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dimanche, 18 janvier 2009

Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

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Russia e Ucraina, la vera posta in gioco

http://www.rinascita.info - Giovedì 15 Gennaio 2009 – 17:20 – Filippo Ghira



La crisi russo-ucraina sul gas, anche ieri il metano russo non è arrivato a destinazione nell’Unione europea, sembra fatta apposta per rendere più freddi, e non è una battuta visti i rigori dell’inverno, i rapporti tra Mosca e i Paesi europei e portarli a pensare se alla fine non sia un po’ troppo rischioso dipendere in maniera così considerevole dalle forniture della Gazprom. Un’idea questa che la Casa Bianca con il duo Bush e Obama e le compagnie petrolifere anglo-americane hanno tutto l’interesse ad alimentare. Soprattutto in questa fase che ha visto ridursi drasticamente le entrate valutarie russe a causa del crollo dei prezzi del petrolio e del gas, seguiti al ridimensionamento della speculazione internazionale, e per il loro ritorno ad un livello più decente. Mosca e Kiev, Gazprom e Naftogaz, si fanno la guerra l’una con l’altra scambiandosi reciproche accuse, si limitano ad osservare i Paesi europei che pure hanno mandato i loro osservatori a monitorare la situazione. Resta il fatto che, non potendo stabilire se sia la Naftogaz che ruba gas alla Gazprom o se invece sia la Gazprom che non lo pompa verso il territorio ucraino per instradarlo verso ovest, i Paesi della Ue si trovano al freddo senza il gas russo e finiscono per mettere sotto accusa entrambi i governi definiti come “inaffidabili”. Da qui deriva la tendenza di diversi di loro ad auspicare una riduzione delle forniture di gas da parte russa e un utilizzo di fornitori alternativi attraverso vie alternative ai gasdotti provenienti da est. Che sia in corso una più generale operazione di pressione su Mosca è provato però dalla massiccia fuga di capitali esteri che ha interessato la Russia dall’inizio della guerra in agosto contro la Georgia per il controllo dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Solo nel quarto trimestre del 2008 se ne sono andati 130 miliardi di dollari. L’economia russa, che è stata ulteriormente danneggiata dalla conseguente crisi della Borsa all’interno della quale, tanto per rimanere in tema, la Gazprom ha visto crollare del 67% il valore delle sue azioni, non può quindi permettersi ulteriormente di rinunciare ad entrate che le servono come il pane. Anche, e non è un aspetto da poco, per rinnovare il proprio arsenale militare. Resta da vedere se le azioni della Naftogaz e del governo ucraino siano state eterodirette proprio per incrinare sul lungo termine il fronte filo-russo dei Paesi europei. La situazione politica interna ucraina ha infatti la sua influenza che non è poca. In autunno a Kiev ci saranno le elezioni presidenziali e se l’attuale presidente, Viktor Yushenko, al potere dal 2005 dopo la rivoluzione arancione, appare fuori gioco, alle stelle sono invece le quotazioni del suo avversario di allora, il filorusso Viktor Yanukovich (votato dalle regioni orientali più vicine a Mosca) e del primo ministro, Yulia Timoshenko, già protagonista della piazza di 4 anni fa. La Timoshenko, con interessi personali nel settore energetico, ha ammorbidito di molto negli ultimi mesi le sue posizioni anti-russe, avvicinandosi anzi al Cremino. Putin e Medvedev, tanto per indurre gli ucraini a più miti consigli, continuano a far pesare velatamente la minaccia di spaccare il Paese favorendo la scissione delle regioni orientali. Una risposta indiretta sia a Bush che ad Obama che si erano detti entrambi a favore dell’entrata dell’Ucraina nella Nato con la collegata richiesta di installarvi le basi di quello scudo stellare, pensato ufficialmente contro l’Iran, in realtà da utilizzare per premere contro la stessa Russia. Un disegno contro il quale la Russia ha già risposto militarmente nel Caucaso in estate. Due azioni decise, due segnali a nuora (Georgia e Ucraina) perché suocera (gli Usa) intenda e perché non creda di poter portare il gioco troppo in là.

La dipendenza italianaed europea

Due giorni fa Silvio Berlusconi, pur prendendo atto delle difficoltà che tutti i Paesi della Ue stanno attraversando a causa delle crisi tra Mosca e Kiev, ha ribadito la sua vicinanza all’amico Putin dicendo di capire le ragioni di Gazprom. Del resto era stato il Cavaliere il principale demiurgo dell’accordo tra Eni e Gazprom che ha garantito al nostro Paese una fornitura costante da qui fino al 2045. Nel 2007, secondo i dati del ministero dello Sviluppo, l’Italia ha importato 73.882 miliardi di metri cubi. La Russia è stato il secondo fornitore (30,7%) dopo l’Algeria (33,2%). In realtà, l’Agenzia internazionale dell’Energia parla di una dipendenza minore, pari al 27% da Mosca. Gli altri fornitori sono nell’ordine la Libia (12,5%), l’Olanda (10,9%) e la Norvegia (7,5%). Mentre il restante 5,2% proviene da altri Paesi. Mosca ci invia di media 60 milioni di metri cubi di gas, una dipendenza non eccessiva, e la cui provvisoria mancanza può essere tranquillamente coperta dalle grandi riserve che ci assicurano una copertura per diverse settimane. Più legate al carro russo sono invece Paesi come Estonia, Lettonia Lituania, Finlandia e Slovacchia, dipendenti al 100% per le proprie importazioni. Molto dipendenti Bulgaria (90%), Grecia (81%) e Repubblica Ceca (78%). Ma anche Austria (67%), Ungheria (65%) e Slovenia (51%). Sotto la soglia del 50% si trovano Polonia (46%) e Germania (39%) e Romania (31%). Mosca è invece un fornitore non indispensabile per Francia (16%) e Belgio (4%).

Chi non compra nemmeno un metro cubo di gas dai russi sono invece Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
Complessivamente Mosca vende all’Unione europea circa un 25% del suo fabbisogno di gas. Sul lungo termine l’Europa, esaurendosi le proprie riserve, dovrà però aumentare le importazioni e quindi la dipendenza dall’estero. Ed in tale ottica si potranno scegliere due strade. Aumentare le importazioni dagli attuali fornitori, come appunto la Russia, o da altri come Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan. E l’appestato Iran. Oppure ricorrere all’importazione di gas liquido che dovrà essere trasformato grazie agli appositi rigassificatori. Nel primo caso, la scelta di Mosca o dei tre Paesi dell’Asia centrale comporterà due diverse scelte politiche e ovviamente due diverse implicazioni geopolitiche. Già sono stati stanziati i fondi per il gasdotto Nabucco che, collegato ai Paesi dell’Asia centrale, ne porterà il gas in Europa attraverso i Balcani bypassando la Russia. Sempre in tale ottica si muove il South Stream che collegato alla stessa filiera, collegherà la Grecia all’Italia. Disegni ai quali Mosca intende rispondere con la realizzazione del North Stream nel Baltico dalla Russia alla Germania bypassando le repubbliche baltiche filo-americane. Diverso è il caso del gas naturale liquido le cui importazioni, sempre nel 2007, hanno coperto il 13% del fabbisogno europeo. I primi fornitori restano quelli soliti: Algeria, Libia, Qatar e Nigeria. Mentre restano le incertezze sullo sviluppo del settore con la realizzazione dei gassificatori che dovrà comunque ottenere il via libera delle popolazioni locali interessate.

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Odal: Germaanse Gewoonterecht en Eigendom

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Odal: Germaans Gewoonterecht en Eigendom

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Céline, la peinture et les peintres

Louis-Ferdinand Céline, la peinture et les peintres

Trouvé sur: http://ettuttiquanti.blogspot.com

[Céline par Gen Paul - 1936]
"Céline dit plus d'une fois qu'il n'est pas peintre, en ce sens qu'il ne se sent pas personnellement concerné par la peinture comme il l'est par tout ce qui touche à la littérature. En peinture, il n'est au mieux qu'un amateur, et encore, moins sensible aux qualités proprement picturales qu'aux effets affectifs, voire sentimentaux. «Mon Dieu, un Meissonnier moi ça ne me gêne pas, déclare-t-il dans un entretien de 1959, moi je trouve ça joli, moi, La Retraite de Russie, nom de Dieu je ne suis pas capable d'en faire autant. On me montrera un beau chromo, moi, même l'almanach des Postes, je vois ça très bien [...] c'est gentil même. L'Angelus de Millet, moi je trouve pas ça mal du tout (1). »

Tout autodidacte qu'il est, il n'est pourtant pas sans connaissances en matière de peinture. Dans Voyage au bout de la nuit, il cite les noms de Claude Lorrain et de Fragonard, mais chaque fois pour des raisons extra-picturales. De même sa référence cent fois réitérée à l'impressionnisme ne concerne-t-elle pas la peinture en elle-même. Il ne s'agit que de faire comprendre, par comparaison, la révolution qu'il a réalisée dans la prose française en y réintroduisant, sinon la langue parlée populaire, du moins quelque chose de son ton et de sa démarche,de même que l'impressionnisme, en choisissant le plein air, avait rejeté dans le passé la peinture en atelier.

Ce n'est pas qu'il soit dépourvu de goûts personnels, mais les prédilections qu'il marque vont toujours à un sujet ou à une thématique plutôt qu'à une facture ou à un style. Il n'y a guère lieu de s'attarder sur celle qu'il affirme pour Vlaminck (« parmi les peintres, celui qui se rapproche le plus de mon idéal (2) »: elle peut tenir à la fréquentation du peintre chez Lucien Descaves.

La peinture flamande
La prédilection la plus notable et la plus convaincante, parce qu'elle touche à l'imaginaire qui se révèle dans ses romans, est son attachement durable et souvent réaffirmé à la peinture flamande. En décembre 1932, alors qu'il vient de publier Voyage au bout de la nuit, les Bruegel du musée de Vienne sont pour lui une révélation. Il en fait part aussitôt dans une lettre à Léon Daudet, l'un des trois aimés qui l'ont soutenu dans l'affaire du prix Goncourt contre les autres membres du jury. Tout est significatif dans ce passage: le tableau de Bruegel qu'il choisit parmi tous ceux que présente le musée, le titre qu'il substitue à son titre habituel et le commentaire qu'il en fait: «Vous connaissez certainement, Maître, l'énorme fête des Fous de P. Brughel [sic]. Elle est à Vienne. Tout le problème n'est pas ailleurs pour moi.../ je voudrais bien comprendre autre chose -je ne comprends pas autre chose. je ne peux pas. / Tout mon délire est dans ce sens et je n'ai guère d'autres délires (3). »

La gaucherie et l'insistance de la rédaction témoignent de l'impact qu'a eu sur lui le tableau, en relation étroite avec sa propre inspiration. Il ne peut s'agir que du tableau traditionnellement intitulé Le Combat de Carnaval et de Carême, scène de place publique où d'innombrables petits personnages sont dispersés autour de deux d'entre eux figurés à plus grande échelle, l'un ventru et rubicond, l'autre squelettique et sinistre, tous deux assis, l'un sur un tonneau posé sur des roulettes et poussé par deux acolytes, l'autre sur une plate-forme roulante tirée par un moine et une nonne. Hormis un certain nombre de personnages qui, comme participants d'une fête populaire, relèvent d'une scène de genre, tous les autres, mendiants et estropiés, composent une humanité pitoyable. Cette fête de mi-carême, malgré les déguisements de quelques-uns et les jeux de quelques autres, est tout sauf joyeuse. La vue de ces malheureux qui s'efforcent et font semblant de s'amuser, beaucoup déjà atteints dans leur corps, laisse le spectateur partagé entre la pitié envers leur état et la répulsion qu'inspire la cruauté spontanée de la plupart de leurs amusements. Consciemment ou inconsciemment, Céline retrouve pour les acteurs de cette scène, malgré le décor de place de village, le mot de « fous » qui figure dans le titre donné par Jérôme Bosch - que Céline découvrira apparemment après Bruegel - à un tableau allégorique, La Nef des fous. Il sait qu'une telle vision est le produit d'un «délire »- le mot même qu'il emploie régulièrement pour désigner l'inspiration qui anime ses romans. Trois mois plus tard, il le répétera dans un autre contexte en se disant « bien Brughelien par instinct (4) ». Souligné par les répétitions, le mouvement qui anime les lignes de la lettre à Léon Daudet est déjà celui d'une défense contre le reproche qu'on a commencé à lui faire à propos de Voyage au bout de la nuit, celui de se complaire à évoquer misères et turpitudes des hommes. « Je voudrais bien comprendre autre chose. [ ... ] Je ne peux pas. » Il y reviendra quelques années plus tard dans le prologue de Mort à crédit. Son domaine à lui, comme celui de Bruegel, est celui du grotesque dont l'humanité présente le tableau lorsque, sujette à la mort, elle tente sans le savoir de s'en divertir en faisant souffrir son semblable. Quittant Vienne, Céline voudra garder cette toile sous les yeux dans son appartement parisien sous la forme d'une reproduction qu'il demande à son amie viennoise de lui envoyer. À ce moment, il s'est si bien persuadé de cette proximité artistique avec Bruegel qu'il a oublié qu'il ne l'a découvert qu'après la publication de Voyage au bout de la nuit et que, dans un entretien, il le présente - avec Balzac et Freud ! -comme son maître dans l'écriture du roman (6).

Il fera de même avec un autre tableau de Bruegel qu'il découvrira quelque temps plus tard, à Anvers où il est venu voir une autre amie (7). Le sujet de Dulle Griet le touche sans doute de plus près encore, puisqu'il s'agit de scènes de guerre dans lesquelles la légendaire géante « Margot l'Enragée» (désignation habituelle du tableau en français) entraîne ses compatriotes flamandes. Ce que révélait déjà sur les hommes la pacifique « fête des Fous » est ici pleinement et irrécusablement mis en valeur.

L'intérêt pour la peinture flamande ne se démentira pas. En janvier 1936, il visitera l'exposition de l'Orangerie en compagnie de son amie Lucienne Delforge, qui, dans un témoignage, parlera plus tard de l'admiration de Céline pour « la justesse des attitudes, la subtilité du geste ou de l'expression qui permettaient de pénétrer la psychologie des personnages peints par l'artiste, en dehors de la splendeur des couleurs (8)». Ce que Lucienne Delforge nomme ici la« psychologie » est la« folie » humaine que Céline ne se lasse pas de voir illustrée par cette école de peinture. Même lorsqu'il est le plus touché par un peintre, c'est encore davantage par la représentation que par le style.

Dans les années suivantes, peut-être à la suite de cette exposition ou bien après avoir vu ou revu au Louvre La Nef des fous, il remontera jusqu'au maître de Bruegel, Jérôme Bosch. Il s'interrogera sur ce qu'a pu être la vie du peintre pour qu'il en arrive à peindre de tels tableaux. À la même amie anversoise, il demande « quelques renseignements sur la vie de Jérôme Bosch, juste quelques idées (9) », (Et lui, quelle avait été sa vie pour qu'il écrive ces romans?) À la réflexion, il jugera le maître supérieur à l'élève. En 1947, quand il voudra donner une idée de la peinture européenne à son admirateur et défenseur américain Milton Hindus, il écrira: « Bosch Jérôme, le peintre, surpasse de beaucoup Breughel à mon avis - il ose davantage"). »

Deux amis peintres auraient pu offrir à Céline un autre contact avec la peinture, mais, à en croire les lettres de lui qui ont été conservées, il ne s'entretenait guère de peinture avec eux. Avec le peintre décorateur Henri Mahé, son cadet, la complicité repose sur leurs origines bretonnes et sur un échange de propos sur les femmes et le sexe. C'est pour accompagner les fresques dont Mahé avait décoré une maison de plaisir que Céline écrit un petit texte licencieux, « 31 cité d'Antin » (l'adresse parisienne de la maison).

Gen Paul
L'intimité va beaucoup plus loin avec l'autre peintre, son voisin montmartrois, Gen Paul. Elle est à la fois profonde et ambivalente, comme le montrera leur brouille d'après-guerre qui se traduira, de la part de Céline, par une évocation très négative de l'artiste, sous le nom de «Jules», dans la seconde partie de son roman Féerie pour une autre fois. Avec lui, pourtant, Céline avait touché de plus près la peinture, et la création plastique en général. Non que, jusqu'à la guerre, il entre si peu que ce soit dans l'expressionnisme violent de la manière de Gen Paul à cette époque, qui le rapproche de Soutine. Mais, déjà, Céline est sensible dans ses dessins à une affinité avec ce que lui-même réalise avec les mots. Deux textes témoignent de son admiration et font de l'artiste l'illustrateur privilégié de ses romans: «J'avoue que Gen Paul avec ses cartons me fait grand plaisir. J'attends chaque nouveau. Je frétille du bout... C'est la seule glace qui me convienne. je m'y retrouve tout immonde et sans dégoût (11).» Deux ans plus tard, il écrira, pour présenter une exposition de Gen Paul prévue à New York, un texte dans lequel il donnera sa peinture comme « authentiquement représentative d'une manière qui est purement et essentiellement française - irrévérencieuse, moqueuse, franche - et pourtant gracieuse, vive et joyeuse (12)».

On ne sait de quelle série de peintures de Gen Paul parle ici Céline. Sur sa manière expressionniste antérieure, il portera dans Féerie pour une autre fois un jugement beaucoup plus défavorable. Mais il se passe alors un phénomène paradoxal qui le rapproche bon gré mal gré de cette peinture.

