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jeudi, 16 mai 2019

Spirito classico - cristianesimo: le tesi di Walter Friedrich Otto

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Spirito classico - cristianesimo: le tesi di Walter Friedrich Otto

Giovanni Sessa

Ex: https://www.ereticamente.net

auWO.jpgNel corpo della cultura europea scorre sangue «pagano». A muovere dal Settecento, filosofi, storici delle religioni e artisti, si sono prodigati nel tentativo di far riemergere le sorgenti più arcaiche della nostra cultura, richiamando l’attenzione sul suo effettivo ubi consistam. Anzi, questo sforzo è ancora in corso: si pensi, tra i tanti esempi che si possono fare in tema, alla valorizzazione del mondo pre-cristiano, presentata, nella propria opera, da Evola o, più recentemente, da autori quali Marc Augé e Alain de Benoist. Un ruolo rilevante, in tal senso, nel secondo decennio del «secolo breve», lo ha svolto il filologo svevo e storico delle religioni, Walter Friedrich Otto. Il suo lavoro più noto, Gli Dei della Grecia, fu in qualche modo preparato da un libro che egli pubblicò nel 1923, Spirito classico e mondo cristiano, di cui è recentemente apparsa la seconda edizione italiana, per i tipi de L’arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 174, euro 15,00). Si tratta, come ricorda Giovanni Monastra, nell’informata e stimolante Prefazione, di un testo nel quale l’autore mostrò, in tutta la sua forza e con invidiabile spessore erudito, l’attrazione empatica per il mondo classico e, in particolare, per la religiosità ellenica.

La potenza teorica del volume, la si spiega tenendo in debito conto alcuni dati biografici dell’autore, riferiti opportunamente dal prefatore. Otto si formò a Tubinga, nel medesimo Stift teologico nel quale avevano studiato Hegel, Schelling ed Hölderlin. Dopo aver seguito brillanti studi filologici, a Monaco incontrò il filosofo Klages e frequentò gli ambienti del Kreis di Stefan George. Fu, inoltre, attratto dagli studi di Leo Frobenius, dai quali trasse l’idea del Weltbild (immagine del mondo), che gli permise di decodificare l’essenza della civiltà ellenica. Fu vicino agli ambienti aristocratico-conservatori e, perciò, antinazisti, della Germania segreta: ciò lo costrinse ad insegnare in un’Università «periferica», quella di Könisberg, dove rimase fino all’arrivo dell’Armata rossa nel 1944. Fu sottoposto, dopo la guerra, ad una serie di controlli preventivi, ma evitò l’epurazione e continuò ad insegnare fino al momento del decesso avvenuto nel 1958. Frequentò, tra gli altri, Heidegger, Kerény e Pettazzoni.

9788894296655_0_306_0_75.jpgIn Spirito classico e mondo cristiano, sono presenti: «lampeggianti intuizioni e utili indicazioni che consentono di vedere con occhi nuovi il mondo religioso ellenico» (p. 13). Otto cerca, in ogni modo, di far parlare i Greci e i loro dei, con la voce che gli fu propria. Fino ad allora, infatti, il clamore millenario prodotto dalla cultura dei vincitori, nella contesa storica sviluppatasi nel IV secolo d.c., quella cristiana, aveva impedito di cogliere il senso ultimo della visione del mondo ellenica. La critica al cristianesimo di Otto è radicale, i toni polemici decisamente aspri, in alcuni passaggi rasentano l’invettiva. Per questo, successivamente, il filologo non si riconobbe del tutto in tali affermazioni e non volle che questo studio fosse nuovamente pubblicato (la precedente edizione italiana uscì nel 1973, ad insaputa della figlia dello studioso). Il libro è scritto sotto il segno di Nietzsche. Come il filosofo dell’eterno ritorno, anche Otto distinse l’originario insegnamento del Cristo, insieme a Socrate considerato ultimo esempio di vita persuasa, dalla successiva dottrina cristiana, esito del travisamento teologico operato dalla tradizione paolino-agostiniana. In ogni caso, quale idea ha Otto della religio greca?

Egli era convinto che i poemi omerici: «contenessero il paradigma più alto della concezione olimpica del divino» (p. 14). Quella omerica era religio virile, fiera, senza uguali nella storia delle religioni. Punto apicale mai più raggiunto, in quanto in essa gli dei venivano invocati in piedi, il greco guardava negli occhi, senza alcun timore reverenziale i propri numi. Non conosceva le genuflessioni cristiane ed asiatiche, di fronte al divino. Questo era inteso quale manifestazione improvvisa, suscitante, al medesimo tempo, meraviglia e sconcerto. La coscienza del singolo era conciliata con i ritmi e le misure che si manifestavano nel cosmo, nessun greco conobbe mai la “cattiva coscienza”, triste novità introdotta dal cristianesimo. Con la sua irruzione si iniziò ad avvertire: «una opposizione tra il mondo sconvolto e disperato dell’anima, agitata sempre da tormenti e turbamenti […], e il mondo olimpico della forma» (p. 16). La natura, avvertita in precedenza quale epifania del divino, venne progressivamente esperita in termini desacralizzati e ridotta alla mera dimensione della quantità.

9788845977350_0_0_626_75LLLLL.jpgI Greci, al contrario, non conobbero mai la fides, la loro religio della forma era, in realtà, un susseguirsi di esperienze, di realizzazioni del sacro, da parte dell’uomo. Il tratto politeista consentiva loro di apprezzare i diversi volti dell’Uno e di viverli, di farne esperienza. A ciò contribuivano il mito e il culto. Nel secondo: «è l’uomo che si innalza al Divino, vive e agisce in comunione con gli dei; nel mito è il divino che scende e si fa umano» (p. 21). Il rapporto uomo-dio si manifestava, come rilevato da Rudolf Otto, nell’endiadi Io-Esso. Si trattava, pertanto, di una relazione centrata sull’ethos, sul modo d’essere (Evola avrebbe detto “razza dello spirito”) e non sul pathos, sulla dimensione emotiva e sentimentale. Il trionfo del cristianesimo rese esplicito che il mondo antico aveva perso la propria anima, vale a dire quest’atteggiamento paritetico degli uomini nei confronti degli dei. Ecco perché alla «buona novella» aderirono gli ultimi, i diseredati e le donne, che divennero strumenti mortiferi per lo spirito classico. In quel frangente, pochi tentarono una resistenza. Si ersero in pochi, ricorda Otto, sulle rovine di un mondo al tramonto per proclamarne la grandezza, tra essi Giuliano Imperatore. Monastra ipotizza, e la cosa va segnalata, che Evola, avrebbe potuto trarre il titolo del suo, Gli uomini e le rovine, proprio da un passo del libro del filologo tedesco, che certamente lesse.

Condividiamo l’esegesi della relazione paganesimo-cristianesimo che questo volume presenta. Forse, come rileva il prefatore, è eccessivo sostenere, come fece Otto, l’unicità religiosa della Grecia. Resta il fatto, però, che la loro fu una religione della realtà: «alla quale risulta del tutto estranea la “fede” in qualcosa di “totalmente altro”» (p. 33). In conclusione, vogliamo qui ricordare quanto, a proposito dell’originario cristianesimo, ebbe a sostenere il filosofo Andre Amo: questa religione avrebbe rappresentato un ritorno dei culti agrari, cosmici, che nel mondo antico si era mostrati a latere del dionisismo, di contro al rigido monoteismo ebraico, imparentato con la religione apollinea. Un considerazione non dissimile da quella fatta propria dal tedesco, alcuni anni dopo la pubblicazione dello Spirito classico e il mondo cristiano.

Giovanni Sessa

mercredi, 15 mai 2019

Un nouvel ordre multipolaire fondé sur la régulation

 

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Un nouvel ordre multipolaire fondé sur la régulation

Ligne Droite cliquez ici

& http://synthesenationale.hautetfort.com

Le concept de communauté internationale, qui revient de façon récurrente dans le discours des diplomates occidentaux, n’est qu’un artifice destiné à légitimer la politique étrangère des États-Unis. Or celle-ci, porteuse de l’idéologie mondialiste, est contraire aux intérêts de la France et de l’Europe. Aussi notre pays devrait-il, selon Ligne droite, contester l’organisation actuelle des relations internationales et nourrir la grande ambition d’œuvrer à l’avènement d’un « nouvel ordre multipolaire » ancré dans la réalité du monde d’aujourd’hui et axé sur la régulation des échanges.

La notion de communauté internationale, un instrument de l’imperium américain

La notion de « communauté internationale », qui reprend sous un angle un peu différent celui de nouvel ordre mondial très en vogue à la fin du XXe siècle, est en effet une formule des plus ambiguë. Ceux qui s’en réclament laissent entendre qu’ils parlent pour l’ensemble des nations du monde, alors qu’il ne s’agit le plus souvent que des États-Unis et de leurs « alliés ». Cette référence à la communauté internationale est dès lors quasi systématiquement utilisée pour des actions ou des prises de position qui servent les États-Unis et leur vue du monde.

Autant dire, dans ces conditions, que cette notion s’inscrit dans un cadre très politiquement correct. Elle repose sur l’idée que le modèle américain fondé sur le libéralisme et la démocratie va s’étendre au monde entier et s’appuie sur l’idéologie mondialiste qui conduit à supprimer les frontières, à réduire le pouvoir des États et à œuvrer à la globalisation de la planète. En effet, la communauté internationale en question ne se préoccupe pas des identités et considère avec méfiance les États qui y demeurent attachés comme la Russie et tous les pays de l’Est de l’Europe.

Une conception politiquement correcte inadaptée au monde multipolaire d’aujourd’hui

Ligne droite estime en conséquence que les notions de nouvel ordre mondial et de communauté internationale doivent être rejetées car elles véhiculent le mondialisme, le libre-échangisme intégral, l’immigrationnisme et l’atlantisme. À ce titre, elles vont à l’encontre de ce qui est souhaitable pour le France et l’Europe, aussi notre pays doit-il les contester tout en proposant une autre vision.

Cette démarche se révèle d’autant plus légitime que le concept de communauté internationale ne correspond en rien à la réalité du monde d’aujourd’hui. La planète est en effet loin de converger autour du pôle américain, lequel perd d’ailleurs de son influence. Notre époque apparaît au contraire marquée par l’émergence de nouvelles puissances qui structurent la scène mondiale selon un schéma multipolaire. Un schéma qui n’est pas compatible avec la notion de communauté internationale puisqu’aucun des nouveaux pôles émergents comme la Chine, l’Inde ou le monde musulman, pas plus d’ailleurs que la Russie, le Brésil ou l’Afrique, ne sont prêts à s’aligner sur les États-Unis.

Il faut lui substituer le concept de nouvel ordre multipolaire

Ligne droite considère donc que la France devrait se faire le champion d’une autre conception des relations internationales. Une conception qu’elle devrait populariser sous le nom de « nouvel ordre multipolaire » et qui devrait reposer sur deux grands principes : prendre en compte la réalité multipolaire du monde d’aujourd’hui et substituer à l’ultralibéralisme international le principe de la régulation générale de tous les échanges.

Le nouvel ordre multipolaire pour une régulation des échanges

Contrairement au nouvel ordre mondial qui organisait le laisser-faire laissez-passer général tant pour les biens et services que pour les mouvements migratoires, le nouvel ordre multipolaire proposé par la droite nouvelle devrait s’appuyer sur le principe simple selon lequel les échanges ne sont admis que s’ils sont bénéfiques pour les deux parties concernées et doivent donc être régulés en conséquence.

Dans ce cadre, l’organisation du commerce mondial devrait être entièrement revue et de nouvelles négociations devraient être ouvertes en son sein pour mettre en place des écluses douanières entre les grands ensembles économiquement homogènes.

De même, s’agissant de l’immigration, la maîtrise des flux devrait s’imposer comme la règle commune. Aucun mouvement migratoire ne pourrait être organisé sans l’accord des deux pays concernés. Quant aux déplacements clandestins, ils devraient être combattus par les pays d’émigration comme par ceux d’immigration et, dans la mesure où ils sont organisés par des filières mafieuses, traités comme tels par les services compétents.

Le nouvel ordre multipolaire pour la stabilité du monde

Par ailleurs, le nouvel ordre multipolaire devrait prendre en compte la réalité du monde et reconnaître son caractère multipolaire. Pourrait en effet être constitué un G9 d’un nouveau genre regroupant les principaux pôles de puissance: Chine, Japon, Inde, Brésil, États-Unis, Russie et Europe, auxquels devraient être adjoints deux autres États, l’un représentant le monde musulman et l’autre l’Afrique (au besoin selon une formule de tourniquet). Une telle instance même informelle qui représenterait avec neuf partenaires la presque totalité de la population mondiale pourrait être le lieu le plus pertinent où débattre des conflits et des problèmes du monde. Une configuration qui serait capable d’apporter une plus grande stabilité internationale, car fondée, non plus sur une puissance unique qui cherche à s’imposer, mais sur l’équilibre des principaux pôles de puissance de la planète.

Le nouvel ordre multipolaire, un projet susceptible de s’imposer

Pour mettre en œuvre un tel projet, très différent des pratiques actuelles, la droite nouvelle, une fois au pouvoir, devrait commencer par faire de la France le champion de cette idée, à charge pour elle de l’expliquer et d’en assurer la promotion. Si, ensuite, l’Europe confédérale, telle que préconisée par Ligne droite, reprenait ce projet à son compte, gageons que tout deviendrait alors possible. L’idée d’un nouvel ordre multipolaire pourrait en effet intéresser les BRICS. Le Brésil, la Russie, la Chine, l’Inde et l’Afrique du Sud cherchent en effet à réduire l’influence des États-Unis dans le monde. Ils ne pourraient dès lors que soutenir un projet visant à institutionnaliser la réalité multipolaire qu’ils incarnent et, forte de ce soutien, l’Europe serait en mesure de faire prévaloir ce changement radical de l’organisation des relations internationales.

En tout état de cause, la France, dirigée par la droite nouvelle, aurait tout intérêt à porter l’idée d’une rénovation profonde des relations internationales. En dehors des bénéfices qu’elle et les autres pays européens pourraient en retirer si le projet se concrétisait, le seul fait de s’en faire l’artisan permettrait à la France de gagner en stature et d’offrir aux Français des perspectives ainsi qu’une ambition collective qui leur rendrait espoir et fierté.

Une prison mentale nommée Facebook

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Une prison mentale nommée Facebook

par Rémi TREMBLAY

Ce n’était qu’une question temps comme je l’écrivais dans le quotidien Présent avant que la Fédération des Québécois de souche ne soit victime de la censure sur le réseau Facebook. Persona non grata au Parlement de Québec à cause d’idées « non-parlementaires », la Fédération est désormais dans le collimateur des censeurs, ce qui fera plaisir au nébuleux organisme Canadian Anti-Hate Network qui avait demandé dans le New York Times au réseau social de sévir contre la Fédération. Cette semaine, c’était au tour du réseau gouvernemental CBC d’exiger la censure des groupes québécois sur les réseaux sociaux.

Pour le moment, Facebook accuse la Fédération de propagande haineuse à cause de la publication d’un lien présentant diverses statistiques sur l’immigration de masse accompagné du commentaire : « L’aspect invasion de l’immigration est de plus en plus indéniable. » On n’explique pas en quoi celle-ci fait la promotion de la haine. Il s’agit d’une critique du système d’immigration, ce qui est tout à fait légal, même au Canada de Justin Trudeau où justement l’immigration fait les manchettes depuis quelques semaines. Il faut le noter, ni la Fédération, ni ses membres n’ont été reconnus coupables, ou même accusés de propagande haineuse. Facebook fait du zèle au niveau de la censure.

Mais ça, rien de nouveau.

La semaine dernière, le chroniqueur laïciste Richard Martineau du Journal de Montréal, avait été censuré pour avoir osé dire que seule une femme pouvait accoucher. Commentaire évidemment hautement « transphobe » qui valut au haineux personnage une punition d’une semaine loin des réseaux sociaux.

Début avril, c’était la commentatrice et youtubeuse conservatrice Faith Goldy qui avait été expulsée de Facebook suite aux nouvelles politiques mises en place par le géant du Web pour combattre le « nationalisme blanc », en réaction aux attaques de Christchurch. Par contre, on pourrait noter qu’après les attaques hautement plus meurtrières de Pâques au Sri Lanka, aucune mesure du genre ne fut prise. On ne se décida pas à bannir quiconque faisait la promotion du voile ou de la Charia, alors qu’on cible toute personnalité conservatrice ou nationaliste à cause de la tuerie néo-zélandaise. La censure est à sens unique.

Le danger de la politique liberticide de Facebook n’est pas tant pour ceux qui sont exclus que pour ceux qui restent. Les gens comme Faith Goldy n’ont pas besoin des réseaux sociaux et ne cesseront pas d’être qui ils sont ou de dire ce qu’ils disent parce qu’ils ont été expulsés du réseau social. Ils se trouveront d’autres moyens d’expression et rejoindront, avec peut-être plus d’efforts, un public intéressé. La menace pèse sur ceux qui restent.

Il y a un an, Facebook s’en prenait au « suprématisme blanc », puis cette année au « nationalisme blanc ». Dans les deux cas, il s’agit de termes vagues qui permettent à Facebook d’exercer un contrôle sur les commentaires et d’éviter toute critique, car lorsque quelqu’un est banni, personne n’oser venir le défendre, car ce serait s’associer au « suprématisme blanc ». L’usage de ce terme a comme objectif de sidérer les adversaires tout en se donnant un air vertueux. Mais, on constate qu’il y a une gradation théorique. La guerre aux « suprématistes » fait maintenant place à la lutte aux « nationalistes ». Et est « nationaliste blanc » quiconque, soit-il blanc, jaune ou noir, qui remet en question les politiques migratoires mises en place par les traîtres qui ne pensent pas à l’avenir et au bien-être des peuples qu’ils gouvernent.

Cette gradation relève de la stratégie du saucisson ou de la grenouille dans l’eau chaude. C’est par petits pas que la liberté d’expression est assassinée. Si du jour au lendemain on avait annoncé que toute critique de l’immigration était illégale, il y aurait eu une levée de boucliers et des dénonciations. Mais en y allant goutte par goutte, on rend la chose moins révoltante et on évite la contestation.

Le danger à long terme, c’est que ceux encore présents sur les réseaux sociaux risquent de modifier leur discours pour s’adapter aux nouvelles règles arbitraires mises en place par l’équipe de Zuckerberg. On évite de parler d’immigration, on recule pour garder le droit de s’exprimer sur les réseaux sociaux sans comprendre qu’on a le droit de parler, mais qu’on ne peut plus rien dire. Ce contrôle du discours n’est pas sans rappeler la philosophie derrière l’imposition de la novlangue dans le prophétique roman d’Orwell.

D’ailleurs les comparatifs entre Facebook et Big Brother, qui épie, surveille, note, endoctrine, limite la parole, sont trop évidents pour qu’il vaille la peine de les énumérer ici.

Être banni de ces réseaux n’est pas une mort sociale, loin de là, c’est un premier pas pour retrouver notre liberté de dire que 2 et 2 font 4.

Rémi Tremblay

• D’abord mis en ligne sur EuroLibertés, le 28 avril 2019.

mardi, 14 mai 2019

Soirée d'hommage à Dominique Venner

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La force de l’existence

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La force de l’existence

par Patrice-Hans Perrier

Ex: https://echelledejacob.blogspot.com

Les temps sont difficiles pour les patriotes actifs des deux côtés de l’Atlantique. En effet, le rouleau compresseur des diverses chartes onusiennes et la pression des grandes multinationales font en sorte que les prérogatives des États nationaux se réduisent, chaque jour, en peau de chagrin. Il y a péril en la demeure et c’est le cas de le dire.

DdtYwYdV4AAsic3.jpgL’historien Dominique Venner s’épanche longuement dans son essai, intitulé « Un samouraï d’Occident », sur les causes du déclin de l’Europe et de la civilisation helléno-chrétienne. D’après lui, l’inéluctable déclin de notre civilisation serait dû, d’entrée de jeu, à la perte de ce qui constituait la substantifique moelle de notre éthos collectif.

La charpente de nos mœurs et de nos valeurs spirituelles aurait été endommagée par une sorte de suicide collectif : un phénomène s’appuyant, non seulement sur l’hubris débridée de nos élites, mais tout autant sur l’effondrement d’une sagesse populaire qui puisait à une tradition plurimillénaire. Nous aurions perdu les bornes qui contenaient les menaces qui s’appesantissent sur nos sociétés déboussolées au moment de composer ces quelques lignes.
 
La perte des repères de la nature

Reprenant les préceptes exposés dans L’Homme et la technique, d’Oswald Spengler, l’historien Venner fustige la fuite en avant d’une technicité automotrice, laissée à elle-même sans contrepartie humaine. Ainsi, selon Spengler, « la pensée faustienne commence à ressentir la nausée des machines ». Prenant appui sur les observations du grand philosophe Martin Heidegger, Dominique Venner dénonce cette « métaphysique de l’illimité » qui repousse toujours plus loin les bornes de la technique, mais aussi de l’éthique. Le délire techniciste qui déferle sur notre époque aura contribué à faire sauter les digues des antiques préceptes qui guidaient nos sociétés depuis la nuit des temps.

Les anciens nous auraient légué, toujours selon Venner, « … l’idée de « cosmos », « l’idée que l’univers n’est pas un chaos, mais qu’il est au contraire soumis à l’ordre et à l’harmonie ». Et, de résumer la pensée principielle d’Homère qui pose les préceptes d’une vie bonne : « la nature comme socle, l’excellence comme but, la beauté comme horizon ». L’hubris de nos dirigeants, la décadence des mœurs et l’univers concentrationnaire de nos cités délabrées seraient les conséquences de l’effritement de l’antique sagesse. De la perte des bornes qui fondaient nos rapports en société et la culture comme lit de la mémoire de la cité. Les digues de la sagesse ayant été rompues, nous errons à travers nos cités dévastées tels des ilotes privés d’un droit de cité qui n’est plus qu’une chimère en l’espèce.

La métaphysique de l’illimité

Dominique Venner n’est pas le seul à dénoncer cette « métaphysique de l’illimité » qui prend appui sur l’idée que l’homme serait, à l’instar des dieux, un démiurge capable de manipuler les propriétés de la nature. Charles Taylor, ancien professeur de philosophie à l’Université McGill de Montréal, dans un petit essai intitulé Grandeur et misère de la modernité, remet en cause cette « culture contemporaine de l’authenticité » qui dériverait d’un idéalisme pathologique. Ce dernier estime que nos élites s’enferment, de plus en plus, dans un véritable onanisme intellectuel et spirituel. Ainsi, la quête de « l’authenticité » procéderait d’un idéalisme qui s’enferme dans ses présupposés, refusant toute forme de dialogue au final. Tout cela le pousse à affirmer que « les modes les plus égocentriques et « narcissiques » de la culture contemporaine sont manifestement intenables ».

Et, c’est par un extraordinaire effet de retournement que les occidentaux nés après la Seconde guerre mondiale se sont comportés telle une génération spontanée, faignant d’ignorer le legs de leurs prédécesseurs. Combattant les effets délétères d’une révolution industrielle métamorphosée en nécrose financière, les adeptes de la contre-culture ont fini par se réfugier dans une sorte de prostration mortifère. Les épigones de ce que certains nomment le « marxisme culturel » ont accaparé le temps de parole sur les ondes, sur Internet et partout sur la place publique des débats d’idées. De fait, il n’y a plus de débats possibles puisque l’hubris de ces nouvelles élites autoproclamées fait en sorte de transformer leurs contradicteurs en opposants politiques, voire en délinquants.

Les idiots utiles du grand capital apatride

L’idéalisme des pionniers de la contre-culture s’est transformé en fanatisme militant, capable de neutraliser toute forme de contestation au nom de la pureté de son combat apologétique. Manifestement incapables d’identifier le substratum de leurs luttes politiques, les nouveaux épigones de cette gauche de pacotille livrent une lutte sans merci à tous ceux qui osent s’opposer à la volonté de puissance des « forces du progrès » et de « l’esprit des lumières ». Sans même réaliser l’ironie de la chose, ces nouveaux guerriers de la rectitude politique mettent l’essentiel de leurs énergies au service des forces du grand capital apatride.

On assiste à un arraisonnement de la contestation qui, l’instant d’un retournement symbolique, s’est métamorphosé en police de la raison d’État. Parce que la nouvelle raison d’État se pare des vertus des « droits de l’homme », de la « protection de l’environnement » ou des « miracles du progrès » pour que rien ne puisse se mettre en travers de sa marche inexorable. Tout doit aller plus vite, sans que l’on puisse se poser de question, afin que les sédiments de l’ancienne morale, des antiques traditions de nos aïeux ou de nos repères identitaires soient emportés par les flots d’un changement de paradigme qui ne se nomme pas. Véritable ventriloque, ce grand vent de changement souffle sur les fondations d’une cité prétendument concentrationnaire, tout cela en ayant la prétention de vouloir libérer l’humanité de ses chaînes. Voilà la supercherie en l’état des lieux. 
 
Une génération spontanée coupée de ses racines

Taylor-Charles2.jpgCharles Taylor pose un regard d’une grande acuité sur ce « nouveau conformisme » des générations de l’après-guerre. Cette génération spontanée, refusant d’assumer sa dette envers les ancêtres, s’imagine dans la peau d’un démiurge mû par une force automotrice. Rien ne doit entraver sa volonté de puissance, déguisée en désir de libération. Chacun se croit « original », unique en son genre et libre d’agir à sa guise dans un contexte où les forces du marché ont remplacé les antiques lois de la cité. Taylor se met dans la peau des nouveaux protagonistes de la contre-culture actuelle : « non seulement je ne dois pas modeler ma vie sur les exigences du conformisme extérieur, mais je ne peux même pas trouver de modèle de vie à l’extérieur. Je ne peux le trouver qu’en moi ».

Véritable égocentrisme morbide, cet individualisme forcené se travestit à la manière d’un caméléon qui capte l’air du temps afin de se donner de la contenance et d’être en mesure de tromper ses adversaires. Parce que cette quête factice d’authenticité n’est qu’une parure qui cache l’appât du gain et la soif de reconnaissance de cette génération spontanée incapable d’arrimer ses désirs au socle de l’antique sagesse populaire. Conservateur lucide, tel un Jean-Claude Michéa, Charles Taylor n’hésite pas à faire référence aux intuitions géniales d’un Karl Marx mal compris en fin de compte. Les forces du marché, prises d’un emballement que rien ne semble capable d’arrêter actuellement, emportent toutes les digues, les bornes, qui fondaient nos cités pérennes.

Le capitalisme sauvage annonce la société liquide

Écoutons Charles Taylor :

On a parlé d’une perte de résonance, de profondeur, ou de richesse dans l’environnement humain. Il y a près de cent cinquante ans, Marx faisait observer dans le Manifeste du parti communiste que le développement capitaliste avait pour conséquence « de dissoudre dans l’air tout ce qui est solide » : cela veut dire que les objets solides, durables et souvent significatifs qui nous servaient par le passé, sont mis de côté au profit des marchandises de pacotille et des objets jetables dont nous nous entourons maintenant. Albert Borgman parle du « paradigme de l’instrument », par lequel nous nous retirons de plus en plus d’une relation complexe à l’égard de notre environnement et exigeons plutôt des produits conçus pour un usage limité.

