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vendredi, 14 janvier 2011

Dr. Tomislav Sunic - American Third Position - Inaugural Conference

Dr. Tomislav SUNIC

American Third Position

Inaugural Conference

Conférence de Pierre Vial sur Henri Vincenot


Conférence de Pierre Vial sur Henri Vincenot

La metafisica de "L'Operaio" di Ernst Jünger

La metafisica de "L’operaio" di Ernst Jünger

Luca CADDEO

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).

Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.

1. Forma e Tipo

Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.

Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).

La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.

2. L’elementare

Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).

3. La tecnica

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).

Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramite Heidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia di Heidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.

L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.

La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.

Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.

4. Metapolitica

Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).

L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.

Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che la Zivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kultur è indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare la Kultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.

Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.

Note

1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).

2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.

3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.

4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio come Gestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.

5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.

6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaio la tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.

7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.

8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.

9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.

10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” di Jünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin, Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lo status quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.

11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.

12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id., Sentieri interrotti, cit., p. 74. La scienza come matematica determina “in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto”. Ivi, p. 75. Questo processo che implica la pre-conoscenza di ciò che si conosce e dunque la pre-visione, è il modo tipico attraverso cui, anche per Jünger, l’uomo moderno conosce, calcola e domina il mondo. La verità del mondo sta nella sua esattezza, cioè nella corrispondenza rigorosa col procedimento che si adotta per conoscerlo. Questo modo di conoscere è valido massimamente per la tecnica. La forma tramite la tecnica e la scienza come matematica calcolano e dominano il mondo. Ma, nel pensiero di Jünger, la Forma in se stessa non può certo essere a sua volta misurata, pre-determinanta. La sua verità non è l’esattezza.

13 All’argomento del dolore che, come si sta ricordando, è intrinsecamente legato il tema dell’elementare, e che non è possibile affrontare in tutta la sua ampiezza in questo articolo, Jünger dedica un complesso e profondo saggio nel 1934 in cui si legge: “Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre, si potrebbe parlare di una “astuzia del dolore” volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo”. Ernst Jünger, Sul Dolore, in id. Foglie e Pietre, cit., p. 149.

14 La revisione della tematica della tecnica, che comunque non mi pare possa intaccare nella sostanza i fondamenti della metafisica delle forme, è un argomento molto complesso a cui sarebbe bene dedicare un apposito studio all’interno del quale si analizzino nello specifico almeno i saggi Oltre la linea (trad. it., Adelphi, Milano 1989), Il trattato del Ribelle (trad. it., Adelphi, Milano 1995), Al muro del tempo ( trd. it., Adelphi, Milano 2000), il romanzo filosofico Eumeswil (trad. it., Guanda, Parma 2001) e La forbice (trad. it., Guanda, Parma, 1996). Ne L’operaio, che è l’oggetto di questo articolo, Jünger pensa che l’omonima Figura possa finalizzare alla Rinascita dell’uomo totale l’elementare; la tecnica è dunque vista come lo strumento necessario che l’uomo adotta per disporsi alla Trascendenza della Forma. Successivamente questo strumento, a cui già nel ’32 era stata associata una trasformazione della libertà, non è più adatto a garantire la comunicazione tra la Forma e l’uomo. Da qui l’esigenza di elaborare nuove figure come appunto quella del Ribelle (in Il trattato del Ribelle) o dell’Anarca (in Eumeswil) che arrivano alla propria libertà sovratemporale tramite percorsi individuali.

15 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

16 Cfr. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, trad. it., in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, pp. 130, 131.

17 Cfr., Alain de Benoist, L’operaio fra gli dei e i titani, cit., p. 40.

18 Benjamin identifica con precisione il nesso tra la guerra e la tecnica specialmente riferendosi all’estetizzazione della politica che perseguirebbe il fascismo. La guerra imperialistica sarebbe lo sbocco naturale della società capitalista a causa “della discrepanza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco)”. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 46, 47. E’ probabile (anche se non necessario) che la Mobilitazione Totale così come è stata elaborata da Jünger possa sfociare nella guerra. E’ anche vero che i Rivoluzionari-conservatori non contestano la società a partire da idee economiche e che i rapporti di proprietà non costiuiscono il fulcro principale della loro riflessione. E’ infatti lo stesso Operaio “a rifiutare ogni interpretazione che tenti” di spiegarlo “come una manifestazione economica, o addirittura come il prodotto di processi economici, il che significa in fondo, una sorta di prodotto industriale”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 29. L’Operaio pronuncia una “dichiarazioone d’indipendenza dal mondo dell’economia”, anche se “ciò non significa affatto una rinuncia a quel mondo, bensì la volontà di subordinarlo ad una rivendicazione di potere più vasta e di più ampio respiro. Ciò significa che non la libertà economica né la potenza economica è il perno della rivolta, ma la forza pura e semplice, in assoluto”. Ibidem.

19 Secondo Evola il “mondo senz’anima delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne”, “pura realtà e oggettività”, “freddo, inumano, distaccato, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico””, non è rifiutato dall’Uomo differenziato. Infatti, “proprio accettando in pieno questa realtà (…) l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi (…) attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 103, 104. Rispetto al complesso rapporto fra Jünger ed Evola, oltre agli scritti evoliani L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger ( Armando, Roma 1961), Il cammino del Cinabro (Vanni Scheiwller, Milano 1963) e Cavalcare la Tigre, si legga Francesco Cassata, A destra del fascismo, profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

20 Ne L’operaio la caratteristica peculiare della tecnica consiste proprio nella sua capacità di modificare l’essenza dell’uomo verso l’uniformità. La tecnica, che è il più appropriato strumento di dominio dell’Operaio, frantuma ogni tradizione e ogni valore e dunque anche ogni differenza di carattere schiettamente biologico. Allo stesso modo, è vero che chi non avesse la capacità di sfruttare positivamente la distruzione tecnica, sarebbe, nell’ottica di Jünger, destinato alla massificazione amorfa, in altri termini ad una modalità di vita probabilmente inferiore rispetto a quella incarnata dall’Operaio. Solo quest’ultimo, esperita la distruzione di tutti i valori e consapevole della potenza inumana della tecnica, rinasce come eroe della Forma e come protagonista del suo destino di dominio.

21 Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 87. Secondo Heidegger, dopo che l’uomo è divenuto sub-jectum issandosi a fondamento dell’essere e dunque a metro della verità, sapere significa dominare. Heidegger confessa che il suo scritto del 1953 La questione della tecnica “deve alle descrizioni contenute nel Lavoratore un impulso durevole”. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 118. In effetti, sia la strumentalizzazione del mondo attuata dalla ragione tecnica che il nesso profondo che fonde il darsi della verità col suo nichilistico ritrarsi sono, almeno in parte, tematiche già presenti ne L’operaio. (Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Mursia, Milano, 1976.). Adorno e Horkheimer, in La dialettica dell’illuminismo, scrivono che “l’illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso”- cioè non solo come illuminismo del secolo XVIII- “ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Max Horkheimer, Theodor Adorno, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. La tecnica è “l’essenza” del sapere come potere”. Ivi, p. 12. Jünger anticipa questa analisi sul sapere moderno che ha la tecnica e la razionalità strumentale come essenza. I pensatori della Scuola di Francoforte però tendono a non considerare in senso positivo il potere catartico della strumentalizzazione della ragione e del sapere come dominio. Secondo Jünger invece, una volta constatata l’irreversibilità delle dinamiche descritte, non resta che viverle. Né per Heidegger né per Jünger si può prescindere dall’essenza nichilistica della tecnica: è proprio esperendo il nichilismo che ci si incammina verso un suo eventuale superamento. Entrambi non condannano la tecnica in quanto ne giudicano necessario l’avvento. Sull’argomento cfr., Michela Nacci, Pensare la tecnica, un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari 2000, p. 44.

22 Questo aspetto è stato acutamente evidenziato dal nazionalbolscevico Ernst Niekisch: “(…) La mobilitazione totale, di cui Jünger si fa banditore, è l’azione la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si possa attingere; essa pretende di porre tutto in marcia, non tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi, dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni angolo è frugato, l’ometto più mingherlino viene trascinato al fronte. E’ il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando gli è diventato quasi inevitabile dover finalmente fissare il proprio volto”. Ernst Niekisch, Il regno dei demoni, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 117, 118. Niekisch descrive perfettamente la mobilitazione totale, ma tace sul fatto che, come più volte Jünger ripete, dietro al movimento si cela immobile la Forma.

23 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 115.

24 Il lavoro non è interpretato come un fenomeno meramente sociale ed economico, né si ha la minima intenzione di porsi dalla parte degli operai sfruttati, che lavorano troppo. Viceversa, si tenta di introdurre il lavoro come un ideale, si tratta del lavoro come forma dell’uomo e, in un certo qual modo, come forma del mondo. Il mondo e l’uomo mutano la loro forma grazie al lavoro inteso come la missione propria dell’epoca moderna.

25 Si sente l’influenza di Weber laddove si parla della ragione strumentale che finalizza ogni ente all’utile umano, al profitto e che favorisce il superamento disincantato di quella ascesi intramondana che era all’origine del capitalismo medesimo ( cfr., Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, pp. 239, 240.) Ma, fa notare molto precisamente Herf, se “la critica della tecnica era moneta corrente nella cultura di Weimar”, “Ernst Jünger si distingueva, poiché sembrava accogliere positivamente il processo di strumentalizzazione degli esseri umani. Era come se Weber avesse accolto con gioia la prospettiva della gabbia di ferro”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, Il Mulino, Bologna 1988, p. 150. Per Jünger invero il fatto che la razionalità finalizzata al profitto si espanda in ogni settore della vita e che il lavoro si propaghi in ogni ambiente, non impedisce che l’Operaio possa, in un certo senso, tornare ad incarnare un’etica ascetica in cui non sia tanto importante il godimento di ciò che viene prodotto, quanto la dedizione totale al lavoro, dunque anche alla produzione. Egli cerca di dividere la missione del lavoro, funzionale al dominio della forma e alla nascita dell’Operaio (che non è un mero consumatore delle merci che produce), dall’etica utilitarista, propria del borghese che produce per raggiungere il suo isolato utile e piacere.

26 “Essere e niente non si danno uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui non abbiamo ancora pensato la pienezza essenziale”. Martin Heidegger, La questione dell’essere, in Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 157.

27 Ne L’Operaio, e in vari articoli che lo precedono (cfr., ad esempio, Ernst Jünger, “Nazionalismo” e nazionalismo, Das Tagebuch, 21 settembre 1929, in Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 89.), Jünger loda alla stregua dei futuristi la velocità, la macchina, l’acciao, la violenza che genera distruzione, i paesaggi lunari e freddi tipici del mondo-officina, la guerra come fattore elementare attraverso cui poter esperire una nuova forma di esistenza rinvigorita dal pericolo e dalla morte. Il costante riferimento all’Ordine (all’Essere, all’Immobile) è stato invece interpretato come la differenza più profonda fra Jünger e i futuristi italiani. Secondo Fabio Vander ad esempio poiché “non può esservi calma dopo la tempesta della Krisis, se non come essere della tempesta ovvero essere del divenire, dialettica della differenza”, Jünger “deve rassegnarsi al “semplice dinamismo, attivismo”, deve considerarlo intranscendibile se rifiuta, come rifiuta, la prospettiva dialettica. Allora di fronte alla tragicità di Jünger, meglio il divertissement di Marinetti, che appunto della differenza assoluta non cercava trascendimento, salvezza”. Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, Il fascismo come anti-Italia, Dedalo, Bari 2001, p. 55. Secondo Vander, Jünger, ma anche Heidegger, poiché restii ad accettare la dialettica della differenza, non sarebbero stati in grado di sintetizzare l’Essere col Divenire, mentre Marinetti, non avendoci neppure provato, sarebbe stato più coerente. Constatata nel pensiero di Jünger la presenza della nozione “forte” di Forma, ma considerata pure la complicata correlazione che fonde il sensibile al sovrasensibile, non mi sento di ridurre la metafisica delle forme a un fallito tentativo di coniugare l’Essere col Divenire.

28 “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre come un fine e mai soltanto come un mezzo”. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Bari 1992, p. 111. Cesare Cases scrive che “l’etica di Jünger si direbbe l’opposto dell’etica kantiana: l’uomo non vi è concepito come valore in sé, ma come “simbolo”, come mezzo per raggiungere un determinato scopo, in cui si invera e che è in funzione di un’entità metafisica che si chiama volta per volta “idea”, “Forma”, “destino””. Casare Cases, La fredda impronta della Forma, Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 39.

29 “E’ l’immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell’universale benessere che si estende a raggiungere i ceti più bassi della popolazione. Si produce così una grande quantità di ogni bene, che ve n’è abbastanza da soddisfare l’infingardo e oppressivo sperpero del grande, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell’artigianto e del contadino. Ciascun uomo effettua una così grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto e, al tempo stesso, averne in tale quantità che gli è possibile, attraverso lo scambio di quanto gli rimane con i prodotti delle altre attività, di provvedersi di tutte le cose necessarie e utili di cui ha bisogno”. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1969, p. 14. Anche Jünger crede nella necessità della divisione del lavoro, dunque nella specializzazione e nel nesso che lega questi processi alla complessiva crescita economica della nazione. Non crede invece che il solo mercato, come fosse una “mano invisibile”, possa essere in grado di determinare la ricchezza della nazione e, in definitiva, il benessere complessivo del popolo.

30 L’avvicinamento della metafisica delle Forme alla metafisica della vita può essere pensato con cognizione di causa solo se accanto alle somiglianze si mettono in evidenza le profonde differenze. Fare alla stregua di Lukács della metafisica delle Forme un’enclave della filosofia della vita (cfr. György Lukács, trad. it., La distruzione della ragione, cit., p. 538.), può condurre a incasellare la prima nell’alveo dell’irrazionalismo e dunque può servire a ridurrre la complessa filosofia di Jünger a un sistema teso a criticare la ragione in quanto tale. Se Jünger concorda con filosofi come Simmel sull’importanza della vita intesa come un fiume da cui l’uomo trae i valori e in cui i valori fatalmente nel tempo sono riassorbiti, conferisce anche notevole importanza alla dimensione propriamente metafisica o meglio esattamente Trascendente. La Forma non è qualcosa che fuoriesce per caso dal divenire magmatico. Essa è eterna, immobile. Se non può essere paragonata all’idea platonica è solo perché, benché sia trascendente, la dinamica della sua e-sistenza si estrinseca come evento, ma l’essenza è e rimane atemporale. Questa atemporalità conferisce solidità all’impianto etico de L’Operaio. In questo senso, la riflessione di Jünger può essere avvicinata a quella dei pensatori della Tradizione, ad esempio ad Evola e a Guénon. Infatti questi studiosi, riproponendo la metafisica della “Tradizione”, sostengono che l’uomo, per agire in conformità al proprio destino, debba incarnare principi assoluti e trascendenti, impersonali. L’uomo della Tradizione abbandona i propri desideri, il proprio utile e persegue un’ attività sovraindividuale. La sua è un’ “azione senza desiderio”, un “agire senza agire”. (Cfr. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, cit., p. 68.). Anche l’Operaio agisce senza agire, nel senso che è Forma: non è lui ad agire, ma la Forma di cui è impronta. Da qui la preminenza in questo pensiero di concetti “forti” come quello di disciplina, di sacrificio, di eroismo. Il vitalismo mutuato da Nietzsche è dunque inquadrato in un sistema metafisico in cui valori tipicamente guerrieri, aristocratici, tradizionali trovano forza e, nell’intento di Jünger, imperitura conferma.

31 Michela Nacci, Pensare la tecnica, Un secolo di incomprensioni, cit., p. 61.

32 Ernst Jünger, La mobilitazione Totale, in id., Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 127.

33 Ibidem.

34 Herf fa presente che la prima guerra mondiale era stata per i rivoluzionari conservatori “il palcoscenico su cui si riconciliavano le dicotomie centrali della modernità tedesca: Kultur e Zivilisation, Gemeinschaft e Gesellschaft”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, cit., p. 130. Diversamente da Spengler e da altri “intellettuali di destra” vicini all’“antimodernismo völkisch, Jünger proponeva di assorbire la macchina e la stessa metropoli nella Kultur tedesca, anziché respingere entrambi come prodotti di forze estranee”. Ivi, p. 133.

35 Cfr., Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005.

36 “Si vorrebbe riconoscere all’uomo, a piacere, la qualità di creatore o di vittima di questa stessa tecnica. L’uomo appare qui o un apprendista stregone, il quale evoca forze i cui effetti egli non sa dominare, o il creatore di un progresso ininterrotto che corre incontro a paradisi artificiali”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

37 Armin Mohler fornisce una chiara spiegazione del contesto in cui sorge il concetto di “interregno”: “Attraverso la nuova esplosione di movimenti che si determina nel secolo XIX il Cristianesimo (…) si disgrega. Nella realtà politica, conformemente al principio di inerzia, continua ad esistere; tuttavia là dove si prendono le decisioni esso ha perso la sua posizione dominante e rimane, anche nelle sue tradizioni consolidate (Neotomismo e Teologia dialettica), solamente una forza tra le altre. Questo processo è accelerato ulteriormente dalla decomposizione dell’eredità del mondo antico, che aveva aiutato nel corso dei secoli il cristianesimo a raggiungere una forma propria. Gli elementi della realtà precedente sussistono ancora, ma, isolati e senza punti di riferimento, si muovono disordinatamente nello spazio. L’antica struttura dell’Occidente quale unità di mondo classico, cristianesimo e forze di nuovi popoli penetrati nella storia con le invasioni barbariche, è frantumata. Ci troviamo così in questo stato intermedio, in un “Interregnum”, da cui ogni espressione culturale è influenzata”. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1919-1932, Una guida, cit., pp. 22, 23.

Konstantin Leontiev, l'inaudible

Konstantin Leontiev, l'inaudible

par Thierry Jolif

(Infréquentables, 10)

Ex: http://stalker.hautetfort.com/

«La flatterie politique [...] n'est absolument pas obligatoire en littérature.»
Konstantin Leontiev.