[Gen Paul, Le Sacré-Coeur, 1927]
Le bouleversement cosmique que produit sous ses yeux le bombardement en cours, qui est le sujet de ce roman, lui apparaît comme la réalisation concrète, et même encore exagérée, de cette manière de « jules ». Il ne rappelle d'abord ses premières impressions que pour reconnaître que les événements de cette nuit d'avril 1944 leur apporte rétrospectivement un démenti, dans la mesure où ils réalisent bel et bien, et même davantage encore, ce qu'il prenait alors pour de la pure provocation. « je l'avais vu vernisser ses toiles... moi parfait plouc, aucune autorité d'art, je m'étais dit à moi-même: il le fait exprès! il bluffe le bourgeois! il leur peint des autobus sur la mer de Glace... et les Alpes elles-mêmes en neiges mauve, orange, carmin, et les vaches paissant des couteaux!... des lames d'acier! des poignards en fait d'herbe tendre!...» Mais la réalité est en train de dépasser la fiction - en l'occurrence la vision -, jugée alors artificielle, des tableaux de jules, ce que Céline traduit en termes romanesques en imaginant celui-ci non plus en train de peindre, mais de présider au bombardement par ses gestes du haut de la plate-forme du Moulin de la Galette: «... maintenant il nous sorcelait autre chose! des aravions tonnants, grondants, des escadres entières, et des déluges de mines réelles qui foutaient un bordel au sol, que les immeubles déchaussaient, et les monuments! les mairies! que tout ça s'envolait aux cieux, à la queue leu leu à l'envers! et les couvents! c'était plus terrible que ses gouaches! c'était un petit peu plus osé ! (13) »

À quelqu'un qui, comme lui, ne s'intéressait pas à la peinture pour elle-même et n'avait pas suivi son évolution au XXe siècle, la déformation du réel dans les peintures expressionnistes de Gen Paul avait pu à l'époque paraître gratuite, mais le moment était venu où elle se révélait prophétique, face au tohu-bohu auquel était réduit le monde par l'action conjuguée des bombardiers, avec leurs piqués, leurs loopings, leurs lâchers de bombes, et de la DCA, avec ses pinceaux lumineux et ses tirs. Contre les préjugés de l'ignorance, la peinture trouvait sa justification. Mais le dernier mot restait à la transposition de cette peinture dans le monde du langage, dont Céline prouverait, dans ces quatre romans de l'apocalypse, que la littérature était capable."

Source : Henri Godard, Un autre Céline, de la fureur à la féerie, Ed.Textuel, 2008.

Sur le sujet:
>>> Louis-Ferdinand Céline - Bruegel


Notes
1-Voir aussi l'entretien avec Francine Bloch et Julien Alvard, Cahiers Céline 7, p.435 et 459.
2- Bagatelles pour un massacre, p.216.
3-Lettre à Léon Daudet du 30 décembre 1932, in Appendices, Romans, T.1, p.1108.
4- Lettre à Evelyne Pollet du 5 juin 1933, Cahiers Céline 5, p.166.
5- Lettre à Cillie Ambor du 10 janvier 1933, CAhiers Céline 5, p.91.
6- Cahiers Céline 1, p.41.
7- Lettre à Evelyne Pollet du 5 juin 1933, Cahiers Céline 5, p.171.
8- Cahiers Céline 5, p.258.
9- Lettre à Evelyne Pollet du 20 novembre 1937 Cahiers Céline 5, p.194.
10- Milton Hindus, LF Céline tel que je l'ai vu, lettre du 12 juin 1947.
11- Texte écrit en 1935 pour le bulletin de souscription d'une édition illustrée du Voyage qui ne sera pas réalisée à cette date.
12- Le texte n'étant connu que par sa traduction en anglais, ces mots ne sont pas ceux de Céline mais d'une retraduction en français, Année Céline 1996, p.19.

13- Féerie pour une autre fois, p.223.

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Por la autodefensa étnica integral: Reflexiones sobre "La colonizacion de Europa" de Guillaume Faye

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Por la autodefensa étnica integral: Reflexiones sobre "La colonización de Europa", de Guillaume Faye

Stefano Vaj

[Traducción de Santiago Rivas]

Conocí a Guillaume Faye en París en 1978, durante el undécimo congreso anual del GRECE (Groupement de Recherche et Etudes pour la Civilisation Européenne), en el momento álgido de una personal "crisis de identidad".

Aun siendo yo muy joven, llevaba cuatro o cinco años sumergido en un ambiente que creía hacer política prestando el empeño militante al sostenimiento del MSI, un partido sustancialmente empeñado en administrar los restos italianos de la derrota militar europea. Peor aún, la estrategia de aquella administración consistía en aguardar a la espera de ser finalmente reciclada, y en ofrecer sus servicios a las franjas más a la retaguardia de la "clase dirigente" vaticanista-capitalista-masónica –en una época un tanto preocupada por la atenuación de la guerra fría y por la garantía americana, así como por la concurrencia de los "compañeros de reparto" de observancia soviética.

Por lo demás, tal ambiente vivía en una absoluta esquizofrenia política, permaneciendo unido casi exclusivamente por el ansia de diferenciarse y por el rechazo respecto a la línea general biempensante, conservadora y ávida de respetabilidad, del partido; aquel mismo partido del cual continuaban frecuentando sus sedes, sosteniendo sus listas, suscribiendo sus manifiestos, etc. Los varios personajes que encontré no eran por lo demás ajenos a los miles de pequeños compromisarios, aunque llevasen cargos cuya denominación altisonante se correspondiese con una absoluta falta de poder real; además, pertenecían a connotaciones ideológicas tan variadas como carentes de correspondencia con mis propias ideas, o por mejor decir, a la sensibilidad que me había aproximado a un ambiente tal. Católicos integristas, anticomunistas genéricos, personajes convencidos de que la guerra mundial había sido combatida para hacer participar a cualquier representante sindical en las reuniones de los consejos de administración ("...como en Alemania Federal, como en Yugoslavia"), tradicionalistas y esoteristas al borde de la sesión espiritista, nihilistas, admiradores indiscriminados del militarismo chileno, israelita o francés, pseudoidealistas que nunca habían leído una línea de Spirito, Gentile o Fichte, vestales y adoradores de una crónica política pasada y mal comprendida; pero el empacho de la elección no era algo que me repugnase mayormente. Por muchos aspectos una corte de los milagros, en suma, cuyos miembros eran ciertamente "desviados" pero también en gran parte "recuperados" por el Sistema, presa de sugestiones ideológicas cuya gran variedad iba solamente a la par de la sustancial extrañeza de esos elementos con la "tendencia histórica" encarnada por las grandes revoluciones nacional-populares de la primera mitad del siglo, por Nietzsche, Wagner y Stefan George, Marinetti, D´Anunnzio y Drieu La Rochelle.

La imagen tan caricaturesca, demoníaca y en el fondo ridícula que de tal ambiente era ofrecida desde el exterior, con su intrigante perfume de azufre, era casi más atractiva que la mediocre realidad que yo experimentaba directamente cada día

El contacto con el ambiente francés, por entonces principalmente representado por el GRECE, "Groupement de Recherches et Etudes pour la Civilisation Européenne" (1), fue, por todo lo dicho, mucho más que una agradable sorpresa. No me había inventado una pertenencia literaria a una comunidad mítica irremediablemente extinta; aún existían personas que verdaderamente compartían aquellos valores que me habían atraído hacia un mundo italiano que teóricamente habría debido ser su heredero, pero que no usaba argumentos de acción histórica ni de "gran política".

Por lo demás, el movimiento francés, después de un decenio de duro trabajo, se encontraba visiblemente en la espera de un gran suceso, intentando agregar en torno suyo "compañeros de viaje" de notable renombre y, sobe todo, de suscitar un séquito, pequeño pero entusiasta, en numerosos países europeos, de Bélgica a Grecia, de Alemania a Inglaterra, de Suiza a la misma Italia. Un séquito que únicamente pedía ofrecer su propia contribución, creando comunidades locales o participando en el trabajo de difusión de ideas por medio de conferencias, publicaciones e infiltraciones en los medios de comunicación y de la universidad.

Pero alejemos las divagaciones. El congreso en cuestión trataba sobre "L´inégalité de l´homme", y venía a focalizar uno de aquellos temas que ya habían sido estabilizados como "leit-motivs" de la batalla cultural del movimiento, temática de identificación, de encuentro y alternativas de nuestra época, de antítesis frente a las ideologías de matriz judeo-cristiana, democrática, marxista, etc., y de visión del mundo antiigualitaria, aristocrática y sobrehumanista.

Entre los participantes se encontraban, naturalmente, Alain de Benoist el intelectual; Giorgio Locchi el filósofo –que habría de ser mi gurú y "maitre á penser" personal, si alguna vez tuve alguno, y cuya intervención en el congreso fue posteriormente publicada por "l´Uomo libero" n.6 con el título "Mito y Comunidad"–; y, sobre todo, Guillaume Faye el militante, el ponente que sin duda más me impactó.

Orador excepcional, hipnótico en su lectura de una relación escrita en la atenuada atmósfera de un convenio de estudios en un palacio de congresos, Guillaume Faye se asemejaba físicamente y en sus movimientos un poco al joven Feddersen interpelado por Gustav Froelich, el protagonista de "Metrópolis", de Fritz Lang; y era ya indiscutiblemente el astro en alza del movimiento. Especialmente para un dieciochioañero sediento de coherencia y pasión, pero también asaltado por la despreocupación, Faye daba la impresión de un "lúcido fanatismo" en donde de mezclaban reminiscencias del Che Guevara, D´Annunzio, Ignacio de Loyola y Goebbles, lejos, muy lejos de ese material humano sectario y arribista, conformista y reaccionario que dominaba en mi experiencia política de la Italia del momento. Las noches pasadas en discutir las cuestiones fundamentales de nuestra época y del futuro de Europa en la campiña provenzal de la Universidad de Verano del GRECE fueron, desde el principio, una bienvenida bocanada de oxígeno.

No sorprendía por ello que Faye fuese simplemente adorado por toda la base del movimiento, incluyendo los componentes internacionales, obviamente menos atraídos por otros exponentes condicionados por un residuo de "espíritu de salón parisino", o bien por una excesiva preocupación por la administración de las vicisitudes cotidianas y locales de la asociación. Y fue precisamente con Faye, Pierre Vial, Jason Hadgidinas y otros camaradas europeos de este ambiente con quienes nos reencontramos pocos años después en Grecia, en el santuario de Apolo en Delfos, al alba, para jurar en diez lenguas en una ceremonia privada nuestra fidelidad a Europa, a sus Dioses y al Sol (re)naciente de su cultura, tras el solsticio de invierno de nuestra época.

Ese rol especial de Guillaume Faye vino después a enfatizarse cuando, poco después, el movimiento, bautizado para la ocasión por los "media" como Nueva Derecha, tomó el control de la redacción de la revista "Figaro-Magazine", apareciendo en la primera página de los diarios de todo el mundo, ilusionándose por un instante de haber afirmado unas raíces inextirpables en la oficialidad. Excluyendo a unos pocos personajes dedicados a misiones meramente organizativas, Faye fue prácticamente el único que no jugó sus cartas en los medios tradicionales, en los círculos intelectuales acreditados y en la universidad, el único que permaneció empeñado únicamente en el movimiento, para el cual trabajaba a tiempo completo, en donde sus problemas de supervivencia eran de naturaleza puramente… económica. En semejante posición particular, Faye abrió algunos temas y frentes de lucha fundamentales que más tarde resonaron en toda Europa. En "El sistema contra los pueblos", traducido por mí mismo al italiano para "Edizioni dell´Uomo libero" y recientemente reeditado por "Societá Editrice Barbarossa" (2), constituyó el primer manifiesto contra la globalización publicado en nuestro continente, durante la época de los bloques y de las últimas etapas de la descolonización. La versión definitiva en la cual fue publicada el libro constituyó el fruto de una lucha épica, típica de Faye, contra los editores de "Copernic", por entonces la principal editorial del movimiento. Como es sabido, en el mundo francés y más aun en el anglosajón no son las editoriales (o publisher), sino los editores que jamás han publicado un renglón propio quienes pretenden enseñar a los escritores qué es escribir y cómo se escribe. En el caso, estas figuras no solamente discutían problemas de puntos y comas, de extensión de los capítulos o de "provocaciones" lo suficientemente atractivas para suscitar la atención de esos lectores que raramente superan las primeras páginas antes de regresar definitivamente sobre la cubierta, sino que también ejercieron una tentativa de atenuación y sustancial censura política de un mensaje considerado esta vez demasiado "paradójico", "visionario", "poco realista", "poco serio". El hecho de que el libro sea hoy una descripción fiel de cuanto positivamente ha sucedido y está sucediendo ante los ojos de todos, es el fruto y el testimonio del increíble entusiasmo y energía destinados a convencer, ilustrar, re-escribir la re-escritura de personajes más o menos ignotos, y al final… conseguirlo por cansancio.

Del mismo modo, Guillaume Faye fue quizá el primero en identificar en los Derechos Humanos la doctrina sincrética y final de la tendencia humanista, que el marxismo no ha sabido ser, y que representa el punto de convergencia final, post-ideológico, de todas las corrientes laicas y religiosas en las cuales tal tendencia se ha subdividido después de su afirmación en Europa con el edicto de Teodosio y la derrota de los sajones. El "especial" publicado al respecto por uno de los números de "Elèments" constituyó la inspiración para mi tesis de licenciatura, que después constituyó el núcleo de mi libro publicado con el título "Indagine sui Diritti dell´Uomo" (3) (L.Ed.E., Roma 1985), prologado por Julien Freund, y el cual dediqué al propio Faye. Otra piedra miliar en el recorrido de Faye es la representada por la publicación del "Nouveau Discours à la Nation Européenne" (4), incitación fichteana a la reivindicación de la propia identidad, al redescubrimiento de la fuerza de Europa y a la revuelta contra la dominación extranjera y mundialista de nuestro espacio vital; obra que el autor logró ver publicada por una editora "oficial" (Albatros), con introducción de Michel Jobert, exministro de De Gaulle.

Y aunque hoy pueda parecer banal, debemos a Faye la definitiva liquidación, en "L´Occident comme déclin" (5), de una confusión que hacía todavía a finales de los años setenta a los cantautores nacional-revolucionarios glorificar a la "civilización occidental", mientras algunos epígonos franceses de aquellos que habían combatido en Normandía contra los americanos aún denominaban "Occident" a uno de los pocos movimientos políticos con una cierta importancia. Igualmente, fue nuestro autor el primero en reproponer, en oposición tanto al progresismo ingenuo como al rechazo tradicionalista y neolúdico, la visión faústica de la técnica, relacionándola con la sensibilidad postmoderna que lucha por emerger en la cultura contemporánea ("Hermes, le retour du sacré". Ed. Le Labyrinthe). Siempre a Faye debemos, además, el clarividente análisis sociológico sobre "La Nueva Sociedad de Consumo", o el relanzamiento de modelos económicos alternativos basados en los grandes espacios continentales autocentrados y semiautárquicos (ver el artículo "Por la independencia económica", publicado en italiano por "l´Uomo libero" n. 13). Y podríamos continuar extendiéndonos, empezando por sus traducciones en esta misma revista que pueden consultarse en el sumario de números atrasados.

Por lo demás, frente a mi experiencia directa de la realidad italiana que se distinguía en asociar paradójicamente "fraccionismo" y conformismo, la acción de Faye en el ámbito de la Nueva Derecha conjugaba hasta el extremo disciplina y libertad de espíritu, por cuanto él mismo es uno de los pocos en recoger verdaderamente, junto a otras "piedras en el estaño", la invitación a intensificar el "debate interno" –concepto que ha preocupado durante un cierto periodo a los espontáneos del movimiento, obsesionados con la idea de devenir, o ser percibidos como, una "secta".

Entretanto, había llegado el tiempo de las intervenciones críticas sobre la cuestión religiosa y sobre la postura del GRECE en esta materia.

En efecto, la experiencia común mostraba que cuando en el neo-paganismo la partícula "neo" es gradualmente olvidada, fácilmente aparece la obsesión por la "positividad" y la "legitimación".

Después de todo, mientras es perfectamente posible ser el único, o el último, cristiano, musulmán o judío del mundo, la "religión", desde el punto de vista pagano, es aquello que "liga al conjunto" de un pueblo y a éste con sus orígenes. Pero, desde el momento en que el paganismo innegablemente no es una religión positiva, o bien se tiene el coraje trágico y zaratrustiano de intentar conscientemente la creación de formas originales y de nuevas "normas de valores", ciertamente inspiradas en el pasado que se reclama, pero precisamente por ello distintas, o bien es absolutamente central la búsqueda de una "legitimación" de cualquier tipo. Ésta, para los tradicionalistas evolianos o guenonianos termina regularmente por ser esotérica (los Sabios Ocultos, el Rey de la Montaña, la Tradición Oculta, etc.), cuando no termina por confluir en muchos casos en el Islam, en cualquier variante minoritaria del catolicismo católico u ortodoxo o, mucho peor aún, en los sincretismos vagamente masónicos o New Age.

Para el GRECE, sin embargo, como ya antes para el movimiento völkish de la Alemania de los años treinta, tal búsqueda de legitimación es, antes que metafísica, esencialmente sociológica, tendente a valorizar como "políticamente" importante cualquier fósil de creencia o hábito popular del cual se pueda hipotetizar un origen autóctono, precristiano o simplemente a-cristiano, desde la "fiesta del conejo" a las "estatuas de la felicidad" y otros folklores.

Respecto a todo ello, fue nuevamente Faye el reivindicador, mediante un famoso artículo en "Elements", de las razones de un paganismo laico, solar y postmoderno, abiertamente nietzscheano, distiguiéndose netamente de la obsesión de la "ninfa en su capullo" y de las manías de un "catolicismo a la inversa" de muchos conspicuos componentes de la Nueva Derecha, condicionada así por la rivalidad con las confesiones cristianas que a veces terminaban por remendar.

Artículo profético respecto a la más tardía "evolución" de un De Benoist, el cual, comenzando desde un interés hacia el empirocriticismo y la epistemología russelliana o popperiana, acabó paradójicamente, después de su libro "¿Cómo ser pagano?" (6) y tras un paréntesis heideggeriano, discutiendo con cristianos y judíos sobre metafísica y valores comunes de matriz sustancialmente neoplatónica o neognóstica, sobre cuya base poder atribuir la palma de la superioridad moral a Séneca o a Pablo de Tarso como oponentes de la secularización (ver, por ejemplo, su obra sobre "L´éclipse du sacré" ) (7). Si alguien desea ver los detalles del fin de un sueño no tiene más que leer las páginas de la nueva y extensa introducción de Robert Steuckers a "El sistema contra los pueblos", añadida a la mía en la última edición ya citada del libro de Faye.

A finales de 1986 la crisis anunciada por Giorgio Locchi ("todo lo que está de moda pasa de moda…") llegó a su maduración. Los animadores originales del GRECE, cuando no han sido simplemente recuperados por el Sistema, se encuentran reducidos por un lado a una dimensión de puro testimonio y, por el otro, son cada vez más marginalizados por la realidad de la vida cotidiana de la asociación, dedicada a burocráticos empeños de recolección de fondos para pagar al personal dedicado a recoger fondos… en una degeneración estilo Cienciología. Otros han decidido jugar la carta del Frente Nacional de Le Pen, en su tiempo duramente ridiculizado y ahora en posición de ridiculizar a su vez a la Nueva Derecha, que ya no es percibida como un sujeto dotado de un proyecto histórico o político y aparece reducida a un simple productor de conferencias y publicaciones con ambiciones limitadas.

