
La concretezza geopolitica del diritto in Carl Schmitt
La produzione teorica di Carl Schmitt è caratterizzata dalla tendenza dell’autore a spaziare in diversi settori di ricerca e dal rifiuto di assolutizzare un solo fattore o ambito vitale. Nonostante gli siano state rivolte frequenti accuse di ambiguità e asistematicità metodologica – in particolar modo da chi sostiene la “purezza” della scienza del diritto -, in una delle sue ultime interviste, rilasciata nella natia Plettenberg, Schmitt ribadì senza mezzi termini la sua radicale scelta esistenziale: «Mi sento al cento per cento giurista e niente altro. E non voglio essere altro. Io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta» (Lanchester, 1983, pp. 5-34).
Un metodo definito sui generis, distante dalle asettiche teorizzazioni dei fautori del diritto positivo ma non per questo meno orientato alla scienza giuridica, sviscerata fin nelle sue pieghe più riposte per ritrovarne la genesi violenta e i caratteri concreti ed immediati, capaci di imporsi su una realtà che, da “fondamento sfondato”, è minacciata dal baratro del nulla.
In quest’analisi si cercherà di far luce sul rapporto “impuro” tra diritto ed altre discipline, in primis quella politica attraverso cui il diritto stesso si realizza concretamente, e sui volti che questo ha assunto nel corso della sua produzione.
1. Il pensiero di Schmitt può essere compreso solo se pienamente contestualizzato nell’epoca in cui matura: è dunque doveroso affrontarne gli sviluppi collocandoli in prospettiva diacronica, cercando di individuare delle tappe fondamentali ma evitando rigide schematizzazioni.
Si può comunque affermare con una certa sicurezza che attorno alla fine degli anni ’20 le tesi schmittiane subiscano un’evoluzione da una prima fase incentrata sulla “decisione” a una seconda che volge invece agli “ordini concreti”, per una concezione del diritto più ancorata alla realtà e svincolata non solo dall’eterea astrattezza del normativismo, ma pure dallo “stato d’eccezione”, assenza originaria da cui il diritto stesso nasce restando però co-implicato in essa.
L’obiettivo di Schmitt è riportare il diritto alla sfera storica del Sein – rivelando il medesimo attaccamento all’essere del suo amico e collega Heidegger -, che si oppone non solo al Sollen del suo idolo polemico, Hans Kelsen, ma pure al Nicht-Sein, allo spettro del “Niente” che sopravviveva nell’eccezione, volutamente non esorcizzato ma troppo minaccioso per realizzare una solida costruzione giuridica. La “decisione”, come sottolineò Löwith – che accusò Schmitt di “occasionalismo romantico” – non può pertanto essere un solido pilastro su cui fondare il suo impianto teoretico, essendo essa stessa infondata e slegata «dall’energia di un integro sapere sulle origini del diritto e della giustizia» (Löwith, 1994, p.134). Il decisionismo appariva in precedenza come il tentativo più realistico per creare ordine dal disordine, nell’epoca della secolarizzazione e dell’eclissi delle forme di mediazione: colui che s’impone sullo “stato d’eccezione” è il sovrano, che compie un salto dall’Idea alla Realtà. Quest’atto immediato e violento ha sul piano giuridico la stessa valenza di quella di Dio nell’ambito teologico, tanto da far affermare a Schmitt che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (Teologia politica, 1972, p.61). Solo nell’eccezione il problema della sovranità si pone come reale e ineludibile, nelle vesti di chi decide sull’eventuale sospensione dell’ordinamento, ponendosi così sia fuori che dentro di esso. Questa situazione liminale non è però metagiuridica: la regola, infatti, vive «solo nell’eccezione» (Ivi, p.41) e il caso estremo rende superfluo il normativo.
La debolezza di tale tesi sta nel fissarsi su una singola istanza, la “decisione”, che ontologicamente è priva di fondamento, in quanto il soggetto che decide – se si può definire tale – è assolutamente indicibile ed infondabile se non sul solo fatto di essere riuscito a decidere e manifestarsi con la decisione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, decisionismo non è dunque sinonimo di soggettivismo: a partire dalla consapevolezza della sua ambiguità concettuale, Schmitt rivolge la sua attenzione verso la concretezza della realtà storica, che diviene il perno della sua produzione giuridica.