Leont%27ev.jpgInfréquentable, à coup sur, Konstantin Leontiev l'est. Non qu'il le fut, de son vivant. Certainement pas. Sûrement même le fut-il moins, bien moins, que Dostoïevski ou Tolstoï aux yeux d'une grande partie de la bonne société de l'époque. Actuellement, par contre, il l'est évidemment, pour la très simple raison qu'il est mort, et pour la tout aussi simple raison qu'il n'a pas eu l'excellente idée de laisser à la postérité une œuvre immortelle selon les actuels canon de l'immortalité.
Le voici donc bel et bien frappé d'oubli et, conséquemment, contraint de se voir classer parmi les infréquentables, non pas seulement en raison de son décès mais aussi, et surtout, à cause, précisément, de ses écrits. En fait, pas tant à cause de ses écrits mais bien plutôt en conséquence de son écriture ! De son style ! Style que lui reprochaient déjà ses contemporains, trop clair, trop «latin» pour les slavophiles, trop russe pour les occidentalistes. Politiquement concret et précis, sans sentimentalisme, extrêmement réaliste et profondément religieux, philosophiquement spirituel (et pas spiritualiste) et rigoureux, ni romanesque, ni romantique, aucunement utopique. Ainsi Leontiev, en dehors de son infréquentabilité physique due à son trépas, demeure stylistiquement infréquentable !
Il est hélas à peu près certain que, selon les très actuels critères qui font qu'un écrivain est «lisible» ou mérite d'avoir des lecteurs, notre très oublié Leontiev serait recalé. Il suffit, pour s'en convaincre, de relire une seule petite phrase du penseur russe : «L'idée du bien général ne contient rien de réel» (1).
Qui, parmi les lecteurs contemporains, souhaite encore lire de pareilles formules, et qui, parmi les marchands qui font profession de fournir de la matière imprimée, aurait encore envie de fourguer une telle camelote ? Non, soyons sérieux, ce genre de sortie, et plus encore le comportement qu'elle suppose, datent d'une autre époque, époque, fort heureusement, révolue pour nous, qui sommes gens évolués et accomplis. En outre, le bonhomme eu l'impudence de critiquer Dostoïevski ! Du moins, ce qui à notre époque revient au même, certaines idées avancées par l'auteur des Frères Karamazov. Ainsi l'obscur et impudent, à propos de Crime et châtiment, a-t-il osé écrire que «Sonia... n'a pas lu les Pères de l'Église» ! Voilà qui le rend «suspect» et par trop réactionnaire, même pour les chrétiens ! Pourtant Leontiev ne dit pas là autre chose que Chesterton lorsque celui-ci écrit qu’«En dehors de l'Église les Évangiles sont un poison», proposition raisonnable et si juste de la part d'un Britannique. «Toutes les idées modernes sont des idées chrétiennes devenues folles» : là encore, l'amateur éclairé opinera du chef et se régalera d'une telle sagacité bien audacieuse. Mais que ce grand Russe, petit écrivain compromis par sa «proximité avec le régime», se permette d'écorcher, pour les mêmes motifs, ce que la Russie nous a donné de meilleur, qu'il s'en prenne à ce style psychologique qui a fait, justement, le régal des belles âmes, voilà ce qui est proprement impardonnable.
J'aurais pu écrire «Leontiev l'illisible» mais alors je n'aurais pas touché juste. Notre époque peut tout lire, tout voir, tout entendre, et elle le veut d'ailleurs. En fait, plus qu'elle ne le veut elle le désire, et même ardemment ! Son incapacité est ailleurs : «J'entends mais je ne tiens pas compte.» Cela vous rappelle quelque chose ? Toute ressemblance avec des faits réels n'est nullement fortuite. Cette confession est révélatrice de cet autisme tant individuel que collectif et, à la fois, paradoxalement, volontaire et inconscient.
L'écriture de Leontiev est donc devenue inaudible. Notre temps désire tout entendre mais il ne sait plus écouter. Or, une telle écriture demande un réel effort d'attention et d'écoute. Leontiev, pourrais-je dire, a écrit, de son vivant, pour «ces quelques-uns dont il n'existe peut-être pas un seul». Depuis son décès, cette vérité est encore plus cinglante. Un autre écrivain russe, grand solitaire également, Vassili Rozanov, écrivait de Leontiev qu'il était plus «nietzschéen que Nietzsche».
Pendant une brève période ces deux contempteurs de leur époque entretinrent une correspondance. Ils se fréquentèrent donc, du moins par voie épistolaire. Rien de très étonnant à cela tant ces deux caractères, pourtant si profondément différents l'un de l'autre, se trouvèrent, tous deux, radicalement opposés à tout ce qui faisait les délices intellectuelles de leur siècle. Rien d'étonnant non plus à ce que leurs tombes aient été rapidement profanées et détruites par les persécuteurs socialistes; leur «infréquentabilité» devenait ainsi plus profonde, et plus large même, post-mortem. (Rozanov avait tenu à être inhumé auprès de Leontiev, dans le cimetière du monastère de Tchernigov à Bourg-Saint-Serge).
Inaccessible Konstantin Leontiev l'est, sans nul doute possible. Né charnellement en janvier 1831, né au ciel en novembre 1891 après avoir reçu la tonsure monastique sous le nom de Kliment à la Trinité Saint-Serge. Ce russe, typiquement XIXe et pourtant si terriblement, si prophétiquement «moderne» qui vécut en une seule vie les carrières de médecin militaire, de médecin de famille, de journaliste, de critique littéraire, de consul, de censeur..., côtoya aussi tous ceux qui, inévitablement, lui faisaient de l'ombre, Soloviev, Dostoïevski, Tolstoï. Inévitablement, à cause de leur talent, certes, mais aussi parce qu'ils furent toujours plus «libéraux» que lui, qui ne put jamais se résigner à l'être.
Inaccessible plus encore qu'infréquentable, car tout ce qui «sonne» un peu trop radicalement réactionnaire est, on le sait, furieusement réprimé par notre époque douce et éclairée et qui a su, si bien,
retenir les leçons du passé. Les excités tel que Leontiev ne peuvent qu'être dangereux (pensez donc, défenseur d'une ligne politique byzantino-orthodoxe : même un Alexandre Duguin, de nos jours, dénonce ceux de ces compatriotes qui se laissent aller à ce rêve-là). Même à leur corps défendant, même s'ils sont, par ailleurs, nous pouvons bien le reconnaître, des «êtres délicieux», nous ne saurions tolérer leur imprécations obscurantistes. De même qu'en France un Léon Bloy, c'est «amusant»; c'est, nous pouvons bien le concéder, stylistiquement admirable (surtout à le comparer à nos actuels littératueurs, pisse-copies patentés d'introversions fumeuses et professionnels de la communication et du marketing), mais non, philosophiquement, allons, soyons sérieux, tout cela est dépassé, dépassé parce que faux, pis : incorrect !
Oui, en quelque sorte, à nos oreilles éduquées par d'autre mélopées, plus suaves, la tonalité de Leontiev sonne méchamment; c'est bien cela ! Pour notre moralisme, que nous pensons si rationnel et si réaliste, les propos de Leontiev sont affreusement méchants, et ce d'autant plus qu'il y mit lui-même toute sa force de conviction non moins réellement réaliste, mais d'un réalisme qui sut rester non matérialiste et non idéologique, d'un réalisme outrageusement chrétien. Et c'est au nom de ce christianisme réaliste que Leontiev osa adresser ses reproches à Léon Tolstoï, à Dostoïevski, à Gogol aussi (l'un des buts littéraires avoués de Leontiev était de mettre fin à l'influence de ce dernier sur les lettres russes !). Comble de l'audace perfidement rétrograde, qui scandalise plus aujourd'hui qu'alors ! À tous ceux qui étaient tentés de justifier la mélasse socio-démocratique par le christianisme, voire à faire de celui-ci rien de moins que l'essence même de cette eau-de-rose truandée, Leontiev rappelait quelques utiles vérités. Tout comme les authentiques musiques traditionnelles des peuples sont, à l'opposé des soupes sirupeuses avariées du new age, fortes et rugueuses aux oreilles non-initiées et ne dévoilent leur vraie douceur qu'après une longue intimité dans la chaleur de la langue et de l'esprit, le christianisme, à l'opposé de la doucereuse tolérance socio-démocrate, est austère et exigeant avant que d'être accueillante et lumineuse bonté !
Et puis surtout, que pourrions-nous bien en faire de ce furieux vieux bonhomme qui a osé écrire
leontievcccccc.jpgL'Européen moyen, idéal et outil de la destruction universelle ? Puisque, ne l'oublions pas, la littérature «vraie» doit être, nécessairement, engagée; c'est-à-dire, au-delà de critiques de pure forme, aller, toujours, dans le sens du courant. Or, nous y sommes d'ores et déjà en la belle et unie Europe, nous y sommes depuis un bon bout de temps dans ce moment historique, dans cet événement des événements qui va durer encore et encore, en plein dans cette heureuse période de l'unification, dans l'heureuse diversité des êtres équitablement soumis aux choses. Certes, avec des heurts et quelques accidents de parcours, mais bénins en somme, insignifiants même, au regard du grand espoir de «paix universelle» vers lequel tous, dans une belle unanimité, nous tendons. En tout cas nous y sommes bel et bien, oui en Europe ! Alors, quel besoin aurions-nous de nous auto-flageller en lisant ce «grand-russien» décédé, dépassé, déclassé ?
Eh bien il se trouve que la distance s'avère souvent nécessaire pour mieux se connaître. Pour nous autres, très fréquentables européens moyens et contemporains, quelle plus grande distance que celle qui nous sépare de cet inclassable russe ?
Ce grand-russien qui, de son vivant, s'ingénia à se montrer implacable envers l'européen moyen pourrait bien s'avérer, par ses écrits, un viatique pour le même à l'heure d'une renaissance russe qui pourrait offrir à une Europe épuisée et ridiculisée par quelques décennies d'une politique frileuse, cupide et aveugle à son être authentique, de regagner une place qui lui est véritablement propre, possibilité à envisager sans fol optimisme puisque Leontiev lui-même insistait sur le fait que «la véritable foi au progrès doit être pessimiste».
Conservateur comme il l'était, Konstantin Leontiev faisait partie de cette race d'hommes qui savait encore que sentiments (et non sentimentalisme) et intelligence aiguisée, loin d'être antinomiques, sont intimement liés. Ainsi, c'est avec une acuité et une intelligence épidermique que notre auteur se montrait absolument et irrémédiablement opposé à l'idéologie du progrès, du bien et de la paix universelles, idéologie dont il avait su flairer les relents dans les différents partis en présence de son temps. Refusant cette idéologie comme une utopie mortifère qu'il identifiait à un état d'indifférence, degré zéro de toute activité humaine, il refusait aussi à la politique de se projeter vers un hypothétique futur, vers le lointain, lui assignant pour seul objectif le «prochain» : «[…] cette indifférence est-elle le bonheur ? Ce n'est pas le bonheur, mais une diminution régulière de tous les sentiments aussi bien tristes que joyeux.»
Dès lors, comme tout authentique conservateur, ce que Leontiev souhaitait conserver ce n'était certainement pas un système politique ou économique quelconque ou bien quelques grands et immortels principes : «Tout grand principe, porté avec esprit de suite et partialité jusqu'en ses conséquences ultimes, non seulement peut devenir meurtrier, mais même suicidaire.» Non, ce que Leontiev aimait et voulait voir perdurer c'était bien la véritable diversité humaine, les différences dont notre époque, si douce et éclairée, nous enseigne qu'elles sont sources de conflits et d'agressions tout en en faisant une promotion trompeuse : «L'humanité heureuse et uniforme est un fantôme sans beauté et sans charme, mais l'ethnie est, bien entendu, un phénomène parfaitement réel. Qu'est ce qu'une ethnie sans son système d'idées religieuses et étatiques ?» (2).
Toute la philosophie de l'histoire développée par Konstantin Leontiev projette sur ces questions une lumière qui, bien que crue, est loin d'être aussi cynique que ses contempteurs voudraient le faire croire.
«La liberté, l'égalité, la prospérité (notamment cette prospérité) sont acceptés comme des dogmes de la foi et on nous affirme que cela est parfaitement rationnel et scientifique. Mais qui nous dit que ce sont des vérités ? La science sociale est à peine née que les hommes, méprisant une expérience séculaire et les exemples d'une nature qu'ils révèrent tant aujourd'hui, ne veulent pas admettre qu'il n'existe rien de commun entre le mouvement égalitaro-libéral et l'idée de développement. Je dirais même plus : le processus égalitaro-libéral est l'antithèse du processus de développement» (3).
Pour Leontiev, cette loi de l'histoire qu'il nomme processus de développement est une «marche progressive de l'indifférencié, de la simplicité vers l'originalité et la complexité», mais loin de tendre vers une amélioration constante, vers un bonheur complet et épanoui, qui n'est, en définitive, qu'une abstraction, cette marche connaît une forme d'arrêt qui se traduit par une simplification inverse dont Leontiev analyse trois phases : le mélange, le nivellement et, finalement, l'extinction.
Selon lui, cette loi quasi cyclique s'observe dans tous les domaines des civilisations historiques. Et, ce que nous appelons unanimement progrès, il le distingue très nettement de ce processus de développement, le nommant «diffusion» ou «propagation» et l'attachant à cette phase dissolvante de «simplification syncrétique secondaire» : «[…] l'idée même de développement correspond, dans les sciences exactes d'où elle a été transférée dans le champs historique, à un processus complexe et, remarquons-le, souvent contraire au processus de diffusion, de propagation, en tant que processus hostile à ce mécanisme de diffusion» (4).
Ainsi, dans les pages de son maître-livre Byzantinisme et slavisme, Leontiev scrute scrupuleusement les mouvements, les courants, lumineux et obscurs de l'histoire, leurs lignes droites, leurs déviations, leurs dérivations, sans jamais se laisser prendre aux rets des lumières crépusculaires des idéologies. Admirateur avoué de l'idée byzantine et de sa réception créatrice en Russie, Leontiev refusera pourtant l'idéal slavophile, tout autant, mais cela paraît plus «logique», que l'occidentalisme. Profondément fidèle, quoiqu'avec une élégante souplesse, à la vision des lignes de force et de partage qu'il avait su dégager de l'histoire ancienne et récente, Leontiev repèrera dans tous les courants contemporains la même force agissante : «La marche tranquille et graduelle du progrès égalitaire doit avoir vraisemblablement sur le futur immédiat des nations une action différente de celle des révolutions violentes qui se font au nom de ce même processus égalitaire. Mais je prétends que, dans un avenir plus éloigné, ces actions seront similaires. Tout d'abord un mélange paisible, l'effondrement de la discipline et le déchaînement par la suite. L'uniformité des droits et une plus grand similitude qu'auparavant de l'éducation et de la situation sociale ne détruisent pas les antagonismes d'intérêts, mais les renforcent sans doute, car les prétentions et les exigences sont semblables. On remarque également que, partout, vers la fin de l'organisation étatique, l'inégalité économique devient plus grande à mesure que se renforce l'égalité politique et civique» (5).
Bien qu'il ait considéré, en littérature, le réalisme comme désespoir et auto-castration, c'est bien à cause de son réalisme qu'il ne voulut jamais sacrifier à aucune «idée supérieure», que Leontiev a vu se refermer sur lui la porte du placard étiqueté «infréquentables».
La grande faute de Leontiev fut de dire, comme le répétait Berdiaev lui-même, que «l'homme privé de la liberté du mal ne saurait être qu'un automate du bien» ou bien encore que «la liberté du mal peut être un plus grand bien qu'un bien forcé.»
Mais... énorme mais, Berdiaev ne cessa d'essayer de convaincre, et de se convaincre, qu'il était socialiste. Cela suffit pour qu'on entrouvre, même très légèrement, la porte.

Notes
(1) Toutes les citations de Leontiev sont tirées de l'ouvrage Écrits essentiels (L'Âge d'Homme, Lausanne, 2003).
(2) Op. cit., p. 108.
(3) Op. cit., p. 139.
(4) Op. cit., p. 137.
(5) Op. cit., ibid.

L’auteur
36 ans, père de famille, chanteur et auteur breton, créateur de la “cyberevue” bretonne Nominoë et du blog Tropinka, Thierry Jolif, après avoir fondé et animé, pendant plus de dix ans l’ensemble musical Lonsai Maïkov, a étudié la civilisation celtique, le breton et l’irlandais à l’Université de Haute-Bretagne. Il a scruté et médité, durant plusieurs années, les aspects tant pré-chrétiens que chrétiens de la civilisation celtique (religion, art, musique, poésie). Orthodoxe, ayant étudié la théologie, il s’est particulièrement penché sur les aspects théologiques, mystiques et ésotériques du Graal, ainsi que sur l’étude du symbolisme chrétien, de l’écossisme maçonnique, de la philosophie religieuse russe et de l'histoire et de la mystique byzantine.
Il a collaboré aux revues Sophia (États-Unis), Tyr (États-Unis), Hagal (Allemagne), Contrelittérature (France), Terra Insubre (Italie) et est l’auteur de Mythologie celtique, Tradition celtique, Symboles celtiques et Les Druides dans la collection B-A. BA. des éditions Pardès.

jeudi, 13 janvier 2011

Tomislav Sunic à Villeurbanne!

Samedi prochain, 15 janvier, conférence de Tomislav Sunic à Villeurbanne organisée par Terre et peuple

imagesCAOILG1Y.jpgCe Samedi 15 janvier 2011, Tomislav Sunic est l’invité de Terre et Peuple. Le rendez vous est fixé à 19 h 00 précise, au 58 cours Tolstoï, à Villeurbanne (69) .

 

Il viendra nous présenter son dernier livre, Homo Americanus

 

Ayant vécu sous le communisme et possédant une connaissance directe du fonctionnement de la terreur d’État, Tomislav Sunic se trouve dans une position unique pour décrire le glissement actuel de l’Amérique vers ce qu’il qualifie à juste titre de “totalitarisme mou”.

 

De l’Ancien Testament au totalitarisme mou…

 

Mais les origines bibliques de l’Homo americanus ont d’autres conséquences. Pour Sunic, en particulier depuis la Guerre de Sécession et la défaite du Vieux Sud encore si européen à tant d’égards, « le rêve américain est le modèle de la judaïté universelle, qui ne doit pas être limitée à une race ou à une tribu particulière (…) L’américanisme est conçu pour tous les peuples, toutes les races et les nations de la terre. L’Amérique est, par définition, la forme élargie d’un Israël mondialisé (…) Cela signifie-t-il que notre fameux Homo americanus n’est qu’une réplique universelle de l’Homo judaicus ? »

 

Tomislav Sunic, essayiste croate et traducteur, ayant longuement séjourné aux États-Unis où il a enseigné la science politique, vit actuellement dans son pays d’origine.

 

Regroupez vous et venez nombreux…

Dans les coulisses de notre temps

Dans les coulisses de notre temps

par Georges FELTIN-TRACOL

15fc0fb96752f8.jpgÉcrit par un collectif d’auteurs dont certains avaient déjà participé à la rédaction du roman d’anticipation politique Eurocalypse et qui ont assimilé l’œuvre de Jean Baudrillard, Choc et Simulacre est un ouvrage dense qui interprète, d’une manière décapante, les grands événements en cours.

Les auteurs s’intéressent à la genèse récente du projet hégémonique des États-Unis. Ils rappellent que, sous la présidence de Bill « Tacheur de robe » Clinton (1993 – 2001), des intellectuels préparaient la domination mondiale de leur pays à travers le Project for a New American Century. Ce programme ambitieux parvint à regrouper « conservateurs réalistes », mondialistes patentés et néo-conservateurs malgré des tensions inhérentes incessantes. Au sein du néo-conservatisme même, le collectif relève que « la base militante […] était à l’origine composée de trois groupes dont les valeurs ne sont pas totalement compatibles, et dont les intérêts divergent largement : le “ big business ”, les milieux pro-Israël, la “ moral majority ” (p. 26) ».

Sommes-nous en présence d’une « entente idéologique » factuelle qui œuvre à la suprématie planétaire de Washington ? Oui, mais sans chef d’orchestre patenté puisqu’il s’y concurrence et s’y affronte divers clivages, d’où les ambiguïtés intrinsèques du « conservatisme étatsunien » au début du XXIe siècle. Le collectif prend pour preuve les études de Samuel Huntington. Son « choc des civilisations » était au départ un article répondant à la thèse de Francis Fukuyama sur la fin de l’histoire et le triomphe final du libéralisme. Certes, Huntington y exprimait une vision étatsunienne du monde en distinguant l’Occident euro-atlantique d’une civilisation européenne orthodoxe et en niant toute particularité à l’Europe. Pourtant, même si son thème du « choc des civilisations » va être instrumentalisé au profit du mondialisme yanqui conquérant, Huntington comprit ensuite, dans son dernier essai, Qui sommes-nous ?, que le « choc des civilisations » atteignait les fondements des États-Unis avec une lente « latino-américanisation » de sa patrie…

Les méandres du pouvoir réel à Washington

Les interventions militaires en Afghanistan (2002) et en Irak (2003) marquent l’apogée du néo-conservatisme et donc le début de son déclin à l’intérieur de la « coalition » dominante. « La fracture entre néo-conservateurs d’une part, mondialistes et conservateurs réalistes d’autre part, continue à perdurer, mais désormais, ce sont à nouveau les conservateurs réalistes qui mènent la danse, ayant récupéré le soutien clair et fort des milieux mondialistes (p. 63). » Par ailleurs, le plan « néo-con » a échoué auprès de la population U.S. qui réagit maintenant par le phénomène du Tea Party. Cette nébuleuse mouvementiste présente de fortes inclinations libertariennes et isolationnistes (mais pas toujours !).