Los temas de las publicaciones del área (en sustancia "Elèments", "Nouvelle Ecole" y su réplica de infeliz título "Krisis") cada vez son más refinados y literarios. El mismo Alain de Benoist, en una especie de regresión romántica, confiesa a Faye, a mitad de los años ochenta, estar cada vez más interesado en las "imágenes" antes que en las "ideas", hasta el punto de que éste último, en una conversación privada conmigo mismo durante el mismo periodo, describe la contraposición entonces presente en el ambiente como la de los "germanómanos no sobrehumanistas frente a los sobrehumanistas no germanómanos". Entre las consecuencias de tal deriva cabe destacar la extremización de las operaciones consistentes en el reclamo y valorización de los más estrafalarios componentes y sectores de la Revolución Conservadora alemana, por cuanto puedan alabar cualquier disidencia frente a los regímenes fascistas de los años treinta. Es más, era progresiva la concentración sobre temas de carácter sustancialmente histórico, literario y mítico, a despecho de las grandes argumentaciones de naturaleza sociológica, tecnocientífica, política, económica, sobre las cuales, en los años precedentes, el movimiento había tomado posiciones fuertemente originales e innovadoras.

Frente a la creciente presión de la censura y del "pensamiento único", el movimiento responde, por lo demás, con un creciente silencio sobre temas decisivos, paradójicamente acompañado de una constante irrigación de los temas secundarios y por "fugas hacia delante" difícilmente comprensibles para el público propio, como el guiño de ojos a un filosovietismo a lo Jean Cau, del todo onírico y prontamente liquidado por la evolución histórica. También por la incapacidad de no hacerse un hueco en las antítesis del debate político (nacionalismo-cosmopolitismo, liberalismo-socialismo, aborto sí aborto no, ecologismo-antiecologismo, feminismo-antifeminismo, imperialismo-anticolonialismo, comunismo-anticomunismo, etc.), por pretender imponer los propios, pero que se transformará o bien en una incapacidad de tomar posiciones sobre los problemas centrales de nuestro tiempo o bien en un gusto por la batuta brillante y por los eslóganes con fin en sí mismos.

Toparon después con el peine los nudos de los errores políticos y propagandísticos cometidos. El primero de todos: la obsesión con evitar ser presos de cualquier suerte de "internacional negra", y la falta de compresión del potencial de una dimensión verdaderamente internacional, más fácilmente accesible; por ejemplo en términos de capacidad de superar las crisis locales contingentes, de disminución de la vulnerabilidad a la represión y al "black-out" mediático, de movilización mítica de los militantes. Secundariamente, pesó muy negativamente el progresivo vacío de la función central del GRECE (presa del micro-leninismo de los funcionarios antes descritos, siempre más asfixiantes en su tentativa de sobrevivir a sí mismos en su improductividad metapolítica) a favor de una supuesta "corriente" y "comunidad", de cuyos confines e identidad, por cuanto indefinidos, se hipotetizaba que eran los mejores para mantener la riqueza, variedad u organicidad típicas de los grandes movimientos culturales, y sobre todo para evitar los golpes de la reacción, penetrar en los ganglios del poder cultural y evitar la temida "transformación en secta". En fin, al final terminó insostenible para muchos la ambigüedad respecto a los temas de la política real, cuyos contenidos eran justamente rechazados como inesenciales, pero que terminaron condicionando negativamente al movimiento como una suerte de "angelicalismo" y de "neutralidad" en toda materia, dada las posiciones públicas de Alain de Benoist, quien había rechazado en los años setenta, patrocinado por Maurizio Cabona, asumir la titularidad de una firma en el "Candido" de Giorgio Pisano, revista no precisamente arcádica.

Esta involución no pudo remediarla por si solo Guillaume Faye, con una incesante animación de iniciativas siempre más personales y "paralelas" –desde las transmisiones radiofónicas de temática postmoderna "Avant-Guerre", hasta la creación de siglas y actividades –como "l'Institut des Arts et des Lettres" (Instituto de las Artes y las Letras) o el "Collectif de Réflexion sur le Monde Contemporain" (Colectivo de Reflexión sobre el Mundo Contemporáneo)–, llevadas adelante sin un sueldo, un apoyo o un patrocinador, y contempladas con indiferencia, suficiencia y creciente hostilidad desde los vértices del movimiento, aparentemente cada vez más interesado, cuando no se ocupaba por la contabilidad, por las mistificaciones del arte moderno, la poética sobre los elfos en la Sajonia del siglo XV o los "decisivos" debates con Thomas Molnar sobre la cuestión de si lo divino se expresa "en" el mundo o "a través de" el mundo.

El abandono final de Faye devino así –junto con la muerte de Locchi, por lo demás ya aislado del movimiento muchos años antes, en el aparente ocaso de la Nueva Derecha– el símbolo de la conclusión de un ciclo, y el inicio de un periodo de relativa desmovilización en toda Europa, que vió a algunos refugiarse en la política tradicional, a otros en el ámbito de lo privado, y a muchos en confortables "capillas" locales con contactos externos cada vez más reducidos. Sin animar las escisiones, sin intentar apuntalar un flanco ni señalar una dirección, sin mucho menos "convertirse" a lo Marco Tarchi, Guillaume Faye se retira durante un decenio a la sombra, mientras el GRECE, naturalmente sin pagar derechos de autor, continúa utilizando sus escritos, no sin tolerar ciertos rumores según los cuales Faye estaba loco, tenía el cerebro embrutecido por la droga o había sido reclutado por la CIA.

En este escenario, su re-emersión, a finales de los "malditos" años noventa que vieron el derrumbe de tantas esperanzas y el triunfo del Sistema mundialista inútilmente denunciado y combatido con increíble clarividencia, no pudo sino representar para mí un presagio de buen augurio, y un estímulo para una re-movilización de cada uno, con el acostumbrado "pesimismo de la razón, optimismo de la voluntad", que no es sino la lógica del que no puede hacer otra cosa y no puede sino encontrar una dimensión existencialmente atractiva en la sola propia vida cotidiana, profesional y familiar.

Que los diez años no habían pasado en vano está bien ilustrado por la aparición del ensayo sobre "El Arqueofuturismo" (París 1998, L'Aencre, 12 rue de la Sourdière) (8), que en trescientas páginas diseña un balance comprensivo de treinta años de debate político y cultural europeo, de la sociología de la concertación a la política y el significado cultural del deporte, del cine y la música a la genética y la homosexualidad, de la inmigración y la globalización a los modelos económicos, la religión y la ecología, para concluir con una "novela" arqueofuturista que constituye una sugestiva continuación al prólogo de "El Sistema contra los pueblos": si entonces se trataba de una figuración, durante una época considerada "paradójica", de cómo el mundo estaba en efecto a las puertas de su transformación con la victoria mundialista, ahora se trataba de la descripción de un mundo inversamente transformado en un escenario "arqueofuturista", en donde también tenía su pequeño puesto un… descendiente directo mío en la Milán del año 2073.

Como siempre, la mirada penetrante de Faye diseña nuevas pistas ya antes batidas, une lo impensable, despedaza los ídolos y los tópicos del pensamiento hegemónico, combate el conformismo… del pensamiento anticonformista, ayudando a cada uno de nosotros a pensar hasta el fondo todo aquello que ya piensa. La ruptura con la Nueva Derecha, de cuyas experiencias diseña un balance equilibrado y al margen de toda lógica de resentimiento personal que pudiera tener miles de justificaciones, hace ahora más libre el análisis tanto de las tendencias dominantes (respecto a las cuales destacan las cautelas del "political correctness" presentes en tantos escritos del movimiento) como de las carencias del mundo que ha buscado defenderse y afirmarse en oposición a ellas, desde el redescubrimiento de las identidades regionales a la defensa del cine nacional desde una oposición política militante.

"El Arqueofuturismo" fue continuado, por la misma editorial, por una reedición corregida y aumentada" del ya citado "Nouveau discours à la Nation Européenne", seguido a su vez por "La colonisation de l´Europa – Discours vrai sur la Colonisation et l´Islam" (9), que representa uno de los más interesantes estudios publicados en materia de política demográfica, inmigración y colonización de nuestro continente.

Decimos "estudio" para subrayar el grado de profundización, pero también insólito en cuanto al argumento y el trato. Aunque no será ciertamente una sorpresa para los lectores que conozcan al autor, es necesario precisar que las intenciones del libro no son precisamente "inocentes".

"Son muchos los que intentaron disuadirme de escribir este libro. Me avisaban con argumentos del tipo: No es necesario decir las cosas como son. Es peligroso, ¿Entiendes? Hubieras podido escribir un ensayo ilegible y pseudofilosófico, o vagamente sociológico, sobre las virtudes comparadas de la asimilación, la integración y el comunitarismo. Pero el intelectualismo burgués no me interesa (…) La apuesta de la disidencia es hoy la más fecunda. Ésta es la del pensamiento radical… Se trata de retornar –lejos de todo extremismo– a las raíces de las cosas, y atacar las cuestiones fundamentales de la época. No se debate del sexo de los ángeles cuando los bárbaros asedian Constantinopla. Ahora bien, la cuestión principal de la época es la más visible y a un tiempo la más clandestina, aquella de la que todos hablan pero que no es abordada sino con medias palabras y en voz baja, es decir la colonización demográfica que sufre Europa por parte de los pueblos magrebíes, africanos y asiáticos y se acompaña con una empresa de conquista del suelo europeo por parte del Islam. No es una curiosidad política, es un advenimiento histórico clamoroso, sin precedente alguno en la historia europea por mucho que queramos alargar la memoria. Se trata ante todo de tomar acto, de desvelar a las conciencias este hecho capital. No para admitirlo ni para mejor "convivir", sino para rechazarlo y abrir el debate sobre la manera de combatirlo e invertir su marcha (…) Es urgente. La casa está en llamas. No se trata de hacer folklore, ni de insultar, ni de profundizar en delirios odiosos, ni de un racismo de portería. Se trata de afirmar. De afirmarse con rigor y con determinación y defender el derecho imprescindible de los europeos a continuar siendo ellos mismos, un derecho que se les niega mientras le es reconocido a todos los otros pueblos del mundo… El tiempo de las prudencias metapolíticas ha terminado". Y el autor concluye: "En este libro preconizo la guerra civil étnica y apelo a la Reconquista".

Podemos continuar. El libro contiene gran cantidad de datos, anécdotas, análisis, refutaciones, puntos que desenmascaran la censura de desinformación del Sistema sobre el tema, que denuncian la gravedad calamitosa de las consecuencias socio-politicas y socio-económicas que se anuncian, poniendo en vereda las ilusiones de controlar el fenómeno y las "ilusiones" prefabricadas sobre las cuales debate la "política politicante".

Contiene también numerosas provocaciones, fecundas y desalentadoras también respecto a ideas o temas dados por descontado entre los opositores al mundialismo. Leemos, por ejemplo, respecto a los pueblos del Tercer Mundo: "No somos nosotros quienes han "destruido sus culturas", como pretenden los defensores –en el fondo rousseanianos y adeptos del mito del buen salvaje– del etnopluralismo, ya sean de derecha o de izquierda. ¿Después del paso de los europeos, las culturas árabe, índia, china, africana, etc., se han cancelado y desaparecido? Para nada. En realidad han quedado mucho más vivas y mucho menos occidentalizadas y americanizadas que las pobres culturas europeas". O aun más: "En general, el pauperismo de muchos países del sur del mundo no es la consecuencia del colonialismo o del neocolonialismo, sino de la incapacidad de hacerse cargo de sí mismos, aun cuando posean inmensos recursos naturales. También yo he pensado que el colonialismo europeo era cínicamente responsable, por gusto del beneficio, del pauperismo del Tercer Mundo. Es una visión intelectual que abandoné hace tiempo".

Otra tendencia de un cierto fenomeno en Italia, de la cual el libro hace sumariamente justicia, es aquella que Faye había liquidado junto a la Nueva Derecha de los inicios de los años ochenta, pero que ahora resurgía a caballo de su involución neotradicionalista. Hablamos de la tendencia a afirmar la existencia de una Tradición fundamentalmente unitaria, metacultural y metarracial por cuanto metafísica, de la cual Europa habría participado en el pasado, "paritariamente" (según el Evola de postguerra), o "parasitándola" del Oriente (como dice Guénon), y cuyos vestigios sobrevivieron eventualmente en otro lugar. Es obvio que el "antimodernismo" de tales corrientes no es en absoluto suficiente para fundar teóricamente una praxis política y metapolítica de oposición a la globalización. En conjunto, no representan sino una variante "invertida" del progresismo linealista, universalista y homologador del Sistema, en la común indiferencia a las tradiciones concretas y plurales y a la conservación y desarrollo de las identidades irreductibles de las cuales está compuesta la especie humana, indiferencia fundada sobre una supuesta "unidad trascendente de todas las religiones", así como de todas las razas y culturas (que representarían, a lo sumo, grados diversos en una jerarquía de valores comunes, o de decadencia irresistible).

Aún más. Faye es muy claro en reivindicar los límites de la tolerancia "politeísta" al Otro-en-sí, límites por lo demás bien presentes también en la reacción de la romanidad más conservadora y menos decadente, de Nerón a Celso y Juliano, contra la intolerancia y el sectarismo de importación medio-oriental que habia llegado para pervertir la identidad etno-cultural del Imperio. Sobre un plano más político, otro tema subyacente a todo el texto contenido en "La colonización de Europa" es la implícita visión identitaria que hace forzosamente diferentes las naturalezas de los movimientos migratorios internos, intraeuropeos, y la colonización por parte de las poblaciones foráneas.

Es este un aspecto que merece ser resaltado en nuestro país (Italia), donde los obispos predican la inmigración de asistentas y trabajadores filipinos, "bravos católicos", y donde todo transexual mulato brasileño encuentra trabajo rápidamente en las calles tras desembarcar con un visado de turista en cualquier aeropuerto nacional, mientras las raras "exhibiciones de fuerza" del régimen son reservadas a croatas, albaneses, búlgaros, yugoslavos, rechazados de cuando en cuando al mar con sus mujeres e hijos, concentrados a la Pinochet en los estadios por orden del ministro del interior, ¡mientras su gobierno discute la admisión en la Unión Europea de Israel y Turquía!

Los mismos procesos lingüísticos en uso tampoco son inocentes. La imposición por parte de los "media" y del lenguaje burocrático del término "extracomunitario" (término nunca aplicado a los suizos o americanos, y que en sustancia significa "de color") es absolutamente elocuente de la tentativa de acreditar una pretensión común de pertenencia económico-comunitaria y promover una "solidaridad" implícita, pongamos por caso, con un jamaicano de ciudadanía británica o con un nacional de religión judaica, en contraposición a la pretendida "extrañeidad" nacional de un húngaro o de un croata. También esto sirve para negar y dividir la identidad europea, facilitando su fagotización. Por lo demás, el libro de Faye es sobre todo una invitación a la reflexión, a la toma de posiciones y al debate. "Las tesis que sostengo no son dogmas. Llevar el debate hasta las cosas esenciales, electrizar las consciencias, éste es mi único objetivo. Soy un provocador. Informaos sobre la etimología latina de este término".

Por ello recojo la invitación del autor continuando un diálogo personal y a distancia que dura ya, al menos, veinte años, tomando posiciones sobre algunas de las cuestiones por él levantadas.

Un punto sobre el cual Faye, yo, y lo que resta de la Nueva Derecha estamos absolutamente de acuerdo es en la crítica y el rechazo del asimilacionismo, o del denominado "racismo integracionista". La procedencia francesa de la más fuerte denuncia de esta tendencia, sea en sus formas explícitas y conscientes como en sus formas latentes, es más que significativa. Francia es, en efecto (aunque en medida menor que los Estados Unidos) la patria de elección de la ideología integracionista más dura. Ideología abstracta, irrealista, que prolonga el monoteísmo político del jacobinismo y encuentra su mismo origen en la Francia de los Cuarenta Reyes, de la Revolución y del rechazo al modelo imperial, a favor tanto de la negación tanto de las realidades políticas, étnicas y culturales supraordenadas, como de las mismas nacionalidades diversas alojadas en el "Hexágono" francés, reprimidas y canceladas durante ochocientos años con una dureza y sobre todo con una tenacidad que ha tenido pocos iguales en Europa.

Tal tendencia se refleja inmutable en la política y la cultura colonial francesa, aunque otros colonialismos no han sido inmunes. Pero el italiano o el alemán, por ejemplo, estaban poseídos por la idea de expansión imperial, y el anglosajón era en el fondo la expresión de un instrumento mercantilista de una clase de aventureros que marchaban de sus comunidades locales para recrear caricaturas periféricas e impermeables de la sociedad inglesa en la jungla de Borneo o en la sabana africana. Francia, sin embargo, devino el escenario de los prefectos, de los burócratas y de los gendarmes encargados de la administración de los territorios y dominios de ultramar según el modelo centralista del Estado-nación, con su séquito de instructores que enseñaban a los pequeños senegaleses a repetir en coro: "Nuestros antepasados, los galos, eran altos y rubios" ("Ils étaient grands, ils étaient blonds, nos ancétres, les Gaulois"), y a apreciar las virtudes republicanas.

Esta tendencia, más difusa en su versión "humanitaria", "misionera" y "redentora", habita todavía profundamente, en su versión "dura", también en el espíritu de cierta derecha francesa, especialmente gaullista (por ejemplo, Charles Pascua o Alain Griotteray), gracias a una claramosa afirmación del principio sacrosanto según el cual un pueblo no es (sólo) una raza, sino sobre todo un proyecto común al que cualquiera -- independientemente de su origen étnico -- puede unirse. El "asimilacionismo forzado" no es tampoco extraño a ciertos ambientes italianos que se declaran de algún modo antiimigracionistas o, como mínimo, favorables a un control de la inmigración, particularmente a algunos componentes del ambiente legista.