Un cambio di rotta dovuto pure all’erosione della forma-Stato, evidente nella crisi della ”sua” Repubblica di Weimar. Il decisionismo rappresentava un sostrato teorico inadeguato per l’ordinamento giuridico internazionale post-wesfaliano, in cui il tracollo dello Stato[1] spinge Schmitt a individuare nel popolo e nei suoi “ordinamenti concreti” la nuova sede del “politico”.
Arroccato su posizioni anti-universaliste, l’autore elabora tesi che vanno rilette in sostanziale continuità con quelle precedenti ma rielaborate in modo tale da non applicare la prospettiva decisionista a tale paradigma cosmopolitico.
2. Il modello di teoria giuridica che Schmitt approfondì in questa tappa cruciale del suo itinerario intellettuale è l’istituzionalismo di Maurice Hauriou e Santi Romano, che condividono la definizione del diritto in termini di “organizzazione”. La forte coincidenza tra organizzazione sociale e ordinamento giuridico, accompagnata alla serrata critica del normativismo, esercitò una notevole influenza su Schmitt, che ne vedeva il “filo di Arianna” per fuoriuscire dal caos in cui era precipitato il diritto dopo la scomparsa degli Stati sovrani.
Convinto fin dalle opere giovanili che fosse il diritto a creare lo Stato, la crisi irreversibile di quest’ ultimo indusse l’autore a ricercarne gli elementi essenziali all’interno degli “ordinamenti concreti”. Tralasciando la dottrina di Hauriou, che Schmitt studiò con interesse ma che esula da un’analisi prettamente giuridica in quanto fin troppo incentrata sul piano sociologico, è opportuno soffermarsi sull’insegnamento romaniano e sulle affinità tra questi e il tardo pensiero del Nostro. Il giurista italiano riconduceva infatti il concetto di diritto a quello di società – corrispondono al vero sia l’assunto ubi societas ibi ius che ubi ius ibi societas – dove essa costituisca un’«unità concreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono» (Romano, 1946, p.15) e miri alla realizzazione dell’«ordine sociale», escludendo quindi ogni elemento riconducibile all’arbitrio o alla forza. Ciò implica che il diritto prima di essere norma è «organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità» (Ivi, p.27).
La coincidenza tra diritto e istituzione seduce Schmitt, al punto da fargli considerare questa particolare teoria come un’alternativa al binomio normativismo/decisionismo, “terza via” di fronte al crollo delle vecchie certezze del giusnaturalismo e alla vulnerabilità del positivismo. Già a partire da Teologia politica il pensiero di matrice kelseniana era stato demolito dall’impianto epistemologico che ruotava intorno ai concetti di sovranità e decisione, che schiacciano il diritto nella sfera del Sein riducendo il Sollen a «modus di rango secondario della normalità» (Portinaro, 1982, p. 58). Il potere della volontà esistenzialmente presente riposa sul suo essere e la norma non vale più in quanto giusta, tramontato il paradigma giusnaturalistico, ma perché è stabilita positivamente, di modo che la coppia voluntas/auctoritas prevalga su quella ratio/veritas.
L’eclissi della decisione osservabile dai primi scritti degli anni ’30 culmina col saggio I tre tipi di pensiero giuridico, in cui al “nemico” scientifico rappresentato dall’astratto normativista Schmitt non oppone più l’eroico decisionista del caso d’eccezione quanto piuttosto il fautore dell’ “ordinamento concreto”, anch’esso ubicato nella sfera dell’essere di cui la normalità finisce per rappresentare un mero attributo, deprivato di quei connotati di doverosità che finirebbero per contrapporsi a ciò che è esistenzialmente dato. Di qui la coloritura organicistico-comunitaria delle istituzioni che Schmitt analizza, sottolineando che «esse hanno in sé i concetti relativi a ciò che è normale» (I tre tipi di pensiero giuridico, 1972, pp.257-258) e citando a mo’ di esempi modelli di ordinamenti concreti come il matrimonio, la famiglia, la chiesa, il ceto e l’esercito.