Avec ce retour au réel géopolitique, on assiste au regain d’influence de Zbigniew Kazimierz Brzezinski – que les auteurs désignent par ses initiales Z.K.B. -, qui est probablement le plus talentueux penseur géopolitique des États-Unis vivant. Bien que démocrate, ce conservateur réaliste s’active en faveur d’« un ordre mondial aussi unifié que possible, au sein duquel les élites anglo-saxonnes sont prédominantes (p. 47) ». Z.K.B. réactualise de la sorte les vieux desseins de Cecil Rhodes, de la Fabian Society et de l’« Anglosphère » en partie matérialisée par le système Échelon. Ainsi, « l’objectif de la conquête de l’Asie centrale doit être, selon Z.K.B., d’assurer la victoire non de l’Amérique proprement dite, mais plutôt celle d’un Nouvel Ordre Mondial entièrement dominé par les grandes entreprises multinationales (occidentales principalement). Le Grand Échiquier se présente d’ailleurs comme un véritable hymne aux instances gouvernantes du mondialisme économique (Banque mondiale, F.M.I.). Z.K.B. est le premier patriote du Richistan – un pays en surplomb de tous les autres, où ne vivent que les très, très riches (p. 49) ».

Faut-il ensuite s’étonner d’y rencontrer le chantre des « sociétés ouvertes », le co-directeur de la célèbre O.N.G. bien-pensante Human Rights Watch et l’instigateur occulte des révolutions colorées, Georges Soros ? Il soutient de ses deniers « l’Open Society Fund […qui] est destiné officiellement à “ ouvrir des sociétés fermées ” (en clair : empêcher les États de réguler l’activité des grands prédateurs financiers mondialisés) (p. 55) ». Le collectif évoque une « méthode Soros » qui consiste à « semer le chaos souterrainement pour proposer ensuite la médiation qui rétablit l’ordre (p. 82) ». Il n’y a pourtant ni complot, ni conspiration de la part d’un nouveau S.P.E.C.T.R.E. cher à Ian Fleming et à son héros James Bond…

En analysant la production éditoriale d’outre-Atlantique, les auteurs observent néanmoins une nette « difficulté de la coordination entre le tendances de l’oligarchie fédérée U.S. – une oligarchie qui ne parvient à surmonter son incohérence que par la fuite en avant (p. 77) ». En effet, les différentes tendances de la « coalition hégémoniste » veulent d’abord défendre leurs propres intérêts. Ils rappellent en outre l’importance du lobby israélien aux États-Unis, groupe d’influence qui ne se recoupe pas avec l’emprise de la communauté juive sur le pays. Ils signalent aussi les liens très étroits tissés entre le Mossad et la C.I.A. au point que « la coopération entre les deux appareils de renseignement va si loin qu’on peut parler d’intégration mutuelle (p. 70) ». Via l’A.I.P.A.C. (American Israel Public Affairs Committee) et d’autres cénacles spécialisés dont l’Anti Defamation League, « spécialisée dans le harcèlement des opposants. Elle utilise très largement l’accusation d’antisémitisme et, d’une manière générale, promeut un “ souvenir ” de la Shoah qui ressemble à s’y méprendre à une stratégie d’ingénierie des perceptions visant à développer, dans la population juive, le syndrome de Massada (p. 67) », Israël est bien défendu outre-Atlantique. Or la diplomatie de la canonnière néo-conservatrice des années 2000, en chassant du pouvoir les Talibans et Saddam Hussein, a favorisé l’Iran et affaibli les soutiens arabes traditionnels des États-Unis (Égypte, Arabie Saoudite, Jordanie). Prenant acte de cette nouvelle donne non souhaitée, « il y aurait donc renversement d’alliance latent entre W.A.S.P. conservateurs réalistes de l’appareil d’État U.S., mondialistes financés par la haute finance londonienne et lobby pro-israélien néoconservateur, avec Z.K.B., le mondialiste réaliste, en médiateur (pp. 64 – 65). »

L’heure du « médiaterrorisme »

Il ne faut surtout pas se méprendre : ces conflits internes, inévitables, n’empêchent pas l’unité en cas de nécessité ou de but commun. Par ailleurs, cette « entente » emploie avec aisance le mensonge, la désinformation, l’intox et le truquage qui « est l’imprégnation progressive de la cible (p. 17) ». L’hyper-classe étatsunienne pratique une nouvelle forme de guerre : la guerre de quatrième génération (G4G). « Faisant suite à la guerre des masses en armes, à celle de la puissance de feu et à la Blitzkrieg, cette quatrième génération est définie comme la guerre de l’information, impliquant des populations entières dans tous les domaines (politique, économique, social et culturel). L’objectif de cette guerre est le système mental collectif de l’adversaire. Et par conséquent, le mental des individus qui composent sa collectivité (pp. 13 – 14). »

Selon les circonstances et les modalités d’emploi, cette G4G s’utilise diversement. « Le terrorisme est un moyen, pour un pouvoir occulte, de conserver le contrôle soit en éliminant un adversaire (instrumentalisation de l’assassin politique), soit en perturbant un processus sociopolitique (stratégie de la tension), soit en poussant un groupe assimilable à l’ennemi à commettre un acte odieux (stratégie du renversement des rôles, l’agresseur réel se faisant passer pour l’agressé – cas le plus célèbre : la conspiration des poudres, dès le XVIIe siècle, en Angleterre) (p. 106). » Les États-Unis ne sont pas en reste dans l’application régulière de cette tactique, de l’explosion de leur navire, U.S.S. Maine, dans la rade du port espagnol de La Havane en 1898 au 11 septembre 2001 en passant par le transport clandestin d’armes pour les Britanniques dans les soutes des navires neutres – dont le Lusitania – coulés entre 1915 et 1917 et l’attaque de Pearl Harbor, le 7 décembre 1941, après avoir imposé un blocus pétrolier contre le Japon et décrypter dès 1936 les codes secrets nippons… Cessons d’être naïfs ! Comme l’avait déjà bien perçu le situationniste italien Censor (1), « la manipulation du terrorisme, voire sa fabrication, est une vieille stratégie de l’oligarchie américano-britannique. Quelques exemples : Giuseppe Mazzini, au service de l’Empire britannique, pour déstabiliser l’Autriche; ou encore l’instrumentalisation notoire de la Rote Armee Fraktion par les services anglo-américains; ou encore l’instrumentalisation des Brigades Rouges par les services U.S. pour se débarrasser d’Aldo Moro, qui voulait associer le P.C. italien au gouvernement démocrate-chrétien (p. 105) ». N’oublions pas le financement et l’entraînement d’Oussama Ben Laden et d’Al-Qaïda par la C.I.A. ou bien le téléguidage de certains éléments des Groupes islamiques armés algériens par quelques agents anglo-saxons en mission commandée contre les intérêts français en Afrique du Nord, au Sahara et au Sahel…

Le terrorisme se voit compléter par l’arme médiatique. « Aux U.S.A., le storytelling est en train de devenir non seulement une méthode de gouvernement (ce qu’il était depuis longtemps), mais le gouvernement lui-même, l’acte de gouverner. La révolution amorcée pendant le Watergate vient de s’achever : désormais, la gestion de la communication est au centre de l’acte de gouverner, elle n’est plus chargée d’accompagner l’action politique, elle est l’action politique. Désormais, la politique est l’art de parler non du pays réel, mais de l’imaginaire (pp. 99 – 100, souligné par les auteurs). » Le collectif expose ensuite des cas flagrants de « médiaterrorisme » à partir des exemples irakien, afghan et iranien.

Et là encore, les auteurs apportent un tiers point de vue. Pour eux,  « que l’Irak ait possédé des armes de destruction massive ne fait aucun doute, et les Anglo-Américains étaient bien placés pour le savoir : pour l’essentiel, c’est eux qui avaient fourni ces armes à Saddam Hussein. […] Il est possible qu’en franchissant la ligne séparant armes chimiques et armes bactériologiques, Saddam ait outrepassé les autorisations de ses soutiens occidentaux (pp. 91 – 92) », d’où les rétorsions financières, l’incitation suggérée par Washington de s’emparer du Koweït, la guerre du Golfe, le blocus et l’invasion de l’Irak par les gars de Bush fils.

Quant à la situation iranienne, il est clair que « l’Iran inquiète les Américains précisément parce qu’il est en train de réussir ce que les payas arabes sunnites échouent à accomplir : définir une voie musulmane vers la modernité. Les Iraniens sont en train d’entrer dans l’ère du progrès technologique sans pour autant s’occidentaliser en profondeur. La société iranienne se libère, mais pas pour s’américaniser. Téhéran menace de briser l’alternative piégée où l’Occident a jusqu’ici enfermé le monde musulman : s’occidentaliser ou végéter dans l’arriération (p. 121) ». Bref, « l’Iran est un pays musulman qui a des ambitions… et les moyens de ses ambitions (p. 123) ».

Les auteurs dénoncent le détournement médiatique par les Occidentaux des propos du président Ahmadinejad qui n’a jamais parlé de rayer Israël de la carte ! On nuancera en revanche leur appréciation convenue quand ils estiment que « l’Iran n’est pas une démocratie au sens où les pays occidentaux sont démocratiques [sic ! Nos États occidentaux sont-ils vraiment démocratiques ?], mais c’est un État de droit, où le peuple est consulté régulièrement, à défaut d’être reconnu comme pleinement souverain (p. 131) ». Comme si les électeurs français, britanniques, allemands ou espagnols étaient, eux, pleinement souverains ! La Grasse Presse a orchestré un formidable tintamarre autour de la magnifique réélection en juin 2009 d’Ahmadinejad comme elle déplore l’extraordinaire succès populaire du président Loukachenko au Bélarus le 19 décembre 2010. En fait, les premiers tours des présidentielles iranienne et bélarussienne sont plus justes, conformes et légitimes que l’élection de Bush fils en 2000 ou le second tour de la présidentielle française de 2002 ! Ce n’était pas en Iran ou au Bélarus que se déchaînèrent télés serviles et radios soumises aux ordres contre le candidat-surprise du 21 avril !

On aura compris que, dans cette perspective, « avec la G4G, l’armée des U.S.A. avoue donc qu’elle est l’armée du capitalisme globalisé, et que son arme principale est le marketing. Fondamentalement, dans l’esprit de ses promoteurs, la G4G est la guerre de contre-insurrection d’une armée d’occupation planétaire à la solde du capital (p. 14) ».

Un champ de bataille parmi d’autres…

Et la France ? Craignant « le conflit métalocal, c’est-à-dire à la fois totalement local et totalement mondial (p. 8, souligné par les auteurs) » et pensant que « le retour des nations n’est donc pas forcément celui des États-nations : seuls les États-nations cohérents sous l’angle culturel seront cohérents sous l’angle national (p. 37) ». L’État-nation est-il encore un concept pertinent avec une population de plus en plus hétérogène sur les plans ethnique, religieux et cognitif ? Le sort de France préoccupent les auteurs qui insistent fortement sur l’acuité de la question sociale. Ils notent que les fractures françaises deviennent de très larges béances. Ils décèlent dans ce contexte d’angoisse sociale les premières manœuvres de la G4G. « La guerre civile visible, entre groupes au sein de la population, constitue un terrain propice à la conduite souterraine d’une autre guerre, qui l’encourage et l’instrumentalise, c’est-à-dire la guerre des classes dirigeantes contre les peuples. Par ailleurs, avec le trafic de drogues, on a précisément un exemple de contrôle exercé par des forces supérieures sur les quartiers “ ethniques ”. D’où l’inévitable question ? : et où, derrière la constitution en France de “ zones de non-droit ”, il y avait, plus généralement, une stratégie de déstabilisation latente, constitutive du pouvoir de ceux qui peuvent déstabiliser ? (p. 145, souligné par les auteurs). » La G4G emploie des leurres et des simulacres. « Le simulacre, c’est le choc des “ civilisations ”, c’est-à-dire l’affrontement des peuples et familles de peuples. La réalité, c’est le conflit entre le haut et le bas de la structure sociale, et parfois la recherche d’une entente horizontale entre les composantes du haut de cette structure. Le simulacre, c’est presque exactement l’inverse : conflit obligé entre les structures sur une base civilisationnelle, recherche de l’entente verticale au sein de chacune d’elle (p. 152). » Attention toutefois à ne pas tomber dans le piège réductionniste et à se focaliser sur un seul problème comme l’islamisation par exemple. Les auteurs prennent bien soin de ne pas nier les chocs de civilisations qui parcourent l’histoire. Ils se refusent en revanche d’entériner tant sa version néo-conservatrice que dans sa variante angélique. « Énoncer, par exemple, qu’il n’existerait pas d’antagonisme entre populations d’origine européenne et populations d’origine extra-européenne en France serait non seulement dire une contre-vérité manifeste (et se décrédibiliser), mais encore s’inscrire dans la grille de lecture de l’adversaire, qui veut que la question de l’antagonisme soit placé au centre du débat (p. 153). »

Au bord de l’explosion générale, l’Hexagone se retrouve au centre d’une imbrication de luttes d’influence variées. « Les tensions observées en France ne peuvent se comprendre indépendamment de l’action des réseaux d’influence géopolitiques. On citera en particulier l’action des réseaux F.L.N. au sein de la population d’origine algérienne, le poids de l’islam marocain au sein de l’islam “ de France ”, l’influence certaine des services israéliens (Mossad) au sein de la population juive, à quoi il faut sans doute ajouter des influences construites par les services U.S. (pp. 141 – 142) (2) ». Écrit avant la publication des documents diplomatiques par WikiLeaks, les rapports secrets du département d’État des États-Unis prouvent l’incroyable sape des services yankees auprès des médias hexagonaux, du microcosme germano-pratin et dans les banlieues. Sur ce dernier point, Luc Bronner rapporte que « les Américains rappellent la nécessité de “ discrétion ” et de “ tact ” pour mettre en œuvre leur politique de soutien en faveur des minorités (3) ». L’objectif de Washington demeure d’éliminer une puissance gênante… Loin d’être des combattants de l’islam radical, la racaille des périphéries urbaines est plutôt l’auxiliaire zélé de l’américanisme globalitaire ! Ils en ignorent ses richesses métaphysiques et les expériences soufies et singent plutôt les Gangasta Rap yankees : on peut les qualifier sans erreur d’« Islaméricains ».

Que faire alors ? « La réponse adaptée à la guerre de quatrième génération, c’est la guerre de cinquième génération : la guerre faite pour préserver la structure générale du sens (p. 154) », soit élaborer une métapolitique liée au militantisme de terrain sans portée électorale immédiate. Et puis, ajoutent-ils, « fondamentalement, il faut faire un travail de formation (p. 154) ». Que fleurissent mille séminaires discrets d’où écloront les rébellions française et européenne ! Que se développe un ordonnancement réticulaire, polymorphe et viral des milieux de la dissidence régionale, nationale et continentale ! L’heure des hommes providentiels et des sauveurs suprêmes est révolu ! Dorénavant, l’impersonalité active doit être un impératif pour tous les militants ! Choc et Simulacre nous aide dans la juste compréhension des enjeux actuels.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Alias Gianfranco Sanguinetti. Il publia en 1975, sous ce nom de plume, un Véridique Rapport sur les dernières chances de sauver le capitalisme en Italie, puis en 1980, Du terrorisme et de l’État, la théorie et la pratique du terrorisme divulguées pour la première fois révélant le rôle trouble des services secrets italiens dans les activités des Brigades Rouges.

2 : Il serait bienvenu (un vœu pieu ?) qu’un éditeur traduise en français l’ouvrage récent du journaliste Giovanni Fasanella et du juge anti-terroriste, Rosario Priore, qui, dans Intrigo Internazionale (Chiarelettere éditeur, Milan, 2010), dévoilent la véritable guerre secrète opposant dans les décennies 1970 – 1980 les différents « services » des puissances occidentales et atlantistes. Qui nous dit que les États-Unis ne chercheraient pas à transposer en France ce que l’Italie des « années de plomb » a connu avec une nouvelle « stratégie de la tension », cette fois-ci, activée dans les banlieues ?

Par ailleurs, dans une bande dessinée politique intitulée La Droite ! : petites trahisons entre amis (scénario de Pierre Boisserie et Frédéric Ploquin, dessin de Pascal Gros et couleur d’Isabelle Lebeau, Éditions 12 bis, 2010), les auteurs assènent dans une vignette que dans les années 1970, le S.D.E.C.E. (le contre-espionnage extérieur français) était partagé entre les obligés des Anglo-Saxons et les affidés des services israéliens…

3 : Luc Bronner, Le Monde, 2 décembre 2010.

• Collectif européen pour une information libre présenté par Michel Drac, Choc et Simulacre, Le Retour aux Sources éditeur, 2010, 164 p., 13 €, à commander sur www.scriptoblog.com ou à Scribedit, 33, avenue Philippe-Auguste, 75011 Paris, France.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

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USA: die Angst vor der Katastrophe

USA: die Angst vor der Katastrophe

F. William Engdahl

 

uncle%20sam%20_____.jpgVor einigen Tagen hat US-Finanzminister Timothy Geithner erstmals öffentlich über den drohenden Staatsbankrott der Vereinigten Staaten gesprochen. Fast alle Europäer waren in den vergangenen Wochen durch die Euro-Schwäche ganz auf sich selbst konzentriert. Dabei ist die Lage in den USA weitaus dramatischer als in Europa. Verschuldung und Defizite geraten außer Kontrolle.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/f-w...

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

Giovanni Andriolo

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Turchia, Israele e il grande gioco nei Balcani

I rapporti tra Israele e Turchia, nell’anno appena trascorso, sembrano essere irrimediabilmente deteriorati.

Fin dal 1949, quando la Turchia fu il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo Stato di Israele, Ankara e Gerusalemme si sono mossi nella direzione di un costante avvicinamento reciproco, accelerato negli anni ’90 e culminato nel 1996 con il primo accordo di cooperazione militare.

Il nuovo millennio si era aperto con prospettive positive. Se l’invasione dell’Iraq, nel 2003, da parte della “Coalizione dei Volonterosi” aveva creato una certa ulteriore turbolenza nell’area mediorientale, questa si era ripercossa anche negli equilibri strategici dei paesi vicini. In un tale scenario, la Turchia fu considerata da Israele un importante attore di mediazione tra lo Stato ebraico e i paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente. In accordo con tale prospettiva, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era impegnato nel 2008 in un notevole sforzo diplomatico come mediatore nella crisi ormai quarantennale tra la Siria e lo Stato di Israele.

Tuttavia, con la salita al potere, nel 2002, del “Partito per la giustizia e lo sviluppo”, di matrice islamico-conservatrice di centro-destra, sulla scia dei partiti cristiano-conservatori o cristiano democratici d’Europa, le relazioni tra i due paesi hanno subito un certo raffreddamento.

Se da un lato, infatti, la politica estera turca si è orientata verso un maggiore attivismo nei confronti dei vicini mediorientali, tra cui l’Iran, la Siria, e, recentemente, l’Egitto, questo fatto ha necessariamente comportato un rallentamento della cooperazione con Israele. Nel tentativo di mediare tra le istanze provenienti dall’Occidente europeo e dall’Oriente vicino, due poli che rappresentano, in ultima analisi, le due anime del tessuto storico e sociale turco, la Turchia ha cercato di ricoprire il ruolo che diversi attori si aspettavano da Ankara, ponendosi come vero e proprio ponte tra le due aree. Sotto questo punto di vista, il nuovo orientamento della politica turca ha richiesto un necessario allentamento dei rapporti con Israele, durante i primi anni del 2000.