La variante práctica y menos intelectualmente pulida de esta inclinación corresponde, por lo demás, a las versiones pequeño-burguesas y "de derechas" de la nostalgia de "un" proletariado, sea cual sea, del cual se siente evidentemente su ausencia. ¿Cuántas veces hemos oído decir: "El huésped debe respetar las reglas de la casa", o "No tengo nada contra los inmigrantes, siempre que respeten las leyes / hablen nuestra lengua / hagan un trabajo honesto / se comporten como los demás / no sean molestos / hagan la comunión todos los domingos / se vistan como nosotros / se comporten como "personas civilizadas", con segundas intenciones más o menos alucinatorias sobre la posibilidad, mejor dicho el derecho, de convertir al inmigrante extra-europeo en alguien "como nosotros", pero deseablemente más gentil y amable, dispuesto a trabajar en el mercado negro, a bajo coste y a tiempo indefinido, a prestarse para realizar "los trabajos que los europeos ya no quieren hacer"?

Al contrario, la realidad nos dice que el asimilacionismo solo puede funcionar al límite únicamente con minorías demográficamente insignificantes y étnicamente próximas. Pero en el resto de los casos no es sino una vía acelerada hacia el mestizaje cultural, también para los "asimiladores", y a la perdida brutal de la identidad de los inmigrados, de sus pertenencias y reglas comunitarias y, necesariamente, hacia una militarización creciente de la sociedad, ya que la integración forzada, cuando no es causa de una definitiva destrucción de la identidad de los ingredientes (de los alógenos y de los autóctonos), solamente puede ser mantenida por medio de una presión constante, sustancialmente policíaca.

Partiendo de los grupos espontáneos que se forman según el orígen en las aulas escolares hasta la composición del panorama urbano, los grupos etnoculturales tienden sin embargo a separarse como los componentes de una emulsión de agua y aceite, hasta el punto en que, cuando los "blancos" devienen ya irrelevantes, explota la rivalidad étnica, ahora con mayor intensidad, entre los etíopes y los egipcios, los nigerianos y los senegaleses, los cubanos y los puertorriqueños. Un famoso cómic de Lauzier muestra una mujer blanca de la periferia parisina, siendo entrevistada por un periodista de "Le Monde" sobre el racismo: "Ah, sí. Tenemos un grave problema en nuestro barrio con la intolerancia entre los bantúes y los mandingos… ¿Cómo dice? ¿Con los franceses?. No. Nadie nos hace caso, somos tan pocos…"

La misma particular crueldad de la guerra de Argelia refleja, por lo demás, la intolerancia y la incomprensión jacobina de los motivos por los cuales algunos "franceses" de ultramar pudieron, llegados a un cierto punto, tener ciertos motivos para rebelarse y traicionar a la "patria", puesto que la piel, la religión, usos, lengua y geografía no eran sino accidentes privados de peso en la visión idealista, abstracta y burocrática de la patria del gobierno francés de la epoca.

Un equivalente contemporáneo de la ideología colonialista de modelo "francés" es la idea, ya no inaudita en Italia, ya no sólo en los ambientes legistas, sino ahora también presente entre el electorado de "Alleanza Nazionale" (10) y de los partidos católicos del Polo, de acoplar un eventual y veleidoso "control" o "limitación" de la inmigración con la nacionalización forzada de los inmigrantes y de las poblaciones étnicamente extrañas que han adquirido ya la ciudadanía, a base de peticiones populares contra la edificación de mezquitas, del monolingüismo obligatorio o de la prohibición del uso del chador (hasta el punto de poner en cuestión la tolerancia de siempre hacia las monjas católicas). Actitudes que reproducen exactamente tanto la represión centralista tradicional contra las minorías autóctonas –especialmente en Francia (como bien saben corsos, vascos, bretones, normandos, occitanos…), pero también en nuestro propio país (caso del Tirol Sur)– como el tipo de ideología "colonialista" antes descrita, que en este caso sería aplicada a una especie de "re-colonización" puramente ideológica, prescindiendo del elemento etnodemográfico… del propio territorio nacional, y/o de la "mano de obra" cuya importación ha sido ya diseñada.

Así, al contrario que en la perspectiva "imperial" diferencialista, italo-alemana", en la perspectiva del "racismo asimilacionista" francés, la hibridación y el mestizaje no son solamente irrelevantes, sino incluso fenómenos positivos en cuanto conducen, en tal visión, a la "absorción" y a la "conversión", ayer del "colonizado", hoy del inmigrante, hasta transformarles en "ciudadanos" de la "república". Ahora bien, es fácil notar que tal punto de vista no es sino la versión "nacional", "politizada" y autoritaria de la globalización y homogeneización planetaria impuestas por el Sistema, tal y como la revolución francesa y Rousseau fueron las versiones locales de la revolución americana y de Locke, respectivamente.

Esta actitud es ciertamente "racista", en cuanto toma en cuenta la identidad cultural y étnica del Otro para abolirla e integrarla en un modelo propio, pero no tiene nada que ver con el pensamiento identitario europeo (ni africano, japonés, etc.). La demostración de la absoluta confusión mental que reina al respecto es la dada por las definiciones en términos de "limpieza étnica", con referencias más o menos explícitas al nacionalsocialismo (!) de la supuesta política de violaciones en masa desarrollada en Yugoslavia, cuyo resultado en términos procreativos, obviamente, no podía sino ser diametralmente opuesto a cualquier objetivo de defensa o "purificación" de la identidad étnica de los violadores. Aquí, ahora, nos encontramos entre grupos que, entre fuertes rivalidades históricas, y por ello entre una inevitable acentuación polémica de las diferencias existentes, viviendo en la misma región durante siglos, y presentando durante siglos un fuerte cruce de componentes políticas, lingüísticas, genéticas, religiosas, etcétera, que no tiene nada que ver con la hipotética convivencia, viviendo en los mismos barrios y en los mismos edificios comunales, con poblaciones provenientes de todos los posibles extremos del espectro ofrecido por la especie humana y por la geografía.

Así, el asimilacionismo "de derechas" aún piensa en celebrar sus propios complejos de superioridad en el intento de forzar a los inmigrantes (que creen poder importar "por encargo", según las necesidades coyunturales del momento) a convertirse en… caricaturas de los europeos, con la idea de tener una propia reserva de esclavos a su pronta disposición; exactamente como el asimilacionismo católico-comunista (11), en el fondo, contempla con buenos ojos la inmigración en su idea de convertir a los extraeuropeos a la democracia, al humanitarismo y a las religiones locales, con la idea de tener a su disposición una buena masa de desarrapados que puedan cambiar la vacilante fortuna de sus estructuras militantes.

Es casi inútil revelar cómo, en el mejor de los términos, los resultados son contrarios a los esperados por los mismos aprendices de brujo, puesto que el intento de asimilación forzada de importantes flujos migratorios fuertemente heterogéneos genera en realidad, aun más que la política "multicomunitarista" de la sociedad a manchas de leopardo sobre la cual hablaremos, costes sociales (y también, al final, costes económicos) espantosos, odios y enfrentamientos raciales, así como sociedades depauperadas, policíacas, asustadizas, híbridas, perdidas, confusas, violentas, en las cuales no tienen un gran peso los intereses de la burguesía blanca ni los valores "biempensantes", y en las cuales la política se transforma en una cuestión de simple pertenencia de tipo tribal.

La explosiva situación francesa de nuestros días reproduce por lo demás, "mutatis mutandis", el profundo cambio verificado en los últimos veinte años en el país que hizo del "melting pot" su mismo mito de fundación: los Estados Unidos de América, en donde las mismas "minorías", o menor los componentes étnicos menos favorecidos, tienden a re-ghettizarse, recreando comunidades homogéneas en difícil convivencia o en abierto conflicto con sus vecinos, dotadas con una vida social propia, civil y religiosa, con una propia economía local más o menos en los límites de la legalidad y la ilegalidad, con sus propios líderes, etc.; y en las cuales la "integración" tiende, cuando no al nivel del mero discurso teórico, a refugiarse en las provincias declaradas como "zona franca" y en las instituciones comunes, como las fuerzas armadas, los "show-business", el deporte profesional, etc., antes que permear la vida cotidiana de las masas de población.

Con algunas significativas diferencias, que Faye es el primero en recordar. Primera entre todas: que los Estados Unidos, a diferencia de los países europeos, se han dado forma a sí mismos a partir del rechazo colectivo de la identidad y de las pertenencias orgánicas (también aunque, como se ha dicho, reemergen constantemente), rechazo que constituye la misma razón de ser de un país que goza de recursos y espacios inmensos no sólo en sentido geográfico, espacios donde poder difuminar las comunidades étnicas, religiosas, etc., y donde pueden permitirse, al menos fuera de los grandes conglomerados urbanos, unas condiciones de relativa segregación; un país donde la naturaleza compuesta de su base social ya conoce una inmigración, legal o clandestina, fuertemente limitada y organizada sobre la base de un sistema de cuotas, y no una invasión salvaje de desesperados alógenos; un país, en fin, cuyo poder de "reducción" y de "control" de la identidad por parte del Sistema es el más eficaz del mundo, gracias en parte a los enormes medios que dispone el poder local, y gracias también a su dominio sobre el resto del mundo.

Por no mencionar el hecho de que la sociedad americana es mucho más brutal y pragmática (cosa por cierto normal para una sociedad de "pioneros", o cuando menos de sus herederos) frente a todo cuanto nos gusta pensar, o sea tolerar, en Europa. Con un sistema judicial ciertamente en mucho sentidos más "garantista" que el nuestro, el ciudadano americano convive perfectamente no tanto con una pena de muerte rara y tardíamente aplicada sobre todo por costosa (los gastos por los procedimientos relativos se cuantifican en varias decenas de miles de dólares por cada ejecución), sino mucho más concretamente con una población carcelaria en proporción diez veces superior a la italiana o la francesa, con un derecho penal basado en penas elevadísimas, y con métodos de control social –dada la inexistencia de una previsión digna de este nombre en lo relativo al comportamiento práctico sobre el territorio de los "vrai law enforcement officers"– cuando menos sospechosos para nuestros actuales "standards".

Igualmente es digna de mención la crítica radical de Guillaume Faye a las posiciones respecto a los problemas consecuentes de la colonización de Europa por la Nueva Derecha actual, cuyos exponentes, hoy, como alternativa a la entropía socio-cultural y a la desnaturalización de la civilización europea, proponen el fantasioso escenario de una sociedad multiétnica y comunidades diferenciadas, cada una de ellas enraizada en la propia identidad específica, ¡sobre… territorio europeo!

Así, la revista "Eléments" (n. 91, 1998) publicó un dossier titulado "El desafío multicultural", con una mujer magrebí velada en la portada gritando con megáfono frente a la sede de la CRS (policía francesa) en claro disturbio de orden público. Tal "dossier" está perfectamente citado en "La colonización de Europa", en donde las críticas van dirigidas sobre todo al título, pero no sólo.

Ya la palabra "desafío" dice el autor, sugiere que la inmigración en masa, la colonización demográfica que sufrimos, sea un desafío a aceptar, un dato al cual hacer frente para adaptarse. "Esto es fatalismo y etnomasoquismo. Es más, ¿por qué decir "multicultural" cuando el problema es multirracial y multiétnico? ¿Por qué cancelar esta dimensión antropo-biológica y religiosa de la inmigración, cuando nos encontramos frente al arribo masivo de poblaciones radicalmente alógenas y de un monoteísmo teocrático, el Islam, y no frente a la aportación "arriesgada" de "nuevas culturas", como infelizmente sugiere "Eléments"?

Esta actitud conduce objetivamente a travestir la realidad volviéndola neutra, "simpática", aceptable, a hacer pasar una colonización agresiva por una presencia pacífica y fraterna de "otras culturas". Se llega así a la afirmación del discurso de la izquierda y del episcopado francés: la inmigración sería una riqueza (cultural, etc.) para Europa. "Encuentro un pecado que los intelectuales de la Nueva Derecha actual hayan caído en semejante trampa. Como si el multiculturalismo no fuese ya una riqueza europea autóctona, como si tuviésemos necesidad imperiosa de afromagrebíes y musulmanes… para enriquecer nuestro natural pluralismo de identidades entre los europeos"

Según el editorial del número en cuestión de la revista, "como todo fenómeno postmoderno, el multiculturalismo… busca conciliar la memoria y el proyecto, la tradición y la novedad, lo local y lo global; representa una tentativa de sustraerse a la homogeneización institucional y humana" realizada por el Estado represivo y terapéutico. El multiculturalismo y el "comunitarismo" (en el sentido de promoción de la constitución y mantenimiento de comunidades diferenciadas por razones de pertenencia) podrían así "facilitar la comunicación dialogadora y por ello mismo fecunda entre grupos claramente situados los unos respecto de los otros", y ofrecerían "la posibilidad, para aquellos que lo auspician, de no deber pagar su integración social con el olvido de sus raíces". Ahora bien, se pregunta Faye: ¿pero porqué deben afirmar sus raíces aquí, entre nosotros?

Ante un relieve tan obvio, reforzado por la fácil constatación de que ningún país europeo, incluyendo a aquellos con fuerte emigración, sueña con consentir a otros pueblos, constituidos como tales, intentar nada semejante sobre el propio territorio, podemos añadir que tal visión, por mucho que pueda aparentar ser "moderna", "realista", "constructiva", "sin prejuicios", resulta en realidad fatalista, conservadora y, sobre todo, perfectamente irreal. A toda inmigración corresponde necesariamente una emigración, que empobrece, destruye y altera los equilibrios naturales y las tradiciones de la cultura de procedencia, tanto en el país abandonado como obviamente aun más en la población que se transfiere. Con toda la simpatía por los esfuerzos de los emigrantes italianos para conservar una identidad en los países de acogida, no creemos que nadie pueda probar nostalgia por los países vaciados y abandonados a los viejos, los criminales, los parásitos, o por las parodias de "sociedad italiana" recreadas en las varias "Little Italy" que viven entre la tentación de integrarse y la tenaz conservación de hábitos privados de un significado que no sea puramente folklórico.

Por no hablar de la estaticidad de una tal visión, que no toma en cuenta los flujos aun en acto y su potencial capacidad de expulsar de su territorio a las poblaciones autóctonas, desde el punto de vista físico, demográfico y político. Faye cita a este propósito el ejemplo de Kosovo, cuna de la nacionalidad serbia y convertido objetivamente en albanés a pesar de los esfuerzos del régimen de Belgrado; pero tal ejemplo no nos parece apropiado, pues se trata de fenómenos que permanecen en un lugar en cierto modo superficial, puramente político o, a lo más, lingüístico. Un ejemplo más adecuado de aquello que la "sociedad multicultural" puede aportar a Europa sea quizás el aportado por la "enriquecedora" inmigración extra-americana a los nativos de América del Norte. ¿Acaso los amerindios no gozan de una sociedad "multicultural"? Sí, pero solamente si por tal definición entendemos la supervivencia de cuatro alcohólicos fumando el calumet para gozo de los turistas de la reserva, cuyos hijos hablan exclusivamente inglés en un 95% y expresan su propia identidad mediante el deseo de ingresar, en la escuela, en una banda de pandilleros puertorriqueños o chinos. Esta perspectiva, que según "Eléments" conciliaría "la memoria y el proyecto", no ofrece ningún espacio ni a la primera ni al segundo.

Ciertamente, es más "trendy", y también demagógico (al menos entre los mismos inmigrantes y los intelectuales de la "political correctness"), "tomar nota" del pretendido carácter "irreversible" de la repoblación ya en marcha, y hasta del fenómeno migratorio todavía en curso, y estudiar "soluciones" a partir de este dato.

La solución propuesta por la Nueva Derecha es por otra parte, en sus últimas consecuencias, exactamente aquella antes combatida bajo los nombres de Sistema, americanización, mundialismo o globalización. El desarraigo territorial, la proletarización, el despedazamiento de todos los lazos comunitarios e identitarios en los aspectos que cuentan verdaderamente (el Estado-nación, el pueblo, la región) encuentra una compensación puramente virtual, consoladora y consumista a nivel de parroquias, "reservas", escuelas para extranjeros, ghettos para emigrantes de similar procedencia, etc. Todo esto no es ni siquiera el modelo americano, donde existen comunes valores federales, como no sea en negativo; es más bien el modelo del apartheid, del "desarrollo separado de las culturas" de la memoria sudafricana, que no resultó demasiado bien para ninguna de las culturas implicadas, salvo quizás para los intereses de los círculos especuladores anglo-hebreos; es el modelo que de seguro no goza de ninguna buena prensa en Europa y en el Tercer Mundo, si ésta fuese nuestra preocupación principal.

No se puede eludir esta realidad haciendo poesía. Leemos nuevamente en "Eléments": "En los últimos treinta años, el mundo ha entrado en una nueva era marcada por la diseminación y la reticulación: las pirámides ceden el puesto a los laberintos, las estructuras a las redes, lo vertical a lo horizontal, los territorios a los flujos". La inmigración no sería sino un fenómeno postmoderno, parte de un proceso mundial, aceptable e ineludible, al cual sería ilusorio y reaccionario oponerse. Pero, sorprende que los autores del dossier eludan que tales ideas resultan impregnadas de determinismo y de un fatalismo en verdad sorprendente en un movimiento intelectual fundado en torno al rechazo de las visiones lineales, deterministas, providencialistas o progresistas, de la historia.

Como apunta Faye, esta visión traduce por lo demás una falta de perspectiva geográfica e histórica (el fenómeno en cuestión, a diferencia de la "globalización", contra la cual sin embargo se continúa combatiendo, no afecta a una escala global; y la experiencia del pasado es rica en ejemplos de intensos cambios que han conducido a la destrucción de la identidad y del tejido social de los protagonistas relativos). Ahora bien, por "anticolonialismo", este aspecto caleidoscópico, esta naturaleza reticular del mundo contemporáneo, parece atribuir un derecho de repartición y colonización del territorio y de la sociedad exclusivamente a las poblaciones extraeuropeas empujadas a transferirse entre nosotros, lo cual cuando menos es difícil de justificar. En fin, después de tanto hablar de "comunidad y sociedad", este discurso comporta la renuncia a ver realizada en Europa y en los singulares países que la componen una verdadera estructura comunitaria y orgánica, en favor, mas bien, de la implantación sobre nuestro territorio de una "sociedad multirracial de comunidades" más o menos utópicamente confederadas por un contrato social basado sobre puros intereses comunes.

