Lors des élections pour la Douma en décembre 1993, Jirinovski a profité de la colère populaire après l'assaut sanglant lancé par les troupes d'Eltsine contre le Parlement (la Maison Blanche). Jirinovski a pu ainsi se hisser au-dessus des cadavres des défenseurs de la Douma et confisquer à son profit leurs mots d'ordre nationaux russes. En 1995, les démocrates annonçaient urbi et orbi  que le parti de Jirinovski n'allait jamais passer la barre des 5%. Aujourd'hui, ils s'étonnent une fois de plus des succès enregistrés par Jirinovski. On peut se poser la question: pourquoi aucun homme politique du camp national ne peut-il dépasser Jirinovski en popularité, pourquoi aucun d'entre eux ne peut-il exercer le même pouvoir d'attraction sur les masses populaires, ne fait-il preuve d'une autorité comparable?

 

WS: La Russie ne possède-t-elle donc pas d'homme charismatique dans le camp des nationaux?

 

AMI: Pendant toute une période, on a pensé que le Général Alexander Routskoï allait pouvoir jouer ce rôle. Sous la bannière de son mouvement “Derchava”, plusieurs opposants du camp national se sont unis, tels Axioutchitz, Astafiev, Pavlov, Artemov et le Colonel Alksnis. Mais on n'a assisté par la suite qu'à des démissions, des scissions, des intrigues. C'est ainsi que Routskoï a perdu son prestige, qu'il n'a plus pu jouer le rôle d'intégrateur. L'échec de son mouvement met un terme définitif à ses ambitions dans les élections présidentielles. Après le désastre subi par Routskoï, les mouvements patriotiques ont placé leurs espoirs dans le Général Alexander Lebed. Mais contre toute attente, son CCR a subi une terrible défaite en décembre 1995. Du fait que le CCR n'a pas réussi à se tailler une part dans les sièges de la Douma, on a accusé son président, Youri Skokov, d'avoir mal géré le mouvement derrière lequel se profilait le populaire Général. La stratégie de Skokov a suscité l'incompréhension voire le rejet des nationaux-patriotes. Non seulement parce que le technocrate Skokov pactisait en coulisse avec le parti de Gaidar, mais parce que Skokov prétendait qu'il n'existait pas de Russes ethniquement purs et que, dès lors, la Russie devait être transformée, par le biais d'un référendum, en une Union d'ethnies diverses.

 

WS: Mais les causes de l'échec de l'opposition nationale ne sont-elles pas plus profondes, ne sont-elles pas à rechercher au-delà des querelles de personnes, c'est-à-dire dans le discours idéologique lacunaire qu'elle tient et dans les stratégies déficitaires qu'elle pratique?

 

AMI: Bien sûr. Quoi qu'on puisse dire sur Routskoï, il a eu des moments de grande lucidité. La grande tragédie de la Russie, a-t-il dit lors d'un entretien avec la presse, est d'avoir considérer que les deux grandes idées mobilisatrices de notre siècle, l'idée de justice sociale et l'idée d'identité nationale, ont été considérées comme des antinomies. Effectivement, quand un militant politique s'engage pour le salut de sa nation et oublie la justice sociale, ou quand un militant socialiste s'engage à fond pour la justice sociale et oublie le salut de la nation, ils font tous deux fausse route, s'engagent dans une impasse. Hélas, Routskoï n'a fait que signaler ce problème majeur, il n'a suggéré aucune solution. Mais si les nationaux parvenaient à s'en rendre compte et à agir en conséquence, les communistes perdraient rapidement leur marge de manœuvre en Russie.

 

WS: Autre sujet: la situation des Allemands de Russie autorise-t-elle quelqu'espoir? Quelles sont leurs chances de retrouver une dose d'autonomie? Comment leur futur se dessine-t-il? Vont-ils rester? Vont-ils émigrer?

 

AMI: La situation des Allemands de Russie a été soumise à discussion dans la Douma le 17 novembre 1995. C'est une déclaration du député communiste Oleg Mironov qui a ouvert les débats. Dans la circonscription électorale d'Engels, ce député a proposé de voter le 17 décembre pour le national-républicain Lyssenko. Mironov a dit: «Dans la région de Saratov les relations entre les nationalités sont en train de se dégrader. D'après les résultats de sondages locaux, la population russe refuse catégoriquement que ce crée un Etat allemand sur le cours de la Volga [ndlr: comme avant 1941]. Il est dangereux de soulever à nouveau cette question. Parmi les habitants de cette ancienne république autonome règne désormais un certain désarroi; ils pensent: des Allemands dans la région? Oui! Une autonomie? Non!».

 

WS: Il n'y a pas eu de voix pour s'opposer à cette opinion?

 

AMI: Si. Le ministre des nationalités Mikhaïlov a répondu que les données qu'avançait Mironov étaient obsolètes et remontaient aux années 1988-89. A cette époque-là, la situation avait été très tendue; aujourd'hui, quelque 17.000 Allemands se seraient installés dans la région, dont 65 à 70% des familles seraient mélangées, seraient donc germano-slaves. Près de 80% des Allemands de Russie vivaient auparavant en Sibérie occidentale, soulignait le ministre.

 

WD: Jirinovski a-t-il participé aux débats?

 

AMI: Oui, en lançant la phrase suivante: «Nous devrions cesser définitivement de parler de la création d'une quelconque autonomie pour les Allemands de Russie. Au Kazakhstan, s'il vous plait».

 

WS: Qu'a répondu le ministre?

 

AMI: En citant des faits. Voici ce qu'il a dit, textuellement: «Après la guerre, 1,7 million d'Allemands ont quitté l'URSS et, au cours de ces trois dernières années, 200.000 Allemands supplémentaires sont encore partis, la plupart venant du Kazakhstan, d'Asie centrale». Un tiers de ces réfugiés sont revenus s'installer en Sibérie occidentale russe, où nous avons constitué deux arrondissements nationaux allemands, dans la région de l'Altaï et dans la circonscription d'Azov dans la région d'Omsk. 70.000 Allemands du Kazakhstan et d'Asie centrale  —dans ce cas aussi, nous avions affaire à des familles mixtes—  ont souhaité s'installer dans la circonscription d'Azov». Ensuite, Mikhaïlov a dit, plein d'espoir: «Nous avons donc un bilan positif. Au cours de ces deux dernières années, plus d'Allemands ont quitté la région de Saratov que de nouveaux arrivants y ont été enregistrés. Dans des circonstances favorables, 150.000 à 160.000 Allemands pourraient trouver une nouvelle patrie sur les rives de la Volga».

 

WS: Monsieur Ivanov, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

(entretien paru dans Europa Vorn, n°100, 1 avril 1996; adresse: Europa Vorn, Pf.30.10.10, D-50.780 Köln).

mercredi, 06 août 2008

Intervista a C. Bonvecchio ed a C. Risé

Intervista a Claudio Bonvecchio ed a Claudio Risé

sulla pubblicazione del libro

Apologia dei doveri dell’uomo

Di Claudio Bonvecchio

(Asefi Editore, 2002, www.asefi.it)

a cura di Antonello Vanni

 

Redazione: «Prof. Bonvecchio lei, nel suo ultimo libro, parla del dovere come di una visione che si inscrive in un progetto globale teso a rivalutare l’essere stesso dell’uomo in relazione alla trascendenza. Il dovere stesso testimonierebbe l’esistenza, la vitalità e la potenza. A suo parere quanto è possibile rimettere al centro il dovere e dunque tale visione, quanto è possibile onestamente riavvicinare l’uomo alla trascendenza ed al Sacro?».

Claudio Bonvecchio: «Riavvicinare l’uomo alla Trascendenza e al Sacro non è cosa facile. Anzi, è una impresa titanica. Ma diventa possibile nella misura in cui ciascuno – poiché ciascuno è in grado di farlo – scruta se stesso, cerca di conoscersi, cerca di equilibrare la propria personalità, cerca l’armonia nascosta, la divina scintilla che è in lui. Questa DOVEROSA ricerca fornisce essa stessa gli strumenti, indica i compagni di strada ed allevia le fatiche del cammino. Bisogna volerlo, però o forse – ancora una volta – lasciar parlare la propria interiorità e scoprire così, magari con stupore, che è essa che lo desidera».

R.: «Prof. Risé, l’Apologia dei doveri inizia e si chiude con la proposta di rimettere al centro una precisa visione dell’essere umano e del mondo, dell’essere umano che vive nel mondo. In questa visione come si colloca la proposta dell’identità maschile che lei ha recentemente indicato nel suo libro Essere Uomini (Red Editore, Como)? Cosa ne pensa del fatto che se la sfera del Sacro sfuma all’orizzonte l’uomo si sente interiormente vuoto mentre si circonda all’esterno di un deserto?».

Claudio Risé: «Il sacro è caratterizzato dal Tabù, che esprime un  divieto, ma significa soprattutto: colmo di energia.  La de-sacralizzazione  della vita dell’uomo (compiuta attraverso il processo di secolarizzazione), ha comportato dunque un’enorme perdita di energia. Nulla, nell’essere umano, è più tabù, ma egli è completamente scarico, vuoto. E deserto diventa il mondo che lo circonda,  anch’esso privo di energie  perché non più vissuto come sacro».

R.: «Prof. Bonvecchio, parlare di doveri e cioè di onore, compito, incombenza, impegno, dono è assai rischioso: chi osa alzare questa voce viene accusato grossolanamente di conservatorismo, oscurantismo, razzismo o mentalità fascista…Quale rimane allora la strada che un uomo che, come lei dice, vuole realizzare la sua vita come missione nella Comunità per gli altri può intraprendere?».

Bonvecchio: «Sta scritto che “mille cadranno alla mia destra e diecimila alla mia sinistra”. Cosa importa del brusio dei mediocri, delle voci distraenti e delle balbuzie intellettuali se chi intraprende questa strada è convinto di ciò che fa? Per troppo tempo abbiamo rifiutato l’eroismo del quotidiano. Si tratta di riscoprire dentro di noi una sopita virilità ed affrontare i simbolici draghi che si pongono sul cammino con animo intrepido e sicuro. Sicuro di portare un messaggio, una proposta, un nuovo (e antico) modo di essere. Ricordava Nietzsche che chi ha sperimentato l’aria delle vette rifugge da quella della pianura».

R.: «Prof. Risé nell’Apologia dei doveri si riflette sulla causa che spinge gli uomini prima a rivendicare i diritti e poi sistematicamente a calpestarli. Lei come scienziato sociale e come psicanalista, quali crede siano le cause di questo atteggiamento?».

Risé: «L’enfasi sulla rivendicazione dei diritti deriva dal processo di impoverimento dell’uomo realizzato attraverso l’allontanamento del sacro. L’individuo della secolarizzazione, senza Dio, è soprattutto un soggetto di bisogno, perché non possiede più l’energia  del sacro. Ciò lo pone in una situazione d’ansia, da cui cerca di uscire rivendicando i diritti. Di cui poi non sa che fare perché il vero problema, il vuoto, rimane. E viene anzi  aggravato dall’impoverimento psichico, e simbolico derivante dal  porsi come soggetto di bisogno, anziché come portatore di forze». 

R.: «Prof. Bonvecchio, un’ipotesi possibile è che la civiltà dei diritti sia una maschera dietro la quale si nascondono i veri registi: il mercato, l’interesse, l’utile, il dio denaro. Cosa ne pensa di questa supposizione, ce ne può dare un esempio concreto?».

Bonvecchio: «Non è una supposizione: è una realtà. Un esempio: l’ONU. Si proclamano diritti e s’invocano risoluzioni che verranno disattese – per motivi di mero interesse politico-economico - dai paesi che le sottoscrivono, come nel caso della Cina. Eppure tutti continuano a crederci: o fingono? Per molti l’inganno della o la vita come inganno non è una novità. Vogliamo essere come loro? Vogliamo – come diceva Sombart – stare dalla parte degli eroi o dei mercanti? A questa domanda tutti siamo chiamati a rispondere».

R: «Prof. Risé nell’Apologia si afferma che solo una comunità che si fonda sui doveri rende ogni singolo uomo membro attivo ed indispensabile alla continuità e sopravvivenza della comunità stessa. Tali doveri però possono esistere solo se vi è un atto di trasmissione, se qualcuno tramanda questi saperi. L’assenza di questa comunicazione, di cui lei spesso ha parlato, non è estremamente pericolosa per la società stessa?».   

Risé: «La trasmissione del sapere del sacro, l’iniziazione, è stata abolita appunto per  allontanare l’uomo dalla consapevolezza dei suoi doveri (ai quali corrispondeva un reale potere), per convincerlo di essere solo soggetto di bisogno, e ridurlo quindi a una condizione di schiavo». 

R: «Prof. Bonvecchio una parola che al giorno d’oggi non è molto nominata, neppure in ambito pedagogico ed educativo come bene da trasmettere ai giovani è virtus. Lei, nella sua proposta, cosa intende con questa parola?».

Bonvecchio: «Intendo un HABITUS, un modo di essere, uno stile di vita: in una parola il coraggio di essere ciò che si è anche se si è contro tutti».

R.: «Prof. Risé secondo Bonvecchio lo sviluppo di un’ipocrita società dei diritti è avvenuto parallelamente ad uno sbilanciamento dell’equilibrio psicologico dell’uomo verso l’eccessiva razionalizzazione, astrattezza, artificialità. Lei da anni nei suoi libri, in particolare nel Maschio selvatico (Red, Como), sostiene la necessità per l’uomo di riavvicinarsi all’istinto e ad una dimensione meno artificiale e fabbricata. Che cosa però può garantire che tale riavvicinamento non conduca all’esatto opposto della situazione attuale cioè verso un’eccessiva istintualità capace di guidare l’uomo verso pericolose direzioni già viste nella Storia?».

Risé: «Non mi sembra che l’istinto, da cui in epoca moderna ci si è sempre più allontanati, abbia rappresentato negli ultimi secoli un grosso percolo per lo sviluppo umano. Nazismo e comunismo, i due grandi flagelli del secolo scorso, furono entrambi caratterizzati da una forte repressione istintuale, a favore dello sviluppo di forme di pensiero tipicamente ossessive, molto lontane dal mondo  delle forze e dei sentimenti primordiali. Oggi, due lesbiche hanno ottenuto, grazie alla clonazione, un figlio sordo, come loro. Episodi di questo genere, monumenti di egoismo e di onnipotenza, premessa delle mostruosità del domani, nascono da un’inflazione del pensiero, degli individui, degli scienziati, e dei legislatori, non certo da un eccesso di istinto».

Per concludere

R.: «Prof. Bonvecchio, Simone Weil nel suo Preludio a una dichiarazione dei doveri osservava che “è eterno solo il dovere verso l’essere umano ed il progresso si misura su di esso”. Qual è secondo lei il principale dovere dell’uomo e quale il principale dovere della Comunità?».

Bonvecchio: «Il principale dovere dell’uomo è quello di tendere verso la totalità, verso quell’armonica pienezza che in tutte le Tradizioni coincide con la divinizzazione dell’uomo e con l’umanizzazione del divino. Significa scoprire il fuoco interiore, quel Sé alchemico che, come la pietra filosofale, trasforma tutto in oro: nell’oro simbolico, ben inteso. Significa scoprire nell’unità dei contrari la gioia di una vita diversa, significa riscoprire la propria vera identità in un corpo spiritualizzato ed in uno spirito corporizzato. Attuare questo – come ben sapevano gli antichi – è anche il dovere di una Comunità che voglia essere tale».

R.: «Prof. Risé lei, nelle sue ricerche sull’identità maschile, sostiene l’importanza del sacrificio come sfondo di crescita verso la maturità, l’autonomia e l’indipendenza. Cosa ne pensa della citazione con cui Bonvecchio chiude la sua Apologia dei doveri: “Pur di salvare la vita, non è il caso di perdere ogni motivo di vivere” (Giovenale)?».   

Risé: «La nostra vita è per gli altri. Per il mondo delle creature, anche non umane,  e per Dio. Il resto non ha alcuna importanza».

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lundi, 04 août 2008

La guerre postmoderne: entretien avec Claudio Risé

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La guerre postmoderne: entretien avec Claudio Risé

Depuis 1945, toutes les guerres se déclenchent dans le monde à partir d'un refus des Etats nationaux vecteurs de la modernité. Claudio Risé, psychanalyste jungien et professeur de polémologie, collabore à plusieurs publications. Ses travaux les plus récents concernent la psychologie de l'agressivité (Il maschio selvatico. Come ritrovare l'istinto rimosso dalle buone maniere, Red Edizioni); en règle générale, le Prof. Risé aborde la thématique du ³virilisme² (Parsifal, Red Edizioni; Maschio amante felice, Frassinelli). Son dernier travail affronte un thème bien différent: la guerre postmoderne (La guerra postmoderna. Elementi di polemologia; Editrice Tecnoscuola, Gorizia, 1996). C'est sur ce dernier ouvrage que nous l'avons interrogé, à la suite de son brillant exposé lors de notre dernière université d'été.

Q.: Dans l'ensemble de vos travaux, quelle place occupe ce livre sur la guerre?

CR: D'une part, il est la continuation de toutes mes recherches. Mon Parsifal raconte l'archétype du guerrier, tel que nous l'a rapporté Wolfram von Eschenbach, qui n'est pas du tout le chaste moine de Wagner. Chez Wolfram von Eschenbach la guerre est l'événement historique par lequel se manifeste l'instinct viril dans toutes es contradictions: don de soi et, simultanément, destructivité. D'autre part, j'ai voulu confronter deux disciplines dans cet ouvrage: la science politique et la psychologie des profondeurs. Je les ai aussi confrontées à ce phénomène qu'est la guerre et qui a modifié la face du monde de 1945 à nos jours. La guerre, ou la menace de la guerre, a démenti toutes les spéculations nées de l'idéologie des Lumières, selon lesquelles nous avancerions vers l'unification politique et culturelle de la planète, or le fait est que le nombre des Etats est passé de quarante à environ deux cents!

Q.: Pourquoi parlez-vous de ³guerre postmoderne²?

CR: Parce que les guerres d'aujourd'hui, les guerres qui éclatent autour de nous, sont des luttes contre les universalismes imposées par la modernité ³illuministe² des révolutions bourgeoises. Les peuples pris dans les mâchoires annihilantes du mondialisme refusent cette conception occidentale de la liberté-égalité-fraternité que leur ont imposée les puissances colonisatrices. Ils partent en guerre pour rechercher leurs appartenances, leurs identités, pour reformuler des projets historico-politiques qui ont été balayés jadis par les impérialismes d'essence bourgeoise. Mon livre cherche à décrire les caractéristiques de ces guerres (qui se déroulent dans le monde), de ces peuples et de ces cultures niés dans leur identité, mais qui s'opposent aux Etats dits nationaux, mais en réalité multinationaux, parce qu'ils sont les vecteurs de la modernité. Ils s'opposent aux désastres culturels et territoriaux imposés par les grandes entreprises multinationales, qui sont en réalité les ³sujets forts² de ces Etats. Cette guerre globale contre l'homogénéisation est aussi un aspect de l'actuel ³globalisme².

Q.: Le globalisme recèlerait donc des aspects contredisant son projet de conquête culturelle et économique par l'Occident bourgeois? Votre position n'est-elle pas un peu ambigüe ou peut-être trop optimiste?

CR: Le globalisme est un aspect central de la réalité dans laquelle nous vivons, et c'est à partir du fait global qu'il représente que nous devons commencer à réfléchir. Je me sens très proche de Jünger et d'une bonne part des protagonistes de la ³révolution conservatrice², quand ils nous demandent d'aller de l'avant, de partir du présent pour retravers, traverser et récupérer le passé. L'informatisation globale, par exemple, a fourni un formidable instrument aux mouvements de récupération identitaire et a plongé dans un crise très profonde (pour l'heure, elle n'est pas encore surmontable) les instruments de contrôle politique des puissances dominantes qui sont les soi-disant ³services de sécurité². Je m'intéresse également aux pressions anti-sécularisantes que produisent, dans un monde global, les cultures (comme l'Islam mais il n'est pas le seul). Elles sont hostiles aux processus de sécularisation dérivés des bourgeoisies protestantes et accentués à la suite des révolutions bourgeoises. Le globalisme provoque une revitalisation du ³sacré naturel² (et, du point de vue psychologique, de l'instinct qui y est lié). La culture de la ³pensée faible² avait décrété que ce sacré et cet instinct avaient été évacués. J'ai ensuite pris en considération les coups très graves que la civilisation occidentale avait infligés aux cultures traditionnelles lors de leur rencontre, surtout quand elle a imposé à tous l'appareil normatif des lois et des règlements générés par la modernité. Ces lois et ces règlements sont très intrusifs et s'insinuent profondément dans la sphère privée, et ainsi dans l'instinct, comme nous l'a bien décrit Foucault. Une armée de prostituées, des bandes de gamins, partent en guerre, avec, en poche, les clefs d'un paradis bien différent de celui que nous avions imaginé, des bandits provenant du monde entier sont en train de mettre à mal toutes les constructions hypocrites de la ³political correctness² et du ³processus de civilisation² si cher à Freud et à Norbert Elias. Ce sont tous ces phénomènes qui m'intéressent et tous sont indubitablement les fruits du globalisme.

Q.: Comment cette ³guerre postmoderne² se concilie-t-elle avec Clausewitz?

CR: Je pense personnellement qu'elle ne se réconcilie pas trop avec les théories du général prussien. Clausewitz voyait la guerre comme une forme du pouvoir politique de l'Etat, comme ³la politique qui dépose sa plume et empoigne l'épée². Les guerres postmodernes, quant à elles, sont des guerres de nations ³organiques², de nations objectives, vivantes, contre l'appareil juridico-administratif des Etats. Les guerres postmodernes se combattent au nom de valeurs culturelles et transcendentes plus qu'au nom de pouvoirs politiques et ³mondains². Elles fuient les règles du pouvoir et échappent ainsi à celles de la diplomatie et de la stratégie. Elles se réconcilient davantage avec les ³forces obscures, inconnues², par lesquelles le Dieu de Tolstoï (qui tient dans sa main les c¦urs des rois) se manifeste dans l'histoire. La polémologie, telle que l'a imaginée Gaston Bouthoul dans les années 1950-1970, a eu la capacité de saisir cet aspect profond, inconscient, non calculé, du phénomène de la guerre. Ce n'est pas un hasard si les études ultérieures ont plutôt cherché à oublier cet aspect, pour revenir aux considérations conventionnelles sur la stratégie ou sur le droit ou l'économie. Ce n'est pas un hasard si la peur de ces passions étreint les universitaires modernes. Car ces passions sont des passions qui se réfèrent au divin, à des essences transpersonnelles, comme cela se manifeste dans toutes les guerres.
(entretien paru dans Orion, n°8/1996). 
 

[Synergies Européennes, Orion (Milano) / NdSE (Bruxelles), Septembre, 1996]

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mercredi, 30 juillet 2008

Conversing with Alexander Zinoviev

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Conversing with Alexander Zinoviev

 

We all remember the great Soviet dissident Alexander Zinoviev, a lucid analyst not only of all the odds of the Soviet regime but also and especially of all the odds of the human soul, which lead unequivocally to all those forms of rigid totalitarianism. Today Zinoviev criticizes ”Westernikism” with an equal vigor as he criticized Soviet power before. “Westernikism” is in his eyes an American version of a Gleichschaltung of the human soul, which is equally mutilating as the former Soviet version. Because he formulated his sharp critiques under Breshnev's Soviet Union , he was deprived of his Soviet citizenship in the Seventies. Zinoviev was compelled to live a long exile abroad, in Munich in Bavaria , a City which gave a safe harbour to many more Russian emigrations. Zinoviev is now disgusted by the dominant "Westernikism" in the world and cannot accept its haughtiness. He decided thus to leave the West to go back to his Russian homeland. His last work published in Switzerland, La grande rupture (The Big Rupture; ed. L'Age d'Homme, Lausanne) is pushing and assaulting, but without any illusion, full of bitterness and lucidity. A lucidity that will lead him soon to be deprived of his access right to the main media, for having asserted clearly and sharply some truths that aren't universally accepted. Our correspondent in Paris, Xavier Cheneseau, met ex-Soviet dissident Zinoviev during one of his last stays in the French capital. Zinoviev was attended by his publisher and interpreter Slobodan Despot, who translated into French the Russian answers of the philosopher.

Q.: What do you mean by a "Big Rupture" in your book and which is the central topic of it?

AZ: The Western-European civilization is doubtless the greatest civilization of history. Its apex was incarnated by the development of the main Nation-States as Germany, Italy, Britain and France . At the beginning of the 20th century, the idea appeared of a definitive decay of this civilization, that from then on was perceived as exhausted and mortal. Today one thing is certain: after having allowed the development of a superior organization system, the Western European civilization undergoes history and is not making it anymore. The rupture, that I define in my book, appeared immediately after the Western victory in the Cold War, followed by the crumbling down of the Soviet Block and the transformation of the United States in the only remaining Super-State of our Planet, ruling the entire Western world without any serious challenger.

Q.: According to you, how things evolved towards this situation?

AZ: You can explain it by saying that a new level of an organization that is superior than the one ruling the Western societies, was created, also by the fact that all Western societies were integrated in one single unity, which is a super-civilization, in comparison with the Western civilization, and, endly, by the fact that a World Order was instaured under the leading of the Western world. I was astonished some years ago to state that there was a real and a virtual dimension in every thing. The virtual world is now the dominant culture of nowadays people. In fact, people today perceive the real world through the expedient of this virtual world. They only perceive what the virtual world authorizes them to see. The virtual world doen't express the world as it is in plain reality.

Q.: According to you, do we still live in a democracy in the context of what you are describing us?

AZ: If you want a democracy to exist actually, you need to accept the possibility of a choice, thus you need plurality. During the Cold World, there was a plurality in the world, i. e. the actual possibility of a democracy: you had the coexistence of a communist system, of a capitalist system and of a group of other countries, which were named the "non-aligned". The Soviet Block was influenced by the critiques from the West and the West was influenced by the Soviet Union, due to the fact that communist parties were active on the political checkboards of the Western States. Today, you have only one ideology left, which serves exclusively the one-worldists. The belief that the future of human kind doesn't lay in communism anymore but in americanism (the superior form of Westernikism) is a belief shared by a majority of Westerners.

Q.: Nevertheless in Europe and notably in France , you find, despite of all, political forces that still oppose this general trend…

AZ: The shear existence of those forces is only virtual, it is not real. Look and you will see that this kind of opposition is more and more formal. As a proof, look at the attitude of the European political class during the war against Serbia . Almost unanimously, this political class supported the aggression against this sovereign and free nation.

Q.: Are we then allowed to talk about totalitarianism?

AZ: Totalitarianism spreads itself everywhere because the supranational structure impose its rule and law to all nations. There is a non democratic superstructure, which is giving orders, punishes, organizes blocades, bombs and lets people starve. Financial totalitarianism submitted the political powers. Totalitarianism is a cold ideology. It has no feelings and expresses no pity. Besides, we must accept the fact that people do not resist a bank, but can eventually compel any political dictature to handle or leave power.

 

Q.: Nevertheless, we can say that the system can explode due to the social situation in our countries…

 

AZ: Please, don't display naively illusions. Movements of that sort aren't possible anymore, because the working class has been replaced by the workless, who are in an extremely weak position, and only aspire to one thing; to get a job.

 

Q.: If I follow your words, you tell me that our societies aren't democratic…

 

AZ: The historical period of the all-pervading democracy of Western style belongs now to the past, because the end of communism introduced us fully in the post-democratic era.

 

Q.: Which is the role and the power of the media in such a situation?

 

AZ: The role of the media is that of a very important bolt that can work owing to a genuine sphere, which extends without measure the presence and the activity of the capital and the State's interests. It's one of the main pillars on which the Western system settles. The media represent the most powerful instrument to shape the tastes and the forms of knowledge shared by the big mass of people in the world. Today the media represent a real instrument to influence directly the masses. The media interfere in all the sphres of society: sports, everyday life, economics and, of course, politics. Everything becomes an aim for the media. They exert a totalitarian power on the people living nowadays, and even worse, they arrogated for themselves the function of the great arbitrator in the ideological choices.

 

Q.: How can we in your eyes organize the struggle against this "media-cracy" that surrounds us?

 

AZ: It's an historical struggle. We are the witnesses of history but we also take a part in it. We have to take into account the historical time because we have to bring thousands and even millions of people into movement, without having the certainty to win the battle. We have to take into account the fact that millions of people are today the victims of the mediatic contagion. We simply have to take the exemple of the war against Serbia to state that the number of contaminated people is huge. Moreover we must be always on the look-out in order that our attention may not be deviated by the mediatic smoke curtain.

 

Q.: How do you see the access to power of Vladimir Putin?

 

AZ: Putin's access to power is indeed the first sign of an interior resistance against globalization and americanization. But Putin's success depends in the end and despite of all from factors that are exterior to Russia.

 

Q.: We hear a lot about a survival of communist ideology in Russia today…

 

AZ: What do yo mean? Ideas are eternal. The marxist form of communism in Russia has been severely defeated. It survives marginally but isn't operational anymore. Today you cannot start anything with this ideology. As a proof, I would mention the Russian Communist Party itself, which doesn't evoke the Revolution anymore. The communists don't refer to the dictature of the proletariat and evolve even towards liberalism in a certain way.

 

Q.: Mr. Zinoviev, we thank you for this interview.

 

(Interview taken for "Synergon" by Xavier Cheneseau and translated into French by Slobodan Despot and into English by Robert Steuckers).      