Successivamente, alcuni eventi internazionali hanno accentuato un tale distacco. Così, se nel 2008 Erdogan era riuscito a mettere in contatto telefonico il Presidente siriano Assad e il Primo Ministro israeliano Olmert, la tragica operazione Piombo Fuso da parte delle forze israeliane verso Gaza, alla fine dello stesso anno, aveva interrotto bruscamente il tentativo di dialogo tra i due paesi, vanificando lo sforzo diplomatico turco e provocando ad Ankara delusione e disappunto.

Tuttavia, è nel 2010 che si consuma la rottura ufficiale tra i due paesi, con il grave incidente avvenuto in acque internazionali ai danni della nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, e con l’uccisione da parte delle forze israeliane di sette attivisti turchi e di uno statunitense di origini turche. In quell’occasione, il Presidente turco Erdogan descrisse l’attacco israeliano come “terrorismo di stato” e ritirò il proprio ambasciatore da Israele. Da quel momento, i rapporti tra i due paesi hanno subito una brusca interruzione.

La Turchia si rivolge ad Est, Israele ad Ovest

L’attuale governo israeliano sembra aver trovato una soluzione all’aggravarsi della crisi con la Turchia. Perseguendo la politica, che tanto cara sembra essere allo Stato di Israele, di creazione di alleanze strategiche con paesi lontani a discapito dei rapporti con i paesi vicini, il Ministro degli Esteri Avigdor Liberman, assieme ai suoi collaboratori, si è impegnato nell’ultimo anno in una serie di incontri con Ministri e Capi di Stato di diversi paesi dell’area balcanica, con i quali ha inteso creare una serie di relazioni economiche, politiche e militari in funzione anti-turca.

Pertanto, se la Turchia sembra guardare verso Oriente e verso i paesi vicini ad est dei propri confini, Israele, d’altra parte, sembra rivolgersi al lato opposto, verso occidente. Questa volta, però, Israele si sta avvicinando ad un occidente nuovo, un occidente più vicino rispetto a quello oltreoceano, un occidente malleabile, e, soprattutto, situato a ridosso della Turchia. Si tratta della penisola balcanica, dell’area geografica che va dai Mari Adriatico e Ionio fino al Mar Egeo ed al Mar Nero, che partendo dalla linea Trieste – Odessa, a Nord, scende verso Sud fino a coprire tutta la Grecia.

È su quest’area che Israele ha concentrato i propri sforzi diplomatici nell’ultimo anno, attraverso una frequenza di visite e incontri ufficiali tutt’altro che sporadica, attraverso la conclusione di accordi di natura economico-militare con diversi paesi della regione, attraverso riferimenti diretti, nei discorsi ufficiali tenuti durante tali missioni, alla Turchia e al pericolo di reviviscenza del terrorismo islamico che i paesi balcanici starebbero correndo.

Le missioni israeliane del 2010 nei Balcani

Già dai primi giorni del 2010, l’apparato diplomatico israeliano ha mosso i primi passi verso l’area balcanica.

Così, il 5 gennaio il Ministro degli Esteri Liberman ha incontrato il Primo Ministro macedone Gruevski a Gerusalemme. Durante l’incontro, Liberman ha affermato che gli Stati balcanici rappresenterebbero la prossima destinazione della “Jihad globale”, che mirerebbe a stabilire infrastrutture nella regione e centri di reclutamento di attivisti. Una settimana dopo, il 13 gennaio, Lieberman ha visitato Cipro, dal cui Presidente ha ottenuto una serie di accordi di carattere commerciale, mentre il 27 gennaio ha incontrato il Primo Ministro ungherese a Budapest. Il giorno seguente, il Vice Ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon si è recato in visita in Slovacchia, nell’intento dichiarato di creare un fronte di opposizione al Rapporto Goldstone. A febbraio, Ayalon ha siglato un protocollo di rinnovo degli accordi sul trasporto aereo con il Ministro dei Trasporti ucraino, stabilendo una serie di agevolazioni di carattere commerciale negli scambi tra i due paesi e abolendo l’obbligo del visto per le visite tra i cittadini di Israele e Ucraina. A marzo, si è svolto a Gerusalemme l’annuale incontro delle delegazioni greca e israeliana, occasione per ribadire i saldi rapporti tra i due paesi e per parlare di sicurezza nella regione mediterranea, in particolare della minaccia rappresentata dall’Iran. In aprile, Liberman si è impegnato in una visita di tre giorni in Romania, dove ha discusso con il Presidente Băsescu di questioni di sicurezza, dilungandosi sulle minacce rappresentate da Iran e Siria. In maggio, si sono svolti incontri tra Liberman e rappresentanti dei governi di Macedonia, Croazia e Bulgaria, durante i quali sono stati discussi piani di cooperazione in ambito economico e commerciale.

Fino a maggio, quindi, gli incontri tra il Ministro israeliano e i suoi colleghi dei diversi paesi balcanici sembravano presentare finalità perlopiù economico-commerciali e di creazione di un consenso in funzione anti-iraniana. Dopo l’attacco alla Freedom Flottilla, avvenuto nel maggio del 2010, e la conseguente rottura delle relazioni con la Turchia, i toni degli incontri di Liberman con i leader balcanici sono cambiati.

Durante l’estate, Liberman ha ricevuto a Gerusalemme il Primo Ministro greco Papandreou. In quell’occasione, il Ministro israeliano ha ringraziato apertamente la Grecia per aver cooperato con Israele in occasione dei recenti fatti della Freedom Flottilla e ha invitato l’Unione Europea a prendere posizione proattiva nei confronti di Libano, Siria e Turchia, affinché questi paesi evitino dannose provocazioni future. L’inclusione della Turchia tra i paesi ostili, a fianco di Libano e Siria, segna da un lato il fallimento del progetto di mediazione, da parte di Erdogan, tra Gerusalemme e Damasco e sancisce, dall’altro, la rottura ufficiale con Ankara. A luglio, si è riunito a Gerusalemme il Comitato Economico Israelo-Ucraino, durante il quale rappresentanti dei due paesi hanno discusso di questioni di carattere economico e commerciale. Con il Ministro degli Esteri ucraino Gryshchenko, poi, Liberman ha firmato un accordo di cancellazione del visto per le visite reciproche dei cittadini dei due paesi. All’inizio di settembre, Liberman si è recato a Cipro e in Repubblica Ceca per discutere con i Ministri degli Esteri locali delle relazioni tra i rispettivi paesi e della sicurezza nella regione. Ad ottobre, Liberman ha siglato un trattato sull’aviazione con il Ministro degli Esteri greco Droutsas. Il trattato prevede, tra l’altro, l’estensione del numero delle rotte aeree tra i due paesi e nuovi meccanismi di negoziazione delle tariffe reciproche. A dicembre, i giornali bulgari hanno mostrato le foto di un incontro a Sofia tra il Primo Ministro bulgaro Borisov e il capo dei servizi segreti israeliani Meir Dagan. Il Presidente bulgaro Borisov avrebbe infatti chiesto, subito dopo la propria elezione, di incontrare Netanyahu per offrire la cooperazione del proprio paese ad Israele in diversi campi: da sicurezza e intelligence al permesso per i piloti israeliani di svolgere esercitazioni sui cieli della Bulgaria. In cambio, Borisov auspicherebbe di ottenere l’aiuto israeliano nello sviluppo di più moderne tecnologie per il proprio paese e l’incremento verso la Bulgaria del flusso di turisti israeliani, che sembrano finora preferire la Turchia. Anche la Grecia avrebbe accordato all’aeronautica israeliana il permesso di esercitarsi sui propri cieli, e altrettanto avrebbe concesso la Romania.

Sempre a dicembre, Liberman ha incontrato in visite ufficiali i Capi di Stato di Bulgaria, Slovenia e Bosnia Erzegovina, ribadendo con tutti i solidi legami tra Israele e i rispettivi paesi. Inoltre, Israele ha fornito all’Albania una serie di aiuti per supportare il Governo locale nell’affrontare gli allagamenti che hanno colpito il paese all’inizio di dicembre.

I vantaggi per Israele e per i Balcani

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, i paesi balcanici sarebbero favorevoli ad un avvicinamento con Israele per diversi motivi. Innanzitutto, la crisi nei rapporti tra Israele e Turchia aprirebbe per i Balcani diverse possibilità per insinuarsi e per sottrarre alla Turchia stessa le relazioni speciali che godeva con Gerusalemme. I paesi balcanici sono tendenzialmente insofferenti alla Turchia per diverse ragioni di carattere storico, religioso, culturale. Molti Stati della regione balcanica hanno subito per lunghi secoli la dominazione ottomana, alcuni (i paesi abitati da Bosniaci ed Albanesi) sarebbero preoccupati da una minaccia di diffusione del fondamentalismo islamico nei propri territori, altri hanno dispute di natura territoriale con la Turchia, altri ancora sperano di risollevare le proprie economie attraverso una stretta cooperazione con Israele.

In quest’ottica, la Bulgaria e la Grecia sembrano essere i due paesi più interessati ad approfondire i rapporti con Israele. La disputa con la Turchia in relazione al futuro di Cipro e la forte crisi economica che ha colpito la Grecia, spingerebbero il Presidente Papandreou verso una comunanza di interessi con Gerusalemme in funzione anti-turca e verso uno sbocco ad est di natura economico-commerciale. D’altra parte, Israele si trova a dover colmare il vuoto di alleanze strategiche lasciato dal deterioramento dei rapporti con la Turchia. La Grecia, in quest’ottica, risulta particolarmente attraente per Gerusalemme, poiché, oltre a presentare un’aperta ostilità nei confronti di Ankara e ad essere posizionata al confine con la Turchia, risulta essere membro dell’Unione Europea e, pertanto, potrebbe rivelarsi una risorsa strategica importante per Gerusalemme all’interno del Consiglio a Bruxelles, assieme ad altri paesi balcanici membri. Per questi motivi, Grecia e Israele hanno dichiarato il 2011 come l’anno della propria collaborazione strategica.

Alcune conclusioni

La regione balcanica assume per Israele, nella congiuntura attuale, un’importanza strategica fondamentale.

Gli ultimi eventi riguardanti Israele e l’uso della forza da parte del suo esercito (si vedano l’operazione Piombo Fuso a Gaza del 2008 o l’attacco alla Freedom Flottilla del 2010) hanno guastato l’immagine del paese sullo scenario internazionale e lo hanno privato di un importante alleato a maggioranza musulmana, la Turchia. Risulta pertanto necessario per Israele recuperare un certo consenso internazionale e colmare il vuoto lasciato ad ovest dall’alleato turco.

La politica del governo di Netanyahu sembra attestarsi, in tali circostanze, in linea con le strategie seguite dallo Stato israeliano fin dalla sua formazione. Piuttosto di instaurare un dialogo con i propri vicini, che nella fattispecie sarebbero rappresentati da Turchia ad ovest e dai paesi mediorientali suoi confinanti ad est, Israele sembra preferire l’avvicinamento con paesi più lontani, ma in grado di effettuare una certa pressione nei confronti dei paesi vicini. In quest’ottica, i paesi balcanici si configurano come l’obiettivo ideale per Israele.

Innanzitutto per motivi geografici: la regione balcanica, infatti, rappresenta il contatto territoriale della Turchia ad ovest del Bosforo con l’Europa. Il confine terrestre turco infatti tocca la Bulgaria e la Grecia, che abbiamo visto essere i principali interlocutori di Israele nei Balcani, e anche via mare la Turchia si affaccia ad ovest sulle coste greche e cipriote. Di fatto, i Balcani rappresentano la porta d’ingresso della Turchia in Europa. Sotto questo punto di vista, l’eventuale ostilità balcanica nei confronti della Turchia rappresenterebbe un ostacolo simbolico e reale non indifferente per le prospettive future del paese di Erdogan.

Il ruolo di ponte tra Occidente ed Oriente che Ankara ha assunto e che molti leader europei ed extraeuropei auspicano non può prescindere da buone relazioni tra Turchia e gli stati confinanti ad ovest come ad est. Tale ruolo è uno degli argomenti più importanti usato dalle voci che stanno promuovendo l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Se, come è già stato sottolineato, il governo turco si è mosso negli ultimi anni verso un avvicinamento dei paesi mediorientali anche in chiave di mediazione (ne è esempio la telefonata del 2008 tra Assad e Olmert organizzata da Erdogan), un rafforzamento dei rapporti con l’Europa risulta di fondamentale importanza. In una tale ottica, uno svilimento delle relazioni tra la Turchia e la regione che rappresenta l’ingresso all’Europa, i Balcani, risulterebbe oltremodo dannosa per il processo di costituzione del ponte turco tra Oriente ed Occidente. Tra i paesi balcanici, la Slovenia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Bulgaria e la Grecia sono già membri dell’Unione Europea, mentre Croazia, Montenegro e Macedonia sono, assieme alla Turchia stessa, i principali candidati. L’ostilità, da parte di questi paesi, verso la Turchia e verso il suo ingresso nell’Unione Europea potrebbe compromettere la saldatura di Ankara con Bruxelles e far crollare uno dei due lati del ponte, quello occidentale.

In quest’ottica, Israele può soltanto guadagnare da un tale scenario. Se, infatti, il progetto del ponte turco fosse portato a termine e la Turchia diventasse veramente un mezzo di mediazione delle istanze occidentali ed orientali, l’importanza del consenso dello Stato di Israele nella regione passerebbe in secondo piano. Infatti, le pressioni da parte mediorientale e da parte europea, una volta coese dalla mediazione turca, risulterebbero insopportabili per Gerusalemme, che si troverebbe costretta ad accordare condizioni di pace, magari non così vantaggiose per Israele, ai palestinesi e ai paesi vicini, come la Siria, con cui sussistono ancora dispute territoriali.


* Giovanni Andriolo, dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), collabora con la rivista Eurasia.

Krantenkoppen - Januari 2011 / 06

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Krantenkoppen

Januari 2011 - 06

 
'Fraude met Europese geldstromen jarenlang verzwegen'
De rapportage van de Europese Rekenkamer is jarenlang stelselmatig gesaboteerd. Dat stelt oud-Rekenkamerlid Maarten Engwirda in een interview met de Volkskrant. Kritiek op gesjoemel met Europees geld werd in de regel onder het tapijt geschoven.
http://www.ad.nl/ad/nl/1000/Nieuws/article/detail/562564/...
 
'Knokploeg op krakers Munt afgestuurd'
De krakers die sinds gister het pand op de Munt bezetten, hebben vandaag bezoek gehad van een knokploeg, zo zeggen ze zelf. De knokploeg zou zijn gestuurd door de eigenaar van het pand, vastgoedbeheerder Willem Speerstra Junior.
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Heisa over reis langs Hitler-monumenten
Plannen voor een toeristische trip langs locaties die voor Hitler belangrijk waren, hebben tot felle kritiek geleid. De luxueuze achtdaagse trip a 2400 euro per persoon is een idee van vier Britse reisleiders.
http://www.ad.nl/ad/nl/1000/Nieuws/article/detail/562467/...
 
'Turkse jongeren dreigen te ontsporen'
De maatschappelijke positie van Nederlands-Turkse jongeren is bijzonder zorgwekkend. Dat stellen tien Turks-Nederlandse professionals, onderzoekers, pedagogen en beleidsadviseurs in een manifest op volkskrant.nl.
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Uitgever Suske en Wiske boos op Vlaams Belang
De Belgische uitgever van de Suske en Wiske-reeks distantieert zich van een Vlaams Belang-kalender met de striphelden op de cover. De kalenders werden door de rechts-nationalistische partij uitgedeeld op de nieuwjaarsreceptie van de stad Gent.
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Zestien uur werkstraf in Anne Frank Huis voor Jodenhaat
De achttienjarige Omar E. uit Utrecht, die zich schuldig heeft gemaakt aan het discrimineren van Joden in een filmpje op internet, moet zestien uur in het Anne Frank huis gaan werken.
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Japan boos op Nederland na aanval Sea Shepherd
Een Japanse walvisvaarder is zondag op zee belaagd door Sea Shepherd, extremistische dierenactivisten die varen onder Nederlandse vlag. Japan is boos en wil dat Nederland ingrijpt.
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Minister Opstelten gaat wiettelers koophuis afpakken
Minister van Veiligheid en Justitie Ivo Opstelten (VVD) wil de koophuizen en bedrijfspanden van criminelen met een wietplantage afpakken. Opstelten is over de maatregel in gesprek met banken en hypotheekverstrekkers.
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Politie gaat kentekens bewaren
De politie zal de kentekengegevens van auto's die bij automatische cameracontroles worden geregistreerd, in het vervolg nog vier weken bewaren. Dat maakt minister Opstelten (Veiligheid en Justitie, VVD) vandaag bekend, zo schrijft De Telegraaf.
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Hoofddoek blijft verboden
Op het Don Bosco College in Volendam blijven hoofddoekjes vooralsnog verboden. De school beraadt zich tot donderdag 20 januari over het oordeel van de Commissie Gelijke Behandeling (CGB). Die stelt dat de school discrimineert op basis van godsdienst.
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Twijfels over strafbaarheid A-C-A-B
De Hoge Raad heeft twijfels bij de strafbaarheid van de afkorting A-C-A-B. De zaak tegen een man die vanwege de afkorting was gearresteerd, moet daarom over.
http://nos.nl/artikel/210899-twijfels-over-strafbaarheid-...
 
Mogelijke contactpersonen ETA met FARC vast
In een gezamenlijke actie hebben de Spaanse en Franse politie dinsdag twee personen opgepakt die worden verdacht van betrokkenheid bij de Baskische terreurbeweging ETA. De verdachten zouden contacten hebben gehad met de Colombiaanse guerrillabeweging FARC.
http://www.refdag.nl/nieuws/buitenland/mogelijke_contactp...
 
Politie Moskou sluit plein uit vrees voor rellen
De politie van Moskou heeft dinsdag een deel van het Manesj-plein, vlak naast het Kremlin, afgesloten. Twintig personen die ervan verdacht worden deel te hebben willen nemen aan een demonstratie werden opgepakt. De politie vreest voor een herhaling van de rellen van vorige maand, waarbij ultranationalisten demonstreerden tegen de aanwezigheid van niet-Slaviërs in Rusland.
http://www.trouw.nl/nieuws/wereld/article3375362.ece/Poli...

Kritik an Zensur von "Tom Sawyer" wächst

Kritik an Zensur von „Tom Sawyer“ wächst

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

tom%20sawyer.gifMONTGOMERY. Kritiker haben empört auf die „politisch korrekte“ Neuauflage von „Die Abenteuer von Tom Sawyer und Huckleberry Finn“ reagiert. Die New York Times schreibt in einem Leitartikel, dem Werk würde durch die zensierte Neuauflage „irreparabler Schaden“ zugefügt. „Das ist nicht Twain“, sagt die wichtigste Tageszeitung in den  USA.

Gegenüber dem auflagenstärksten Boulevardblatt USA Today sagte der Direktor des Mark-Twain-Museums in Hartford (Conneticut) Jeff Nichols über das gestrichene Wort „Nigger“: „Das Wort mag schrecklich sein, mag verletzend sein, aber es gibt einen Grund dafür, daß es da ist.“ Schließlich sei es dem Autor darum gegangen, die Welt der 40er Jahre des 19. Jahrhunderts in Missouri zu portraitieren. Der Jura-Professor Randall Kennedy von der Harvard Universität sagte mit Blick auf das N-Wort, es sei „grundfalsch ein Wort aus unserer Geschichte einfach auslöschen zu wollen.“

Fliegt Mark Twain aus dem Unterricht?

Hintergrund ist die Neuauflage des bekanntesten Romans des amerikanischen Schriftstellers Mark Twain „Die Abenteuer von Tom Sawyer und Huckleberry Finn“. Das vielgebrauchte Wort „Nigger“ wurde durch „Sklave“ ersetzt und das ebenfalls als Schimpfwort empfundene „Injun“ durch „Indianer“. Der Roman handelt in den amerikanischen Südstaaten in der Zeit der Negersklaverei.