Et, nous pourrions poursuivre le raisonnement de Taylor en observant les effets négatifs de cette « raison instrumentale » qui se déploie à travers le nouveau militantisme des zélotes de l’intégrisme libéral-libertaire. Rien ne doit entraver la liberté des marchés puisque tout s’équivaut dans l’espace libertaire du « chacun pour soi ». Le multiculturalisme, véritable doctrine d’État déployée au sein des anciennes colonies du Dominion britannique, représente une matrice anti-citoyenne qui favorise l’érection d’une multitude de ghettos ethno-confessionnels, sortes de nations artificielles qui minent la paix sociale de l’intérieur.

Les patriotes cloués au pilori

La cité, qui fondait sa légitimité sur la mémoire des ancêtres et la Geste du Héros, est détricotée au gré d’une sorte de guerre civile larvée mettant en scène la lutte de tous contre tous. Tributaire de la logique de marché, cette guerre civile en devenir prend une ampleur difficile à contenir puisque les héritiers du génos, ou legs des pères fondateurs sont privés du « droit de cité ». Ainsi, les protagonistes d’un conservatisme qui se réclame de la mémoire collective, du respect d’un patrimoine national ou d’une tradition immémoriale sont-ils accusés de faire corps avec un vil fascisme, sorte de maladie de l’âme qui contaminerait tous ceux qui refusent de se conformer au libéralisme ambiant.

Du haut de leurs chaires universitaires et médiatiques, les censeurs de la rectitude politique, déguisés en intellectuels, lancent des fatwas contre les patriotes qui récusent la nouvelle doxa et refusent d’adopter la nouvelle Magna Carta mondialiste. De puissants réseaux d’« influenceurs » se déploient sur Internet et ailleurs afin de stigmatiser, diffamer et menacer les quelques téméraires qui osent sortir des clous et poussent le culot jusqu’à remettre en question les canons de l’heure. In fine, les milices antifas et d’autres escadrons punitifs vont se mettre en marche afin de repérer et d’agresser les contrevenants. C’est l’annihilation qui est visée en fin de compte : pour que la pureté de la pensée unique soit préservée. Comble de la folie humaine, cette nouvelle inquisition libérale-libertaire ne réalise pas que ses propres procédés pourraient bien être utilisés contre elle-même. Parce que la « main invisible du marché » finira, tôt ou tard, par liquider ses idiots utiles. La « marche du progrès » va ainsi : nulle mémoire ne saurait être tolérée dans le cadre du process de la marchandise, véritable Léviathan qui se mord la queue.

Patrice-Hans Perrier

Comprendre le marxisme culturel - Entretien avec Pierre-Antoine Plaquevent

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Comprendre le marxisme culturel

 
Entretien avec Pierre-Antoine Plaquevent :
 
1 De la terreur bolchevique au marxisme culturel
2 De Francfort à la Californie
3 La personnalité autoritaire
4 Kinsey report
5 Freudo-marxisme
6 Des universités américaines à Mai 68
7 Du social au sociétal
 
Faites un don : https://stratpol.com/don/
 
Achetez le livre de Pierre-Antoine Plaquevent : https://www.leretourauxsources.com/es...
 

Média & Politique : La fabrique du consentement - Michel Onfray

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Média & Politique : La fabrique du consentement - Michel Onfray

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Théorie de la dictature... - Un essai de Michel Onfray

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Théorie de la dictature...

Un essai de Michel Onfray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions robert Laffont viennent de publier un essai de Michel Onfray intitulé Théorie de la dictature. Philosophe populaire, tenant d'un socialisme libertaire, Michef Onfray a publié de nombreux ouvrages, dont dernièrement sa trilogie  Cosmos (Flammarion, 2015), Décadence (Flammarion, 2017) et Sagesse (Flammarion, 2019).

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Il est admis que 1984 et La Ferme des animaux d'Orwell permettent de penser les dictatures du XXe siècle. Je pose l'hypothèse qu'ils permettent également de concevoir les dictatures de toujours.
Comment instaurer aujourd'hui une dictature d'un type nouveau ?

J'ai pour ce faire dégagé sept pistes : détruire la liberté ; appauvrir la langue ; abolir la vérité ; supprimer l'histoire ; nier la nature ; propager la haine ; aspirer à l'Empire. Chacun de ces temps est composé de moments particuliers.
Pour détruire la liberté, il faut : assurer une surveillance perpétuelle ; ruiner la vie personnelle ; supprimer la solitude ; se réjouir des fêtes obligatoires ; uniformiser l'opinion; dénoncer le crime par la pensée.
Pour appauvrir la langue, il faut : pratiquer une langue nouvelle ; utiliser le double langage; détruire des mots ; oraliser la langue ; parler une langue unique ; supprimer les classiques.
Pour abolir la vérité, il faut : enseigner l'idéologie ; instrumentaliser la presse ; propager de fausses nouvelles ; produire le réel.
Pour supprimer l'histoire, il faut : effacer le passé ; réécrire l'histoire ; inventer la mémoire ; détruire les livres ; industrialiser la littérature.
Pour nier la nature, il faut : détruire la pulsion de vie ; organiser la frustration sexuelle ; hygiéniser la vie ; procréer médicalement.
Pour propager la haine, il faut : se créer un ennemi ; fomenter des guerres ; psychiatriser la pensée critique ; achever le dernier homme.
Pour aspirer à l'Empire, il faut : formater les enfants ; administrer l'opposition ; gouverner avec les élites ; asservir grâce au progrès ; dissimuler le pouvoir.

Qui dira que nous n'y sommes pas ?

M.O.

lundi, 13 mai 2019

Extraits de la revue de presse de Pierre Bérard (13 mai 2019)

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Extraits de la revue de presse de Pierre Bérard (13 mai 2019)

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Au sommaire :

Emission de deux heures consacrée par Radio Méridien Zéro au dernier colloque de L’Institut Ilade, Europe, l’heure des frontières. Successivement, interview de Jean-Yves Le Gallou, du Rucher  patriote, François Bousquet qui résume le positionnement de la revue Éléments par la formule avoir un pied dans le système et un pied hors du système, d'un artisan du bois qui fabrique des objet de cuisine, de l’un des chroniqueurs de Sputnik Édouard Chanot, de Jean Peusse, géographe, de l’équipe artistique qui a confectionné les tentures exposées au colloque, d'un participant de la promotion Marc Aurèle, Romain Le Cap qui présente une exposition d’art liée à L’Institut qui aura lieu en septembre, de Sieghilde qui fabrique des objets de la quotidienneté dans des matières nobles, d'Anne-Laure Blanc qui insiste sur la transmission de l’héritage par la littérature-jeunesse, de Benoît Couëtoux pour terminer qui évoque la formation dispensée par L’Institut Iliade dont l’objectif est de créer un réseau d’influence centré sur l’héritage européen remplaçant ainsi un école défaillante :

 
Nous découvrons, dans un tribune publiée par Le Figaro, cet article de Mathieu Bock-Côté qui réfléchit aux propos du président Macron lors de sa conférence de presse du 25 avril qui disait vouloir pour la France un « patriotisme inclusif ».

" Dans sa conférence de presse du 25 avril, Emmanuel Macron a dit vouloir pour la France un « patriotisme inclusif ». La formule, qui se voulait positive, a peut-être néanmoins écorché certaines oreilles dans la mesure où elle laissait entendre que le patriotisme français, jusqu’à tout récemment, avait été « exclusif ». Doit-il connaître une mue idéologique pour redevenir moralement acceptable ? En quoi le patriotisme français d’hier et d’avant-hier échouait-il le test humaniste de l’hospitalité ? On serait en droit de poser la question à ceux qui se réclament de cette notion : que veut dire devenir inclusif ? Quels critères distinguent le bon patriotisme du mauvais ? Le patriotisme tragique du général de Gaulle était-il suffisamment inclusif ? On l’aura compris, en termes macroniens, le patriotisme français devrait passer de la société fermée à la société ouverte, ce qui n’est peut-être qu’une manière de reconduire en de nouveaux termes le clivage apparemment insurmontable entre progressistes et populistes que les premiers cherchent à imposer.

[...]

Le patriotisme inclusif témoignerait d’un autre rapport au monde. D’ailleurs, la formule n’est pas neuve. En 2013, le rapport Tuot, qui avait suscité un certain écho médiatico-politique, avait cherché à l’imposer en plaidant pour le modèle de la « société inclusive », délivré de toute conception substantielle de l’identité française, comme si cette dernière était autoritaire et poussiéreuse.

[...]

Pour peu qu’on traduise ce vocabulaire propre à la novlangue diversitaire, on retrouve tout simplement l’idéologie multiculturaliste.

[...]

Dans la perspective multiculturaliste, le peuple historique qui formait le corps de la nation n’est plus qu’une communauté parmi d’autres dans la société plurielle. Il doit consentir à son déclassement symbolique et consentir à une forme de décolonisation intérieure. S’il le refuse, il devient dès lors le principal obstacle à la reconstruction d’une nation véritablement inclusive, dans la mesure où il refuserait d’accepter une différence déstabilisant ses certitudes. Une telle posture serait condamnable.

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L’OJIM s’interesse également à Mathieu Bock-Côté pour la parution de son dernier essai L’Empire du politiquement correct. Essai sur la respectabilité politico-médiatique  paru récemment aux Editions du Cerf dans la mesure ou l’auteur y décrypte l’idéologie dominante qui s’étale dans les médias. Comme d’habitude l’OJIM se livre à un travail salutaire :

 
Analyse du discours d’Emmanuel Macron lors de sa conférence de presse. L’auteur le désigne comme un Narcisse maladif :
 
 
 
Très belles réflexions d’Alain Finkielkraut au sujet de l’incendie de Notre-Dame de Paris. Pour lui le patrimoine est autre chose qu’un « filon touristique », c’est la présence des morts, un vestige palpable du passé. La présence de Notre-Dame rehausse de sa beauté et de sa spiritualité notre vie sur terre. C’est parce que nous sommes aussi des « habitants » que  nous avons besoin de ces choses durables qui résistent à l’érosion du temps. Pour que l’émotion qui nous étreint ne demeure pas sans lendemain, ajoute-t-il, il convient que la politique retrouve son sens. La politique n’est pas seulement comme elle tend à le devenir, gestion du processus vital (« bio-politique » comme disait Michel Foucault ou « administration ménagère » comme disait Anna Arendt). La tâche du politique est aussi de rendre le monde habitable, et l’une des bases de l’habitabilité c’est la beauté. Alors qu’Anne Hidalgo annonce fièrement que la cathédrale sera prête, pimpante pour les jeux olympique elle dévoile son jeu, celui du filon touristique, et celui de la vision économiste et marchande du monde. L’indécence du propos révèle, si besoin est, l’obscénité de nos gouvernants tous ancrés dans le culte du veau d’or. On notera également que Finkielkraut regrette que parler de racines soit devenu « réactionnaire » selon la doxa dominante et que donner une définition substancielle de la France soit prendre le risque d’exclusion des nouveaux arrivants si bien que dans notre pays même il est loisible d’afficher une identité quelle qu’elle soit à la condition de ne jamais faire mention de la notre ce que confirme la définition de l’Europe moderne selon le sociologue allemand Ulrich Beck : « Vacuité substancielle, ouverture radicale » (première référence).
L’émission qui promet d’être hebdomadaire reprend les recettes de L’esprit de l’escalier, toujours avec Elisabeth Lévy comme sparring-partner et tout cela dans un nouvel écrin au nom évocateur de 
« Réacnroll » qui s’annonce comme la web-télé des « mécontemporains » (deuxième référence)  :
 
 
 
Dans un article où il rappelle la tribune des 1170 conservateurs du patrimoine, architecte et professeurs qui estiment que 5 ans ne suffiront pas pour mener à bien les travaux de rénovations, Olivier Bost dénonce toutes les dérogations mises en place par le gouvernement pour précipiter les travaux de réfection de Notre-Dame de Paris. Visiblement Emmanuel Macron, homme pressé, entend faire de ce chantier une marque de sa mégalomanie de président bâtisseur en se passant des experts du patrimoine. On peut donc s’attendre au pire de la part de celui qui se veut le chef de file des « progressistes » :
 
 

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Extrait d’une réaction désabusée de l’architecte Rudy Ricciotti sur l’architecture contemporaine. « Si une façade du XIX siècle pouvait être décrite par 100 mots, aujourd’hui la façade d’un immeuble contemporain ne peut pas être décrite par plus de 3-4 mots ». Il célèbre également la beauté de Notre-Dame de Paris et déplore le manque de personnalité des bâtiments de notre époque ;
 
 
Michel Drac dans sa dernière vidéo rend compte de l’excellent livre de François Bégaudeau Histoire de ta bêtise. Drac ne cache pas son admiration pour cet écrivain d’ultra gauche qui a su, dans ce livre, prendre du recul face aux sermons de sa classe d’origine, en gros la bourgeoisie de gauche et les petits bourgeois d’extrême gauche, pour nous livrer un panorama consternant de leur cinéma. Les explications de Michel Drac pointent cependant l’impensé de l’auteur, ce qui fait de son exposé une bible pour la dissidence :
 
 
L’Inactuelle a eu l’excellente idée de republier un entretien revigorant de Cornelius Castoriadis sur l’écologie politique. Il y déclare, entre autre pépite, que « le politique est une architectonique de la cité dans sa totalité. Elle a de cette manière rapport au sacré, par son ancrage dans un récit, une histoire, un passé, un présent et un avenir, sans quoi le monde moderne s’effondrera sous le joug de la volonté de puissance de la techno-science… »  :
 
 
Émission du Libre journal de la Nouvelle Droite consacrée au livre très dense de Thibault Mercier Discriminer ou disparaitre , co-publication de l’Institut Iliade et des Éditions Pierre Guillaume de Roux  et à Maxime Dalle qui publie une anthologie des écrits parus dans Raskar Kapac revue littéraire intéressante de facture conservatrice :
 
 
Critique approbative du livre de Thibault Mercier Athéna à la borne. Discriminer ou disparaître par Michel Geoffroy sur le site très riche de la Fondation Polémia. Exister, c’est se distinguer de l’autre, c’est délimiter un dedans et un dehors, c’est inclure et exclure en fonction d’une limite. C’est donc discriminer. Discriminer ou disparaître, il faut choisir. À l’heure où le refus de toutes discriminations est devenue un argument essentiel de l’idéologie libérale, libertaire et mondialiste pour délégitimer toute les identités de manière à ne reconnaitre que l’individu et l'humanité, il réhabilite cette notion avec hardiesse et le raisonnement est véritablement implacable :
 
 

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Excellent exposé de Caroline Galactéros sur les déboires de la (non) politique extérieure de l’Europe et de la France :
 
 
Olivier Maulin qui vient de faire paraître Le populisme ou la mort (Via Romana) préfacé par François Bousquet est ici rapidement croqué par Jean-Yves Le Gallou. Ce dernier insiste sur le « coming out » d’un auteur qui jusqu’ici ne s’était pas signalé par des prises de position politique. Son livre contient ses meilleurs articles parus sous pseudonyme dans l'hebdomadaire Minute que toute le bien-pensance tient pour un vulgaire « torchon » mais qui à l’occasion se montre capable de recruter des collaborateurs d’exception comme ce volume en fait foi  :
 
 
Les  Gilets Jaunes constituent-ils un phénomène « miraculeux » ? Oui selon le romancier Olivier Maulin qui accorde un entretien au chroniqueur de Sputnik Édouard Chanot. « j’espère que les élites paieront un jour pour certaine trahisons! » déclare-t-il sans ambages au terme d’une prestation décapante :
 
 
Christophe Guilluy accorde un entretien à l’hebdomadaire Le Point. Pour ce géographe inventeur et théoricien de la France périphérique le repli identitaire est une conséquence logique du modèle multiculturel  arrivé dans les bagages de la mondialisation. Le peuple des Gilets jaunes a de quoi être amère puisque il se trouve cadenassé en dehors des grandes métropoles gentrifiées, tenus à l’écart des marchés de l’emploi et culturellement ringardisés. Le monde d’en haut, dit-il, a fait sécession et a abandonné toute notion de bien commun confinant l’État-providence à l’oubli programmé aussi est-il compréhensible que les classes populaires cherchent à préserver le bien qui leur reste à savoir leur capital culturel :
 
 
La diffusion hebdomadaire d'I-Média est un des moments phare de la réinformation surTV-Libertés. Présentée par un duo de choc constitué de Jean-Yves Le Gallou et Nicolas Faure il s’efforce chaque jeudi d’opérer la critique positive du traitement de l’actualité par les médias de grand chemin. Des médias qui sont certainement les principaux agents du politiquement correct et à ce titre de puissants agents inhibiteurs de la libre expression du peuple. Ci-joint le dernier numéro, toujours aussi captivant qui traite entre autres de la fake-new colportée par Julien Pain de France-info à propos du grand remplacement. Selon lui, interviewant François Hérant à l’appui de sa thèse, le grand remplacement relève d’une théorie complotiste (première référence). Hélas pour le journaliste redresseur de tort son intox s’avère comme une simple manipulation des chiffres comme le souligne la démographe Michèle Tribalat, une spécialiste de renom, membre de l’INED, qui s’est fait mettre au placard par le même François Héran, la caution malheureuse de Julien Pain, désormais au Collège de France pour services rendus. Ce monde de connivence qui viole la réalité des chiffres est décidément tout petit (deuxième référence)  :
 
 
 

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Réflexion très riche de Jean-François Gautier sur et à partir de l’ouvrage célèbre de Walter Benjamin, L’oeuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique. Selon Gautier la crise de l’art à l’époque contemporaine est d’abord une crise du politique :
 
 
Jean-Pierre Marielle vu par Ludovic Maubreuil. « Chantre d’un cinéma gouailleur et réfléchi, salace et profond ». L’une des meilleures chroniques parues sur ce témoin de la France d'avant :
 
 
Bernard Asso publie dans Le Figaro un tribune bien documentée sur le thème du gouvernement des juges. Nos lois remarque-t-il sont non seulement dictées par des normes européennes mais par l’interprétation qu’en font les juges de la Cour de justice de l’Union européenne et de la Cour européenne des droits de l’homme dans le domaine sociétal et mettent en danger les libertés fondamentales de l’individu et allant jusqu’à la sanctification du délit de blasphème. Une position clairement assumée chez ce professeur de droit, candidat sur la liste des Républicains pour les prochaines européennes :
 
 
Autre perversion du droit. Ali Laïdi vient de publier Le droit, nouvelle arme de guerre économique. Comment les États-Unis déstabilisent les entreprises européennes (Editions Actes Sud 2019). Dans cette enquête rondement menée il démontre comment les Américains se servent de l’extra-territorialité de leur droit pour mener une guerre économiques contre les entreprises européennes. Pourtant face à ces offensives récurrentes l’Union européenne demeure impuissante. Interrogé ici par Le Figaro, il déclare par exemple que la chancelière Angela Merkel trouve tout à fait normal que les États-Unis épinglent les entreprises étrangères soupçonnées de corruption et imposent leurs diktats dans le monde qu’ils contrôlent. Devant ce problème les Européens sont comme tétanisées et renoncent à réagir. Pourquoi ? Parce que la notion même de guerre économique est balayé à Bruxelles. « L’Europe c’est la paix, et la puissance est un gros mot à Bruxelles »  conclue-t-il :
 
 
Jean Messiha, Copte d’origine et énarque, membre du Rassemblement National, s’exprime devant les caméras d’Elise Blaise après la conférence de presse du président de la République et énonce les principales orientations de son mouvement avec vivacité  :
 
 
Nicolas Dupont-Aignan était l’invité d’Élise Blaise le 4 mai. Avec un minimum de démagogie il parle du fake-new de Christophe Castaner au sujet de l’affaire de la Pitié-Salpêtrière, de l’incendie de Notre Dame-de Paris et présente à grands traits les éléments de son programme pour les Européennes :
 
 
Entre succession de poses et déclarations contradictoires pour ne pas dire schizophréniques Nathalie Loiseau, la très charismatique tête de liste LREM pour les prochaines élections européennes se débat comme elle peut, c’est à dire très mal et révèle « en même temps » une propension pathologique au mensonge. Ce véritable feuilleton d'une saga macroniste ubuesque  est illustré par Nicolas Gauthier dans ce bref article de Boulevard Voltaire. Le kulturkampf mené par le président contre les « anti-progressistes » est mal parti :
 
 

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Un article bienvenu d'Hervé Juvin sur l’islam qui, contrairement à l’idée que s’en font nombre de nos contemporains, de se laisse réduire ni à son image terroriste, ni à ce que dans les élites occidentales les belles âmes aimeraient qu’il soit. Pour lui l’islam en Europe se nourrit des vertiges de l’Occident, de sa repentance, de sa haine de soi, et du vide spirituel qui le ronge : 
 
 
Une analyse d’Aurélien Marq qui confirme celle d’Hervé Juvin. Impossible pour un observateur honnête de considérer l’islam comme un bloc monolithique. Il évoque les réseaux obscurantistes de l’islam dans notre pays qui menacent de mort les apostats et livrent une guerres quotidienne aux musulmanes qui refusent de porter le voile. Mais il faut se rendre à l’évidence; seuls quelques intellectuels se réclamant de l’islam protestent contre cet état de fait alors que pour la grande majorité d’entre eux c'est un silence pesant qui fait loi vis à vis de ces exactions. Une société sécularisée comme la notre peut-elle supporter que l’allégeance dogmatique d’un nombre grandissant de fidèles musulmans à une foi venue d’ailleurs puisse s’exprimer ici avec une ostentation qu’en théorie la République réprime ?  Marq se réclame d’Abdelwahab Meddeb un tunisien musulman que la doxa occidentale qualifiera volontiers d'éclairé, animateur sur France culture aujourd’hui décédé qui ne craignait pas de passer pour un mécréant en réclamant une réforme du Coran afin que soit reconnue son origine humaine. Ce qui va, bien entendu à l’encontre de la croyance musulmane traditionnelle regardée comme vérité fondamentales. Mais la liberté de conscience que cette réforme permettrait d’introduire peut-elle se postuler hors de son contexte occidental sans sombrer dans le péché d’ethnocentrisme qui fut tant reproché à l’Europe coloniale ?
 
 
Non ce n’est pas carnaval mais le sourire énamouré d’un bouffon (et maire Républicain de Toulouse…) affiché au cours d’une cérémonie d’intronisation dans une culture africaine dans sa ville même. Jean-Louis Moudenc ne craint-il pas que le Conseil Représentatif des Associations Noires de France l’accuse de pratiquer une sorte de blackface, cette odieuse manière pour un Blanc se singer les Africains ? Dommage qu’il n’y ait pas de mot, fut-il en globish, pour désigner l’inverse, à savoir le fait pour les Africains de se grimer en Blanc; les exemples abonderaient. Mais il est vrai qu’il y manquerait l’essentiel c’est à dire l’idée d’une domination exercée par un groupe ethnique sur un autre. Que les « antiracistes » ne s'impatientent pas trop, avec des olibrius tel le maire de Toulouse ça sera bientôt chose faite :
 
 
« La vraie facture de l’assistanat en France, c’est celle de l’assistanat des entreprises. Nous allons bientôt 150 milliards de subventions à l’économie et aux entreprises dans ce pays (…) C’est cette manne d’assistanat qu’il faut reprendre, pour remettre le patronat au travail ». Mélenchon ? Non ! Alain Madelin en 2014…

Le théoricien de la très grande Europe

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Le théoricien de la très grande Europe

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Comme lors de la chronique de février dernier, il ne sera pas aujourd’hui question d’une figure européenne, mais d’une personnalité déjà évoquée à l’occasion de la deuxième chronique en date du 31 janvier 2017, à savoir Jean Thiriart (1922 – 1992).

La sortie en 2016 dans la collection « Qui suis-je ? » chez Pardès de Thiriart par Yannick Sauveur suscita un regain de curiosité autour de ses idées. Jusqu’alors, on ne disposait que d’Un Empire de quatre cents millions d’hommes, l’Europe. La naissance d’une nation, au départ d’un parti historique chez Avatar sorti en 2007. Paru à l’origine en 1964, cet essai qui présente quelques points toujours actuels par exemple « pas de liberté politique individuelle sans indépendance économique personnelle (p. 108) » n’en demeure pas moins daté.

Ne disposer que de ce seul ouvrage aurait été préjudiciable pour l’activisme grand-européen si les excellentes éditions nantaises Ars Magna n’avaient pas produit un fantastique effort de publication sur et autour de Jean Thiriart. Le prophète de la grande Europe, Jean Thiriart (2018, 484 p., 32 €) contient des entretiens (dont un, célèbre, avec Juan Peron en exil à Madrid), des articles de Thiriart ainsi que quatre textes sur lui. L’empire qui viendra (2018, 168 p., 28 €) comprend une préface de Claudio Mutti, un entretien méconnu de Thiriart en 1987 et divers textes géopolitiques. L’Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin (2018, 191 p., 28 €) se compose, en dehors de quelques entretiens, d’articles du milieu des années 1980 et la version écrite d’une fameuse discussion à Moscou en août 1992 avec Egor Ligatchev, responsable d’une faction conservatrice au sein du Parti communiste russe. S’y trouvent aussi des notes d’un essai inachevé consacré à un hypothétique ensemble euro-soviétique. À la fin de l’année 2018 est cependant paru aux Éditions de la plus grande Europe L’Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin, préfacé et annoté par Yannick Sauveur (2018, 337 p., 25 €), soit la version intégrale d’esquisses parfois bien avancées.

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Il est indéniable que Jean Thiriart soutenait des positions hétérodoxes au sein de l’anticonformisme intellectuel. Athée résolu, ce faustien – il préférait cependant le terme de « prométhéen » – affirme sans ambages que « le politique, c’est la gestion intelligente de l’homme tel qu’il est, pour ce qu’il est. C’est un effort qui doit tendre à une société cohérente, solidaire, cohésive, efficace, en évolution constante (version de Yannick Sauveur, p. 164) ».

Cet infatigable militant qui connut l’aisance professionnelle et la quiétude privée ne cessa d’agir en faveur d’une union géopolitique continentale paneuropéenne réelle. Reconnaissant volontiers sa dette à l’égard du penseur libéral Vilfredo Pareto, ce lecteur attentif de Machiavel considérait que « l’Union soviétique a hérité du destin historique de la principale puissance continentale (version d’Ars Magna, p. 96) ». Dès 1979, il salue l’intervention de l’Armée Rouge en Afghanistan. Dans « L’Union soviétique dans la pensée de Jean Thiriart », José Cuadrado Costa le range parmi les nationaux-bolcheviks, ce qui est quelque peu réducteur. Jean Thiriart savait dépasser les clivages, y compris au sein des droites radicales.