 

samedi, 21 juin 2008

Jean Mabire: artiste et partisan

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Artiste et partisan

Entretien avec Jean Mabire

Journaliste, historien, écrivain, Jean Mabire est un homme de style. Attaché à la civilisation européenne, dirigeant d' Europe Action et fondateur du GRECE, il a été de tous les combats identitaires. Critique littéraire à National Hebdo, membre du Comité de rédaction d' Eléments et du Comité de parrainage de Nouvelle Ecole, Jean Mabire nous a reçu pour parler en toute liberté du combat identitaire qui est le nôtre.

Q.: Pour vous quelle est la finalité du combat identi­taire?

Le véritable sens de notre lutte apparaît de plus en plus clairement: c'est la défense de l'individu contre les robots et, par conséquent, celle des patries contre le mondialis­me. Pour nous, chaque homme comme chaque nation pos­sè­de une personnalité irréductible. Aussi, je ne vois pas pour­quoi je devrais m'excuser de parler à la première per­sonne du singulier.

Q.: Et vous, comment participez-vous au mouvement identitaire?

Je ressens profondément la nécessité de concilier deux at­titudes, apparemment contradictoires: celle de l'artiste et celle du partisan. Cette rencontre est pour moi une que­stion de goût personnel. C'est aussi un problème de sens politique: je crois qu'on ne peut rien construire sans une certaine recherche esthétique. Mais celle-ci devient stérile sans une profonde rigueur doctrinale. Résultat pratique: je ne suis ni un bon écrivain ni un bon militant. Je triche un peu sur les deux attitudes. Mais elles remplissent tous mes jours et bien de mes nuits. Voici des images pour m'ex­pli­quer. Celle-ci, par exemple: il est des lieux où je me suis sen­ti parfaitement moi-même; dans le grand hall de la Bi­blio­thèque nationale et sur la place d'armes d'un Régiment parachutiste. Le vertige et la plénitude que m'offrent les li­vres ne sont pas si éloignés de ceux que m'apportaient les sauts. La pensée et l'action ont toujours pour moi marché cô­te à côte, au pas fiévreux de la recherche ou au pas tran­quille de la certitude.

Q.: Au fait, comment êtes-vous devenu écrivain?

On croit être né pour une carrière d'officier, d'architecte ou d'avocat (c'était bien porté dans ma famille). Et puis les ha­sards, les amis et les guerres vous lancent dans d'étranges batailles. J'ai commencé à écrire parce que je haïssais tout autant le silence que le bruit et que mon pays était devenu silencieux et bruyant. A la barre d'une revue culturelle: Wi­king; dans les soutes d'un quotidien départemental: La Presse de la Manche; sur le pont d'un journal politique: L'Es­prit public; ou au pied du mât avec mon livre sur Drieu.

Q.: Je reviens à ma question initiale: comment êtes-vous devenu écrivain?

Cela me fait souffrir quand on m'appelle écrivain. Ecrire pour moi n'est pas un plaisir ni un privilège. C'est un service comme un autre. Rédiger un article ou distribuer un tract sont des actes de même valeur. Chacun sert où il peut. C'est une question de tempérament et d'efficacité. Non de mérite, et encore moins de hiérarchie. Dans notre aristo­cratie militante, nous sommes parfaitement démocrates et même égalitaires. Nous ne sommes pas de ces intellectuels de gauche qui se sentent supérieurs aux employés, aux ouvriers ou aux paysans de leur propre peuple.

Q.: Pour vous, qu'est-ce que le nationalisme?

Le nationalisme, c'est d'abord reconnaître ce caractère sa­cré que possède chaque homme et chaque femme de notre pays et de notre sang. Notre amitié doit préfigurer cette unanimité populaire qui reste le but final de notre action, une prise de conscience de notre solidarité héréditaire et inaliénable. En quelque sorte, c'est une certaine forme de socialisme !

Q.: Il s'agit d'une véritable conception du monde...

J'espère être assez artiste pour exprimer d'une manière li­sible notre conception du monde et de la vie. Mais j'essaye d'être assez partisan pour ne pas transformer en jeu d'adresse et en exercice de sty1e ce qui demeure la chair et l'esprit de notre combat. Si je hais tout sectarisme, je n'en méconnais pas moins les nécessités de la discipline et même de la brutalité. Je sais qu'il est des dialogues qu'il faut clore et des amitiés qu'il faut briser. Les écrivains po­litiques doivent accepter ces injures qui font aussi mal que des coups. Je me bats avec les armes qui sont les miennes. Ce ne sont pas les seules. Nos ennemis se battent sur tous les fronts. Nous aussi, nous devons être partout. Dans la rue comme dans la presse.

Q.: Vous êtes direct…

Nous sommes des amants éperdus de la liberté.

Q.: Qui détestez vous le plus ?

Je déteste ces écrivains qui font un petit tour dans la poli­ti­que et se retirent à temps, lorsque leurs idées commen­cent à se transformer en actes entre des mains un peu é­ner­giques. Ils ne savent plus que dire: "Nous n'avions pas vou­lu cela!" Les belles âmes! Les salauds!

Q.: Ecrire peut être un jeu dangereux...

C'est la seule noblesse de l'écrivain, sa seule manière de participer aux luttes de la vie. L'écrivain politique ne peut se séparer du militant politique. Le penseur ne peut aban­donner le guerrier. Un certain nombre d'hommes de ce pays ont sauvé et l'honneur des lettres et l'honneur des armes. Ils ne furent pas tous du même camp, mais ils sont nos frè­res et nos exemples. Je pense à Saint-Exupéry, abattu au cours d'une mission aérienne; je pense à Robert Brasillach, fusillé à Montrouge; je pense à Drieu La Rochelle, acculé au suicide dans sa cachette parisienne; je pense à Jean Pré­vost exécuté dans le maquis du Vercors. Ceux-là n'ont pas triché. Ils n'ont pas abandonné les jeunes gens impatients et généreux qui leur avaient demandé des raisons de vivre et de mourir et qu'ils avaient engagés sur la voie étroite, rocailleuse et vertigineuse de l'honneur et de la fidélité. Au­jourd'hui, nous sommes là, avec nos certitudes et nos es­pérances.

(Propos recueillis par Xavier CHENESEAU).

samedi, 12 avril 2008

L'itinéraire personnel d'Urbain Decat

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Un itinéraire personnel du socialisme flamand au Vlaams Blok

Entretien avec Urbain Decat, cofondateur des "Rode Leeuwen"

 

«Le parti socialiste flamand a trahi le combat populaire pour l'émancipation. A l'heure de la globalisation néo-libérale, le Vlaams Blok reprend le flambeau», nous déclare Urbain Decat, conseiller communal VB à Schaerbeek

 

Monsieur Decat, votre itinéraire est tout à fait in­ha­bi­tuel. Vous étiez au départ un militant socialiste con­vain­cu, vous avez milité pendant toute votre vie pour le triomphe de la plus grande idée de la philosophie des Lumières, l'émancipation, la sortie de l'homme hors de sa minorité (Kant); vous avez été professeur de "morale laïque" dans une grande école secondaire de la région bru­xelloise, vous avez présidé à l'Université à la forma­tion permanente de vos jeunes collègues et vous vous re­trouvez aujourd'hui dans les rangs du Vlaams Blok, un parti que vos anciens camarades et collègues considè­rent comme l'antithèse exacte de vos anciens engage­ments. Pouvez-vous nous expliquer cette anomalie  —vo­tre anomalie—  dans le paysage politique flamand?

 

Personnellement, je suis issu d'une vieille famille libérale (an­ti-cléricale) mais flamingante, soucieuse de l'émancipa­tion du peuple flamand face à la double emprise de la fran­cophonie et du cléricalisme. Mon arrière-grand-père fut ain­si l'un des fondateurs du Willemsfonds, la grande fonda­tion culturelle libérale flamande, dans les années 1870, au moment où le Kulturkampf de Bismarck luttait contre l'em­prise cléricale en Allemagne. Mais le Kulturkampf laïque et germanique n'a pas réussi en Flandre: le cléricalisme catho­lique romain le plus obtus a mis la main sur le mouvement fla­mand, ruinant à l'avance toute tentative d'émancipation à l'allemande. Ma famille a pris ses distances avec le fla­min­gantisme institutionnel. Elle a conservé son idéal indé­pendantiste flamand, mais elle refusait le joug clérical, ne vou­lait pas de la tutelle cléricale sur le mouvement fla­mand et, a fortiori, sur une Flandre qui serait devenue in­dé­pendante. Le clivage cléricalisme/anti-cléricalisme a été dé­terminant dans toute l'histoire de la Belgique indépen­dante, jusque dans les années 60. Mais l'emprise de l'Eglise sur le mouvement flamand a contraint les anti-cléricaux à changer de priorité, à abandonner la lutte pour l'émanci­pation flamande.

 

Dans ma jeunesse, vers 16 ou 17 ans, j'ai atterri dans le mou­­vement socialiste, tout en gardant les positions flamin­gantes, héritées de mon contexte familial. Oui je suis fier d'être Flamand, mais pas à la mode de ce nationalisme pé­tri de cléricalisme, de pensées pieuses. Ce nationalisme-là idéalise les "belles âmes", les "bons paroissiens", les "ver­tueux sans tripes ni bite". Je constate que cette imagerie d'E­pinal a réussi à fabriquer un bon petit peuple de couil­lons (l'expression existe: een arm klootjesvolk). De cela, je ne tire aucune fierté: je ne veux pas appartenir à un peu­ple qui ressemble à des chromos à la Saint-Sulpice. Je veux des durs à cuire, des gars au verbe haut et peu châtié, des cogneurs, des tombeurs de filles, des têtes de lard. Car ils sont toujours l'incarnation de la liberté d'action et de senti­ments. Mais ce type d'homme n'apparaîtra que dans une Flan­dre véritablement émancipée et indépendante. L'indé­pen­dance met les peuples devant leurs responsabilités. Leur donne un but, une fierté. Les Flamands feront comme les Français ou les Allemands (bien que la fierté nationale, là-bas à l'Est, en a pris un coup dans le processus de "réé­du­cation" mis en œuvre par les Américains après 1945).

 

Passivité flamande dans la question autrichienne

 

Prenons un exemple actuel: Louis Michel, Ministre des Af­fai­res Etrangères du Royaume de Belgique, parvient à con­tour­ner la majorité flamande dans la question autrichien­ne. On sait que seulement 10% des Flamands sont en faveur des mesures de rétorsion préconisées par Michel contre l'Au­triche, parce que le peuple autrichien n'a pas voté com­me cela lui aurait plu! Même en Wallonie, région plus ma­tra­quée par les folies austrophobes fabriquées à Paris, seu­le une minorité de 30% donne raison sur ce plan à Michel. A Bruxelles, ville plus cosmopolite, 34% sont en faveur du boy­cott. L'affaire autrichienne, qui a excité les esprits en ce printemps 2000,  démontre que les Flamands, et leur per­­son­nel politique, sont passifs, se laissent embobiner dans une politique française, imposée par les relais franco­phones du Quai d'Orsay, de l'Alliance française ou d'autres “services spéciaux” de la République une-et-indivisible  en Wallonie. Les Flamands n'ont pas eu le courage civique et na­tional de dénoncer ce jeu malsain de la France chez nous et à Vienne, alors qu'ils sont majoritaires et qu'une simple fermeté aurait pu provoquer la démission de Michel et con­fondre les manigances de Chirac et de Jospin au niveau eu­ro­péen. Ceci dit, malgré le fait que je déplore amèrement la faiblesse politique de mon peuple, je reste flamingant au sens historique du terme. 

 

Revenons à votre engagement socialiste, quand vous étiez adolescent…

 

UD: Quand j'avais 16 ou 17 ans, je me suis effectivement en­gagé dans les rangs du parti socialiste belge, qui était en­core un parti unitaire, regroupant les fédérations fla­mandes et wallonnes. En 1963, l'année où l'on a déterminé définitivement le tracé de la frontière linguistique en Bel­gique, les choses ont bougé, notamment par une marche fla­mande sur Bruxelles (plus de 100.000 participants) et des incidents assez violents dans les six villages des Fourons. J'ha­bitais Landen, une petite ville flamande, qui faisait par­tie de la province de Liège, trilingue à l'époque, mais très majoritairement wallonne (les districts de Landen et des Fourons étaient flamands, ainsi que la vallée du Geer, perdue pour la Flandre aujourd'hui; les cantons d'Eupen et de Saint-Vith étaient et sont toujours germanophones). Avec le tracé de la frontière linguistique, à Landen, nous sou­haitions nous détacher de cette province très majoritai­rement wallonne et faire partie du Brabant (bilingue à l'é­poque, avant qu'elle n'ait été récemment scindée en deux provinces, l'une flamande, l'autre wallonne). Une minorité francophone à Landen (5%) souhaitait que notre ville restât liégeoise. Avec mes amis socialistes, mais aussi avec les mi­litants politiques flamands de toutes obédiences, nous nous sommes battus pour que Landen passe au Brabant. Ce ne fut pas un long combat: rapidement, on nous a donné rai­son et nous avons quitté le giron de la province de Liège, heu­reuse de se débarrasser d'une minorité néerlandophone qui aurait compliqué son administration.

 

En 1964, je suis venu habiter à Bruxelles et j'ai rejoint, dans la capitale, les sections du BSP/PSB (Belgische So­cia­listische Partij/Parti Socialiste Belge), dont les structures, à l'époque, étaient unitaires. A Bruxelles, les Flamands comp­taient pour du beurre, ils faisaient fonction de cin­quiè­me roue à la charrette. Jamais on ne leur donnait une pla­ce éligible. Lors des réunions, quand un militant ouvrier s'exprimait en néerlandais parce qu'il ne maîtrisait pas as­sez le français, les francophones l'insultaient, lui lançaient des "Ta gueule!". Tout cela m'a rapidement échauffé les o­reilles. Pas question pour moi de me faire traiter de tous les noms ni de subir cette hystérie. J'ai donc milité au sein du parti socialiste pour briser cet unitarisme qui était un mar­ché de dupes, pour nous Flamands. Nous avons donc fon­dé à la fin des années soixante et au début des années sep­tante les "Rode Leeuwen" (= les Lions Rouges), une struc­ture autonome des socialistes flamands, prélude à la scission du parti en deux entités indépendantes l'une de l'autre: le PS wallon et francophone, et le SP flamand. Plus exactement en trois entités, avec le SP germanophone à Eupen et à Saint-Vith. En 1970, j'ai démissionné. L'aventure de la fondation des "Rode Leeuwen" était terminée, pour laisser la place au personnel politique belge habituel: les pense-petits, les arrivistes, les carriéristes à la petite se­maine, les politicards véreux, les obséquieux qui quéman­dent un logement social, une allocation, un petit boulot, etc. Ce zoo ne me convient pas. Je suis dès lors resté un "sans-parti" jusqu'en 1995, quand j'ai adhéré au Vlaams Blok, parti qui suscitait ma sympathie depuis quelques an­nées déjà, parce qu'il était le seul à proposer une rupture radicale dans le ronron politicien belge. Pendant ces vingt-cinq années, j'ai été professeur de morale laïque dans une grande école secondaire de la région bruxelloise et j'ai di­rigé les stages de formation pour mes jeunes collègues à la VUB (Vrije Universiteit Brussel).

 

Vous avez étudié la philosophie. Quels professeurs ont été vos maîtres, quels filons de la philosophie peuvent expliquer votre engagement et surtout votre passage du SP au VB?

 

UD: Quand j'entre à la VUB à dix-huit ans, l'esprit y était beau­coup plus ouvert qu'aujourd'hui. J'assiste actuellement à un effondrement dramatique du niveau philosophique et du niveau politique. A l'époque, le principe du libre examen signifiait encore quelque chose. On permettait aux étu­diants d'exercer leur sens critique. A fond. Avec la perti­nen­ce et l'insolence voulues. Les principes du libre-exami­nis­me ne s'étaient pas encore mués en des dogmes aussi fa­des qu'intangibles. Les prêtres de ce laïcisme étaient des phi­losophes critiques et pas encore une sinistre prêtraille ner­veuse et hystérique. Le ver est entré dans le fruit avec ce culte, venu de Paris, pour les Droits de l'Homme, qui n'a plus rien à voir avec l'émancipation de l'homme "hors de la minorité qu'il s'était lui-même imposée" (Kant), mais con­stitue bel et bien l'émergence d'un nouveau catéchisme fi­gé, d'un éventail de dogmes rigides, que l'on ne peut ni cri­ti­quer ni adapter aux réalités du temps et de l'espace. Dans ce glissement progressif vers le dogmatisme, sous couleur d'une interprétation fallacieuse des droits de l'homme, j'ai vu l'émergence d'un nouveau cléricalisme, justement la men­talité que ma famille combattait depuis des géné­ra­tions.

 

Vertuisme politique, néo-cléricalisme, "political correctness", inquisition et ukases saugrenus 

 

Pire pour un garçon issu du laïcisme et de la libre pensée com­me moi: le vertuïsme politique, nouveau cléricalisme, la political correctness à la belge, est portée aujourd'hui par un dominicain acharné et obstiné, le R.P. Johan Leman, éminence grise et grand manitou de ce machin qui s'im­misce en tout dans le Royaume de Belgique aujourd'hui, le "Centre d'égalité des chances et de lutte contre le ra­cis­me". Les travers les plus saugrenus de l'idéologie des Lu­miè­res (mal comprise et mal digérée) sont imposés à coups d'ukases tout aussi saugrenus par un dominicain, qui, logi­que­ment, en tant qu'homme d'Eglise, devrait les com­bat­tre: telle est la contradiction majeure, et risible, du "dé­bat" en Belgique aujourd'hui. Mais peut-on parler de "dé­bat"? Non, évidemment. Nous avons affaire à un monologue collectif, à un ânonnement généralisé des mêmes poncifs é­culés. Comme vous pouvez le constater, je reste fidèle à l'i­dée cardinale de l'idéologie des Lumières: l'émancipation, la sortie volontaire de l'homme hors de sa minorité, la di­gni­té de l'homme libre, non prisonnier de dogmes mu­ti­lants. Or, nous voyons depuis plusieurs décennies que l'i­déologie des Lumières, idéologie de gauche, a sombré dans un gauchisme de plus en plus mièvre, jusqu'à se trans­for­mer en cette bouillie insipide qui inonde toute discussion au­jourd'hui, crée un marais où toute idéologie émergeante, constructive et contestatrice, risque l'enlisement. Cette bouil­lie insipide, qui se présente comme “inoffensive” et “dé­mocratique”, érige toutefois des “garde-fou” dogma­ti­ques pour ne pas être remise en question par des esprits au­dacieux, soucieux tout à la fois de ne pas poser de dog­mes intangibles et d'agir efficacement (constructivement) dans la société et au niveau du politique. Qui enfreint les “dogmes garde-fou” est condamné à l'opprobre médiatique, au cordon sanitaire, voire à la correctionnelle: c'est le re­tour de l'inquisition, la mort des libertés civiles et de la li­ber­té d'expression. Bref le retour à tout ce qu'un libre pen­seur cohérent comme moi abomine et exècre.

 

Des corrections au départ de Nietzsche

 

Pour éviter cet enlisement dramatique, il aurait fallu, de temps à autre, opérer des corrections au départ de corpus classés arbitrairement à droite, notamment en tenant compte des enseignements et des critiques de Nietzsche, et de toutes les écoles qu'il a fécondées. Malheureusement, se référer à Nietzsche et à ces écoles, c'est commettre aux yeux des pères-la-morale et des vertuïstes actuels, le pé­ché de "dextrisme". Les insolents sont considérés comme é­tant "de droite", ou comme des "fascistes". Que les inqui­si­teurs persécutent, que l'on étouffe sous le silence, à qui l'on barre toute carrière académique. Tout adepte cohérent de l'idéologie des Lumières ne peut que se révolter devant une telle situation! Donc, je me révolte. Et je crie ma ré­volte.

 

Dans les années 60, décennies où vous avez achevé vos études, le marxisme, le freudo-marxisme, les idées de Marcuse et de l'école de Francfort, l'existentialisme de Sartre étaient les mouvements d'opinion dominants. Vous vous en êtes réclamé, comme tous vos contem­po­rains, comme tous les étudiants de votre génération. Quel regard rétrospectif jetez-vous sur ce passé que l'on peut carrément qualifier de "soixante-huitard"?

 

UD:  Dans les années 60, il y avait des exégètes pertinents de la pensée de Marx, que je respecte et que je relis, mais c'é­tait surtout un Vulgärmarxismus, un marxisme vulgaire, qui dominait à l'Université. On a vu cela dans tous les pays d'Europe et aux Etats-Unis. Je ne dis pas que le marxisme y était mal enseigné, mais la masse des étudiants n'en rete­nait qu'une vulgate maladroite, appelée à terme à devenir un pot-pourri de dogmes stériles. Cette vulgate était insup­por­table, d'autant plus qu'elle était portée par ceux qui n'a­vaient jamais lu Marx! Le noyau intéressant du marxisme, que je me suis efforcé de retenir, était une petite fleur fra­gile: les manipulateurs de la vulgate l'ont fait crever. Ensui­te, le marxisme vulgaire de l'Université était mâtiné de théo­ries françaises, étrangères au contexte germanique de Marx. Notamment l'interprétation existentialiste du marxis­me proposée par Sartre.

 

Léopold Flam: une double lecture de Marx et de Nietzsche

 

J'ai suivi les cours du Professeur Léopold Flam, avant de de­ve­nir son assistant. Flam était issu de la communauté israé­lite de Belgique. Il avait fait de la résistance et les Alle­mands l'avaient interné à Buchenwald. Flam enseignait la pensée de Marx, sans être un dogmatique. Car, justement, il corrigeait les dérives gauchistes et néo-cléricales de la vul­gate marxiste par un recours à Nietzsche. Il fut le pre­mier à écrire dans une revue consacrée à la pédagogie de la philosophie que Nietzsche était par excellence le philo­so­phe de la jeunesse et que sa manière de voir le monde de­vait absolument être enseignée aux adolescents dans les écoles secondaires. Flam s'intéressait aussi à Heidegger et à sa philosophie de l'enracinement dans le sol (notamment le sol de la Forêt Noire, de la Souabe alémanique). Heidegger souligne la nécessité d'un ancrage, pour éviter les vatici­na­tions hors contexte, désarticulées, fumeuses, qui, à terme, servent d'instruments manipulateurs aux escrocs qui endor­ment les peuples pour mieux les enchaîner. Une combinai­son adroite de Marx, Nietzsche et Heidegger serait la re­cette idéale pour briser le dogmatisme actuel, qui aurait hé­rissé Flam, pour casser les reins à cette monstruosité qu'est la political correctness.

 

L'œuvre littéraire de Henri Bosco

 

Flam se référait à un autre auteur, un Français, un Proven­çal, Henri Bosco, pour étayer son discours sur le nécessaire ancrage anthropologique de l'homme dans un lieu, concret et clairement circonscrit dans l'espace. Bosco appartient à la catégorie des "écrivains du terroir", comme Giono, autre illustre Provençal, Maurice Genevoix et, plus récemment, Henri Vincenot. Flam a sans doute découvert cet auteur, cette fascination pour la Provence, via le lien qui unissait aussi Heidegger à ce Midi du Soleil. Je rappelle qu'il y a sé­journé avec René Char, découvrant aux abords des collines du Lubéron, un paysage "où l'origine n'était pas entière­ment voilée". Camus aussi, à la fin de sa vie, a été séduit par ce paysage, où son corps repose désormais, dans le pe­tit cimetière de Lourmarin. Henri Bosco, le Provençal pré­féré de Léopold Flam, était certes un écrivain du terroir, chan­tre de la Provence éternelle, de sa nature, de sa fau­ne, de sa flore, de ses habitants qui suivent des rythmes de vie simple et inchangés depuis des siècles. Mais derrière ce décor qu'on pourrait croire idyllique, serein, sans boulever­se­ments, la violence est toujours présente, prête, le cas échéant, à faire irruption à la surface. La violence n'est pas bannie de l'horizon du poète Bosco. Avec l'inspiration que lui a donnée Gérard de Nerval, les mystères, le suprasen­si­ble, les éléments magiques, les numines propres aux élé­ments de la nature peuplent ses romans et leur donnent une touche païenne, qui n'est pas sans rappeler l'œuvre de l'An­glais David Herbert Lawrence. Comme Camus, Flam glis­sait sans doute vers une acception plus enracinée de la gau­che intellectuelle, glissement diamétralement différent de celui, actuel, qui va vers la political correctness, en dé­pit de l'engouement pseudo-écologique d'une frange non né­gligeable de l'électorat.

 

"Urwüchsigkeit" et "Weltgefühl"  

 

Flam haïssait les "libres-penseurs" professionnels, les Frei­denker à faux nez, les bigots et les rombières du bataclan laïciste. Il détestait de tout son cœur ceux qui débitaient des dogmes. Qui érigeaient un nouveau cléricalisme. Flam n'ap­préciait que ceux qui allaient à la substance de la pen­sée, à l'Urwüchsigkeit, à la Vie des vitalistes, au Weltge­fühl. Il aimait les esprits ouverts, peu importent leurs en­ga­ge­ments ou leurs opinions périphériques.

 

Plus exactement, qu'est-ce que le marxisme pour vous?

 

UD: Le marxisme des années 60 était pour Flam, pour ses étu­diants et pour moi-même, une concession à la mode du temps, au Zeitgeist. Personnellement, je considère que le socialisme annoncé par Marx est le socialisme de la fin de l'aliénation (Entfremdung). Le socialisme n'est pas, en pre­mière instance, l'avènement de la "justice sociale" (car com­ment peut-on la quantifier?). Ni surtout ce moralisme qu'on essaie de nous vendre comme la quintessence des gau­ches aujourd'hui. Le socialisme, c'est donc la fin de l'a­lié­nation, pour tous les hommes en général, pour les tra­vail­leurs en particulier, victimes du manchestérisme et de l'exo­de rural au XIXième siècle. Pour Marx, le travailleur doit être le maître de son travail, et du produit de son tra­vail. Conserver un lien direct, immédiat, vital avec son activité professionnelle et avec le produit que celle-ci gé­nè­re. Tels sont ses leitmotive fondamentaux. A la suite de Léo­pold Flam, mon professeur, et de George Steiner, philo­sophe juif-allemand émigré en Angleterre à l'époque du na­tio­nal-socialisme, je constate une analogie entre ce désir de Marx et la pensée ancrée-enracinée de Heidegger. Celui-ci parlait d'un sentiment fondamental de l'homme, sans le­quel il est jeté dans la tourmente de l'existence: le "sich-zu-Hause-Fühlen", le "se-sentir-chez-soi", le "se-sentir-en-sa-maison". Le travailleur doit se sentir chez soi dans son usine, dans sa rue, dans sa ville, dans son pays, il doit être ancré, demeurer sûr de cet ancrage et ne plus être le jouet de forces supra-locales qui le manipulent comme un pion sur un échiquier ou qui spéculent sur son interchangeabilité permanente. Mon engagement au Vlaams Blok découle de là: je n'ai plus retrouvé dans la "libre-pensée" officielle (et dévoyée) le souci incontournable du "sich-zu-Hause-Füh­len", élément essentiel de toute anthropologie cohérente et viable. Beaucoup de mes camarades politiques du Vlaams Blok considèreront sans doute les propos que je tiens ici comme le reflet et l'expression d'une hérésie ou d'une aberration, mais j'affirme clairement que je vois dans le combat de mon nouveau parti une sorte de combat pro­to-marxiste. Le Manifeste du parti communiste de Marx (1844) contient pourtant des affirmations que n'importe quel homme de droite accepterait avec enthousiasme.

 

Le "Manifeste du parti communiste" de Marx: une lecture impérative pour tout homme "de droite"

 

Je cite de mémoire cet extrait du Manifeste de Marx: "Par­tout où elle [= la bourgeoisie] a conquis le pouvoir, elle a détruit les relations féodales, patriarcales et idylliques. Tous les liens variés qui unissent l'homme féodal à ses su­périeurs naturels, elle les a brisés sans pitié pour ne laisser subsister d'autre lien, entre l'homme et l'homme, que le froid intérêt, les dures exigences du “paiement au comp­tant”. Elle a noyé les frissons sacrés de l'extase religieuse, de l'enthousiasme chevaleresque, de la sentimentalité peti­te-bourgeoise dans les eaux glacées du calcul égoïste. Elle a supprimé la dignité de l'individu devenu simple valeur d'é­change; aux innombrables libertés dûment garanties et si chèrement conquises, elle a substitué l' unique et impito­ya­ble liberté de commerce. En un mot, à l'exploitation que mas­quaient les illusions religieuses et politiques, elle a sub­stitué une exploitation ouverte, éhontée, directe, brutale. La bourgeoisie a dépouillé de leur auréole toutes les activi­tés considérées jusqu'alors, avec un saint respect, comme vé­nérables. Le médecin, le juriste, le prêtre, le poète, l'hom­me de science, elle en a fait des salariés à ses gages. La bourgeoisie a déchiré le voile de sentimentalité tou­chan­te qui recouvrait les rapports familiaux et les a réduits à de simples rapports d'argent". Je vous le demande: quel hom­me de la droite véritable, de la droite des racines (j'y re­viens!) ne souscrirait-il pas à ces phrases de Marx et d'En­gels?