Il normativismo viene attaccato per la tendenza a isolare e assolutizzare la norma, ad astrarsi dal contingente e concepire l’ordine solo come «semplice funzione di regole prestabilite, prevedibili, generali» (Ibidem). Ma la novità più rilevante da cogliere nel suddetto saggio è il sotteso allontanamento dall’elemento decisionistico, che rischia di non avere più un ruolo nell’ambito di una normalità dotata di una tale carica fondante.
3. L’idea di diritto che l’autore oppone sia alla norma che alla decisione è legata alla concretezza del contesto storico, in cui si situa per diventare ordinamento e da cui è possibile ricavare un nuovo nomos della Terra dopo il declino dello Stato-nazione.
Lo Schmitt che scrive negli anni del secondo conflitto mondiale ha ben presente la necessità di trovare un paradigma ermeneutico della politica in grado di contrastare gli esiti della modernità e individuare una concretezza che funga da katechon contro la deriva nichilistica dell’età della tecnica e della meccanizzazione – rappresentata sul piano dei rapporti internazionali dall’universalismo di stampo angloamericano.
Sulla scia delle suggestioni ricavate dall’istituzionalismo, il giurista è consapevole che solo la forza di elementi primordiali ed elementari può costituire la base di un nuovo ordine.
La teoria del nomos sarà l’ultimo nome dato da Schmitt alla genesi della politica, che ormai lontana dagli abissi dello “stato d’eccezione” trova concreta localizzazione nello spazio e in particolare nella sua dimensione tellurica: i lineamenti generali delle nuove tesi si trovano già in Terra e mare del 1942 ma verranno portati a compimento solo con Il nomos della terra del 1950.
Nel primo saggio, pubblicato in forma di racconto dedicato alla figlia Anima, il Nostro si sofferma sull’arcana e mitica opposizione tra terra e mare, caratteristica di quell’ordine affermatosi nell’età moderna a partire dalla scoperta del continente americano. La spazializzazione della politica, chiave di volta del pensiero del tardo Schmitt, si fonda sulla dicotomia tra questi due elementi, ciascuno portatore di una weltanschauung e sviscerati nelle loro profondità ancestrali e mitologiche più che trattati alla stregua di semplici elementi naturali. Il contrasto tra il pensiero terrestre, portatore di senso del confine, del limite e dell’ordine, e pensiero marino, che reputa il mondo una tabula rasa da percorrere e sfruttare in nome del principio della libertà, ha dato forma al nomos della modernità, tanto da poter affermare che «la storia del mondo è la storia della lotta delle potenze terrestri contro le potenze marine» (Terra e mare, 2011, p.18) . Un’interpretazione debitrice delle suggestioni di Ernst Kapp e di Hegel e che si traduceva nel campo geopolitico nel conflitto coevo tra Germania e paesi anglosassoni.
Lo spazio, cardine di quest’impianto teorico, viene analizzato nella sua evoluzione storico-filosofica e con riferimenti alle rivoluzioni che hanno cambiato radicalmente la prospettiva dell’uomo. La modernità si apre infatti con la scoperta del Nuovo Mondo e dello spazio vuoto d’oltreoceano, che disorienta gli europei e li sollecita ad appropriarsi del continente, dividendosi terre sterminate mediante linee di organizzazione e spartizione. Queste rispondono al bisogno di concretezza e si manifestano in un sistema di limiti e misure da inserire in uno spazio considerato ancora come dimensione vuota. È con la nuova rivoluzione spaziale realizzata dal progresso tecnico – nato in Inghilterra con la rivoluzione industriale – che l’idea di spazio esce profondamente modificata, ridotta a dimensione “liscia” e uniforme alla mercé delle invenzioni prodotte dall’uomo quali «elettricità, aviazione e radiotelegrafia», che «produssero un tale sovvertimento di tutte le idee di spazio da portare chiaramente (…) a una seconda rivoluzione spaziale» (Ivi, p.106). Schmitt si oppone a questo cambio di rotta in senso post-classico e, citando la critica heideggeriana alla res extensa, riprende l’idea che è lo spazio ad essere nel mondo e non viceversa. L’originarietà dello spazio, tuttavia, assume in lui connotazioni meno teoretiche, allontanandosi dalla dimensione di “datità” naturale per prendere le forme di determinazione e funzione del “politico”. In questo contesto il rapporto tra idea ed eccezione, ancora minacciato dalla “potenza del Niente” nella produzione precedente, si arricchisce di determinazioni spaziali concrete, facendosi nomos e cogliendo il nesso ontologico che collega giustizia e diritto alla Terra, concetto cardine de Il nomos della terra, che rappresenta per certi versi una nostalgica apologia dello ius publicum europaeum e delle sue storiche conquiste. In quest’opera infatti Schmitt si sofferma nuovamente sulla contrapposizione terra/mare, analizzata stavolta non nei termini polemici ed oppositivi di Terra e mare[2] quanto piuttosto sottolineando il rapporto di equilibrio che ne aveva fatto il cardine del diritto europeo della modernità. Ma è la iustissima tellus, «madre del diritto» (Il nomos della terra, 1991, p.19), la vera protagonista del saggio, summa del pensiero dell’autore e punto d’arrivo dei suoi sforzi per opporre un solido baluardo al nichilismo.