Rares sont en effet ceux qui effectuent à ces temps de relance de la Guerre froide « une critique positive de l’URSS (version de Yannick Sauveur, p. 185) » et pensent que « l’agrandissement de l’URSS vers Dublin et Cadix relève de la perspective historique (Idem, p. 188) ». Jean Thiriart croît que « l’Empire euro-soviétique sera une construction géopolitique parfaite comme le fut l’Empire romain, comme l’était la première République pour Sieyès. Conception de géohistorien chez moi, dénuée de toute passion (Id., p. 69) ». Il regrette en revanche que l’Union soviétique n’ait pas annexé après 1945 la Pologne, la Roumanie, la Yougoslavie, la Hongrie, l’Allemagne de l’Est, etc. La Bulgarie a failli devenir en 1979 une 16e république soviétique… « La forme grand-européenne exige plusieurs modifications des concepts ou habitudes mentales communistes, écrit Jean Thiriart : la stupide et dangereuse théorie des nationalités (multi-nationalités) doit faire place à la supranationalité, l’Empire (version d’Ars Magna, p. 66). »

Il parie enfin que « l’Empire euro-soviétique – une nécessité pour l’URSS – ne sera pas possible en l’absence d’un nouveau concept, celui d’imperium euro-soviétique. Il se charpente autour de deux règles : la garantie de l’« omnicitoyenneté » et l’État-Nation extensif grâce à un “ nationalisme politique ” (“ peuple politique ” opposé en tant que tel à peuple racial, à peuple linguistique, à peuple religieux, à peuple culturel, etc.) (version de Yannick Sauveur, p. 223) », ce qui implique à l’instar du modèle républicain laïque assimilationniste français qu’il ne cesse d’admirer une forme restreinte de cosmopolitisme, voire un mondialisme relatif et partiel, dans le cadre d’un grand espace continental représenté par cette République impériale euro-soviétique.

Remarquable doctrinaire grand-européen, Jean Thiriart s’inspirait finalement de l’exemple national et républicain turc. Son vœu le plus cher aurait-il été de devenir le Mustapha Kemal Atatürk de la très grande Europe ?

Au revoir et dans quatre semaines pour une chronique consacrée à une nouvelle grande figure européenne.

Georges Feltin-Tracol

• Chronique diffusée le 23 avril 2019 à Radio Courtoisie dans le cadre du « Libre-Journal des Européens » de Thomas Ferrier.

Vers un nouveau printemps des études parétiennes?

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Vers un nouveau printemps des études parétiennes?

par Daniel COLOGNE

Vilfredo Frederigo Samaso, marquis de Pareto, est né le 15 juillet 1848 à Paris. Son père y est en exil pour avoir participé à un complot républicain à Gênes. La réhabilitation paternelle lui permet d’entreprendre ses études à Gênes et Turin. Après avoir soutenu une thèse de physique, il devient ingénieur et directeur technique de deux sociétés, l’une ferroviaire, l’autre métallurgique.

Déçu par l’engagement politique, Vilfredo Pareto se lance dans l’étude de la théorie économique, rencontre Léon Walras en 1891 et obtient une chaire d’économie politique à Lausanne en 1893. Il se passionne ensuite pour la sociologie et publie notamment Les Systèmes socialistes. Il soutient Mussolini. Il est nommé sénateur du royaume d’Italie le 23 mars 1923, mais il meurt quelques mois plus tard (le 19 août) à Céligny, face au lac Léman.

Un lycée Pareto existe à Lausanne et j’y ai rencontré Giuseppe Patanè, avec qui j’ai organisé en 1976 une commémoration de la répression de la révolte de Budapest par les chars soviétiques (1956). Patanè avait deux fils : Fabrizio, très sympathique, fort discret et d’un bon niveau, et Massimo, jeune érudit m’ayant fait découvrir que le syndicalisme mussolinien n’avait rien à envier à celui des régimes situés à gauche et intouchable à l’époque dans des medias tendancieux.

L’évocation du syndicalisme permet de faire une transition vers la pensée de Georges Sorel (d’un an plus vieux que Pareto) et vers l’intérêt que suscite l’auteur de Réflexions sur la Violence chez Jean-Pierre Blanchard, pasteur militant de la cause identitaire et auteur de Vilfredo Pareto, génie et visionnaire.

À propos de Sorel, l’auteur rappelle « qu’il a introduit un célèbre distinguo entre force et violence, la force ayant pour but d’imposer un ordre social, alors que celui de la violence est de le détruire (p. 118) ». J’attire aussi l’attention des lecteurs sur l’annexe où Jean-Pierre Blanchard développe l’hypothèse d’une cohabitation inattendue de Nietzsche et de Marx chez Sorel, ce dernier ayant donc pu permettre de « faire mariage » à « l’aristocratie nationaliste réactionnaire » et au « bourgeois communiste révolutionnaire (p. 136) ».

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Le brillant exposé de la sociologie parétienne par le pasteur Blanchard est préfacé par Georges Feltin-Tracol qui espère que l’ouvrage de 2019 sera « l’hirondelle printanière », messagère d’un « renouveau des études parétiennes ! (p. 18) ». Car il faut bien reconnaître l’optimisme excessif de Jules Monnerot et de son pronostic des années 1960 sur « une remontée de la cote Pareto à la bourse des valeurs intellectuelles de l’Europe (p. 17) ».

Et ce malgré l’intérêt jamais démenti de la « Nouvelle Droite » à travers l’admiration vouée à Pareto par Georges Henri-Bousquet (ouvrage paru chez Dalloz en 1971), les références d’Alain de Benoist dans son Vu de droite (1977) et la revue Nouvelle École (1981), les allusions de Louis Pauwels dans son Blumroch l’Admirable (1976) et même, assez récemment, l’influence parétienne observable chez Guillaume Faye dans Mon Programme (2012).

« Toute population sociale est composée de deux couches, une couche inférieure qui comprend tous ceux qui ne réussisent que médiocrement dans la vie et une couche supérieure, l’élite, qui comprend tous ceux qui réussissent, dans quelque domaine que ce soit, et qui se divise en deux : l’élite non gouvernementale et l’élite gouvernementale. » Le pasteur Blanchard précise que, si de bons éléments émergent de la « couche inférieure » et que des membres de « l’élite », « gouvernementale » ou non, s’avèrent défaillants, « la décadence menace toute société qui ne pratique pas la mobilité sociale, la circulation des élites (p. 108) ». L’Establishment britannique fournit un bon exemple de cette « mobilité sociale », mais aussi l’Église catholique, comme le souligne pertinemment en page 73 Éric Zemmour dans son Destin français. Deux ans après le décès de Pareto, le Grand d’Espagne Miguel de Unamuno parle d’« agonie du christianisme » (1925).

Un deuxième stade de la « régression des castes dominantes (Julius Evola) » sévit déjà à travers la simple « magistrature d’influence » exercée par les derniers monarques issus de la noblesse. Ainsi s’exprime l’historien liégeois Léon Balace pour décrire les rois des Belges qui règnent sans gouverner et qui se contentent désormais de pérorer sur l’utopique vivre-ensemble, tant au niveau de leur petite patrie fracturée qu’à celui de la grande et illusoire fraternité mondialiste. L’élite gouvernementale désignée par Vilfredo Pareto est celle de la troisième fonction (en termes duméziliens) ou des « hommes de gestion » (dans le lexique de Raymond Abellio). Les producteurs ne sont pas seulement économiques, mais aussi culturels. Ceux-ci composent l’essentiel de l’élite non gouvernementale (presse, écrivains, artistes de toutes disciplines, animateurs des industries du divertissement, du spectacle et du luxe).

La quatrième fonction des « hommes d’exécution » (Abellio) ne s’est mise en valeur que le temps d’une brève parenthèse historique avec la complicité des penseurs de type sartrien, trop rarement éveillés à l’inanité du déterminisme socio-économique : « Valéry est un intellectuel petit-bourgeois, mais tout intellectuel petit-bourgeois n’est pas Valéry. » Peut-on encore attendre aujourd’hui de la nouvelle caste médiatique dominante ce type de jugement nuancé dont même Sartre était encore capable ? Le mondialisme qu’elle cherche à imposer correspond parfaitement à la nation parétienne de « dérivation », à savoir un ensemble de « manifestations verbales [qui] s’éloignent de la réalité [tout en ayant] une valeur persuasive bien supérieure au raisonnement objectif (p. 67) ».

« Voici ce qui est plus grave : toutes ces idées pures, toutes ces théories, ces doctrines, nous en connaissons la vanité, et l’inexistence au point de vue objectif (p. 81). » Ces lignes du Pasteur Blanchard mettent en exergue le « pragmatisme » de Vilfredo Pareto, dont le préfacier Georges Feltin-Tracol rappelle qu’il est « une référence revendiquée [par Jean Thiriart] dans le cadre de son État central grand-européen (p. 17) ». C’est une raison supplémentaire de lire l’excellent ouvrage de Jean-Pierre Blanchard sur l’auteur du Traité de sociologie générale (1916).

Note complémentaire

Dans une excellente contribution d’août 2018 au site Rédacteurs RH, David Rouiller évoque « l’autre tiers-mondisme », différent de celui qui s’est exprimé dans les livres de Frantz Fanon et de Jean Ziegler et dans les conférences de Bakou (1920) et de Bandœng (1955). On peut l’appeler tiers-mondisme « de Droite », à l’intérieur duquel David Rouiller sépare encore l’ivraie du « fatras » d’Alain Soral et le bon grain de la « Quadricontinentale » de Thiriart et des positions de Guénon et d’Evola en faveur des cultures traditionnelles détruites par la modernité. David Rouiller souligne toutefois que l’installation de Guénon en terre musulmane d’Égypte peut inciter certains guénoniens à développer un « philo-islamisme de Droite », comme le fit aussi la revue évolienne Totalité en 1979 avec son éloge d ela révolution iranienne.

Toujours en août 2018 et sur le même site, David Rouiller aborde la question de « l’avènement du Cinquième État », stade ultime de la « régression des castes dominantes » (Julius Evola). À la manœuvre de ce processus semble opérer une large fraction de ce que Pareto appelle « l’élite non gouvernementale ». Les anciens intellectuels soutenant le prolétariat sont remplacés par les partisans du « chaos social » (René Guénon), une sorte de nouvelle caste dont les contours sont toutefois difficiles à cerner ainsi que le notait déjà dans un article de 1980 le regretté Guillaume Faye.

Daniel Cologne

• Jean-Pierre Blanchard, Vilfredo Pareto, génie et visionnaire, préface de Georges Feltin-Tracol, Dualpha Éditions, coll. « Patrimoine des héritages », 2019, 152 p., 23 €.

dimanche, 12 mai 2019

DYNAMIQUES MULTIPOLAIRES - ENTRE ÉQUILIBRE GÉNÉRAL DES FORCES ET ÉQUILIBRES RÉGIONAUX DE SÉCURITÉ

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DYNAMIQUES MULTIPOLAIRES 

ENTRE ÉQUILIBRE GÉNÉRAL DES FORCES ET ÉQUILIBRES RÉGIONAUX DE SÉCURITÉ

VIII MOSCOW CONFERENCE ON INTERNATIONAL SECURITY 2019

par Irnerio SEMINATORE

Texte rédigé en vue de la présentation à la VIIIème Conférence Internationale sur la Sécurité de Moscou des 23-25 avril 2019, organisée par le Ministère de la Défense de la Fédération de Russie.


TABLE DES MATIÈRES

Système et conjoncture

Dissuasion et forces conventionnelles

Les dynamiques et les inconnues du système de la multipolarité

La Chine et la conception chinoise de la mondialisation

La Russie et l'enjeu multipolaire

La stratégie de sécurité de la Russie.

La Russie et le retour des grandes stratégies

La stratégie des États-Unis et les tendances générales du système

L'indispensable dialogue stratégique entre l'Europe et la Russie

États-Unis et Chine. Sur le syndrome de la puissance dominante. Préservation du "statu quo" ou inversion de prééminence?

Un faux retour aux simplifications stratégiques de la bipolarité

Rivalités, desseins stratégiques et montée des tensions


Système et conjoncture

La conjoncture historique actuelle est caractérisée par la transformation du cadre stratégique général( le système international) et par la montée de déséquilibres régionaux (sous-systèmes) en leurs interactions multiples (linkages).

L'environnement stratégique en est affecté, car les équilibres de pouvoir entre acteurs majeurs du système multipolaire résultent  de leurs régimes politiques et de leurs  alliances globales et visent à contre-balancer les coalitions adverses et à assurer la stabilité du système (ou son bouleversement).

A cet égard la triple dynamique de la conjoncture actuelle, de fragmentation, de polarisation et de confrontation, se traduit en une reconfiguration des alliances militaires et des équilibres mondiaux, face aux risques de conflits entre Chine- Etats-Unis et Russie.

La triade Chine-Etats-Unis-Russie instaure ainsi, une politique ambivalente, de rivalité-partenariat-antagonisme, qui a pour enjeu le contrôle de la masse eurasienne et de l'espace océanique indo-pacifique, articulant les deux stratégies complémentaires du Heartland et du Rimland.

Ainsi et au niveau local, l'issue des conflits ne dépend pas des rapports balistico-nucléaires entre les leaders des pôles ,mais de alliances tissées par la diplomatie globale.

Dissuasion et forces conventionnelles 

Dans cette perspective,  le facteur nucléaire,qui avait été relégué au second plan , après l'effondrement de la bipolarité, redevient aujourd'hui la principale indication  des tensions politiques entre les pôles  et la coopération de sécurité apparaît comme l'indication la plus évidente  de l'orientation stratégique des parties, en compétition ou en conflit pour les ressources. Cependant le chantage des armes nucléaires entre Grands, servant à anéantir l'intention positive de l'agresseur,joue un rôle plus grand,quand  la menace anti-force est plus crédible.

Les rivalités, qui secouent aujourd'hui  plusieurs régions du monde, (les Pays baltes et l'Europe de l'Est (Ukraine), le Caucase (Géorgie), le Maghreb et l'Afrique sub-saharienne, le Proche et Moyen Orient( Syrie, Liban, Israël, Iran, Turquie), le Golfe (Arabie Saoudite, Yemen, Quarar, sunnisme et chiisme), l'Amérique du Sud et du Nord, la mer de Chine méridionale et l'extrême Orient),  ont forcé l'Est et l'Ouest  à  reconfigurer leurs  alliances militaires.

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Le but en est de fixer des "lignes rouges" entre les intérêts des pôles et les enjeux régionaux, pour empêcher des escalades non maîtrisables, éviter un affrontement direct entre les acteurs  majeurs du système et limiter la décentralisation de la violence au niveau régional.

Les dynamiques et les inconnues  du système de la multipolarité

D'une manière générale les dynamiques du système de la multipolarité, par rapport au système bipolaire sont constituées :

- par la permanence du jeu inter-étatique, stabilisateur ou perturbateur

- par une transformation des règles du jeu (alliances) et des partenariats stratégiques, fragilisés par la rupture d'accords devenus obsolètes (Salt, INF )

- par un accroissement du nombre des acteurs essentiels (leaders de bloc) et une redistribution asymétrique de la puissance

- par le retour du révisionnisme territorial (rectification des frontières )

- par une modification de la nature de la guerre et par le croisement du conventionnel,du nucléaire et du virtuel, ou encore par l'irruption des espaces cybernétiques et satellitaires, dans les domaines de la géopolitique et de la stratégie.

- par une multiplications des tensions et des conflits décentralisés, influant sur l'équilibre général des forces.

Ainsi, toute tentative de redéfinir un ordre régional quelconque ne peut être conçue aujourd'hui , que dans la perspective d'un ordre planétaire global et à la recherche de formes d' équilibre et de stabilité à caractère planétaire. C'est par référence à la triangulation géopolitique et militaire de la Russie, des États-Unis et de la Chine et, en subordre, de l'Europe, de l'inde et du Japon,que doit être comprise la liberté relative des puissances régionales du Moyen Orient et du Golfe, et c'est là que se situe une des clés de la stratégie générale de la triade.

La Chine et la mondialisation à la chinoise

Dans ce cadre, la Chine, poursuivant une quête régionale et mondiale d’indépendance stratégique et d'autosuffisance énergétique étend sa présence et sa projection de puissance vers le Sud-Est du Pacifique, l’Océan Indien, le Golfe et l'Afrique, afin de contrer les goulots d’étranglement de Malacca et échapper aux conditionnements extérieures maritimes, sous contrôle américain.

Elle procède par les lignes internes, par la mise en place d'un corridor économique et par une route énergétique Chine-Pakistan-Golfe Persique, reliant le Port de Gwaidar, au pivot stratégique de Xinjiang.

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Béijin adopte la gestion géopolitique des théâtres extérieures, selon la doctrine Kissingerienne du "Linkage horizontal" et resserre ses liens continentaux avec la Russie.

L'influence chinoise est complétée par la construction d'une gigantesque "Route de la Soie", reliant le nord de la Chine à l'Europe, via le Tadjikistan, le Kazakhstan et le Turkménistan et opposant les routes terrestres aux routes maritimes.

La Russie et l'enjeu multipolaire

La Fédération de Russie a pris conscience de la mutation profonde de la perspective historique et a adopté le principe du  retour à une stratégie générale défensive, qui n'interdit nullement l'initiative et s'exprime par la manœuvre, la percée et l'action.
Le partenariat stratégique entre la Russie et la Chine au plan geopolitique, a eu pour but de jouer un rôle d’équilibrage et de contre-poids, au cœur de la masse continentale eurasienne et de repartir les zones d'influence entre les deux puissances dominantes, dans le cadre de la multipolarité.
Cette double poussée, virtuellement antinomique, est corrélée à l'Organisation de Coopération de Shanghai (OCS), qui fait fonction de stabilisateur régional.

Stratégie de sécurité de la  Russie

La lecture de la position russe dans le monde peut être résumée de la manière simplifiée suivante.

Face à la tendance systémique, marquée par l’émergence de pôles de puissance en compétition ou en rivalité , ainsi que par le potentiel de polarisation dû aux alignements mouvants en Asie, la Russie se doit de:

- freiner les élargissements politiques et militaires de l'OTAN en divisant ses adversaires à l'Ouest, en Europe Centrale et au Sud-Est
- stopper le processus de désagrégation au Proche, Moyen Orient et Golfe, en promouvant des nouveaux équilibres de pouvoir autour de l'axe Moscou - Damas -     Téhéran et en isolant la Turquie et l'Arabie Saoudite dans la redéfinition des pouvoirs régionaux

- rapprocher les anciens satellites dans la zone de "l’étranger proche" par différents moyens (Union Euro-Asiatique)

- renforcer l'unité continentale au cœur de l'Eurasie par établissement d'une coopération plus étroite avec la Chine

La  Russie et le retour des grandes stratégies

Les trois théâtres à travers lesquels la culture stratégique russe pense sa sécurité, occidental (de la Mer Baltique aux chaînes des Carpates), méridional (du Danube à l'Iran), oriental (de la Volga aux monts AltaÏ), placent au cœur de cette culture deux notions-clés: la souveraineté territoriale et la profondeur stratégique.On y ajoutera que  la projection des forces sur un théâtre extérieur est placée sous la couverture des capacités nucléaires, ce qui permet de dominer militairement ses zones d'influence. Or, si au plan mondial la relation russo-américaine est fondée sur la stabilité stratégique, au plan régional la liberté de manoeuvre  de la Fédération russe se déploie sur les deux théâtres, de la Méditerranée et de la Mer Noire.

La stratégie des États-Unis et les tendances générales du système

Le Secrétaire à la Défense de l'Administration Trump,l'ancien Général des Marine's James Mattis, a dévoilé en février 2018, à l'Université John Hopkins une nouvelle stratégie de défense nationale, d'où l'on déduit qu'un changement historique est intervenu  depuis deux décennies dans la politique extérieure américaine.

Le principal objectif des États-Unis est désormais  la concurrence entre les grandes puissances et non le terrorisme. "La Chine est un concurrent stratégique, qui utilise une politique économique prédatrice pour intimider ses voisins, tout en militarisant des zones de la mer de Chine méridionale".

"La Russie a violé les frontières  des pays voisins et exerce un droit de veto sur les décisions économiques, diplomatiques et sécuritaires de ses voisins".

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Par ailleurs, "la Chine recherche" l'hégémonie dans la région indo-pacifique à court terme et le remplacement des États-Unis, pour atteindre la prééminence mondiale dans l'avenir".

"La Russie, pour sa part,  tente de briser l'Organisation de l'Atlantique Nord (OTAN) et de changer les structures économiques et sécuritaires européénnes et du Moyen-Orient"

Ainsi,pour les Etats-Unis,une conclusion est certaine : "la menace croissante des puissances révisionnistes aussi différentes que la Chine et la Russie.....cherche à créer un monde cohérent avec leurs modèles autoritaires".

Trois régions clés sont indiquées comme objets d'une préparation au conflit: l'Indo-pacifique, l'Europe et le Moyen-Orient.

Dès lors, face au déclin de l'ordre international,fondé sur des règles acquises de longue date et à une concurrence stratégique entre États, le but de l'Amérique est de rester la puissance militaire prééminente dans le monde et d’œuvrer pour que l'équilibre des forces reste en sa faveur. Elle doit faire en sorte que "l'ordre international reste plus favorable à sa sécurité et à sa prospérité, en préservant l'accès aux marchés".

La rivalité entre grandes puissances et la lutte pour la prééminence se traduisent  ainsi en une compétition stratégique accrue.

L'indispensable dialogue stratégique entre l'Europe et la Russie

Quant à l'Europe de l'Ouest, la globalisation des enjeux de sécurité, impose une analyse des tendances générales du système mutipolaire et suggère l'établissement d'un dialogue stratégique entre l'Europe et la Russie

Le fondement de ce dialogue repose sur l'exigence d'allègement des tensions et des défis , portés à la stabilité régionale et mondiale.

Il a été observé que des similitudes existent entre deux types de défis, le  changement du "statu quo" territorial, en Europe et en mer de Chine méridionale, bref ,en Ukraïne et dans les iles Paracels, Spratley, récif de Mischief et, plus au nord, dans les îles Senkaku (Siaoyu).

Toutefois, dans l' Europe du sud-est, il s'agirait d'un changement de paradigme, concernant  l'intégrité territoriale des États; dans l'autre, de "l'internationalisation d'un conflit en mer de Chine" méridionale et orientale, qui cumule une pluralité de revendications de pays frontaliers.

États-Unis et Chine

Sur le syndrome de la puissance dominante

Préservation du "statu quo ou inversion de prééminence?

Les États-Unis seront ils disposés à renoncer à leur prééminence en Europe et en Asie, autrement dit ,dans l'ensemble  du  système international, ou se montreront capables de trouver des arrangements et des formes de coexistence, qui les détournent  d'une fatalité apocalyptique?

En cas de doute,  seront ils poussés, par la préservation du"statu quo" et de la prééminence stratégique, ainsi que par une perception antagoniste des faiblesses internes de la puissance rivale, à prendre des risques inconsidérés, par une action de dissuasion  préventive?( coup de Copenhague de 1885/UK, Port-Arthur de  1905 et Pearl-Harbor de 1941/ J, Corée du Nord en 1950/URSS)

Au niveau de la conjoncture historique et de la fenêtre d'opportunités, consenties à la Chine,la question est de savoir si l'Empire du milieu a le désir et les moyens de changer le "statu-quo" et d'accéder au rang dominant du système?

Un faux retour aux simplifications stratégiques de la bipolarité

Le cœur du système international de la multipolarité tient certes  au  triangle stratégique  États-Unis, Chine et Russie, mais corrélé à une pluralité de sous- systèmes régionaux, en compétition globale. Ces  sous-systèmes  sont soumis  à des  sphères d'influence disputées et souvent exclusives et sont doués d'inégale importance politique et militaire.

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Face à un Occident fragmenté,le but de l'Europe réformée (et post- Brexit ) sera-t-il  de revenir à un jeu de puissance d'équilibre entre les Etats- Unis et la Russie, bref à la stratégie gaullienne de troisième force, que l'U.E ne peut pratiquer?

Rivalités, desseins stratégiques et montée des tensions

Deux grands mouvements stratégiques rivaux  s'esquissent à présent, au niveaux planétaire, internes et extérieurs à l'Eurasie:

- l'alliance sino-russe, assurant l'autonomie stratégique  du Hearthland , en cas de conflit et promouvant, en temps de paix,  la coopération  intercontinentale en matière  de grandes infrastructures, (projet OBOR (One Belt, One Road), avec la participation  d'environ 70 pays )
 - la  stratégie du "containement" des puissances continentales par les puissances maritimes du "Rimland" (Amérique, Japon, Australie , Inde, Europe etc), comme ceinture péninsulaire extérieure

Les deux camps sont en rivalité déclarée et leurs buts stratégiques  opposés.

En effet, le couple sino-russe est défini "concurrent stratégique", ou "concurrent systémique"(notamment par l'UE vis à vis de la  Chine) et refuse de se soumettre à l'ordre international issu de la deuxième guerre mondiale et dessiné par les Etats- Unis .

Dans ce contexte,la défense de l'ordre, de la stabilité et du "statu quo" est assurée par la seule puissance globale du moment, l'Amérique et ses alliés. car,
en termes de politique multipolaire, Chine et Russie soutiennent le principe des zones d'influence exclusives, dites de "l'étranger proche", (Ukraine et Géorgie pour la Fédération russe et Mer de Chine méridionale pour Béijin)

En termes prospectifs et sur le plan des équilibres régionaux à long terme, les interventions des États-Unis,depuis la guerre du Golfe,  ont altérés les rapports politiques et diplomatiques antérieurs entre Iran, Arabie Saoudite  et pays de la région. 

Dans cette même zone l'appui militaire  de la Russie à la  Syrie a influé sur la desoccidentalisation des affaires régionales  et mondiales  et, localement, sur la défaite de l'extrémisme islamique , au profit des intérêts russes du flanc sud (du Danube à la Perse et en Asie Centrale).

En termes de modernisation politique, au Proche et Moyen Orient, les idéologies importées de l'Occident, libéralisme, socialisme, laïcité, ont fait faillite et les seules formes de régimes politiques adoptées, ont été les dictatures militaires et les totalitarismes religieux, en conflit permanent.

La révision doctrinale des États-Unis en matière de sécurité s'inscrit aujourd'hui  dans le gel progressif des accords sur le contrôle des armements nucléaires

Du point de vue stratégique, le retrait américano-russe des accords START et INF, et celui  des accords nucléaires avec l'Iran ont sapé  la confiance diplomatique entre puissances occidentales  et ont mis en crise les relations des USA avec l'Europe

Par ailleurs une bataille idéologique majeure fonde le rapprochement russo-chinois sur le refus des  critères occidentaux de légitimations du pouvoir et sur le mode d'exercice de l'autorité, la démocratie libérale  pour les uns, l'autocratie souveraine pour les autres.

Les héritages historiques ne résistent pas toujours aux changements et le déplacement du centre de gravité des tensions vers l'Asie Pacifique, motivant la "politique de pivot" d'Obama,comme "ultime épreuve de force destinée à maintenir la Chine à un rang subalterne" (H.Kissinger),  privent, en Europe,  l'Alliance atlantique de sa raison d'être  et risquent  de ne pas la faire  survivre  aux finalités qui l'avaient fait naitre, celle d'un monde bipolaire.