 

Aujourd'hui, cette synthèse marxo-heideggerienne, cette dou­ble revendication sociale et philosophique du droit "à être chez soi" ("Thuis zijn", thème central de la campagne du Vlaams Blok pour les élections communales du 8 octobre 2000) est notamment portée par le philosophe slovène Sla­voj Zizek, peu connu dans l'espace linguistique fran­cophone mais largement apprécié dans le monde anglophone, en Al­lemagne et aux Pays-Bas. Zizek va dans le même sens: il est hostile à la globalisation, parce qu'elle porte l'aliénation à son pinacle. Sa critique est nourrie de Marx et de Hei­deg­ger. Lui aussi dénonce l'idéologie “po­litiquement correcte”, avec son homme “multiculturel”, qui n'est, dit-il, qu'une ab­­straction totalement désincarnée. Donc une escroquerie. Donc un instrument de manipu­lation.  

 

Donc, pour vous, le malheur premier de l'homme, c'est l'a­liénation. Tout humaniste engagé en politique doit dès lors lutter contre les facteurs et les effets de l'alié­nation, aider ses contemporains plus faibles et plus dé­sorientés à s'en dégager…

UD: Oui. Aujourd'hui, l'aliénation a conduit à l'atomisation de nos sociétés, surtout dans les grandes villes. Bruxelles n'é­chappe évidemment pas à la règle. Les gens vivent barri­cadés chez eux, parce qu'ils n'ont plus envie de sortir  —la rue ne correspondant plus à leurs désirs de convivialité ou d'esthétique collectives—   ou parce qu'ils s'abreuvent de fic­tions cinématographiques, d'expériences de "seconde main", par films interposés. Dans un tel contexte, l'agora antique, le forum des citoyens libres, libres parce qu'ils pre­naient la parole en public, s'adressaient à leurs homolo­gues, n'est plus qu'un souvenir: c'est le comble de l'aliéna­tion. C'est aussi le message que nous a laissé Hannah Arendt. Ma position, de philosophe et d'homme engagé dans le seul parti révolutionnaire du pays (révolutionnaire jus­tement parce qu'il fait enrager tous les conformistes), c'est de m'insurger contre l'aliénation et ses formes multiples, de mettre toutes mes énergies à lutter contre les affres de l'aliénation. Je suis ainsi scrupuleusement la leçon de Marx, en tournant le dos à tout marxisme vulgaire, à tout "mar­xisme de parti" (partijmarxisme). Ce marxisme de parti est une escroquerie. Mon marxisme reste purement philoso­phique, il transcende largement les querelles politiques ou les querelles entre écoles. Avec Henri Lefèbvre, autre in­tellectuel en vue du PCF dans les années 50 et 60, je me dres­se contre le déracinement des hommes. Vous me dites qu'avec votre ami Guillaume Faye, ténor de la "Nouvelle Droi­te" dans les années 80, vous avez eu le privilège de dî­ner deux fois à la “Closerie des Lilas" à Paris avec Lefèbvre: je suis heureux de l'apprendre, cela confirme mes intui­tions. Depuis longtemps déjà, des passerelles auraient pu être jetées. Je suis fier d'être ainsi, à quelques années de dis­tance, sur la même longueur d'onde que Lefèbvre, ce grand maître de ma période universitaire.

 

Marx aurait donc été aussi "politiquement incorrect" que vous, s'il avait vécu aujourd'hui?

 

UD: Evidemment. Sa critique du consumérisme comme for­me la plus extrême de l'aliénation, où tous les hommes deviennent les esclaves de la marchandise, l'aurait mis radicalement en porte-à-faux par rapport à cet agence­ment complexe et aliénant de publicité et de mass-media que nous connaissons depuis quelques décennies. On ne parle jamais, chez les bigots laïcistes qui se piquent de marxisme, du "racisme" de Marx. Bon nombre de ses propos l'auraient conduit aujourd'hui devant un de ces tribunaux inquisitoriaux, issus de la Loi Moureaux, une loi qui doit son nom à cet ex-ministre de la Justice qui se prétend juste­ment son plus féal disciple au sein du PS francophone. En­core une belle contradiction dans notre "beau monde" politique! Philippe Moureaux exhorte ses ouailles socialistes à lire et à relire Marx, il n'a que cette exhortation à la bou­che… Mais, s'il veut être fidèle, par ailleurs, à l'esprit de sa fameuse loi contre le racisme, il devrait fournir à ses yes-men des versions dûment expurgées de Marx, sinon ils ris­que­raient d'enfreindre la loi qui porte son nom! Karl Marx était très fier, par exemple, d'appartenir à la culture alle­man­de, à l'appareil complexe de cette culture, mixte d'idéa­lisme, de kantisme, d'hegelianisme, de dialectique, de romantisme, etc. Je n'ai pas dit que Marx était fier d'ap­par­tenir aux aspects cucu de la culture allemande de son temps, au bric-à-brac Biedermeier, comme on disait à l'épo­que. Cette sous-culture, je le concède, il la vomissait. Ma position est analogue dans la Flandre d'aujourd'hui: qu'on ne me parle pas de cette fausse Flandre fabriquée par les cléricaux, où tous les Flamands seraient de pieux be­nêts bien chastes (vroom en kuis), humbles et souffrants sous les quolibets de leurs maîtres, décrits comme des per­vers impies. Mes modèles sont les Flamands combattants, entêtés, paillards, libertins, grands buveurs devant l'éter­nel, aventuriers et entreprenants.

 

Vous nous avez parlé de Léopold Flam. D'autres pro­fesseurs ont-ils influencé votre cheminement?

 

UD: Oui, sans doute avant tout Hubert Dethier. Ce phi­lo­sophe laïque s'inscrivait à ses débuts dans le filon de l'anti-humanisme français des années 60, qui entendait prendre le relais de Marx, quand il raillait, à la suite de Hegel, le culte des “belles âmes”. Dans le carnaval de la laïcité en Belgique, les dévots laïcards ont construit une vision tota­lement abstraite de l'homme, que critiquait Dethier, à la suite d'Althusser notamment. Mais Dethier est tombé dans le piège de la "nouvelle philosophie" des B. H. Lévy, des Glucksmann et consorts. Sa critique anti-humaniste a fait place à un mysticisme de Prisunic, où gargouillent tous les ingrédients de la vulgate dominante d'aujourd'hui. Je le dé­plo­re. Mais tant pis pour Dethier. Son anti-humanisme d'hier m'a aidé à me méfier des belles idées généreuses, qui ne camouflent généralement que du vide intellectuel ou des escroqueries véreuses. Hegel nous avait déjà averti, dans la dernière décennie du XVIIIième siècle, contre le cul­te des “belles âmes” (schöne Seelen). Ce culte est à la ba­se de toutes les abstractions morales ou éthiques qui veu­lent oblitérer la richesse infinie de l'homme vrai, de chair et de sang. Marx en riait. Je suis fidèle à son rire. Le formalisme philosophique de la VUB, mon université, a dé­bouché sur une triste philosophie de salon, un académisme infécond. Les pseudo-philosophes contemporains qui en sont issus et qui font des ravages dans les lycées et athé­nées se posent comme des "savants". Ils ne font que de la pa­raphrase, de la napraterij. Devant ce pandémonium, je me suis enfui à toutes jambes et j'ai abandonné mon poste de directeur de stages pour les professeurs de morale laï­que des athénées de la Région de Bruxelles.

 

Marxisme vulgaire et messianisme chez les trotskistes 

 

Parmi mes collègues, beaucoup venaient du trotskisme, ai­re idéologique où les militants, souvent, se sentent investis d'une mission, font montre d'une propension accentuée pour le messianisme. Ces personnages estimaient que leur mission était d'apporter aux masses, donc aux potaches, ce marxisme vulgaire (et non marxien!)  —justement celui qui épouvantait Flam—  afin qu'il devienne l'idéologie unique de la société, permettant ainsi de réaliser la parousie sur la terre. Mais, à l'analyse, leur internationalisme et leur pseu­do-solidarité sociale n'ont rien à voir avec Marx, avec son décryptage lucide des mécanismes du monde bourgeois. Le prêchi-prêcha internationaliste, on connaît. Tout le monde entonne la rengaine, y compris l'Eglise. C'est ainsi que la libre-pensée, sous la triple influence du marxisme vulgaire, du messianisme de nos trotskistes simplets et de la "nou­velle philosophie" des Lévy et consorts, est devenue un nou­veau cléricalisme. Il n'y a plus de différence fondamen­tale entre ce que nous racontent les curés et ce que nous se­rinent les libres penseurs. Tout est mêlé, mélangé dans une panade sans saveur.

 

Qu'entendez-vous, au fond, par “cléricalisme”? Chez vous, ce terme semble recouvrir davantage qu'une sim­ple critique de l'Eglise et de ses mécanismes de pouvoir et d'influence sur les esprits…

 

UD: Pour moi, la libre pensée, c'est tout à la fois le refus du paternalisme (d'être objet d'un paternalisme), de la tutelle (d'être mis sous tutelle), de la manipulation. C'est refuser que la population tout entière, ou une partie de la popu­la­tion, soit soumise à l'emprise d'une forme ou d'une autre de pa­ternalisme, de sollicitude artificielle, entraînant une dis­cri­mination, négative ou positive. Quand, en théorie, l'en­sem­ble de la population citoyenne (et par conséquent auto­ch­tone) a été émancipée des tutelles qui pesaient jadis sur elle, il a fallu inventer de nouvelles catégories d'“exclus”, à la fois afin d'avoir un prétexte pour relancer la dynamique de l'émancipation et de se donner un nouvel objet de pitié, d'apitoiement et de sollicitude, tous ingrédients dont les paternalistes désœuvrés ont un besoin pathologique. Cette nouvelle catégorie, ce sont les immigrés (et accessoirement les jeunes, les drogués, etc.). Les bourgeois à mauvaise cons­cience, les professionnels du paternalisme à tous crins et du charity business style dames patronnesses, ont trouvé dans ces strates plus récentes de nos populations urbaines de nouveaux objets de (fausse) sollicitude, qu'il faut choyer et paterner/materner, le cas échéant, en leur accordant des faveurs matérielles de toutes sortes, financées évidem­ment par le contribuable (cette fois sans discrimination).

 

Se venger des citoyens socialistes autochtones

 

On peut même avancer sans trop craindre de se tromper, que cette bourgeoisie, paternaliste en surface, égoïste dans le fond, qui a dû accorder des droits sociaux à nos pro­pres strates populaires et ouvrières, sous la pression des grèves et des mouvements syndicaux, cherche à se venger, consciemment ou inconsciemment, de notre peuple en ma­nipulant contre lui les catégories sociales issues de l'immi­gration (Il reste effectivement à faire la psychanalyse de cet engouement pro-immigrés, où les immigrés ont d'abord joué à leur insu le rôle de "jaunes", pour casser ou contour­ner les acquis sociaux des autochtones). Manipulation qui s'effectue par l'instrument de la "discrimination positive" (qui n'en reste pas moins une discrimination), par le chan­ta­ge moral, par l'exploitation du mal-vivre qu'engendrent la cohabitation de populations qui se connaissent mal et une intégration forcée qui ne se réalisera sans doute que lors­que les poules auront des dents, bien plantées dans de nou­velles maxillaires charnues, don providentiel de l'évolution (merci Darwin!).

 

Comment seront les dix prochaines années en Flandre à votre avis?

 

UD: Dans les dix prochaines années, l'emprise du néo-li­bé­ra­lisme se fera toujours plus pesante. Tout est déjà mar­ché. Et demain, ce sera encore pire. Notre société va bas­culer dans le consumérisme le plus forcené, entraînant l'ato­misation, l'aliénation absolue. Nous, militants identi­taires flamands, devront construire la réaction populaire contre ce désastre. Nous ne sommes pas la droite de l'ar­gent (du capitalisme), mais la droite des racines (celles que Camus et Flam ont découvertes dans la Provence du Lubé­ron, d'Henri Bosco et, pourquoi pas?, de Jean Giono). La droi­te des racines sera celle qui mènera en première ligne le combat contre l'aliénation. Elle devra clairement décla­rer la guerre au néo-libéralisme, idéologie de la globalisa­tion, donc de l'aliénation suprême. Certes, je suis conscient qu'en Flandre, aujourd'hui, le néo-libéralisme peut encore séduire: en apparence, il a réduit le taux de chômage; mais cette petite victoire, sans nul doute toute provisoire, n'ex­clut pas les très prochaines retombées tragiques de la glo­ba­lisation, dont l'immigration débridée et ses effets pervers ne sont qu'un aspect. Abattre les règles du protectionnisme me semble une aberration politique, car, quand les bar­rières régulatrices n'existent plus, nous tombons très vite dans la crise, au moindre choc conjoncturel.

 

Le libéralisme ne permet pas de réconcilier autochtones et immigrés

 

Le néo-libéralisme promet l'euphorie et la réconciliation en­tre les peuples; en bout de course, ce sera le contraire, l'affrontement, avec tout son cortège de tragédies. L'immi­gration, produit de la mondialisation en cours depuis plu­sieurs décennies, ne réconcilie pas les ouvriers autochtones et allochtones. Au contraire. On peut le déplorer, mais c'est ainsi: deux hommes issus de civilisations différentes se­ront les meilleurs amis du monde, si chacun possède un ter­ritoire, qu'il agence comme il l'entend, sur lequel il cons­truit la société de ses vœux, de ses aspirations pro­fondes ou perpétue celle de ses pères. Sur un même terri­toi­re, ces deux amis potentiels risquent de s'opposer, car leurs désirs se télescoperont et s'excluront mutuellement. Dans leurs usines, les ouvriers de chez nous parlent de leurs conquêtes féminines et de leurs libations. Difficile, dans ces deux domaines élémentaires, d'être sur la même lon­gueur d'onde avec un camarade issu d'une culture islami­que, où l'on ne parle pas des femmes de la même façon et où l'alcool est prohibé. Dans un tel contexte de mécom­pré­hension mutuelle, les hiatus se multiplient. Les uns et les au­tres se replient sur eux-mêmes. Le “sich-zu-Hause-Füh­len” disparaît du lieu de travail. Un puissant sentiment d'a­lié­nation naît. Et pas seulement à l'usine, sur le lieu du tra­vail. Aussi dans la rue. Psychologiquement, cette situation est très dure pour un large pourcentage de la population. Le sentiment d'insécurité en découle. Même les adversaires les plus acharnés de mon nouveau parti en conviendront, mais dissimuleront leur constat derrière un rideau d'hypo­cri­sies verbeuses, tenteront de maquiller la triste réalité que doivent vivre tant de nos contemporains.

 

Votre conclusion?

 

UD:  En dépit de tout, la lutte première à mener est la lut­te contre l'aliénation. Ce fut mon combat hier. C'est mon com­bat aujourd'hui. Ce sera mon combat demain.

 

(propos recueillis par Robert Steuckers).          

 

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mercredi, 20 février 2008

G. Miglio: une Europe impériale et fédéraliste

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Pour une Europe Impériale et fédéraliste, appuyée sur ses peuples

 

Entretien avec le Prof. Gianfranco MIGLIO

 

«L'Europe future renouera avec la formidable structure que fut le Saint Empire Romain de la Nation Germanique; elle ne sera pas une Europe des Etats-Nations comme le voulait De Gaulle ni une Europe d'Etats centralisés, comme actuel­lement. Les Américains s'en sont aperçus comme le prou­ve le récent discours de Clinton à Aix-la-Chapelle». Gianfranco Miglio n'est pas l'homme à se laisser aller à des vaticina­tions ou, pire, à des prophéties dictées par les passions et l'enthousiasme. Ses mots sur les mutations en cours dans les structures territoriales et politiques d'Europe revêtent dès lors une grande importance, car ils viennent d'un savant érudit qui, pendant des décennies, a perfectionné et déve­loppé des modèles constitutionnels et politiques qui ont été pris en considération en Italie du Nord mais aussi dans tou­te l'Europe.

 

Après un isolement studieux de quelques mois, le Profes­seur Miglio nous revient aujourd'hui tout ragaillardi et sa verve batailleuse anime chacun de ses paroles. Les temps changent, nous dit-il, et la vieille Europe semble se ré­veil­ler après les sombres décennies de la Guerre Froide, où l'équilibre (balance of power) se faisait entre les deux su­per-puissances qui, à Yalta, avaient hérité des destinées du monde.

 

Aujourd'hui, seuls les Etats-Unis demeurent en piste et c'est de là-bas que nous viennent des messages sans équivoque qui en disent long sur les idées et les préoccupations du gouvernement américain en ce qui concerne notre conti­nent. «L'idée est neuve et ancienne tout à la fois et elle se répand dans les secteurs les plus influents de la diplomatie européenne: cette idée, c'est celle du Saint Empire Romain de la Nation Germanique, explique Miglio, une idée impé­riale européenne qui ne doit effrayer personne. Car elle est prête à ouvrir un chapitre nouveau et très intéressant dans l'histoire millénaire de notre continent».

 

Q.: Professeur Miglio, le Président américain Bill Clinton vient de prendre acte de l'importance de la dévolution en Europe et des identités des vieilles nations euro­péennes, qui ont été englobées au cours de l'histoire dans les Etats nationaux issus des idées du XVIIIième siè­cle: la Lombardie, le Piémont, la Vénétie, la Ca­ta­lo­gne, la Silésie, etc. Vous attendiez-vous à cela?

 

GM: A mon avis, Clinton et ses hommes ont une vision de l'Eu­rope qui est également dépassée, parce les déclarations du Président américain ne m'enthousiasment nullement. Quoi qu'il en soit, c'est un fait avéré maintenant, que les hommes politiques américains se rendent compte que l'Eu­ro­pe est à la veille d'un changement profond et que les in­stitutions parlementaires qui ont fait l'efficacité de l'UE sont inexorablement sur le déclin. Dès lors, la possibilité est ouverte désormais de mener une opération de type fé­déral, actualisable par une refonte géopolitique générale interne. Les grandes régions, celles que l'on appelle les ma­cro-régions d'Europe, pourront, dans ce processus, se repo­si­tionner en dehors des Etats nationaux décadents et dé­pas­sés, qui les avaient avalées jadis.

 

Q.: Pour ce qui concerne plus spécifiquement notre aire géographique, nous pourrons assister à la renaissance de la Mitteleuropa?

 

GM: L'idée de Mitteleuropa est d'une brûlante actualité. Mais cette fois Berlin ne la conteste pas. Au contraire! La ca­pitale allemande est devenue le nouveau laboratoire po­litique du continent, où se construit une nouvelle civili­sation. Dans la culture allemande, une idée nouvelle est en train de germer. Prenons par exemple le Ministre des Af­faires étrangères d'Allemagne, Joschka Fischer. C'est un an­cien militant écologiste qui s'est converti à la Realpolitik, en abandonnant la démagogie de son ancien parti. Fischer a du génie, à mon avis, et il oppose désormais sa vision de l'Eu­rope à celle des Français.

 

Q.: Mais qu'en pensent les Français?

 

GM: Ils s'accrochent encore et toujours aux conceptions de De Gaulle, c'est-à-dire à une vision de l'Europe formée d'E­tats nationaux, de patries (ndt: au sens petit-nationalitaire du terme). Ce sont là des conceptions entièrement obso­lètes, inadaptés à la tâche qui nous attend. Les Etats na­tionaux actuels sont désormais en déliquescence à tous les niveaux. Pour parler comme Nietzsche, accélérons sa dis­parition! Fischer et les Allemands, au contraire, proposent une nouvelle mouture du Saint Empire Romain de la Nation Germanique. Pendant toute ma vie, j'ai étudié en long et en large le fonctionnement de cette structure continentale pondéreuse, au Moyen Age comme aux temps modernes.

 

Q.: Fonctionnait-elle mieux que les structures actuelles?

 

GM: Certainement mieux que l'Europe actuelle. L'Empire é­tait une structure multinationale qui servait aux Reichs­städten, aux Cités de l'Empire, à régler les conflits qui sur­gissent aux niveaux locaux. Mais pour le reste les commu­nautés urbaines ou locales avaient la liberté de s'auto-gou­verner, à promulguer leurs propres lois. L'autorité impé­riale les laissait en paix, au contraire de ce que fait Bru­xelles aujourd'hui.

 

Q.: De ce fait, vous avez un jugement favorable sur ce que vient de dire Umberto Bossi à propos du Saint Em­pire?

 

GM: Oui. Mais Bossi devrait se montrer plus calme quand il parle de l'Allemagne. Le “Quatrième Reich”, qu'il semble craindre, ne pourra pas exister dans une Europe conçue sur le mode impérial. Les Allemands ne veulent pas tout ger­maniser. Ils semblent menaçants dans la mesure où ils uti­li­sent ouvertement les bases de leur grande tradition cul­tu­rel­le européenne, mais Bossi est trop intelligent pour ne pas comprendre que le symbole du Saint Empire servira à re­lan­cer une fédération de peuples européens libres et sou­verains.

 

Q.: Dans la structure impériale européenne, basée sur les cultures et sur les identités des peuples, les popu­la­tions du Mezzogiorno italien ont-elles leur place? Comme l'a écrit le philologue vénétien Gualtiero Ciola, nous, Padaniens, sommes les héritiers des Celtes et des Lombards, peuples présents dans toute l'Europe conti­nen­tale. Qu'en est-il alors des peuples de l'espace mé­di­terranéen?

 

GM: Votre observation est juste. La partie de l'Europe qui est baignée par la Méditerranée a des traditions et des cul­tures différentes de celles qui animent le continent et dont fait partie la Padanie. La Padanie est une terre de la Mit­teleuropa et devra nécessairement tourner ses regards vers les peuples de cette Mitteleuropa. Mais sans oublier les liens commercieux et les liens de bons voisinage avec les Eu­ropéens de la Méditerranée. Du reste, nous ne devons pas oublier que la première guerre mondiale a éclaté quand le Kaiser allemand Guillaume II a manifesté son intention de construire une grande voie de chemin de fer à travers tout notre continent pour arriver à Bagdad. Il y a eu tou­jours des échanges intenses entre la Mitteleuropa et les Bal­kans, comme il faudra maintenir, dès aujourd'hui, des rap­ports profonds entre l'Europe continentale et l'Europe méditerranéenne.

 

Q.: Quels seront alors nos rapports avec l'Est, avec la Russie qui subit un ressac important?

 

GM: Je pense que les futurs rapports entre l'Europe et la Russie seront profitables aux deux parties. Surtout pour con­trebalancer l'hyper-puissance américaine.

 

Q.: Suivez-vous toujours les initiatives politiques de la Lega Nord?

 

GM: Je les suis avec le plus extrême intérêt. Pour moi, les idées “liguistes” sont centrales aujourd'hui. L'idée d'une Eu­rope des régions et des peuples peut recevoir un appui fon­damental par une action politique au sein du Carroccio, par­tant du niveau régional. Bossi doit continuer à brandir bien haut la bannière de la dévolution et de la “question septentrionale”. Je crois que, finalement, le processus de la fédéralisation s'est mis en marche et la Padanie, dans ce jeu, jouera sa part. Elle sera actrice et protagoniste dans ce prochain grand changement.

 

(propos recueillis par Gianluca SAVOINI et parus dans La Padania, le 15 juin 2000; http://www.lapadania.com).

mardi, 12 février 2008

National suicide and demographic decline in France

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National suicide and demographic decline in France

A translation by Fred Scrooby of an interview with Yves-Marie Laulan, author of Les Nations Suicidaires (1998).  Yves-Marie Laulon, economist and banker, has had a varied career that has taken him from French government cabinet posts to such international institutions as the International Monetary Fund, the World Bank, and NATO, as well as positions with Société Générale de Banques and Crédit Municipal of Paris.  He has taught in a number of universities, including the Institute for Political Studies in Paris.  He has published a dozen works on economics and geopolitics in France and abroad.

The interview was conducted by Xavier Cheneseau, and was published Dec. 28 at Robert Steuckers’ Euro-Synergies website.  The original entry doesn’t give the interview’s date.  (Judging by certain details in the text, it may be a few years old.)

Xavier Cheneseau: With regard to demographics you seem willfully pessimistic …

Yves-Marie Laulan: It isn’t the author’s comments that are violent but the situation that is violent.

In fact it’s already nearly too late.  Demographic phenomena — the ones I’m dealing with, at any rate — have this special characteristic, that they are slow and they proceed largely unnoticed, precisely until it is too late.

Wartime ravages can be repaired in a few years — Germany and France managed it.  Recovery from the consequences of an economic crisis doesn’t take long.  But demographic damage can take decades, even centuries, to recover from — when recovery is possible at all. […]

But you’re partly right:  I’ve deliberately taken a provocative tone, because you need to make a loud racket to awaken the deaf.  And look at the dumbed down, dullened public opinion we are dealing with, anesthetized by daily bombardment with mass media!  Where filtering of information is concerned, today’s France resembles Ceaucescu’s Romania, only a more efficient version. 

Faced with this situation, a dissident having ideas that are out of the ordinary, such as myself — Soviet Russia’s Samizdat, as Pierre Chaunu calls it — humbly cherishes the hope, perhaps, of being, if possible, the watcher at dawn spoken of in the Bible (Isaiah), the one who remains alone at his post all night waiting for the dawn to break.

XCh: How do you explain that we are faced with one of the most terrible demographic winters?

YML: Why, when living standards are breaking all records and humanity in general — Western women in particular — have never been so well off, are we seeing a birth-rate collapse?  This phenomenon is of course denied or obfuscated by those certified liars, our official demographers, who are to today’s demographic realities what Radio Paris was to the news during the German Occupation.

The following are the phenomenon’s main causes:

Western women don’t want, or are unable, to have children.

The famous Barbie doll we hear so much about these days represents very well the way in which women are viewed in our satiated, sterile societies.  Neither mother nor wife, but girlfriend on and off, she reigns supreme in her own enchanted universe based on sex (a little), sports (a lot), career (enormously), and finally, her body (totally).  She aspires to be a man in every respect, for Western society has been incapable of giving a satisfactory answer to the great 20th-Century challenge:  How to achieve the emancipation of women?  How to arrange for women to reconcile in reasonable ways their roles of mother — indispensable, both biologically and culturally, for the perpetuation of the species — and career, no less necessary?  Go put that question to Monsieur Juppé.

There has also been the shameless success of homosexuals — who aren’t exactly known for their natural fecundity.  Acceptable in private when engaged in with decent discretion, homosexuality has instead become aggressive and proselytizing, as seen with homosexual “civil unions.” Homosexuals demand society’s recognition and consideration normally reserved for fathers and mothers of families, nay even greater consideration — which says a lot about the reversal of values in our societies that seem bent on suicide.

We could add lots of other factors, such as the culture of death so rightly denounced by Pope John Paul II, with mass abortions paid for by government health insurance — no less! — and the mass media’s “humanitarianism” which endlessly attacks the strong traditional values of honor, hard work, dignity, family, sacrifice and being satisfied with what you have, etc.  Don’t even get me started on that subject, or you’ll think you’re talking to a flesh-and-blood preacher!

XCh: Isn’t this demographic winter a manifestation of abdication of responsibilities?

YML: That’s the fundamental cause.  For thirty years we’ve sat helpless and resigned as we watched a generalized abdication of responsibility at all levels.  Irresponsibility on the part of young men who no longer want to take on the responsibilities of fatherhood and being heads of families.  Irresponsibility on the part of young women who no longer want to bring babies into the world but prefer buying little dogs to keep them company (it’s true dogs don’t pay into Social Security but hey, no one’s perfect).  Irresponsibility on the part of politicians who are ready to sacrifice our nation’s future if it means safeguarding their precious chances in the next election ("Don’t get anyone mad at you, and ‘Après moi, le déluge!’ “).  Irresponsibility on the part of officials and bureaucrats who always want more employees for their offices, more salary increases, more perks and bonuses, and shorter work-weeks. 

France is transforming itself, guided by socialists (but the right has scarcely been any better), into a gigantic camp of welfare recipients of every variety.  Furthermore, in view of the fact that 57% of gross domestic product is redistributed, one can confidently say that one Frenchman out of two is on welfare, therefore irresponsible.

XCh: By combining individualism with a certain numbing comfort isn’t France putting itself on the slippery slope that leads to exiting history altogether?

YML: In our time France has already exited history.  On tiptoe.  She’ll re-enter it perhaps, one day, but that’s another story — for now, we’ve already given up two major attributes of sovereignty, things which make it that a nation exists in the world, namely our currency, replaced by the euro […] (whose rate of exchange is decided in Frankfurt) […and] the French army, now more like a police auxiliary in the service of NATO and our allies. 

Europe today is not on an ascent toward something better but is stumbling forward while our politicians seek to preserve their generous parliamentary incomes as they shift all hard decisions onto Brussels.  It is no longer the borderless Europe of François Perroux but the faceless Europe of Jacques Delors, the Europe of quitting, of cowardice, of shirking.  The amazing thing is how the French, as if in a daze, stay mute and fail to react in the face of such mutilations of their sovereignty as are being imposed on them.  They’ll demonstrate en masse against dove hunting but have no reaction to homosexual “civil unions” or the Amsterdam Treaty.  They are no longer a population of sheep but a lemming colony.  And it’s claimed they are “ungovernable.” Not true.  They are manipulated exactly as is wished, and made to swallow anything.

XCh: Is there no sign of a healthy reaction?

YML: None for the moment.  The electroencephalogram tracing shows a flat line and the patient is profoundly comatose.

XCh: Do you think France will survive the 20th Century?