Nel nomos si afferma l’idea di diritto che prende la forma di una forza giuridica non mediata da leggi che s’impone con violenza sul caos. La giustizia della Terra che si manifesta nel nomos è la concretezza di un arbitrio originario che è principio giuridico d’ordine, derivando paradossalmente la territorialità dalla sottrazione, l’ordine dal dis-ordine. Eppure, nonostante s’avverta ancora l’eco “tragica” degli scritti giovanili, il konkrete Ordnung in cui si esprime quest’idea sembra salvarlo dall’infondatezza e dall’occasionalismo di cui erano state accusate le sue teorie precedenti.
Da un punto di vista prettamente giuridico, Schmitt ribadisce la sentita esigenza di concretezza evitando di tradurre il termine nomos con “legge, regola, norma”, triste condanna impartita dal «linguaggio positivistico del tardo secolo XIX» (Ivi, p.60). Bisogna invece risalire al significato primordiale per evidenziarne i connotati concreti e l’origine abissale, la presa di possesso e di legittimità e al contempo l’assenza e l’eccedenza. La catastrofe da cui lo ius publicum europaeum è nato, ossia la fine degli ordinamenti pre-globali, è stata la grandezza del moderno razionalismo politico, capace di avere la propria concretezza nell’impavida constatazione della sua frattura genetica e di perderla con la riduzione del diritto ad astratta norma. Ed è contro il nichilismo del Gesetz che Schmitt si arma, opponendo alla sua “mediatezza”, residuo di una razionalità perduta, l’“immediatezza” del nomos, foriero di una legittimità che «sola conferisce senso alla legalità della mera legge» (Ivi, p.63).
GEOPOLITICA & TEORIA 27/05/2015 Ugo Gaudino
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ID., Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft, Internationaler Universitätsverlag, Tubinga, 1950, trad. it. La condizione della scienza giuridica europea, Pellicani Editore, Roma, 1996



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News of Seth’s victory reaches London where Basil Seal, the ne’er-do-well son of the Conservative Whip and a classmate of Seth’s at Oxford, is recovering from a series of scandalous benders that have forced him to abandon his nascent political career. Desperately in need of money, Seal travels to Azania as a free-lance journalist. Within a short time of his arrival, Basil becomes Seth’s most trusted adviser and is put in charge of the Ministry of Modernization; in effect, Basil has become the real ruler of Azania since Seth spends his time immersed in catalogs and dreaming up more and more ridiculous “progressive” schemes for the betterment of Azanians, such as requiring all citizens to learn Esperanto. The natives who run the other departments are all too happy to refer all business to Basil.







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Y a–t-il une Provence secrète ? Il semblerait bien que oui. Pierre-Émile Blairon a eu l’excellente idée de rééditer son livre La Dame en signe blanc (La prophétie du Grand Monarque, Éditions Hyperborée, 2017, 284 p., 20,00 €) qui plonge le lecteur dans les mystères de la région de Roquefavour, entre Graal païen et prédictions de Nostradamus. Il n’en fallait pas plus pour qu’Europe Maxima se décide à l’interroger.