Este género de tesis nace en realidad de dos errores. La primera, una deriva y un equívoco de fondo de carácter ideológico. "Se comienza", comenta Faye, "por defender con justo derecho una concepción politeísta de la sociedad contra el universalismo asimilador, el centralismo jacobino, el republicanismo igualitario que niega la comunidad orgánica y las diferencias en beneficio de un individuo abstracto, simple consumidor desarraigado y "ciudadano" desencarnado. Esta visión se opone al modelo americano (y francés) de Estado, cuyo "crisol" pretende homogeneizar los pueblos en una masa nacional eventualmente animada por un patriotismo abstracto, y en la práctica por valores cosmopolitas". Esta visión, sin embargo, intentaba en sus inicios una defensa de la identidad de los pueblos europeos contra el centralismo de los estados-nación primero, y contra el universalismo mesiánico y tecnocrático del Sistema después, que intentan eliminar las diferencias y las pertenencias; es una visión, sí, "plural", pero étnica y arraigada. Más tarde se desvía: el principio del etnopluralismo es exagerado, pervertido. Se olvida la noción de proximidad étnica. Se ponen en un mismo plano las sacrosantas reivindicaciones autonomistas de los bretones, los tiroleses, los escoceses, los vascos, los corsos o… los italianos del norte –reivindicaciones centradas en gran parte sobre el mantenimiento del control económico y estructural del propio territorio contra la amenaza de colonización– y la creación, nada más y nada menos, de espacios de contrapoder de comunidades inmigrantes instaladas sobre nuestro territorio.

Llegamos así al punto en donde Charles Champetier, siempre en "Eléments", llega a escribir: "En una sociedad pluriétnica, las culturas no deben ser solamente toleradas en la esfera privada, sino reconocidas en la esfera pública, en particular bajo la forma de "derechos colectivos" específicos de las minorías." Buen cuadro, en verdad. Si la difusión de tales tesis se extendiese improbablemente tanto a los ambientes de la inmigración como a nosotros los europeos de origen, una vez convertidos en minoría podremos (quizás) continuar regulando nuestros asuntos internos. Eso o simplemente extinguirnos, después de haber debidamente colaborado, con nuestro ejemplo de borregos, a la occidentalización y al suicidio cultural de los mismos inmigrantes. Y no esperemos que la tolerancia, o incluso la promoción, del poder de la comunidad inmigrante sobre sus propios miembros tenga efectos limitados sobre los desvíos criminales de éstos últimos. Las experiencias históricas de "política de ghetto" demuestran que tales expectativas son completamente utópicas.

Igualmente, el reclamo hecho a propósito por la actual Nueva Derecha al modelo imperial, al politeísmo político y al "derecho a la diferencia" un poco incoherente. Se trata, muy al contrario, de rechazar con la inmigración la reducción forzada de las diferencias y de las pertenencias arraigadas y plurales, impuesta por un monoteísmo práctico (el universalismo de los Derechos Humanos y del indiferentismo trámite de la folklorización, que en parte camina también con las piernas de los monoteísmos religiosos, en particular de variante islámica), desnaturalización niveladora que representa exactamente la negación de tal "politeísmo".

Particularmente mal elegido resulta en particular el ejemplo del Imperio romano, cuando precisamente la Nueva Derecha ha subrayado tantas veces las consecuencias de su trágica inclinación, a pesar de los ocasionales sobresaltos de conciencia, al considerar superficialmente al dios judeocristiano "un dios como tantos otros" y al concederle apresuradamente la ciudadanía.

Una segunda componente, casi más psicológica que ideológica, de este tipo de posiciones es la desesperada convicción de que la presencia de comunidades organizadas, tradicionalistas y antioccidentalistas sobre nuestros territorios limita el mestizaje (una especie de "confianza en el racismo de los otros") y pueda por ello inducir a los europeos a redescubrir, por contraste y por imitación a un mismo tiempo, la propia identidad.

Tal convicción no tiene ningún fundamento real. Ante todo, una componente significativa de la inmigración mira decidida y espontáneamente hacia la integración, y los matrimonios mixtos, por lo demás de media poco estables, se intensifican inevitablemente, así como se pervierten las lenguas y se alteran las costumbres. El mismo improponible sistema indio de las castas, trágica tentativa de una ínfima minoría conquistadora de no ser reabsorbida por las poblaciones conquistadas, muestra el inevitable fracaso de las políticas de este género; pero además, aquí no estamos frente a una comunidad estable, sino ante un aluvión migratorio incontrolado, aun en acto heterogéneo incluso desde su propio interior y poseedor de una dinámica demográfica superior a la de las poblaciones autóctonas.

En cierto modo, esta posición se asemeja a la postura puramente defensiva del extremismo "blanco" y boer sudafricano, que al final del régimen no apoyó sin embargo al gobierno "nacional", alegando: estamos aquí desde ocho o diez generaciones, somos una minoría; ¿en qué somos diferentes de los zulúes? Hagamos como ellos y transformémonos en una tribu celosa y custodia de los propios intereses colectivos, en competición con las otras tribus, en lugar de hacernos cargo de todos los "problemas" y del gobierno de la sociedad. Un nivel de replegamiento que, en la Europa contemporánea, parece todavía francamente excesivo.

Por lo demás, los inmigrantes que rechazan la asimilación suelen ser radicalmente antieuropeos –y por ello reclaman polémica y propagandísticamente temas identitarios con fines de su propia afirmación como grupo en nuestra sociedad, sea de forma política, intelectual, mafiosa o pandillera de barrio– sin necesidad de ser por ello antioccidentales en sus comportamientos y en sus valores prácticos.

La cosa está más que demostrada por los poquísimos deseos que muestran de retornar a sus lugares de origen –cuyos estilos de vida y cuyas reglas, especialmente para las mujeres, los jóvenes y los intelectuales, les resultarían ya inaceptables– también una vez que eventualmente han "hecho fortuna", y es por ello que cesa la ayuda del "hambre" cantada por los inmigracionistas. La reivindicación de cuotas de reserva, reclamada a la administración pública especialmente por los musulmanes, no se acompaña sin embargo sino muy raramente por la aspiración de retornar a unos países donde la libertad de palabra es desconocida, el consumo de alcohol está prohibido, el clítoris es considerado un inútil ornamento del cual es preciso librarse, y el robo está castigado con la amputación al término de los procesos sumarios.

Además, el "hambre" en sentido literal es un factor del todo secundario en la nueva trata de esclavos suscitada por el sistema, como demuestra el hecho de que la inmigración procedente de los países cuyas condiciones de vida son objetivamente peores es más modesta respecto a aquellos relativamente acomodados, en donde el modelo consumista puede cómodamente agitarse bajo la nariz de las masas, y donde sin embargo pueden generarse más fácilmente conflictos sociales y culturales entre las rutilantes imágenes difundidas por los televisores vía satélite y una realidad local no sólo más austera, sino también bajo el fuerte control social de los modos de vida tradicionales.

Una variante aun más implícita, o quizás más inconsciente, de estas convicciones "multiculturalistas" es la tácita esperanza de que, en la instauración del caos étnico-religioso, en el fallecimiento del orden social, en la atribución de derechos colectivos a las "tribus" que compondrán la sociedad europea, podría existir una posibilidad para las minorías "incorrectas", por ejemplo antiigualitarias y "fascistas", de ser "dejadas en paz" o incluso autorizadas, en el cuadro del caleidoscópico "patchwork" multicultural, a autoconstituirse o autorregularse en alguna medida como "comunidad" a la par con las otras, e idealmente con la oportunidad de devenir en polo de atracción y/o encarnación residual de la "tribu europea".

Esta idea, naturalmente, representa la renuncia a todo sueño de "Grosse Politik" y la aceptación del modelo, no por casualidad estadounidense, de los amish, o de los mormones hasta los años cincuenta, contentos de vivir recluidos en un ambiente delimitado donde pueden de algún modo poner en práctica sus ideas –pero en este caso sin ninguna Utah deshabitada a donde emigrar para escapar a las "contaminaciones". Y en efecto, en la mejor (y más improbable) de las hipótesis, la realización de esta esperanza conduce derecha al "sueño americano", donde todo puede ser dicho y donde… nada de lo que se dice tiene la menor importancia, excepto para tu pequeño grupo de "desplazados".

Naturalmente, todos estos discursos, en nuestro continente, no son otra cosa que fantapolítica propia de un cómic. No solamente faltan los espacios y la "cultura" para implementar un modelo de este género, sino que en los mismos ambientes de la inmigración, más allá de reclamos identitarios que en Europa aparecen como puramente demagógicos y "cortijeros", son completamente recuperados e integrados a la ideología dominante. La eventual mala fe con la cual sacrifican cada día ante el altar de los Derechos Humanos, del poder de las organizaciones internacionales como la ONU, del ecumenismo religioso (naturalmente sólo entre religiones "del Libro"), no tiene la más mínima importancia, puesto que otra "mala fe" puede ser también hipotetizada en los centros del poder mundialista, sin que esto cambie mínimamente los valores que hoy informan nuestra sociedad. La intolerancia hacia los valores realmente alternativos crece, nunca disminuye, con la instauración del caos étnico en nuestra sociedad, en donde la "political correctness" termina así por ser el único criterio de ciudadanía.

Cuando veamos por vez primera a un exponente de la inmigración alzar la voz en defensa de un detenido político europeo antioccidental, o a favor de las minorías étnicas autóctonas del país huésped, nos replantearemos nuestras dudas.

Pero hay más. Como apunta Faye, el "asimilacionismo forzado" es hoy en día un blanco polémico antes que una praxis real y coherente de los gobiernos europeos, que permanecen en realidad, en su sustancial inmigracionismo, presos y en poder de un comportamiento esquizofrénico entre la asimilación y el "etnopluralismo" propuesto como la gran alternativa a la primera. Tras una campaña contra la ablación femenina (hipócrita, cuando la circuncisión neonatal masculina judía es en nuestros países un dato adquirido que nadie osa poner en discusión…) y una protesta "verde" contra las matanzas de corderos en cualquier festividad musulmana, siempre son cada vez más numerosas las voces favorables a la adopción de sistemas de cuotas y de "affirmative action", financiación de las actividades culturales y religiosas de los grupos alógenos, etc., medidas todas típicamente comunitaristas (si, por decreto, las razas y las religiones "no existen", no tienen importancia, obviamente no tendría sentido atribuirles porcentajes y puestos).

Escribe Faye: "Ser corso, alsaciano, vasco, flamenco o bretón ya es tener pocas posibilidades de obtener subvenciones para una asociación cultural, una escuela donde enseñar la propia lengua y cultura, iniciativas que enriquecen el patrimonio étnico europeo; pero ser chino, cingalés, nigeriano y –sobre todo– árabe-musulmán es tener siempre atenta a la administración ante todas las solicitudes de financiación, tanto en París como en Bruselas. En París, las fiestas rituales asiáticas y los diarios "comunitaristas" son en parte costeados por la administración pública. La asociación de los Arvernos de París (12), como otras de vascos o bretones, por su parte, sólo pueden contar con sus propios recursos. El señor Tiberi, que sin duda olvida ser corso antes que gaullista o ciudadano del mundo, se niega a conceder ayudas a las asociaciones de enseñanza de la lengua corsa. Sería subversivo, ¿capite bene…? En compensación, los centros de enseñanza del árabe han recibido en 1998 la suma de 123 millones de francos, con el fin de poder dispensar gratuitamente sus propios servicios. En París, aprender el árabe o el chino es gratis. Aprender el holandés, el italiano o el bretón cuesta dinero".

¡Y así también en Londres, Milán, Madrid o Viena! La tolerancia que es la oportunidad concretamente ofrecida a los inmigrantes para practicar un contrapoder territorial real, con suspensión del ordenamiento jurídico ordinario, y la creación de espacios donde es tolerada la violación de casi cualquier norma, desde la ablación y la bigamia hasta el ejercicio de la actividad comercial; constituye un ulterior ejemplo de discriminación antieuropea, frente a la obsesión del control de todo detalle mínimo de la vida social que aun denotan las políticas nacionales y de la CEE, más allá de la retórica de la desregularización, y que continúa ejerciéndose con mano dura sobre las poblaciones autóctonas y sobre territorios aún no bajo dominio extrauropeo.

Las ideas de "gobernar la transformación", de "colocarse a la cabeza de los procesos para mejor guiarlos", de "afrontar virilmente la realidad", de cortar gordianamente los nudos de cualquier dilema en una síntesis superior, son perfectamente legítimos en muchos casos.

Pero al así obrar, uno corre el riesgo de aceptar los falsos alivios de la desmovilización, y de tomar posiciones históricas perdidas y de hecho conservadoras. Desde el dirigente belga resignado a convivir con Hitler "por mil años" relatado por Degrelle, a los ambientes diplomáticos alemanes convencidos de que el comunismo y la partición de Alemania eran "realidades que siempre habría que tener en cuenta", a los nacionalistas irlandeses que acusaban a Michael Collins de "aventurero irresponsable", muchos, después de haber ridiculizado o criminalizado como "utópicos" a los propios políticos rivales, se encontraron a la vuelta ridiculizados por la historia, sea en la esperanza de "convivir" con la realidad de su época y "controlarla", sea en la miope convicción de que tal realidad era el reflejo de datos de naturaleza eterna.

Ahora bien, "La colonización de Europa" es bien clara al afirmar que, una vez que se rechaza el inmigracionismo salvaje, etnomasoquista y suicida de los circulos más ligados a la ideología y a los intereses del Sistema, la alternativa no está entre el "control" y la "integración forzada" de la inmigración por un lado y la sociedad neotribal por el otro. La alternativa está entre la rendición a este proceso o la autodefensa étnica integral. Autodefensa que se sustenta en todas aquellas medidas y reacciones inmunitarias que la combatan en todas las zonas del mundo eventualmente amenazadas de repoblación y de colonización demográfica y cultural del propio espacio histórico y geográfico.

Esta "utopía" es todavía la realidad cotidiana del Japón, el cual, a pesar de una derrota, una ocupación militar y un pesadísimo condicionamiento político, vemos aun acompañado por un (puro contraste) proceso de occidentalización de los valores y una admirable capacidad de mantener y desarrollar la propia homogeneidad racial, la propia dinámica demográfica, la propia identidad lingüística y modelos socio-económicos originales. Ejemplos similares pueden citarse de la praxis y la mentalidad, obviamente más contrastada, de los países islámicos antioccidentales, de las dos Chinas, de las dos Coreas, de la India y, en verdad, si incluimos el punto de vista jurídico, de la mayor parte de las naciones del mundo, comenzando por los Estados Unidos e Israel, que bien se guardan de hacer aceptaciones pasivas e indiferentes de los posibles flujos de emigrantes en amenaza de su composición étnica, lingüística y religiosa.

Es por lo demás "irreal" e imposible –si no en sentido lógico o físico, si en sentido humano y político– que la pequeña zona del planeta coincidente con una porción de la península euroasiática, con recursos naturales limitados y explotados al máximo durante siglos, contaminada, actualmente (a pesar del declive demográfico) relativamente superpoblada, con delicados equilibrios sociales, política y económicamente "fracturada" por la subordinación a mecanismos y centros de poder internacionales, pueda ser el receptáculo de masas de desocupados y prófugos, de colonia de criminales, de comunidades heterogéneas, de odre de esclavos rebeldes, por los demás destinados a urbanizarse súbitamente. El mismo improbable escenario en el cual "no sucede nada", y la evolución de la situación prosigue de modo lineal en la misma dirección sin crisis significativas, conduce sin remisión a una inmensa favela en donde las bandas étnicas de desesperados se mueven sobre un escenario dilapidado y "post-atómico", contentándose (y terminando por destruir) con los restos del pasado, tras pequeñas fortalezas privilegiadas completamente aisladas y fuertemente defendidas, desde la cuales se administrará el poder militar y cultural del sistema mediante tanques teleguiados y antenas de televisión, en un contexto mucho más similar al de "Mad Max" o "1997. Fuga de Nueva York" que al de "Metrópolis" o "1984".

Para apreciar toda la "magia" de esta perspectiva, vale la pena visitar, mucho antes que los ghettos de Los Angeles o el Bronx –que, después de todo, son lugares privilegiados por el hecho de encontrarse en los Estados Unidos– las periferias de México DF, de Río de Janeiro o de Johannesburgo, o incluso de eso en lo que se está convirtiendo el extrarradio parisino, para hacernos una idea precisa de lo que el Sistema reserva para Europa.

La autodefensa de la cual habla Faye no debería por lo demás reducirse a la esfera jurídico-administrativa. El problema no puede en modo alguno ser resuelto únicamente a nivel "policial", o de control de las fronteras, dada la inadecuación absoluta, en términos culturales y de recursos, de los aparatos estatales. Estos últimos están además fuertemente infiltrados, especialmente en los países donde, como en Francia y a diferencia de Italia o Alemania, rige el "jus soli" (es ciudadano aquel que ha nacido en el territorio) y no el "jus sanguinis" (es ciudadano el hijo de otro ciudadano), y en donde las minorías, en vías de convertirse en mayorías gracias a la "fuerza de las cunas", incluso sin continuos los refuerzos recibidos, están representadas por inmigrantes de segunda y tercera generación. El problema únicamente puede ser afrontado a nivel de conciencias y movilización social general: una movilización del mismo tipo a la que ha permitido a las minorías vasca en España o germanófona en Italia no ser sumergidas y canceladas, o al Tibet no transformarse aun en una provincia China.

Una tal movilización práctica y popular tiene además la ventaja de forzar mucho más fácilmente el cuadro jurídico impuesto por el Sistema y las ideologías dominantes, desgraciadamente hoy en día garantizadas a niveles internacionales. Aun siendo numerosísimas las posibles medidas útiles, formalmente respetuosas de tal cuadro, que podrían reingresar en los poderes ordinarios y en las políticas legítimas de los gobiernos no paralizados por el mito incapacitante de la "sociedad multiétnica inevitable", Faye no se hace ilusiones de que los procesos en curso puedan ser invertidos sin la adopción de medidas extraordinarias, más allá y fuera de la legitimidad burguesa y socialdemócrata; medidas que hoy en día solamente pueden ser impuestas desde lo bajo, y no ciertamente por administraciones impotentes, por un lado en cuanto sirven al Sistema y, por el otro, en cuanto están ellas mismas en vías de ser colonizadas, a partir del nivel local.