Au même temps, l'émergence de la question nationale,  identitaire et de souveraineté, se répercute en une forme de crise de cohésion des institutions européennes  et assume le visage  sécessionniste de remise en cause du pacte national entre Barcelone et Madrid et entre Londres, Edinbourg et Dublin à propos du Brexit, dans un processus de désagrégation interne des unités étatiques, réalisées au cours des XIX et XXèmes siècles

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Ainsi, la politique de l'équilibre des forces en Asie orientale ne permet pas de considérer les États-Unis comme un balancier , mais comme partie intégrante de l'équiliblibre régional, car l'exercice de l'hégémonie mondiale  fait de l'Amérique une puissance globale et, au même temps le centre de gravité stratégique  du système.

Dès lors, une montée des tensions apparaît comme une perspective probable, au sein du système planétaire, où les principaux acteurs ne sont pas d'accord, ni sur une conception commune de l'ordre mondial, ni sur les règles de conduite pour les atteindre.

VIII MOSCOW CONFERENCE ON INTERNATIONAL SECURITY 2019

System and situation

The current historical situation is characterized by the transformation of the general strategic framework (the international system) and by the rise of regional imbalances (subsystems) in their multiple interactions (linkages).

All this affects the strategic environment, because the balances of power between major players in the multi-polar system result from their global alliances, aimed at counterbalancing adverse coalitions and ensuring the stability of the system (or its transformation).

In this respect, the triple dynamic of the current situation – fragmentation, polarization and confrontation – is reflected in a reconfiguration of the military alliances and global strategic balances, in the face of the risks of conflicts between China, the United States and Russia.

In this way the China-USA-Russia triad is establishing an ambivalent policy of rivalry-partnership-antagonism. At stake is the control of the Eurasian mass and the Indian-Pacific ocean space, expressed in the two complementary strategies of Heartland and Rimland.

In this way and at local level, the outcome of the conflicts does not depend on the nuclear-ballistic relations between the leaders of the poles, but on alliances woven by global diplomacy.

Regional rivalries

The rivalries that are shaking several parts of the world today (the Baltic countries and Eastern Europe (Ukraine), the Caucasus (Georgia), the Maghreb and sub-Saharan Africa, the Near and Middle East (Syria, Lebanon, Israel, Iran, Turkey), the Gulf (Saudi Arabia, Yemen, Qatar, Sunni and Shiite), South and North America, the South China Sea and the Far East), have forced both East and West to reconfigure their military alliances.

The aim is to set "red lines" between the interests of the poles and regional issues, so as to prevent uncontrollable escalations, to avoid any direct confrontation between the major players in the system, and to limit the decentralization of violence at regional level.

Dynamics and unknowns of the multi-polar system

In general, the dynamics of the multi-polar system, compared with the bipolar system, consist of:

- the permanence of the inter-state game, with either stabilizing or disruptive effects

- a change in the rules of the game (alliances) and of strategic partnerships, weakened by the breakdown of agreements that have become obsolete (SALT, INF)

- an increase in the number of key players (block leaders) and an asymmetrical redistribution of power

- the return of territorial revisionism (rectification of borders)

- a change in the nature of war and the mixing of conventional, nuclear and virtual warfare, and also the sudden and rapid inclusion of cybernetic and satellite spaces as geopolitical and strategy fields.

- a multiplication of tensions and decentralized conflicts, influencing the overall balance of forces.

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Thus, any attempt to redefine any one regional order can be conceived today only in the perspective of a global planetary order and of the search for forms of planetary equilibrium and stability. It is by reference to the geopolitical and military triangulation of Russia, the United States and China and, at subordinate level, of Europe, India and Japan, that the relative freedom of the regional powers must be understood. It is there that one of the keys to the hoped-for success of the triad's general strategy lies.

The indispensable strategic dialogue between Europe and Russia

When it comes to Western Europe, the globalization of security issues requires an analysis of the general trends of the multi-polar system and suggests the need to establish a strategic dialogue between Europe and Russia.

The basis of this dialogue is the need to alleviate tensions and challenges to regional and global stability

A false return to the strategic simplifications of bipolarity

The heart of the international multi-polarity system correlates with a plurality of regional subsystems, in global competition with one another. These subsystems are subject to disputed and often exclusive spheres of influence and are of unequal political and military significance.

Faced with a fragmented West, will the goal of reformed (and post-Brexit) Europe be to return to a power play of equilibrium between the United States and Russia, in short to the Gaullist third force strategy that the EU is unable to practice? In prospective terms and on the level of long-term regional balances, US interventions since the Gulf War have altered the previous political and diplomatic relations between Iran, Saudi Arabia, and other countries of the region.

In terms of political modernization, in the Near and Middle East, ideologies imported from the West – liberalism, socialism, secularism – have failed and the only forms of political regimes adopted have been military dictatorships and religious totalitarianism, in permanent conflict.

The United States's revision of its security doctrine is expressed today in the progressive freeze on nuclear arms control agreements.

From a strategic point of view, the US-Russian withdrawal from the START and INF agreements, and from the nuclear agreements with Iran have undermined the diplomatic trust between Western powers and produced a crisis in the United States' relations with Europe.

Elsewhere the balance-of-forces policy in East Asia does not allow us to consider the United States as a balancing pole, but as an integral part of the regional equilibrium, since the exercise of world hegemony makes America a global power and at the same time the strategic centre of gravity of the system.  For this reason an increase in tensions appears as a likely prospect within the planetary system, where the main actors do not agree, either on a common conception of the world order, on the rules of conduct to achieve it.

15 avril 2019.

Information
Email : info@ieri.be
Site internet : http://www.ieri.be

samedi, 11 mai 2019

L’hegemon américain menace l’Allemagne une fois de plus : si le gazoduc Nord Stream 2 est inauguré, il y aura des sanctions !

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L’hegemon américain menace l’Allemagne une fois de plus : si le gazoduc Nord Stream 2 est inauguré, il y aura des sanctions !

Washington/Berlin: L’ambassadeur américain en Allemagne, Richard Grenell ne cesse pas de se comporter en maître de maison et de s’immiscer dans les affaires intérieures du pays dans lequel il exerce ses fonctions. Récemment, Grenell est revenu à la charge et, menaçant, a averti les Allemands des conséquences que pourrait avoir la poursuite des travaux de construction du gazoduc Nord Stream 2. Aux questions des journalistes de l’hebdo Focus, le « gouverneur » américain a déclaré textuellement : « Du point de vue américain, le gazoduc ne vous alimentera pas seulement en gaz mais aussi en risques croissants de sanctions ».

Pour l’ambassadeur des Etats-Unis, les pays européens se rendent dépendants du gazoduc russe. Il a surtout insister sur un point : « si les entreprises allemandes persistent à travailler à ce projet, les Etats-Unis songeront à imposer des sanctions ». Les mesures de rétorsion, en ce cas précis, frapperont principalement le consortium énergétique Uniper, basé à Düsseldorf, et le producteur pétrolier et gazier Winterschall Dea, basé à Kassel, parce que ces deux entreprises participent à la réalisation de Nord Stream 2.

De surcroît et plus fondamentalement, Grenell a critiqué la politique russe de l’Allemagne, trop laxiste à ses yeux. Il a tenu ensuite des propos hallucinants, en disant qu’il y a seulement quelques années, « il aurait été considéré comme absurde que l’Europe laisse faire la Russie, la laisse occuper la Crimée, abattre un avion, manipuler des élections et utiliser des armes chimiques » .

Article paru sur le site http://www.zuerst.de .

„Die Städte sind weiblich und nur dem Sieger hold.“

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„Die Städte sind weiblich und nur dem Sieger hold.“

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Vor gut 80 Jahren begann Ernst Jünger sein Tagebuch zum Zweiten Weltkrieg.

Sein Kriegstagebuch über den Ersten Weltkrieg, In Stahlgewittern, ist zumindest vom Titel und groben Inhalt her sehr vielen bekannt. Dieses Erstlingswerk ist bis heute ohne Frage eines der erschütterndsten Zeugnisse über den Frontalltag des Grabenkrieges, welchen Jünger vier Jahre lang erlebte. Weitaus unbeachteter blieben hingegen seine Notizen über den Zweiten Weltkrieg, die Strahlungen.

ernst jünger,littérature,littérature allemande,lettres,lettres allemandes,révolution conservatrice,paris,occupation,france,allemagne,deuxième guerre mondiale,seconde guerre mondialeEin anderer Soldat als der von 1914

Davon abgesehen, erschien die Erstausgabe bereits 1949 mit einer Auflage von 20.000 Exemplaren und zählt für viele Jünger-Kenner mit zum Besten, was der Literat je zu Papier brachte. Die geringere Bekanntheit mag heute dadurch zu erklären sein, daß Jünger während des Zweiten Weltkrieges hauptsächlich in der Verwaltung tätig war, und nicht an der Front kämpfte, was bei einigen potentiellen Lesern sicherlich die „Action“ vermissen lässt. Ganz gefahrlos waren jedoch auch für Jünger die Jahre 1939 bis 1945 nicht.

Die von April 1939 bis Dezember 1948 reichenden Strahlungen, welche – je nach Auflage – über 1.000 Seiten umfassen, setzen zunächst mit dem Buch Gärten und Straßen an. In diesem schildert Jünger seine Erlebnisse aus dem Frankreichfeldzug, an welchem er als Hauptmann teilnahm. Prägten während des Ersten Weltkrieges buchstäbliche „Stahlgewitter“ seinen Kriegsalltag, bekam der Hauptmann der Infanterie nun nur noch „Gärten und Straßen“ zu sehen. Der Feldzug im Mai und Juni 1940 war bereits zu Ende, noch bevor seine stets zu Fuß vorwärts marschierende Truppe in das Kriegsgeschehen eingreifen konnte.

Die Jahre an der Seine

Dieser bereits 1942 veröffentlichte erste Teil ist dabei deutlich zurückhaltender geschrieben als der nach dem Krieg veröffentlichte Rest seines Tagebuches, was man insbesondere an den politischen Beurteilungen der Zeit erkennt. Den ergiebigeren Kern bilden daher die beiden aus den Jahren 1941-44 geschriebenen „Pariser Tagebücher“, die im besetzten Paris vom Leben in der Etappe erzählen.

Hier unterhielt Jünger auch Beziehungen zu unterschiedlichen Größen der Zeit, wie Pablo Picasso, Louise Ferdinand Céline und auch Carl Schmitt, der ihn in Paris besuchen kam. Aber auch zu den in Paris aktiv arbeitenden Verschwörern des 20. Juli, wie Speidel, Stülpnagel und Hofacker, unterhielt Jünger regen Kontakt.

Im Gegensatz zu den drei genannten blieb Jüngers Mitwisserschaft am Umsturzversuch jedoch unentdeckt. Seinen Beitrag am Widerstand lieferte er in Form der 1942 verfassten Friedensschrift, die nach dem Krieg gesondert veröffentlicht wurde. Eine noch spätere Veröffentlichung fand gar seine Schrift Zur Geiselfrage, in welcher er die Umstände der aus Berlin befohlenen Hinrichtungen inhaftierter Franzosen schildert, die 1941 als Racheakt durchgeführt werden mussten. Auf Grundlage dieser Schrift spielt zudem der 2011 erschienene Film vom Volker Schlöndorff Das Meer am Morgen.

Die innere Freiheit bewahren

Diese und viele weitere Themen sind es, welche gerade die beiden Pariser Tagebücher als den wertvollsten Teil der Strahlungen erscheinen lassen. Die öffentliche Beschäftigung mit ihnen beschränkt sich jedoch für gewöhnlich leider recht oberflächlich auf die immer gleichen Aspekte. So auf seine verschiedenen Liaisons in Paris oder auf seinen angeblich rein elitären Blick, der ihn das Leid um sich herum vergessen ließ.

ernst jünger,littérature,littérature allemande,lettres,lettres allemandes,révolution conservatrice,paris,occupation,france,allemagne,deuxième guerre mondiale,seconde guerre mondialeWas hier allgemein zu kurz kommt, ist die ernsthafte Beschäftigung mit seinen zahlreichen Schilderungen einer Welt, welche droht, gänzlich dem mechanischen Moloch der geschichtlichen Abläufe zu verfallen. Dem entgegengesetzt, versuchte Jünger gerade im alltäglichen Betrachten, der Freiheit im Menschen eine Bahn zu schlagen, die alle Bomben der Welt nicht vernichten können.

Paris, 14. März 1943
Wenn alle Gebäude zerstört sein werden, bleibt doch die Sprache bestehen, als Zauberschloß mit Türmen und Zinnen und mit uralten Gewölben und Gängen, die niemand je erforschen wird. Dort, in den Schächten, Oublietten und Bergwerken, wird man noch weilen können und dieser Welt verlorengehen.

Derlei Sentenzen bilden den eigentlichen Gewinn seiner Schriften. Sie sind zeitlich ungebunden. „Das Ordnen der Geschehnisse als Akt der Selbstbehauptung“, wie es in einem Vorwort des Verlages heißt.

„Wenn ein Pulverturm in die Luft fliegt, überschätzt man die Bedeutung der Streichhölzer.“

Nach dem Rückzug aus Paris vor den Invasionstruppen der Alliierten wird Jünger schließlich aus der Wehrmacht entlassen und kehrt zurück in das niedersächsische Kirchhorst, wo er das Kriegsende erlebt. Festgehalten wird diese Zeit in den beiden letzten Büchern Kirchhorster Blätter und Die Hütte im Weinberg (Jahre der Okkupation). Wie bereits 1940 in Frankreich, beschreibt Jünger den Einbruch einer gewaltigen Übermacht in eine bereits besiegte Region.

Kirchhorst, 11. April 1945
Von einer solchen Niederlage erholt man sich nicht wieder wie einst nach Jena oder nach Sedan. Sie deutet eine Wende im Leben der Völker an, und nicht nur zahllose Menschen müssen sterben, sondern auch vieles, was uns im Innersten bewegte, geht unter bei diesem Übergang. Man kann das Notwendige sehen, begreifen, wollen und sogar lieben und doch zugleich von ungeheurem Schmerz durchdrungen sein.

Nun braucht es keinen Weltkrieg, um zu vielen Einsichten zu gelangen, die Jünger in seinem Tagebuch niederschrieb. Diese Erkenntnis schließt denn auch wiederum den Bogen zu uns heutigen Lesern, die gerade in dieser Schrift Jüngers weitaus mehr finden als nur zeitbezogene Singularitäten. „Hinsichtlich der Wahrnehmung der historischen Realitäten bin ich vorgeschaltet – das heißt, ich nehme sie etwas eher, etwas vor ihrem Erscheinen wahr. Für meine praktische Existenz ist das nicht günstig, da es mich zu den jeweils waltenden Mächten in Widerspruch bringt.“

Why We Should Read Heidegger

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Why We Should Read Heidegger

by Matt McManus

Ex: https://quillette.com

This the final instalment in a series of essays by Matt McManus examining the work and legacies of the totalitarian philosophers.

I must make a confession here: Martin Heidegger was one of the first philosophers I really and truly loved. When I was around 19 years old, one of the summer jobs I worked was as a traffic counter. We were responsible for counting the number of cars that went through street lights, which needless to say was a profoundly boring task. I often passed the time by reading, and began delving into philosophy for the first time—there is something about sitting by the side of the road for 11 hours that enables speculation. Heidegger’s dense and strange books were often infuriatingly opaque, but once I began to understand them I was thrilled. Here was someone who thought and wrote in a way that no one else seemed to, and who was emphatically unafraid of tackling the biggest and most novel philosophical questions. As a critical young man, I was also enraptured with his damning critique of modernity and especially technology. I was so absorbed by it that I identified as a Heideggerian well into my early PhD, writing an undergraduate thesis on “authenticity” and my L.L.M thesis on Heidegger, Wittgenstein, and Anglo-American legal theory.

Unfortunately, this admiration was always tempered by a significant counterweight; the awkward matter of Heidegger’s politics. My father was a human rights lawyer who made his living prosecuting ex-pat Nazis hiding in Canada, and I was brought up in a household in which the evils of the Hitler regime were transparently visible. When I was 12 years old, I started to volunteer for a number of human rights groups, and learned more about the horrors of Nazism from survivors and commentators. This shocked my young conscience. How could my philosophical hero, a man who embodied all the intellectual virtues I admired—critical mindedness, creativity, an emphasis on authenticity—relate himself to Nazism? This question only became more challenging as the depth of his association with Nazism and anti-Semitism became clearer to me.

Heidegger and Politics

In this series so far I have written pieces analyzing the work of Rousseau, Marx, and Nietzsche. Each remains a controversial thinker, and with good reason. But, unlike these earlier figures, Heidegger is not simply peripherally or problematically associated with a damning political movement. Rousseau wrote many worrying things about the authority to be ceded to the “General Will,” but never lived to see the Jacobins unleash the terror in its name. Karl Marx was a revolutionary who was certainly unafraid of violence, but would most likely have been horrified by the totalitarian movements erected in his name. Nietzsche was, of course, no liberal or egalitarian, but he also was an unrelenting foe of German nationalism who would have found the Nazi appropriation of his writings comical were the consequences not so devastating.

hei.jpgBut Heidegger not only joined the Nazi party, he remained a member until it ceased to exist at the end of the Second World War. He attended conferences for Nazi intellectuals, at which he delivered speeches. Heidegger infamously reported faculty members to the gestapo if he regarded them as insufficiently loyal to the new regime. And, even after the war, when the full horrors of the Nazis’ crimes became apparent, he had little to say in repentance or critique. Heidegger’s most public attempt to explain his support for Nazism—a 1966 interview with Der Spiegel magazine—was detailed but notably free of self-examination. This raises a serious problem, as Richard Rorty pointed out in his essay on Heidegger in Philosophy and Social Hope. How could one of the greatest thinkers of the twentieth century ally himself with its most sinister and monstrous political movement?

To understand this development, it helps to understand Heidegger’s critique of modernity and modern life. This Heidegger presented for the first time in Being and Time and subsequently developed in Introduction to Metaphysics and his later work on technology and the history of Western thought. For Heidegger, modern thought is in some respects a regression from the truly epochal thinking of earlier ages. Where the Greeks, especially the pre-Socratics were willing to tackle the biggest questions of human life, most modern people were largely unconcerned with such seemingly abstract and uncommercial questions. Figures like Parmenides pondered questions such as “What is Being?” and associated the answer with a whole range of issues pertaining to the meaning of existence and, by extension, human life.

By contrast, later thinkers like Descartes asked a narrower set of questions. Rather than concerning themselves with Being itself, they asked instead “How can I think what is true?” This may seem like an innocuous shift, but it heralded a movement towards what would later be called technical reason. As modernity continued on its course, questions about existence and its meaning were increasingly dismissed in favor of “technical questions” such as “How can I understand the empirical world accurately, so it can be manipulated in my interests?” Modern people were unconcerned with “Why there is something instead of nothing at all,” which for Heidegger was the key question of metaphysics, and indeed for the human life of Dasein—that being for whom Being is a question. Instead, they wanted to generate ever more powerful systems of knowledge, such as the technical sciences, so the world could be more easily broken down and instrumentalized. The “enframing” of the world which results from technical reason blocks us from developing our more authentic selves. As he put it in “The Question Concerning Technology“:

Enframing blocks the shining-forth and holding-sway of truth. The destining that sends into ordering is consequently the extreme danger. What is dangerous is not technology. There is no demonry of technology, but rather there is the mystery of its essence. The essence of technology, as a destining of revealing, is the danger. The transformed meaning of the word “Enframing” will perhaps become somewhat more familiar to us now if we think Enframing in the sense of destining and danger. The threat to man does not come in the first instance from the potentially lethal machines and apparatus of technology. The actual threat has already affected man in his essence. The rule of Enframing threatens man with the possibility that it could be denied to him to enter into a more original revealing and hence to experience the call of a more primal truth.

The ascendancy of technical reason and instrumentalization, Heidegger thought, generated highly inauthentic individuals who were unable to live meaningful lives. This is because the primary purpose of existence was regarded as the pursuit of a kind of materialist satisfaction. This was true across political forms, which is partly why Heidegger claimed that the hyper-partisan distinction between Left and Right is actually trivial. Both liberal capitalism and its great rival communism are equally devoted to the modernist pursuit of materialist satisfaction. The only difference between them is over the most efficient means to pursue that goal. They are “metaphysically the same” in their efforts to “enframe” the world using technical reason, and result in the same belief about the point of existence.

black.jpgBy contrast, Heidegger stressed that materialist satisfaction can never provide a truly meaningful existence. On the contrary, it can only produce tremendous anxiety as we recognize that the limitations of our lives and the inevitability of death will one day bring the party to an end. At that point, our pursuit of material satisfaction and wealth will turn out to have been meaningless. Heidegger argues that many of us realize this, and feel contempt for the vulgarity and emptiness of our societies. Nevertheless, rather than acknowledge this uncomfortable fact, we retreat into the inauthentic world of “das man” or the “they.” We try to ignore the inevitability of our annihilation by conforming to the expectations of consumer society, disregarding the deeper questions that drive us, and believing that, as long as we go about our business, death—and the confrontation with our own inauthenticity—can be postponed indefinitely.

For Heidegger, this frightened retreat into the world of the “they” was symptomatic of the impact of technical reason and instrumentalization across the world. Being and Time was a call for authenticity in an age apparently dedicated to running from it. Authenticity would mean facing up to the reality of our own future annihilation, and to try and live beyond the “they” by committing ourselves to a truly great project which will provide our lives with a worthy end. This project will of course be doomed to ultimate failure, because the finiteness of time available to us will ensure it is never fully completed. But the meaning of our lives comes from choosing as worthy a project as possible and pursuing it with as much dedication as one can muster.

This is an immensely inspiring critique, and I can only gesture at its power in this short article. Many commentators, myself included, tend to interpret Being and Time as a call for a unique form of individualism. This isn’t what one might call liberal individualism, which Heidegger associated with technical reason and the world of the “they.” Liberal individualism meant little more than mindless conformity, as each indistinguishable figure went about pursuing their menial pleasures in cooperation and competition with one another. It is also philosophically implausible for Heidegger. The atomistic conceit of figures like Jefferson or Mill, that we are “born free” and use technical reason to analyze the world from scratch, was a vulgarization of true philosophy. Heidegger repeatedly stressed that we are always “thrown” into a world of social meanings that fundamentally shape our outlook on the world. The authentic individuality Heidegger favored comes from making use of these meanings to shape something fundamentally new, but which grows organically out of what came before. But this of course means that a decadent and damaged society will not provide its members with the tools necessary to live authentic existences. It must therefore be condemned and refashioned as necessary.

This hostility to liberalism and communism explains a great deal of the attraction Heidegger felt towards Nazism. Its reverence for the traditional practices and beliefs of the German volk and its call for the liberal individual to surrender himself to a greater collective cause must have appealed to him a great deal, both in its conservative and radical dimensions. There also seems to be a sense in which the earlier anti-liberal individualism of Being and Time gives way to a more social vision. The most obvious example of this was the way his concept of Dasein—which he had earlier used to refer to a singular “being” who questioned the nature of “Being”—is given a twist in the Rectoral address. Now it referred to the nation and its destiny.

Heidegger’s writings during that period seem to reflect this new emphasis, reaching a pitch in his criticisms of liberalism and communism, and his suggestion that Nazi Germany had a unique destiny in rescuing the Western world. Some of this may also be attributable to personal arrogance on Heidegger’s part, and his belief that a totalitarian political movement could carry out the kind of sweeping philosophical reforms he wished to see take place on a grand scale. Heidegger later admitted that he was naïve when it came to politics, though I think his lover Hannah Arendt expressed it better. He was a great fool to think that Nazism, a hyper-modern totalitarian movement bent on world conquest and the submission of all individual wills to Adolph Hitler, was an ideological instrument useful to the project of creating a more authentic world. It is likely that his own life-long attraction to German traditionalism and national identity blinded him to the extremism of its policies. Ironically, in his efforts to escape from the world of the “they,” he submitted his immense philosophical intelligence to the most inauthentic movement imaginable.

Conclusion: What Can We Learn from Heidegger

schw.jpgHeidegger was one of the greatest philosophers in the twentieth century, despite his contemptible politics. There remains much we can learn from him, if we take care to isolate the gems of insight from the dangerous currents underneath. This is often a challenge whenever one is dealing with a critique of modernity that is powerful enough to be convincing. One must always take care not to trade the imperfect for the tyrannical.

Heidegger’s analysis of authenticity remains more pressing than ever in our postmodern culture. Many people believe that our purpose in life remains a form of self-satisfaction. Today, however, this includes an emphasis on the expression of a given identity, various forms of left-wing agitation, and the emergence of postmodern conservatism. At his best, Heidegger would warn us that this emphasis on identity can lead us to live inauthentic existences. The efforts of postmodern conservatives to provide stability for their sense of identity by excluding those who are different reflects this tendency; a temptation Heidegger himself fell into against the better inclinations of his philosophy. We long for a sense of stability in our identities, but this longing is antithetical to the quest for true authenticity. What we must recognize is that identity is always unstable because it is framed by the tasks we set for ourselves. Our identity is always unstable because an authentic person is always seeking to become something greater than they were before. The choice available is to accept this instability or retreat into the world of the “they.”

Heidegger focused our attention on mysterious questions that are too frequently ignored. In particular, the questions of ontology: What does it mean to be? What does it mean to say this or that particular thing exists? Why is there something instead of nothing at all? And so on. He was wrong to criticize scientific technical reason for its indifference to these questions. Indeed, many seminal figures, from Einstein to Lee Smolin, were preoccupied by these ontological issues. But we are no doubt still prone to ignoring them in favor of questions that permit clearer answers. Indeed, our economically minded society often dismisses apparently unanswerable ontological questions with the claim that they’re a waste of time that could be spent more wisely on more efficient tasks.

But Heidegger also pointed out that asking ontological questions can and does play a fundamental role in our personal lives, and that dismissing them may prevent us from reflecting on what is truly important. Each of us is indeed “thrown” into the world for a short period of time. No one truly knows from whence we came, and each of us fears the annihilation to which we must inevitably return. Pondering these issues, as well as the more general question of where anything came from and what it is moving towards, can help us bring deeper focus to life.

Matt McManus is currently Visiting Professor of Politics and International Relations at Tec de Monterrey. His forthcoming books are Overcoming False Necessity: Making Human Dignity Central to International Human Rights Law and What is Post-Modern Conservatism? He can be reached at garion9@yorku.ca or followed on Twitter @MattPolProf

Quand l’Europe s’éveillera… La Chine s’esclaffera !

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Quand l’Europe s’éveillera… La Chine s’esclaffera !