YML: It depends on what you mean by “survive.” If it’s a question of a population provided with more or less recent national ID cards together, of course, with national health-service cards, Frenchmen may well survive — after all, the recipes for cassoulet, duck magret, and tripes à la mode de Caen won’t disappear.  And there’s also soccer. 

But if it’s a question of a people proud of its past and concerned for its destiny as a nation, taking pride in its presence in the world and in its place among the nations of Europe, that’s a completely different story.  Because of its demographic evolution characterized by internal demographic collapse, the shortfall to be made up by massive immigrant populations, France stands a good chance of becoming what could be called an unfortunate society which will have difficulty overcoming the internal contradictions she herself has created.  Populated by large minorities aspiring to be majorities, very different in their culture and values and therefore rivals, France will become a country in which simply maintaining public order will require the mobilization of all domestic resources to preserve a semblance of social order.  Furthermore, unlike the United States which has accepted the harsh disciplines of a liberalism that has created wealth and jobs, France adopts inept measures, for example the disastrous 35-hour work-week, the laughing stock of the civilized world. 

Such societies cannot pretend to have a foreign policy or a national defense but will be limited to (what is already a lot for them) simple preoccupations of maintaining order, within the framework of a régime that more and more resembles a police state, and a more and more nationalized economy, as seen in the cases of many African countries and Lebanon. 

If that’s what is meant by “survive” then yes, France has a chance to survive — but in what condition!

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mardi, 05 février 2008

Troy Southgate in "Kinovar" (Russia)

By Miron FYODORAV

http://www.new-right.org/?p=21

Troy, you are now one of England’s most influential and radical ideologists. How did your political views develop, and, more generally, how did a young South London lad get in touch with rather abstract philosophical and political concepts?

As a child I always had a strong social conscience, something I inherited from my father. As a result, therefore, I was constantly aware of the great disparity between the immense wealth and riches enjoyed by the West and the comparative poverty in so-called ‘Third World’ countries like Ethiopia and India. In my final two years at school I became very interested in the six main bands from the Two Tone scene that were releasing protest songs in opposition to Margaret Thacher’s Conservative Government. These included The Beat, The Specials and The Selecter. The deeper message behind Two Tone, apart from promoting racial harmony, was centred on urban decay and the effects that Capitalism was having on ordinary people’s lives. In my teenage years we moved from a council estate in Crystal Palace, South London, to a small bungalow in the country town of Crowborough, in East Sussex. When I was eighteen I decided to vote Labour in the General Election, following my father’s example. By this time, the rest of my family were becoming Conservatives and involving themselves in the expanding housing market. Despite the fact that I was very mistaken to believe that the Labour Party was anti-Capitalist, the fact that my father was virtually the last person to stick to his working class roots inspired me a great deal. Meanwhile, the fact that I now found myself in such a rural environment meant that I had to travel up to London on a regular basis to see the rest of my family or to buy clothes and records. The fact that I always kept in touch with my South London roots, therefore, eventually led to me discovering the National Front (NF). I had heard of the NF on various occasons, not least because they were regularly denounced at many of the Two Tone and ‘Rock against Racism’ events that I was attending several years earlier. But there was a great deal of crossover between the skinheads of the Ska movement and those who attached themselves to racialist causes, so during a visit to East Croydon to watch Bad Manners in 1984 a chance meeting with an old friend led to me accompanying him to the ‘NF pub’ across the road. Consequently, I ended up buying a copy of ‘NF News’ and reading it on the train home. The first thing that struck me was how incredibly anti-Capitalist and pro-socialist the Movement was, particularly the articles about the Mondragon Co-operative in Northern Spain, the distributist views of Hilaire Belloc and G.K. Chesterton, and Otto Strasser’s defiant struggle against Hitler and Big Business. Before long, I found myself travelling up to South London twice a week in order to socialise with members of Croydon NF like Chris Marchant, Gavin Hall and John Merritt. They were a few years older than I was and, in between pints of ale, I spent the evening picking their brains about the history of the NF and various ideological issues. I was astonished to discover that the stereotypical media image relating to a group of alleged race-hating, neo-nazi thugs was complete and utter hogwash. Eventually I was made East Sussex Regional Organiser, given the role of taking ‘NF News’ to the printers and joining the likes of Derek Holland, Nick Griffin, Graham Williamson and Patrick Harrington in the Movement hierarchy. It was a very exciting and formulative period and I look back on that period with a good degree of fondness and nostalgia.

What, exactly, was the NATIONAL REVOLUTIONARY FACTION and why was it disbanded in 2003?

In 1990, the NF changed its name to Third Way after a bitter personality clash had driven a wedge between those in the leadership. Many of us left to form the International Third Position (ITP), but by 1992 a large group of us became disenchanted with the fact that certain individuals like Roberto Fiore (now Forza Nuova) and Derek Holland had betrayed the genuinely anti-fascist principles of the late-80’s NF by forming alliances with conter-revolutionary elements in the Catholic Church and neo-fascist groups overseas. As someone who has always been extremely suspicious of Right-wing reaction, this was not what I wanted at all. Consequently, when it emerged that Fiore and Company had also stolen thousands of pounds from a very close friend of mine who had invested money in their abortive ‘farm’ project in Northern France, we formed the English Nationalist Movement (ENM) and took most of the ITP’s regional units and publications with us. One of our more senior members, on the other hand, had spent over twenty-five years in Gerry Healey’s Workers Revolutionary Party (WRP) and taught me a great deal about strategy and organisation. The ENM restored the old socialist values that had come to the fore in the 1980’s NF and produced a barrage of printed material about Robert Blatchford, William Morris, the Strasser brothers, Robert Owen and others. The ENM was fairly successful and earned itself quite a reputation, but in 1998 we decided to take things one step further by establishing the National Revolutionary Faction (NRF). The NRF was a hardline revolutionary organisation based on an underground cell-structure similar to that used by both the Islamic Resistance Movement (Hamas) and the IRA. Our main centre of operations was in West Yorkshire, where we established a system of ‘leaderless resistance’ and worked alongside local resident groups concerned at the large number of Asian attacks in the area. This was not designed to affect innocent people, but to counter the increasing violence against the indigenous White community. Eventually, however, a combination of State repression and half-heartedness on behalf of some of our cadres led to us having to scale down the whole operation. The fact that we had been greatly inspired by the work of Richard Hunt and Alternative Green and were also in the process of changing the NRF into an Anarchist organisation also took its toll. In 2003 we finally decided that it was futile to portray ourselves as a ‘movement’ when, in fact, there were never more than 20-25 people involved at any one time. These days, we simply refer to ourselves as ‘the National-Anarchists’ and believe that we represent a current rather than an actual organisation of any kind. What is also quite fascinating, however, is that National-Anarchism developed in several different countries at the same time. Hans Cany (France), Peter Topfer (Germany) and myself are each part of a simultaneous phenomenon that developed as a logical antithesis to the ideological bankruptcy that characterised the end of the Twentieth Century. It is with this new platform in mind that we now enter the next century and attempt to overcome the difficulties and tribulations that dominated the last.

The idea of National-Anarchism is certainly very attractive, but its critics seem to be justified in claiming that it can make a territory - we are consciously avoiding words like “state” and “country” - extremely vulnerable to foreign intervention. How can a society based on National-Anarchist principles defend itself against a centralised, totalitarian agressor? Surely the principle of “blood and soil” would make it impossible to be loyal to a greater entity than one’s local community, and thus to successfully oppose globalisation, foreign economic domination and cultural imperialism?

We all know what happened to the innocent children of Waco, the family of Randy Weaver and the anti-tax rebels of the Michigan Militia, so in order to be as successful as possible it is crucial that National-Anarchist communities do not seek to maintain a high profile or invite confrontation with the State. There are peaceful Anarchist and secessionist communities all over the world, let alone tribal societies that have existed for many thousands of years. It’s just a question of keeping one’s head beneath the parapet. Large-scale immigration and socio-economic decay has meant that countries like England have become totally irretrievable, and therefore it may even be necessary to create these communities abroad. Given that Indo-Europeans have migrated on countless occasions before and, indeed, in the case of people emigrating to New Zealand and Spain are continuing to do so in great numbers today, this is not as drastic as it sounds. As the West continues its inevitable decline and fall, National-Anarchists will continue to investigate those socio-economic alternatives which can provide a real alternative to the system that is crumbling around our ears. In many ways, the real struggle against Capitalism will take place on the periphery, rather than at the centre. We must remember that the West can only retain it’s privileged lifestyle by exploiting the so-called ‘Third World’, and this is precisely why revolution on the periphery is a far more feasible option than attempting to fight the Capitalists on their own turf in Europe or North America. In fact the very same process brought about the collapse of the imperialistic Roman Empire. It is also vital to view National-Anarchism as part of a long-term strategy and understand that it could take many decades before these ideas really begin to swing into action. One thing we do have on our side, however, is that every time the system weakens we actually get that little bit stronger. As more and more people turn their backs on mass consumerism, the concept of living in small, decentralised communities with others of like-mind will become more realistic and attractive.

What are your views on natural rights? Is there such a thing as a right to life?

I don’t believe that anyone, man or beast, has a specific ‘right’ to life. That is not to suggest, on the other hand, that we shouldn’t continue to resist those who seek to exploit our labour in the factories and the fields, attempt to bleed us dry through the machinations of the international banking system, or cruelly torture innocent animals in the name of fashion or medical science. We hear a lot about ‘rights’, but never enough about duties. What about our responsibility to the environment, for example, or our duty to ensure the well-being of our children and not leave them vulnerable to the corrosive effects of the liberal ‘education’ system? But in short, nobody has a ‘right’ to anything. ‘Rights’ are purely contractual and can only be drawn up superficially. We know from experience, however, that just as weeds will overrun a beautiful garden, basic human nature ensures that even the best intentions inevitably come to nothing. This may sound very pessimistic, but these utopian liberal bubbles are there to be pricked.

What are the links between your vision of National Anarchism and JULIUS EVOLA’S writings? How can his concept of the Empire co-exist with that of anarchism? In this context, what is your view of FRANCIS PARKER YOCKEY’S ideology?

National-Anarchism and Julius Evola do not necessarily go hand in hand. As a former student of Theology & Religious Issues, I have a personal interest in Evola because his seminal work, ‘Revolt Against The Modern World’, taught me a great deal about the irreconcilable differences between tradition and modernity. That obviously has great implications for the development of traditional communities that have rejected the contemporary world. And, like the German novelist Ernst Junger, Evola also adhered to the concept of the Anarch or Sovereign Individual. The man or woman that has learnt to ‘ride the tiger’ and retain both their sanity and dignity in the face of cosmological decline. But as far as Evola’s belief in a European Imperium is concerned, whilst I agree with a transcendental and unitary vision to which people can give their allegiance, I still support political, social and economic decentralisation right down to the lowest possible unit. This may sound like a contradiction in terms, but it is possible to give one’s allegiance to a higher ideal and still retain a sense of localised autonomy and self-determination. I don’t find Yockey’s work that inspiring, to be perfectly honest, and a centralised European superstate has no appeal for me whatsoever. On the other hand, he did understand the threat that America and its Zionist allies present to the world and proved himself to be a brave and competant liaison officer.

It seems that, while the best men devote their lives to the development of conservative-revolutionary ideas, the worst men succeed in putting them into practice. One can easily sympathise with MOELLER VAN DEN BRUCK’s heroic vision of the Third Reich, but not with Hitler’s regime. The same is true of other great thinkers when compared to the brutal and bureaucratic regimes their works indirectly helped to establish. This, in fact, has led to great pessimism among those who felt their ideas were betrayed. GOTTFRIED BENN or JUNGER for example. Does this mean the conservative revolution is a largely utopian concept, more romantic than it is practical?

I certainly don’t believe that it is possible for Revolutionary Conservatives to take control of a national government, if that’s what you mean. At least not in Europe. Here in England, for example, the New Right is confined to small fringe groups like the Conservative Democratic Alliance, Monday Club, Freedom Party and Right Now magazine. Meanwhile, of course, working on the fringes does not present a problem for National-Anarchists, in fact that’s the whole point of our opposition to the centre. The Gramscian method can work on the Left, it seems, but not on the Right.

What is your opinion of SIR OSWALD MOSLEY, and of other “homegrown” fascist ideologists?

I am opposed to all totalitarian doctrines, be they Fascist or Communist. But whilst Mosley himself was a thoroughly dislikable character, I do believe that he was a geniune and principled individual and to a certain extent I have respect for what he tried to achieve. He went the wrong way about it, of course, but if the British Union of Fascists (BUF) had not made the mistakes that it did we would have to go through the whole process again.

As a patriot, how do you view of the Right-wing of England’s politics? What are the main problems you have with nationalist groups like the British Nationalist Party (BNP), or the even more moderate United Kingdom Independence Party (UKIP)?

I’m not sure I would describe myself as a ‘patriot’. As I’ve already explained, the whole notion of England as representing both a geographical area and a people is becoming increasingly hard to substantiate. The only way England can ’survive’ is by being constantly redefined. Using ridiculous and contrived phrases like Tony Blair’s ‘Cool Brittania’, for example. But let’s face it, the main towns and cities of modern-day England have become multi-racial hellholes and despite the flag-waving that accompanies any major football tournament, it’s quite ridiculoius to cling to the belief that we can somehow restore our nationhood by repatriating all immigrants and their descendants. It won’t happen. Ever. Parties like the BNP are merely postponing the inevitable decline. Furthermore, of course, the fact that they continune to tread the discredited boards of parliamentary politics simply perpetuates the whole charade. We need people to become disillusioned with the ballot box, not to cling to the mistaken belief that voting for the BNP can solve all of our problems. One way in which it is possible to have some kind of influence, on the other hand, is by using UKIP as a vehicle to disrupt the European Union. Besides, whilst UKIP itself is comprised of bankers and industrialists worried about the threat of the single currency, the fact that it remains a single-issue pressure group means that it is still possible to upset the federalist applecart without compromising one’s own principles. Voting for parties, therefore, is futile, but UKIP MEPS only seek election in order to interfere with the very process itself. This, perhaps, would be a worthy target for the attentions of the New Right.

What about the Left? Are there any forces associated with Left politics that you are prepared to ally with? Have you been influenced by Left-wing authors and ideas?

Certainly been far more influenced by the Left than the Right, if that’s what you mean. The so-called ‘anti-fascists’ on the Left appear to have trouble with the fact that I cut my political teeth, so to speak, in the NF. But this is quite irrelevant. I’ve never considered myself to be Right-wing and when I joined the Movement it had progressed beyond the stage of being a Right-wing organisation. Furthermore, the terms ‘Left’ and ‘Right’ each have their origins in the build up to the 1789 French Revolution, anyway, and my lifelong opposition to the established order must surely put me on the Left. Not that I even consider this to be a valid description of my beliefs, of course. National-Anarchists are prepared to form alliances with anyone and have attended many protests and demonstrations in order to express our solidarity with the wider opposition to International Capitalism. To paraphrase Lenin, ‘we must march separately but strike together’. Indeed, when a young Palestinian miltant throws a petrol bomb at an Israeli tank, he speaks for us just as we speak for him. My own ‘Left-wing’ influences include George Orwell, Mikhail Bakunin, Emma Goldman, Peter Kropotkin, Gerard Winstanley, Max Stirner, Nestor Makhno, Che Guevara, Sergei Nechayev, Hakim Bey, Pierre-Joseph Proudhon, the Angry Brigade, and the Red Army Faction.

Generally, how flexible is your movement when it comes to strategic alliances? What would you say is the political common denominator, the decisive streak a group or a party must have in order to become your ally? Is it anti-Americanism, anti-globalism, anti-liberalism, Third Positionism?

I don’t think there are any common denominators. Useful opportunities come in all shapes and sizes and world history is full of surprising alliances that have taken place between seemingly opposed groups. Realpolitik is necessary whenever and wherever the need arises. Much of what we do has to be covert, because the groups that direct the anti-Capitalist movement are usually controlled by Left-wing dogmatists who believe that we National-Anarchists are trying to subvert Anarchism for our own sinister ends. But this is false. As we’ve said elsewhere time and time again, we are not ‘racists’ or ’supremacists’ with some kind of secret agenda, we are seeking our own space in which to live according to our own principles. Sadly, however, most people on the Left want more than that and will not rest until they can organise every minute aspect of people’s lives. It’s a self-perpetuating disease. This is why they talk of the ‘right to work’, when - as Bob Black rightly points out - the real problem is work itself. The Left, just like the totalitarian Right, refuses to tolerate anyone who tries to opt out of its vision of an all-inclusive society. Some of us, however, want no part of this and will only be ’socialists’ among ourselves and with our own kind.

A somewhat provocative question: do you sometimes feel that radicalism and marginal politics have grotesque and ridiculous sides, as famously described in STUART HOME’S novel “Blowjob”? Ideologists switching from left to right and back again within an hour, supposedly dangerous parties consisting of just a few members - doesn’t all this this sometimes remind you of a poltical carnival rather than realpolitik?

Despite being regarded by Stuart Home and his friends as some kind of ‘anarcho-fascist’, I can’t say I’ve actually read his book. But I do understand the point you’re trying to make. The ITP accused me of being fickle once I had left the Catholic Church and began exploring paganism and the Occult, but I think it’s a question of personal development. Some people will always be political opportunists, of course, but in my case it was a question of gravitating slowly over the course of several years. Without being arrogant, I believe that intelligent people tend to think their way out of the party. And it you look at my track record, it does actually make sense. I’ve always tried to be as genuine and open-minded as possible, doing the research and exploring the options available to me instead of following blindly like those who decided to remain in the ITP rather than try to put things back on track. National-Anarchism isn’t some kind of middle-class adventurism designed to shock, it’s what I like to describe as a form of ‘realistic escapism’.

What about using the enemy’s weapons instead of fighting with guerilla tactics from the underground? I’m talking about unorthodox means such as using the style of glamour mass-media together with aggressive propaganda of a “trendy revolution” aimed at the youth. We know that the System has so far managed to digest the most marginal and revolutionary elements of counter-culture and make them harmless, so surely the adequate response to this is to position oneself as “mainstream” right from the start, thus preventing the ruthless market from exploiting one’s “non-conformity”? Can you accept this position, or do you see the process of “reclaiming the streets” as the only effective tactic?

I don’t believe in reclaiming the streets at all. We tried that in the ENM and failed. But I do make a distinction between politics and culture, so therefore I support these forms of counter-culture because the political struggle can only make progress if there is a cultural struggle to accompany it. This was how the NSDAP managed to achieve so much progress in 1930’s Germany, it simply tapped into an existing cultural vein and rode it all the way to the Reichstag (with more than a little help from wealthy German industrialists, of course). I’m not suggesting that it’s still possible to gain control of the national state in this way, but it’s all a question of identity. An individual can empower his or herself by joining together with like-minded people. If this relates to an ideal that is connected with music or fashion, for example, then all the better. I think the strategy currently being deployed by KINOVAR is the right path to take.

How strong is your link with the Russian “International Eurasia Movement”? You are, after all, the man behind the “Eurasian Movement” which stresses the importance of “the geopolitical vision” of “contemporaries like ALEXANDER DUGIN”, and you could therefore easily be seen as Dugin’s man in England. And yet his approach to politics seems to differ greatly from yours. Can you share all of his views and accept his strategies?

I won’t pretend that the Eurasian Movement (EM) in England is making any real progress at the present time, because Eurasianism in general is still a fairly new concept in Western Europe. More than anything, I think, the EM is simply a convenient rallying point for those familiar with Dugin’s ideas and who are gravitating towards such concepts. But we are part of the Eurasianist international, if you like, and recently sent a message of support to the annual Eurasianist gathering in Moscow. Dugin is not a National-Anarchist by any stretch of the imagination, but as an advisor to Vladimir Putin he is in a position to influence Russian affairs and policy-making at the very highest level. In many respects this is similar to the role of UKIP, referred to above. Eurasianism is important to National-Anarchists because it puts our struggle into a wider perspective. Indeed, whilst we are primarily concerned with what goes on at the level of the village or on our own doorstep, so to speak, we still believe that we can export our ideas by offering support to a new ‘dissident’ alliance against Western interests. But we are not interested in the formation of a new Eastern imperialism, by which Russia can then dominate her immediate neighbours for her own narrow interests. We want to help create a network of decentralised allies all striving towards a similar ideal, but each retaining their own unique character. The best - despite being a fairly simplistic - example that I can think of in this regard, is the collaboration that takes place between Hobbits, Elves, Dwarves and Men against a common totalitarian enemy in Tolkien’s ‘The Lord of the Rings’. Instead of creating a counter-imperialism, of course, when the battle is finally won the Fellowship gradually subsides and the various races get on with their own lives in their own peculiar way. This kind of loose defence structure is completely in tune with National-Anarchism and its opposition to large standing armies and militaristic autocracy in general.

What is your vision of the European and English future in 50-100 years’ time?

To some extent I dealt with this issue in Question 8. But let me give you an example. Imagine if you had a glass of clean water and then began to add several drops of another liquid, such as ink, for example. At first, the water would become rather cloudy, but as more and more ink is added the water then begins to lose its original appearence altogether. Eventually, of course, it would be ridiculous to refer to it as ‘water’ at all. This is how I see the future of both England and Europe. The fact that our continent is changing at such an alarming rate means that it can no longer be seen as representing a homeland for people of Indo-European stock. Coupled with the fact that thousands of Europeans are emigrating abroad to places like Australia and New Zealand, the future of Europe is beginning to look very precarious indeed. Many will stay and fight, of course, but the most sensible option in this increasingly tenuous situation - I believe - is to create new homelands on the periphery. But just how far we will have to go in order to avoid the wrathful clutches of the West remains to be seen.

One has the impression that a number of our contemporaries identified with the conservative revolution were inspired by Russian culture. For example, DAVID TIBET has mentioned SOLOVYEV among his spiritual influences, while your friend and ally, the radical Christian and conspiracy theorist WAYNE JOHN STURGEON, seems to be inspired by BERDYAEV. We know you are interested in TARKOVSKY, who is, in fact, extremely popular with the European intellectuals (his name has practically become a cliche), but apart from him, who were the other Russian thinkers to influence you?

David Tibet has many influences and Solovyev merely relates to his interest in revelation and apolocalyptic matters in general. Wayne John Sturgeon, on the other hand, who is a good friend of mine, is probably more interested in the remarkable English mystic, William Blake, who was convinced that a new Jerusalem could be constructed in the British Isles. The main Russian thinkers that have inspired me, however, include Mikhail Bakunin and Fyodor Dostoyevsky. The former, for his defiant opposition to Marxist dogmatism and state socialism, and the latter, for his deep and profound insights into Russian poverty and the latent power of the human spirit. Sergei Nechayev is also very interesting, because he describes the uncompromising attitude that must be adopted by the serious revolutionary.

What about ALEXANDER BLOK? I recall you quoting from “The Scythians” at some point.

Reliable information about Alexander Blok is often hard to come by in English, but I do admire his melancholic attitude, his poetic romanticism and the undisguised hostility that he expressed towards civilisation and materialism. He also believed in the idea of messianic revolution, something clearly at odds with his initial support for the events of 1917 and the Soviet regime’s bitter campaign against both orthodox and unorthodox religion.

Let’s return to England. If asked to name five Englishmen whose works you have learnt from, who would you include in the list?

This is a very difficult question, not least because it is so confined. But if I had to name just five individuals, I would choose William Cobbett for introducing a city boy to the joys of self-sufficiency and the countryside, Richard Burton for epitomising the indomitable hero and for awakening my interest in Africa and the Middle-East, Charles Dickens for bringing the misery of working-class life to the educated public mind for the first time, George Orwell for having the courage to share with us his shattered dreams and illusions about International Socialism, and Hilaire Belloc for teaching me what it means to be English in the first place. Apologies to Morris, Reed, Chesterton, Blatchford, Lawrence and several others!

You seem to be a music lover and an expert, especially when it comes to Neofolk and Industrial music. Which bands do you value most, and why?

I’m certainly no expert, but I’ve always had a deep love of music from a very young age. I also enjoy Traditional Folk (Shirley Collins, Planxty, Dubliners, Steeleye Span, Yetties), Bluegrass (Bill Monroe, Stanley Brothers, Country Gentlemen, Merle Travis, Doc Watson), Classical (Strauss, Bach, Chopin, Vivaldi), Metal (Iron Maiden, Rammstein, Cradle of Filth, Marilyn Manson, Black Sabbath), Psychedelic (Bevis Frond, Hawkwind) and Electronic (Kraftwerk), but the reason so many Neofolk and Industrial groups have fired my interest in recent years is due to the way in which, unlike the contemporary mush of the musical mainstream, they have an ability to convey thoughts and ideas in a less well known but extremely powerful manner. Rather like the way symbols and archetypes can work on the human subconcious. It would be unfair of me to single out a mere handful of groups or individuals when there are clearly so many talented examples out there, but the more professional and significant of them emanate from labels such as Cold Spring, Dark Holler, Mute, Tesco, World Serpent, Eis & Licht, Athanor, Somnambulant Corpse, Tursa, Fluttering Dragon, Svartvintras, and Cynfeirdd. But the reason these artists stand out, at least for me, is due to their unwillingness to compromise or to popularise themselves in the name of profit. It’s also a fact that several of our main influences - Junger and Codreanu, for example - feature in many of the songs.

Have you ever been in a band yourself? Ever written lyrics or poetry?

Yes. I used to write fiction and poetry as child, winning minor prizes at school and colege, and then as a teenager I was a vocalist in several Ska and Oi! bands and played gigs in and around London and the southern counties. I also play Folk and Bluegrass songs on acoustic guitar and a close friend of mine often joins me on the mandolin for long jamming sessions. These days, however, I’m a writer and vocalist with the mainly Dutch group, HERR, and have written and recorded for the harsh Swedish electronic outfit, Survival Unit.

What are your views on the importance of music for the revolutionary struggle?

I believe that music can act as a true voice in the quest for revolutionary change. We’ve all seen the immense power and influence that can be produced by certain genre, the musical categories mentioned above being testimony to that fact. Music can be far more than a pleasurable experience, however, it can also function as a means of anger, self-expression and experimentation. This has been going on ever since the Teddy Boys of the 1950’s, or the Mods and Rockers a decade later. Music and its accompanying lifestyles can inspire real belief. Once that power is shackled to a political current it can become a dynamic cocktail.

The majority of the industrial/neofolk scene is highly sceptical of “sellout” musicians, rejecting an artist’s work as soon as he becomes accepted by MTV. You don’t seem to judge according to the same criteria, your praise of MARILYN MANSON’S performance in London being just one example. In today’s totalitarian “society of the spectacle”, can anyone be accepted by the masses but still remain an inspirational and great artist?

I think that a lot of this talk about ’selling out’ completely misses the point. Moreover, it’s often something alluded to by the more pretentious or superficial music fan. As long as the central or unifying idea of a particular form of music is not compromised or watered-down, it can actually help to spread these ideas to a far larger number of people. Surely the whole point is to reach as many people as possible? Besides, I would rather see young teenagers wearing corpse paint and painting their nails black than going out to night clubs and listening to the manufactured pap of the music industry. The very nature of most Industrial and Neofolk artists, however, usually precludes them from ever being accepted by the masses. They are necessarily elitist and often deal with misanthropic or deeply philosophical themes.

What is your opinion of the vague concept of “postmodernism”? Is postmodernism merely another step down the slope of kali-yugian degradation, or is it a bizarre but fascinating cultural period in which ancient values and traditional rites suddenly re-appear? Does it possess a positive side, in the way that it is anti-modernist?

In some respects, yes. I think this is particularly true of the way it presents a more fractured and fluid interpretation of the world in stark contrast to the modernist tendency to centralise or internationalise everything. I haven’t quite decided whether postmodernism offers a real alternative to modernism, but we can learn a lot from the way it has sought to dissect and analyse both the period in question and that which now follows in its wake. Postmodernism also appears to harbour a distaste of science and technology, something I find easy to identify with. However, the problem with postmodernism in general is that it seems to encompass a vast array of thought and has no real direction of its own.

When and how did you come into contact with the internet? What are views on the web from a political and cultural perspective?

I first came into contact with the Internet in the mid-1990’s, whilst at university, and finally got online myself around 1995. But I have very mixed feelings about it. Whilst I can see the wonderful advantages it offers in terms of being able to spread ideas or make oneself heard, I also feel that it leads to a greater dependence upon technology. In some respects this is a good thing, because it makes the System even more fragile than it is, but the Internet can also act as a huge distraction from the true realities of our existence. The best thing about it, of course, is being able to have all this incredible knowledge at your fingertips, but that’s no good if you can’t even drag yourself out of the chair to act upon it all.

Your SYNTHESIS magazine only exists online, and yet we know that you have been actively involved in a variety of printed magazines. Do you see the printing press as inferior to the internet when it comes to cultural and political warfare in today’s world?

Yes, very much so. In fact the very people that we have always sought to target through the medium of print, those already involved to some extent or another, are all on the Internet already. On the other hand, you can’t beat a proper magazine or newspaper in terms of giving people a tangible and living example of your work, but the results are often very minimal when compared to the expenditure that is necessary to produce them. The stationary industry in this country has become a vast racket, not to mention the amount of trees that have to be felled for human consumption.

Have you ever thought about writing for big magazines and thus making your ideas reach a greater and more diverse audience? If, hypothetically, you would be offered a weekly column in a broadsheet on the condition of making your views slightly more moderate, would you compromise or reject the proposal?

I would certainly relish the opportunity of promoting National-Anarchism in this way, but I wouldn’t be prepared to actually change my views to that extent. It may be possible, on the other hand, to stick within certain limits rather than raise the more inflammatory subjects like Race or Zionism.