A la inversa, continuamos asistiendo en Italia al insólito espectáculo de una "Immigration Law" cada vez más esotérica e imposible para los abogados que tienen el problema de obtener un permiso para que un "manager" japonés o argentino pueda venir a dirigir una empresa italiana comprada por su casa madre, mientras traficantes, prostitutas, abusadores de todo género y simples desesperados tienen "de facto" libre acceso, y que a los pocos meses de desembarcar se comportan no como extranjeros, sino como verdaderos ocupantes.

Todo ello mientras, como subraya Faye, en la mayor parte de los países del mundo fuera de Europa los inmigrantes o los extranjeros presentes en su territorio son, en toda circunstancia, considerados no como colonos definitivos, ni como refugiados acogidos en nombre de la religión de los Derechos Humanos, sino como "visitantes" y "huéspedes", sin que nadie tenga en mente contestar las normas vigentes en materia de "preferencia nacional" o de expulsión de los clandestinos, como por ejemplo aquellas aplicadas por el benjamín islámico del Sistema, el gobierno de Arabia Saudita que, preocupado por la inmigración asiática, "ha reforzado la "saudización" de su mano de obra, con el consiguiente despido del 90% de los extranjeros y reemplazando a los mismos con súbditos saudíes. El sector privado también ha sido forzado a seguir tal política: los efectivos de todas las empresas deben comprender al menos un 80% de saudíes" (Al Quds Al-Arabi, 1 de enero 1999).

En fin, otro de los puntos tocados por Faye en la conclusión de su libro, quizás para poner el acento, es un punto que retoma el análisis actual de la Nueva Derecha para volcar voluntarísticamente las conclusiones. Hablamos de la novedad del escenario con el cual nos enfrentamos. Si la cosa no puede evidentemente devenir en una coartada para el suicidio histórico de Europa, es simplemente cierto que el mundo actual es diverso de aquel que lo ha precedido, y que está atravesando una crisis de pasaje epocal, respecto al cual las dos guerras mundiales, la revolución industrial, las revoluciones democráticas y comunistas no serían sino notas a pie de página de la historiografía futura. Una crisis cuyo orden de grandeza se asemeja al de la revolución neolítica.

La tecnología y la capacidad de gestión de la información y de las comunicaciones, el grado de influencia sobre el ambiente en el cual estamos inmersos, la anulación de las distancias, el control que el hombre está adquiriendo sobe su misma identidad biológica y de las especies animales y vegetales con las que convive, ciertamente, van mucho más allá de lo que representaron la máquina de vapor o la rotación de los cultivos.

Hoy, la atenuación de las tradicionales presiones selectivas por un lado y, por el otro, la disponibilidad de tecnologías como la diagnosis prenatal, la fecundación artificial, el chequeo genético, el implante de embriones y la gestación extrauterina, la clonación, la manipulación directa del genotipo y por ello de las líneas germinales, representan adquisiciones epocales que hacen a nuestra especie íntegramente responsable de la propia identidad biológica, por mucho que algunos de sus componentes decidan "removerlo" e ignorarlo. Es exactamente como el hecho de tener una pistola en la mano vuelve al poseedor el único responsable, para bien y para mal, de la elección de disparar o no disparar (indiferentemente del hecho de que obre para cometer un atraco, defender a un inerme o festejar el año nuevo), sin que pueda sustraerse de modo alguno a tal responsabilidad.

En efecto, también arrojar la pistola, o fingir que no existe como implícitamente propone la tendencia histórica judeocristiana y democrático-humanista, representa exactamente una de las elecciones posibles, que el desarmado no tiene necesidad de hacer. El desafío "postmoderno" representado por esta revolución ya ha sido repetidamente discutido tanto por Locchi como por Faye o por mí mismo, por ejemplo en el artículo "La técnica, l'uomo, il futuro" ("La técnica, el hombre, el futuro"), publicado en el ya citado n. 20 de "l´Uomo libero", donde apuntaba que las dos únicas respuestas posibles son la opción prometeica, "sobrehumanista", de quienes se hacen cargo de tal destino ("¿En qué quiero/queremos devenir?, ¿Qué gran proyecto celebra mejor mi libertad?"), o la negación freudiana y el pretendido rechazo del "dominio del hombre por el hombre" ("nadie podrá poseer esclavos, porque fuisteis creados mis esclavos", dice Yahvé), que conduce a la tiranía anónima, mecanicista, literalmente "insensata", representada por el Sistema.

En este cuadro, no puede ser ignorado el hecho de que las culturas y las razas nacen y se desarrollan por la identidad, fecundidad y creatividad de los relativos troncos a través de una separación ligada a factores naturales de los cuales no es hipotetizable la reproducción sino en improbables épocas neoprimitivas. Tales épocas pueden ciertamente ver la luz fuera de los estudios de Hollywood, pero serían necesarias catástrofes de tal magnitud que ya no sería puesta más en discusión, posiblemente, la supervivencia del ecosistema, o al menos de la especie humana, sino más bien la conservación de adquisiciones probablemente destinadas a permanecer con nosotros para siempre.

También en el campo étnico, racial y demográfico, la clave del análisis siempre nos remite al advenimiento del "tercer hombre". Así como el primer hombre estuvo inmerso en el reino animal y el segundo se hizo cargo, tras la revolución neolítica, del destino del mundo, el hombre es ahora llamado a asumir trágicamente el propio destino, incluida su identidad biológica.

Un hecho objetivo que hoy es del todo silenciado por intolerable, y que estaba perfectamente claro en los años treinta, y no sólo en Alemania sino también en los países escandinavos, en Francia y en los mismos Estados Unidos, cuando la ingeniería genética y las manipulaciones directas solamente eran posibles en los marcos de la ciencia-ficción y de la especulación pura, es que, en el futuro, la conservación de la evolución, o incluso el nacimiento, de razas, lenguas y culturas diversificadas solamente podrá ser el fruto de una elección deliberada en tal sentido, elección que podrá determinar los contenidos y las características, sobre la base de valoraciones de naturaleza esencialmente estética y afectiva.

En este sentido, no es casualidad que el alcance entrópico de la colonización poblacional de Europa represente a fin de cuentas un valor positivo desde el punto de vista del universalismo de la ideología del Sistema y del fin de la historia, sobre una escala mucho más amplia que el mero dato político inmediato, y precisamente como elemento de oposición respecto a la "tentación" identitaria y faústica; mientras un correspondiente disvalor viene ampliamente asignado por las mismas fuerzas al terrible poder de autodeterminación del cual el hombre ha sido llamado a hacerse cargo.

Por lo demás, estos elementos de fondo son también de alguna medida prometedores. Si la extinción de nuestra identidad étnica, amenaza que hoy pesa sobre nosotros, es ciertamente más definitiva que cualquier decadencia política, cultural o económica, en cuanto por definición irremediable. Existe ya una experiencia histórica, cuando el hombre operaba solamente con los instrumentos tradicionales de los procedimientos legislativos y administrativos, de la propaganda, de la medicina y de la educación colectiva, de cómo los "trends" demográficos y los procesos aparentemente consolidados pueden al día de hoy ser invertidos en el giro de una sola generación. En pocos decenios, las características y la identidad étnica y biológica de nuestras poblaciones serán íntegramente determinadas (o no determinadas, por pura elección, si prevalece la filosofía de la condena y de la degradación) por opciones individuales y colectivas. En cualquier caso, la responsabilidad relativa no será ya de la "naturaleza", ni de los procesos históricos "parabiológicos" que han gobernado hasta ahora las afirmaciones, la decadencia y el ascenso de las razas y de las civilizaciones. En todo caso, los cielos spenglerianos descritos en "La decadencia de Occidente" han llegado a su fin.

Si nuestras visiones de fondo continúan manifestando una absoluta consonancia con Faye, por otra parte emergen en las actuales posiciones "políticas" del mismo autor elementos menos convincentes. No trato aquí solamente de responder a la invitación al debate por él formulada en su libro, sino que también deseo resaltar cómo muchas de sus posiciones son debatidas actualmente en Italia.

La primera cuestión fundamental es la anunciada en el subtítulo mismo del libro, en la cual la colonización de Europa es tratada al modo de un "discurso verdadero" sobre la inmigración y el Islam.

En lo que respecta al último, la posición de Faye es cristalina. "En el curso de conferencias que he podido pronunciar, en el curso de las cuales he abordado incidentalmente la cuestión del Islam en Europa, jóvenes musulmanes me han acusado de "hostilidad visceral hacia el Islam" y de "complot contra el Islam". Mi respuesta siempre ha sido muy pacífica y determinada. Sí muestro una hostilidad visceral contra el Islam, tenéis razón. No, no fomento ningún complot contra el Islam, porque el "complot" hace referencia a una hostilidad disimulada, mientras que la mía es franca y abierta".

Al respecto, el autor tiene razón al subrayar cómo la "islamofilia" de muchos ambientes, paradójicamente con la primera línea ocupada por sectores del episcopado católico, progresistas, burgueses y extremistas de extracción varia, se funda sobre todo en la ignorancia: "Ninguno de ellos ha estudiado el Corán, ninguno habla el árabe, ninguno ha puesto nunca el pie en un país musulmán (salvo quizás en el enclave de algún "Club Med"), ninguno ha visitado una ciudad de mayoría musulmana. Para ellos, el Islam –y la inmigración– son hechos abstractos, lejanos, simpáticos".

Ahora bien, el que escribe no da pruebas de ninguna "ternura filosófica" por el Islam. "Religión del desierto" en mayor medida que las otras dos "del Libro", entristecida por la predestinación aun más que la confesión luterana, con la cual además no comparte el rigor alemán, más represiva e hipócrita que el catolicismo, más ritualista y justificacionista que el judaísmo, mercantil como el calvinismo, iconoclasta, universalista, levantina, completamente desprovista del concepto de honor en el sentido que ha sido entendido durante tres mil años en nuestro continente, no tiene necesidad de una ojeada particularmente profunda para evidenciar su profunda alteridad respecto a la sensibilidad y a los valores que me hacen sentir europeo".

La ceguera que ha conducido a autores y opositores al sistema como Claudio Mutti, o algunos militantes de la derecha radical francesa, a la conversión al Islam, siguiendo al "ilustre" precedente guenoniano, no es sino una variante de esa ceguera que ha conducido a otros muchos, especialmente el Italia, a refugiarse entre los brazos de la Santa Madre Iglesia, especialmente después de algún trauma histórico o personal, a la búsqueda de unas migajas de identidad europea, de la que abjuran, que hayan podido quedar atrapadas en el vestido a pesar de los enérgicos y continuos cepillados.

Es perfectamente cierto, por lo demás, que el cristianismo (y el mismo judaísmo) han participado de nuestra historia, y no por ello son, en muchos sentido, menos extraños que el Islam.

Esta consideración, por otra parte, puede ser exactamente contestada en la constatación de que el Islam es una religión árabe, de matriz árabe, afirmada en Arabia y en la inmediata esfera de expansión de tal mundo, y cuyo destino en parte conspicuo se asocia estrechamente al de la nación y la identidad de los árabes. En este modo, el Islam nos parece efectivamente acercarse mucho más, "mutatis mutandis", a una religión ancestral, "política" e identitaria en sentido europeo; particularmente en oposición al judaísmo, fundado sobre el rechazo de la validez religiosa de la comunidad política, por lo cual el mismo Israel sería la anti-nación; y también en relación al cristianismo, cuyas (pasadas) relaciones privilegiadas con Europa han sido fruto de una identificación contingente y por ello incompleta, y cuya vocación universalista es, por ello, tanto más explícita.

Símbolo de este último punto es la relación respectiva de las dos religiones por un lado con el latín, lengua no originaria que fue abandonada sin demasiados problemas en el curso de una generación, y por el otro con el árabe coránico, que es Palabra de Dios, desde el punto de vista musulmán también desde un punto de vista lingüístico, dada de una vez y para siempre en su perfecta e insuperable formulación (exactamente como el hebreo bíblico, lengua ya muerta en la época del Imperio romano y artificialmente resucitada por el sionismo, y por los siglos de los siglos la única lengua del Eretz-Israel). Y en cuanto a la pretendida "intolerancia" islámica, ¿se trata simplemente de la característica de un sistema religioso en una fase menos decadente y envejecida de las que estamos habituados?

La dulzura y mansedumbre cristianas se implantaron en Europa con el asesinato a traición de un emperador por haber rechazado la nueva fe, el genocidio de los sajones, la persecución de los "hombres libres" del norte arrinconados hasta Islandia; y la misma dulzura y mansedumbre, en el momento de su triunfo, "santificó" las ciudades con las campanas y las hogueras preparadas para las brujas y los herejes, la matanza fratricida de la noche de San Bartolomé, el regicidio, las guerras de religión sobre el suelo europeo, el genocidio de los indios que rechazaron la conversión, el terrorismo de las sectas subversivas y el simétrico terrorismo represivo de la inquisición, que por vez primera en Europa elevó la tortura, el lavado de cerebro y la perversión del proceso judicial, a una forma de arte.

Sobre el plano histórico y doctrinal, el escenario diseñado por ejemplo por "Las mil y una noches" (ver la historia de Hasan al-Basri, capítulos 778-831, o la del sastre, del jorobado, del hebreo del intendente y del cristiano, capítulos 25-34) representa una sociedad cruel y profundamente extraña a nosotros, pero en el fondo más pluralista, flexible y articulada también desde el punto de vista religioso que aquella alumbrada por las "Luces del Medievo" cruzado y, después, por los fastos de la Reforma y de la Contrarreforma. Una sociedad en la cual se mueven libremente no sólo cristianos y judíos reconocidos como tales, aunque sean ridiculizados y condenados, sino también los temidos "magos adoradores del fuego" –que no son otra cosa que los supervivientes (perseguidos al día de hoy en pleno Jomeinismo) del culto zoroastriano en la Persia islamizada–, ciertamente de cuando en cuando matados por el héroe de turno o por la autoridad, pero aparentemente más a sus anchas de lo que pudieron estar nuestras brujas en Toledo o las americanas, algunos años después, en Salem.

Por lo demás, como recuerda Faye una vez más en "La colonización de Europa", "si hoy la Iglesia católica no practica la intolerancia inquisitorial, no predica la conversión universal y la cristianización del mundo, sino que se repliega sobre el "ecumenismo" y sobre la "apertura al Otro", es simplemente porque se encuentra en decadencia, porque las relaciones de fuerza no juegan ya a su favor, de modo que la fe es cancelada por la caridad y ésta última es cada vez más secularizada hasta terminar confundiéndose con los Derechos Humanos.

El mismo libro de Faye abunda en concesiones relativas al hecho de que los musulmanes, desde su punto de vista, hacen bien en ser lo que son, y en el reconocimiento del hecho de que sus componentes emigrados permanecen más arraigados en su cultura que las mismas poblaciones en las cuales se insertan. Incluso llega a acreditarles méritos que quizás, como veremos, ni siquiera tienen, escribiendo: "Pero no es necesario negar al enemigo su nobleza, ni la humana justicia de su causa. Llena el suelo que tú abandonas. Preserva su territorio y su sangre, engrandece su territorio con el tuyo y reemplaza tu sangre por la suya. El enemigo que juega su papel es estimable. Y el traidor en no serlo en absoluto…" Y continúa: "El Islam nos considera como una civilización en un tiempo temible y hoy desvirilizada, decadente, afeminada, homofilizada. Nos ataca por ello. Y desde su punto de vista tiene buenas razones… Se pueden perfectamente compartir valores comunes con el enemigo que te invade… El Islam aparece como una "rebelión contra el mundo moderno" (13), y por ello seduce… Respeto, como enemigo digno de interés, al musulmán conquistador, al "Beur" (14) presa del odio y la venganza".

A la luz de tales relieves, no es posible comprender cómo Faye pueda individuar en sus conclusiones al Islam como el "enemigo principal", añadiendo, aunque sea en modo cualificado: "Los Estados Unidos son, como ya he explicado en otra obra, y más precisamente en "El Arqueofuturismo", un adversario, no un enemigo".

Ciertamente, Carl Schmitt, abundantemente citado en las obras de Faye, distingue entre "inimicus" (el oponente civil, el opuesto de un aliado y un compañero en el interior de la comunidad) y "hostis" (el enemigo externo, el extranjero hostil en guerra perenne, actual o potencial, con la comunidad). En este sentido, al menos etimológicamente, "inimicus" es un término que denota una alteridad más blanda y meramente "concurrente". También cuando el uso corriente de los términos "enemigo" y "adversario", en el francés, italiano o inglés contemporáneo, parecen indicar conceptos diversos especularmente inversos.

La cuestión, por terminológica que pueda ser, es grave, porque comúnmente, cuando se hace la relativa distinción, se atribuyen al "adversario" exactamente las posiciones antes descritas para el Islam, es decir una rivalidad y una concurrencia nutridas en sustancia por un mero conflicto de intereses y de voluntades de poder contrastadas, entre sujetos distintos entre sí, pero no "metafísicamente" opuestos, y en posiciones de algún modo simétricas y equivalentes en el ámbito respectivo, que pueden también encontrar ocasionalmente razones de alianza (por ejemplo contra un enemigo común) y de respeto recíproco.

El "enemigo" parece exactamente ser aquello que el Sistema representa para todas las culturas y las razas vitales, la misma negación radical de su legitimidad y posibilidad de existir. La afirmación de Faye suena así paradójica, similar a aquella de un pretendiente al trono de los zares que declarase que el "verdadero enemigo" es su rival en la sucesión, reconociendo a la inversa a los bolcheviques que están a las puertas del Palacio de Invierno como legítimos "adversarios", oponentes deportivamente respetuosos de las reglas y de los valores de la sociedad rusa tradicional. Pero el sentido común nos dice, por el contrario, que en el lenguaje corriente el verdadero "enemigo" de los muchachos de la calle Pala no es la banda que disputaba con ellos el uso del campo de juegos, sino la empresa que terminó desmantelándolo para construir allí un edificio, después de tantos sacrificios inútiles para defenderlo.

El vuelco de esta distinción parece confinar peligrosamente con una deriva en donde se termina por reconocer, en la más pura ideología de las burocracias de Estrasburgo y Bruselas, una común pertenencia "concurrencial" de los Estados Unidos y la Unión Europea al mismo "club occidental", contrapuesto en cuanto tal a todos los demás. Y por lo demás, dado que los "traidores" a quienes Faye reserva un peor juicio son exactamente los partidarios del Sistema y del poder internacional y fundamentalmente americano, parece extraño considerar digno de respeto al partido "enemigo", y de desprecio e ignominia al partido solamente "adversario".