Der kleine New South Books Verlag begründete die Neuauflage, die im Februar auf den Markt kommt, mit der drohenden Zensur durch amerikanische Bildungseinrichtungen. Andernfalls drohe das Werk Twains aus dem Unterrichtmaterial amerikanischer Schulen und Universitäten entfernt zu werden, teilte der Verlag aus Montgomery (Alabama) mit. Der Verlag war so verunsichert, daß er noch nicht einmal die Worte nennen wollte, die durch „weniger verletzende Worte“ ersetzt worden sind. (rg)

Les Indo-Européens de Jean Haudry


Les Indo-Européens de Jean Haudry

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Evola on the Egyptian & Tibetan Books of the Dead

Evola on the Egyptian & Tibetan Books of the Dead

Translation anonymous, revised by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Boris De Rachewiltz
Il libro dei Morti degli antichi Egiziani
Milan: All’Insegna del Pesce d’Oro, 1958

egyptelm.jpgThis publication fills a gap long felt by the many students of the history of religions, since previous editions of the Book of the Dead, this most important document of ancient Egypt, have long been unavailable. The works of Lepsius (1842), Naville (1886), Pierret (1882), Sir Peter Le Page Renouf (1904), and Schiaparelli (1881–1890) can only be found in libraries. The only edition reprinted has been the 1953 edition by E. A. Wallis Budge with facsimiles of the papyri.

Mention should also be made of the G. Kolpaktchy edition published in French and Italian. But it is of little use from the scientific point of view, for the author, animated by the praiseworthy desire to give the inner esoteric sense of many passages of the text has too often been carried away by his imagination, or, worse still, allowed himself to be influenced by dubious ideas taken from modern Theosophy.

The edition and translation by De Rachewiltz—handsomely printed—is based on the Turin papyrus, photographic reproductions of which face the pages of the translation so that any who wish may compare the two. The text is of the Saite Book of the Dead, which is more recent than the Theban version. It was studied and reproduced only by Lepsius, and it is more complete than the Theban version, as it represents the final stage of its development in which the basic themes have been preserved apart from several re-elaborations and additions.

The translation is such that it can serve the purposes of both the specialist and the cultured reader interested in the documents of traditional spirituality. For such readers a little glossary has been added to the translation, which explains the leading themes of the Egyptian mythical-religious world that recur in the text. The translation adheres in the main to the literal meaning of the text, but it does so generally in a way that does not hinder a symbolic or esoteric interpretation, which texts of this kind always allow.

It would be interesting—and would come within the scope of this Review—to draw a comparison between the Egyptian Book of the Dead and the Tibetan, Bardo Thödol, first made known by Evans Wenz and later by Professor Tucci, who used more complete text. The idea common to both is that after death the soul still has the ability to take actions on which its fate will depend. It can, in a certain way, overcome destiny, modifying the course it would otherwise follow. To express it in oriental terms, it may be said that it has the power of suspending the effects of the karma.

 

It should however be noted that this does not refer to just any kind of soul. The Tibetan text shows that the soul is always that of a person who had already travelled part of the way to liberation during his life.

In the case of the Egyptian text, De Rachewiltz points out that it became the Book of the Dead in general only through a process of “democratization,” for in the ancient Empire it had been reserved exclusively to members of the Royal House and of the high priesthood. Indeed, originally the so-called “Osirification” was reserved for them only, and only to them was attributed the ka, the “double,” destined to make way for the sahu, the immortal body that “stands up,” that “does not fall.”

The real title of the Egyptian text is The Book to Lead out to the Day. The real meaning of this expression, imperfectly understood by several translators, alludes to the supreme purpose: to go out into the day means to go out into the immortal light, the invisible light of Amenti. In the Tibetan ritual, as is known, the meeting with absolute light is the first experience and the first test the soul of the dead encounters. An essential part of the Egyptian ritual is overcoming “the second death,” that is to say the disintegration of the spiritual and psychic nucleus detached from the body by the first death (the death of the physical organism). In this connection the motive of an existential danger, of a fundamental risk encountered in the beyond, often acquires highly dramatic features in the Egyptian text. At the same time, the Egyptian text attributes more importance to behavior of a magic and determinative character than does the Tibetan, which accentuates rather the importance and power of knowledge.

tibetlm.jpgNevertheless, there are many parallel points between the two texts dealing with the liberating identifications. Just as in the Tibetan ritual the destruction of the appearance of distinct entities, which all things perceived in the experiences of the other world may acquire, is indicated as a means of liberation, so in the Egyptian text formulae are repeated by means of which the soul of the dead affirms and realizes its identity with the divine figures.

In addition to these, there are the formulas for “transformation.” The soul acquires the capacity of making itself manifest in the form of one or other of the cosmic powers, which in the text are made to correspond mostly to the symbolic theriomorphic figures. It is only through a misinterpretation of these references that some have been led to suppose that the doctrine of reincarnation was part of the ancient esoteric teachings of the Egyptians.

Unfortunately, the Egyptian text as it has come down to us is not systematic in character. The formulas are often presented miscellaneously. Apart from spurious features of a folkloric character, the positions taken fluctuate frequently. There are spiritual ups and downs, inner shortcomings, invocations of a religious and mystical nature.

Yet spite of all this, the prevailing character of the most ancient, clear, and essential portions of the text is most certainly inspired by magic. The soul humbles itself so little in the presence of the ultramundane divinities that it sometimes threatens them with destruction. This is the case even with Osiris and Ra, with reference to the principle of a kind of “transcendent virility.” The soul even asserts a substantial metaphysical connection between itself and the divine essences, sometimes even declaring that its salvation is also theirs. The “opening of the mouth,” by which is meant the reacquisition of the magic power of the word, which can render the formulas efficient and irresistible, “breathing the breath of life,” thus becoming a Living Being, having power over the Waters, taking a Name which does not die, these are the most luminous themes in the vicissitudes of the other world.

The Egyptian text was recited at funerals, as the Tibetan Bardo Thödol was read to the dying and even after their death. In either case the purpose was to help the soul not to forget, to stand up and remain active. De Rachewiltz, moreover, rightly calls attention to the fact that several passages suggest that the Egyptian formulas were used also during life and were held to be useful to the living, so one may recognize in the text the character of a magic ritual in the proper meaning of the words. This may indeed apply not only to some special formulas but to the text as a whole if it be referred to the rites of initiation, for it was unanimously believed in the ancient world that the experiences of initiation corresponded to those of life beyond the grave and that therefore the proceedings required in either case to overcome the “second death” and reach “Osirification” were the same.

In calling attention to this new publication, we would again point out that it makes an important contribution also to those who wish to make a comparative study of Oriental and Western traditions which, in a certain sense, find a connecting link in the traditions of ancient Egypt.

East and West, vol. 10, nos. 1 and 2 (March–June 1959): 126–27.

mercredi, 12 janvier 2011

Radio Courtoisie: Force et Honneur & Homo Americanus

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Samedi midi vous êtes pris!
Le Libre Journal des Lycéens sera consacré à la sortie de l'ouvrage collectif Force & Honneur, 30 batailles qui ont marqué la France et l'Europe aux éditions Les Amis du Livre Européen. Nous aurons le plaisir de recevoir les éditeurs Eugène Krampon et Gérard Vaudan, ainsi que notre chroniqueur favori, Pascal Lassalle, qui a écrit l'article sur la bataille de Teutobourg, Lajos Marton pour l'insurrection de Budapest, et Robert Steuckers concernant la Bataille de Lépante. Un ouvrage à mettre dans les mains de tous ceux, et notamment les plus jeunes, qui souhaitent mieux connaître leur histoire et la geste européenne.
La seconde partie de l'émission sera consacrée à l'Homo-Americanus, rejeton de l'ère post-moderne en compagnie de Tomislav Sunic et Georges Feltin-Tracol, animateur du site Europe Maxima
Une émission qui s'annonce donc très riche.
Très bonne semaine et à samedi.

--
Romain LECAP
Pour écouter Radio Courtoisie :
Paris 95,6 MHz   Caen 100,6 MHz   Chartres 104,5 MHz
Cherbourg 87,8 MHz   Le Havre 101,1 MHz   Le Mans 98,8 MHz ;
pour toute la France, en clair, sur le bouquet satellite Canalsat (canal 526) ;
pour le monde entier sur www.radiocourtoisie.fr.

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A quand une repentance pour les "captifs en Barbarie"?

A quand une repentance pour les « captifs en Barbarie » ?

Ex: http://www.polemia.com/ 

 

Des centaines de livres sont consacrés chaque année aux Africains vendus (généralement par leurs compatriotes) aux négriers fournissant les colonies d’outre-Atlantique. Un calvaire également détaillé dans de multiples films et émissions de télévision et solennellement évoqué chaque 10 mai par la « Journée commémorative des mémoires de la traite négrière, de l’esclavage et de leur abolition » instituée (sans crainte de la redondance !) par Jacques Chirac en 2005 avant que Nicolas Sarkozy n’y aille de sa larme le 8 janvier dernier lors de son hommage antillais à Aimé Césaire. Mais qui rappelle le martyre des esclaves blancs, plus d’un million selon l’historien anglais Giles Milton ?

captifs.jpgDans son roman policier Le Phare, paru en 2008 à LGF/Livre de Poche et qu’elle situe à Combe Island, au large de la Cornouailles, l’Anglaise P. D. James signale à plusieurs reprises la terreur exercée par les pirates maghrébins, surtout ceux de Rabat-Salé, sur les côtes sud de l’Angleterre où ils s’étaient emparés de plusieurs îles, transformées en bastions. Le sort tragique et « l’histoire extraordinaire des esclaves européens en terre d’islam », c’est justement ce qu’a étudié l’historien Giles Milton, anglais lui aussi, dans Captifs en Barbarie.

Plus d’un million d’esclaves blancs

On sait quelle ampleur avait prise la piraterie barbaresque en Méditerranée et le péril qu’elle faisait courir aux populations riveraines, au point que la prise de la Régence d’Alger par la France, en 1830, fut approuvée et accueillie avec soulagement par toute l’Europe. Même si une cousine de la future impératrice Joséphine, la Créole Aimée Dubuc de Rivery, qui avait pris place sur un bateau pour la Métropole, vit le navire arraisonné et ses passagers vendus en esclavage, elle-même étant destinée au harem du sultan de Stamboul, on sait moins que cette piraterie fut presque aussi active dans l’Atlantique. A partir des côtes marocaines furent ainsi razziés aux XVIIe et XVIIe siècle non seulement des Britanniques mais aussi des Scandinaves, des Islandais, des colons du Groenland et même des Américains.

Après de longs recoupements, Giles Milton estime à plus de un million le nombre des esclaves occidentaux dont une infirme minorité put recouvrer la liberté, grâce au versement d’une rançon ou par évasion — cas du Cornouaillais Thomas Pellow, enlevé en 1715 à l’âge de onze ans, enfin libre vint ans plus tard et dont l’autobiographie publiée en 1740, après son miraculeux retour en Angleterre, sert à l’auteur de fil conducteur.

A l’époque comme aujourd’hui en Afghanistan et surtout en Afrique (qu’on pense à la Somalie, au Mali où croupissent plusieurs Français), la prise d’otages occidentaux était pratiquée à grande échelle pour obtenir d’abord d’extravagantes rançons, surtout quand ces otages étaient de hauts personnages, mais aussi pour obtenir aussi des appuis politiques et des retournements d’alliances. Ainsi le Maroc multiplia-t-il au début du XVIIe siècle les razzias d’Anglais dans le dessein d’obliger le roi Jacques 1er Stuart à attaquer l’Espagne.

Une main-d’œuvre à bon marché

Mais la cause principale était évidemment de se procurer au moindre coût une énorme main-d’œuvre. Celle-ci étant par exemple nécessaire à la réalisation des projets pharaoniques du sultan alaouite Moulay Ismaïl qui régna de 1672 à 1727 et dont l’obsession était de surpasser Louis XIV, qu’il sommait d’ailleurs de se convertir à l’islam… Ce qui n’empêchait d’ailleurs pas ce fervent musulman de se saouler rituellement à mort pour fêter la fin du ramadan ! Pour que son ensemble palatial de Meknès, avec notamment le Dar el-Mansour, « haut de plus de cinquante mètres », fût infiniment plus vaste et plus imposant que Versailles, le monarque avait donc besoin d’une masse d’ouvriers mais aussi d’artisans, de contremaîtres et d’architectes que seuls pouvaient lui procurer les pirates écumant les côtes européennes. Selon l’historien arabe Ahmad al-Zayyani cité par Milton, il y eut simultanément à Meknès jusqu’à 25 000 esclaves européens, soit une population « à peu près égale à celle d’Alger ».

Certes, il y avait un moyen pour les captifs d’adoucir leur servitude : embrasser l’islam, comme l’avait fait le renégat hollandais Jan Janszoon, devenus l’un des plus redoutables et des plus riches chefs pirates sous le nom de Mourad Raïs. Mais la foi étant encore si grande et si profonde à l’époque, bien peu s’y résolurent, préférant l’enfer sur terre à l’Enfer au Ciel.

Car c’est bien la géhenne que ces malheureux subissaient sous la férule d’une sanguinaire Garde noire, qui terrorisait autant qu’elle surveillait. Ces Noirs, « d’une hauteur prodigieuse, d’un regard épouvantable et d’une voix aussi terrible que l’aboiement de Cerbère » selon l’ancien esclave français Germain Moüette, n’hésitaient pas à recourir aux châtiments les plus extrêmes, voire à la peine capitale, à l’encontre des prisonniers rétifs, ou simplement trop malades et donc incapable de fournir le labeur exigé d’eux malgré les rations de vin et d’eau-de-vie procurées par les juifs, courtiers habituels entre les pirates et Moulay Ismaïl.

Non content de procéder aux pires profanations — après la prise de la place-forte espagnole de la Memora en 1688, le souverain alaouite se fit apporter les statues de la Vierge et des saints afin qu’il puisse « cracher sur elles » avant de les faire briser— Moulay Ismaïl prenait grand plaisir au spectacle de la torture. Selon le récit de Harrison, ambassadeur anglais venu négocier le rachat de ses compatriotes et surtout des femmes, le sultan, qui se déplaçait volontiers sur un « char doré, tiré non par des chevaux mais par un attelage d’épouses et d’eunuques », pour la plupart européens, « faisait battre les hommes presque à mort en sa présence, certains sous la plante des pieds et il les forçait ensuite à courir sur des cailloux et des épines. Certains des esclaves avaient été traînés par des chevaux jusqu’à être mis en pièces. D’autres avaient même été démembrés alors qu’ils étaient encore vivants, leurs doigts et orteils coupés aux articulations ; bras et jambes, tête, etc. »

L’un des chapitres les plus sombres de l’histoire de l’humanité

Un traitement sadique que ne subirent jamais les victimes de la traite triangulaire. « Etre esclave en Géorgie, voilà le vœu d’un ouvrier lyonnais », devait d’ailleurs écrire l’humoriste français Alphonse Karr à la veille de la guerre de Sécession. Certes, tous les « captifs en Barbarie », et notamment au Maroc, pays dont on nous dit être de haute civilisation et profondément humaniste, ne furent pas traités de manière aussi inhumaine. Comme dans d’autres camps, plus récents, beaucoup succombèrent non sous les coups ou la question, mais du fait d’épidémies décimant des organismes affaiblis par la faim, le froid des nuits d’hiver et surtout une promiscuité immonde, les esclaves regroupés dans des cellules surpeuplées vivant dans leurs immondices.

Nul ne saurait bien sûr, et surtout pas notre Nomenklatura politique (Nicolas et Carla Sarkozy, Jacques et Bernadette Chirac, Dominique et Anne Strauss-Kahn, Béatrice et Jean-Louis Borloo, Patrick et Isabelle Balkany, Ségolène Royal, Jean-Paul Huchon et quelques autres) qui vient de passer Noël au Maroc, exiger une repentance en bonne et due forme de la part de « notre ami le roi » Mohamed VI, actuel descendant de l’Alaouite Moulay Ismaïl. Mais l’Ecole de la République, si prolixe sur le sort des esclaves noirs, ne pourrait-elle du moins renseigner nos chères têtes blondes, et autres, sur ce que fut de l’autre côté de la Méditerranée le sort des esclaves blancs ? Cette ordalie subie par plus d’un million d’Européens constitue, Giles Milton est formel sur ce point, « l’un des chapitres les plus sombres de l’histoire de l’humanité ». Pourquoi en est-elle aussi le chapitre le plus systématiquement occulté ?

Claude Lorne
08/01/2011

Giles. Milton, Captifs en Barbarie / L’histoire extraordinaire des esclaves européens en terre d’Islam, traduction de l’anglais de Florence Bertrand, Payot coll. Petite Bibliothèque, 2008, 343 pages, 9,50€

Correspondance Polémia – 09/01/2011

Voreilige Verunglimpfung

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Voreilige Verunglimpfung

Von Jan Mainka

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Für viele deutsche Politiker und Medien ist es eine unangenehme Tatsache, daß in einem Mitgliedsstaat der EU, nämlich Ungarn, eine kompromißlos konservative Partei mit einer soliden Zweidrittelmehrheit regiert und sich in der Bevölkerung noch immer einer ungebrochen hohen Unterstützung erfreut.

Daß dieses Land – angeblich auf dem „Marsch in den Führerstaat“ (Die Welt) – nun kraft der EU-Ratspräsidentschaft den „guten“ EU-Staaten vorstehen soll, ist für manchen im Westen offenbar zuviel. 

Doch, was für ein Geschenk des Himmels: Einige Wochen vor der Amtsübernahme machte der im Umgang mit seinen Kritikern nicht eben diplomatische ungarische Regierungschef, Viktor Orbán, Avancen, ein neues Mediengesetz zu erlassen.

Gesetzestext war noch gar nicht übersetzt

Obwohl der endgültige Text des Gesetzes zunächst nur auf Ungarisch veröffentlicht und erst am Montag in englischer Übersetzung nach Brüssel übermittelt wurde, konnten sich schon Wochen vorher die Kritiker im Ausland zum Inhalt äußern.

So treffsicher, daß die ungarische Opposition ihre Angriffe auf Gesetz und Regierung zu wesentlichen Teilen aus den scharfsinnigen Kommentaren der deutschen Rezensenten speisen konnte.

Jan Mainka ist Gründer und Herausgeber der Budapester Zeitung

Die USA vor der Staatspleite

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Michael WIESBERG:

Die USA vor der Staatspleite

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Um an dieser Stelle gleich den Faden meines letzten Blogs aufzunehmen,
in dem unter anderem von dem maroden US-Staatshaushalt und den Konsequenzen für die globale Hegemoniestellung der USA die Rede war. Die besorgte Analyse, die einige Autoren in der Nov./Dez.-Ausgabe der Zeitschrift Foreign Affairs ausbreiteten, hat gleich zu Jahresbeginn eine dramatische Zuspitzung erfahren. Kein Geringerer nämlich als der amtierende US-Finanzminister Timothy Geithner hat die Kongreßabgeordneten vor einer drohenden Staatspleite der Vereinigten Staaten gewarnt.

Laut Geithner könnten die Konsequenzen einer derartigen Pleite die Auswirkungen der Finanzkrise des Jahres 2008 noch übertreffen. Eine Einschätzung, die von Obamas „Top-Wirtschaftsberater“ Austan Goolsbee geteilt wird, der die Folgen für die US-Wirtschaft als „katastrophal“ charakterisierte. Die Staatspleite der USA wäre ein Vorgang, der „in der Geschichte der USA noch nie dagewesen“ sei.

Die „größte Haushaltserosion der Geschichte“

Derzeit seien die USA laut Medienmeldungen nur noch 400 Milliarden Dollar von der (derzeitigen) Obergrenze für die gesamte US-Staatsverschuldung entfernt, die bei knapp 15 Billionen Dollar liegt. Den USA stehen daher empfindliche Einschnitte im Etat bevor. Obama hat hier insbesondere die Rentenversicherung, Sozialausgaben, aber auch Agrarsubventionen und den Militärhaushalt im Auge.