P-ÉB : Le titre, La Roue et le Sablier, indique deux symboles, la roue représente le monde profane qui tourne autour du moyeu qui, lui est fixe, c’est le domaine des dieux qui font tourner le monde, c’est la Tradition primordiale, immuable et pérenne. Plus on se rapproche du centre, du moyeu immobile, et plus on se rapproche du monde spirituel, et, inversement, plus on va vers le grand cercle, celui qui va toucher le sol dur, la terre, et plus on est dans le matériel.
EM : 














Citant Jean Haudry, Robert Dragan pose que la religion des Indo-Européens, réfractaires aux dogmes, recourt aux mythes et symboles pour figurer l'inconnaissable, le métaphysique exorbitant aux niveaux d'expérience humains. Ces mystères, dont le Pape saint Pie X dit qu'ils sont des vérités qui dépassent les forces de notre raison et que, pour se prononcer sur ceux-ci, l'Eglise se réfère à la Bible, porteuse de la révélation. Si le créateur ne se révèle que par le monde qu'il a créé et qu'il est impossible d'atteindre un 'arrière-monde', tout sacrifice propitiatoire est vain, notamment dans la métempsycose, réincarnation de l'âme, centrale dans l'Hindouisme. Aujourd'hui, les païens intégristes considèrent que tout rituel est sans valeur car la Tradition est perdue dans ses détails. Mais le rite païen est sous-tendu par une éthique, qui demeure fondamentalement la même. Il ne s'agit que de la revivifier. Jean Haudry, dans 'La religion cosmique des Indo-Européens', démontre que le paganisme classique, grec, romain ou gaulois, dérive d'une religion paléolithique liée aux météores (cieux, astres, aurores). L'esprit de la tradition reste inchangé. L'espérance en une survie est un repère et la prière orientée vers un arrière-monde rassure. Un monde sans révélation du créateur n'est pas pour autant sans ordre, ce que les Hindouistes appellent brahman. L'Européen a la responsabilité morale d'ordonner le monde, notamment en mesurant le temps météorologique, en quête d'une union mystique entre le penseur et la totalité cosmique. Mais le parcours individuel ne doit pas être coupé du collectif : l'homme est un héritier, un animal politique fait pour vivre dans une 'cité' (polis) et y porter sa contribution. Le rite est souvent un sacrifice propitiatoire, notamment les feux du solstice d'été, qui invite la communauté à la fidélité à la tradition, à la recherche de l'acte juste.
Pierre Vial cite Dominique Venner « L'âme européenne est en dormition », pour se féliciter de ce que les Européens de l'Est osent braver le dogme du politiquement correct, à la différence de ceux de l'Ouest, enclins à tendre l'autre joue. Pierre Vial porte témoignage du paganisme contemporain par l'exemple de la confrérie d'hommes-loups qu'il a côtoyés -Saint-Loup, Mabire, Venner- et par son parcours personnel (notamment en prison pour cause d'Algérie française). Et, après ses années activistes, par sa participation à la fondation du GRECE, la mise en lumière des Indo-Européens avec Georges Dumézil et Jean Haudry, le message d'espérance identitaire avec les traditions à réintroduire dans la vie quotidienne, le retour à la paysannerie terrienne, la salutaire tonalité völkisch, l'incontournable éducation de la nouvelle génération dans le cadre de mouvements de jeunesse, l'apport intellectuel d'Alain de Benoist, notamment par ses ouvrages sur les traditions d'Europe, sur la pensée païenne, sur la renaissance des fêtes païennes. Et par toute une procession théorique de livres fondamentaux, dont il a signé ou co-signé plusieurs. Il avertit toutefois contre le piège de l'intellectualisme et il souligne que le paganisme européen n'est pas monolithique, mais pluriel, ordonné selon les trois fonctions indo-européennes, spirituelle, guerrière et paysanne. Soit le culte de l'harmonie et de la beauté, notamment par la pratique des rites, le culte du sacrifice pour la communauté, au sein de fraternités chevaleresques, et le culte de l'enracinement dans son pays et dans sa lignée. 