La afirmación no parece fruto de un lapsus ocasional. Faye insiste repetidamente en su libro en su perdurable y absoluta oposición al poder americano en Europa (oposición que es, por lo demás, el tema central del "Nouveau discours à la Nation Européenne", también en su segunda edición), generando cierta notable perplejidad un par de puntos sobre la Guerra del Golfo. Leemos, por ejemplo, al autor escandalizarse en sustancia por los estados de ánimo perplejos de los pilotos ingleses musulmanes al bombardear Iraq. O bien, en otro punto, mencionar de paso la crisis iraquí como un caso en el cual los "europeos" (¿!) supieron "una vez más" comportarse como "predadores", término por cierto no particularmente insultante ni para Faye ni para su público.

Estas salidas son absolutamente sorprendentes tanto en líneas generales como desde el punto de vista del autor, desde el momento en que se refieren a un caso en el cual los europeos han ido a la zaga de los americanos y de Israel en la defensa de las fortalezas del tradicionalismo islámico más oscurantistas y feudales, aunque políticamente más sumiso del Sistema, contra un Estado ciertamente árabe y de mayoría musulmana, pero administrado por un gobierno laico dirigido por principio de socialismo nacional, al menos en la contingencia específica en posición anti-Sistema, y representado por un ministro de exteriores de fe cristiana.

Situación que Saddam Hussein no ha sabido utilizar propagandísticamente, por ejemplo transmitiendo por televisión las misas de Navidad en Bagdad, mientras los "cristianísimos" obispos católicos y adventistas americanos destinados en territorio saudita deben guardarse bien de turbar la sensibilidad religiosa de sus protectores musulmanes con "inoportunas" celebraciones.

Por otra parte, Faye cita ampliamente un libro de Alexandre Del Valle: "Islamisme et Etats-Unis, une alliance contre l'Europe" (Editions L'Age d'Homme) (15), para demostrar que, si los americanos y comúnmente el Sistema apoyan y promueven la inmigración, por ejemplo a través de la política de las organizaciones internacionales, el Islam sería a su vez el aliado objetivo de los EEUU en la destrucción del continente europeo, no sólo a través de la inmigración, sino por ejemplo a través de la política petrolífera, la crisis de Bosnia, etc., hasta el punto de ser muy creíble una sustitución del condominio americano-soviético por un condominio americano-islámico, con la potestad de los mismos EEUU para intervenir como "pacificadores" o "garantes de los Derechos Humanos" también en países de la Europa occidental donde el enfrentamiento étnico superase cierto umbral, provocando una situación similar a la de Bosnia. En realidad, el "anti-islamismo" y el "anti-arabismo" de Guillaume Faye parecen nutrirse de una perspectiva en este caso "francesa, demasiado francesa", un tanto paradójica en un autor generacional y etiológicamente extraño a la hipoteca "argelina" que tanto ha pesado desde la postguerra en los ambientes anticonformistas transalpinos.

Y es evidente en numerosas admisiones del autor una especie de identificación refleja entre "inmigrante" y "musulmán", entre musulmán y árabe e, incluso aunque menos posiblemente, entre árabe y magrebí. Como demuestran los ejemplos y las citas de los ambientes de la inmigración que abundan en su libro. Cuando Faye habla de inmigración y Tercer Mundo hace en toda evidencia referencia a una realidad en sustancia representada por argelinos y marroquíes, o comúnmente a árabes con un fuerte predominio norteafricano, a lo máximo con alguna franja subsahariana, cerrando sus conclusiones con alguna experiencia personal directa, adquiridas "in situ", de la realidad saudita.

Pero la realidad de los barrios periféricos de París o del mediodía francés, que Faye describe de modo apasionado pero objetivo, no es la fotocopia exacta de los problemas de todo el resto del continente, y aun menos su proyección cósmica en términos de definición de los escenarios del choque final. Según los datos publicados por "Il Giornale" del 13 de enero de 2001, diario no sospecho de filo-arabismo, los árabes musulmanes son, según el Ministerio del Interior (y son datos que podrían estar subestimados, existiendo otras áreas en donde la componente clandestina de la inmigración es más elevada) menos de un quinto de toda la realidad de la inmigración italiana, y esto solo gracias a una reciente contribución masiva de Marruecos. Egipto, por ejemplo, no representa más del tres por ciento; Túnez –a unos pocos cientos de kilómetros de nuestras costas– el cinco; y el porcentaje del resto de países árabes hace proverbial referencia directa a sus prefijos telefónicos (16), mientras las cristianísimas Filipinas aportan a la casa ocho puntos, y el Senegal y la China rondan el cuatro por ciento cada uno.

Y hablando de "trends" demográficos y de pesos respectivos, ésta última por sí sola tiene, además de una excepcional homogeneidad étnica dominada en un 95% por la raza jan, una población siete u ocho veces superior a todos los países árabes juntos (o quizás deberíamos decir árabo-bereber-fenicios, dadas las crecientes reivindicaciones de los tamazigh en el África noroccidental y la componente no árabe del Líbano). El editorialista de "Il Corriere della Sera" del 2 de febrero de 2001 recuerda las proféticas palabras recientemente pronunciadas al respecto por la actual élite china: "¿creen en verdad que trataremos de administrar un país en donde se concentra un cuarto de la humanidad según los principios de la legalidad burguesa occidental? ¿Creen poder afrontar un derrumbe del cual nacería un flujo migratorio sin precedentes en la historia?"

Ahora bien, Faye parece paradójicamente mucho menos preocupado por esta perspectiva, hasta el punto de oponer la "buena integración" o la aparente tranquilidad (organizada por los Tong, las Tríadas y los traficantes de carne humana y heroína) de las minorías asiáticas a las minorías árabe-musulmanes de los pandilleros que se hacen notar rompiendo escaparates y violentando a las mujeres blancas en el metro parisino.

Por lo demás, mientras la India superó hace ya tiempo los mil millones de habitantes, la misma África negra tiene una presión demográfica notablemente superior a la de los países árabes, a pesar de las continuas sequías y las carestías de todo género, y a pesar también de la perdurante mortalidad infantil y la difusión endémica del SIDA, problemas que implican en mucha menor medida a la población emigrada en Europa, donde pueden gozar de condiciones de vida, higiene y nutrición, similares a la población local. Y sus emigrantes son mucho menos "integrables" que los árabes, como las mismas comunidades negras americanas, hoy compuestas exclusivamente por mulatos de diferente gradación, demuestran.

Alemania, como indirectamente también recuerda "La colonización de Europa", sufre a su vez mucho menos de una inmigración árabe que turca, etnia a la que Faye dedica en algunos puntos singulares palabras de simpatía, con obvia función antiárabe. Pero, aunque los turcos ("mal islamizados", según Faye) hayan aplastado durante algunos siglos a los países árabes y norteafricanos bajo su dominio, por mucho que puedan haber sido aliados de los imperios centrales o haber refundado su propio estado en los años de entreguerras en imitación de los institutos y reformas introducidos por las revoluciones nacionales europeas, el verdadero "enemigo musulmán de Europa", despues de los "moros" de Carlos Martel, los enfrentamientos armados con los restos del Imperio bizantino y la Reconquista española, siempre ha estado representado sustancialmente por los turcos. Partiendo de las alucinantes vicisitudes que les vieron competir en humanidad y caballería con personajes como Vlad Tepes, alias Dracul, en los Balcanes, hasta llegar al asedio de Viena, pasando por la piratería mediterránea y las batallas de Creta, Malta y Lepanto. "Mamma, li Turchi!", se gritó en las costas italianas durante siglos a la llegada de los piratas, "Mamma, gli Arabi!" es una exclamación posible en nuestra lengua solamente… desde finales de los años noventa. Y aun hoy los turcos son la comunidad musulmana más numerosa en territorio europeo.

Mientras los árabes son acusados de esterilidad y parasitismo cultural, pues lo habrían tomado todo de los países conquistados (tesis que tiene indudables elementos de verdad), generalmente se escucha un clamoroso silencio frente a la "refinada" civilización otomana creada por predadores asiáticos y mercenarios rebelados contra sus señores araboegipcio-iraquíes para construir una parodia del Bajo Imperio, con tantos trazos discutibles y por lo demás con tantos éxitos a la hora de integrarse en la historia y en la identidad griega y balcánica. Y que hoy están dignamente prolongados por películas como "El expreso de media noche" y "Hamman". Un país en donde, para mostrar la propia desaprobación civil a las posiciones expresadas por un adversario político, no es el todo inaudito encontrarse al hijo crucificado en la puerta de casa con los ojos arrancados y los genitales en la boca, en donde corrupción, terrorismo y represión compiten en una carrera infinita y donde se consuma con toda tranquilidad el etnocidio de los kurdos y los armenios con la bendición del Sistema y de los aliados en la OTAN.

La misma realidad del Islam es una realidad compleja, que "La colonización de Europa" afronta certeramente sobre el plano cultural y teológico, desmintiendo con justicia muchos tópicos y mucha propaganda tranquilizadora al respecto, pero que merecen una mayor profundización también sobre el plano histórico-político.

Parece, por ejemplo, una consideración obvia que algunos de los principales Estados musulmanes, para bien y para mal, no son en absoluto árabes, ni étnica ni políticamente, ni siquiera –en parte– culturalmente: ver, más allá de la citada Turquía, el Irán, Afganistán y Paquistán. Además, el África del Norte es en varios aspectos una realidad bien distinta al Oriente Medio. Igualmente, la distinción entre sunnitas y chiítas reviste hoy en día un peso ciertamente superior al que divide, por ejemplo, a los cristianos ortodoxos de los católicos. Aun teniendo presente que, como dice Faye, "no se discute sobre el sexo de los ángeles cuando los bárbaros están a las puertas", y que no parece adecuado adentrarnos en minucias irrelevantes y desmovilizantes, para combatir a algo o a alguien, sea enemigo o adversario, es preciso conocerlo.

Aun más relevantes nos parecen otro tipo de distinciones, que ven hoy en día al "mundo islámico" subdividirse en algunas grandes componentes:

– las áreas fuertemente occidentalizadas, completamente integradas al sistema, como Túnez en primer lugar y en segundo Marruecos, a los que hay que añadir Turquía, Argelia y Egipto, a pesar de las fuertes oposiciones internas.

– los gobiernos del tradicionalismo y oscurantismo feudal musulmán, como Arabia Saudita, Kuwait, Qatar y, en parte, los Emiratos Árabes Unidos, todos de hecho protectorados americanos, aliados objetivos del sistema y traidores a los intereses del pueblo árabe.

– los países "laico-revolucionarios", "en los márgenes de la comunidad internacional", como Libia, Iraq (17) y, en posiciones más ambiguas, Siria y Paquistán.

– los países y movimientos del Islam militante, como el Irán, Afganistán, los libaneses de Hezbollah, Sudán, el denominado fundamentalismo islámico en Argelia, Egipto, Turquía y las repúblicas ex soviéticas, los componentes "extremistas" de la resistencia palestina, etc.

Ahora bien, los problemas para Europa, en materia de inmigración, provienen en sustancia del primer grupo. La alianza política objetiva con las fuerzas del Sistema denunciada por Faye no atañe sino al primer y al segundo grupo. Para el tercero y el cuarto, frente a la retórica sobre la agresividad del Islam, parecen ciertamente retorcidos los análisis que intentan demostrar la alianza "objetiva" entre Libia y los Estados Unidos, entre Nato e Intifada, entre la oposición argelina y los "sponsors" internacionales del gobierno que capturó el poder tras un golpe de Estado que canceló el respaldo electoral favorable a las fuerzas islámicas (¡!). Siguiendo ese hilo, podríamos concluir imaginando a los talibanes o a los imanes chiítas incitando a la propia juventud a desertar del propio país y de la propia comunidad militante para emigrar a los países donde el alcohol se consume en público, la mujer goza de una libertad sexual análoga a la del hombre y la blasfemia reina soberana, salvo quizás para pensar en salvar el alma con la firma de alguna petición para la construcción de alguna pequeña mezquita en nombre de los Derechos Humanos.

La verdad es que ningún italiano ha visto un libio de carne y hueso en la segunda mitad del siglo apenas concluso, a menos de haber sido llevado al lugar o a la embajada. Y se trata de un país que fue una de nuestras colonias por más de una generación, donde aún se habla la lengua italiana, y casi a tiro de artillería o de las lanchas neumáticas desde las costas de Pantelleria (¡!).

No por lo demás los ayatolás iraníes o el gobierno iraquí aparecen en primera fila incitando a la emigración, mientras los fundamentalistas egipcios manifiestan todo el propio deseo de mezclarse con los infieles organizando además atentados contra los turistas. Al contrario, es posible sostener que los únicos inmigrantes que originan los países no alineados con mayorías musulmanas son disidentes filo-occidentales o minorías étnicas –¡quizás católicos, como los armenios!

Si en Argelia no hubiese tenido lugar un golpe de Estado anti-islámico apoyado por Occidente, la misma Francia tendría quizás menos problemas de inmigración con su más discutida ex-colonia, exactamente como la inmigración de la Europa oriental no representó mayor problema hasta que los ciudadanos de tales Estados no precisaron solicitar un visado de salida. Y ello aunque el Adriático no se hubiese vuelto en ningún modo más estrecho, o los albaneses de algún modo mejor equipados en cuanto a embarcaciones o más emprendedores de lo que eran antes.

El Islam será seguramente siendo agresivo, y los países en donde viene siendo practicado no tienen ciertamente nada en contra para expandir con la mejor buena conciencia el propio territorio y esfera de influencia, pero si se le acredita representar un movimiento conquistador, identitario, patriarcal y autoritario, por cuanto gravado por la hipoteca universalista y monoteísta propia a todas las religiones del Libro, difícilmente se le puede imaginar dispuesto a promover la emigración hacia un país donde, como recuerda Faye, el 20% de los matrimonios de hoy en día son mixtos, estadísticamente destinados terminar en el divorcio y con la prole confiada a las mujeres infieles (¡!). Aquello que es directamente causante de la  inmigración no es la pobreza, ni mucho menos la agresividad o rebeldía de los respectivos gobiernos. Es el dominio de los valores occidentales en su sociedad, y el grado de sometimiento político y económico de sus países al Sistema.

De Iraq solamente emigran los kurdos, a pesar de ser un país sometido a un terrible embargo internacional, con el 15% de los niños, según "Il Giornale" del 19 de febrero de 2001, afectados de desnutrición. No hay que olvidar que el primero de los Derechos Humanos, el primer elemento de desarticulación –¡también interna!– de los residuos de identidad común en las regiones aun no alienadas y occidentalizadas, es la libertad de andar y venir, el desarraigo de las raíces territoriales que vuelve a las poblaciones móviles, fungibles, proletarizadas, privadas de pertenencias (cuando no en el límite alienado e imaginario representado por los restaurantes y la parroquias, o por la afición futbolera), cuyo vértice es naturalmente la emigración.

Otra cosa es, naturalmente, el islamismo "literario" de los conversos europeos, o el imaginario y polémico de los negros extremistas estadounidenses, que se creen musulmanes como el barbudo americano de color protagonista del film "Ghost Dog" cree, leyendo el "Hagakure" de Yoko Yamoto, ser un samurai del medioevo japonés, ejemplos tan patéticos como la convicción de algunas "stars" occidentales del espectáculo de ser budistas. Y otra cosa es aun el islamismo minoritario y sedicioso, representado no sólo por la componente "radical" de los inmigrantes musulmanes en Europa, sino por ejemplo por una parte notable de la población india –contexto en el cual parece obvio el deber de tomar partido por un gran país cuya cultura y religiosidad profundizan en las más lejanas (y degeneradas) raíces indoeuropeas, contra la intolerancia facciosa de sectas fanáticas que han llevado la maldición de Abraham contra la sacralidad del mundo y de la comunidad política hasta la tierra de la literatura védica, de Indra, Mitra y Varuna.

Es pues el mismo Guillaume Faye quien, acusando a la Nueva Derecha de confundir la perspectiva de acuerdos geoestratégicos con el Islam (entendido como conjunto de entidades políticas y estatales) con la tolerancia hacia la inmigración o la islamofilia "filosófica", subraya indirectamente cómo las dos posiciones no tienen absolutamente ninguna relación necesaria. Cosa demostrada históricamente, por lo demás, por la política filo-árabe de los ingleses a principios del siglo XX (en función anti-turca) y de los alemanes de entreguerras y durante toda la Segunda Guerra Mundial (en función anti-occidental), ciertamente ni en el primero ni en el segundo caso por aspiraciones al mestizaje árabe-europeo, o a la conversión o a la creación de sociedades multirraciales en los propios países.

De nuevo es el mismo autor quien explícitamente hipotetiza posibles relaciones diversas, incluso alianzas, entre Europa y los países islámicos, enumerando como pre-condiciones: que no sea suscitada ni la interpenetración étnica ni el proselitismo religioso; que cese la política de alianza subterránea antieuropea con los Estados Unidos; que sea reconocida la soberanía europea sobre el territorio que abarca "desde Portugal hasta el estrecho de Behring, del Cáucaso al espacio siberiano". Pero, en el momento de exponerlas sobre el plano político concreto, apenas podemos imaginar la perplejidad de un dirigente político islámico frente a estas "condiciones" o "solicitudes" ante una mesa de negociaciones.

Veámoslo brevemente desde el punto de vista del imaginario dirigente:

1) El tráfico de mano de obra musulmana hacia las tierras infieles está organizado por el Sistema y por los gobiernos fantoches de los países filo-occidentales, aun cuando éstos no lo promuevan activamente, ni escondan su preferencia por algunos miles de dólares de más en "ayudas internacionales", empleados sobre el lugar por parte de las corruptas burocracias del poder, respecto a diez permisos de trabajo de otros tantos emigrantes cuyos (dudosos y eventuales) envíos de divisas a las familias de procedencia son ciertamente más difíciles de interceptar.

2) Mientras exista una obvia presión objetiva a la conversión en las zonas y en los barrios europeos de dominio musulmán, para un musulmán, como subraya Faye, el aspecto religioso permanece estrechamente conectado al aspecto político y étnico, así que el escenario de "misioneros del Islam" enviados a convertir a otras poblaciones según el modelo católico y protestante no tiene ninguna posible comparación histórica pasada o contemporánea. Para la mentalidad árabe, la única verdadera "conquista" es aún la tradicional adquisición de territorios a través de anexiones político-militares.