Do you fear governmental action against you or your movement? Have you ever had serious troubles with the police due to your political activity?

I don’t fear it, but the possibility is always there in the back of my mind. National-Anarchists like Peter Topfer, on the other hand, have experienced almost constant repression by the State and he has been persecuted many times. I have been arrested many times for stickering and flyposting, as well as on Anarchist demonstrations, but the worst case scenario occurred in 1987 when I was charged with Actual Bodily Harm (ABH) & Affray and eventually consigned to Lewes Prison for eighteen months the following year. Apparently, the very fact that I and a handful of others were trying to defend ourselves against 200 violent Communists was neither here nor there. But the British State got what it wanted and, by throwing me in jail, managed to disrupt the steady growth of the NF in one of its newest areas.

Please excuse our curiosity, but do you have a job besides being engaged in various National-Anarchist related activities? May we know something about your family?

It’s impossible for me to work full-time because I teach my four children at home. This takes up a great deal of my time and can be extremely hard work, not least because of the differing age levels, the lack of State-funding for home-schooled families in this country and the fact that we often have to rely on self-help organisations like Education Otherwise. I’ve been married for over fourteen years now and we have two girls and two boys. We don’t have a car for environmental reasons and therefore a lot of our time is spent exploring local parks or hiking through the countryside. The children are very artistic and enjoy making their own collages and fantasy comic strips, whilst my wife - originally from Tunbridge Wells, in Kent - has a strong interest in Punk Noir, psychology and basset hounds. I spend my spare time reading and discussing Theology, forcing people to eat my attempts at Italian and Indian cookery, enjoying the fantasy novels of Michael Moorcock, and organising football matches with the other kids in the area.

Your Iron Youth internet site, giving advice on how to bring your kids up as National-Anarchists, features a reading list of childrens’ literature: SWIFT, POE, WILDE, STEVENSON… Most of these classical authors are now being read at university level by literature students only. Why do you think is the current state of English education so poor, and do see a way out of this crisis?

The reason the educational standards are so awful in this country, is because the mass media is continuously dominating every aspect of people’s lives. The last few years has seen the growth of a huge social underclass, which seems to be comprised of promiscuous girls and violent males. But it’s futile to completely blame this on poverty. Many of these people have managed to acquire a certain degree of wealth and affluence, but they can’t seem to escape the debilitating peer pressure which encourages people to live in a world of fast cars, fast sex and fast food. There is also a severe identity crisis in England, which has been caused by Americanisation on the one hand, and multi-racialism on the other. It is hardly surprising, therefore, that a culture which prides itself on drunken thuggery and so-called ‘reality TV’ has no interest whatsoever in academic matters or the intellectual development of the individual. The only solution to this crisis is home-schooling. Once you take your children out of this detrimental environment, they are free to develop naturally without the constraints imposed by their peers. In South London, for example, most white schoolchildren have incorporated black slang into their vocabulary, blurring the distinctions between the races and creating a uniform monoculture. To be an individual in modern England, therefore, is to become a virtual outcast.

What is your opinion of elitist educational institutions like Eton, Oxford or Cambridge? On the one hand, you support elitist meritocracy, but on the other, you reject centralised education. In a National-Anarchist society, would the likes of Oxford and Cambridge have a chance to survive?

Firstly, National-Anarchists do not recognise nation-states and, secondly, given that we expect the internationalist system to decline to the extent that it leads to a full-blown technological crisis, it would be impossible for universities to continue as they are at the present time. At the village level, on the other hand, I would expect children to be educated naturally and in accordance with their abilities. Egalitarianism is a myth and some children will always be slower than others, that’s life. But this should take place in a community setting, rather than at a privileged institution, because it is possible to learn from those around you without ever having to establish schools or education systems in the first place.

Do you sympathise with the anti-copyright movement, and if so, have any steps been made to unite your forces with those of prominent anti-copyright fighters? After all, their ideology, though far less complicated and metaphysical than yours, has striking similaritites with National-Anarchism.

We haven’t formerly approached the anti-copyright movement at this stage, but it’s certainly an interesting idea and worth considering in the future. Personally, I oppose all forms of copyright and believe that, rather than seek to protect the artist concerned, copyright laws are simply there to take advantage of that which has been produced. This is achieved by taking it away from the artist altogether and limiting creative output in order to control the amount of alternative material that gets into the mainstream. As an Anarchist, I also believe that it’s impossible to ‘own’ intellectual ideas because they are part of our common development. I’m sure Pierre-Joseph Proudhon would have understood the logical connotations of this process, despite the fact that people often confuse his famous ‘property is theft’ statement with the denial of individual - rather than private - property.

Let us turn to the spiritual and esoteric side of your teaching. You have taken the long path from agnosticism and extreme Catholicism to heathen cults like Mithraism. How did your beliefs evolve, and what is your current spiritual system? Does your movement have an official religious position? Can a Christian or Hindu possibly join?

I have never been an agnostic and always believed in some kind of god or higher intelligence. These days I would describe myself as a student of Primordial Tradition and don’t embrace any kind of religious system. At the present time I am examining the work of Alan Watts, who was chiefly responsible for introducing Eastern philosophy to the West for the very first time. I have a lot of time for Hinduism, too, but at the moment I feel a growing affinity with Zen Buddhism. I don’t care what spiritual outlook people have, I believe that it’s a relatively private matter and National-Anarchism is about banding together with people of like mind and therefore I would find it far more conducive to spend my time with someone interested in Spirituality or the Occult than in material things.

Did you ever have a teacher, a guru who taught you any of the spiritual doctrines you were interested in, or did you pick them up in literary sources?

I have never been under the guidance of a guru or holy man, although I do try to meet as many interesting and intelligent people as possible. I studied Theology & Religious Issues at university, so that helped put things into an historical and cultural perspective to some extent, but I do feel that I’ve reached the stage of my life where a more strenuous and disciplined approach is necessary for my own personal development. I have spent several years examining the various Occult groups and weighing up the possibilities, but I’m not really the kind of person who would respect an authority unless I was convinced that it was tied in to an initiatory source.

Much of the spiritual energy of the Twentieth Century has been hijacked by rather distasteful New Age movements. How can one objectively distinguish a GUENON from a BLAVATSKY, and is there a actually a line separating true mysticism from Occult parodies? If so, which cathegory would you place STEINER, GURDJIEFF and SERRANO in?

I have studied the personalities you mention above, as well as many others to whom people have given their spiritual allegiance, but I happen to believe that it’s a case of gathering all the fragments together until we get a broad picture of the truth. I suppose it’s the National-Anarchist in me. I have always been very suspicious of those who attempt to form personality cults around either themselves or others, in fact I prefer to observe from a distance and explore the information that is available. I do have a lot of respect for some of the main Occult societies but, like most things in the twilight age of the Kali Yaga, many have become corrupt or detached from their origins. One development that interests me is the ongoing fusion of the New Right with various esoteric and Right-wing Anarchist groups on the Continent. There seems to be a genuine attempt to regather the lost wisdom of the past and then use this knowledge to cross the threshold between this world and the beginning of the next Cycle. As the Visnu Purana explains: ‘[They] will then establish righteousness upon earth; and the minds of those who live at the end of the Kali age shall be awakened, and shall be as pellucid as crystal. The men who are thus changed by virtue of that particular time shall be as the seeds of [new] human beings, and shall give birth to a race who shall follow the laws of the Krita, or primordial age.’

Finally, please tell us how you view the possibilities of future co-operation between Russia and England in terms of revolutionary politics and culture. Do you think that our individualistic interests could be overcome in order to combine forces against a common enemy?

Following obediently behind the coat-tails of her American ally, the British State will no doubt continue on her journey towards oblivion. But it remans to be seen whether this country will alienate itself from the rest of Europe or seek to unite Europe in the next logical step towards world goverment. This is why England plays such a vital role for American interests, a fifth column within Europe for the intended subjugation of the whole globe. Eurasianists rarely include Western Europe in their vision of a new future, unless, of course, it’s in a very minor or peripheral role. But the Russia of the past, like France, was always known for her warm attitude towards political outcasts and revolutionaries, so perhaps Eurasianism will bring about a new alliance of minds and become the springboard for salvation. I have always deeply admired the long-suffering peoples of Russia, but I do find it rather unusual that National-Anarchism has yet to appear in the country which spawned the likes of Georgy Chulkov and Viacheslav Ivanov. Hopefully, this interview will go some way to changing that fact.

Thanks for listening.

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mercredi, 30 janvier 2008

Entretien avec Michel Mohrt

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Entretien avec Michel MOHRT

http://www.reflechiretagir.com

L’écrivain Michel Mohrt, membre de l’Académie Française, nous a fait l’honneur de nous recevoir. Elégant dans tous les sens du terme, d’une gentillesse et d’une simplicité à toute épreuve, il revient pour nous sur toute une vie de bruit et de fureur qu’il a observée avec son œil de peintre. Moteur !

R&A : Aujourd’hui, nous parlons beaucoup de l’Europe. Dans l’un de vos articles (De bonne et de mauvaise humeur, Le Rocher, 1999), vous disiez que vous aviez compris la nécessité de faire l’Europe en 1940. Pourquoi ?

Michel Mohrt : Quand on a vécu la défaite de 1940 comme moi… Enfin, je l’ai vécu un peu différemment puisque j’étais dans les Alpes, face aux Italiens et non aux Allemands. J’ai quand même ressenti terriblement la catastrophe de la défaite. J’ai pensé que la France n’était plus le grand pays que j’avais connu et espéré après la victoire de la première Guerre Mondiale. Déjà, dès 1930, j’avais compris que la France était un pays en décadence. La IIIe République ne la préparait pas à cette guerre qui est arrivée. Je sentais que la France allait perdre ses colonies, ce qui arriva peu de temps après. Elle n’avait qu’une chance, c’est d’appartenir à une entité politique plus grande qu’elle-même et où elle pourrait jouer un rôle important : l’Europe. Je n’ai pas cru dès 1940 (et je ne l’ai pas entendu d’ailleurs) au message de De Gaulle. Je pense que de Gaulle a été un homme politique extrêmement habile mais il n’a nullement détruit les effets malheureux de la défaite de 40.

R&A : En fait, vous vous êtes posé les mêmes questions que Renan et bon nombre d’intellectuels français au lendemain de Sedan. Ce fut d’ailleurs l’objet de votre livre Les Intellectuels français devant la défaite de 1870 (Gallimard, 1944 - réédition Editions du Capucin, 2004)…

Michel Mohrt : Exactement. Les gens qui viennent de relire mon livre à la faveur de sa réédition m’ont dit qu’il n’avait pas vieilli et qu’il était toujours d’actualité. En effet, on voit que les Renan, les Taine, au lendemain de 1870, ont dit que la France devait faire des réformes qu’elle n’arrive toujours pas à faire. D’où ce besoin d’Europe.

R&A : De plus, il y a en Europe une unité de civilisation plurimillénaire…

Michel Mohrt : Oui, c’est ce qui fait que je me suis senti tout à fait européen dès 1940. Et je le suis resté. Ce pourquoi aussi, je ne suis pas aujourd’hui pour l’entrée de la Turquie dans l’Europe. Je suis aussi attaché à l’Europe chrétienne. Il suffit de traverser la France en chemin de fer pour voir ses villages avec leurs clochers.

R&A : Dans vos livres, vous préférez observer, témoigner que vous engager. Je pense notamment à votre roman Mon royaume pour un cheval où vous expliquez cette attitude en rendant aussi hommage à l’engagement de votre ami Bassompierre. C’est un trait de votre caractère de vous méfier de ces aventures politiques ?

Michel Mohrt : En effet… D’abord, je n’aime pas la foule. Je me rappelle, en 1940, quand on a fait le SOL (Service d’Ordre Légionnaire), très vite, je me suis dépris de ce mouvement auquel j’adhérais au début car je n’aime pas la foule, perdre mon temps avec des palabres qui n’aboutissent à rien. Je me sens un observateur, un romancier. Et le roman suppose un décalage par rapport aux évènements que l’on veut raconter. J’ai toujours pris de la distance vis-à-vis des évènements et de mes propres engagements qui sont demeurés purement intellectuels d’une certaine façon. Je n’ai pas voulu m’impliquer dans un mouvement politique quelconque et je ne le ferai toujours pas.

R&A : Tout en témoignant ainsi par le biais du roman, vous avez quand même une indéniable estime pour « cette race d’hommes faite pour vivre entre hommes, race de moines et de soldats durs à eux-mêmes comme aux autres, race de demi-soldes, éternelle race des héros, des terroristes et des saints ». A travers Bargemont (double romanesque de Bassompierre dans Mon royaume pour un cheval), vous rendez hommage à l’amitié mais aussi au courage d’hommes comme lui…

Michel Mohrt : Bassompierre était un ami avec qui j’ai fait la guerre. Il commandait le Fort de la Colmiane dans les Alpes, juste au dessus de la Vésubie. Moi, je commandais une section d’éclaireurs-skieurs devant ce fort. Nous nous sommes vus beaucoup après la Drôle de Guerre, en attendant l’invasion allemande. C’est lui, avec quelques autres, qui a fondé le SOL. Très vite, j’ai pris cette distance mais j’ai continué à le voir durant l’Occupation. Et quand il m’a appris qu’il partait sur le Front de l’Est avec la LVF, cela ne m’a pas étonné car il l’a fait par anti-communisme. Aujourd’hui, on a oublié qu’à l’époque, le communisme apparaissait comme le vrai et principal danger. Sans les troupes alliées en Europe d’ailleurs, nous aurions eu le communisme en France. De Gaulle a été obligé de pactiser avec eux et de prendre Thorez qui s’était courageusement planqué à Moscou, en quittant l’armée pendant la guerre. J’ai dit à Bassompierre de laisser cela aux gens qui n’avaient rien dans la tête et qu’on avait besoin de gens comme lui pour refaire la France. Mais non, il voulait mettre son action en rapport direct avec ses idées. C’était très courageux de sa part d’entrer dans la LVF, d’accepter de porter l’uniforme allemand avec toutefois l’écusson tricolore.

R&A : Vous étiez au Canada lorsqu’il a été fusillé…

Michel Mohrt : Hélas ! A cette époque, on ne traversait pas l’Atlantique en quelques heures. Le bateau mettait 5 à 9 jours. J’ai regretté mais son avocat m’a dit que mon témoignage n’aurait servi à rien. Tous ses anciens compagnons d’armes qui avaient servi sous ses ordres dans les Alpes dirent quel homme admirable il avait été, en pure perte puisqu’il fut fusillé.

R&A : Vous avez dit que « le devoir de mémoire ne consiste pas à perpétuer les drames, à attiser les haines qui ont dressé les uns contres les autres les fils d’un même pays. Ce devoir c’est d’apaiser les discordes et de rassembler ceux que la mort a déjà unis. » Dans vos articles, vous avez célébré le courage des brigadistes internationaux, partis aider les républicains espagnols. Par contre, croyez-vous qu’un jour, les bobos du Nouvel Observateur ou BHL reconnaîtront à leur tour la pureté de l’engagement des soldats de la Charlemagne comme Bassompierre ou assistons-nous à « un Nuremberg permanent dans l’Europe » comme vous l’avez écrit, toujours 50 ans après ? Que pensez-vous de cette supercherie intellectuelle qui fait des uns des héros et des autres des salauds ?

Michel Mohrt : C’est le politiquement correct. On ne reproche pas, en effet, aux gens d’avoir été communistes alors que l’on sait l’effroyable bilan humain du communisme. Des gens comme Bassompierre se sont battus par idéalisme. J’avais écrit cet article que vous citez après une déclaration de Mitterrand en Allemagne où il disait très justement qu’il y a eu deux sortes de Français à cette époque : ceux qui ont voulu être dans l’action et les autres. Mitterrand et moi étions ces autres. Bassompierre, lui, a voulu s’engager. Mitterrand avait ajouté que, quelque soit l’uniforme sous lequel ils se sont battus, nous devions le reconnaître.

R&A : Ce qui montre qu’avec un bilan politique aussi catastrophique, Mitterrand était sur ce sujet plus lucide et courageux que Chirac et, bien entendu, beaucoup plus cultivé, avec des goûts littéraires très marqués à droite…

Michel Mohrt : Mitterrand avait été vichyssois. Sa formation fut la même que la mienne. Il a été chez les curés puis militant à droite (avec l’Action Française) puis il a été vichyssois. Ce n’est que parce qu’il avait une ambition politique qu’il a compris qu’il devait finir à gauche.

R&A : Pompidou l’avait bien défini en disant qu’il était « l’aventurier de sa propre ambition ».

Michel Mohrt : C’est une très bonne formule en effet. Il a compris qu’il fallait devenir résistant. Comme l’ont compris beaucoup de Français qui avaient été vichyssois.

R&A : Comment expliquez-vous ce basculement politique du monde intellectuel de l’Après-guerre, après l’Epuration en fait…

Michel Mohrt : Déjà, la gauche et la droite ne veulent plus dire grand chose. La « droite » et la « gauche » gouvernent en fait au centre et font des politiques difficilement distinguables. En 1981, Mitterrand et Mauroy ont voulu faire une politique réellement de gauche. Ca a duré deux ans et, pour moi, Mitterrand l’a fait exprès pour montrer que la chose était impossible. La France ne peut pas rester à rebours contre le reste du monde.

R&A : Pour revenir à ce que nous disions d’hommes comme Bassompierre, un roman comme les Réprouvés de Von Salomon vous avait-il plu ?

Michel Mohrt : J’avais lu cela au début de la guerre. J’ai trouvé que c’était très beau. La France est un peu responsable, comme Bainville l’a montré dans Les Conséquences politiques de la paix. Le Traîté de Versailles était trop faible pour ce qu’il avait de dur. Notamment vis-à-vis de l’Allemagne et je comprends que Salomon n’ait pas pu accepter cette humiliation et cette occupation française sur son sol.

R&A : La Bretagne tient une grande place dans vos livres (Le Serviteur fidèle, Les Moyens du bord, La Prison maritime)…

Michel Mohrt : Je suis breton. En dépit de mon nom d’origine germanique, mon grand-père paternel avait épousé une bretonne qui parlait très bien le breton d’ailleurs. Il l’écrivait aussi et avait même eu une correspondance avec un barde (Taldyr). Puis leur fils, mon père, a épousé une bretonne 100%, de Brest. Je suis donc plus qu’aux trois-quarts breton par le sang et je suis né en Bretagne que je n’ai quittée qu’à 23 ans pour aller dans le midi, pour voir autre chose. Mais je me sens profondément breton. Ma famille avait une maison à Locquirec, sur les Cotes d’Armor. Maison où je vais toujours. C’est dans la baie de Lannion que j’ai appris à naviguer et je suis 100% breton. J’y vais souvent, je parle un peu breton.

R&A : Que pensez-vous des gens, comme ceux de Breizh Atao hier, qui luttent pour une Bretagne plus forte et reconnue ?

Michel Mohrt : Je les comprends même si je n’ai jamais cru que la Bretagne pouvait devenir indépendante. Par contre, un certain provincialisme oui. L’Europe va permettre à des pays comme la Bretagne, la Corse, la Savoie, le Pays Basque de retrouver une partie de leur identité. Je le crois profondément. Les Bretons ont une langue qui n’a cependant pas donné de grands ouvrages littéraires. Ils ont eu la chance de pouvoir s’exprimer en français mais cela date d’après la reine Anne. Depuis, la Bretagne est française et je pense que c’est tant mieux pour elle car elle est quand même restée la Bretagne. Dans ma jeunesse, on se sentait très loin de Paris, à Brest ou Morlaix, au bout de la terre (Finistère). On se sentait un peu abandonné et donc c’est là qu’est né Breizh Atao. Je les ai d’ailleurs côtoyés quand je faisais mes études de Droit à Rennes. J’ai souvent discuté avec eux tout en leur disant que leur idéologie était à mon avis irréalisable. J’étais par contre ravi qu’ils aient fait sauter devant la mairie de Rennes une statue représentant la Bretagne à genoux devant la France ! Ce sont des nuances tout cela. Je n’ai jamais cru que la Bretagne pouvait ou avait intérêt à devenir indépendante. Le breton est une langue celtique. Il est d’ailleurs émouvant qu’il n’y ait qu’un seul mot en breton pour désigner deux couleurs, le bleu et le vert : glass. Pour un pays qui est entouré de mer, et ce sont les couleurs de la mer, je trouve cela très beau.

R&A : Une mer qui ne vous sépare pas tant que cela de vos cousins celtiques. Vous devez vous sentir un peu chez vous au Pays de Galles (la langue déjà) ou en Irlande ?

Michel Mohrt : La côte ouest de l’Irlande est la même que la côte bretonne. Bien sûr que je me sens tout à fait chez moi là-bas. Sans aucun doute. J’aime beaucoup l’Irlande, le Connemara notamment. Ce dernier ressemble d’ailleurs à mes Côtes d’Armor qui sont restées assez sauvages, qui n’ont pas été abîmées par le béton (par rapport au sud de la Bretagne). Cette côte qui va de Saint-Malo jusqu’à Brest est vraiment très très belle. Je l’ai faite en bateau bien des fois. Cela dit, il y avait chez moi (il est mort aujourd’hui) un palmier !

R&A : Vous disez que « nous assistons à la mort de l’art oratoire dans les prétoires, dans les églises, dans les assemblées politiques » que vous reliez avec raison avec la mort des humanités. N’a-t-on pas aujourd’hui un désert idéologique où l’économique a tué le politique ?

Michel Mohrt : La diminution du latin et du grec, qui sont des langues oratoires, a été pour beaucoup dans la décadence de l’art oratoire. Il n’y a plus qu’à l’Académie que l’éloquence garde un certain sens. L’éloquence a disparu, même chez les avocats (même s’il en reste quelques grands) ou chez les prêtres où il n’y a plus de sermons. Le ton est devenu celui de la télévision. On dit les choses rapidement, n’importe comment, dans un mauvais français truffé d’anglicismes.

R&A : C’est la mort de Cicéron et Bossuet…

Michel Mohrt : Hélas oui. Curieusement, par opposition à cette décadence de la langue parlée, il y a chez maintenant chez de jeunes écrivains une certaine préciosité de la langue écrite. Cela m’a frappé dans des romans récents.

R&A : Malgré votre attachement à notre langue, vous avez beaucoup apprécié et popularisé la littérature anglo-saxonne, notamment Faulkner. Et un roman comme L’Ours des Adirondacks est très américain…

Michel Mohrt : J’ai personnellement été plus influencé par Hemingway que par Faulkner. Quoique mon roman Le Serviteur fidèle (qui vient de ressortir chez Albin Michel) avait été qualifié par le critique Jean-Louis Bory de faulknerien.

R&A : La Bretagne c’est votre Oxford à vous…

Michel Mohrt : Oui, c’est mon Sud ! Cela dit, ces romanciers américains avaient eux-mêmes été inspirés par les romanciers anglais du XVIIIe siècle. Les premiers romans étaient épistolaires. Un roman par lettres c’est un roman parlé. Simplement, les lettres remplacent les voix.

R&A : Avant, il y avait eu Madame de Lafayette et sa Princesse de Clèves

Michel Mohrt : Madame de Lafayette, en effet, ainsi que les Liaisons dangereuses de Laclos. C’était très fréquent les romans épistolaires à cette époque. Je suis venu de plus en plus, au travers d’Hemingway, au dialogue. Mon dernier roman, On liquide et on s’en va, est tellement dialogué qu’il n’est pas un roman. Je l’ai d’ailleurs qualifié de sotie.

R&A : D’autres Américains vous ont-ils influencé également ? Miller, Steinbeck, Dos Passos ?

Michel Mohrt : Steinbeck moins qu’Hemingway. Miller non. Dos Passos non plus : il a beaucoup influencé Sartre par contre.

R&A : Et les auteurs français ?

Michel Mohrt : Tout d’abord Flaubert. Avec mon roman le plus important (La Guerre civile), j’ai voulu faire l’équivalent pour mon époque de L’Education sentimentale.

R&A : Stendhal, ce souffle épique, ce style ?

Michel Mohrt : Ah oui, Stendhal, le mouvement rapide, la sensibilité qui galope. Que l’on puisse lire dans le Chasseur Vert trois fois dans la même page « Madame de Chastelet était charmante… Madame de Chastelet était très charmante… Elle était vraiment très charmante », eh bien, cela ne me gêne pas. Car c’est enlevé par un mouvement de grande rapidité. Pour moi, un style c’est une voix. Si un romancier n’a pas le courage de faire comme Stendhal, il n’écrira pas de roman.

R&A : Vous rejoignez le point de vue d’un Céline qui disait que le style c’est tout. Céline, c’est quelqu’un qui vous touche ?

Michel Mohrt : Ah oui beaucoup, beaucoup. Surtout le Voyage.

R&A : Vous aviez consacré votre premier livre à un hommage à Montherlant. Vous l’avez connu ?

Michel Mohrt : Je l’ai en effet connu à la suite de ce livre. Mon livre l’avait touché. Contrairement à ce que l’on pouvait penser, c’était un homme très simple et ouvert. J’ai souvent déjeuné avec lui, quelquefois à Paris lorsque j’arrivais à passer de la zone sud à la zone occupée. Nous mangions au Voltaire. La conversation était facile avec lui. Pas du tout comme on l’imagine, le menton haut sur la cravate. Maintenant, écrire un livre sur un auteur, c’est un peu le tuer, se débarrasser d’une influence.

R&A : Un adieu à sa jeunesse en quelque sorte…

Michel Mohrt : Oui, Montherlant m’a moins marqué ensuite. J’avais été davantage touché avant la guerre par ses textes lyriques (Tombeau pour les morts de Verdun, Service inutile, Mors et vita…) que par les Jeunes filles. Service inutile a beaucoup marqué bon nombre de gens de ma génération.

R&A : Plutôt que Montherlant, on vous aurait davantage vu près de Drieu qui, comme vous, est très anglais (Mémoires de Dirk Raspe), élégant voire dandy et grand amateur de femmes… Il vous correspond plus que Montherlant.

Michel Mohrt : En effet ! J’ai été marqué par Drieu aussi. C’est une question de chance aussi. j’ai découvert ses romans plus tard. J’ai même rencontré Drieu une fois. C’était quelques mois avant la fin de la guerre et donc son suicide. Je me rappellerai toujours cette après-midi passée dans son appartement qui était juste derrière les Invalides. Il avait une vue superbe sur le dôme des Invalides et sur Montmartre dans le lointain. Je venais alors d’écrire un article sur L’Homme à cheval. Je venais de le découvrir pour ainsi dire. On s’est très bien entendu. A la fin de cet après-midi, il allait rejoindre des amis aux Champs-Elysées pour aller au cinéma. Je me rappelle encore de ses derniers mots. Il s’est retourné sur le quai du métro et il m’a lancé : « Alors on se revoit ! Où on se voit souvent où on ne se voit jamais. »

R&A : C’est une belle formule ! Et son roman qui vous a le plus marqué ?

Michel Mohrt : L’Homme à cheval donc et Rêveuse bourgeoisie qui tombait sur beaucoup des problèmes que je connaissais moi-même. Quant à Gilles, je l’avais dans ma cantine durant la Drôle de Guerre.

R&A : Comme les Pensées de Pascal pour Drieu ! Et chez les écrivains depuis 1945, qui aimez-vous ?

Michel Mohrt : Ca m’est difficile de répondre. Ce sont mes contemporains. Ce sont les anciens qui m’ont influencé, comme pour tout écrivain. J’aime bien entendu mon ami Michel Déon. Ceci dit, je n’étais pas un Hussard. J’étais plus vieux de 10 ans qu’eux. Eux n’ont pas fait la guerre…

R&A : Ce sont les fameux 20 ans en 45 !

Michel Mohrt : Oui, et la guerre est une expérience qui a beaucoup compté pour notre génération. Avant, j’avais terminé un service de 3 ans en 1939 puis la guerre a éclatée. De sorte que je suis resté 4 ans sous l’uniforme. C’est beaucoup 4 ans dans la vie d’un homme, surtout entre 24 et 28 ans ! Ca compte ! C’est une époque où quelques années de différence comptaient presque autant qu’une génération. Nous avions ressenti la défaite plus cruellement qu’eux et puis nous en avions assez des armes. J’avais donné et j’avais envie d’écrire, de travailler. Cette différence d’âge fut énorme : « Vérité en-deçà des Pyrénées, erreur au-delà » !

R&A : Vous vous intéressez au cinéma ?

Michel Mohrt : J’ai fait de la critique de cinéma au Figaro pendant longtemps. J’ai assisté aux débuts du parlant après avoir connu le cinéma muet. Maintenant, je n’y vais plus. Je regarde la télévision. Je vais même vous avouer que j’attends avec impatience le samedi soir pour revoir la fameuse série Dallas. C’est remarquablement fait, astucieux. J’adore J.R. qui est devenu mon ami de la semaine.

R&A : C’était la première série soap c’est vrai à arriver sur nos écrans européens… Et la musique ?

Michel Mohrt : La musique m’a beaucoup aidé, notamment à vivre sous l’Occupation. Le Quatuor LowenGoethe qui a donné tous les quatuors de Beethoven m’a énormément touché. J’aime beaucoup la musique, tout particulièrement la musique de chambre. La chanson française me barbe. J’en suis resté à Charles Trénet. J’ai bien aimé le jazz aussi et les negro-spirituals. J’adore les chansons de mer. J’en connais des tas que je pourrais vous chanter. Mon ami François-Régis Bastide m’avait dit que j’étais un taureau et que la partie importante du taureau (astrologique) est le cou. Il paraît que le taureau aime chanter. Dans mon cas, c’est tout à fait vrai. Je me rappelle même avoir chanté en breton, notamment un soir avec Pierre-Jakez Hélias.