Par Guillaume Berlat

Ex: https://www.les-crises.fr

« Les temps changent. On ne sait pas quand, mais c’est toujours avant qu’on s’en aperçoive » (Catherine Breillat, cinéaste, romancière). Les temps changent, le ton change. Hier bénie, aujourd’hui (presque) honnie. Tel est le traitement que subit désormais la Chine. Au moment où le président chinois, Xi Jinping effectue une brève visite en Europe (Italie, Monaco1, France) en cette dernière décennie du mois de mars 2019, les critiques pleuvent comme à Gravelotte sur l’Empire Céleste2. Violations répétées des droits de l’Homme (Cf. contre les Ouigours ou contre l’ex-président d’Interpol, Meng Hongwei …), visées hégémoniques en Asie, en Afrique, voire en Europe à travers l’initiative des « Nouvelles routes de la soie »; violations graves des règles de l’Organisation mondiale du commerce (OMC basée à Genève) en pratiquant une concurrence déloyale, espionnage à grande échelle (Cf. critiques portées contre le géant des télécommunications Huaweï au moment où il concourt au marché de la 5G)…

Telles sont les philippiques qui reviennent le plus souvent, de manière inattendue, dans la bouche des dirigeants occidentaux, européens avec une certaine insistance depuis quelques dernières semaines. Les mêmes qui ne tarissaient pas d’éloge sur l’Empire Céleste, il y a peu encore. Comme si la guerre commerciale contre la Chine dans laquelle s’est lancée Donald Trump avait enfin décillé les yeux de la Belle au Bois Dormant qui a pour nom Europe sur les visées de Pékin. Le temps n’est plus au libéralisme échevelé, à la candeur rafraichissante. Le temps serait plutôt au patriotisme économique, à la Realpolitik, à la défense des intérêts bien compris. Mais, l’Europe (l’Union européenne) divisée et sans cap est-elle bien armée pour mener à bien ce combat contre la puissance montante du XXIe siècle ?3 Puissance normative incontestée, l’Europe est et restera encore longtemps une impuissance stratégique.

***

L’EUROPE : UNE PUISSANCE NORMATIVE

Pour tenter de comprendre l’impasse structurelle dans laquelle se trouve l’Union européenne, il est indispensable de se pencher sur la philosophie générale qui a présidé à sa création (la paix par le droit) pour être en mesure d’apprécier la conséquence de cette démarche (la construction par le vide).

La paix par le droit : une nouvelle utopie.

normeforcelaidi.jpgFaut-il le rappeler, comme le Conseil de l’Europe en 1949, l’Union européenne s’est construite sur le mantra de la paix par le droit (celui qui avait si bien fonctionné à l’époque de la SDN…) ! Par sa force intrinsèque et quasi-divine, la norme est censée résoudre tous les problèmes de l’Europe de l’après Seconde Guerre mondiale, de la Guerre froide, de l’après-Guerre froide et de la nouvelle Guerre froide. Ni plus, ni moins La construction européenne – du traité de Rome au traité de Lisbonne – s’est reposée sur d’énormes conventions internationales que seuls quelques initiés – dont ni vous, ni moi ne sommes – parviennent à comprendre et à interpréter. À Bruxelles, les hommes forts (les fortes femmes) de la Commission et du Conseil sont les juristes. Ils pondent en permanence de nouvelles normes et traquent l’État délinquant soit celui qui ne respecte pas les valeurs du machin (Hongrie, Pologne, Roumanie), soit celui qui viole les sacro-saintes règles budgétaires (Grèce, Italie, voire France)4. L’Europe à 28/27 n’a toujours ni cap, ni affectio societatis alors même qu’elle est secouée par des vents mauvais tant à l’intérieur (feuilleton sans fin du « Brexit », montée du sentiment national, croissance atone, phénomènes migratoires non contrôlés, terrorisme…) qu’à l’extérieur (Diktats américains, arrogance chinoise, cavalier seul russe, déclin de l’Occident…). « Cette non-personne pèse de l’extérieur, sans habiter notre intérieur »5.

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La construction par le vide : une puissance Potemkine

Nous avons aujourd’hui un exemple particulièrement éclairant de la vacuité européenne sur la scène internationale en analysant la relation de Pékin avec la France mais aussi avec l’Union européenne. Mais, un léger retour en arrière s’impose. Au cours des dernières années, sous l’influence de la pensée libérale à l’anglo-saxonne (le tout dérégulation), la Commission européenne (agissant dans l’un de ses domaines de compétence exclusif qu’est le commerce) s’est targuée de négocier et de conclure des dizaines de traités de commerce, de libre-échange avec la planète entière. Nos petits marquis drogués aux lobbies, particulièrement actifs à Bruxelles (« un aéropage technocratique, apatride et irresponsable »), nous expliquent fort doctement que tous ces torchons de papier constituent le nec plus ultra de la mondialisation heureuse6, la meilleure garantie pour les citoyens européens en termes de prospérité et de bonheur (« L’Europe des réponses » chère à Nathalie Loiseau), le signe de L’Europe indispensable7. Or, la réalité est tout autre comme ces mêmes citoyens peuvent s’en rendre compte concrètement.

L’Union n’est qu’un tigre de papier ouvert aux quatre vents. Elle ignore un principe cardinal de la diplomatie classique qui a pour nom réciprocité. Elle ouvre grandes ses portes aux entreprises chinoises alors que leurs homologues européennes sont soumises à des règles drastiques et des pratiques déloyales8. Souvenons-nous que Laurent Fabius, ministre des Affaires étrangères et du développement international (MAEDI), porteur de la diplomatie économique, ne jurait que par la Chine. Sans la Chine, point de salut. Or, aujourd’hui, les langues commencent à se délier sur les étranges pratiques commerciales chinoises. Du côté de la Commission européenne, c’était le silence radio. Du côté de nos partenaires, européens, c’était le chacun pour soit et les vaches seront bien gardées. Comme cela est tout à fait normal de la part d’une authentique grande puissance comme l’est la Chine9, Pékin pratique un vieux classique qui a fait ses preuves depuis la nuit des temps, le diviser pour mieux régner, la diplomatie des gros contrats pour mieux faire taire les rabat-joie10. Nous en avons un exemple frappant avec l’Italie qui est le premier pays du G7 à emprunter les « nouvelles routes de la soie »11. Une sorte d’embarquement pour Cythère du XXIe siècle.

L’angélisme est une plaie en ces temps conflictuels. Les États membres de l’union européenne ne comprendront jamais que « les puissants n’accordent leur amitié protectrice qu’en échange de la servitude »12. Ils commencent à peine à percevoir que la Chine entend transformer sa puissance économique en puissance diplomatique et stratégique aux quatre coins de la planète.

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L’EUROPE : UNE IMPUISSANCE STRATÉGIQUE

Il est important d’en revenir aux fondamentaux des relations internationales. Dans un monde frappé au coin de la prégnance du rapport de forces, la désunion structurelle de l’Europe fait sa faiblesse sur la scène internationale. Par ailleurs, au moment où l’on nous annonce que l’Union se réveille face à la Chine, le moins que l’on puisse dire est que cette nouvelle posture relève encore de la cacophonie.

La désunion fait la faiblesse : l’Europe s’agite

L’opération de charme du nouvel empereur. C’est que le président Xi Jinping n’est pas né de la dernière pluie. Il sait parfaitement caresser ses hôtes français dans le sens du poil. Il le fait avec un sens aigu de l’emphase diplomatique. Pour s’en convaincre, il n’est qu’à se reporter à la tribune qu’il publie dans un grand quotidien français à la veille de sa visite en France. Il la conclut ainsi :

« La responsabilité. Ensemble, la Chine et la France pourront apporter de grandes transformations. L’histoire n’a cessé de le prouver au cours des 55 ans écoulés. À l’heure actuelle où l’humanité se trouve à la croisée des chemins, les grands pays du monde ont à assumer les responsabilités qui leur incombent. Membres permanents du Conseil de sécurité des Nations unies, la Chine et la France sont invitées à renforcer leur concertation pour défendre le multilatéralisme, préserver les normes fondamentales régissant les relations internationales basées sur les buts et principes énoncés dans la Charte des Nations unies, relever conjointement les défis, contribuer à la prospérité et à la stabilité dans le monde et promouvoir la construction d’une communauté de destin pour l’humanité.

Comme dit un proverbe chinois : « Un voyage de mille lieues commence toujours par le premier pas ». L’illustre écrivain français Victor Hugo disait : « Que peu de temps suffit pour changer toutes choses ! » Aujourd’hui sur un nouveau point de départ historique, la Chine souhaite aller de l’avant avec la France, concrètement et solidement, pour réaliser des accomplissements encore plus éclatants »13.

Et ses officines de propagande (« Échos de Chine ») d’inonder d’encarts publicitaires à l’eau de rose les principaux médias français à la veille de la visite en France du grand timonier sur les thèmes du développement d’un « partenariat stratégique global plus étroit et durable », de « Paris et Wuhan : le Conte de deux cités », de « Beijing et Paris : partenaires majeurs dans la lutte contre le changement climatique » (on en tombe à la renverse en se reportant aux facéties environnementales chinoises), de « Faire progresser plus avant les relations franco-chinoises », des « Perspectives de la coopération pragmatique entre la France et la Chine »… En prime, nous avons même droit aux dernières raffarinades : « Cette année sera une année fertile pour les relations franco-chinoises » (on se croirait revenu au temps d’Alice au pays des merveilles). Dans le rôle de l’idiot utile, Quasimodo n’a pas son pareil. Il est tout simplement parfait et impayable. Une fonction étrange pour un ancien Premier ministre de Jacques Chirac, mais qui ne gêne pas du tout l’intéressé. Ce dernier n’aime d’ailleurs pas qu’on vienne le chercher sur ces ambiguïtés : à l’en croire, il ne joue qu’un seul rôle, celui de poisson-pilote en Chine pour les entreprises françaises. Fermez le ban !

Jupiter tombe sous le charme du carnet de chèques chinois. Comment ne pas succomber aux charmes d’une telle sirène qui arrive avec de nombreuses promesses de contrats pour des entreprises françaises (on met à l’eau bouche avec des quantités extravagantes d’achats d’avions [commande de 300 Airbus pour 30 milliards d’euros par la compagnie d’État CASC]14, de navires et d’autres gadgets dont les Gaulois sont particulièrement friands) ? En bon français, cela s’appelle acheter son ou ses interlocuteurs. Comment évoquer le concept grossier de « violations des droits de l’Homme » dans cette ambiance du genre Embrassons-nous Folleville ?15 Fidèle à son habitude, Emmanuel Macron explique lors de sa conférence de presse commune à l’Élysée que la discussion sur la question des droits de l’Homme avec son homologue a été « franche » mais nous n’en saurons pas plus. Diplomatie de la discrétion oblige !

Oubliées les promesses européennes visant à faire front commun contre le tigre chinois (qui n’est pas de papier, les investissements chinois en Europe sont passés de 1,4 milliard de dollars en 2006 à 42,1 en 2018 après avoir connu un pic de 96,8 milliards en 2017) et vive le cavalier seul, le chacun pour soi dont sont coutumiers les 27/28 ! Il y a fort à parier que les moulinets de Jean-Yves Le Drian (qui accueille le président chinois sur l’aéroport de Nice) sur le thème du double sens des nouvelles routes de la soie feront rapidement pschitt. Il y a fort à parier que les déclarations viriles d’Emmanuel Macron avant la visite officielle chinoise aient autant d’effets positifs sur Xi Jinping que sur Donald Trump en son temps (il devait revenir sur son refus de l’accord sur le climat et sur celui sur le nucléaire iranien, Jupiter nous avait promis). À l’Élysée, Pinocchio (Bijou dans une robe longue rouge immaculée) fait assaut d’amabilités à l’égard de son hôte de marque. Pour nous rassurer sur les bonnes et pures intentions chinoises, quelques experts viennent nous faire la leçon : « La Chine s’essouffle, le monde s’inquiète »16, « La position de Xi Jinping n’est pas si confortable qu’elle en a l’air »17 au regard de la crise commerciale américano-chinoise18. Il est vrai que quelques nuages assombrissent le ciel bleu chinois après une longue période faste. Est-ce une tendance conjoncturelle ou structurelle ? Il est encore trop tôt pour le dire avec certitude. Mais, heureusement, l’Europe a décidé de sortir de sa torpeur pour prendre la mesure du problème. Faut-il avoir peur de la Chine ?19 Vaste programme, aurait dit le général de Gaulle qui a noué des relations diplomatiques avec la Chine communiste au nez et à la barbe des Américains.

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La cacophonie fait la foire : l’Europe se réveille20

Un réveil tardif et mou. Lors de ses entretiens à la villa Kérylos (Beaulieu), Emmanuel Macron prône « un partenariat équilibré » avec Pékin (déficit commercial de la France de 30 milliards d’euros)21. [Il enfonce le clou lors des entretiens à l’Élysée au cours desquels il déroule le tapis rouge et tous les leviers de la diplomatie gastronomique]. Des limites, du piège de la démagogie surtout lorsque nous apprenons qu’Emmanuel Macron, trop faible pour faire le poids, appelle de ses vœux la constitution d’un front européen (uni, nous imaginons !) destiné à déjouer la stratégie et les ambitions planétaires de Pékin. Trop peu, trop tard, pourrait-on dire. Des mots, toujours des mots… Où est la stratégie suivie d’actes forts d’une Europe unie ? On peine toujours à la découvrir. Ce qui fait le plus défaut à l’Union européenne est sa capacité d’anticipation sans parler de son absence de volonté de prendre à bras le corps les grands problèmes stratégiques du monde. Elle préfère se quereller sur des taux de TVA, de pourcentages de croissance et autres vétilles qui ne contribuent pas à faire d’elle un acteur du monde. En réalité, elle est de plus en plus spectatrice d’un spectacle dans lequel elle joue les seconds rôles. Comme le souligne si justement, Thierry de Montbrial : « Quand on reprend les conversations entre chefs d’État au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, on s’aperçoit qu’ils ne parlaient pas de tactique, quand ils se rencontraient mais de visions »22. C’est là toute la différence entre celui qui fait l’avenir et celui qui le subit. « La construction européenne vise à surmonter les conflits et les guerres du passé. Elle a pour but la paix, la prospérité, la stabilité, la sécurité. Elle a construit un édifice institutionnel qui est bien huilé et tourne remarquablement bien. Pour renverser la formule d’Emile de Girardin, elle donne l’impression de tourner le dos à l’imprévu pour mieux diriger le cours des choses » comme le souligne un diplomate brillant, Maxime Lefebvre.

Une grande interrogation pour l’avenir.

Que peut-on mettre concrètement à l’actif de l’Union européenne au cours des dernières semaines ?

Une réponse visible, qui n’est pas pour autant efficace, est donnée au bon peuple. Xi Jinping est convié, le 26 mars 2019, à rencontrer à l’Élysée, outre le président Macron, la chancelière allemande, Angela Merkel et le président de la commission européenne, Jean-Claude Juncker23. Drôle de Sainte-Trinité (le terme de Pieds Nickelés serait plus approprié) pour sermonner le Grand Timonier et répondre d’une seule voix aux ambitieuses « routes de la soie » ! Mais, ce trio parle-t-il et a-t-il reçu mandat expresse des autres partenaires pour parler et s’engager en leur nom ? Emmanuel Macron a fait chou blanc avec son sermon aux citoyens européens. Angela Merkel est sur le départ et voit ses prérogatives rogner par son successeur, AKK24. Jean-Claude Juncker, qui ne sera pas reconduit dans ses fonctions après les élections européennes du 26 mai 2019, peine à marcher à trop lever le coude. Mais, Emmanuel Macron nous indique avoir plaidé pour un « multilatéralisme rénové » (que signifie ce nouveau concept ?) et « plus équilibré » auprès de Xi Jinping tout en confessant l’ampleur des désaccords entre la Chine et le trio choc25. Comme le démontre amplement la guerre commerciale américano-chinoise26, Pékin ne comprend que la force dans son état brut. Un grand classique des relations internationales ! Mais, nous sommes pleinement rassurés en apprenant l’existence de « convergences » euro-chinoises à l’Élysée27. Sur quels sujets, c’est un autre problème ! Nous les sommes encore plus en prenant connaissance des déclarations de de Bruno Le Maire selon lesquelles : « Face à la Chine et aux États-Unis, l’Europe doit s’affirmer comme une puissance souveraine ». Un superbe exemple de diplomatie déclaratoire.

Une réponse moins visible mais plus concrète. Le Parlement européen vient d’adopter (février 2019) et demande la mise en œuvre rapide de « l’instrument de filtrage des investissements directs étrangers pour des motifs de sécurité » 28. Il s’agit à l’évidence d’une initiative heureuse qu’il faut saluer. Encore, faut-il qu’elle trouve sa concrétisation dans les meilleurs délais et qu’elle soit ensuite appliquée avec la plus grande rigueur en cas de violation avérée de ses dispositions. L’Union européenne serait bien inspirée de voir ce qui se passe Outre-Atlantique en la matière29. En dernière analyse, il ne faut pas avoir la main qui tremble.

Une réponse encore hypothétique. Manifestement, du côté de la Commission européenne et sous l’amicale pression des États, on commence à mettre au point une sorte de feuille de route dans les relations UE/Chine30. Voici la relation qui nous en est faite par l’hebdomadaire Le Point.

« Nous avons avec la Chine des relations – comment dire ? – bonnes, mais qui ne sont pas excellentes. La Chine aujourd’hui pour nous est un concurrent, un partenaire, un rival. » C’est ainsi que Jean-Claude Juncker, le président de la Commission, concluait le Conseil européen le 22 mars, en amont de la visite de Xi Jinping en Europe, qui sera suivi, le 9 avril, d’un sommet UE-Chine. Emmanuel Macron a invité le président de la Commission et la chancelière Merkel à se joindre à la visite du leader chinois à Paris, en guise de hors-d’œuvre au futur sommet.

La semaine dernière, les chefs d’État et de gouvernement ont débattu des dix mesures que la Commission a mises sur la table vis-à-vis de l’empire du Milieu, qualifié de « rival systémique ». Un changement de ton qui traduit l’impatience des Européens à voir la Chine s’ouvrir à leurs entreprises – notamment les marchés publics –, cesser le dumping déloyal par ses prix, mettre fin au transfert de technologies forcé. En somme, rejoindre le concert des nations dans le cadre de l’OMC et accepter les règles du marché. Or, ce n’est pas le chemin emprunté par Pékin après son adhésion à l’OMC en 2001. Les Occidentaux ont eu la naïveté de croire que la Chine deviendrait une économie sociale de marché. Elle est demeurée étroitement entre les mains du Parti communiste chinois et a inventé une forme de « capitalisme d’État » qui l’a rendue quatre fois plus riche qu’en 2001…

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Zhang Ming, l’ambassadeur de Chine auprès de l’Union européenne, a prévenu les Européens que les avancées en termes d’ouverture économique s’effectueront à un « rythme raisonnable » et que « les demandes européennes seront « progressivement prises en compte ». Donc, il n’y a pas de « grand soir » à attendre ni de la visite de Xi Jinping à Paris ni du prochain sommet UE-Chine.

Parmi les dix mesures préconisées par la Commission, appuyée par Federica Mogherini, la haute représentante pour les relations extérieures, certaines relèvent encore, disons, des bons sentiments. Quand on pense pouvoir coopérer avec Pékin sur l’ensemble des trois piliers des Nations unies, à savoir les droits de l’homme, la paix et la sécurité et le développement, l’Union européenne demeure dans le formalisme diplomatique. Mais il est peu probable que la situation s’améliore, à court terme, au Tibet ou pour la minorité musulmane ouïghour. En revanche, l’Union européenne et la Chine sont davantage en phase sur le climat. Jean-Claude Juncker appellera Pékin à plafonner ses émissions de CO2 avant 2030, conformément aux objectifs de l’accord de Paris. Il existe également une bonne coopération sino-européenne sur le dossier iranien.

La mesure 5 est un peu plus « punchie » puisque l’UE « invite » la Chine à tenir ses engagements, dont la réforme de l’OMC, « en particulier pour ce qui est des subventions et des transferts de technologies forcés », de même que la protection des indications géographiques. Dans la mesure 6, la Commission appelle le Parlement européen et le Conseil européen à adopter l’instrument international de réciprocité sur les marchés publics avant la fin 2019. Cet appel a été entendu par le Conseil européen qui, dans ses conclusions du 22 mars, appelle à son tour « à la reprise des discussions sur l’instrument international de passation des marchés de l’UE ». On n’en est donc pas à décider. On discute… depuis 2012. L’Allemagne bloquait la discussion. Elle vient de changer d’avis à la faveur de la fusion avortée entre Alstom et Siemens. Ce travail sera donc parachevé lors de la prochaine législature, après les élections européennes. La mesure 7 est également musclée, puisque la Commission se propose de publier des « orientations » afin que les prix proposés dans les marchés publics de l’UE prennent en compte réellement les normes en matière de travail et d’environnement. C’est par ce biais que les concurrents chinois ne pourraient soutenir la concurrence avec les entreprises européennes. Emmanuel Macron, lui, voulait aller plus loin et établir une préférence communautaire dans les marchés publics. Il n’a pas été suivi par une majorité d’États membres. La Commission proposera également de compléter la législation européenne pour contrecarrer les distorsions de concurrence des pays tiers sur les biens et les services échangés dans le marché intérieur. S’agissant de la 5G, la Commission a pris en compte les problèmes de sécurité posés par le leader mondial Huawei et fera des propositions très prochainement, a annoncé Juncker31. On ne peut que se féliciter que Bruxelles ait décidé de ne pas exclure l’équipementier chinois du marché de la 5G32.

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Enfin, la Commission invite les États membres à mettre en œuvre le plus rapidement possible, de manière « complète et effective », la récente législation sur le filtrage des investissements étrangers dans les domaines sensibles. Cette législation n’est pas contraignante pour les États, qui sont seulement tenus de s’informer les uns les autres. Cela n’empêcherait nullement, par exemple, l’Italie de poursuivre le partenariat qu’elle vient de signer avec Xi Jinping qui prévoit, dans le cadre du projet pharaonique des « nouvelles routes de la soie », des investissements chinois dans les ports stratégiques de Gênes et de Trieste. Un protocole d’accord « non contraignant », s’est empressé de dire Giuseppe Conte, le président du Conseil italien, devant les froncements de sourcils suscités par cet accord à Washington, Bruxelles et Paris. « La partie chinoise souhaite des échanges commerciaux dans les deux sens et un flux d’investissements dans les deux sens », a assuré, de son côté, Xi Jinping. « La relation entre l’Union européenne et la Chine ne doit pas être avant tout une relation commerciale, elle doit être une relation politique et géostratégique », a souligné Emmanuel Macron, au sortir du Conseil européen. Le commerce est un des aspects, mais si nous construisons de proche en proche une dépendance géopolitique ou stratégique, nous comprendrons rapidement les conséquences que cela peut avoir. Et nous serons perdants sur les deux points. »33

On l’aura compris, nous ne sommes qu’au début d’un très long processus diplomatique avant que toutes ces mesures deviennent contraignantes34. L’unanimité n’est pas garantie tant la Chine dispose de sérieux leviers d’influence sur les États les plus faibles de l’Union (Grèce, Italie…) et que les 27/28 pratiquent la défense de leurs intérêts nationaux avec celle de l’intérêt européen.

***

« L’Europe n’aura pas eu la politique de sa pensée ». Ce jugement porté par Paul Valéry avant la Seconde Guerre mondiale n’a pas pris la moindre ride en cette fin de deuxième décennie du XXIe siècle. Comme le rappelle fort justement Jean-Pierre Chevènement : « Les Européens se sont accommodés de la vassalisation ». Vassalisation surtout vis-à-vis du grand frère américain depuis la fin de la Première Guerre mondial et soumission vis-à-vis de l’Empire Céleste depuis la fin de la Guerre froide. Comme l’écrit avec le sens aigu de la formule qui est le sien, Régis Debray : « L’Européen a des velléités mais, à la fin, il fait où Washington lui dit de faire, et s’interdit là ou et quand il n’a pas la permission »35. Que veut-il faire avec et/ou contre la Chine qui tisse lentement mais sûrement sa toile des « nouvelles routes de la soie » (« Pour l’Europe, c’est la déroute de la soie »36), y compris jusqu’au cœur de l’Union (Grèce et maintenant Italie avec l’accord signé par Xi Jinping avec les nouveaux dirigeants37). La réponse est aussi peu claire qu’évidente à ce stade de la réflexion des 27/28. Nous sommes au cœur de la problématique institutionnelle et fonctionnelle de la construction européenne38.

Pourquoi l’Union européenne a-t-elle tant de mal à être unie face à la Chine (« Unité de façade Merkel, Macron-Juncker. Face à l’impérialisme économique de Xi Jinping, l’Europe chinoise ! »39) ? Même si les défis ne manquent pas pour Xi Jinping40, il faudra apprendre à compter avec la Chine et à anticiper des réponses réalistes pour faire jeu égal avec elle41. Aujourd’hui, force est de constater que l’expansionnisme chinois bouscule et divise sérieusement l’Europe qui est restée longtemps inerte42. Longtemps, trop longtemps, le mot « réciprocité » a été considéré comme un mot tabou, grossier du côté européen. Il semble qu’aujourd’hui il soit devenu cardinal dans la langue de certains de nos dirigeants toujours en retard d’une guerre43. Révolution copernicienne pour certains, tournant pour d’autres44. Le temps est venu de trancher le nœud gordien. D’ici là, quand l’Europe s’éveillera vraiment (nous ne savons toujours pas quand compte tenu de son inertie habituelle), le risque est grand qu’elle soit depuis longtemps empêtrée dans la nasse pékinoise et que la Chine s’esclaffera.