Les Etats-Unis ont mis en place des bases militaires et déployé des troupes dans toute l'Amérique Latine. Elles dépendent du Southern Command. www.southcom.mil/ De son côté la 4e flotte patrouille dans toutes les eaux avoisinantes. Y préparent-ils une guerre de grande ampleur? Veulent-ils occuper des territoires? Le gouvernement a toujours répondu que ces forces étaient là pour combattre des terroristes ou des narco-trafiquants.
La guerre contre la machine...




Pour Crawford, les Lumières dominantes et tous leurs avatars, dans ce qu’ils ont d’éminemment subversif, surtout dans la version « lockienne » qu’il critique tout particulièrement, conduisent à toutes les pathologies sociales et politiques que nous observons aujourd’hui, surtout dans le chef des enfants et des adolescents, notamment la perte de « cette antique capacité à être toujours attentifs à tout », ce que certains pédagogues allemands actuels, comme Christian Türcke (photo), appellent l’ « Aufmerksamkeitsdefizitkultur » (la « culture du déficit d’attention »). Nos jeunes contemporains sont donc les dernières victimes d’un long processus qui a connu ses débuts il y a deux ou trois siècles. Mais nous assistons aussi à la fin de ce processus subversif et « involutif » qui nous a menés à un « Kali Youga ». La mythologie indienne nous enseigne bel et bien qu’après ce « Kali Youga », un nouvel âge d’or commencera.





There are some differences between Jahn and the National Socialists: Jahn’s gymnastics unions were loosely organized and lacked hierarchies of authority, whereas the Hitler Youth was highly regulated and its program of physical education was more regimented and militaristic. Nonetheless both upheld a völkisch “blood and soil” worldview. For both the purpose of physical exercise was twofold: to prepare youths for combat by strengthening the body and mind and to instill in them a sense of national unity and purpose. Furthermore Jahn’s movement and National Socialism were both populist in nature (unlike the conservatism of the Prussian Junkers, as Viereck points out). Jahn endorsed classless communitarianism and likewise National Socialism was a mass movement that transcended class lines.





Ainsi, en dépit des thèses apparemment anti-impérialistes de la doctrine en question, son adaptation par l’élite polonaise n’a fait que renforcer le caractère expansionniste, messianique et antirusse de la politique étrangère polonaise. Le choix de l’Ukraine et de la Biélorussie comme objets de la politique orientale polonaise et la nature générale de celle-ci (cela sera discuté plus loin) sont directement liés à cette influence. Une autre caractéristique importante de ce « nouveau » projet géopolitique est la faveur accordée à une participation accrue de la Pologne à l’intégration européenne, ce qui serait combiné avec le maintien de régimes libéraux-démocratiques dans les pays de l’Est [26]. Actuellement, la combinaison de ces idéologies est démontrée par la participation active de la Pologne au « Partenariat de l’Est » de l’Union Européenne.
En effet, l’idée de « Polonia », de Monde Polonais, est activement utilisée dans le discours politique polonais qui unit la nation polonaise, quel que soit le lieu de résidence de ses membres. D’après Giedroyc, depuis 1990 le Sénat de la République de Pologne a fourni un financement important pour le développement de la « Polonia ». Si initialement une seule organisation fut impliquée dans cette initiative – l’Association des Communautés Polonaises – en 2008 plus de 75 ONG furent inclues, la plus grande étant la Communauté Polonaise, Semper Polonia, et la Fondation pour l’Assistance aux Polonais dans l’Est. Ces organisations reçoivent plus de 76% de tous les subsides gouvernementaux visant à soutenir la diaspora polonaise (17,1 millions de dollars). Le Sénat polonais a clairement identifié les principales priorités de travail de cette « Polonia » comme étant le développement de projets éducationnels pour les Polonais à l’étranger (26% du financement), le développement de la culture polonaise (plus de 17%), et le développement de médias étrangers polonais et pro-polonais (10%) [34].














Sommigen hebben ons ook willen doen geloven – vanuit een enigszins achterhaalde optiek – dat de overwinning van Trump die was van een “ondernemerskapitalisme