R&A : On parle de mer. Vous avez eu une tendresse pour les flibustiers, ces gentilhommes de fortune ?

Michel Mohrt : Oh bien sûr ! LE roman qui m’a le plus marqué de toute ma vie et que j’ai voulu imiter dans la Prison maritime c’est L’Ile au Trésor de Stevenson.

R&A : Qui n’a pas rêvé sur ce livre !

Michel Mohrt : Je l’ai lu et relu. C’est mon père qui me l’avait donné. Il a beaucoup compté pour ma formation littéraire.

R&A : Pour finir cet entretien, que pensez-vous de notre monde moderne ?

Michel Mohrt : Je n’en pense que du mal. L’autre jour, j’ai vu le débat actuel sur le mariage des homosexuels. Il y a quelque temps, j’aurais pris cela à la rigolade. Mais là, ça m’a foutu le cafard. J’étais triste. Dans quel monde va-t-on vivre demain ? Je viens de fêter mes 90 ans et je n’ai qu’une envie c’est de m’en aller lorsque je vois où nous en sommes arrivés !

R&A : Et l’immigration qui dénature notre Europe ?

Michel Mohrt : Malheureusement j’ai bien peur qu’il ne soit trop tard. On s’est battu à Poitiers et l’Espagne a retrouvé sa terre après la Reconquista. Mais là, nous vivons une autre conquête de manière pacifique. Si j’étais plus jeune, je fuirais en Californie, dans cette Amérique où j’ai vécu 7 ans (on dit d’ailleurs que pour bien connaître un pays, il faut y payer ses impôts et y tomber amoureux, ce que j’ai fait là-bas !). La côte ouest de la Californie ressemble assez curieusement à la côte ouest de la Corse qui est superbe. La France et l’Europe me déçoivent de ce côté là. Heureusement que sur mes Côtes d’Armor, rien n’a bougé. Je déteste Paris.

Recueilli par Pierre Gillieth, Réfléchir & Agir n°18, automne 2004

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mercredi, 23 janvier 2008

Entretien avec Thomas Molnar

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Entretien avec Thomas Molnar :

Crise spirituelle, mondialisme et Europe

 

Q. : Pour vous la disparition du spirituel et du sacré dans notre société a-t-elle pour cause la modernité ?

 

ThM : Je préfère inverser les termes et dire que la modernité se dé­finit comme la disparition du spirituel et du sacré dans notre société. Il s'agit d'un réseau de pensée qui s'est substitué graduelle­ment —peu importe le moment du débat historique— aux réseaux tra­dition­nels et en a redéfini les termes et la signification.

 

Q. : Comment  l'Eglise universelle peut-elle s'opposer au mondialisme ?

 

ThM : Elle ne s'y oppose guère sauf dans certains cas et certains moments, et là aussi d'une manière plutôt inefficace. Ayant accepté, avec enthousiasme ou résignation, sa nouvelle position de lobby (depuis Vatican II), l'Eglise s'intègre à la société civile, ses présupposés philosophiques, sa mentalité, sa politique. Un jour, un chan­gement pourra, bien sûr, intervenir, mais pas avant que la struc­ture de la société civile elle-même ne démontre ses propres insuf­fisan­ces. Donc, le changement ne viendra pas de l'Eglise dont le personnel perd la foi et se bureaucratise. Dans l'avenir prévisible, les grandes initiatives culturelles et spirituelles n'émaneront pas de l'E­glise. Plus ou moins consciente de cette réalité, l'Eglise se rallie en ce moment au mondialisme, religion nouvelle des siècles devant nous.

 

Q. :  S'opposer au modernisme et au mondialisme, n'est-ce pas refuser le progrès ?

 

ThM : Le mondialisme rétrécit le progrès, il ne s'identifie plus à lui. C'est que la bureaucratie universelle et ses immenses lourdeurs et notoires incompétences bloquent les initiatives dont la source ultime est l'individu, le petit groupe, la continuité, l'indépendance régionale, enfin la souveraineté de l'Etat face aux pressions impérialistes et idéologiques. Aujourd'hui, le "progrès" (terme particulièrement pau­vre et ne recouvrant aucune réalité intelligible) s'inverse, la société perd ses assises, l'anarchie règne. Nous allons vers le phalanstère sans âme. Bientôt viendra l'épuisement technologique, car l'élan né­cessaire pour toute chose humaine même matérielle, s'amoindrira, s'essoufflera. L'homme désacralisé ne connaît que la routine, assas­sine de l'âme.

 

Q. :  A vous lire, il semble que le sacré n'est pas divin. Pouvez-vous expliquer cette approche ?

 

ThM : Le sacré n'est pas divin dans le sens "substantiel" du mot ; il médiatise le divin, il l'active en quelque sorte. D'abord, le sacré change d'une religion à l'autre, il attire et ordonne d'autres groupes humains (Chartres a été bâtie sur un lieu déjà sacré pour les druides, mais ces sacrés superposés n'expriment pas la même "sacralité"). Le sacré nous révèle la présence divine, cependant le lieu, le temps, les objets, les actes sacralisateurs varient.

 

Q. : Croyez-vous à une régénération du spirituel et du sacré en France et en Europe ?

 

ThM : Il n'existe pas de technique de régénération spirituelle techni­que que l'on utilise à volonté. L'Europe vit aujourd'hui à l'ombre des E­tats-Unis ; elle importe les idées et les choses dont elle pense avoir besoin. Elle est donc menée par la mode qui est le déchet de la civi­li­sation d'outre-mer. Bref, l'Europe ne croit pas à sa propre identité, et en­core moins à ce qui la dépasse : une transcendance ou un telos. "L'unité" européenne n'est qu'un leurre, on joue à l'Amé­rique, on fait sem­blant d'être adulte. En réalité, on tourne le dos au pas­sé gréco-chré­tien et le plus grotesque de tout, on veut déses­pé­rément devenir un "creuset", rêve américain qui agonise déjà là-bas.

 

Tout cela n'exclut pas la régénération, qui part toujours d'un élan iné­dit, de la méditation d'un petit groupe. Aussi ne sommes-nous pas ca­pa­bles de le prévoir, de faire des projets, en un mot de décider du choix d'une technique efficace. Sans parler du fait que la structure démocratique neutralise les éventuels grands esprits qui nous sor­tir­aient du marasme. Sur le marché des soi-disant "valeurs", on nous im­pose la plus chétive, les fausses valeurs qui court-circuitent les meilleures volontés et les talents authentiques. Si le sacré a une chance de resurgir sur le sol européen, le premier signe en sera le NON à l'imitation. Ce que je dis n'est pas nouveau, mais force m'est de constater dans les "deux Europes", Est et Ouest, l'impression du déjà-vu : l'Europe, dans son ensemble c'est Athènes plongée dans la décadence et l'Amérique, nouvelle Rome, mais d'ores et déjà à son dé­clin. La régénération ne peut être qu'imprévue.

 

Q. : Sans ce renouveau spirituel, que peut-il se passer en France et Europe ?

 

A court terme, des possibilités politiques existent, et la France pourrait y apporter sa part. L'Europe qui se prépare sera germanique et anglo-saxonne, la surpuissance de la moitié nord se trouve déjà programmée. Or, c'est la rupture de l'équilibre historique, car la latinitas n'a jamais été à tel point refoulée que de nos jours. La France pourrait donc redevenir l'atelier politico-culturel de la nouvelle Europe, grâce à son esprit et son intelligence des réalités dans leurs profondeurs. Bientôt, l'Europe en aura assez des nouveaux maîtres qui apportent l'esprit de géométrie, la bureaucratie la plus lourde, la mécanisation de l'âme. La France doit être celle qui crie « Halte ! » et, pour cela, pénétrer le continent, porteuse et l'alternative.

 

(propos recueillis par Xavier CHENESEAU ;  celui-ci en détient le © ; pour toute reproduction ou traduction, lui écrire via la rédaction).

 

Notre invité en quelques livres :

 

1968 - Sartre, philosophe de la contestation

1970 - La gauche vue d'en face

1972 - La contre révolution

1974 - L'animal politique

1976 - Dieu et la connaissance du réel

1976 - Le socialisme sans visage

1978 - Le modèle défiguré, l'Amérique de Tocqueville à Carter

1982 - Le Dieu immanent

1982 - L'Eclipse du sacré

1990 - L'Europe entre parenthèses

1991 - L'américanologie, le triomphe d'un modèle planétaire ?

1991 - L'hégémonie libérale

1996 - La modernité et ses antidotes

 

A signaler la parution prochaine, aux Editions l'Age d'Homme, de deux nouveaux ouvrages de Thomas Molnar : Moi, Symmaque et L'âme et la machine.

 

mardi, 08 janvier 2008

Un entretien avec Georges Dumézil

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Un entretien avec Georges Dumézil

Lors d'une interview de Georges Dumézil  (55 min) sur ses recherches, sont abordés les thèmes suivants :

Les populations et langues indo européennes, et leur progression dans l'espace Européen.

Les mythes et la mythologie, et leur importance dans la restitution de notre identité.

Mais aussi les trois fonctions et la structure antique des sociétés européennes : la première fonction dite de souveraineté, politique et religieuse (oratores), la seconde fonction de la défense et de la sécurité (bellatores) et enfin la troisième fonction qui a trait à la reproduction aux échanges et à la fécondité (laboratores).

Notre monde crève aujourd'hui du surdimensionnement de cette troisième fonction !!!

Sont aussi abordés les différences entre l'âme Européenne et les Monothéismes...

Monothéismes qui ont aboutis à créer tant d'intolérances, qu'elles soient spirituelles ou économiques.

Bref 50 minutes à écouter, et à réécouter, ou à faire connaître pour qui cherche des repères dans ce monde de Barbares !!!

http://www.dailymotion.com/robertofiorini/video/x3rsds_le...

Toute littérature qui permettra d’étoffer cette interview est la bienvenue

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vendredi, 28 décembre 2007

Entretien avec Bernd Rabehl

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Entretien avec Bernd Rabehl, leader en 1968 de l’Opposition extra-parlementaire ouest-allemande

 

Nous sommes devenus un peuple d’ilotes !

 

Propos recueillis par Dimitrij Grieb

 

Introduction : Né le 30 juillet 1938, le Dr. Bernd Rabehl a reçu une formation de sociologue et de politologue. Il a été professeur à la « Freie Universität Berlin » jusqu’en 2003. Ami de longue date et camarade de combat de Rudi Dutschke, on le considère comme l’un des principaux théoriciens de l’ « Opposition extra-parlementaire », en abrégé « APO », et du fameux SDS (« Sozialistischer Deutscher Studentenbund », « Fédération socialiste des étudiants allemands »), qui furent les deux organisations porteuses de la révolte estudiantine  de 1967-68 en Allemagne. Bernd Rabehl a écrit une biographie de son ami, intitulé « Rudi Dutschke – Revolutionär im geteilten Deutschland » (= « Rudi Dutschke – Un révolutionnaire dans l’Allemagne divisée »). Ce livre nous permet, aujourd’hui, de réexaminer sereinement les positions du penseur révolutionnaire tant contesté par la bienpensance à l’époque.

 

* * *

 

Q. : Professeur Rabehl, beaucoup de jeunes sont totalement désorientés et l’Allemagne connaît désormais le chômage de masse. Ce qui est en train de se passer, soit le basculement de jeunes gens de gauche dans des partis ou des organisations d’inspiration nationale voire nationaliste, ressemble au paysage politique des années 20 du 20ième siècle. Cet état de chose va conduire les partis du régime à mener un dur combat politique pour récupérer cette jeunesse, mais les partis de droite n’ont pas grand-chose à offrir, jusqu’à présent….

 

BR : Nous expérimentons effectivement ce basculement dans les provinces de l’Est, où nous voyons les jeunes des classes défavorisées passer à « droite ». Nous avons ensuite un autre phénomène, celui de la neutralisation de l’intelligentsia dans les universités et les hautes écoles. Ces phénomènes sont liés à la situation fatale qui règne sur le marché du travail ; quant à la neutralisation des élites intellectuelles, elle est due à la concurrence accrue entre les étudiants qui terminent leurs études : comment vont-ils décrocher un boulot ? Jadis l’intelligentsia de gauche dominait dans les universités : cette intelligentsia est aujourd’hui neutralisée ou se comporte de manière parfaitement opportuniste, tandis que les jeunes sans diplôme, issus de classes défavorisées, principalement dans les Länder de l’Est, basculent à « droite », phénomène lié à l’histoire récente, très spécifique à ces régions, où les villes et leurs industries traditionnelles ont été détruites.

 

Q. : La CDU démocrate-chrétienne est passée définitivement à gauche ; elle s’aligne sur le discours apocalyptique et médiatique qui se veut « anti-fasciste ». Jusqu’en 1989, année de la chute du Mur, l’ « anti-fascisme » était l’idéologie passerelle entre les néo-marxistes libertaires, inspirés par l’école de Francfort, et les marxistes durs, de mouture stalinienne. Que pensez-vous de ce glissement ?

 

BR : Cette alliance de facto existe toujours de nos jours. C’est une sorte de « front populaire », ou de « front national » de l’Allemagne démocratique, c’est-à-dire de feue la RDA. Dans ce concert, la CDU est effectivement devenue un petit instrument mineur jouant benoîtement la partition écrite par les partis de gauche. Tous s’accordent sur une conception du monde, sur un programme, mais leur but essentiel est de lutter contre le peuple lui-même, contre le peuple allemand, contre la culture allemande, contre la langue allemande, contre le passé allemand. Ils veulent réduire ce passé allemand à la période qui court de 1933 à 1945.

 

Q. : Vous considérez que le peuple allemand est devenu un peuple d’ilotes. Que devons-nous entendre par là ?

 

BR : Les peuples d’ilotes sont des peuples qui ont perdu l’esprit, qui n’ont plus une intelligentsia propre, qui n’ont plus de culture spécifique. Je veux ici vous rappeler une parole qui nous vient tout à la fois de Hegel et de Friedrich Engels : « Un peuple est toujours un peuple de bâtisseurs de villes, un peuple qui possède des universités, une peinture propre, un art spécifique, une architecture ». Si tout cela va à vau-l’eau, le peuple perd la tête et est détruit jusqu’au tréfonds de sa personnalité. Les valeurs d’autres peuples sont alors injectées dans ce peuple « ilotisé », qui perd ainsi les derniers résidus de son identité.

 

Q. : Les Allemands sont donc devenus un peuple d’ilotes, mais sont-ils dominés par les Etats-Unis ou par les forces dynamisantes qui tiennent là-bas, Outre Atlantique, le haut du pavé ?

 

BR : Oui, c’est cela, c’est exact. C’est là l’application exemplaire des stratégies qui ont été élaborées pour les guerres du futur. On ne veut pas qu’en Europe centrale et orientale émerge une puissance forte qui pourrait concurrencer les Etats-Unis ou choisir un jour de s’aligner aux côtés de la Russie ou de la Chine. A Washington, l’intérêt majeur est de détruire l’Europe, et non pas seulement l’Allemagne, dans sa substance culturelle et nationale. C’est pour cette raison qu’on nous a imposé l’immigration de masse ; celle-ci est téléguidée et introduit en nos murs des populations venues de plusieurs zones de la planète, sinistrées par des guerres. Ce n’est pas un hasard si nos immigrés viennent de Turquie, du Moyen Orient ou d’Afrique du Nord. Dans les régions sinistrées par la guerre, on retire l’eau dans laquelle le poisson peut nager et on transplante celui-ci en Europe, où l’on se demande : « Pourquoi cela, vers quel but nous dirigeons-nous en pratiquant une telle politique ? ». Ces immigrés n’apportent pas une force de production supplémentaire, ni un savoir précieux, mais arrivent chez nous en tant que peuples brisés, c’est-à-dire en peuples réduits au statut d’ilotes, comme nous.

 

Q. : Comme votre célèbre compagnon de combat de jadis, Rudi Dutschke, vos racines sont en Allemagne centrale, l’ex-RDA. Vous avez pu observer comment les Etats-Unis comme l’URSS ont tenté, chacun à leur manière, de faire du peuple allemand un peuple d’ilotes. Peut-on considérer, avec le recul, que les Allemands de l’ex-RDA ont été moins contaminés par les politiques de rééducation que les Allemands de l’Ouest ?

 

BR : En ex-RDA, il y a toujours eu une sorte de résistance naturelle. Les valeurs soviétiques, les valeurs du parti, de la culture soviétique, ou même du peuple russe, n’ont finalement été adoptées que par les castes dominantes, dans les sphères supérieures du parti. Pour leur part, les ouvriers et la petite bourgeoisie n’ont cessé de récriminer, d’imaginer des blagues mordantes car ils voyaient les pauvres troufions des garnisons soviétiques traîner leurs godillots dans leurs villes et savaient que ces pauvres bougres ne pouvaient rien leur apporter, n’avaient rien à leur dire. C’est dans ce non dialogue permanent que résidait la résistance naturelle du peuple et c’est pour cette raison que les Allemands de l’ancienne RDA sont aujourd’hui plus allemands que les ex-Ouest-Allemands.

 

Q. : Lénine considérait que le peuple russe était son premier ennemi. Il avait l’intention, dès lors, de subordonner les Russes à son idéologie, et d’en faire aussi un peuple d’ilotes. Finalement, le marxisme comme le libéralisme sont issus tous deux du même tronc idéologique : tous deux défendent une vison linéaire de l’histoire, croient à une fin de l’histoire et raisonnent dans les termes d’une philosophie matérialiste. Vos travaux et vos conférences abordent régulièrement les dimensions religieuses du marxisme. Mais existe-t-il aussi une dimension religieuse du libéralisme ?

 

BR : En Russie, aujourd’hui, l’Eglise orthodoxe a récupéré à son compte toute la charge religieuse que recelait, en dépit de son idéologie matérialiste, le marxisme. Le peuple préfère apparemment redevenir chrétien de rite orthodoxe. En Europe occidentale et en Amérique, nous devons plutôt évoquer une ère post-libérale car les principes du libéralisme y sont désormais évoqués pour étayer une méthode de domination des peuples, méthode qui n’entend toutefois pas respecter ces principes.

 

Q. : On vous campe comme l’ancien bras droit de Rudi Dutschke. Y a-t-il un point particulier que vous aimeriez souligner ici, quant à la personnalité de Dutschke, quarante ans après la révolte étudiante et extra-parlementaire ?

 

BR : D’abord je voudrais tout de même rappeler que Rudi Dutschke n’était nullement une personnalité qui appelait à la violence ni cherchait à la commettre. Dutschke était un chrétien protestant au milieu de socialistes ; il se rendait régulièrement au temple, priait souvent et lisait la Bible. Ce sont là des éléments importants de sa personnalité que l’on ne doit ni oublier ni occulter aujourd’hui. Dutschke était un adversaire déclaré de toute violence et a toujours tenté de défendre une position hostile à la violence au sein de la gauche extra-parlementaire, mais n’a jamais pu atteindre son but, car l’ambiance, autour de lui, était à l’action violente. Plus tard, quand le parti des Verts a été fondé par d’anciens activistes de gauche, il a tenté de s’incruster dans le mouvement. Mais il est mort prématurément des suites des blessures qu’il avait subies lors de l’attentat commis contre sa personne. Je peux dire clairement, sans aucune ambiguïté, que Dutschke n’avait rien en commun avec la violence déclenchée ultérieurement par la RAF (Bande à Baader) ou par d’autres groupes militants.

 

Q. : Vous soulignez donc le christianisme de Dutschke, homme de gauche mais aussi nationaliste au meilleur sens du terme, car il s’opposait à toute les formes d’occupation que subissait l’Allemagne…

 

BR : Il a refusé de servir dans la NVA, la « Nationale Volksarmee » de la RDA, parce qu’il ne voulait pas combattre les Allemands de l’Ouest. Il voulait que les Américains quittent notre pays, de même que les Soviétiques. Il voulait transposer les idéaux des mouvements de libération est-européens en RDA et en RFA. Il pensait que la Révolution allait venir de l’Est pour réanimer l’Ouest. La Révolution française avait d’abord migré vers l’Est, vers Moscou et vers Pékin ; ses idéaux allaient ensuite revenir, pensait-il, vers l’Ouest, en faisant crouler les régimes communistes de Hongrie, de Pologne, de RDA et, finalement, d’URSS. Au fond, malheureusement, ses idées sont parties aujourd’hui en fumée : personne n’a tiré réellement les leçons qu’il fallait des positions de Dutschke. Et, de toute façon, la gauche n’était pas prête, à l’époque, à accepter ses idées.

 

(extraits d’un entretien accordé à l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°47/2007 ; trad. franç. : Robert Steuckers).

vendredi, 21 décembre 2007

G. Miglio: l'Etat moderne est dépassé!

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L'Etat moderne est dépassé!

Entretien avec le Prof. Gianfranco MIGLIO

Propos recueillis par Carlo STAGNARO

 

«Le pouvoir politique s'est concentré au détriment du décentrement initial».

 

Parler de la Déclaration d'Indépendance américaine, de la pensée de Thomas Jefferson et de l'évolution historique des Etats-Unis revient, inévitablement, à parler de fédéralisme. Mais pour évoquer correctement ces thématiques, il convient de se rappeler de certains faits: dans le débat constitutionnel américain, c'est, en substance, le mouvement “fédéraliste” d'Alexandre Hamilton qui a triomphé (mais ce mouvement réclame, en réalité, une centralisation des pouvoirs). Les “anti-fédéralistes” américains (farouches défenseurs des droits des Etats) ont réussi à obtenir, quelques années a­près, la promulgation d'une “Charte des Droits”: un docu­ment très important, mais insuffisant pour contrebalancer les tendances vers la centralisation (fédérale!), qui, désormais, ont commencé à faire sentir leur propre force. Nous avons parlé de tout cela avec Gianfranco Miglio, l'un des exposants majeurs actuels de l'école néo-fédéraliste. Avec sa voix forte et bien modulée, avec sa lucidité de toujours, Miglio m'a fait forte impression, surtout parce qu'il veut communiquer sans freins tout ce qu'il sait, tout le patrimoine de ses idées, toutes ses convictions. J'espère avoir été à la hauteur…

 

Q.: Professeur Miglio, que représente concrètement la Déclaration d'Indépendance américaine?

 

GM: Il s'agit surtout d'une Déclaration d'Indépendance face à la monarchie anglaise. Les colonies américaines s'affran­chis­sent du dominium de la Couronne. Il faut souligner que cette indépendance se réfère aux Etats pris singulièrement, non à leur ensemble. L'origine de l'indépendance est donc fédérale: chaque colonie avait son propre statut, qui précé­dait l'avènement de la Fédération. Par la suite, la Fédération a pratiquement détruit les Etats singuliers. J'aime rappeler le statut de la Pennsylvanie. 80% de la population en Penn­sylva­nie étaient d'origine allemande. On parlait l'allemand et on s'habillait à la mode allemande du 18ième siècle. Les struc­tures politiques pennsylvaniennes plongeaient leurs racines dans la culture allemande. La majeure partie de ces Etats é­tait essentiellement de tradition européenne, une tradition qui remontait aux 16ième et 17ième siècles européens.

 

Q.: Dans le passé vous avez défendu l'idée que le fé­déralisme américain était un “faux fédéralisme”. Défen­dez-vous toujours ce point de vue?

 

GM: Le fédéralisme américain s'est imposé sur la destruc­tion des Etats singuliers qui, dans un premier temps, s'é­taient mis d'accord pour adopter des structures fédérales. Au­jourd'hui, cependant, les soi-disant “fédéralistes” aux Etats-Unis sont considérés comme les fossoyeurs des au­to­no­mies. Certains fédéralistes, comme Madison, visaient directement la création d'un Etat national.

 

Q.: Quelles sont les caractéristiques du vrai fédéralisme alors?

 

GM: Des institutions authentiquement fédérales doivent naî­tre au départ de l'indépendance réciproques des commu­nautés politiques qui participent à la structure fédérale. De telles entités doivent avoir leurs propres structures et leurs pro­pres statuts, indépendamment des institutions fédérales.

 

Q.: Est-il possible d'identifier dans l'histoire américaine un moment où le fédéralisme des origines a été corrom­pu et s'est transformé en un processus de central­isa­tion?

 

GM: Toute l'histoire des Etats-Unis est l'histoire d'une cen­tra­lisation. Le pouvoir politique s'y est concentré petit à petit et les pouvoirs détenus au départ par les Etats de la fé­déra­tion se sont réduits.

 

Q.: Nous, Européens de l'an 2000, pouvons-nous encore tirer quelque enseignement de la Déclaration d'Indépen­dance des Etats-Unis?

 

GM: Certainement. Nous devons retourner à la grande tra­dition juridique inaugurée jadis par Althusius et les juristes des 16ième et 17ième siècles, qui ont construit des modèles pour assurer la permanence des souverainetés particulières. Je crois que le poids du “droit public européen”, qui a créé l'Etat moderne, est encore (trop) considérable dans l'histoire quotidienne de l'Europe d'aujourd'hui. Le problème actuel est de mettre ce droit de côté, de le remplacer par des struc­tu­res fédérales. L'Etat moderne est entré en déclin pour de­ve­nir un Etat parlementaire. Il nous faut retourner aux tra­ditions fédérales des 16ième et 17ième siècles, que l'on a ou­bliées, et que l'Etat moderne a oblitérées, pour se poser com­me l'unique pouvoir souverain et inégalable.

 

Q.: Si j'ai bien compris, Professeur, l'Etat moderne est non seulement insuffisant, mais aussi immoral…

 

GM: Je dirais même plus: il est dépassé. L'Etat moderne est en plein déclin. Notre tâche est de raviver la tradition au­then­tique de l'Europe des cités, de l'Europe de l'ère hanséa­ti­que… où les cités indépendantes ne faisait appel au Saint-Empire romain que pour arbitrer les conflits entre elles. L'Eu­ro­pe de l'avenir n'est pas une Europe des Etats modernes, car cette Europe-là a déclenché les épouvantables guerres de notre siècle. Il nous faut donc oublier cette Europe né­ga­tive.

 

(entretien paru dans La Padania, 4 juillet 2000, http://www.lapadania.com ).  

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mardi, 18 décembre 2007

Panturquisme et pantouranisme

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Sur le panturquisme et le pantouranisme

Entretien avec le Prof. Dr. Dr. Heinrich Paul Koch (Université de Vienne, Autriche)

Le Prof. Heinrich Paul Koch, détenteur de deux doctorats, s’est surtout rendu célèbre en Autriche et dans l’espace linguistique germanique grâce à sa thèse sur « les légendes du déluge dans le monde ouralo-altaïque » (1997). Il est un spécialiste des études historiques, préhistoriques et proto-historiques, de philologie finno-ougrienne et d’ethnologie. Jusqu’en 1996, le Prof. Koch, né en 1931 à Pressburg (Bratislava), avait enseigné la chimie pharmaceutique à l’Université de Vienne et la biopharmacie à l’Université de Cincinnati en Ohio aux Etats-Unis. Outre des centaines d’articles et d’essais, le Prof. Koch est l’auteur de huit livres.

Le panturquisme, que l’on appelle parfois aussi le pantouranisme, vise l’unité de tous les peuples turcs, leur rassemblement au sein d’un seul Etat. Dès 1839, se constitue en Turquie une « Société Touranienne » qui se fixe comme objectif de fonder un « Empire du Touran ». En 1915, les Jeunes Turcs, qui dirigent le gouvernement de l’Empire ottoman, déclarent que leur objectif de guerre est l’unité de tous les peuples turcs. Aujourd’hui encore, la Turquie revendique pour elle-même le rôle de diriger l’ensemble des peuples turcs, qui comptent quelque 250 millions d’âmes, sur des territoires qui s’étendent jusqu’aux confins de la Chine et jusqu’aux coins les plus reculés de la Sibérie. Le Prof. Dr. Dr. Heinrich P. Koch s’est intéressé très vivement à l’histoire de l’idéologie touranienne et, plus particulièrement, aux adeptes hongrois de cette idéologie. Car on oublie qu’en Hongrie aussi, en 1918, s’est constituée une « Société Touranienne », qui se fixait pour objectif de réunir tous les « Touraniens ». L’entretien que nous donne le Prof. Koch vise à nous éclairer sur les tenants et aboutissants de cette idéologie.

L’idée touranienne

Q. : Prof. Koch, quels sont les fondements du touranisme ?

HPK : Par touranisme l’on entend, la plupart du temps, le mouvement panturquiste dont le but est de réunir tous les peuples turcs. Le touranisme, au sens le plus large, va beaucoup plus loin : à la base de cette idéologie, nous trouvons la théorie de l’ascendance commune des peuples finno-ougriens et turcs, qui serait un peuple matriciel unique d’Asie centrale, issu d’une région située entre l’Oural et l’Altaï. La désignation collective « touranide » servirait de référence à tous les peuples non-indo-européens et non-sémitiques de l’Ancien Monde. Sous la désignation de « touranides », on rassemble, par un élargissement audacieux, outre les Turcs de l’ancien empire ottoman et outre les peuples turcs d’Asie centrale (soit les Azerbaïdjanais, les Oghuzes, les Tchouvaches, les Turco-Tatars, les Toungouzes, les Ouïghours, les Ouzbeks, etc.), les Japonais, les Chinois, les Coréens et les Tibétains. Les langues de tous ces peuples sont désignées, encore aujourd’hui, sous le nom de « langues touraniennes », alors qu’en fait elles n’ont que très peu de traits communs ; ainsi, le hongrois et le turc, n’ont que peu de racines communes et n’on comme point commun que le fait d’être des langues agglutinantes. La linguistique moderne a réfuté depuis longtemps l’appartenance à une famille commune des langues ouralo-altaïques.