Guillaume Berlat
1 avril 2019

1 Alice George, Albert et Charlène de Monaco reçoivent le président chinois et son épouse. Dans les coulisses d’une visite d’État, Point de vue, 27 mars-2 avril 2019, pp. 34 à 37.
2 Gabriel Grésillon/Frédéric Schaeffer, Le président chinois Xi Jinping amorce une tournée Pékin dans une Europe vigilante mais divisée face à Pékin, Les Échos, 21 mars 2019, pp. 6-7.
3 François d’Orcival, Les routes de la puissance et de l’intimidation, Valeurs actuelles, 28 mars 2019, p. 4.
4 Guillaume Berlat, De l’Europe de la sanction à la sanction de l’Europe, www.prochetmoyen-orient.ch , 24 décembre 2018.
5 Régis Debray, L’Europe fantôme, collection « Tracts », Gallimard, 2019, p. 34.
6 Guillaume Berlat, Mondialisation heureuse, balkanisation furieuse, www.prochetmoyen-orient.ch , 11 mars 2019.
7 Nicole Gnesotto, L’Europe indispensable, CNRS éditions, mars 2019.
8 Pierre Tiessen/Régis Soubrouillard, La France made in China, Michel Lafon, 2019.
9 Guillaume Berlat, Quand la Chine s’éveillera vraiment…, www.prochetmoyen-orient.ch , 14 janvier 2019.
10 Jean-Michel Bezat, Pékin emploie la diplomatie des gros contrats avec les Occidentaux, Le Monde, 27 mars 2019, p. 2.
11 Jérôme Gautheret, L’Italie, premier pays du G7 à prendre les « nouvelles routes de la soie », Le Monde, 26 mars 2019, p. 5.
12 Bernard Simiot, Moi Zénobie reine de Palmyre, Albin Michel, 1978, p. 208.
13 Xi Jinping, « La Chine et la France, ensemble vers un développement commun », Le Figaro, 23-24 mars 2019, p. 16.
14 Il convient de rappeler que cette commande avait déjà annoncée, il y a un an déjà, lors de la visite officielle d’Emmanuel Macron en Chine. Tous ces Airbus seront assemblés en Chine par des ouvriers chinois. Pour remporter ce contrat géant, Airbus aura dû consentir à d’importants transferts de technologies. Pékin n’aura pas dû se livrer à quelques activités d’espionnage pour obtenir des secrets de fabrication. Les clés de la Maison lui auront été confiées. Et, tout cela intervient en toute légalité…
15 François Bougon, La Chine cherche à imposer un nouvel ordre mondial de l’information, s’inquiète RSF, Le Monde, 26 mars 2019, p. 17.
16 Frédéric Lemaître/Marie de Vergès, La Chine s’essouffle, le monde s’inquiète, Le Monde, Économie & Entreprise, 22 mars 2019, p. 14.
17 Jean-Philippe Béja, La position de Xi Jinping n’est pas si i confortable qu’elle en a l’air, Le Monde, 26 mars 2019, p. 29.
18 Cyrille Pluyette, L’autorité de Xi Jinping écornée, Le Figaro, 6 mars 2019, p. 7.
19 Renaud Girard, Faut-il avoir peur de la Chine ?, www.lefigaro.fr , 25 mars 2019.
20 Isabelle Lasserre, Le réveil des Européens face à la Chine, Le Figaro, 25 mars 2019, p. 6.
21 Cyrille Pluyette, Macron prône un partenariat équilibré avec Pékin, Le Figaro, 25 mars 2019, p. 6.
22 Thierry de Montbrial (propos recueillis par Isabelle Lasserre), « La principale rupture du système international remonte fut 1989 et non 2001 », Le Figaro, 18 mars 2019, p. 20.
23 Brice Pedroletti/Marc Semo, L’Europe affiche son unité face à Pékin. Front européen face à la Chine de Xi Jinping, Le Monde, 27 mars 2019, pp. 1-2.
24 Thomas Wieder, « AKK », la dauphine de Merkel marque sa différence, Le Monde, 27 mars 2019, p. 4.
25 Michel de Grandi, Les Européens invitent la Chine à respecter « l’unité de l’Union », Les Échos, 27 mars 2019, p. 6.
26 Sylvie Kauffmann, L’Europe, champ de bataille sino-américain, Le Monde, 28 mars 2019, p. 32.
27 Alain Barluet, « Convergences » euro-chinoises à l’Élysée, Le Figaro, 27 mars 2019, p. 8.
28 Éric Martin, L’Union européenne va-t-elle se laisser acheter ? Le filtrage des investissements étrangers en Europe, https://www.ifri.org/fr/publications/etudes-de-lifri/lunion-europeenne-va-t-se-laisser-acheter-filtrage-investissements , mars 2019.
29 Marie de Vergès, Trump : un an d’escalade protectionniste, Le Monde, Économie & Entreprise, 28 mars 2019, p. 17.
30 Frédéric Lemaître/Jean-Pierre Stroobants/Brice Pedroletti, L’UE durcit le ton face à la Chine, Le Monde, 21 mars 2019, p. 2.
31 Sebastien Dumoulin, L’Union européenne se coordonne face à Huawei, Les Échos, 27 mars 2019, p. 6.
32 Jean-Pierre Stroobants, Huawei : face aux pressions américaines, l’Europe résiste, Le Monde, Économie & Entreprise, 28 mars 2019, p. 18.
33 Emmanuel Berretta, Les 10 préconisations de Bruxelles face à la Chine, www.lepoint.fr , 26 mars 2019.
34 Éditorial, UE-Chine : le bon virage de Paris, Le Monde, 28 mars 2019, p. 32.
35 Régis Debray, précité, p. 24.
36 Frédéric Pagès (propos presque recueillis par), Les interviews (presque) imaginaires du « Canard ». Xi Jinping : « Pour l’Europe, c’est la déroute de la soie », Le Canard enchaîné, 27 mars 2019, p. 1.
37 Olivier Tosseri, L’Italie sera bientôt la porte d’entrée des nouvelles routes de la soie en Europe, Les Échos, 21 mars 2019, p. 6.
38 Louis Vogel, Les 7 péchés capitaux de l’Europe, Ramsay, 2019.
39 Le Canard enchaîné, 27 mars 2019, p. 1.
40 Éric de la Maisonneuve, Les défis chinois : la révolution Xi Jinping, éditions du Rocher, mars 2019.
41 Hervé Martin, Les Chinois attrapent les États par la dette, Le Canard enchaîné, 27 mars 2019, p. 3.
42 Fabrice Nodé-Langlois/Valérie Segond, Les ambitions de Xi Jinping prospèrent dans une Europe divisée, Le Figaro économie, 20 mars 2019, pp. 19-20-21.
43 Anne Rovan, Face à la Chine, Bruxelles tente de trouver la parade, Le Figaro économie, 20 mars 2019, p. 21.
44 Sylvie Kauffmann, Chine-Europe : le tournant, Le Monde, 21 mars 2019, p. 31.

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Source : Proche & Moyen-Orient, Guillaume Berlat, 01-04-2019

vendredi, 10 mai 2019

Beaucoup d’Allemands veulent comprendre la Russie

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Beaucoup d’Allemands veulent comprendre la Russie

Une soirée avec Gabriele Krone-Schmalz

par Matthias Klaus

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/fr

La théorie, selon laquelle il existe une grande différence entre les opinions publiées dans nos médias mainstream et les opinions réelles des citoyens allemands, est confirmée régulièrement. Dans la ville de Villingen-Schwenningen en Forêt-Noire, Gabriele Krone-Schmalz a récemment plaidé – dans le cadre de la série d’interviews «Autor im Gespräch» [entretien avec un auteur] – pour la normalisation des relations germano-russes et pour une entente avec la Russie fondée sur la raison et la compréhension. Cette approche a rencontré un écho très favorable.

csm_CC_20190430_10_GKS-Eiszeit_3d302335ba.jpgLa grande affluence dans la nouvelle salle de concert, avec l’accueil de plus de 600 visiteurs, a démontré à quel point les actuels récits unilatéraux concernant la Russie préoccupent les citoyens allemands. On a ressenti un fort besoin d’entendre une voix dissidente à l’opinion publiée, différant agréablement de la continuelle «diabolisation de la Russie». Le sous-titre de son dernier livre «Eiszeit» [L’âge de glace] est «Comment la Russie est diabolisée et pourquoi cela est si dangereux».


Gabriele Krone-Schmalz a déjà obtenu de nombreux prix et distinctions pour son engagement exemplaire, dont notamment, en 1997, la Croix fédérale du mérite du gouvernement allemand pour «la qualité de la couverture télévisée».


Au début de l’entretien, Mme Krone-Schmalz a expliqué à quel point on peut abuser de la langue, pour ne plus devoir écouter, voire prendre au sérieux un interlocuteur, en le qualifiant de «celui qui comprend la Russie» [«Russlandversteher»]. Le désir de comprendre les réflexions d’autrui, d’être capable de se mettre dans sa situation – c’est-à-dire de ressentir de l’empathie – est généralement considéré comme un objectif souhaitable. Mais la combinaison de mots dans le terme polémique de «Russlandversteher» est censée avoir l’effet contraire sur l’esprit du lecteur ou de l’auditeur. Par la création de ce nouveau terme, toute personne souhaitant comprendre la Russie ou le président Poutine est dévalorisé, transformé en «partisan de Poutine», banni de tout intérêt.


csm_CC_20190430_10_GKS_1_87300c7c67.jpgMais c’est exactement ce que l’historienne et journaliste tente de faire. Une politique étrangère sensée exige que nous prenions en compte les intérêts d’autrui. Cependant, il n’a jamais été et n’est toujours pas dans l’intérêt de l’Occident (des Etats-Unis) que l’Allemagne et la Russie se rapprochent et coopèrent. L’exemple actuel est la tentative du gouvernement américain d’empêcher la construction du gazoduc Nord Stream 2.
Selon elle, la déclaration de la nouvelle présidente de la CDU, Annegret Kramp-Karrenbauer, en fonction de laquelle l’Allemagne doit également développer une option militaire envers la Russie, est extrêmement inquiétante. Mme Krone-Schmalz a mis en garde contre le fait d’aller de l’avant dans cette direction. La Russie se sent à juste titre rejetée et menacée par l’expansion vers l’Est de l’OTAN et par les missiles stationnés en Pologne et en République tchèque. Il est facile de remplacer de tels missiles défensifs par des missiles d’attaque.


L’écrasante majorité de la population allemande est favorable à de bonnes relations avec la Russie, mais l’opinion et la politique mainstream n’en tiennent pas compte. Mme Krone-Schmalz y voit un danger pour le système politique allemand.


Au cours de la dernière demi-heure, les auditeurs ont eu l’occasion de poser des questions et de participer au débat. Un auditeur a soulevé le fait du jumelage de Villingen-Schwenningen avec la ville de Tula. Mme Krone Schmalz a volontiers abordé ce sujet. Pour elle, l’expansion et la mise en place active de jumelages dynamiques avec la Russie constituent un antidote important à la politique russophobe actuelle de l’Allemagne.    •

Evola and Neo-Eurasianism

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Evola and Neo-Eurasianism

Ex: https://www.geopolitica.ru

We must understand Julius Evola’s work in the same vein as we understand Heidegger’s approach to metaphysics and Western civilization.

While we can know, for sure, that the current state of Western civilization no longer resembles, in toto, the idealistic image once pictured by Heidegger and Spengler, we must be aware that their work constitutes an important and vital watershed.

The spirit of of old Europe is alive in Heidegger’s work, just as much as in Evola’s work. Both represent the spirit of an age that knew – intimately, perhaps – the Nietzschean drive to its deep modernistic roots and its essence, and perhaps could be depicted in a certain sense as representing the age of the (aspiring) Overman, the active nihilist, and of the regimes that sought a new model of man – many of them Fascist, Communist or even Liberal – as opposed to the current age of the Last Man, a man who has lost the Faustian drive almost entirely and therefore succumbed to passive nihilism, and to the spirit of an age that has fully transitioned from Modernity to Post-Modernity. An age that now consequently, in our current epoch, faces complete dissolution.

Evola addresses this age of dissolution just as intensively and concisely as Heidegger deconstructs the essence of Western logos and of its Metaphysics focused on unreal abstract presences, on reified essences, and on the thinking subject.

We must understand Evola as a savant who was deeply aware of his own role within the End Times, and the sort of distillation, of objectivity (sachlichkeit), that would be necessary in confronting the dimensions and challenges given in our age. We must sense, in him, a man who grasped the inevitable dissolution and destruction of the standards of the bourgeois era, and the age of so-called “Old” Europe, of the Europe that was still recognizable to a man like Oswald Spengler, and about whose inevitable destiny Goebbels firmly proclaimed – as he spoke, during the aftermath of the Dresden bombing and the late 2nd major global confrontation: “all of old Europe comes crashing down, and will be buried, with this war. With this conflict, comes down the ruin of the bourgeois age.” [rough translation]

Even if this fundamentally correct intuition did not come in the style of perverted Nazi dreams, with the construction of the fascist Neue Ordnung, but instead with the building of a demented, sick, geriatric and nihilistic liberal regime within an Americanized mold, we must still see in Evola a sort of logical conclusion to the presuppositions that have so far underlined the later stages of European reaction.

Evola must be understood as constituting the bridge from late Western European continental thought, to Tradition as we should know, and properly understand in the conception that must underlie the foundations of a new, post-liberal civilization that we – as men of the Midnight – must necessarily aspire to.

The very movement of Evola’s life, from the Absolute Idealism of his youth, towards the Neo-Platonic intellectual rigidity, the cemented and refined orthodoxy of the “late” Evola, is indicative of the way that we should take in our age.

Evola wrote precisely for us, the men of the midnight. His writings concerned not just the critique of late Western metaphysics, from a partial point of view that is perhaps much more complete in the work of Rene Guenon and Martin Heidegger, but carries in itself the apocalyptic and eschatological vision of the End – although within Evola’s work, we must understand the undertones of this view of the End Times as being fundamentally different from the Semitic bluster of emotions that have characterized our understanding of the term within Christian civilization.

Evola’s view of the End Times is strictly aligned with a different Orthodoxy, namely, that of Platonism, Hermeticism, Buddhism in its early purer form, and also Samkhya, Advaita and other such currents that can still be discerned in our age. In them, while the End Times and the Dark Age form a coherent given, there’s a marked absence of the pathos of the Semitic type within the scope of these alternative traditional teachings.

The current age of liberal decadence, of the end of Western humanity, must be understood within the aegis and scope of the broad movement of dissolution, of fragmentation, that precedes the end of the cycle. And this is followed, markedly, by the search for transcendence in a world that has become meaningless, formless, objectified, banal and the passive receptacle of a process very similar to the fetish of commodities described by Marxist ideologues. And within this dystopian world of the late times, we can also witness the correspondence made in a very precise fashion with the age of the fourth caste, the age of the Sudra – characterized for instance by the domination of the formless mass man, of pure quantity and of machines – as opposed to the previous bourgeois age that retained the remnants of deeper, older organic elements.

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Within this age, and within the West, we must acknowledge that everything that was still organic and traditional in the previous “bourgeois” age, that ended most definitely in 1945, is now coming to an end or has already been destroyed. The anti-modernist teaching of the Roman Church was killed and buried together with its ceremonial and liturgical core, and so were the remnants of the organic, pre and anti-modern social elements, like the aristocracy, the clergy, and the broad aristocratic and hierarchical structures that still played their role in granting a deep and effective sense of societal and personal differentiation no longer present in our day and age.

In our age, which is marked deeply by the liberal and also former Communist erosion of all the remaining standards of organic civilization, we cannot count on the luxury of having the old models and superstructures present within our current milieu. The organic society of the Renaissance, and its predecessor, the organic society of the Middle Ages, are now but a distant memory. What is present right now is precisely the inorganic model of the civilized, late liberal world, that drags itself inexorably towards a vortex of imbecility, downwards leveling of the social structure, and also self-disintegration. Of this, we can only take into account the brilliant work “Jihad vs McWorld”, the sort of book that bears a title very fitting to the current age of Spenglerian early Caesarism, money politics, and solidification.

We have already discussed briefly here and elsewhere the nature of this age. And now, we must understand that when the West lies close to its stage of effective mortality, the initiative must be seized decisively towards a new direction. This initiative consists in the gathering of the men of the Midnight, the differentiated men who “ride the tiger”, to the construction of a new paradigm that must necessarily come after the deep, dark night of Western modernity, and that shall come to the fore as the necessary civilizing Traditional force over a world in ruins. Of a world that has lost sight of itself, and has submerged itself into the most elementary and animal-like barbarity.

Récupération politique: Anciennes et nouvelles tentatives de justifier l’hégémonie des USA et de l’UE

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Récupération politique

Anciennes et nouvelles tentatives de justifier l’hégémonie des USA et de l’UE

par Karl Müller

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/fr

Dans un livre publié en 1999 par le journaliste et chroniqueur américain au «New York Times» Thomas L. Friedman («Understanding Globalisation. Between Marketplace and World Market» [Comprendre la mondialisation. Entre la place du marché et le marché global]) figure le chapitre intitulé «The Geopolitics of Globalisation». On peut y lire «l’importance des Etats-Unis pour le monde à l’ère de la globalisation». La «plus grande partie du monde» aurait «compris que le monde serait beaucoup moins stable sans la force des Etats-Unis». Une «mondialisation durable» exige une «structure stable du pouvoir» et aucun pays n’y joue «un rôle plus important que les Etats-Unis». Cette «stabilité» repose également sur «la puissance des Etats-Unis et leur volonté de l’utiliser contre quiconque menace le système globalisé – de l’Irak à la Corée du Nord»: «La force invisible faisant prospérer la technologie du Silicon Valley est constituée par l’armée de terre, l’armée de l’air, la marine et les marines étatsuniens». Et de continuer: «Sans la politique étrangère et de défense active des Etats-Unis, le système globalisé ne peut être maintenu.»

De Friedman à la consternation de Snowden …

Dans le film de 2016 d’Oliver Stone sur Edward Snowden, on assiste à une scène significative. Snowden a été invité à une réunion avec de hauts responsables du renseignement américain. Il demande à l’un de ces agents du renseignement pourquoi de très nombreux millions de personnes dans le monde entier sont espionnés en cachette. La réponse qu’il obtient est que tout cela n’a qu’un seul but: rendre le monde plus sûr et prévenir les guerres. Pour cela, le monde a besoin des Etats-Unis et de leurs services de renseignement.

… jusqu’à Robert Kagan

otto+von+bismarck+1871.jpgRobert Kagan, leader d’opinion néoconservateur des Etats-Unis, époux de Victoria Nuland (co-responsable du coup d’Etat de 2014 en Ukraine) et membre du Council on Foreign Relations, a publié dans le mensuel Foreign Affairs d’avril 2019 un article sur l’Allemagne, l’UE et les Etats-Unis. Le titre: «The New German Question. What Happens When Europe Comes Apart?» [La nouvelle question allemande. Que se passe-t-il lorsque l’Europe quitte le droit chemin?]. Le raisonnement se base sur les constructions suivantes: la création du Reich allemand en 1871 a créé au centre de l’Europe un foyer à troubles trop puissants, plongeant l’Europe et le monde dans deux guerres mondiales. Après 1945, il fut possible de stabiliser ce foyer à troubles – grâce à la garantie sécuritaire américaine pour l’Europe et à la politique européenne des Etats-Unis, grâce au système de libre-échange international dirigé par les Américains, grâce à une vague démocratique en Europe émanant des Etats-Unis et, notamment aussi, grâce à la lutte contre le nationalisme européen des USA, de l’UE et de ses organisations précédentes. Selon Kagan, dans la situation actuelle, tout cela n’est plus garanti et suscite donc de vives inquiétudes – notamment en prenant en compte l’Allemagne future.

Tentatives de justification de l’hégémonie américaine …

A ces trois tentatives de justifier l’hégémonie américaine dans le monde ainsi que l’élargissement du pouvoir de l’UE et de ses organisations prédécesseurs en Europe au cours des deux dernières décennies, on pourrait en ajouter de nombreuses autres. Toutes ont en commun qu’elles ne résistent pas à un examen pertinent – même si elles sont toujours et encore maintenues.

… et de l’UE

Du 23 au 26 mai se tiennent dans les Etats membres de l’Union européenne les élections des députés au «Parlement» européen pour un nouveau mandat de cinq ans. La campagne électorale bat son plein. Les arguments justifiant de telles élections et les activités de cette assemblée de l’UE – en réalité, il ne s’agit pas d’un réel Parlement, car il lui manque des conditions préalables essentielles – ainsi que l’UE dans son ensemble sont apparemment très minces. C’est pourquoi les propagandistes recourent à des fantasmes et des distorsions historiques. Ils sont assistés par les «alliés» étatsuniens ayant depuis 1945 un intérêt manifeste à affaiblir les Etats-nations européens et souverains en leur imposant ce qu’ils appellent, par euphémisme, «globalisation». En réalité, ils ne craignent pas le «nationalisme» – cette notion est elle aussi mise en scène et instrumentalisée quand elle semble «utile» –, mais les fondements constitutionnels à caractère libéral, démocratique, juridiques et sociaux des Etats souverains représentés dans une «Europe des patries». Une UE gouvernée de haut en bas leur semble être un vassal plus maniable.

280px-Incendie_Notre_Dame_de_Paris.jpgL’incendie de «Notre-Dame» a déclenché un engouement …

L’abus pour l’engouement de l’incendie et du débat autour de la reconstruction et du financement de la cathédrale «Notre-Dame» de Paris pour la campagne électorale actuelle est absurde. La revue de presse du Deutschlandfunk du 17 avril constatait «que le thème dominant des commentaires du jour était l’incendie de la cathédrale Notre-Dame de Paris» suivi d’un certain nombre de citations.


La «Frankfurter Allgemeine Zeitung» a écrit: «L’incendie du 15 avril 2019 à Paris restera dans les annales. Il a frappé le symbole d’un pays déchiré et divisé. Depuis novembre, le mouvement des Gilets jaunes avec ses protestations partiellement violentes a forcé les dirigeants de l’Etat de sortir de la réserve. Suite à une évolution totalement inattendue de l’Histoire, l’incendie catastrophique survenue juste avant les fêtes de Pâques, a imposé un moment d’arrêt à la France. Brièvement, l’horreur de la cathédrale Notre-Dame en flammes a créé une cohésion ayant cruellement fait défaut ces derniers mois».


La «Neue Osnabrücker Zeitung» a réagi ainsi: «Dans l’horreur commune, de nombreuses personnes ont redécouvert les forces unificatrices des valeurs, de la cohésion et même de la beauté. Maintenant, cette catastrophe libère des énergies inattendues. Soudainement, les valeurs se retrouvent au-dessus du marché qui semblait tout dominer. Les familles milliardaires Pinault et Arnault veulent à elles seules faire don de trois cents millions d’euros pour la reconstruction. L’argent s’incline devant la culture. Ce n’est pas le moindre des messages transmis suite à ce malheur. Plus important que l’argent est le fait que l’Europe ait trouvé, avec la reconstruction, une tâche commune. Cela unit à nouveau.»
La «Stuttgarter Zeitung» écrit: «‹Nous les reconstruirons ensemble›, a annoncé le président Macron. Il ne fait aucun doute que Notre-Dame brillera à nouveau, un jour, dans toute sa nouvelle splendeur. Ce qui fut possible à Reims et à Rouen où les cathédrales détruites pendant la guerre furent merveilleusement restaurées, se répétera à Paris. Mais les propos de Macron vont au-delà des aspects financiers et techniques. Ils témoignent de l’espoir que ce choc puisse être salutaire et réunisse à nouveau la nation.»

… pour un «sentiment du vivre-ensemble européen» à l’américaine

Le «Reutlinger General-Anzeiger» renchérit dans les termes suivants: «Il se peut que le terrible incendie ait fait prendre conscience à l’un ou l’autre qu’il existe quelque chose comme une conscience européenne et un sentiment de solidarité au-delà des égoïsmes nationaux. Si tout le monde se réunit pour aider, la reconstruction pourra réellement réussir. Notre-Dame ne sera plus jamais la même, mais elle pourrait devenir un symbole de la solidarité européenne.»


Finalement, il y a encore les «Westfälische Nachrichten»: «Notre-Dame étant un patrimoine européen commun, la reconstruction – comme ce fut le cas autrefois avec la Frauenkirche à Dresde – est une tâche commune pour tous les Européens. Ce serait une lueur d’espoir dans cette catastrophe, si la douleur vécue ensemble conduisait à un sentiment de communauté français et européen.»


Que les plumes s’alignent toutes sur la même idée peut avoir deux raisons: soit tous les éditorialistes tirent dans le mille, soit il s’agit de tout autre chose, par exemple d’une campagne médiatique coordonnée et orientée politiquement.  

L’altro ’68 tra Julius Evola e Jan Palach

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L’altro ’68 tra Julius Evola e Jan Palach

da Giovanni Sessa
Ex: http://www.barbadillo.it

Molti dei mali del nostro tempo hanno avuto una lunga incubazione storica. Non può, però, essere messo in dubbio che, un momento di evidente accelerazione dei processi di crisi, si sia mostrato, in modo lapalissiano, nel tanto mitizzato 1968 e nella contestazione studentesca. Due recenti pubblicazioni vengono, opportunamente, a ricordarcelo. Si tratta di Julius Evola, Scritti sul ’68, comparso nel catalogo dell’editore l’Arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 130, euro 15,00), e del volume di Petr Vyoral, Jan Palach, Praga 1969. Una torcia nella notte, di recente nelle librerie per Ferrogallico (per ordini: info@ferrogallico.it, pp. 111, euro 15,00).

9788894398328_0_306_0_75.jpg   Il primo libro, come ricorda nell’informata Premessa Alessandro Barbera, raccoglie gli articoli che Evola pubblicò su il Borghese nel biennio 1968-1969, aventi per tema la contestazione, due suoi scritti apparsi su Il Conciliatore, nonché un’intervista rilasciata, per lo stesso mensile, a Gianfranco de Turris. Infine, un articolo pubblicato sul Roma nel 1971 e il capitolo tratto da L’arco e la clava, intitolato La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Chiude il volume, un’Appendice che riunisce scritti di Mario Tedeschi, Giano Accame ed Adriano Romualdi. Dalla lettura è possibile evincere l’effettiva posizione che il filosofo assunse nei confronti del movimento studentesco. Evola iniziò la propria collaborazione a il Borghese di Tedeschi, per chiamata diretta dello stesso Direttore. Questi non condivideva le posizioni fatte proprie, in tema di movimento studentesco e «cinesi» all’Università, da Giano Accame, intelligenza scomoda formatasi sui testi di Evola, ma aperta, lo ricorda Barbera, alla modernità. Mentre Accame rilevava assonanze teoriche di fondo tra il pensiero di Tradizione ed alcuni assunti teorici espressi dai francofortesi, gli interventi Evola, misero in luce come, nell’antropologia disegnata da Marcuse, emergesse un debito rilevante nei confronti del freudismo.

   L’uomo che i contestatori avevano in vista per il superamento della società ad una dimensione, vedeva il prevalere della spinta meramente pulsionale, legata ad un’idea di libertà quale puro svincolo, libertà-da e non libertà-per. Inoltre, Evola espresse una critica radicale del maoismo, ideologia sostanziata dal marxismo e da un nazionalismo collettivistico, del tutto alieno dall’idea di comunità tradizionale. Ciò lo indusse a prendere, con chiarezza, le distanze dai gruppi nazi-maoisti che sostenevano di ispirarsi alle sue idee, come ribadito anche nell’intervista concessa a de Turris. Sulle medesime posizioni si schierò lo stesso Adriano Romualdi. La vera urgenza, per Evola, non andava individuata nella contestazione al sistema, ma nella Rivolta contro l’intera civiltà moderna. Non esistendo strutture politiche, né partitiche, atte a tanto, sarebbe stato necessario dedicarsi alla formazione personale, spirituale ed esistenziale, per farsi trovare pronti al momento opportuno. Evola fu, dunque, lungimirante.

    Comprese che il ’68 era funzionale al sistema e che i contestatori avrebbero semplicemente scardinato, a favore dei padroni del vapore, il ruolo dei corpi intermedi, della famiglia, avrebbero soprattutto messo in atto l’assassinio del Padre, indispensabile figura della trasmissione della Tradizione, al fine di liberare l’energia sovversiva del capitalismo, fino ai limiti estremi. Coglie nel segno, nella postfazione, Manlio Triggiani nel sostenere che Evola criticò, ad un tempo, i contestatori, e quanti a destra svolsero il ruolo di guardie bianche del sistema, «liberando» le Università dai «cinesi» che le occupavano. Comprese, che, per costruire un Nuovo Inizio europeo, sarebbe stato necessario lasciarsi alle spalle la mera nostalgia, così come gli sterili richiami patriottardi.