Abenteuerlich wirkt in diesem Zusammenhang die Forderung der Republikaner nach weiteren Steuersenkungen. Dies auch deshalb, weil die Steuersenkungen der Jahre 2001 und 2003 unter US-Präsident George W. Bush entscheidend zur Schieflage des US-Staatshaushaltes beigetragen haben, wie zum Beispiel Roger C. Altman und Richard N. Haass, derzeit Präsident des Council on Foreign Relations (CFR), in ihrem Beitrag für die obengenannte Foreign Affairs-Ausgabe hervorhoben.

Gründe für die Schieflage

Dieser Schritt, in Verbindung mit den Kosten für die Zuschüsse für rezeptpflichtige Medikamente und die horrenden Kosten der Interventionen im Irak und in Afghanistan, die der CFR-Alterspräsident Leslie H. Gelb auf aktuell rund drei Billionen Dollar bezifferte, haben die US-Staatsausgaben in massive Schieflage gebracht.

George W. Bush sei, so Gelb, gezwungen gewesen, die strikten Budgetvorschriften der 1990er Jahre zu liquidieren, um den Spreizschritt zwischen Kräften, die auf Steuersenkungen pochten, und steigenden Ansprüchen an den Staat vollziehen zu können. Das Ergebnis ist ein ständig größer werdendes Defizit. Gelbs Urteil im Hinblick auf die Ära Bush fällt unmißverständlich aus: „Die acht Jahre der Regierung Bush brachten die größte Haushaltserosion in der Geschichte der Vereinigten Staaten.“

„Apokalyptische“ Perspektiven

Am Ende dieser Regierung, das wird man an dieser Stelle ergänzen dürfen, stand überdies der Ausbruch der Finanzkrise, der weitere exorbitante Belastungen für das Haushaltsbudget brachte. „Apokalyptisch“ nennen Altman/Haass die weiteren Perspektiven für den Staatshalt: Einmal, weil aufgrund der wie in Europa besorgniserregenden demographischen Entwicklung die Gesundheitskosten schon bald in die Höhe schnellen werden.

Zum anderen, weil – bei einem schwachen Wirtschaftswachstum – die Kosten für den Zinsendienst analog zur Schuldenhöhe exponential steigen könnten. Die Schlußfolgerung der beiden Autoren ist eindeutig: „Der Schuldenstand könnte schon bald in stratosphärische Dimensionen durchstoßen.“

Obamas eigentliche Bewährungsprobe

Die Regierung Obama steht derzeit vor ihrer eigentlichen Bewährungsprobe. Sie wird an Steuererhöhungen und, wie bisher so oft, an einer Anhebung der Schuldengrenze, für die sie freilich die Zustimmung der Republikaner braucht, nicht vorbeikommen. Möglicherweise hat Geithner auch deswegen das Schreckensszenario einer „Staatspleite“ in die Debatte eingebracht.

Insbesondere beim Thema Steuererhöhungen sind harte Auseinandersetzungen zu erwarten. Dieses Thema ist in den USA eine Glaubensfrage; entsprechend werden Auseinandersetzungen um dieses Thema in „theologischen Begriffen“ debattiert, wie Altman und Haass betonen. Keine Frage: Die Vereinigten Staaten stehen derzeit an einem Wendepunkt. Selbst wenn Geithners Drohung mit der „Staatspleite“ innenpolitischen Motiven geschuldet ist: Die Supermacht droht im Morast ihrer Schuldenlast zu versinken und könnte ihre bisherige wirtschaftliche Dominanz an China verlieren.

Les confessions d'un Danubien

Despotica, modes d’emploi : les confessions d’un Danubien

par André WAROCH

slobo.jpgQuand j’étais adolescent, le monde orthodoxe et/ou balkanique m’apparaissait comme peuplé de sauvages, prêts à s’étriper pour un morceau de territoire perdu lors d’une obscure guerre antique.

Je me rappelle que mon frère et moi, en regardant à la télévision un match de tennis opposant Yevgeny Kafelnikov à Goran Ivanisevic, plaisantions sur le  fait qu’Ivanisevic voulait gagner à tout prix, les Russes ayant probablement, il y a quelques décennies, incendié son village et violé sa grand-mère.

Mon premier contact avec Slobodan Despot fut la lecture d’un article sur la question slave en Europe, article qui fut le point de départ d’une réflexion que je menais, à mon tour, sur cette partie de l’Europe ayant rejeté le centralisme vaticaniste et l’alphabet latin.

Si ce texte m’avait marqué, en revanche le nom et le prénom de l’auteur s’étaient complètement effacés de mon esprit. C’est ainsi qu’à la suite d’un de mes articles publiés sur Europe Maxima et intitulé « L’Europe et la civilisation orthodoxe » (1), Georges Feltin-Tracol me fit parvenir un message de félicitations provenant d’un certain Slobodan Despot, qui m’apparut évidemment d’emblée comme extrêmement sympathique.

Je finis par faire le rapprochement entre l’homme qui, le premier, avait fait naître chez moi une curiosité certaine pour l’Europe orientale, et celui qui me félicitait, quelques années plus tard, pour la pertinence de mes propos.

Ironie de l’affaire, l’article qui me valait ces louanges contenait, entre autres, une critique virulente de certains propos de Dominique Venner, rédacteur en chef de la Nouvelle Revue d’Histoire. Or, c’est la N.R.H. qui avait publié le fameux texte de Despot sur la question slave, au début des années 2000.

Aujourd’hui, Slobodan Despot nous livre donc Despotica, modes d’emploi, ouvrage constitué de courts textes, de fragments, d’observations. Supérieurement écrits, les textes de Despotica prennent le même chemin que les eaux du Danube, en inversant le sens du courant : prenant leur source quelque part à l’Est, ils s’écoulent lentement vers l’Ouest à travers les Balkans, puis, arrivés au bout de leur périple, se perdent en Occident.

L’auteur nous parle de la Serbie, de sa fille, de la mort d’un ami, de l’Europe malade, de Robert Plant, de Linda Lemay. « Éditeur insoumis et provocant, Slobodan Despot apparaît dans ses propres textes plus méditatif et plus poétique à la fois. » La quatrième de couverture ne ment pas. L’auteur n’est pas un polémiste acharné, remuant avec frénésie son couteau de Tchetnik dans les plaies purulentes de l’Occident. Il gravite pourtant dans un univers souvent ultra-politisé ou se croisent, selon ses propres termes, « guerriers et pamphlétaires », nationalistes français, russes, serbes, gauchistes révolutionnaires, libertariens, irrédentistes de toutes obédiences.

Il y a chez Slobodan Despot cette modestie, ce goût des autres, cette normalité, cette absence de mégalomanie qui lui ont fait choisir le métier d’éditeur. On chercherait en vain dans quelque paragraphe de son livre la moindre trace de haine, d’aigreur et de ressentiment, même quand il défend son pays, la Serbie, martyrisée par une coalition occidentalo-islamo-croate, amputé du Kossovo comme on vous amputerait du cœur. Mais il y a de l’amour chez Despot, chrétien authentique qui ne porte en lui aucune trace de cette perversité, de ce cynisme immonde qui ont fait de l’Europe occidentale leur terre d’élection, et particulièrement en France, qui n’est pas pour rien le pays de La Rochefoucauld.

Slobodan Despot n’est pas un guerrier : mais c’est un rebelle de fait. Il ne vit pas dans le monde moderne, ce monde moderne qui a tellement dévoré l’Occident qu’il est presque devenu son synonyme. Pour cette raison, certains ont voulu cesser d’utiliser, indifféremment,  les mots Europe et Occident pour désigner la même civilisation terminale. Mais qu’est-ce qui fait que l’Europe ne se confond pas encore complètement avec l’Occident/monde moderne, si ce n’est l’orthodoxie ?

A contrario de ses activités éditoriales, il y a chez Despot une douceur, une lenteur, une littérature qu’il faut peut-être chercher dans ses origines. Citoyen suisse d’origine serbe, de langue française et de religion orthodoxe, il connaît de l’intérieur les deux parties de l’Europe. Mais il n’est pas qu’un individu coincé entre ces deux masses gigantesques que sont l’ex-Chrétienté et les fils de Byzance.

La Serbie et la Suisse font de cet homme, issu de deux empires, un provincial de l’Europe, pour être plus précis : un Danubien.

André Waroch

Note

1 : Ce texte ne figure plus sur le présent site. Il se trouve désormais dans André Waroch, Les Larmes d’Europe, préface de Georges Feltin-Tracol, Le Polémarque Éditions, Nancy, 2010 (N.D.L.R.).

• Slobodan Despot, Despotica. Modes d’emploi, préface de Michel Maffesoli, Éditions Xénia, coll. « Franchises », 176 p., 16 €.


Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

URL to article: http://www.europemaxima.com/?p=1829

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Postmodern Challenges: Between Faust & Narcissus

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Robert STEUCKERS (1987):

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 1

In Oswald Spengler’s terms, our European culture is the product of a “pseudomorphosis,” i.e., of the grafting of an alien mentality upon our indigenous, original, and innate mentality. Spengler calls the innate mentality “the Faustian.”

The Confrontation of the Innate and the Acquired

The alien mentality is the theocentric, “magical” outlook born in the Near East. For the magical mind, the ego bows respectfully before the divine substance like a slave before his master. Within the framework of this religiosity, the individual lets himself be guided by the divine force that he absorbs through baptism or initiation.

There is nothing comparable for the old-European Faustian spirit, says Spengler. Homo europeanus, in spite of the magic/Christian varnish covering our thinking, has a voluntarist and anthropocentric religiosity. For us, the good is not to allow oneself to be guided passively by God, but rather to affirm and carry out our own will. “To be able to choose,” this is the ultimate basis of the indigenous European religiosity. In medieval Christianity, this voluntarist religiosity shows through, piercing the crust of the imported “magism” of the Middle East.

Around the year 1000, this dynamic voluntarism appears gradually in art and literary epics, coupled with a sense of infinite space within which the Faustian self would, and can, expand. Thus to the concept of a closed space, in which the self finds itself locked, is opposed the concept of an infinite space, into which an adventurous self sallies forth.

 

From the “Closed” World to the Infinite Universe

According to the American philosopher Benjamin Nelson,[1] the old Hellenic sense of physis (nature), with all the dynamism this implies, triumphed at the end of the 13th century, thanks to Averroism, which transmitted the empirical wisdom of the Greeks (and of Aristotle in particular) to the West. Gradually, Europe passed from the “closed world” to the infinite universe. Empiricism and nominalism supplanted a Scholasticism that had been entirely discursive, self-referential, and self-enclosed. The Renaissance, following Copernicus and Bruno (the tragic martyr of Campo dei Fiori), renounced geocentrism, making it safe to proclaim that the universe is infinite, an essentially Faustian intuition according to Spengler’s criteria.

In the second volume of his History of Western Thought, Jean-François Revel, who formerly officiated at Point and unfortunately illustrated the Americanocentric occidentalist ideology, writes quite pertinently: It is easy to understand that the eternity and infinity of the universe announced by Bruno could have had, on the cultivated men of the time, the traumatizing effect of passing from life in the womb into the vast and cruel draft of an icy and unbounded vortex.”[2]

The “magic” fear, the anguish caused by the collapse of the comforting certitude of geocentrism, caused the cruel death of Bruno, that would become, all told, a terrifying apotheosis . . . Nothing could ever refute heliocentrism, or the theory of the infinitude of sidereal spaces. Pascal would say, in resignation, with the accent of regret: “The eternal silence of these infinite spaces frightens me.”

 

From Theocratic Logos to Fixed Reason

To replace magical thought’s “theocratic logos,” the growing and triumphant bourgeois thought would elaborate a thought centered on reason, an abstract reason before which it is necessary to bow, like the Near Easterner bows before his god. The “bourgeois” student of this “petty little reason,” virtuous and calculating, anxious to suppress the impulses of his soul or his spirit, thus finds a comfortable finitude, a closed off and secured space. The rationalism of this virtuous human type is not the adventurous, audacious, ascetic, and creative rationalism described by Max Weber[3] which educates the inner man precisely to face the infinitude affirmed by Giordano Bruno.[4]

 

From the end of the Renaissance, Two Modernities are Juxtaposed

The petty rationalism denounced by Sombart[5] dominates the cities by rigidifying political thought, by restricting constructive activist impulses. The genuinely Faustian and conquering rationalism described by Max Weber would propel European humanity outside its initial territorial limits, giving the main impulse to all sciences of the concrete.

From the end of the Renaissance, we thus discover, on the one hand, a rigid and moralistic modernity, without vitality, and, on the other hand, an adventurous, conquering, creative modernity, just as we are today on the threshold of a soft post-modernity or of a vibrant post-modernity, self-assured and potentially innovative. By recognizing the ambiguity of the terms “rationalism,” “rationality,” “modernity,” and “post-modernity,” we enter one level of the domain of political ideologies, even militant Weltanschauungen.

The rationalization glutted with moral arrogance described by Sombart in his famous portrait of the “bourgeois” generates the soft and sentimental messianisms, the great tranquillizing narratives of contemporary ideologies. The conquering rationalization described by Max Weber causes the great scientific discoveries and the methodical spirit, the ingenious refinement of the conduct of life and increasing mastery of the external world.

This conquering rationalization also has its dark side: It disenchants the world, drains it, excessively schematizes it. While specializing in one or another domain of technology, science, or the spirit, while being totally invested there, the “Faustians” of Europe and North America often lead to a leveling of values, a relativism that tends to mediocrity because it makes us lose the feeling of the sublime, of the telluric mystique, and increasingly isolates individuals. In our century, the rationality lauded by Weber, if positive at the beginning, collapsed into quantitativist and mechanized Americanism that instinctively led by way of compensation, to the spiritual supplement of religious charlatanism combining the most delirious proselytism and sniveling religiosity.

Such is the fate of “Faustianism” when severed from its mythic foundations, of its memory of the most ancient, of its deepest and most fertile soil. This caesura is unquestionably the result of pseudomorphosis, the “magian” graft on the Faustian/European trunk, a graft that failed. “Magianism” could not immobilize the perpetual Faustian drive; it has—and this is more dangerous—cut it off from its myths and memory, condemned it to sterility and dessication, as noted by Valéry, Rilke, Duhamel, Céline, Drieu, Morand, Maurois, Heidegger, or Abellio.

 

Conquering Rationality, Moralizing Rationality, the Dialectic of Enlightenment, the “Grand Narratives” of Lyotard

Conquering rationality, if it is torn away from its founding myths, from its ethno-identitarian ground, its Indo-European matrix, falls—even after assaults that are impetuous, inert, emptied of substance—into the snares of calculating petty rationalism and into the callow ideology of the “Grand Narratives” of rationalism and the end of ideology. For Jean-François Lyotard, “modernity” in Europe is essentially the “Grand Narrative” of the Enlightenment, in which the heroes of knowledge work peacefully and morally toward an ethico-political happy ending: universal peace, where no antagonism will remain.[6] The “modernity” of Lyotard corresponds to the famous “Dialectic of the Enlightenment” of Horkheimer and Adorno, leaders of famous “Frankfurt School.”[7] In their optic, the work of the man of science or the action of the politician, must be submitted to a rational reason, an ethical corpus, a fixed and immutable moral authority, to a catechism that slows down their drive, that limits their Faustian ardor. For Lyotard, the end of modernity, thus the advent of “post-modernity,” is incredulity—progressive, cunning, fatalistic, ironic, mocking—with regard to this metanarrative.

Incredulity also means a possible return of the Dionysian, the irrational, the carnal, the turbid, and disconcerting areas of the human soul revealed by Bataille or Caillois, as envisaged and hoped by professor Maffesoli,[8] of the University of Strasbourg, and the German Bergfleth,[9] a young nonconformist philosopher; that is to say, it is equally possible that we will see a return of the Faustian spirit, a spirit comparable with that which bequeathed us the blazing Gothic, of a conquering rationality which has reconnected with its old European dynamic mythology, as Guillaume Faye explains in Europe and Modernity.[10]

Notes

1. Benjamin Nelson, Der Ursprung der Moderne, Vergleichende Studien zum Zivilisationsprozess [The Origin of Modernity: Comparative Studies of the Civilization Process] (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1986).

2. Jean-François Revel, Histoire de la pensée occidentale [History of Western Thought], vol. 2, La philosophie pendant la science (XVe, XVIe et XVIIe siècles) [Philosophy and Science (Fifteenth-, Sixteenth-, and Seventeenth-Centuries)] (Paris: Stock, 1970). Cf. also the masterwork of Alexandre Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1957).

3. Cf. Julien Freund, Max Weber (Paris: P.U.F., 1969).

4. Paul-Henri Michel, La cosmologie de Giordano Bruno [The Cosmology of Giordano Bruno] (Paris: Hermann, 1962).

5. Cf. essentially: Werner Sombart, Le Bourgeois. Contribution à l’histoire morale et intellectuelle de l’homme économique moderne [The Bourgeois: Contribution to the Moral and Intellectual History of Modern Economic Man] (Paris: Payot, 1966).

6. Jean-François Lyotard, The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, trans. Geoff Bennington and Brian Massumi. (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984).

7. Max Horkheimer and Theodor Adomo, The Dialectic of Enlightenment, trans. Edmund Jephcott (Stanford: Stanford University Press, 2002). Cf. also Pierre Zima, L’École de Francfort. Dialectique de la particularité [The Frankfurt School: Dialectic of Particularity] (Paris: Éditions Universitaires, 1974). Michel Crozon, “Interroger Horkheimer” [“Interrogating Horkheimer”] and Arno Victor Nielsen, “Adorno, le travail artistique de la raison” [“Adorno: The Artistic Work of Reason”], Esprit, May 1978.

8. Cf. chiefly Michel Maffesoli, L’ombre de Dionysos: Contribution à une sociologie de l’orgie [The Shadow of Dionysus: Contribution to a Sociology of the Orgy] (Méridiens, 1982). Pierre Brader, “Michel Maffesoli: saluons le grand retour de Dionysos” [Michel Maffesoli: Let us Greet the Great return of Dionysos], Magazine-Hebdo no. 54 (September 21, 1984).

9. Cf. Gerd Bergfleth et al., Zur Kritik der Palavernden Aufklärung [Toward a Critique of Palavering Reason] (Munich: Matthes & Seitz, 1984). In this remarkable little anthology, Bergfleth published four texts deadly to the “moderno-Frankfurtist” routine: (1) “Zehn Thesen zur Vernunftkritik” [“Ten Theses on the Critique of Reason”]; (2) “Der geschundene Marsyas” [“The Abuse of Marsyas”]; (3) “Über linke Ironie” [“On Leftist Irony”]; (4) “Die zynische Aufklärung” [“The Cynical Enlightnement”]. Cf. also R. Steuckers, “G. Bergfleth: enfant terrible de la scène philosophique allemande” [“G. Bergfleth: enfant terrible of the German philosophical scene”], Vouloir no. 27 (March 1986). In the same issue, see also M. Kamp, “Bergfleth: critique de la raison palabrante” [“Bergfleth: Critique of Palavering Reason”] and “Une apologie de la révolte contre les programmes insipides de la révolution conformiste” [“An Apology for the Revolt against the Insipid Programs of the Conformist Revolution”]. See also M. Froissard, “Révolte, irrationnel, cosmicité et . . . pseudo-antisémitisme,” [“Revolt, irrationality, cosmicity and . . . pseudo-anti-semitism”], Vouloir nos. 40–42 (July–August 1987).