Le « pays des Turcs »

Q. : Malgré cela, le touranisme a fait un nombre croissant d’adeptes en Hongrie pendant la première guerre mondiale…

HPK : Effectivement. Ce mouvement visait à détacher la Hongrie de l’Europe et de la ramener dans l’orbite asiatique. Après l’ère prospère des Germains et des Slaves, viendrait, disaient les touranistes, l’heure des Touraniens – dont le territoire s’étendrait de la Hongrie au Japon, ou, selon leurs propres mots, « de Theben jusqu’à Tokyo ». Par Theben, ils entendaient la localité à l’embouchure de la rivière March.

Le touranisme doit son nom à une plaine, une dépression, nommée « Touran », comme contrepartie du haut plateau iranien, qu’elle jouxte au Nord-Est. En réalité, « Touran » est le terme persan pour désigner le Turkestan, ce qui signifie le « Pays des Turcs ». L’énorme région du « Touran » est aux quatre cinquièmes constitué de déserts, mais est très riche en pétrole et en gaz naturel. Aujourd’hui, ce pays de « Touran » est divisé entre trois Etats : le Turkménistan, le Kazakhstan et l’Ouzbékistan.

Q. : Quelle a été l’importance du touranisme en Hongrie ?

HPK : Le premier président de la « Société Touranienne » en Hongrie a été le Comte Pàl Teleki, qui disait de lui-même : « Je suis un Asiate et fier de l’être ». Le Comte Teleki a été deux fois ministre des affaires étrangères et, en 1920-21 puis entre 1939 jusqu’à son suicide en 1941, premier ministre de Hongrie. La production la plus connue de ce courant d’idées ont été les « Chants touraniens » d’Arpàd Zempléni. Il appelait les Allemands de Hongrie des « diables aryens » et avait travaillé dès 1910 à leur expulsion, qui aura lieu en 1945.

Dans les années 40, l’idée du touranisme était très répandue dans l’intelligentsia hongroise. Eugen Cholnoky, Président de la « Société touranienne » à partir de 1941, avait déjà été, pendant l’entre-deux-guerres, « Grand Vizir » de l’ « Alliance touranienne ». Cette dernière était un mouvement de rénovation particulièrement agressif à l’égard des Allemands, des Tziganes et des Juifs.

Honneur à Attila, roi des Huns

Q. : Comment l’idée touranienne a-t-elle pu se diffuser à une telle ampleur ?

HPK : Déjà au 13ième siècle, le chroniqueur médiéval hongrois Simon Kézai faisait des Huns asiatiques du 5ième siècle les ancêtres directs des Magyars. Aujourd’hui encore, Attila, le roi des Huns (mort en 453) est honoré en Hongrie.

A l’époque baroque, le Cardinal Péter Pàzmàny (mort en 1637) voyait dans la fraternité païenne entre Hongrois et Turcs la raison réelle de l’absence de résistance de ses contemporains face à l’ennemi extérieur ottoman.

L’historien chauvin Istvàn Horvàt a accentué à l’extrême cette notion de fraternité asiatique en tenant les Magyars pour apparentés aux Scythes, aux Assyriens, aux Pélasges, aux Parthes et aux Arabes de l’antiquité. Il répète et confirme l’ascendance hunnique des Hongrois, mais ne voulait rien entendre de la parenté réelle qui liait ces derniers aux Finnois. Le Comte Istvàn Széchenyi voulait, pour sa part, établir une parenté entre les anciens Magyars et les Sumériens, c’est-à-dire le premier peuple de culture qui a émergé en Mésopotamie.

Q. : La couronne royale hongroise recèle des composantes d’origine proche-orientale…

HPK : La couronne dite de « Saint Etienne » se compose de deux parties, celle que le Pape Sylvestre II a envoyé au roi Etienne, le futur Saint Etienne, et que l’on appelle aussi la « corona latina », et, ensuite, celle que le roi Géza I a reçue de l’Empereur byzantin Michel Ducas, soit la « corona graeca ». La réunion de ces deux parties est perçue par les Touraniens comme le symbole de la division Est-Ouest, qui divise aussi l’âme magyare. C’est cette division dont les Touraniens veulent se débarrasser. Ils voulaient se détacher de l’Occident et retourner à la grandeur touranienne afin de servir de fondement et de réveil à la conscience nationale hongroise. La nation magyare serait, dans cette optique, l’incarnation glorieuse de la « race des seigneurs » touranienne.

Q. : Qu’en disaient, mis à part les peuples réellement turcs, les autres « candidats » invités à communier dans l’idéal pantouranien ?

HPK : Les Finnois et les Estoniens refusaient clairement de se considérer comme des Asiatiques. Les Japonais, les Chinois ou les Coréens riaient d’être ainsi étiquetés « touraniens ».

Les pertes hongroises sous la domination turque

Q. : Avait-on dès lors oublié, en Hongrie, que les fonctionnaires et la soldatesque turcs avaient systématiquement pillé le pays au cours des deux cents années qu’y avaient duré les guerres contre les Ottomans ?

HPK : Oui. Et l’on avait oublié aussi que les Allemands, alliés à la Maison des Habsbourgs, avaient libéré la Hongrie du joug turc. On essaya même, dans la foulée, de leur mettre sur le dos l’annihilation de larges strates de la population hongroise pendant la période de domination turque. En 1941, on parlait par exemple des 200 années d’ « oppression autrichienne », période égale à celle de la domination ottomane. Pourtant les faits sont têtus : la population hongroise s’est réduite de 3,2 millions d’habitants à 1,1 million pendant l’occupation turque, tandis que sous l’ère des Habsbourgs, elle a crû de 1,1 million à 9,2 millions.

Les Allemands, les Slaves et les Juifs ne devaient avoir plus aucune place dans une Hongrie redevenue pleinement « touranienne ». C’est ainsi que Teleki, tandis qu’il exerçait les fonctions de premier ministre, fit passer en 1920 les premières lois antisémites de l’Europe contemporaine.

Après la défaite allemande à Stalingrad, la propagande touraniste reprit vigueur. Après l’effondrement du Reich, les « chasseurs touraniens » (« Turàni Vadàszok ») exigèrent l’  « évacuation définitive de tous les Souabes ». L’exigence d’une expulsion ou d’une élimination physique de tous les non Magyars dans l’ancien espace géographique hongrois avait déjà été exigée dès 1939. Les communistes magyars sous la direction de Matyàs Ràkosi refusèrent toutefois le racisme des surexcités touranistes. Le touranisme en Hongrie a donc été résolument germanophobe, mais aussi antisémite. On doit constater avec tristesse que ces idées aberrantes on joué un rôle essentiel dans l’expulsion des Allemands de souche, installés en Hongrie, après la seconde guerre mondiale.

(entretien paru dans DNZ, n°43, octobre 2005; trad. franç. : Robert Steuckers).

samedi, 08 décembre 2007

R. Steuckers: Interview to "Free Eurasia"

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Interview of Robert Steuckers for the Georgian magazine "Free Eurasia"

Questions of Mr. Gia BUMGIASHVILI

1. What is your opinion about the creation of the Eurasian movement under
the leadership of A. Dugin?

I first met Dugin in a Parisian bookshop in 1990. We started a conversation
and, immediately, we stated that we had the same geopolitical vision, in
spite of the fact that the Cold War had separated Russians and West
Europeans for more than forty years. A very few group of people, on both
side of the Iron Curtain, remained silently true to the same
conservative-revolutionist and geopolitical ideas. We both were tremendously
satisfied to state that. So I am very happy to hear now that he is launching
a worldwide Eurasian movement. In Paris, Guillaume Faye is pleading since a
couple of years for a "Euro-Siberian" perspective and many other people here
in Belgium write me now to develop similar initiatives. In Germany too, the
hope of re-establishing the traditional German-Russian alliance (from
Tauroggen in 1813 till the tragic abdication of Bismarck) is present. In
Italy and Spain, many people struggle also for similar Eurasian
perspectives. To put the idea in practical terms and to embed it in an
actual historical perspective, I would say that the Eurasian idea should be
the answer to the current American strategy, which was elaborated by
Zbigniew Brzezinski in his book The Grand Chessboard; at the same time, this
mobilising idea should be the revival of the Holy Alliance led by Prince
Eugene of Savoy at the end of the 17th century. Brzezinski wants to reduce
the space of the Orthodox-Russian civilisation sphere to the lands it
occupies before Catherine II, by supporting the Turkish and Muslim claims.
Against such a strategy, we should remember the actions and victories of
Prince Eugene, who compelled the Ottomans to retrocede 400.000 km2 of lands
to Austria and Russia. Prince Eugene gave so the first kick that allowed
some decades later Potemkine and Catherine II to push their armies to Crimea
and to deliver the all Black Sea Coast from Ottoman yoke.

2. What do you think about Georgia and Caucasus?

As all Western people, I must confess that our knowledge about your country
is very reduced. This is a result of forty years of Cold War. The only
testimonies of people having really been in the Caucasus area are the ones
of German soldiers or of people having served in the German army. I remember
an old man, who is still alive, and who told me that he had been impressed
by a refined way of life in the difficult conditions of war. In the
neo-conservative circles in Western Europe, the main sources of reference
about the Caucasus are the books and articles of the French philologist
Georges Dum_zil, who specialised in the ancient Ossetes, and the poems of
the Armenian poet Daniel Varoujan, who wrote verses about the gods of the
Ancient Caucasus. Daniel Varoujan was killed by the Turks in 1916, when the
Ottoman authorities decided to get rid of all the Orthodox populations
accused of supporting the Russians. About the Black Sea area, our main
sources are Romanian. As the Romanians generally speaks French very well,
they were the only intellectuals in the West that could give us here
intelligent information about the Black Sea area. We really look forward to
receiving from you more information about Georgian and Caucasian history, in
the frame of our activities in Eurasian work groups. More generally, I would
say that Europe needs a link to the so-called Pontic area. A Europe that is
cut from your area is not complete, it lacks the contact with decisive
elements of its culture, as the Romanian historian of religions, Mircea
Eliade, taught us. The German historian of religions Markus Osterrieder
speaks of the "Pontic mysteries", heritated by the Scythians, the
Sarmatians, the Alans and the Ancient Iranians, that were cultivated in all
Caucasian countries before the islamisation and that were also preserved in

monasteries and cave dwellings in Crimea. The French Paul Du Breuil
remembers us that the ideals of the medieval Chivalry derives form the ethic
codes of the Sarmatians, who served in the Roman army, and who were also
deeply influenced by the cult of Mithra. Europa has always been nostalgic of
these "Pontic Mysteries" and created in the 15th century the Chivalry "Order
of the Golden Fleece", in order to come back spiritually to the Pontic area,
womb of the highest ideals. The Western materialistic spirit wouldn't have
wounded the European soul so deeply, would the ideal of the "Golden Fleece"
have been realised.

3. What political orientation of Europe are you for?

We want a free Europe, independent on all level, inclusive the food, energy
and finance levels. To reach this ideal in Europe, we have to reduce our
dependencies from American food consortiums, from Saudi Arabian oil and oil
routes and from Wall Street. Only the Eurasian perspective, and subsequently
the "Golden Fleece" ideal in its material contemporary aspects, can help us
all to get rid of those dependencies. The Euro-Siberian ideal should be
centred around the Black Sea, as well as the Caspian and Aral Sea, with
links to the West by the river system, as the geopolitician Artur Dix saw it
at the time of the Rathenau-Chicherin alliance of Rapallo in 1922. As you
know, America is controlling Europe militarily by holding the Mediterranean
through the presence of the 6th Fleet and its alliance with Turkey and
Israel. But Chancellor Kohl of Germany realised actually a dream of
Charlemagne, first Frankish Emperor of the West. Charlemagne, stating that
the Mediterranean was in the hands of the Saracens, thought that it would be
opportune to dig a Canal between the Main, a river which is tributary of the
Rhine, and the Danube, in order to reach the Black Sea. So Europe would have
had a fluvial highway from the North Sea to the Black Sea, without being
disturbed by the Saracens. Kohl realised this project after more than
thousand years. Immediately after the digging of the Canal, war started on
another spot of Danube river, i. e. in Yugoslavia. First, the terrible
battle of Vukovar between Croats and Serbs blocked the river for a while;
secondly, the disastrous war of the NATO against Serbia destroyed the
bridges in Belgrade, cutting the circulation on the main European river.
More, from Belgrade, Europe could easily reach by road and railway the
Aegean Sea, i. e. the Eastern basin of the Mediterranean, an area that the
British and the American always wanted to keep far from European or Russian
hands.

So our freedom as political entities or as a civilisation area depends
largely from a freedom to use our own highways. The same is valid of course
for the pipelines of Northern and Southern Caucasus. If they are linked to
the Rhine-Danube system instead of to the Turkish-American project of
letting the oil transiting through Turkey in the direction of Ceyhan on the
Eastern Mediterranean coast, we all would be masters of our energy.

We wish also a Europe that would be lead by politicians having a clear
historical and geopolitical consciousness. And who would have
"responsibility ethics", as Max Weber said.

4. How do you imagine the best anti-American movement in the world?

A good movement should be borne by people in every country, who would first
cope with the problems in practical and geopolitical terms. A movement is
always a potential government elite and in our eyes there is no better
governance than a governance guided by a good historical memory. The
divisions within the Eurasian peoples' family are due to a horrible lack of
historical perspective. The task of an elite is to give back to all of us an
historical perspective, able to seize the real dynamics of history. Guy
Debord, the French clever leftist of the Sixties, said that manipulation was
possible because the historical memory had been wiped out. This is very
true. CNN can tell its lies throughout the world because the brains of the
petty politicians of the usual parties are totally empty. Our task is to
revive the historical memory of our people, in a unifying Eurasian sense.

5. May we translate your articles and publish them in our journal?

This question makes me really happy, simply because I tell the people since
decades that our freedom will come when we know each other better. The best
way to know each other is to translate texts. So you understand clearly
what's to be done. Of course, Georgian fellows, you not only may translate
our texts, but you ought to! For the sake of our common struggle! We will
try, with your help, to give as much information about your activities as we
can. Many young people helping me to edit my magazines will be happy to see
their texts translated. Thank you! And good luck!

dimanche, 21 octobre 2007

J. Mabire: entretien sur la figure de l'Aventurier

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Entretien exclusif avec Jean Mabire : Réflexions sur la figure de l'aventurier

Jean Mabire, quels que soient les domaines que vous ayez abor­dés dans vos 90 et quelques volumes publiés à ce jour (ndlr:170, en fait, nous confiera Jean Mabire lui-même dans la lettre accompagnant ses réponses), des SS français aux 55 jours de Pékin, d'Amundsen à l'histoire de la Normandie, toujours ressort en filigrane, sinon d'évidence, une idée ré­currente, mieux, une certaine définition de l'homme, dont les valeurs pourraient se résumer par un mot: l'aventure. Jean Hoh­barr ne s'y trompait pas, qui écrivait dans un numéro du Fran­çais : «Mabire l'avoue, il ne tient pas la littérature pour un genre “neutre”, mais bien comme l'expression d'une vision du mon­de». Sans doute le sang viking qui coule dans vos veines de Normand n'y est pas étranger. Toujours est-il qu'aujourd'hui, l'aventure paraît définitivement ressortir du domaine du passé, à l'heure du tout-media et de la photographie par satellite. La conquête de l'espace, le mercenariat ou l'exploit sportif (voir la lutte contre le SIDA selon certains) seraient-ils les dernières formes d'aventure ouvertes à l'homme de demain?

Jean Mabire: Quand Ernst von Salomon, cet aventurier-type de notre siècle, se vit obligé, après la défaite de son pays, de répondre à un Questionnaire, il ne fallut pas moins de 650 pages pour ce faire, ce qui lui permit d'ailleurs d'écrire son meilleur livre. On s'aperçut alors qu'il n'avait jamais cessé de se mettre en scène lui-même et qu'il avait tout au long de sa vie mélanger sa bibliographie et sa biographie. Tel n'est certes pas mon cas. Je m'intéresse bien davantage à mes personnages —imaginés ou restitués— qu'à moi-même. Et bien davantage peut-être à mes lecteurs qu'à mes personnages.

Certes, mes «héros» vivent une aventure, à commencer par le très singulier Roman Feodorovitch von Ungern-Sternberg, cas extrême s'il en fut. Je pense cependant que le terme d'aventurier ne leur con­vient guère. Il m'arrive de préférer celui de militant. Ou si l'on veut ce­lui de «soldat politique», expression inventée, je crois, par Ernst Roehm, qui n'est pas le moins singulier de tous mes sujets et qui a l'avantage d'être plus véridique que romanesque, d'où le côté assez «instructif » du livre que je lui ai consacré.

Puisque vous parlez d'aventurier, je crois qu'il faut revenir à un essai (si important que j'ai consacré à son auteur une chronique entière dans Que lire?).

Il s'agit du Portrait de l’aventurier de Roger Stéphane. On sait qu'il y évoque trois hommes hors du commun: Lawrence d'Arabie, André Malraux et l'indispensable von Salomon. Ce petit livre, publié en 1950 et récemment réédité, est précédé d'une très éclairante étude de Jean-Paul Sartre. Une vingtaine de pages, mais elles me sem­blent capitales pour répondre à votre interrogation. Sartre distingue as­sez bien: «Aventurier ou militant: je ne crois pas à ce dilemme. Je sais trop qu'un acte a deux faces: la négativité, qui est aventurière, et la construction qui est discipline. Il faut rétablir la négativité, l'in­quié­tude et l'autocritique dans la discipline ».

Dans une fameuse querelle, vieille d'un demi-siècle, je me sens plus proche de Sartre que de ces «Hussards» qui harcelaient le lourd convoi de la littérature engagée.

Je crois, par ailleurs, qu'il y a quelque simplification abusive à oppo­ser aventurier de l'action et aventurier du rêve. Drieu la Rochelle l'a­vait fort bien compris qui se refusait à enfermer l'aventure dans le car­can dérisoire de la gratuité. Si l'on parle voile, le plaisancier peut se révéler aussi «aventurier» que le navigateur de compétition. Et vice-versa. Moilessier-Tabarly.

L'opposé de l'aventurier? C'est le bourgeois. Voir Flaubert qui a tout dit là-dessus. Le champ reste vaste, infini même, y compris avec la boutade de Péguy qui prétendait que les pères de famille étaient les aventuriers de son siècle.

Sur la littérature comme «vision du monde», je voudrais encore citer Drieu. J'ai récemment découvert un article du 20 février 1932: «Il n'est donné à personne d'écrire une ligne qui, à un égard quel­con­que, soit neutre. Un écrit présentera toujours une significa­tion politique aussi bien qu'une signification sexuelle ou reli­gieuse».

Non, I'aventure n'est pas le passé. Croyez-moi, on vivra encore fort dangereusement au XXIe siècle.

Pierre Mac Orlan, dans son fameux Petit manuel du parfait aventurier (aujourd'hui réédité au Mercure de France) mettait l'accent sur le paradoxe de l'aventurier, à savoir que celui-ci n'existe pas, qu'il n'est que recréation a posteriori, minéralisa­tion pseudo-mythologique par une société bourgeoise avide de rêves et d'exploits; et que, a contrario, ce même aventurier ne mon­trait dans ses actes que cruauté, nihilisme et cynisme, si­non cupidité. On est là, nous semble-t-il, à mille lieues du message que diffusent vos ouvrages, plus proches de Jack London que de Lawrence d'Arabie.

JM: Je devais avoir une douzaine d'années quand j'empruntais dans la bibliothèque de mon père ce petit manuel dont vous parlez et je me souviens d'avoir été fort déçu. Brusquement privé de mon ima­ginaire adolescent, nourri de L'île au trésor de Stevenson et des Cor­sai­res du roi de t'Serstevens. D'où mon ultérieure méfiance envers Mac Orlan, maître-démystificateur. Il me retira l'envie d'être un aven­turier. J'en devins, par réaction sans doute, militant.

Cela n'enlève rien à la sombre fascination des gentilshommes de fortune. Mais je m'identifiais plus facilement à Cyrano qu'à L'Olon­nois ou Borgnefesse...

Il devait toujours me rester, du drame épique d'Edmond Rostand, l’opinion que c'est bien plus beau quand c'est inutile... Cette sensation fut confortée par le film La patrouille perdue de John Ford, avant de trouver son épanouissement avec Le désert des Tartares de Buzzati. J'ai été frappé du fait que les batailles fondatrices —ces aventures exemplaires— sont toujours des batailles perdues: Sidi Brahim, Camerone, El Alamo, Bazeilles, Berlin, Dien Bien Phu. Cela devait renforcer mon pessimisme foncier (toujours Flaubert, bien plus que Stendhal). Mais un pessimisme qui incite à l'action plus qu'au rêve. Voir là-dessus les sagas et Corneille.

Dans mon cas très personnel, ce qui m'a rendu assez exaltante la guerre d'Algérie en 58-59, c'est que je savais qu'elle était perdue pour l'armée dans laquelle je me battais. On retrouve ce sentiment à la puissance dix quand j'ai rejoint Philippe Héduy et l'équipe de L 'Esprit public à la fin de 1962.

A l'âge des relectures, j'ai repris La Bandera, La cavalière Elsa et même Picardie, avec un constant sentiment de malaise. Seul bou­quin à surnager: L'ancre de miséricorde.

Il est de fait que le «roman d'aventure» n'est que substitution. Le lecteur vit ce qu'il n'est pas, revit même ce qu'il n'a pas vécu. Phé­nomène auquel la télévision donne une dimension fasci­nan­te et onirique. On «fait» la guerre ou l'amour par procuration de­vant le petit écran. Triomphe de l'illusion absolue.


Mac Orlan (…) me retira l'envie d'être un aventurier. J'en devins, par réaction sans doute, militant»

Le héros de votre dernier livre, Padraig Pearse (Patrick Pearse une vie pour l'Irlande, éditions Terre et Peuple) donne aussi cette impression d'osciller entre l'idéalisme révolutionnaire et le plus noir nihilisme, l'amour des hommes et la froide détermination criminelle. Un peu comme Ungern avant lui, et ce, dans une perspective très proche des Conquérants de Malraux.

JM: Ce côté nihiliste et même suicidaire de Patrick Pearse a été souvent mis en avant par ses adversaires. Si vous retirez cette im­pression de mon livre, c'est que j'aurais manqué ma démonstration. Car c'en est une. Ce court essai décrit une sorte de cheminement inévitable qui conduit un homme —qui est un écrivain, donc un artiste— du combat culturel à l'engagement politique et de cet engagement à la lutte armée. Une autre dimension de Pearse, et non la moindre, est son rôle d'éducateur à Saint-Enda.

Nous sommes très loin d'un aventurier, comme le sera après lui, par bien des traits de son caractère, un homme comme Michael Collins. Pearse me semble la plus haute incarnation du «soldat politique». Il va accomplir un geste fou, mais qui lui semble le seul capable de réveiller le peuple irlandais. Evoquer Les Conquérants à son sujet me paraît fort éclairant.

Ne pas oublier aussi que ce petit livre se situe dans la même ligne que mon gros ouvrage sur Les éveilleurs de peuples (Jahn, Mazzini, Mickiewicz, Petöfi et Grundtvig). Pearse se bat dans leur sillage et conjugue en lui tous les aspects de leurs diverses personnalités: poèt­e, éducateur, militant, prophète, martyr...

Ungern, lui, échappait à cette sorte de «rationalisation de la folie». Il était à la fois plus dément et plus lucide.

Dans votre livre La Torche et le Glaive, vous écrivez ces mots, superbes: «Ecrire pour moi n'est pas un plaisir ni un privilège. C'est un service comme un autre. Rédiger un article ou distribuer des tracts sont des actes de même valeur (...) Ecrire doit être un jeu dangereux. C'est la seule noblesse de l'écrivain, sa seule manière de participer aux luttes de la vie». Or, en relisant Dominique de Roux, quelle ne fut pas notre surprise de retrouver des propos similaires, et écrits à peu près à la même époque: «Ces dernières années, j'ai compris ceci: la littérature et l'action révolutionnaire directe sont, toutes les deux, des modalités d'approche de la mort (...) C'est à travers la mort que la littérature devient action révolutionnaire, et c'est par la mort que l'action révolutionnaire rejoint la littérature». Il ne paraît pas usurpé aujourd'hui de voir en lui un aventurier des lettres.

Fort de ces confidences, et au risque de nous répéter, l’aven­ture du prochain siècle ne serait-elle pas davantage intérieure? Entendez par là une attitude que nous qualifierions de « Re-deviens ce que tu es». N'est-ce pas là somme toute l'objectif supérieur assigné à la littérature, tels que vos écrits nous le laissent à penser?

JM: D'abord, ne nous faisons pas trop d'illusions, nous autres écri­vains, sur l'importance de ces «aventures» que sont nos livres. On ne sait trop quel usage en feront nos lecteurs. Ainsi l'influence d'un Barrès nous apparaissait hier surprenant et aujourd'hui incro­yable.

Je suis d'une génération marquée au fer rouge par Montherlant et Malraux. C'est dire si Sartre et Camus m'ont paru ensuite d'une rare fadeur. On revenait à la littérature «fin de siècle» avec l'esthétisme méditerranéen et l'intellectualisme dreyfusard.

La contre-attaque des «Hussards» m'a semblé moins pertinente que celle des garçons de la fournée suivante, et notamment Dominique de Roux et Jean-Edern Hallier. On se doit d'ajouter Jean-René Hu­guenin et Jean de Brem, mais ils sont morts trop tôt.

Il faudrait parler de la mort. Dominique comme Jean-Edern en avait la fascination, la prescience. C'est une réflexion qui ne vient pas seu­lement avec l'âge. Là encore, on retrouve Malraux. L'idée tragique de la vie. Vous posez ensuite une sorte d'opposition entre «action in­térieure» et «action extérieure». Il y a là une tentation: la voie royale Guénon/Evola. Elle m'intéresse, mais c'est un chemin qui ne m'attire guère. Je suis plutôt fasciné, dans le même ordre d'esprit, par la dia­lec­tique paix/guerre. Disons Giono/Malraux (toujours lui). Nietzsche a­vait assez bien pressenti tout cela. La tentation de la tour d'ivoire se heurte à la brutale affirmation que la rue appartient à celui qui y descend.

Il est évident que pour un écrivain, l’acte d'écrire est intérieur et l'acte de publier extérieur. Deux aventures strictement complémentaires. Il me semble que vous faites allusion à «la politique». Autant sa version politicienne et même politicarde m'est totalement étran­gère, autant le sort de la cité, de ma patrie charnelle à l'Europe, n'a jamais cessé de me hanter. D'où une réflexion sur l'Etat, dont le but doit être de «fortifier » le peuple et non de servir une idéologie.

« Je suis d’une génération marquée au fer rouge par Montherlant et Malraux, c'est dire si Sartre et Camus m’ont paru ensuite d 'une rare fadeur »

Toujours dans le même registre, mais autre aventure aussi intensément vécue depuis bientôt cinquante ans, l’engagement fédéraliste, qui combine dans la même absoluité européisme passionné et défense des identités charnelles. Vous dites dans le Manifeste pour la renaissance de la culture normande que la culture française ne sera sauvée que par son ressourcement dans ses traditions régionales et son ouverture à l'Europe des lettres. Pouvez-vous préciser?

JM: L'identité d'un peuple, c'est son esprit autant que sa chair. C'est pourquoi le «culturel d'abord» me paraît plus décisif que le fameux «politique d'abord» de Maurras. Certes, je ne nie pas la vi­sion politique. Mais je la situe hors des multiples et néfastes contin­gen­ces actuelles. Pour moi, tout se résume dans la dialectique, di­sons plutôt la confrontation, entre ces deux entités, non contra­dic­toires mais complémentaires, qu'est l'Empire, c'est-à-dire l'Europe, et les peuples qui ne se confondent certes pas avec les états-nations existants.

L'Europe, si elle veut préserver son identité et s'affirmer par rapport au reste du monde, c'est-à-dire en résistant d'abord et avant tout à l'impérialisme américain, doit être avant tout une et diverse.

Une politiquement, militairement, diplomatiquement, économique­ment. Mais diverse culturellement. C'est pourquoi la France n'a de signification qu'en assurant d'abord ce que la Pléiade nommait «la défense et l'illustration de la langue française». En ce domaine, le rôle de la Wallonie comme de la Suisse romande est capital, même si ces deux entités excitent le mépris du parisianisme le plus stérile.

Cette culture française, incarnée dans une langue, ne pourra retrou­ver quelque vivacité qu'en intégrant toutes ses spécificités régio­nal­es.

Je ne parle pas ici des langues dites «minoritaires», breton, flamand, alle­mand, corse, catalan, basque, occitan, mais aussi des différents dia­lectes d'oïl, tout comme de ce qu'on nomme le «français régio­nal», qui varie selon les pays et les usages.

L'actuelle promotion du «langage des banlieues» aboutit à un terrible appauvrissement, entre autres facteurs par l'emploi du «verlan», qui est le contraire d'une création pour devenir une mécanique.