   Il secondo volume che presentiamo è dedicato a Jan Palach e richiama l’attenzione sull’Altro Sessantotto, quello combattuto, oltre la cortina di ferro, non dai figli della borghesia americanizzata dell’Occidente, dai narcisi à la page, ma dai figli del popolo che lottavano per affermare, sacrificando la propria vita, la dignità dell’uomo e della Tradizione. Il libro è costituito da testi e da disegni. Presenta in modalità decisamente accattivante, nel fumetto ottimamente realizzato da Vyoral, la storia, personale e politica, di Jan Palach, «torcia n. 1» che il 16 gennaio 1969, in piazza  san Venceslao a Praga, si diede fuoco per protestare, non solo contro l’occupazione del suo paese da parte delle truppe sovietiche ma, ancor di più, per suscitare una reazione forte nei confronti dell’asfissia prodotta dal sistema comunista. La primavera di Praga era stata stroncata nel sangue: non si trattava di «riformare» il comunismo, ma di sconfiggerlo. Il fumetto è accompagnato e completato dai testi di Emanuele Ricucci, autore della Prefazione, e di Umberto Maiorca, a cui si deve la Postfazione. Il primo ricostruisce, con toni lirici e appassionati, le tragiche vicende del giovane studente universitario ceco, ricordando quanto asserito da Marcello Veneziani: «i sessantottini incendiarono il mondo pensando a sé stessi, mentre Palach incendiò se stesso pensando al mondo» (p. 7). Maiorca ripercorre, in modo organico e compiuto, la breve esistenza di Jan, sottolineando, a beneficio del lettore, che nei Paesi dell’Est europeo, molte furono, in quegli anni, le torce che si accesero, perché la verità tornasse a riempire, luminosa, la vita offesa dal comunismo. Il 25 gennaio 1969, si svolsero i funerali del martire: «in una Praga avvolta dal silenzio e da una pioggia sottile […] sotto un cielo grigio seicentomila persone scendono in strada» (p. 96).

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  I suoi resti mortali non trovarono pace. La sua tomba divenne luogo di culto e di pellegrinaggio, che il regime non poteva tollerare. Il corpo venne riesumato, cremato, e le ceneri consegnate alla madre. Solo nel 1974 furono nuovamente sepolte, ma sulla tomba, perché non fosse riconosciuta, comparvero le sole iniziali del nome, «J. P.». Il senso comune contemporaneo tende a relegare gesti come quelli di Palach, nelle forme del patologico, riducendolo alla categoria della «follia». Ciò è naturale, la società post-moderna non riconoscendo più il Padre, il precedente autorevole, può mai comprendere la quint’essenza dell’Eroe? Jan Palach l’ha pienamente incarnata. Resterà per sempre simbolo del nostro Sessantotto.

@barbadilloit

Di Giovanni Sessa

jeudi, 09 mai 2019

L'éclipse de Jupiter

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L'éclipse de Jupiter
 
Ex: https://echelledejacob.blogspot.com
 
Le président Macron a récemment déclaré à Libération qu’il fallait combattre durement les Gilets Jaunes parce qu’ils allaient « déboucher sur un régime autoritaire ».

Wikipédia donne la définition suivante du régime autoritaire, c’est « le caractère autoritaire, arbitraire, d’un pouvoir politique qui veut imposer à la société et aux citoyens son idéologie et la toute-puissance de l’Etat. Les rapports entre les gouvernants et les citoyens sont fondés sur la force et non sur une légitimité démocratique« .

C’est la description exacte de LREM qui tente par tous les moyens d’imposer à la société française sa conception de l’Europe fédérale, de la mondialisation, du multiculturalisme, de l’islam, de la Justice, de la migration africaine… et de la fiscalité dont la Constitution dit pourtant qu’elle doit être fondée sur le consentement des citoyens. Et cela sur la base électorale d’un quart des Français, ce qui ne donne pas de légitimité démocratique, seulement légale.

Il utilise pour cela les médias écrits et audiovisuels. Il les contrôle financièrement par les subventions copieuses et avantages fiscaux qu’il leur accorde. Et il leur demande de justifier l’usage de la force incarnée par les gros bras de Christophe Castaner dont la spécialité est de jeter de l’huile sur le feu des problèmes sociaux.

Pour les Français Macron est autoritaire et arrogant

Les Français en sont parfaitement conscients si l’on en croit le dernier sondage d’Elabe-BFMTV.

Pour 79 % d’entre eux, Macron est autoritaire, et pour 71 % arrogant.

Polemia et Contrepoints croient voir cet autoritarisme glisser lentement mais sûrement vers le totalitarisme, comme en témoignent les nombreuses lois votées par les godillots de l’Assemblée Nationale. Elle aboutissent toutes à de plus en plus d’interpellations, de mises en examen, de condamnations, de plus en plus d’interdictions et de contrôles de l’expression libre des Français, de plus en plus de prérogatives que s’accorde l’État en jouant à saute-moutons par dessus la représentation nationale et l’expression directe des citoyens.

Le traitement infligé aux Gilets Jaunes, ce caillou que Macron a dans sa chaussure, en est un bon exemple. Après avoir tenté le pourrissement du mouvement par le mépris, la corruption (les 10 milliards de décembre 2018), l’insulte (peste brune, extrême droite, ces gens qui ne sont rien, homophobes, etc.) et le mépris (incapables de s’organiser, de désigner des leaders, de définir clairement leurs revendications…), Macron a tenté la force : un peu plus de deux cents blessés graves dont une centaine resteront handicapés à vie (yeux crevés, enfoncements de la zone temporale, mâchoires pulvérisées…), arrestations nombreuses et fortes amendes en comparaison de la clémence dont bénéficiaient les Antifas et Black blocs de l’extrême gauche que beaucoup de Français considèrent maintenant comme les nervis, les milices du pouvoir macronien.

C’est l’échec. Les Gilets Jaunes sont toujours là, moins nombreux mais de plus en plus énervés, à demander de bonnes réponses à leurs attentes.

Même la minoration systématique du comptage des manifestants sur les ronds-points et dans les manifestations a échoué. Le monopole et la publication des chiffres à la presse a été réservé au ministère de l’Intérieur, ce qui permettait d’affirmer que le nombre de Gilets Jaunes chutait de semaine en semaine alors que les reportages les montraient toujours aussi nombreux ou presque, mais pas forcément là où ils étaient comptés. Comme cette fois où le comptage fut fait aux Champs Elysées alors que le rendez-vous des Gilets Jaunes était au pied du Sacré-Cœur ! Et, vous l’avez remarqué, il y avait 70 à 80 000 représentants de l’ordre mobilisés à chaque « acte » des Gilets Jaunes le samedi, mais dix fois moins pour le défilé des syndicats le 1er mai que Martinez de la CGT a du quitter à cause des violences !

« Macron ne comprend rien » (Yves Thréard, Alain Bauer)

Tout a échoué. Que ce soit le pourrissement, la force, le dénigrement, les fake-news gouvernementales. Cela démontre le caractère très artificiel et superficiel de l’intelligence prêtée à Macron. Nous le dénonçons depuis ses premiers discours en tant que ministre de Hollande, puis de candidat à la présidentielle ; nous sommes aujourd’hui rejoints par des célébrités de l’information et des médias comme Yves Thréard du Figaro ou l’ancien Grand Maître du Grand Orient de France et criminologue Alain Bauer. Ils s’accordent sur le constat que « Macron ne comprend rien » aux Gilets jaunes qu’il méprise et n’arrive pas à faire entrer dans les petites cases politiques et sociales qui lui ont été enseignées à l’ENA.

Il ne comprend pas les Français dont tous, si on les prend individuellement, ne sont peut-être pas très intelligents, mais qui en moyenne et pris globalement sont plus intelligents que les énarques. Comme l’a constaté en 2017 Patrick Gérard, le directeur de l’ENA, en déclarant « les énarques sont en-dessous de la moyenne« .

Les Français ont été jusqu’à 80 % à soutenir les Gilets Jaunes. Quand le gouvernement et la presse ont faussé l’information en affirmant que les violences dans les « actes » du samedi était le résultat de la radicalisation des manifestants en gilet jaune, et que leur nombre baissait à chaque acte, ce soutien à chuté à 60 %. Mais depuis, les Français ont compris que l’origine de la violence se trouve dans les milices d’extrême gauche, black blocs et antifas, que les forces de maintien de l’ordre avaient l’ordre de laisser passer sans les filtrer. « L’approbation » (soutien + sympathie) des Français pour le mouvement des Gilets Jaunes est remontée et serait, selon le dernier sondage, Elabe-BFMTV à 67 %, soit les deux tiers des Français.

Macron « manage » mal ses équipes

Macron ne comprend d’ailleurs rien à bien d’autres domaines à commencer par le management d’une équipe.

Par exemple, il n’a pas compris que les Gilets Jaunes fonctionnent selon un concept mis en œuvre dans les start-up en début de carrière : la « blockchain ». Il consiste à attendre que la ligne directrice qui assurera le succès de l’entreprise soit claire avant de décider qui seront les leaders officiels et quels seront les axes de la politique de l’entreprise. Il est d’ailleurs possible que la blockchain ne donne rien dans le cas des Gilets Jaunes, si aucun leader incontestable et aucune ligne politique n’émerge dans un délai raisonnable. Mais probablement veulent-ils seulement être entendus.

La débâcle du propre cabinet de Macron dont un tiers les éléments sont partis ou ont démissionné est une autre preuve de sa mauvaise gestion du personnel.

Les erreurs en économie se multiplient

Il ne comprend rien non plus à l’économie, mais la faute en revient à l’enseignement archaïque, professé tant à Sciences Po qu’à l’ENA, dont le résultat est l’incapacité des énarques à redresser les finances et l’économie de la France comme l’ont fait la quasi totalité des autres pays européens.

Macron n’a pas compris non plus que la solution n’est pas de fermer l’ENA. La France a besoin d’une élite administrative. Il suffit d’y moderniser l’enseignement de l’économie et des finances et d’y réintroduire des matières qui en ont été supprimées ou réduites à la portion congrue depuis une vingtaine d’années sous prétexte de progressisme, comme l’histoire, sans laquelle il est impossible de prendre les bonnes décisions faute de pouvoir s’appuyer sur l’expérience du passé.
D’où les erreurs d’appréciation et de jugement que la haute administration aux mains des énarques commet sans cesse. « On a besoin de gens qui, plus tard dans les cabinets, fassent des propositions aux ministres, soient créatifs, imaginatifs. » dit Patrick Gérard cité par l’Obs.

Ensuite, de diviser par deux le nombre des candidats admis car il y a trop d’énarques, et de leur interdire l’accès aux carrières politiques tant qu’ils n’auront pas démissionné de la fonction publique. Cela permettra à la France de remonter dans le classement international de la corruption administrative et politique où elle n’est qu’au 21ème rang, ce qui, sans être dramatique, n’est pas brillant !

Une communication d’amateurs

Et Macron, malgré tout ce que l’on raconte, n’est pas bon en communication non plus et ne sait pas choisir ses communicants, sinon nous n’aurions pas des couacs comme le dernier est très récent : en pleine conférence de presse, le Président de la république l’a affirmé, il n’y aura plus de fermeture d’hôpital. Patatras, deux jours plus tard on apprend que Saint-Martin-Vésubie (Alpes-Maritimes) va voir son hôpital fermer par manque d’infirmiers et de médecins.

Autre erreur, alors que Le Figaro publiait une tribune signée par 1170 personnalités du monde entier demandant que Notre-Dame soit réparée à l’identique dans le style gothique en prenant le temps nécessaire, le gouvernement faisait voter la loi disant qu’il va légiférer par ordonnances pour aller plus vite et « moderniser » la cathédrale.

Et enfin cette touche qui ne manque pas d’humour : Youtube annonce que les amateurs de vidéos verront bientôt s’afficher un bandeau sous les vidéos des médias publics ou gouvernementaux. Ce « label de transparence », précisera d’où vient le financement de l’éditeur et renverra vers sa page Wikipédia. Ceci pour donner aux internautes la possibilité de « mieux comprendre les sources des actualités qu’ils regardent ».

Au gouvernement, cette mesure suscite l’embarras : On va « assimiler les médias du service public à des médias d’Etat dans des régimes autoritaires ». Tiens donc !?

Pour un autre dirigeant de France Télévisions, cela risque « d’induire en erreur » le public, pour qui « la subtilité institutionnelle du service public à la française n’est pas forcément très claire ». Toujours cette même idée qu’au gouvernement ils sont trop intelligents et trop subtils pour que les Français comprennent pourquoi ils auraient besoin d’une propagande d’Etat dissimulée !

Ne riez pas, c’est vous qui payez !

L’image présidentielle de Macron était déjà ternie par des erreurs comme la Fête de la Musique de l’an dernier ou des frotti-frotta avec des jeunes délinquants antillais qui n’ont rapporté aucune voix à LREM. Maintenant, les Français doutent aussi de ses compétences intellectuelles et de sa capacité à redresser la France, réduire la dépense publique et les impôts, réformer la fonction publique quand, de surcroît, ils voient l’échec de sa politique européenne. Pratiquement aucun pays d’Europe n’en veut, pas même l’Allemagne comme le lui a dit crûment Annegret Kramp-Kattenbauer qui succède à Angela Merkel à la tête de la CDU allemande.

L’Imprécateur
Source

Macron rejette les critiques par l’ONU des violences policières contre les «gilets jaunes»

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Macron rejette les critiques par l’ONU des violences policières contre les «gilets jaunes»

 
 
Auteur : Anthony Torres
Ex: http://www.zejournal.mobi

Le gouvernement Macron a rejeté les déclarations de l’ONU qui condamnent sans ambiguïté les violences policières commises contre les «gilets jaunes». De la part de l’ONU, une organisation à la botte des puissances impérialistes qui a donné son aval à des guerres de l’OTAN comme celle de Libye en 2011, ces déclarations constituent un aveu que la répression brutale menée par Macron choque des millions de gens dans le monde.

Selon le ministère de l’Intérieur, il y a eu plus de 1900 blessés parmi les «gilets jaunes» dont 94 blessés graves, victimes des tirs de balles de défense ou des grenades de la police. La famille de Zinab Redouane, une octogénaire tuée en décembre à Marseille par un tir de grenade lacrymogène en plein visage alors qu’elle fermait ses volets au 4e étage, porte plainte. L’agression violente par la police de personnes âgées témoigne de la violence généralisée des forces de l’ordre, qui ont éborgné ou arraché des mains à des dizaines de manifestants.

Des chiffres publiés par Le Monde du 1er février font état de 9 228 tirs de lanceurs de balles de défense (LBD) depuis le début du mouvement et de 116 enquêtes judiciaires confiées à la police des polices dont 10 pour des blessures à l’œil irréversibles. A cela, il faut ajouter depuis le 17 janvier 71 blessures dues à des tirs de LDB, nombre d’entre elles «irréversibles», comme des mâchoires détruites, des mains et des pieds arrachés.

Il faut aussi ajouter les dix «gilets jaunes» morts sur les blocages de routes ou de ronds points. Benoît, 29 ans, gravement blessé à la tempe par un tir de LBD-40 à Toulouse le 1er décembre 2018, est, lui, dans le coma. Geneviève Legay, une septuagénaire de Nice est tombée dans le coma, gravement blessée à la tête après avoir été violemment heurtée par un policier.

Dans un discours prononcé en mars devant le Conseil des droits de l’homme à Genève, Michelle Bachelet a demandé «urgemment une enquête approfondie sur tous les cas rapportés d’usage excessif de la force».

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La Haut-Commissaire aux droits de l’homme de l’ONU a également constaté que «les gilets Jaunes manifestent contre ce qu’ils considèrent comme leur exclusion des droits économiques et de leur participation aux affaires publiques […] Ils réclament un dialogue respectueux et de vraies réformes». Bachelet a cité la France parmi les pays ou les manifestants « sont accueillis par un usage violent et excessif de la force, par des détentions arbitraires, des tortures et même selon certaines informations des exécutions extrajudiciaires».

Le porte-parole du gouvernement, Benjamin Griveaux, a réagi à ces déclarations de l’ONU en leur opposant une fin de non recevoir totale. Il s’est dit « étonné» de voir la France citée «sur une liste entre le Venezuela et Haïti … où il y a eu des morts».

Griveaux a prétendu que «le niveau d’inclusion économique et démocratique en France est, selon les standards de l’ONU, un des plus élevés au monde».

Ainsi, Macron compte continuer la répression sanglante des «gilets jaunes», au mépris de l’ONU, des droits démocratiques et de l’opinion de millions de travailleurs en France et dans le monde. Cette réaction insouciante de Griveaux à la dénonciation par l’ONU de sa destruction des normes démocratiques de la société bourgeoise et des violences policières montre l’hypocrisie répugnante du gouvernement français.

En 2011, les puissances impérialistes faisant partie du Conseil de Sécurité, dont la France, et leurs alliés ont dénoncé les menaces de répression de leurs populations par les régimes libyen et syrien. Elles ont lancé des guerres en déclarant que le simple risque que ces régimes pourraient tuer ou blesser leurs citoyens était si intolérable qu’il fallait bombarder ou envahir ces pays. Ces guerres dans l’ancienne sphère d’influence de l’impérialisme français ont fait des centaines de milliers de victimes et des dizaines de millions de réfugiés.

Mais quand c’est l’État français qui tue, estropie, défigure et terrorise ses citoyens qui manifestent et sont dans leur écrasante majorité pacifiques, et que l’ONU dénonce ces actions, Macron traite cela comme si cela n’avait aucune importance. Il publie ensuite divers documents pour insister que les armes les plus sanglantes sont indispensables pour écraser l’opposition de centaines de milliers de travailleurs à sa politique.

Dans un argumentaire de 21 pages, les autorités françaises justifient leur recours aux grenades (lacrymogènes et de désencerclement) et aux LBD en traitant les manifestations des «gilets jaunes» d’émeutes violentes: «A aucun moment le LBD n’est utilisé à l’encontre de manifestants, même véhéments, si ces derniers ne commettent pas de violences physiques, notamment dirigées contre les forces de l’ordre ou de graves dégradations. Mais alors il ne s’agit plus de manifestants, mais de participants à un attroupement violent et illégal.»

Sur le LBD, si le gouvernement admet que «des cas de mésusages sont toujours malheureusement possibles, (…) ils ne sauraient remettre en cause l’utilisation régulière de cette arme en cas de nécessité.» Il nie par ailleurs toute «pratique intimidante» dans son recours massif à des contrôles d’identité et des interpellations aux alentours des lieux de rassemblement.

Les réactions de l’État français sont des évasions cyniques. Face à l’hostilité des travailleurs et des jeunes dirigée contre la montée de l’inégalité économique en France et la politique d’austérité et pro guerre du gouvernement Macron, celui-ci s’appuie sur l’État policier mis en place par le gouvernement PS et, après avoir salué le «soldat Pétain», sur une politique fascisante.

L’État français compte maintenir les politiques d’austérité et de militarisme qui dominent à travers l’Europe capitaliste en terrorisant et écrasant l’opposition des travailleurs, et en produisant une montée historique de la répression. La mobilisation de blindés, puis des militaires de la mission anti-terroriste Opération Sentinelle contre les «gilets jaunes», témoigne d’un degré de violence officielle contre les manifestants qu’on n’a pas vu en France depuis les luttes ouvrières qui ont suivi la Libération de la France du régime de Vichy.

Chaque samedi, des dizaines de milliers de policiers sont mobilisés avec carte blanche pour réprimer physiquement les «gilets jaunes». Rien que pour l’acte XXIII, plus de 60.000 policiers ont été mobilisés à travers le pays, utilisant des canons à eau, des gaz lacrymogènes et des balles en caoutchouc. Le ministère de l’Intérieur a signalé qu’il avait arrêté plus de 200 personnes et en avait fouillé 17.000 alors qu’elles tentaient d’entrer dans la capitale.

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La police cible de plus en plus des journalistes qui font des reportages sur la répression policière. Parmi ceux-ci, Gaspard Glanz, journaliste indépendant et fondateur de Taranis News. Un autre journaliste, Clément Lanot, a publié sur Twitter une vidéo montrant des policiers qui le visaient et tiraient sur lui avec un lanceur de balles de défense. Une troisième journaliste aurait également été grièvement blessée à la main par l’explosion d’une grenade de désencerclement. Une vidéo sur les réseaux sociaux montre son évacuation par d’autres manifestants.


- Source : WSWS

La guerre des réseaux de mini ou micro-satellites

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La guerre des réseaux de mini ou micro-satellites

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Cette guerre qui se préparait dans une relative discrétion vient d'être annoncée publiquement. Certains se demandent quel est le type de monde qui est en train de se mettre en place.

Le fondateur d'Amazon, Jeff Bezos, vient d'annoncer le Project Kuiper. Il s'agira de mettre en orbite 3.200 satellites qui fourniront dans le monde entier les services d'un Internet à haute vitesse. Le milliardaire Elon Musk, de Space X, n'est pas resté sans réaction. Il vient d'être autorisé à placer à diverses altitudes une constellation de 12.000 satellites. La société Oneweb, de son côté devrait placer en orbite à partir de la Floride 600 satellites qui devraient être opérationnels en 2021.

Ces divers projets, et d'autres vraisemblables mais non encore finalisés, ont été discutés à la Satellite 2019 International Conference qui vient de se tenir des 6 à 9 mai 2019 à Washington. Mais plutôt que de demander si l'espace serait assez grand pour accommoder autant de satellites et plus en profondeur à quoi ces réseaux de satellites devraient servir exactement, les conférenciers se sont demandés si l'ultra-riche Jeff Bezos et l'infrastructure mondiale terrestre dont il dispose avec Amazon n'allaient pas éliminer toute concurrence, ce qui poserait évidemment un défi à la démocratie (dite de plus en plus démocrature) dont les Etats-Unis se vantent d'être les meilleurs représentants dans le monde.

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Jeff Bezos et Elon Musk se vantent avec ces réseaux d'apporter de l'Internet à haut débit, non pas dans les grandes villes qui en disposent déjà, mais dans les régions pauvres du monde, notamment en Afrique. Pour les 2,5 milliards d'Africains, bientôt 4 milliards à la fin du siècle, cette ressource est encore inaccessible. Ces réseaux desserviront aussi, sans possibilité de brouillage, la Russie et la Chine qui ont encore beaucoup de mal à fournir de l'Internet à leurs citoyens. Comment Moscou et Pékin réagiront-ils à ce qu'ils considéreront inévitablement comme une nouvelle forme de guerre ?

En Europe même, il conviendrait de se poser la question. L'Internet y est déjà saturé par les GAFAs qui y diffusent une propagande pro-américaine incessante, commerciale et politique. Avec les nouveaux réseaux de mini-satellites, tous américains, l'Europe sera plus que jamais une colonie américaine. 

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Writing Europeans Out of Their Own History

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Writing Europeans Out of Their Own History

The indigenous European people are being written out of their own history, folklore and mythology by those who wish to re-write history and strip Europeans of their traditions and culture in order to propagate the lie that Europe was always multicultural and that people who did not originate in Europe have played pivotal roles in European history, and crucially that non-Europeans have a right to stake their claim to European soil.
 
You can now donate to my work via bitcoin: 326uEc4QyovcgT5S6mzMK8bh3SyukqPTV1
 
My book, The Fall of Western Man is now available. It is available as a FREE eBook and also in hardback and paperback editions.
 
Paperback Edition: http://amzn.eu/9LaS7HN
 
 
PLEASE NOTE: If you wish to debate with me in the comments about anything I have said, I welcome that. However please listen to the complete podcast and ensure you argue with the points I have made. Arguments that simply consist of nonsense such as "what gives you the right to judge" or "I'm a [insert religious affiliation] and you should be ashamed of yourself" or other such vacuous non-arguments will simply be ridiculed.

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mercredi, 08 mai 2019

Un futur Iran bonapartiste ?

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Un futur Iran bonapartiste ?

La question de l’avenir immédiat de l’Iran a probablement des implications plus profondes que toute autre crise contemporaine pour la survie à long terme de l’héritage aryen.

Par Jason Reza Jorjani

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Le 19 avril 2017, le Secrétaire d’Etat des USA Rex Tillerson a tenu une conférence de presse dans laquelle il a annoncé que l’Administration Trump allait entreprendre un « examen complet » de sa politique iranienne. Certains d’entre nous savent, même avant l’investiture [de Trump], qu’un changement de régime était envisagé pour l’Iran – la seule question étant : quelle sorte de changement de régime ? La fausse nouvelle de l’attaque au gaz d’Assad et les frappes de représailles en Syrie ne furent pas du tout rassurantes. Un mois plus tard, le 19 mai, la République Islamique a tenu sa douzième élection présidentielle. Une chose est claire : celui qui est élu pourrait être le dernier président de la théocratie chiite.

Il y a un plan pour détruire l’Iran, un plan élaboré avec l’Arabie Saoudite par ceux dans le complexe militaro-industriel américain qui considèrent les Saoudites comme un allié des Etats-Unis. Hillary Clinton, qui a des liens étroits avec les financiers saoudites, voulait certainement mettre en œuvre ce plan. A en juger par les références répétées à l’Arabie Saoudite dans les déclarations sur l’Iran faites par le Secrétaire à la Défense, le général « chien fou » Mattis, et le Secrétaire d’Etat Tillerson, il semble que ce plan pourrait commencer à être appliqué, même s’il semble qu’il y avait des plans substantiellement différents pour l’Iran à l’époque où le général Flynn et Steve Bannon étaient les principaux membres de l’équipe Trump. La réussite ou l’échec de ce plan saoudite aura un profond impact sur l’avenir des Occidentaux et d’autres dans le plus large monde indo-européen. La question de l’avenir immédiat de l’Iran a probablement des implications plus profondes que toute autre crise contemporaine pour la survie à long terme de l’héritage aryen.

Entouré par une douzaine d’Etats artificiels qui n’existaient pas avant les machinations coloniales européennes des XVIIIe et XIXe siècles, l’Iran est la seule vraie nation entre la Chine et l’Inde en Orient et la sphère de la civilisation européenne déclinante à l’Ouest et au Nord.  Abréviation d’Irânshahr ou « Imperium aryen », l’Iran ne fut jamais désigné par la majorité à 55% perse du pays comme l’« Empire perse ». Les Grecs antiques forgèrent ce terme et il s’implanta en Occident. Il est dangereusement trompeur parce que si les Perses ont été le groupe ethno-linguistique le plus dominant culturellement à l’intérieur de la Civilisation Iranienne (jouant un rôle comparable aux Hans dans la Civilisation Chinoise), les Kurdes, les Ossètes, les Baloutches et d’autres sont ethniquement et linguistiquement iraniens même s’ils ne parlent pas la langue perse (appelée pârsi ou, erronément, fârsi en Iran de l’Ouest et dari ou tâjiki en Asie Centrale iranienne).

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La combinaison d’« Iran » et de « Perse » a, depuis un bon nombre d’années, été utilisée comme partie d’un complot pour éroder encore plus l’intégrité territoriale de l’Iran en le réduisant à un Etat-croupion perse. Si les conspirateurs globalistes sans racines essayant de présenter l’« Iran » comme une construction conceptuelle de l’impérialisme perse sont certainement motivés par des considérations économiques et stratégiques, leur but ultime est l’effacement de l’idée même d’Iran ou d’Irânshahr. Ils voient le renouveau de cette idée comme peut-être la plus grande menace singulière pour leur agenda global, et depuis l’échec total du Mouvement de Réforme Islamique de 1997-2009 c’est justement ce renouveau qui est au cœur d’une révolution culturelle ultranationaliste connue sous le nom de Renaissance Iranienne.