10. Guillaume Faye, Europe et Modernité [Europe and Modernity] (Méry/Liège: Eurograf, 1985).

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 2

Once the Enlightenment metanarrative was established—“encysted”—in the Western mind, the great secular ideologies progressively appeared: liberalism, with its idolatry of the “invisible hand,”[1] and Marxism, with its strong determinism and metaphysics of history, contested at the dawn of the 20th century by Georges Sorel, the most sublime figure of European militant socialism.[2] Following Giorgio Locchi[3]—who occasionally calls the metanarrative “ideology” or “science”—we think that this complex “metanarrative/ideology/science” no longer rules by consensus but by constraint, inasmuch as there is muted resistance (especially in art and music[4]) or a general disuse of the metanarrative as one of the tools of legitimation.

The liberal-Enlightenment metanarrative persists by dint of force and propaganda. But in the sphere of thought, poetry, music, art, or letters, this metanarrative says and inspires nothing. It has not moved a great mind for 100 or 150 years. Already at the end of the 19th century, literary modernism expressed a diversity of languages, a heterogeneity of elements, a kind of disordered chaos that the “physiologist” Nietzsche analyzed[5] and that Hugo von Hoffmannstahl called die Welt der Bezuge (the world of relations).

These omnipresent interrelations and overdeterminations show us that the world is not explained by a simple, neat and tidy story, nor does it submit itself to the rule of a disincarnated moral authority. Better: they show us that our cities, our people, cannot express all their vital potentialities within the framework of an ideology given and instituted once and for all for everyone, nor can we indefinitely preserve the resulting institutions (the doctrinal body derived from the “metanarrative of the Enlightenment”).

The anachronistic presence of the metanarrative constitutes a brake on the development of our continent in all fields: science (data-processing and biotechnology[6]), economics (the support of liberal dogmas within the EEC), military (the fetishism of a bipolar world and servility toward the United States, paradoxically an economic enemy), cultural (media bludgeoning in favor of a cosmopolitanism that eliminates Faustian specificity and aims at the advent of a large convivial global village, run on the principles of the “cold society” in the manner of the Bororos dear to Lévi-Strauss[7]).

 

The Rejection of Neo-Ruralism, Neo-Pastoralism . . .

The confused disorder of literary modernism at the end of the 19th century had a positive aspect: its role was to be the magma that, gradually, becomes the creator of a new Faustian assault.[8] It is Weimar—specifically, the Weimar-arena of the creative and fertile confrontation of expressionism,[9] neo-Marxism, and the “conservative revolution”[10]—that bequeathed us, with Ernst Jünger, an idea of “post-metanarrative” modernity (or post-modernity, if one calls “modernity” the Dialectic of the Enlightenment, subsequently theorized by the Frankfurt School). Modernism, with the confusion it inaugurates, due to the progressive abandonment the pseudo-science of the Enlightenment, corresponds somewhat to the nihilism observed by Nietzsche. Nihilism must be surmounted, exceeded, but not by a sentimental return, however denied, to a completed past. Nihilism is not surpassed by theatrical Wagnerism, Nietzsche fulminated, just as today the foundering of the Marxist “Grand Narrative” is not surpassed by a pseudo-rustic neoprimitivism.[11]

In Jünger—the Jünger of In Storms of Steel, The Worker, and Eumeswil—one finds no reference to the mysticism of the soil: only a sober admiration for the perennialness of the peasant, indifferent to historical upheavals. Jünger tells us of the need for balance: if there is a total refusal of the rural, of the soil, of the stabilizing dimension of Heimat, constructivist Faustian futurism will no longer have a base, a point of departure, a fallback option. On the other hand, if the accent is placed too much on the initial base, the launching point, on the ecological niche that gives rise to the Faustian people, then they are wrapped in a cocoon and deprived of universal influence, rendered blind to the call of the world, prevented from springing towards reality in all its plenitude, the “exotic” included. The timid return to the homeland robs Faustianism of its force of diffusion and relegates its “human vessels” to the level of the “eternal ahistoric peasants” described by Spengler and Eliade.[12] Balance consists in drawing in (from the depths of the original soil) and diffusing out (towards the outside world).

In spite of all nostalgia for the “organic,” rural, or pastoral—in spite of the serene, idyllic, aesthetic beauty that recommend Horace or Virgil—Technology and Work are from now on the essences of our post-nihilist world. Nothing escapes any longer from technology, technicality, mechanics, or the machine: neither the peasant who plows with his tractor nor the priest who plugs in a microphone to give more impact to his homily.

 

The era of “Technology”

Technology mobilizes totally (Total Mobilmachung) and thrusts the individual into an unsettling infinitude where we are nothing more than interchangeable cogs. The machine gun, notes the warrior Jünger, mows down the brave and the cowardly with perfect equality, as in the total material war inaugurated in 1917 in the tank battles of the French front. The Faustian “Ego” loses its intraversion and drowns in a ceaseless vortex of activity. This Ego, having fashioned the stone lacework and spires of the flamboyant Gothic, has fallen into American quantitativism or, confused and hesitant, has embraced the 20th century’s flood of information, its avalanche of concrete facts. It was our nihilism, our frozen indecision due to an exacerbated subjectivism, that mired us in the messy mud of facts.

By crossing the “line,” as Heidegger and Jünger say,[13] the Faustian monad (about which Leibniz[14] spoke) cancels its subjectivism and finds pure power, pure dynamism, in the universe of Technology. With the Jüngerian approach, the circle is closed again: as the closed universe of “magism” was replaced by the inauthentic little world of the bourgeois—sedentary, timid, embalmed in his utilitarian sphere—so the dynamic “Faustian” universe is replaced with a Technological arena, stripped this time of all subjectivism.

Jüngerian Technology sweeps away the false modernity of the Enlightenment metanarrative, the hesitation of late 19th century literary modernism, and the trompe-l’oeil of Wagnerism and neo-pastoralism. But this Jüngerian modernity, perpetually misunderstood since the publication of Der Arbeiter [The Worker] in 1932, remains a dead letter.

Notes

1. On the theological foundation of the doctrine of the “invisible hand” see Hans Albert, “Modell-Platonismus. Der neoklassische Stil des ökonomischen Denkens in kritischer Beleuchtung” [“Model Platonism: The Neoclassical Style of Economic Thought in Critical Elucidation”], in Ernst Topitsch, ed., Logik der Sozialwissenschaften [Logic of Social Science] (Köln/Berlin: Kiepenheuer & Witsch, 1971).

2. There is abundant French literature on Georges Sorel. Nevertheless, it is deplorable that a biography and analysis as valuable as Michael Freund’s has not been translated: Michael Freund, Georges Sorel, Der revolutionäre Konservatismus [Georges Sorel: Revolutionary Conservatism] (Frankfurt a.M.: Vittorio Klostermann, 1972).

3. Cf. G. Locchi, “Histoire et société: critique de Lévi-Strauss” [“History and Society: Critique of Lévi-Strauss”], Nouvelle Ecole, no. 17 (March 1972) and “L’histoire” [“History”], Nouvelle Ecole, nos. 2728 (January 1976).

4. Cf. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire” [“The ‘Idea of Music’ and the Times of History”], Nouvelle Ecole, no. 30 (November 1978) and Vincent Samson, “Musique, métaphysique et destin” [“Music, Metaphysics, and Destiny”], Orientations, no. 9 (September 1987).

5. Cf. Helmut Pfotenhauer, Die Kunst als Physiologie: Nietzsches äesthetische Theorie und literarische Produktion [Art as Physiology: Nietzsche’s Aesthetic Theory and Literary Production] (Stuttgart: J. B. Metzler, 1985). Cf. on Pfotenhauer’s book: Robert Steuckers, “Regards nouveaux sur Nietzsche” [“New Views of Nietzsche”], Orientations, no. 9.

6. Biotechnology and the most recent biocybernetic innovations, when applied to the operation of human society, fundamentally call into question the mechanistic theoretical foundations of the “Grand Narrative” of the Enlightenment. Less rigid, more flexible laws, because adapted to the deep drives of human psychology and physiology, would restore a dynamism to our societies and put them in tune with technological innovations. The Grand Narrative—which is always around, in spite of its anachronism—blocks the evolution of our societies; Habermas’ thought, which categorically refuses to fall in step with the epistemological discoveries of Konrad Lorenz, for example, illustrates perfectly the genuinely reactionary rigidity of the neo-Enlightenment in its Frankfurtist and current neo-liberal derivations. To understand the shift that is taking place regardless of the liberal-Frankfurtist reaction, see the work of the German bio-cybernetician Frederic Vester: (1) Unsere Welt—ein vernetztes System, dtv, no. l0,118, 2nd ed. (München, 1983) and (2) Neuland des Denkens. Vom technokratischen zum kybernetischen Zeitalter (Stuttgart: DVA, 1980). The restoration of holist (ganzheitlich) social thought by modern biology is discussed, most notably, in Gilbert Probst, Selbst-Organisation, Ordnungsprozesse in sozialen Systemen aus ganzheitlicher Sicht (Berlin: Paul Parey, 1987).

7. G. Locchi, “L’idée de la musique’ et le temps de l’histoire.”

8. To tackle the question of the literary modernism in the 19th century, see: M. Bradbury, J. McFarlane, eds., Modernism 1890–1930 (Harmondsworth: Penguin, 1976).

9. Cf. Paul Raabe, ed., Expressionismus. Der Kampf um eine literarische Bewegung (Zürich: Arche, 1987)—A useful anthology of the principal expressionist manifestos.

10. Armin Mohler, La Révolution Conservatrice en Allemagne, 1918–1932 (Puiseaux: Pardès, 1993). See mainly text A3 entitled “Leitbilder” (“Guiding Ideas”).

11. Cf. Gérard Raulet, “Mantism and the Post-Modern Conditions” and Claude Karnoouh, “The Lost Paradise of Regionalism: The Crisis of Post-Modernity in France,” Telos, no. 67 (March 1986).

12. Cf. Oswald Spengler, The Decline of the West, 2 vols., trans. Charles Francis Atkinson (New York: Knopf, 1926) for the definition of the “ahistorical peasant” see vol. 2. Cf. Mircea Eliade, The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, trans. Willard R. Trask (San Diego: Harcourt, 1959). For the place of this vision of the “peasant” in the contemporary controversy regarding neo-paganism, see: Richard Faber, “Einleitung: ‘Pagan’ und Neo-Paganismus. Versuch einer Begriffsklärung,” in Richard Faber and Renate Schlesier, Die Restauration der Götter: Antike Religion und Neo-Paganismus [The Restoration of the Gods: Ancient Religion and Neo-Paganism] (Würzburg: Königshausen & Neumann, 1986), 10–25. This text was reviewed in French by Robert Steuckers, “Le paganisme vu de Berlin” [“Paganism as Seen in Berlin”], Vouloir no. 28–29, April 1986, pp. 5–7.

13. On the question of the “line” in Jünger and Heidegger, cf. W. Kaempfer, Ernst Jünger, Sammlung Metzler, Band 20l (Stuttgart, Metzler, 1981), pp. 119–29. Cf also J. Evola, “Devant le ‘mur du temps’” [“Before the ‘Wall of Time’”] in Explorations: Hommes et problems [Explorations: Men and Problems], trans. Philippe Baillet (Puiseaux: Pardès, 1989), pp. 183–94. Let us take this opportunity to recall that, contrary to the generally accepted idea, Heidegger does not reject technology in a reactionary manner, nor does he regard it as dangerous in itself. The danger is due to the failure to think of the mystery of its essence, preventing man from returning to a more originary unconcealment and from hearing the call of a more primordial truth. If the age of technology seems to be the final form of the Oblivion of Being, where the anxiety suitable to thought appears as an absence of anxiety in the securing and the objectification of being, it is also from this extreme danger that the possibility of another beginning is thinkable once the metaphysics of subjectivity is completed.

14. To assess the importance of Leibniz in the development of German organic thought, cf. F. M. Barnard, Herder’s Social and Political Thought: From Enlightenment to Nationalism (Oxford: Clarendon Press, 1965), 10–12.

Postmodern Challenges:
Between Faust & Narcissus, Part 3

In 1945, the tone of ideological debate was set by the victorious ideologies. We could choose American liberalism (the ideology of Mr. Babbitt) or Marxism, an allegedly de-bourgeoisfied version of the metanarrative. The Grand Narrative took charge, hunted down any “irrationalist” philosophy or movement,[1] set up a thought police, and finally, by brandishing the bogeyman of rampant barbarism, inaugurated an utterly vacuous era.

Sartre and his fashionable Parisian existentialism must be analyzed in the light of this restoration. Sartre, faithful to his “atheism,” his refusal to privilege one value, did not believe in the foundations of liberalism or Marxism. Ultimately, he did not set up the metanarrative (in its most recent version, the vulgar Marxism of the Communist parties[2]) as a truth but as an “inescapable”categorical imperative for which one must militate if one does not want to be a “bastard,” i.e., one of these contemptible beings who venerate “petrified orders.”[3] It is the whole paradox of Sartreanism: on the one hand, it exhorts us not to adore “petrified orders,” which is properly Faustian, and, on another side, it orders us to “magically” adore a “petrified order” of vulgar Marxism, already unhorsed by Sombart or De Man. Thus in the Fifties, the golden age of Sartreanism, the consensus is indeed a moral constraint, an obligation dictated by increasingly mediatized thought. But a consensus achieved by constraint, by an obligation to believe without discussion, is not an eternal consensus. Hence the contemporary oblivion of Sartreanism, with its excesses and its exaggerations.

The Revolutionary Anti-Humanism of May 1968

With May ’68, the phenomenon of a generation, “humanism,” the current label of the metanarrative, was battered and broken by French interpretations of Nietzsche, Marx, and Heidegger.[4] In the wake of the student revolt, academics and popularizers alike proclaimed humanism a “petite-bourgeois” illusion. Against the West, the geopolitical vessel of the Enlightenment metanarrative, the rebels of ’68 played at mounting the barricades, taking sides, sometimes with a naive romanticism, in all the fights of the 1970s: Spartan Vietnam against American imperialism, Latin-American guerillas (“Ché”), the Basque separatists, the patriotic Irish, or the Palestinians.

Their Faustian feistiness, unable to be expressed though autochthonous models, was transposed toward the exotic: Asia, Arabia, Africa, or India. May ’68, in itself, by its resolute anchorage in Grand Politics, by its guerilla ethos, by its fighting option, in spite of everything took on a far more important dimension than the strained blockage of Sartreanism or the great regression of contemporary neo-liberalism.  On the right, Jean Cau, in writing his beautiful book on Che Guevara[5]  understood this issue perfectly, whereas the right, which is as fixated on its dogmas and memories as the left, had not wanted to see.

With the generation of ’68—combative and politicized, conscious of the planet’s great economic geopolitical issues—the last historical fires burned in the French public spirit before the great rise of post-history and post-politics represented by the narcissism of contemporary neoliberalism.

The Translation of the Writings of the “Frankfurt School” announces the Advent of Neo-Liberal Narcissism

The first phase of the neo-liberal attack against the political anti-humanism of May ’68 was the rediscovery of the writings of the Frankfurt School: born in Germany before the advent of National Socialism, matured during the California exile of Adorno, Horkheimer, and Marcuse, and set up as an object of veneration in post-war West Germany. In Dialektik der Aufklärung, a small and concise book that is fundamental to understanding the dynamics of our time, Horkheimer and Adorno claim that there are two “reasons” in Western thought that, in the wake of Spengler and Sombart, we are tempted to name “Faustian reason” and “magical reason.” The former, for the two old exiles in California, is the negative pole of the “reason complex” in Western civilization: this reason is purely “instrumental”; it is used to increase the personal power of those who use it. It is scientific reason, the reason that tames the forces of the universe and puts them in the service of a leader or a people, a party or state. Thus, according to Herbert Marcuse, it is Promethean, not Narcissistic/Orphic.[6] For Horkheimer, Adorno, and Marcuse, this is the kind of rationality that Max Weber theorized.

On the other hand, “magical reason,” according to our Spenglerian genealogical terminology, is, broadly speaking, the reason of Lyotard’s metanarrative. It is a moral authority that dictates ethical conduct, allergic to any expression of power, and thus to any manifestation of the essence of politics.[7] In France, the rediscovery of the Horkheimer-Adorno theory of reason near the end of the 1970s inaugurated the era of depoliticization, which, by substituting generalized disconnection for concrete and tangible history, led to the “era of the vacuum” described so well by Grenoble Professor Gilles Lipovetsky.[8] Following the militant effervescence of May ’68 came a generation whose mental attitudes are characterized quite justly by Lipovetsky as apathy, indifference (also to the metanarrative in its crude form), desertion (of the political parties, especially of the Communist Party), desyndicalisation, narcissism, etc. For Lipovetsky, this generalized resignation and abdication constitutes a golden opportunity. It is the guarantee, he says, that violence will recede, and thus no “totalitarianism,” red, black, or brown, will be able to seize power. This psychological easy-goingness, together with a narcissistic indifference to others, constitutes the true “post-modern” age.

 

There are Various Possible Definitions of “Post-Modernity”

On the other hand, if we perceive—contrary to Lipovetsky’s usage—“modernity” or “modernism” as expressions of the metanarrative, thus as brakes on Faustian energy, post-modernity will necessarily be a return to the political, a rejection of para-magical creationism and anti-political suspicion that emerged after May 68, in the wake of speculations on “instrumental reason” and “objective reason” described by Horkheimer and Adorno.

The complexity of the “post-modern” situation makes it impossible to give one and only one definition of “post-modernity.” There is not one post-modernity that can lay claim to exclusivity. On the threshold of the 21st century, various post-modernities lie fallow, side by side, diverse potential post-modern social models, each based on fundamentally antagonistic values fundamentally antagonistic, primed to clash. These post-modernities differ—in their language or their “look”—from the ideologies that preceded them; they are nevertheless united with the eternal, immemorial, values that lie beneath them. As politics enters the historical sphere through binary confrontations, clashes of opposing clans and the exclusion of minorities, dare to evoke the possible dichotomy of the future: a neo-liberal, Western, American and American-like post-modernity versus a shining Faustian and Nietzschean post-modernity.

 

The “Moral Generation” & the “Era of the Vacuum”

This neo-liberal post-modernity was proclaimed triumphantly, with Messianic delirium, by Laurent Joffrin in his assessment of the student revolt of December 1986 (Un coup de jeune [A Coup of Youth], Arlea, 1987). For Joffrin, who predicted[9] the death of the hard left, of militant proletarianism, December ’86 is the harbinger of a “moral generation,” combining in one mentality soft leftism, lazy-minded collectivism, and neo-liberal, narcissistic, and post-political selfishness: the social model of this hedonistic society centered on commercial praxis, that Lipovetsky described as the era of the vacuum. A political vacuum, an intellectual vacuum, and a post-historical desert: these are the characteristics of the blocked space, the closed horizon characteristic of contemporary neo-liberalism. This post-modernity constitutes a troubling impediment to the greater Europe that must emerge so that we have a viable future and arrest the slow decay announced by massive unemployment and declining demographics spreading devastation under the wan light of consumerist illusions, the big lies of advertisers, and the neon signs praising the merits of a Japanese photocopier or an American airline.

On the other hand, the post-modernity that rejects the old anti-political metanarrative of the Enlightenment, with its metamorphoses and metastases; that affirms the insolence of a Nietzsche or the metallic ideal of a Jünger; that crosses the “line,” as Heidegger exhorts, leaving behind the sterile dandyism of nihilistic times; the post-modernity that rallies the adventurous to a daring political program concretely implying the rejection of the existing power blocs, the construction of an autarkic Eurocentric economy, while fighting savagely and without concessions against all old-fashioned religions and ideologies, by developing the main axis of a diplomacy independent of Washington; the post-modernity that will carry out this voluntary program and negate the negations of post-history—this post-modernity will have our full adherence.

In this brief essay, I wanted to prove that there is a continuity in the confrontation of the “Faustian” and “magian” mentalities, and that this antagonistic continuity is reflected in the current debate on post-modernities. The American-centered West is the realm of “magianisms,” with its cosmopolitanism and authoritarian sects.[10] Europe, the heiress of a Faustianism much abused by “magian” thought, will reassert herself with a post-modernity that will recapitulate the inexpressible themes, recurring but always new, of the Faustianness intrinsic to the European soul.