Maintenir le langage écrit contre le langage parlé est un des aspects de la guerre culturelle. Cela se heurte certes à la modernité qui ne connaîtra bientôt plus qu'une sorte de basic French assez analogue à ce qu'est l'américain par rapport à la langue de Shakespeare.

Cette attitude implique le souci des «humanités» comme on disait autrefois, c'est-à-dire la connaissance du grec et du latin. On doit y ajouter, pour les patries charnelles concernées, une certaine con­nivence avec leurs racines les plus profondes. C'est-à-dire, en Nor­mandie, par exemple, des notions élémentaires sur le mode nor­rois primitif qui nous permettrait de maintenir le lien avec notre plus ancienne culture.

Et parce que pour vous l'aventure continue, pouvez-vous, pour les lecteurs de Nouvelles de Synergies Européennes, nous indiquer quelques prochaines pistes de lecture...

JM: Je n'ai pas à l'heure actuelle le projet d'écrire quelque grand document sur la Seconde Guerre mondiale, même si je suis loin d'en avoir terminé avec la vaste fresque des «corps d'élite», commencée voici près de trente ans chez l'éditeur Balland. Il me reste à écrire deux volumes de l'histoire des volontaires français sur le front de l'Est: 1943 et 1944. J'attends que mon jeune ami Eric Lefèvre me fournisse, comme cela a été dans le passé, les documents néces­sai­res à l'évocation de cette aventure. Je laisse à d'autres le soin d'évo­quer les motivations et les combats des volontaires baltes, ukrai­niens ou hongrois. Cela me demanderait trop de temps en recher­ches et traductions.

Après Béring et Amundsen, j'aurais eu envie de faire revivre d'autres explorateurs polaires comme le Suédois Nordenskjöld et le Danois Rasmussen. Mais le marché du livre et l'incuriosité du public sont tels que je n'envisage pas de me lancer dans ces aventures. Alors, je me concentre sur mes chroniques de Que lire? Le volume 6 est terminé et devrait paraître à la fin de cette année. J'en suis à plus de 450 écrivains et il reste environ deux cents auteurs que j'estime indispensable de traiter.

J'ai aussi l'intention de consacrer un livre à ce mystère qu'est la per­ma­nence de la Normandie depuis onze siècles. Mon projet d'une gi­gan­tesque histoire des écrivains normands, en plusieurs volumes, res­te pour le moment à l'état de notes et de fiches, faute d'avoir trouvé un éditeur assez entreprenant.

Quant au roman sur la dernière guerre dont j'ai l'idée depuis plus d'un demi-siècle, il sera peut-être réduit à une simple nouvelle.

De la part de la rédaction, M. Mabire, merci.

(Entretien recueilli par Laurent Schang)

 

 

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mardi, 16 octobre 2007

Das Zeitalter der OLigarchen ist vorbei

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"Das Zeitalter der Oligarchen ist vorbei"

 Russland-Experte Wolfgang Seiffert über die Ära Putin, deren Fortsetzung und den Einfluss der Oligarchen

http://www.zurzeit.at/index.php?id=205

Herr Professor Seiffert, in der vergangenen Woche kam es in Rußland zu einem überraschenden Regierungswechsel. Der bis dahin unbekannte Viktor Subkow wurde neuer Regierungschef. Was hat das im Hinblick auf die Parlamentswahl im Dezember und die Präsidentenwahl im März 2008 zu bedeuten?

Wolfgang Seiffert: So überraschend war der Regierungswechsel nicht, denn er wurde erwartet. Überraschend war aber, daß Subkow zum Regierungschef vorgeschlagen wurde und dann auch von der Duma gewählt worden ist. Ich glaube, er steht für die Fortsetzung des Kurses, den Präsident Putin eingeschlagen hat, und an seinem Regierungsprogramm sehe ich, daß er weiter auf wirtschaftliche Stabilität – auch auf die Stabilität des Rubels – setzt, aber auch weitere neue Akzente setzt, indem er z.B. Fehler der Vergangenheit in der Sozialpolitik und bei der Gesundheitsvorsorge korrigieren will. Da Subkow gleichzeitig gesagt hat, daß personelle Veränderungen in der Regierung stattfinden werden, muß man davon ausgehen, daß das auch auf den Gebieten der Wirtschaft, der Gesundheits- und Sozialpolitik der Fall sein wird. Auch ist überraschend, daß er nicht ausgeschlossen hat, im nächsten Jahr bei den Präsidentenwahlen zu kandidieren. Putin hat das einerseits bestätigt und andererseits gesagt, daß es von Subkows Erfolg als Regierungschef abhänge und daß es fünf Kandidaten gebe, die das Amt ausüben können. Allerdings hat Putin keine Namen genannt.

Welche Chancen hätte Subkow bei der Präsidentenwahl?

Seiffert: Ich glaube, er hat gute Chancen. Denn Subkow ist ein alter Freund aus Putins Petersburger Tagen, und die beiden können schon seit 15 Jahren gut miteinander. Außerdem gibt Subkow, der 66 Jahre alt ist, Putin die Aussicht, in vier Jahren wieder zu kandidieren. Schließlich wäre er dann 70 Jahre alt, sodaß es Zeit für einen „natürlichen Wechsel“ wäre.

Es wird derzeit aber auch spekuliert, daß Subkow, sofern er Präsident wird, nach einer gewissen Zeit aus „gesundheitlichen Gründen“ zurücktreten könnte, um Putin Platz zu machen.

Seiffert: Diese Spekulationen haben keinen Rückhalt, denn Subkow macht mit seinen 66 Jahren einen gesunden Eindruck. Ich glaube, wenn er es schafft, Präsident zu werden, daß er das Amt vier Jahre gut ausüben kann.

Wenn Sie ein Resümee über Putins Amtszeit ziehen: Was würden Sie besonders hervorheben?

Seiffert: Erstens hat er die vielen Unsicherheiten und Instabilitäten im Lande beseitigt. Er hat dafür gesorgt, daß die Löhne, Gehälter und Renten regelmäßig gezahlt werden; er hat dafür gesorgt, daß Rußland wieder zu einer wirtschaftlichen Stabilität findet und daß die Auslandsschulden fast vollständig beglichen sind. Auf wirtschaftlichem Gebiet bezweifelt heute auch der schärfste Kritiker nicht, daß Rußland wieder eine wirtschaftliche Großmacht ist – nicht nur auf dem Gebiet der Bodenschätze, sondern auch im Bereich der Industrie, wo Rußland immer mehr mit dem Westen Schritt halten kann.

Und es ist auch auffallend, daß Rußland unter Putin wieder ein neues außenpolitisches Selbstbewußtsein zeigt.

Seiffert: Das ist richtig. Der frühere Premier Primakow, der jetzt Chef der Industrie- und Handelskammer in Moskau ist, hat gesagt: „Unmittelbar nach dem politischen Wechsel von der kommunistischen Herrschaft zu Demokratie und Rechtsstaat haben wir uns im Schlepptau der USA bewegt. Aber das ist jetzt vorbei, jetzt haben wir wieder unsere eigenen nationalen Interessen, die wir in den internationalen Gremien selbstbewußt vertreten.“ Das wird auch von den führenden Personen in Rußland so gesehen, und die Bevölkerung akzeptiert das. Denn es ist die Meinung weit verbreitet, daß Rußland durch die Entwicklung bis Anfang der 90er Jahre sein Gesicht in der Welt verloren hat, weshalb begrüßt wird, daß dies wieder hergestellt wird.

Die USA haben in den 90er Jahren auch versucht, sich Teile der russischen Einflußsphäre einzuverleiben…

Seiffert: Die USA unter Präsident Bush haben einerseits – und das ist auch auf Putin zurückzuführen – mit Rußland zusammengearbeitet, um etwa die Weiterverbreitung von Atomwaffen zu verhindern. Das wird wohl auch nach dem Wechsel von Putin zu einem anderen Präsidenten – gleiches gilt für die USA, wo Bush 2008 ebenfalls abtritt – so bleiben. Andererseits haben die USA versucht, die ehemaligen Staaten der Sowjetunion, die 1990 ausgeschieden sind – die Ukraine und die Staaten im Kaukasus wie Georgien – auf ihre Seite zu ziehen. Dabei haben sie Kräfte unterstützt, von denen sie ausgehen, daß sie Amerika aufgeschlossen gegenübertreten. Es gab beispielsweise die sogenannte orangene Revolution in der Ukraine, aber dieses Pendel ist schon wieder zurückgeschlagen. Denn in der Ukraine verfolgt Premier Janukowitsch eine andere Politik als Präsident Juschtschenko. Die Hoffnung der USA, Rußland einzukreisen, hat Rückschläge erlitten, aber der Versuch ist noch nicht beendet. Dagegen wenden sich viele im Lande, und Putin mit einer stärkeren Ausrichtung auf die Armee. So hat der neue Premier Subkow versprochen, ab 1. Dezember die Gehälter der Armeeangehörigen zu erhöhen, Rußland hat den Abrüstungsvertrag in Europa auf Eis gelegt, und die Flüge um die Grenzen der Russischen Föderation aufgenommen, die mit dem Ende des Kalten Krieges beendet wurden, und Rußland hat eine neue Vakuumbombe getestet. Das ist keine Bedrohung des Westens, sondern eine Reaktion darauf, daß die NATO mit der Aufnahme ehemaliger Sowjetstaaten immer näher an Rußland herangerückt ist.

Im vergangenen Jahr sorgte ein russisches Gesetz, wonach die Tätigkeit von Nichtregierungsorganisationen eingeschränkt wird, im Westen für Aufregung. Wie stark ist denn der Einfluß der von den USA unterstützten Nichtregierungsorganisationen auf die russische Politik?

Seiffert: Dieser Einfluß ist sehr gering. Was das Gesetz betrifft, so richtet es sich vor allem dagegen zu kontrollieren, wenn nicht zu verhindern, daß vom Ausland finanzielle Mittel an diese Nichtregierungsorganisationen fließen. Denn die russische Regierung – ob zu Recht oder zu Unrecht sei dahingestellt – sieht darin Versuche, in ihrem eigenen Land Gruppen zu schaffen, die, beispielsweise wie in der Ukraine oder in Georgien, im Sinne der USA tätig werden. Wegen des geringen Einflusses dieser Gruppen wurde dieses Gesetz nicht beschlossen, sondern weil Putin glaubt, daß er auf alle Fälle die innere Stabilität sicherstellen muß, weil sonst auch die wirtschaftliche Entwicklung in Rußland gefährdet werden könnte, und weil er befürchtet oder weiß, in welchem Umfang ausländische Geldgeber diese Gruppen unterstützen.

Stimmen eigentlich die Vorwürfe, Putin habe einen autoritären Staat geschaffen?

Seiffert: Es ist ganz offensichtlich, daß Putin einerseits bemüht ist, die seit 1993 geltende Verfassung einzuhalten. Das sieht man jetzt wieder beim Regierungswechsel, der von Artikel 111 der russischen Verfassung gedeckt ist. Andererseits versucht Putin im Rahmen der vorgegebenen Bedingungen, eine stabile Entwicklung sicherzustellen, und diesem Schritt diente auch die neue Regierungsbildung. Westliche Medien haben lange Zeit behauptet, daß Putin mit der absoluten Mehrheit in der Duma versuchen werde, die Verfassung zu ändern, damit er ein drittes Mal als Präsident kandidieren kann – aber das hat er von Anfang an abgelehnt und betont, daß er sich an die Verfassung hält.

Sie sprachen vorhin, davon daß Putin Rußland wirtschaftlich stabilisiert hat. Nun werden aber weiterhin wichtige Zweige der Industrie – Rüstung, Stahl, Energie, aber auch die Medien – von den sogenannten Oligarchen kontrolliert…

Seiffert: Hier muß man unterscheiden: Erstens gibt es in Rußland strategisch wichtige Industrien, die weitgehend in staatlicher Hand sind. Wenn Sie beispielsweise den Energiekonzern Gazprom nehmen, dann ist das eine privatrechtlich organisierte Aktiengesellschaft, aber die Mehrheit der Aktion hält der russische Staat. Und dann gibt es Oligarchen, die – wie der bekannte Michail Chodorkowski – in den Jahren der Amtszeit Jelzins entstanden sind und auf nicht ganz einwandfreie Weise zu Milliardenbeträgen gekommen sind. Gegen diese Oligarchen war in Rußland rechtlich vorgegangen worden: Der Oligarch Chodorkowski verbüßt wegen Steuerhinterziehung und Betrug eine mehrjährige Haftstrafe in Sibirien, und der Oligarch Beresowski ging ins Ausland und betreibt von London aus eine Anti-Putin-Politik, obwohl er sich früher dafür eingesetzt hat, daß Putin Präsident wird. Und die übrigen Oligarchen gibt es nach wie vor, aber sie betreiben keine Politik gegen Putin, sondern sind wirtschaftlich tätig und wollen Geld verdienen. Wie weit sie im Ausland investieren, ist dabei eine andere Frage. Interessant ist – und das ist wohl auch Subkow zuzuschreiben, der Leiter der Finanzaufsichtsbehörde war – daß früher mehr Geld ins Ausland floß als nach Rußland kam. Die russische Zentralbank hat in ihrer Kapitalbilanz mitgeteilt, daß im Jahr 2006 der Kapitalüberschuß 151 Milliarden betragen hat. Die Kapitalflucht, die es eine Zeit lang gegeben hat, konnte also gestoppt werden.

Beim Prozeß gegen Chodorkowski wurde kritisiert, daß rechtsstaatliche Kriterien verletzt worden wären. Trifft dieser Vorwurf zu?

Seiffert: Ich halte es für denkbar, daß beim Prozeß gegen Chodorkowski vom juristischen Standpunkt her handwerkliche Fehler unterlaufen sind. Aber in der Hauptsache wird die Bestrafung zutreffend sein, denn sowohl der Betrug als auch die Steuerhinterziehung sind nachgewiesen und wurden in Rußland von den Instanzen überprüft und bestätigt. Jetzt liegt eine Beschwerde beim Europäischen Gerichtshof für Menschenrechte vor, über die aber bis jetzt noch nicht entschieden wurde.

Wenn sich heute, wie Sie sagten, die Oligarchen im wesentlichen ihren Geschäften widmen, dann ist wohl eine Rückkehr in die 90er Jahre, in die Jelzin-Zeit, wo die Oligarchen und nicht der Präsident die Politik des Landes bestimmt haben, ausgeschlossen?

Seiffert: Diese Zeit ist vorbei, und ich sehe auch keine Möglichkeit zur Rückkehr in diese Verhältnisse. Denn dafür gibt es auch in der Bevölkerung keine Unterstützung.

Und welche Rolle spielt die vom Westen so genannte „liberale Opposition“?

Seiffert: Der Einfluß von Gruppen wie dem „Komitee 2008“ unter dem früheren Ministerpräsidenten Kasjanow und dem früheren Schachweltmeister Kasparow ist in Rußland verschwindend gering. Bei Wahlen haben sie keine Chancen, zumal die Leute sagen, Kasjanow sei nicht besser als die anderen, und bei Kasparow wissen sie genau, daß er zwei Staatsangehörigkeiten – die russische und die amerikanische – besitzt. Putin hat es verstanden, auf die entscheidenden Machtpositionen des Landes Einfluß zu nehmen und sie mit Personen seines Vertrauens zu besetzen. Insofern kann man von einem „System Putin“ sprechen.

Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

Prof. Dr. Wolfgang Seiffert:
Bis 1978 Professor für Internationales Wirtschafts- und Völkerrecht in Ost-Berlin. Danach Übersiedelung in die Bundesrepublik, wo er bis 1994 am Institut für Osteuropäisches Recht der Universität Kiel arbeitete. Prof. Seiffert ist Autor mehrerer Bücher, darunter „Wladimir W. Putin – Wiedergeburt einer Weltmacht?“ und „Selbstbestimmt – Ein Leben im Spannungsfeld von geteiltem Deutschland und russischer Politik“

samedi, 22 septembre 2007

Intervista con Putin

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Putin boccia la politica imperialista americana

Tensione con gli Usa su armamenti, diritti umani, caso Litvinenko.
«Non uso un linguaggio da luna di miele»
Putin: pronto a puntare i missili sull’Europa

Intervista al presidente russo: le manifestazioni represse? Sciocchezze

NOVO-OGARYOVO (Russia) — Sono passate le otto di sera, Vladimir Putin
è in ritardo perché è andato a visitare la vedova di Eltsin. I
rappresentanti dei giornali invitati dal Cremlino, uno per ogni Paese
del G8 che si apre mercoledì in Germania, lo attendono nella dacia
presidenziale di Novo-Ogaryovo, immersa in un bosco stupendo oltre il
quale spuntano come funghi le seconde case dei nuovi miliardari
moscoviti. L’atmosfera è rilassata, funzionari e guardie del corpo
giocano a biliardo per ingannare il tempo. Ma quando il Presidente
arriva e comincia un incontro che poco dopo si trasferirà a tavola,
l’amichevole informalità che regna nella dacia diventa poca cosa
davanti alla rudezza delle parole. Sì, risponde Putin a una nostra
domanda, i missili nucleari russi torneranno a essere puntati contro
città e obiettivi militari europei se gli Usa insisteranno a
modificare l’equilibrio strategico con il coinvolgimento di Polonia e
Repubblica Ceca nella creazione di uno «scudo» anti- balistico. Il
messaggio è forte, ma conviene cominciare dall’antipasto.

Signor Presidente, non c’è più amore tra Russia e Occidente, lei parla
di imperialismo Usa come si faceva ai tempi dell’Urss; siamo già in un
clima da nuova guerra fredda?

«Nelle relazioni internazionali non si usa un linguaggio da luna di
miele. Vanno sempre difesi i propri interessi nazionali, e la
coesistenza consiste nel farlo insieme, in uno spirito di compromesso.
Qualcuno nella comunità internazionale crede che le sue idee e i suoi
interessi siano valori assoluti da affermare con ogni mezzo. Questo
non aiuta. Faccio un esempio: se avesse prevalso lo spirito di
compromesso, i nostri consigli sarebbero stati ascoltati e gli Usa non
avrebbero attaccato l’Iraq. Certo oggi la situazione sarebbe migliore
ma non voglio nemmeno drammatizzare i contrasti, non è proprio il caso
di parlare di guerra fredda».

Al centro dei dissensi con Washington c’è il sistema difensivo
anti-missile e la volontà di installare alcuni suoi componenti in
Polonia e nella Repubblica Ceca. Quando la Russia protesta, vuole che
l’America rinunci del tutto al progetto difensivo?

«Vorrei rispondere partendo dal Cfe, il trattato che limita le forze
convenzionali in Europa. Noi lo abbiamo applicato scrupolosamente, e
cosa abbiamo avuto in cambio? L’Europa si sta riempiendo di nuove
basi, di nuove truppe, di nuovi radar, di nuovi missili. Allora
dobbiamo chiederci: stiamo forse disarmando unilateralmente? Non
possiamo permetterci di non essere preoccupati, e per questo abbiamo
dichiarato una moratoria sul Cfe. Lo stesso ragionamento vale per il
cosiddetto scudo difensivo, esso fa parte dell’arsenale americano, è
un elemento del sistema nucleare che protegge il territorio degli Usa,
ed è la prima volta nella storia che elementi di questo sistema
vengono dislocati in Europa. Ci dicono che la difesa serve contro i
missili iraniani, ma non esistono missili iraniani con la gittata
necessaria. Allora diventa evidente che queste novità riguardano noi
russi.
È ben noto che l’equilibrio strategico può essere alterato con sistemi
difensivi, creando l’illusione teorica di non essere più vulnerabili e
dunque di poter attaccare senza conseguenze. Noi non intendiamo
inseguire questo sogno. Intendiamo invece riequilibrare gli strumenti
difensivi con più efficaci strumenti offensivi, senza tuttavia
aumentare le spese militari, ma sappiamo che questo rischia di
riaprire una corsa agli armamenti di cui non saremo comunque
responsabili. Non abbiamo cominciato noi ad alterare l’equilibrio
strategico, non siamo stati noi ad abbandonare unilateralmente il
trattato Abm».

Le viene mai la tentazione di restituire pan per focaccia all’America,
di collocare missili russi a Cuba o in Venezuela?

«No, non ci penso nemmeno, anche se oltre alla Polonia e alla
Repubblica Ceca vedo sorgere basi Usa anche in Romania e in Bulgaria».

Se lo «scudo» andrà avanti, i missili russi torneranno ad essere
puntati contro le città e gli obiettivi militari americani come
accadeva ai tempi della guerra fredda?

«Naturalmente sì. Se il potenziale nucleare americano si allarga al
territorio europeo noi dovremo darci nuovi bersagli in Europa. Spetta
ai nostri militari la definizione di questi bersagli così come la
scelta tra missili balistici e missili da crociera. Ma questo è
soltanto un aspetto tecnico».

Dopo il Cfe sulle forze convenzionali anche il trattato Inf sugli
euromissili è in pericolo?

«La questione del trattato Inf non è direttamente collegata alle
difese antibalistiche americane. Il problema è che in base a quel
trattato Usa-Urss del 1987, soltanto la Russia e gli Stati Uniti non
possono avere missili con gittata da 500 a 5.500 chilometri, mentre
molti altri Paesi se ne stanno dotando. Così non va. Noi non vogliamo
complicare ulteriormente le cose, ma stiamo seriamente considerando
l’impatto dell’Inf sulla nostra sicurezza».

Come reagirebbe se l’Ucraina entrasse nella Ue e nella Nato?

«Al primo processo, quello che riguarda la Ue siamo sempre stati
favorevoli. Al secondo no, perché la Nato è un’alleanza militare e
nessuno ha bisogno, nemmeno in Ucraina, di ulteriori motivi di
contrasto. La politica dei blocchi è fuori dai tempi, e del resto la
maggioranza degli ucraini non è favorevole a entrare nella Nato».

Se lo «scudo» Usa fosse multilaterale e gestito dalla Nato, la Russia
accetterebbe di parteciparvi?

«Non credo che cambierebbe molto, noi che abbiamo conosciuto il Patto
di Varsavia sappiamo come vengono prese le decisioni nella Nato. La
sapete la barzelletta sul telefono speciale di Honecker? Era un
telefono fatto di un pezzo soltanto, la cornetta di ascolto. Anche la
Nato oggi funziona così. Quanto alla collaborazione russa, eravamo
stati noi a proporla e ad ottenere un rifiuto. Oggi l’idea riaffiora.
Ma cosa ci viene offerto? Di usare i nostri missili come bersaglio nei
test. Viene da ridere. Se invece ci fossero proposte serie, noi
saremmo pronti a lavorare insieme».

In quale modo si può risolvere il contrasto nucleare con l’Iran?

«Come è stato fatto con la Corea del Nord: con la pazienza e il
negoziato».

Lei è d’accordo con George Bush quando dice che un Iran con la bomba
atomica è inaccettabile?

«Sono assolutamente d’accordo con lui».

La vostra posizione sul Kosovo non rischia di accelerare una
dichiarazione di indipendenza unilaterale?

«La Russia si limita ad affermare le norme del diritto internazionale
sancite peraltro anche nella risoluzione 1294 dell’Onu. Se si ritiene
che l’autodeterminazione debba prevalere sul diritto, allora questo
deve essere valido ovunque. Anche in Ossezia, in Abkhazia o in
Transdnistria, e anche in regioni europee che vanno dalla Scozia alla
Catalogna e a tante altre. Un dialogo con la Serbia può favorire
l’evoluzione della loro posizione sul Kosovo, perché avere tanta
fretta a umiliarli come nazione?».

Vladimir Vladimirovich, qualcuno chiede che la Russia sia esclusa dal
G8 perché la sua democrazia è troppo imperfetta. Cosa risponde?

«È una cosa che non ha senso. Siamo nel G8 perché ci hanno invitati. E
per quanto riguarda la nostra democrazia non siamo gli unici ad avere
difetti. Con la differenza che gli altri non attraversano un periodo
di trasformazioni epocali come noi. Del resto alcune libertà sono
garantite da noi meglio che altrove. Per esempio noi non abbiamo la
pena di morte e nemmeno i senza casa, Guantánamo, la tortura, la
violenza contro i dimostranti».

Eppure piccole manifestazioni sono state represse con molta durezza di
recente…

«Sciocchezze. Altrove vengono usati i gas, le scariche elettriche, i
proiettili di gomma. Perché dobbiamo essere sempre noi i più cattivi,
perché tanto scandalo? Si può dimostrare, ma non si possono bloccare i
trasporti o creare rischi per gli altri, e in questi casi le autorità
hanno il dovere di intervenire. Noi usiamo metodi meno duri di quelli
in vigore in Occidente. Ho detto ad Angela Merkel che ero sorpreso per
le perquisizioni e per i raid preventivi effettuati in Germania in
vista del G8, ma in realtà so che bisogna garantire la sicurezza prima
dei grandi eventi. E poi con Angela ho un buon rapporto. Ma la si
smetta di considerarci degli orchi cattivi».

Lei è indubbiamente popolare in Russia, ma ha il vantaggio di non
subire la minima critica in televisione…

«Anche questo è sbagliato. Abbiamo 19 mila media elettronici. Anche se
volessi, non potrei controllarli tutti. E poi non è vero che non vengo
mai criticato.
Quando sbaglio le critiche arrivano. E per giunta la presenza dello
Stato in tv non è da noi diversa da quella che c’è in Francia o in
altri Paesi europei».

La Gran Bretagna ha chiesto alla Russia l’estradizione di Andrej
Lugovoj per l’omicidio Litvinenko. Perché non viene accordata?

« Intanto perché bisognerebbe emendare la Costituzione. Ma se anche si
facesse questo, il Procuratore generale mi dice che non sono state
fornite motivazioni sufficienti. Anche in Russia c’è un’indagine su
Lugovoj, e noi procederemmo se trovassimo materiale d’accusa. A questo
punto mi chiedo: coloro che vogliono l’estradizione, ignorano le
nostre leggi oppure non sono in grado di fornire elementi di accusa
validi? Viene il sospetto che si tratti di una mossa politica, proprio
da parte di chi nasconde sul suo territorio terroristi e ladri».

Il suo mandato scade nel marzo 2008. Come vorrebbe che fosse il suo
successore?

«Saranno gli elettori a decidere. È troppo presto e sarebbe
inopportuno fare speculazioni sui candidati. Per quanto mi riguarda
non ho l’età della pensione. Lavorerò, ma non so dire dove».

Che ne pensa sua moglie?

«Lyudmila ha i suoi interessi, è filologa, ha la sua vita
professionale. La mia presidenza è stata per lei causa di limitazioni
più che di lustro. Non ha mai protestato, ma non credo che le
dispiaccia la mia uscita dal Cremlino».

La Shell e ora forse la Bp perderanno le loro licenze di estrazione.
Ma in questo modo la Russia non scoraggia gli investimenti che pure
desidera?

«Qualcuno ha letto l’accordo originale per Sakhalin-2? Era un testo
coloniale, non rispondeva in alcun modo agli interessi della Russia.
Posso soltanto rammaricarmi che negli anni ‘90 qualcuno l’abbia
firmato. E anche così, se i nostri partner avessero rispettato gli
impegni, noi avremmo fatto lo stesso. Ma è andata diversamente e le
decisioni prese erano inevitabili. Anche per il giacimento di Kovykta
in cui è impegnata la Bp, vanno protetti tutti gli azionisti, i
traguardi produttivi non sono stati rispettati e chi ha concluso
l’accordo conosceva gli ostacoli sin dal primo momento. Pure in
materia energetica noi russi passiamo per cattivi. Veniamo accusati se
applichiamo regole di mercato all’Ucraina dopo averla sovvenzionata
per 15 anni; lo stesso è accaduto con i Paesi baltici, e persino con
la Bielorussia. Insomma, qualsiasi cosa facciamo non va bene.
Parliamo delle società europee: perché dovrebbero avere paura della
partecipazione russa? Se fossimo stati nel consorzio Airbus avremmo
salvato molti posti di lavoro. Noi non puntiamo a conquistare,
applichiamo le regole di mercato».

Ciò vale anche per Aeroflot e Alitalia?

«Naturalmente. Faciliteremo un accordo se le parti lo vorranno, ma di
sicuro non forniremo aiuti pubblici».

A Parigi è diventato Presidente un amico dell’America che tiene molto
ai diritti umani. Andrà d’accordo con Sarkozy?

« Guardi che anche noi ci sentiamo amici dell’America. Forse le
sembrerà strano per le critiche che rivolgo a Washington, ma tra noi
non esiste più inimicizia, il problema è non compromettere la
sicurezza collettiva che ci riguarda entrambi. Quanto a Sarkozy, che
incontrerò tra pochi giorni, lui ha detto di essere amico dell’America
ma di conservare gelosamente anche il diritto di dissentire
dall’America. Ecco, io la penso esattamente allo stesso modo».

Fabrizio Dragosei / Franco Venturini

L’incontro con il presidente russo ha avuto luogo venerdì sera. Dal
momento che il settimanale tedesco Der Spiegel ha parzialmente violato
l’embargo concordato per domani, il
Corriere della Sera, che ha intervistato Putin in esclusiva italiana,
si ritiene libero di pubblicare oggi il suo articolo

Fonte: Corriere della Sera


Article printed from Altermedia Italia: http://it.altermedia.info

URL to article: http://it.altermedia.info/antimperialismo/putin-boccia-la-politica-imperialista-americana_3431.html

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