Ce mouvement s’efforce de parvenir à une renaissance de la vision-du-monde préislamique de la Civilisation Iranienne, voyant le dénommé « âge d’or » de l’islam comme une dernière lueur ou un avortement de ce qui aurait pu être si l’Iran avait continué sa trajectoire de développement en tant que nation aryenne. Après tout, l’immense majorité des scientifiques et des ingénieurs qui furent forcés à écrire en arabe sous le Califat étaient des Iraniens ethniques dont la langue maternelle était le perse. A tous les égards, de la science à la technologie, à la littérature, à la musique, à l’art et à l’architecture, la soi-disant « Civilisation Islamique » agit comme un parasite s’appropriant une Civilisation Iranienne vraiment glorieuse qui était déjà âgée de 2000 ans avant que l’invasion arabo-musulmane impose l’islam et que les Mongols génocidaires la cimentent (en écrasant les insurrections perses en Azerbaïdjan, sur la côte caspienne, et au Khorasan).

La Renaissance Iranienne est basée sur le renouveau de principes et d’idéaux anciens, dont beaucoup sont partagés par l’Iran avec l’Europe à travers leur ascendance caucasienne commune et par des échanges interculturels intensifs. Cela inclut la pénétration profonde des Alains, des Scythes et des Sarmates iraniens dans le continent européen, et leur intégration finale avec les Goths dans la « Goth-Alanie » (Catalogne) et les Celtes dans « Erin » (un mot apparenté à « Iran »). Leur introduction de la culture de la Chevalerie (Javanmardi) et du mysticisme du Graal en Europe laissa sur l’ethos « faustien » de l’Occident un impact aussi profond que les idéaux « prométhéens » (en réalité, zoroastriens) du culte de la Sagesse et de l’industriosité innovante, qui furent introduits en Grèce par des siècles de colonisation perse.

La barrière civilisationnelle entre l’Iran et l’Europe a été très poreuse – des deux cotés. Après l’hellénisation de l’Iran durant la période d’Alexandre, l’Europe fut presque persisée par l’adoption du mithraïsme comme religion d’Etat à Rome. En partie comme une conséquence des machinations de la dynastie parthe et des opérations secrètes de sa flotte en Méditerranée, c’était imminent à l’époque où Constantin institutionnalisa le christianisme – probablement comme un rempart contre l’Iran.

Il ne faut donc pas être surpris si beaucoup des éléments essentiels de l’ethos de la Renaissance Iranienne semblent étonnamment européens : le respect pour la Sagesse et la recherche de la connaissance avant tout ; et donc aussi l’accent mis sur l’innovation industrieuse conduisant à un embellissement et une perfection utopiques de ce monde ; la culture de la liberté d’esprit chevaleresque, de l’humanitarisme charitable, et de la tolérance et de la largeur d’esprit ; un ordre politique qui est basé sur le droit naturel, où l’esclavage est considéré comme injuste et où les femmes fortes sont grandement respectées.

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Mais il faut se souvenir que dans la mesure où l’Irânshahr s’étendait loin vers l’Est en Asie, ces valeurs étaient jadis aussi caractéristiques de la culture aryenne orientale – en particulier du bouddhisme du Mahayana, qui fut créé par les Kouchites iraniens. L’Iran colonisa l’Inde du Nord cinq fois et toute la Route de la Soie jusqu’à ce qui est maintenant la Chine du nord-ouest était peuplée par des Iraniens à l’apparence caucasienne, jusqu’aux conquêtes turques et mongoles aux XIe et XIIe siècles.

Alors que la Renaissance Iranienne veut « rendre l’Iran à nouveau grand » en faisant revivre cet héritage indo-européen, et même en reconstituant territorialement ce que les gens de notre mouvement appellent le « Grand Iran » (Irâné Bozorg), les globalistes sans racines, les sheikhs arabes du pétrole, et leurs collaborateurs islamistes en Turquie et au Pakistan veulent complètement effacer l’Iran de la carte. Evidemment ce n’est pas du goût des centaines de milliers de nationalistes iraniens qui se sont rassemblés devant le tombeau de Cyrus le Grand le 29 octobre 2016 pour chanter le slogan : « Nous sommes des Aryens, nous n’adorons pas les Arabes ! ». Le slogan est aussi clairement anti-islamique que possible dans les limites de la loi de la République Islamique. Le prophète Mahomet et l’Imam Ali étaient bien sûr des Arabes, donc le sens est très clair. On voit aussi clairement qui est celui que ces jeunes gens considèrent comme leur vrai messager, puisque l’autre slogan le plus chanté était : « Notre Cyrus aryen, tu es notre honneur ! ».

Depuis le soulèvement brutalement écrasé de 2009, presque tous les Iraniens ont rejeté la République Islamique. Beaucoup d’entre eux, spécialement les jeunes, sont convaincus que l’islam lui-même est le problème. Ils se sont clandestinement convertis au néo-zoroastrisme qui est indistinguable de l’ultranationalisme iranien. L’image de Zarathoustra dans un disque ailé, symbolisant la perfection évolutionnaire de l’âme, connue sous le nom de « Farvahar », est partout : sur les pendentifs, les bagues, et même les tatouages (en dépit du fait que les tatouages, qui étaient omniprésents parmi les Scythes, étaient bannis par le zoroastrisme orthodoxe). Maintenant même des éléments-clés dans le régime, spécialement les Gardiens de la Révolution, lisent des traités sur « la pensée politique de l’Imperium Aryen » qui sont extrêmement critiques vis-à-vis de l’islam tout en glorifiant l’ancien Iran.

Pendant ce temps, la soi-disant « opposition » en exil a été presque entièrement corrompue et cooptée par ceux qui souhaitent morceler le peu qui reste de l’Iran. D’un coté vous avez les gauchistes radicaux qui livrèrent en fait l’Iran aux Ayatollahs en 1979 avant que Khomeiny ne se retourne contre eux, forçant ceux qui échappèrent à l’exécution à partir en exil. D’un autre coté vous avez les partisans aveuglément loyaux du Prince héritier Reza Pahlavi, dont la vision – ou le manque de vision – s’aligne largement sur celle des gauchistes, du moins dans la mesure où elle cadre avec  les buts des globalistes et des islamistes.

Les gens de l’opposition marxiste et maoïste à la République Islamique promeuvent le séparatisme ethnique, transplantant un discours anticolonialiste des « luttes de libération des peuples » dans un contexte iranien où il n’a rien à faire. Les Perses n’ont jamais méprisé personne. Nous fûmes des libérateurs humanitaires. Nous fûmes plutôt trop humanitaires et trop libéraux.

Les gauchistes des « peuples de l’Iran », comme si les Kurdes et les Baloutches n’étaient pas ethniquement iraniens et comme si un dialecte turcique n’avait pas été imposé à la province d’Azerbaïdjan, la source caucasienne de l’Iran, par les méthodes génocidaires de conquérants asiatiques à demi-sauvages. Tout en prétendant être féministes et partisans de la révolution prolétarienne, ces gauchistes acceptent d’être financés par l’Arabie Saoudite, qui veut les aider à séparer la région riche en pétrole et partiellement arabisée du Khuzistan de l’Iran et à la transformer en nation d’Al-Ahwaz, avec une façade côtière considérable sur ce qu’ils appellent déjà le « Golfe Arabe ». Le Kurdistan, l’Azerbaïdjan, Al-Ahwaz, le Baloutchistan : ces micro-Etats, ostensiblement nés des « mouvements de libération » gauchistes, seraient faciles à contrôler pour les capitalistes globaux sans racines. Dans au moins deux cas, Al-Ahwaz et le « Baloutchistan Libre », ils seraient aussi un terrain de développement pour une plus grande diffusion du terrorisme islamiste. Finalement, ils laisseraient les Perses dépourvus de presque toutes les ressources en pétrole et en gaz naturel de l’Iran, et contiendraient la marée montante de l’Identitarisme Aryen dans un Etat-croupion de « Perse ».

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Le mieux armé et le mieux organisé de ces groupes gauchistes est celui des Mojaheddin-e-Khalq (MEK), qui est aussi connu sous les noms de Moudjahidines du Peuple de l’Iran (PMOI) et de Conseil National de la Résistance Iranienne (NCRI). Leurs guérillas armées mirent en fait Khomeiny et le pouvoir religieux au pouvoir avant d’être eux-mêmes dénoncés comme hérétiques. Leur réponse fut de prêter allégeance à Saddam Hussein et de mettre à sa disposition quelques unités militaires qui firent défection pendant la guerre Iran-Irak. Cela signifie qu’ils avaient de facto accepté l’occupation du Khuzistan par l’Irak. Plus tard, lorsqu’ils furent obligés de se repositionner dans le Kurdistan irakien, ils promirent aux Kurdes de soutenir la sécession kurde de l’Iran. Toute une foule de politiciens importants des Etats-Unis et de l’Union Européenne fut soudoyée pour apporter leur appui au leader du groupe, Maryam Radjavi, incluant John McCain, Newt Gingrich, Rudy Giuliani, John Bolton, et les NeoCons.

La majorité des Iraniens voit le MEK comme des traîtres, et le fait qu’ils sont essentiellement une secte dont les membres – ou les captifs – sont aussi coupés du monde extérieur que les Nord-Coréens n’arrange rien. Si cela signifie qu’ils ne seraient jamais capables de gouverner l’Iran efficacement, le MEK pourrait être utilisé comme un agent catalytique de déstabilisation durant une guerre contre la République Islamique.

C’est ici qu’intervient le Prince héritier Reza Pahlavi, avec son groupe de l’« opposition » iranienne en exil. La cabale globaliste et ses alliés arabes dans le Golfe Persique (Arabie Saoudite, Qatar, Emirats Arabes Unis) veulent créer un problème pour lequel il serait la solution. Il est dans leur poche.

Lors d’une réunion du CFR à Dallas au début de 2016, que j’ai révélée dans une interview bien connue avec le journaliste indépendant résidant en Suède, Omid Dana de Roodast (« le  Alex Jones perse »), Reza Pahlavi ironisa sur la soi-disant « rhétorique nationaliste exagérée » concernant la conquête arabo-musulmane génocidaire de l’Iran. Il parla de cette tragédie historique incomparable comme d’une chose qui, si elle a vraiment existé, est sans importance parce qu’elle a eu lieu il y a longtemps. En fait, il la voit comme un obstacle pour de bonnes relations de voisinage avec les Etats arabes du « Golfe ». Oh oui, dans des interviews avec des médias arabes il a parlé du Golfe éternellement Persique comme du « Golfe » tout court pour ne pas contrarier ses riches bienfaiteurs arabes. Reza Pahlavi a aussi permis à des représentants de ses organes de presse officiels de faire la même chose à plusieurs reprises. Il a même utilisé le terme dans un contexte qui implique que l’Iran pourrait abandonner plusieurs îles dans « le Golfe » avec l’idée d’améliorer les relations de voisinage (comme si le renoncement de son père à Bahreïn n’était pas suffisant !).

En fait, il a suggéré que l’Arabie Saoudite et d’autres gouvernements arabes inhumains devraient investir dans l’économie de l’Iran dans une mesure telle que l’Iran serait si dépendant d’eux que faire la guerre à ces nations deviendrait impossible. De plus, et de manière très embarrassante, le Prince héritier affirma que son futur Iran ne devrait pas avoir d’armes nucléaires parce qu’il aurait peur de passer une nuit dans son palais, puisque si l’Iran devait acquérir des armes atomiques alors d’autres nations rivales de la région auraient le droit de faire la même chose et pointeraient leurs missiles sur l’Iran.

Le pire de tout dans cette rhétorique est le plan très concret du Prince de soumettre la question d’une fédéralisation de l’Iran à un vote populaire ou à un référendum à l’échelle nationale. Ce n’est pas simplement une proposition. Il rencontre des individus et des groupes qui promeuvent le séparatisme et la désintégration territoriale de l’Iran, la première étape étant « l’éducation dans la langue maternelle » (autre que le perse) et l’autonomie régionale dans le contexte d’un système fédéral. En même temps, il a dénoncé comme « fascistes » les patriotes iraniens qui, au risque d’être emprisonnés ou tués, se sont rassemblés devant le tombeau de Cyrus le Grand le 29 octobre de l’année dernière et qui ont chanté le slogan « Nous sommes des Aryens, nous n’adorons pas les Arabes ! ». En dépit du fait que certains des mêmes protestataires chantèrent aussi des slogans félicitant le Prince héritier pour son anniversaire, c’est une erreur qu’ils ne referont jamais plus. Il fit même des remarques qui ridiculisaient de manière suggestive les partisans de la Tradition impériale perse.

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Reza Pahlavi saisit toutes les occasions pour faire savoir que ses vrais idéaux sont la « démocratie libérale » et les « droits humains universels », des concepts occidentaux qu’il adopte imprudemment sans la moindre compréhension des problèmes fondamentaux qu’ils posent lorsqu’on les compare à notre philosophie politique iranienne aristocratique – qui influença des théories politiques occidentales essentielles comme celles de Platon, d’Aristote et de Nietzsche, et qui est beaucoup plus en accord avec celles-ci.

Si son acceptation de la démocratie et des droits de l’homme va jusqu’à un vote populaire sur une fédéralisation qui conduit à l’autonomie régionale et finalement à la sécession de nombreuses provinces, elle ne protège apparemment pas le criticisme envers l’islam. Et sous l’influence de ses manipulateurs occidentaux néolibéraux et de la police PC gauchiste de l’Occident, et totalement en désaccord avec le sentiment populaire parmi la jeunesse iranienne, il a affirmé que si l’islam devait être insulté ou que s’il devait y avoir de l’« islamophobie » dans le futur Iran, alors il vaudrait mieux que la République Islamique reste au pouvoir. Il a le toupet de dire cela tout en dénonçant ses critiques comme des agents de la République Islamique. Quand des dizaines d’éminents monarchistes patriotes signèrent un « Dernier Avertissement » (Akharin Hoshdâr) adressé à lui en juillet 2016, certains d’entre eux étant d’anciens proches conseillers de son père, il les accusa tous d’être des agents de la République Islamique qui falsifiaient ses déclarations et qui fabriquaient des preuves (ce qui était justement une affirmation clairement fausse et calomnieuse).

Nous n’étions pas des agents de la République Islamique, et nous ne serons jamais les complices d’une théocratie chiite sous sa présente forme. Mais étant donné la crise à laquelle nous faisons face aujourd’hui, nous devons envisager une alternative radicale pour les traîtres sécessionnistes de l’opposition gauchiste basée à Paris et les Shahs du Coucher de Soleil de Los Angeles qui seront tous trop heureux de faire régner leur Prince de Perse sur l’Etat-croupion qui restera de l’Iran après le « changement de régime ». Je propose un grand plan, une anticipation bonapartiste du règne de la terreur qui approche.

Ceux qui ont suivi mes écrits et mes interviews savent qu’il n’y a pas de plus sévère critique de l’islam, sous toutes ses formes, que votre serviteur. Je n’ai pas encore publié mes critiques vraiment sérieuses et rigoureuses de l’islam, incluant en particulier ma déconstruction de la doctrine chiite. Rien de ce que je vais proposer ne change le fait que j’ai la ferme intention de le faire dans les toutes prochaines années.

Cependant, nous entrons dans ce que Carl Schmitt appelait un « état d’urgence ». Dans cette situation exceptionnelle, où nous nous trouvons face à une menace existentielle pour l’Iran, il est important de faire la différence entre questions ontologiques ou épistémologiques et le genre de distinction ami/ennemi qui est définitive pour la pensée politique au sens approprié et fondamental. Les nationalistes iraniens ont des amis dans le système de la République Islamique, et le Seigneur sait que nous avons une quantité d’ennemis en-dehors de celui-ci.

Le jeune Gardien de la Révolution (Pasdaran) de Meshed qui récite Hafez en patrouillant le long de la frontière irakienne et attendant d’être tué par des séparatistes kurdes, mais dont la mère est kurde, et qui accompagne son père perse pour aller prier devant l’autel de l’Imam Reza en portant un Farvahar autour du cou n’est pas seulement un ami, il est le frère de tout vrai patriote iranien. Ce ne sont pas les Pasdarans qui ont tué et massacré de jeunes Iraniens pour mater la révolte de 2009, c’étaient des voyous paramilitaires dévoués au Guide Suprême Ali Khamenei – qui est maintenant sur son lit de mort.

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Nous devons penser à l’avenir. Le cœur et l’âme de l’enseignement de Zarathoustra était son futurisme, son insistance sur l’innovation évolutionnaire. S’il était vivant aujourd’hui, il ne serait certainement pas zoroastrien. Franchement, même s’il avait été vivant durant l’Empire sassanide, il n’aurait pas été un zoroastrien au sens orthodoxe.

La Renaissance Iranienne considère la période sassanide comme le zénith de l’histoire de l’Iran, « l’apogée avant le déclin spectaculaire ». Mais les deux plus grands hérétiques, du point de vue de l’orthodoxie zoroastrienne, avaient le soutien de l’Etat sassanide. Chapour 1er était le patron de Mani, qui créa une religion mondiale syncrétique dans laquelle Gautama Bouddha et le Christ gnostique étaient vus comme des Shaoshyants (des Sauveurs zoroastriens) et des successeurs légitimes de Zarathoustra. Le manichéisme se répandit jusque dans le sud de la France en Occident, où il suscita la Sainte Inquisition en réaction contre lui, et jusqu’en Chine en Orient, où Mani était appelé « le Bouddha de Lumière » et où son enseignement influença le développement du bouddhisme mahayana. L’ésotériste libertin Mazdak, dont la révolution socialiste était d’après moi plus nationale-bolchevique que communiste, reçut le plein appui de l’empereur perse sassanide Kavad 1er. Même Khosrô Anushiravan, qui écrasa le mouvement mazdakien, n’était pas du tout un zoroastrien orthodoxe. C’était un néo-platonicien, qui invita les survivants de l’Académie à trouver refuge dans les bibliothèques et les laboratoires iraniens comme Gondechapour après la fermeture des dernières universités de l’Europe sur l’ordre de Justinien.

De plus, l’évolution de la tradition spirituelle iranienne fondée par Zarathoustra ne prit pas fin avec la Conquête islamique. La Renaissance Iranienne condamne Mazdak sans équivoque, et pourtant Babak Khorrdamdin est considéré comme un héros de la résistance nationaliste contre le Califat arabe. Mais les partisans de Khorrdamdin en Azerbaïdjan étaient des mazdakiens ! Une claire ligne peut être tracée depuis le mouvement mazdakien, à travers les Khorrdamdin, jusqu’aux groupes chiites ésotériques tels que les Ismaéliens nizarites ou Ordre des « Assassins » comme ils sont généralement connus en Occident. Combattant contre le Califat et les Croisés simultanément, il n’y eut jamais de plus grand champion de la liberté et de l’indépendance iraniennes que Hassan Sabbah. Et sa variété d’ésotérisme chiite ne déclina pas non plus avec la secte ismaélienne.

sohrawardi.jpgIl y a encore en Iran aujourd’hui des religieux supposément chiites qui doivent plus à Sohrawardi, à travers Mullah Sadra, qu’à l’enseignement réel de l’Imam Ali. A l’époque du Sixième Imam, Jaafar al-Sadiq, la foi chiite fut cooptée par les partisans iraniens luttant contre me Califat sunnite. Le genre de doctrine chiite que certains des collègues de l’Ayatollah Khomeiny tentèrent d’imposer à l’Iran en 1979 représenta une reconstruction radicale du premier chiisme arabe, pas le genre d’ésotérisme chiite qui donna naissance à la dynastie safavide. Cette dernière permit à l’Iran de resurgir en tant qu’Etat politique distinct séparé et opposé au Califat Ottoman sunnite et à un Empire Moghol qui était aussi tombé dans le fondamentalisme islamique après que la littérature et la philosophie persisées d’Akbar se soient révélées être un rempart insuffisant contre celui-ci. Certains de ces chiites persisés sont présents aux plus hauts niveaux dans la structure de pouvoir de la République Islamique. Ils doivent être accueillis dans la communauté du nationalisme iranien, et même dans la communauté de la Renaissance Iranienne.

La Renaissance italienne eut recours à la Rome païenne pour accomplir une revitalisation civilisationnelle, mais elle n’abolit pas le christianisme. Benito Mussolini non plus, lorsqu’il adopta comme but explicite une seconde Renaissance italienne et un renouveau de l’Empire romain. Au contraire, le Duce recruta le catholicisme romain comme allié de confiance dans son vaillant combat contre le capitalisme sans racines, parce qu’il savait que les catholiques romains étaient « romains », même en Argentine.

De même, aujourd’hui, les chiites sont d’une manière ou d’une autre culturellement iraniens, même dans l’Azerbaïdjan du nord turcique, dans l’Irak arabophone et à Bahreïn, sans parler de l’Afghanistan du nord-ouest où le perse demeure la lingua franca. Si les néo-zoroastriens, en Iran ainsi que dans les parties du Kurdistan actuellement en-dehors des frontières de l’Iran, devaient s’allier avec les chiites persisés, cela ferait plus que consolider l’intégrité territoriale de l’Iran. Cela établirait un nouvel Empire perse, fournissant à l’Iran central de nombreuses zones-tampons et positions avancées chiites tout en réincorporant aussi, sur la base du nationalisme iranien, des régions qui sont ethno-linguistiquement iraniennes mais pas chiites – comme le grand Kurdistan et le Tadjikistan (incluant Samarkand et Boukhara).

Ce que je propose est plus qu’un coup d’Etat militaire à l’intérieur de la République Islamique. Le qualificatif de « bonapartiste » est seulement en partie exact. Nous avons besoin d’un groupe d’officiers dans les Pasdarans qui reconnaissent que la Timocratie, comme Platon la nommait, est seulement la seconde meilleure forme de gouvernement et que leur pouvoir aura besoin d’être légitimé par un roi philosophe et un conseil des Mages avec l’intelligence et la profondeur d’âme requises pour utiliser le pouvoir étatique afin de promouvoir la Renaissance Iranienne qui est déjà en cours. Ironiquement, si nous séparons la forme politique de la République Islamique de son contenu – comme le ferait un bon platonicien –, les structures centrales antidémocratiques et intolérantes du régime sont remarquablement iraniennes. Le Conseil Gardien (Shorâye Negahbân) est l’Assemblée des Mages et le Gouvernement du Docte (Velâyaté Faqih) est le Shâhanshâhé Dâdgar qui possède le farr – celui qui est justement guidé par la divine gloire de la Sagesse. Cela ne devrait pas être surprenant puisque, après tout, l’Ayatollah Khomeiny emprunta ces concepts à Al Fârâbî qui, au fond de lui, était tout de même un Aryen.

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Le Parti Pan-Iranien, qui est issu du Parti des Travailleurs National Socialiste (SUMKA) de l’Iran du début des années 1940, est un élément-clé dans ce stratagème. Célèbre pour son opposition parlementaire très bruyante à l’abandon de Bahreïn par Mohammad Reza Shah Pahlavi en 1971, l’opposition loyale ultranationaliste (c’est-à-dire à la droite du Shah) du régime Pahlavi pourrait devenir l’opposition loyale de la République Islamique si elle était légalisée après un coup d’Etat par ceux parmi les Gardiens de la Révolution qui comprennent la valeur du nationalisme iranien pour affronter la menace existentielle imminente pour l’Iran.

A la différence de tous les autres partis d’opposition, l’existence clandestine du Parti Pan-Iranien a été seulement à peine tolérée par la République Islamique. Bien qu’il soit techniquement illégal et qu’il ne puisse pas présenter de candidats aux élections, il n’a pas été écrasé par le régime – parce la loyauté du parti envers l’Iran ne fait pas de question. Le parti a des liens étroits avec les principaux intellectuels de la Renaissance Iranienne et avec les membres les plus patriotes du clergé chiite. S’il était le seul parti d’opposition légal, tous les nationalistes iraniens voteraient pour lui et en une seule élection, ou deux tout au plus, les Pan-Iraniens obtiendraient une majorité au Parlement. Leur premier acte de législation devrait être quelque chose avec un grand pouvoir symbolique et peu de chances de réaction hostile de la part du complexe militaro-industriel de la République Islamique : le retour du Lion et du Soleil comme drapeau national légitime de l’Iran (l’un des buts déclarés du Parti).

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Le Lion et le Soleil incarne parfaitement l’ambiguïté de l’identité iranienne. Les chiites affirment que c’est une représentation zoomorphique de l’Imam Ali, « le Lion de Dieu » (Assadollâh) et que l’épée brandie par le lion est le Zulfaqâr. La République Islamique  remplaça ce symbole parce que ses fondateurs fondamentalistes savaient que c’était faux. Le Lion et le Soleil est un drapeau aryen extrêmement ancien, qui représente probablement Mithra c’est-à-dire le Soleil entrant dans la maison zodiacale du Lion.

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De plus, les néo-zoroastriens ont tort de croire que l’épée recourbée est un ajout islamique (et qu’elle doit donc être remplacée par une épée droite). Au contraire, l’épée du lion est la serpe,  qui était le symbole du cinquième degré de l’initiation dans le mithraïsme, connu sous le nom de Perses. Perses était le fils de Perseus, le progéniteur des Aryens perses. Il tranche la tête de la Gorgone avec une épée-serpe. Les Gorgones étaient sacrées pour les Scythes, les tribus rivales des Perses à l’intérieur du monde iranien. Perseus brandissant la tête tranchée de la Méduse symbolise le fait qu’il a saisi sa puissance (sa Shakti) tout en restant humain (sans se transformer en pierre). Mais oui, bien sûr, c’est l’Imam Ali.

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Dans le nouvel Iran, les néo-zoroastriens devront tolérer les rituels de deuil de masse de Moharrem et de l’Achoura, car après tout leurs vraies origines sont dans les anciennes processions de deuil iraniennes pour le martyre de Siyâvosh. En échange, les chiites devront tolérer les tatouages de Farvahar chez les femmes néo-zoroastriennes qui ont été tellement ciblées par la République Islamique qu’elles sont prêtes à sauter nues par-dessus des feux de joie Châhâr-Shanbeh Suri allumés en brûlant des Corans.

A la différence de ce qui se passait à l’époque de Reza Shah Pahlavi II, et de la République Arabe d’Al-Ahwaz proposée, il n’y aura pas de criminalisation de l’islamophobie dans l’Iran nationaliste. En fait, la composante chiite du nouveau régime servira à légitimer l’alliance de l’Iran avec les nationalistes européens combattant la cinquième colonne de nouveau Califat sunnite à Paris, Londres, Munich et Dearborn. Les têtes de l’hydre sont en Arabie Saoudite, en Turquie, et au Pakistan. Le Lion de Mithra tranchera ces têtes avec son épée. Pour la première fois depuis la dynastie fatimide des Assassins, La Mecque et Médine seront gouvernées par des mystiques chiites. Les Perses fêteront cela à Persépolis.

Il n’y a pas de doute là-dessus. Le temps est venu pour l’Iran bonapartiste – la forteresse islamique-aryenne et nationaliste-religieuse de la résistance contre les globalistes sans racines, pour qui « Rien n’est vrai, et tout est permis ». Il ne nous reste qu’une question : « Qui est le Napoléon perse ? ».