Notes

1. The classic among classics in the condemnation of “irrationalism” is the summa of György Lukács, The Destruction of Reason, 2 vols. (1954). This book aims to be a kind of Discourse on Method for the dialectic of Enlightenment-Counter-Enlightenment, rationalism-irrationalism. Through a technique of amalgamation that bears a passing resemblance to a Stalinist pamphlet, broad sectors of  German and European culture, from Schelling to neo-Thomism, are blamed for having prepared and supported the Nazi phenomenon. It is a paranoiac vision of culture.

2. To understand the fundamental irrationality of Sartre’s Communism, one should read Thomas Molnar, Sartre, philosophie de la contestation (Paris: La Table Ronde, 1969). In English: Sartre: Ideologue of Our Time (New York : Funk & Wagnalls, 1968).

3. Cf. R.-M. Alberes, Jean-Paul Sartre (Paris: Éditions Universitaires, 1964), 54–71.

4. In France, the polemic aiming at a final rejection of the anti-humanism of ’68 and its Nietzschean, Marxist, and Heideggerian philosophical foundations is found in Luc Ferry and Alain Renaut, French Philosophy of the Sixties: An Essay on Anti-Humanism, trans. Mary H. S. Cattani (Amherst: University of Massachusetts Press, 1990) and its appendix ’68–’86. Itinéraires de l’individu [’68-’86: Routes of the Individual] (Paris: Gallimard, 1987). Contrary to the theses defended in first of these two works, Guy Hocquenghem in Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary Club [Open Letter to those Went from Mao Jackets to the Rotary Club] (Paris: Albin Michel, 1986) deplored the assimilation of the hyper-politicism of the generation of 1968 into the contemporary neo-liberal wave. From a definitely polemical point of view and with the aim of restoring debate, such as it is, in the field of philosophical abstraction, one should read Eddy Borms, Humanisme—kritiek in het hedendaagse Franse denken [Humanism: Critique in Contemporary French Thought (Nijmegen: SUN, 1986).

5. Jean Cau, the former secretary of Jean-Paul Sartre, now classified as a polemist of the “right,” who delights in challenging the manias and obsessions of intellectual conformists, did not hesitate to pay homage to Che Guevara and to devote a book to him. The “radicals” of the bourgeois accused him of “body snatching”! Cau’s rigid right-wing admirers did not appreciate his message either. For them, the Nicaraguan Sandinistas, who nevertheless admired Abel Bonnard and the American “fascist” Lawrence Dennis, are emanations of the Evil One.

6. Cf. A. Vergez, Marcuse (Paris: P.U.F., 1970).

7. Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? [What is Politics?] (Paris: Seuil, 1967). Cf Guillaume Faye, “La problématique moderne de la raison ou la querelle de la rationalité” [“The Modern Problem of Reason or the Quarrel of Rationality”] Nouvelle Ecole no. 41, November 1984.

8. G. Lipovetsky, L’ère du vide: Essais sur l’individualisme contemporain [The Era of the Vacuum: Essays on contemporary individualism] (Paris: Gallimard, 1983). Shortly after this essay was written, Gilles Lipovetsky published a second book that reinforced its viewpoint: L’Empire de l’éphémère: La mode et son destin dans les sociétés modernes [Empire of the Ephemeral: Fashion and its Destiny in Modern Societies] (Paris: Gallimard, 1987). Almost simultaneously François-Bernard Huyghe and Pierre Barbès protested against this “narcissistic” option in La soft-idéologie [The Soft Ideology] (Paris: Laffont, 1987). Needless to say, my views are close to those of the last two writers.

9. Cf. Laurent Joffrin, La gauche en voie de disparition: Comment changer sans trahir? [The Left in the Process of Disappearance: How to Change without Betrayal?] (Paris: Seuil, 1984).

10. Cf. Furio Colombo, Il dio d’America: Religione, ribellione e nuova destra [The God of America: Religion, Rebellion, and the New Right] (Milano: Arnoldo Mondadori, 1983).

mardi, 11 janvier 2011

Présence des musulmans en Europe : nouvelles manipulations en vue

Jean-Gilles MALLIARAKIS:

Présence des musulmans en Europe nouvelles manipulations en vue

Ex: htpp://www.insolent.fr/

Krantenkoppen - Januari 2011/05

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Krantenkoppen
 
Januari 2011 - 05
 
Pagina die ik tegen kwam....
 
Nieuwe Huckleberry Finn zorgt voor opschudding
Hoewel het boek een waar meesterwerk is wordt Huckleberry Finn op veel Amerikaanse scholen niet gelezen. De klassieker zou teveel racistische uitspraken bevatten. Een nieuwe, ‘moderne’ versie moet dit veranderen. Maar niet iedereen is daar blij mee.
http://amerika.blog.nl/algemeen/2011/01/06/nieuwe-huckleb...
 
Vakbond: Welten moet woorden terugnemen
De Amsterdamse hoofdcommissaris Bernard Welten moet zijn uitspraken over het negeren van een eventueel boerkaverbod intrekken. Voorzitter van de Amsterdamse Politie Vakorganisatie (AVP) Bert Verdijk noemt in De Telegraaf de uitlatingen van de korpschef "onverstandig".
http://www.bndestem.nl/nieuws/algemeen/binnenland/7920114...
 
Hitlerexpo wegens succes verlengd
Een controversiële tentoonstelling over de persoonlijkheidscultus rond de Duitse dictator Adolf Hitler (1889-1945) in de Duitse hoofdstad Berlijn wordt wegens succes verlengd. De expositie trok sinds de opening in oktober al 170.000 bezoekers, aldus de organisatoren.
http://www.pzc.nl/algemeen/cultuur/article7920049.ece
 
 
Nederland betaalt voor terugkeer Bosniërs
Nederland wil Bosnische vluchtelingen van 45 jaar en ouder, die terugkeren naar Bosnië-Herzegovina, levenslang een maandelijkse toelage van 470 euro geven. Een echtpaar heeft recht op 670 euro. Ook de reiskosten zouden worden vergoed, tot een maximum van 1500 euro.
http://www.binnenlandsbestuur.nl/Home/all/nederland-betaa...
 
Vliegveld Israël blokkeert politieke websites
Het draadloze internet op het internationale vliegveld Ben Goerion bij de Israëlische stad Tel Aviv geeft geen toegang tot een reeks linkse en rechtse politieke websites.
http://www.nu.nl/buitenland/2416778/vliegveld-israel-blok...
 
Cafébaas 't Vervolg excuseert zich voor advertentie
De meesten gingen er van uit dat de kroegbaas met op de bewoners van het nieuwe asielcentrum doelde.
http://www.gva.be/antwerpen/ravels/guid/b8591db4-9d40-4d7...
 
Ultraorthodoxen moeten ook in leger dienen
Ultraorthodoxe joden moeten ook in het leger dienen. Dat is de mening van de bevelhebber van het Israëlische leger, Gabi Ashkenazi. "Diegenen die niet dienen, moeten zich schamen", zei hij donderdag tegen de legerradio.
http://buitenland.nieuws.nl/624676/ultraorthodoxen_moeten...
 
Kabinet akkoord met nieuwe missie Afghanistan
De ministerraad is vrijdag akkoord gegaan met een nieuwe missie naar Afghanistan van medio 2011 tot medio 2014.
http://www.gelderlander.nl/algemeen/dgbinnenland/7927622/...
 
Chili erkent Palestina als soevereine staat
Chili heeft vrijdag als vijfde natie Palestina formeel als onafhankelijke staat erkend. Het Zuid-Amerikaanse land treedt daarmee in de voetsporen van Ecuador, Brazilië, Argentinië en Bolivia, die dat in december vorig jaar deden. Uruguay heeft gezegd te volgen.
http://www.refdag.nl/nieuws/buitenland/chili_erkent_pales...
 
Politie legt netwerk kinderporno bloot
De Italiaanse politie heeft een grootschalig netwerk blootgelegd van criminelen, die kwaadaardige software op onbeschermde webservers installeerden om zo kinderporno te distribueren. Dat meldde de Europese politieorganisatie Europol vrijdag.
http://www.refdag.nl/nieuws/buitenland/politie_legt_netwe...
 
School mag geen hoofddoekverbod hebben
Een katholieke middelbare school in Volendam heeft zich schuldig gemaakt aan verboden onderscheid op grond van godsdienst. Dat heeft de Commissie Gelijke Behandeling (CGB) vandaag geoordeeld. De school verbood een islamitische leerlinge een hoofddoek te dragen.
http://www.spitsnieuws.nl/archives/binnenland/2011/01/sch...
 
Ook Twente negeert boerkaverbod
Niet alleen korpschef Bernard Welten van Amsterdam zal een eventueel boerkaverbod niet gaan handhaven. Ook zijn Twentse collega Martin Sitalsing zal het verbod "geen prioriteit" geven, zo stelt hij tegenover RTV Oost.
http://www.spitsnieuws.nl/archives/binnenland/2011/01/ook...
 
'Carnavalapartheid is homofoob'
Met de carnavalsparades in Rio de Janeiro in zicht is ophef ontstaan over toiletten die speciaal zijn gereserveerd voor homoseksuelen en travestieten op diverse sambascholen. “Dit is carnavalapartheid!”, aldus het hoofd van de Braziliaanse antihomofobiedienst, Claudio Nascimento.
http://www.spitsnieuws.nl/archives/buitenland/2011/01/car...
 
Israelisch leger doodt per abuis bejaarde
Vanochtend hebben Israëlische soldaten een bejaarde Palestijn doodgeschoten tijdens een huiszoeking in Hebron, gelegen aan de bezette Westelijke Jordaanoever. De militairen waren op zoek naar een Hamas-verdachte, maar drongen een appartement boven dat van de gezochte man binnen. De 65-jarige man werd in zijn hoofd en borstkas geschoten.
http://www.spitsnieuws.nl/archives/buitenland/2011/01/isr...
 
Herrie binnen D66 Amsterdam
Afdeling Amsterdam West van D66 heeft te maken met muitende raadsleden. Drie van de vijf fractieleden willen de fractievoorzitter afzetten, maar hebben niet de steun van het afdelingsbestuur en de landelijke beleidsbepalers binnen de partij. Nu leggen ze een verzoek om af te treden naast zich neer.
http://www.spitsnieuws.nl/archives/provinciaal/2011/01/he...
 
Brandpunt mag item over misstanden adoptie uitzenden
Het KRO-programma Brandpunt mag van de rechtbank in Amsterdam een voorgenomen uitzending over misstanden rond adopties uit Ethiopië gewoon laten zien zondag. Dat liet de omroep vandaag weten.
http://www.ad.nl/ad/nl/1012/Binnenland/article/detail/562...
 
Eerste celstraf in Britse bonnetjesaffaire
Een voormalig Brits parlementslid is voor achttien maanden de cel ingegaan wegens fraude met bonnetjes. De 61-jarige David Chaytor van de Labourpartij is de eerste politicus die achter de tralies verdwijnt in de wijdverbreide bonnetjesaffaire.
http://www.ad.nl/ad/nl/1013/Buitenland/article/detail/562...
 
Europees Hof verbiedt opnieuw uitzetten asielzoekers
Nederland mag twee uitgeprocedeerde Somalische asielzoekers niet terugsturen naar hun land van herkomst. Dat heeft het Europees Hof voor de Rechten van de Mens vrijdag bepaald.
http://www.elsevier.nl/web/Nieuws/Europese-Unie/285977/Eu...
 
Onderzoek: Burenruzies heftiger in multicultiwijken
In multiculturele wijken lopen burenruzies sneller hoog op vanwege de vooroordelen tussen culturele groepen. Dat blijkt uit onderzoek van Elze Ufkes, die daar donderdag aan de Rijksuniversiteit Groningen op promoveerde.
http://www.elsevier.nl/web/Nieuws/Nederland/285939/Onderz...
 
Ajax-fans beboet voor cijfershirt
Drie Ajax-fans hebben een geldboete gekregen omdat ze een voor de politie beledigend t-shirt droegen. Op het shirt stond 1-3-1-2,wat in het alfabet met de letters A-C-A-B correspondeert.
http://nos.nl/artikel/209894-ajaxfans-beboet-voor-cijfers...
 

Gender-Wahn: Mutter und Vater werden "Elter 1" und "Elter 2"

Gender-Wahn: Mutter und Vater werden »Elter 1« und »Elter 2«

Udo Ulfkotte

 

RTEmagicC_ES-2_jpg.jpgAuf den Formularen amerikanischer Behörden sollen nach einer Entscheidung der Obama-Regierung die Begriffe »mother« (Mutter) und »father« (Vater) durch »parent one« (Elter 1) und »parent two« (Elter 2) ersetzt werden. US-Außenministerin Hilary Clinton will mit diesem Schritt die angebliche Benachteiligung von Schwulen und Lesben in Formularen des State Department beenden. Zeitungen geben derweil Ratschläge, wie man Kinderzimmer geschlechtsneutral einrichtet. Ganz anders in China: Da schickt man kleine Mädchen nun auf Jungentoiletten und umgekehrt, damit sie sich an bestimmte Unterschiede gewöhnen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/udo-...

Confessions of a Reluctant Hater

Now Available for Pre-Order:
 Confessions of a Reluctant Hater

Counter-Currents is pleased to announce our third limited edition hardcover:

Greg Johnson
Confessions of a Reluctant Hater
San Francisco: Counter-Currents, 2010
162 pages

Hardcover: $30 (limited edition of 100 signed and numbered copies)

Note: If you choose the Economy shipping option, you can ship up to three copies for the same flat rate: $5 in the US, $11 to Canada, and $13 to the rest of the world.

Release date: January 31, 2011

Confessions of a Reluctant Hater is a collection of short essays, reviews, and topical opinion pieces written between 2002 and 2010. Greg Johnson believes that multiculturalism and multiracialism are a death-sentence for the white race. He believes that only a White Republic offers a solution, and only an explicitly race-wise and Jew-wise White Nationalism will get us there.

Yet Greg Johnson shows that White Nationalism is not a rigid Right-wing orthodoxy, by including searching and controversial essays on drug legalization, race-mixing, homosexuality, and “West Coast White Nationalism.” He also argues that White Nationalism will not triumph until white racial consciousness leaves its Right-wing ghetto and becomes the common sense of the whole political spectrum.

Greg Johnson is a master of defending radical and uncompromising views in clear, engaging, sometimes brutally frank language, employing seductive logic, vivid examples, and a dash of savage wit. Confessions of a Reluctant Hater is an accessible but challenging introduction to White Nationalism by one of the leading voices of the North American New Right.

Advance Praise for Confessions of a Reluctant Hater:

Greg Johnson’s work is something rarely seen but badly needed on the so-called New Right.  His learning is both wide and deep, but lightly worn and not afraid to challenge the orthodoxies of Left and Right   He brings a sensitivity both West Coast and Traditional to the cultural politics of today.  The works collected here will, like his website, serve as a foundation for any serious attempt to regain control over our destiny.

—James J. O’Meara

Greg Johnson is a rare writer, in that he can combine lucid insights with humor and off-the-wall ideas, offering an analysis of contemporary Western man, culture, and society that transcends disciplinary barriers and highlights the subterranean processes that govern the grand panorama of history. This may sound grandiose and esoteric, but the reader need not fear having to push his way through a caliginous jungle of abstruse terminology and turgid, sludge-like argumentation: Johnson’s simple and easy prose make reading about these weighty matters an effortless task, clearing the decks for the reader to rethink the world.

—Alex Kurtagić, author of Mister

CONTENTS

 

Preface · iii

 

Finding a White Voice
1. Confessions of a Reluctant Hater
2. A Nation of Immigrants?
3. Craig Bodeker’s A Conversation About Race
4. Craig Bodeker’s More of . . . A Conversation About Race
5. Christian Lander’s Whiter Shades of Pale
6. Tea Party: The Documentary Film
7. Separatism vs. Supremacism
8. To Cleanse America: A Modest Proposal

Polarizing Moments
9. The “W” Word
10. The 2008 Presidential Election
11. A Tariff in Time . . . Saves Billions
12. The Gates Controversy
13. The Persecution of Kevin MacDonald
14. The Persecution of American Renaissance
15. The “Ground Zero” Mosque Controversy
16. The 2010 Midterm Elections
17. Implicit Whiteness & the Republicans

White Lifestyle Politics
18. West-Coast White Nationalism
19. Is Racial Purism Decadent?
20. Race-Mixing: Not Just for Losers Anymore?
21. Lawyers & Sex Crimes
22. Homosexuality & White Nationalism
23. Drug Legalization in the White Republic
24. Redneck Rousseau: Jim Goad’s Shit Magnet
25. It’s Time to STOP Shopping for Christmas
26. Merry Christmas, Infidels!
27. The Spiritual Materialism of Alan Watts

00:10 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, réflexions personnelles, etats-unis, déclin | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Jean-Yves Le Gallou: l'immigration silencieuse

 

Jean-Yves Le Gallou: l'immigration silencieuse

lundi, 10 janvier 2011

Force et Honneur

Force et Honneur

« Le calendrier mémoriel de nos pères était, autrefois, parsemé de noms de saints, de soldats héroïques et aussi de grandes batailles. Ces noms, gravés dans l’histoire des peuples, étaient toujours évocateurs : ils constituaient une mémoire collective et forgeaient les identités nationales », écrit Jean-Pierre Papadacci, « Français d’Empire », en préface à un ouvrage intitulé « Force et honneur ».

Ce livre, auquel ont collaboré une trentaine d’auteurs, raconte « ces batailles qui ont fait la grandeur de la France et de l’Europe ». Sans doute certaines manquent-elles, comme Fontenoy, mais on y trouve beaucoup de rencontres qui ont compté, depuis la bataille de Marathon au début du Ve siècle avant Jésus-Christ jusqu’au siège de Sarajevo à la fin du XXe siècle de notre ère.

Le lecteur y trouvera, entre autres, les Thermopyles, Bouvines, le siège de Vienne, Torfou, Austerlitz, le siège de l’alcazar, la bataille d’Alger…

Tous les textes ne sont pas d’égale facture, mais la plupart sont bien écrits et intéressants. Citons notamment le récit de la prise de Jérusalem par les croisés, par Pierre Vial, la bataille d’Azincourt, par Jean Denègre, la levée du siège d’Orléans, par Thierry Bouzard, Lépante, par Robert Steuckers, Camerone, par Alain Sanders, Verdun, par Philippe Conrad, Dien Bien Phu par Eric Fornal, un récit de l’insurrection de Budapest par Vitéz Marton Lajos…

Le livre se conclut sur une série d’entretiens avec des officiers français : le général Yves Derville, qui participa à la première guerre du Golfe ; le colonel Jean Luciani, ancien des FFI et vétéran de Dien Bien Phu ; le capitaine Dominique Bonelliancien du 1er BEP puis du 1er REP en Indochine et en Algérie ; l’adjudant-chef Jean Laraque, les sergents Alexis Arette et Roger Holeindre, le caporal-chef Trogne, autres « sentinelles de l’Empire ».

« Nous savons que nous sommes des débiteurs et que nous avons le devoir de faire fructifier et de transmettre le patrimoine que nous avons reçu », écrit encore Jean-Pierre Papadacci dans sa préface. Nul doute que ce livre, destiné prioritairement aux adolescents, y contribue.

Force et honneur, ces batailles qui ont fait la grandeur de la France et de l’Europe, Les amis du livre européen ed.

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17:25 Publié dans Histoire, Livre, Militaria | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : histoire, militaria, livre, guerres, polémologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Pressions turques en faveur de l'immigration mafieuse

Jean-Gilles MALLIARAKIS:

Pressions turques en faveur de l’immigration mafieuse

Ex: http://www.insolent.fr/