3) Ninguna de las naciones árabes tiene reivindicaciones territoriales o dominios sobre Europa; a lo más, es Turquía, a la que hemos visto gozar de la indulgencia cuando no de la simpatía de Faye, quien mantiene bajo el propio indiscutible dominio una ciudad particularmente importante en la historia europea bajo los nombres de Bizancio y Constantinopla, controlando además por cuenta de los americanos los estrechos y el acceso de las poblaciones eslavas del este al Mediterráneo.

4) La posición de la Europa actual no la de la oposición a la "alianza subterránea" reprochada por Faye a los árabes respecto a los EEUU –situación que por lo demás únicamente describe las posiciones de los gobiernos árabes filo-occidentales–, sino una subordinación del todo abierta y "oficial" a los mismos EEUU y a las organizaciones internacionales por ellos dominadas, que se manifiesta en particular con un apoyo incondicionado a los intereses americanos e israelitas en el Mediterráneo y en el Oriente Medio (¡!). No es difícil imaginar que si nuestro hipotético dirigente tiene algún conocimiento de la Biblia, además del Corán, la primera idea en venirle a la mente sea la parábola de la paja en el ojo ajeno y la viga en el propio.

Todo ello nos lleva a introducir un nuevo elemento crítico respecto al análisis contenido en "La colonización de Europa".

La utilización de términos como "conquista", "guerra", "colonización", es absolutamente legítima para evocar la situación de dramática emergencia en la cual nos encontramos, y tiene su eficacia y posibilidad en términos metafóricos. Pero tal utilización parece menos justificable, y comúnmente menos útil en términos estrictamente políticos, cuando es expresada en sentido literal y con vistas a acreditar la tesis de que exista un positivo y consciente "complot" por parte de las jerarquías religiosas, de los emigrantes y de los gobiernos de los países islámicos, todos indiferente y globalmente incluidos, con vistas a la realización de un diseño político unitario.

Hemos visto que el Islam, incluyendo la más reducida nación árabe, por desgracia o por fortuna, ni está unido ni es particularmente unitario. Mientras en cada uno de los países y componentes anidan algunos de los más resueltos opositores contemporáneos al sistema de poder internacional, otros no solamente están perfectamente alineados a éste último, sino que no constituyen más que irrelevantes fiduciarios locales de una colonización occidental que persiste en tales países de una forma nueva, hasta privarles de cualquier capacidad o poder de iniciativa que vaya más allá del hecho de negar la extradición de Craxi a los ministerios públicos de la República Italiana o de constituir útiles objetos y pretextos para las guerras occidentales contra otros musulmanes.

Ahora bien, las masas sociales de desadaptados, homologados neo-occidentales, criminales, jóvenes desarraigados y desesperados varios que hacen fila para entrar en Europa, vientre blando y puerta de servicio del "centro del Imperio", al mismo tiempo original en el pasado y copia bruta actual de la realidad transmitida por los televisores vía satélite, no son ciertamente las orgullosas tropas de asalto de una civilización conquistadora. Son mucho más similares a los rechazados de regiones y culturas que sufren a su vez de una fortísima incomodidad a una horda empujada sobre nuestras orillas por el atractivo de botines imaginarios, desplazados, "merci umane", por el sistema económico internacional según las propias exigencias. Representan las avanzadas de una "conquista" árabo-musulmana de Europa exactamente como los Padres Peregrinos representaron la conquista del continente americano por parte de la milenaria cultura europea o del Sacro Imperio Romano. Algo, seamos claros, que no impedirá a nuestros inmigrantes reducir a la ruina y a la extinción a nuestros pueblos, exactamente como las culturas de los pieles rojas fueron extirpadas por los emigrantes que partieron allí para así mejor renegar de la propia civilización, la propia raza y su comunidad. No es casualidad, por lo demás, que la norteamericana haya sido, como la que hoy nos amenaza, un colonia de población, como lo fueron en gran parte Australia o Sudáfrica, zonas ambas, por lo demás, a diferencia de Europa, con una bajísima densidad de población autóctona –en oposición a las colonias un tanto diversas como las de Indochina, Malasia, Tanzania, Etiopía o las Filipinas.

Cuando, como relata Faye, los imanes de la periferia de París predican: "Este continente se ofrece a nosotros, o mejor es Allah quien nos lo ofrece, como un fiero guerrero metamorfoseado en mujer sumisa" (de un boletín difundido por "Amicale des Musulmans de Créteil" en noviembre de 1999), se oyen resonar distintos ecos, muchos árabes, de desesperación depresiva y de una arrogancia compensatoria, incluso no sea una cita extraña a los lectores de "Las mil y una noches" (ver la historia entre el rey an-Un´man y sus descendientes contra el Imperio bizantino, capítulo 45). Por ello, las comparaciones históricas con Solimán el Magnífico, con Saladino el feroz o con el mismo imperialismo otomano aparecen sin duda sugestivas, potencialmente movilizadoras, pero sólo con la condición que tales referencias no vengan ofuscadas con la correcta comprensión de la realidad histórica y de las aclaraciones pertinentes.

Parece que este caso es el propio Faye quien concede un crédito excesivo a los gobiernos y a los países emigracionistas, en atribuirles planes orgánicos y coordinados de conquista, cuando su rol y peso actual parece más similar al de los jefes de tribu del África central y occidental que durante al menos cuatro siglos vendieron regularmente a sus propios súbditos a los traficantes de esclavos, primero para abastecer los mercados árabes y después los brasileños y los estadounidenses. ¿Aquel tráfico de esclavos puede ser considerado una "estrategia" para alterar la composición étnica del África sahariana o de los inmigrantes americanos "caucásicos", o para colonizar genética y culturalmente los relativos ámbitos?

Sería más que dudoso. Seguramente tal emigración ha mestizado más o menos consistentemente las zonas de destino, seguramente en los casos brasileño y estadounidense ha alterado irremediablemente las líneas culturales. Pero que todo ello correspondiese a una expansión deliberada, y al avance histórico, cultural y biológico de las poblaciones implicadas, es en verdad difícil de sostener. El autor parece aquí víctima de la propaganda identitaria de los mismos inmigrantes que, extraños en tierra extranjera, buscan en el peor de los casos recuperar y mantener una cohesión interna con valencia sustancialmente sindical y reivindicadora, compensatoria y consoladora de su "status" de desarraigados y renegados mestizos que, a pesar de todo, a diferencia de muchos europeos, americanos o brasileños, evidentemente aun no están enteramente habituados. También aquí habla en el fondo de Guillaume Faye la voz del ciudadano de un país antaño colonialista, que conoce desde hace pocos decenios la inmigración, pero que por emigración entiende aun hoy… ¡el éxodo hacia otras cortes europeas del residuo no guillotinado de la aristocracia francesa durante el periodo napoleónico y revolucionario! Concepto y experiencia cuando menos diferente de aquellos que el término "emigración" representa por ejemplo para la cultura italiana o irlandesa.

Si es cierto que el veinte por ciento de los matrimonios franceses son hoy en día matrimonios mixtos –incluso atribuyendo todo el peso del caso al hecho significativo de que se traten en la gran mayoría de los casos de matrimonios entre inmigrantes y mujeres autóctonas (y los jueces franceses contemporáneos asignan regularmente, en caso de separación, la prole a la madre, exactamente como los italianos)–, si es cierto que los inmigrantes no son (todavía) mayoría, y si finalmente es cierto que los inmigrantes no son ciertamente homogéneos entre sí, ¡no se diseña en el panorama un futuro de "limpieza étnica" para las comunidades extranjeras en el hexágono francés!

Por lo demás, al frente de las preocupaciones expresadas en "La colonización de Europa" a propósito del potencial condicionamiento de la libertad de la política exterior europea (¡!) por parte de los ambientes de la inmigración, en particular musulmana, es fácil constatar que la incidencia que la comunidad islámica puede ejercer al respecto es muy similar a aquella, en verdad mínima, de la comunidad italiana y alemana en América en las vigilias de la Segunda Guerra Mundial, y no por ejemplo a aquella de signo opuesto de la comunidad judía en nuestros países, o a aquella ejercida, por la vía del chantaje económico, la ocupación militar y el sometimiento político-cultural, por los Estados Unidos.

Estoy perfectamente de acuerdo con Faye al considerar hipócrita, jesuítico y perdedor el eslogan que invita a luchar "contra la inmigración, no contra los inmigrantes", muy parecido al anticomunismo clerical de los años cincuenta que quería "combatir al pecado, no a los pecadores". Los segundos caminan evidentemente con las piernas de la primera, y combatir la inmigración significa combatir la llegada, la instalación y la permanencia de los inmigrantes, por lo demás en nuestro país casi siempre ilegales en el sentido de la propia normativa vigente.

Pero considerar a los inmigrantes la consciente quinta columna de una guerra de conquista, cuando son a la inversa los gérmenes patógenos de un desarraigo universal que vacía y destruye las culturas y las economías de procedencia y saquea hasta reducirlas a ruinas las de destino (más allá de las momentáneas ventajas que aún están por demostrar), parece fruto de un "complotismo" que termina por revelarse políticamente funcional como discurso de legitimación para una "microguerra local de bandas", que es precisamente uno de los aspectos mas caracteristicos de la sociedad multirracial a la americana.

Evidentemente, también aquella de la "trata de esclavos" es una metáfora. Los inmigrantes, no sólo en Francia, apenas llegados se "empadronan" se benefician en la mayoría de los casos de un inmediato acceso a los bienes de consumo normalmente muy superior al que gozaban en los países de procedencia; se integran casi inmediatamente en la economía más o menos ilegal, cuando no criminal, de las respectivas comunidades; obtienen beneficios, ayudas y asistencia pública, con condiciones incluso discriminatorias para las poblaciones autóctonas. En una palabra, se "aburguesan". ¿Pero acaso es esto lo que entendemos por "victoria" y por "conquista"? Después de lamentar una tal suerte para las poblaciones europeas, ¿reconocemos en ella una "victoria histórica" de los inmigrantes? Del mismo modo se podría sostener que el proletariado o la Unión Soviética "han vencido", porque, hoy, con un poco de fortuna pueden comprar algún foulard de Hermes en las rebajas del supermercado occidental…

En "El Arqueofuturismo" Faye critica tal vez con exceso las que él mismo define como sus pasadas posiciones, y el proyecto político resumido en el título del libro "Europe-Tiers Monde, méme combat" de Alain de Benoist. Es absolutamente cierto que en Arabia Saudita un "pagano" o un "ateo", a diferencia de un cristiano o un judío, no tienen ningún derecho de entrada, y que los musulmanes desprecian a los europeos (por lo demás, como reconoce Faye, perfectamente con razón). Es cierto que son ilusorios "acuerdos" y "alianzas" entre mundos que en gran parte compiten para mejor comprometerse con el común enemigo americano. Pero no es en absoluto necesario que la detención del "ataque demográfico", o de una "colonización" que sólo es tal en el sentido zoológico del término, devenga objeto de un "acuerdo negociado" Europa-Tercer Mundo, según la hipótesis debenoistiana de la época (hoy desfasada en el "comunitarismo etnopluralista" de la Nueva Derecha ya tratado).

La verdad es que los países del Tercer Mundo que conservan algún residuo de independencia política o de cultura comunitaria e identitaria no han sido antes y no son ahora países de emigración, puesto que en ellos se entiende comúnmente que los recursos humanos pertenecen a la comunidad nacional, y pueden y deben ser empleados para resolver los posibles problemas comunes, e igualmente para compartir el destino común.

Y no es casualidad, exactamente como sucedió en Europa, que el enfriamiento y la inversión de los flujos migratorios siempre ha dependido constantemente del grado de sometimiento o independencia del país implicado (ver en nuestro continente como ejemplos a la Escocia después de la batalla de Culloden, la Irlanda dominada por los ingleses, la Alemania de los pequeños estados preguillerminos…). Exactamente como inversamente proporcional al grado de sometimiento político resulta la presión demográfica autóctona –lo que deja no sorprendentemente a Italia y Alemania en el fondo del mismo grupo europeo-occidental, ¡con la tasa de natalidad más baja de la historia de nuestro continente, como anota Faye, del tercer siglo después de Cristo!

Por lo demás, en términos ciertamente no de "cohabitación", sino más bien de "consistencia histórica posible, hemos ya apuntado que el cristianismo es intrínsecamente misionero y universalista (y aún lo es más en sus formas secularizadas), y por consiguiente inevitablemente llamado a "convertir" y adulterar con todos los medios las culturas ajenas; el judaísmo es fundamentalmente cosmopolita y por ello llamado a insertarse como cuerpo extraño etno-religioso en las otras culturas y comunidades y a minar y negar su cohesión interna; el Islam es hoy fundamentalmente el monoteísmo identitario de una comunidad etnocultural compuesta, ciertamente antifaústico y fundado sobre el rechazo de la visión europea de la historia, ciertamente imperialista e investido por una misión divina de autoafirmación, pero sobretodo, y, no sin razón, preocupado de no ser asimilado.

Tal diversificación tiene orígenes no solamente en diferencias teológicas, sino en experiencias históricas muy concretas que han envuelto a las tres religiones, llevándolas a ser lo que son, de tal modo que el Islam es el único en poder reivindicar con buen derecho una especie de "autoctonía" (que en el ámbito monoteísta sólo las corrientes sionistas del judaísmo buscan, no por casualidad, remedar con la constitución del Estado de Israel). En tal sentido, el expansionismo islámico, con la excepción quizás de la compleja vivencia de la primera islamización de Persia, parece ciertamente más cercano, a pesar de todo, a los modelos tradicionales de expansionismo político-culturales propios a todas las civilizaciones que al tipo de influencia etnocida ejercida en Occidente y en todo el mundo por el judeocristianismo, primero, y por sus variantes secularizadas que conocemos con el nombre de Sistema después; y por ello parece ciertamente menos inclinado a malgastar la propia voluntad de poder en la conversión y la adulteración forzada y/o en la dominación oculta.

Simétricamente, a diferencia de la mentalidad propia al judaísmo y al cristianismo, las poblaciones musulmanas derrotadas y sometidas, como reconoce Faye, siempre se encierran en el fatalismo y en la preservación de las propias tradiciones, sin representar ningún particular potencial de "envenenamiento" para aquellos que han llegado eventualmente a dominarles. Parece así difícilmente admisibles, y casi increíbles en boca del autor, algunas declaraciones en las que se deja arrastrar en su brillante discurso, como aquella (pág. 147) según la cual… "el pagano puede vivir sin conflictos con el cristiano o el judío, pero no con el musulmán" (¡!)

Del mismo modo, me parecen históricamente muy dudables, y políticamente desmovilizadoras, las opiniones según las cuales "es más fácil liberarse de unos "jeans" que de un chador, de un McDonald´s que de una mezquita". La historia está repleta de culturas que se imponen sobre otras culturas, para luego sufrir el desquite; las mezquitas fueron ya extirpadas sin mayores problemas de España, de Sicilia y de los Balcanes; la destrucción de todo testimonio cultural en el magma indiferenciado del Sistema, especialmente allí donde deviene completa, parece, según el actual estado de las experiencias, más irremediable.

Así, este tipo de afirmaciones, que sería erróneo extrapolar del contexto globalmente condivisible de la obra que comentamos, me parecen muy peligrosas bajo tres perfiles. El primero: la desenfatización de ese componente del aspecto propiamente racial y demográfico del problema, sobre el cual Faye ha insistido antes como una de las componentes trágicamente ignorados en las tendencias asimilacionistas o multiculturalistas por él criticadas. El segundo, estrechamente unido al primero: la objetiva continuidad que se genera con las posiciones del clero católico "combativo", que ya pagó el cambio con un lento declive de las vocaciones y del peso religioso contra el reconocimiento y el respeto social ahora unánimemente compartidos en exclusiva con los "hermanos mayores" de religión hebrea, y que hoy no tolera la improvista llegada de los "primos" mahometanos, convocando así a ciertos cruzados según quienes "nuestra cultura" será defendida solamente prohibiendo el culto islámico o expulsando al mar a los prófugos (europeos, a pesar de todo) de Bosnia, mientras serían bien recibidos los párrocos del Zaire, las criadas filipinas, los obreros andinos, las hermanas jamaicanas, los programadores israelíes…

Y, en tercer lugar, el hecho de que la pseudo-cultura de los McDonald´s y los jeans preparan y hacen posible exactamente el tipo de sociedad en donde conviven mil sectas entre sí, con el indiferentismo común y mayoritario, entre cientos de razas diversas sobre el mismo territorio. Todo el mundo es ciudadano, todos van y vienen, se entienden en inglés, no hay razón para no llevar a casa el propio pedacito de folklore o de creencia, o para no organizar la propia banda étnica en la cual encontrarse y encontrar un sucedáneo de política en el enfrentamiento tribal contra el barrio o el condominio confinante.

Retornando sobre un plano más filosófico y cosmo-histórico, uno de los eslóganes propuestos por "La colonización de Europa" es "Del etnopluralismo al etnocentrismo". Tales posiciones siguen los pasos de una ulterior crítica a la extremización (o mejor, en realidad, a la "externalización") de las posiciones antiuniversalistas de la Nueva Derecha.

También en este caso la Nueva Derecha ha partido de presupuestos correctos, y sobre todo capaces de derrotar políticamente al interlocutor "politically correct", precisamente por la constatación de la fundamental irreductibilidad de las civilizaciones y de las razas humanas, de modo que toda hipótesis de "igualdad humana" en sentido intercultural es en primer lugar ofensiva y lesiva para la identidad y el legítimo orgullo de pertenencia del "igualado". "Igualado" que es aburridamente asimilado, desde un punto de vista ideal antes que práctico, en una "humanidad" genérica definida sobre la base de parámetros occidentales, en donde como en Schelling "todas las vacas son grises", negando implícitamente el mismo derecho del Otro a la existencia –lo cual termina por reflejo negando implícitamente la existencia del Uno.

El subrayado de tal consecuencia "racista" inscrita en los postulados ideológicos del Sistema pertenece, por lo demás, a una estrategia más general del "déplacement" siempre aplicada en los ambientes de la Nueva Derecha, como ya hemos visto por ejemplo elevando a sistema el hecho de relanzar las tesis más inconvenientes a través de la sagacidad de citar entre comillas a personajes "santificados" por cualquier discrepancia con los regímenes fascistas históricos (quizás por repugnancia hacia un guardia urbano, o paradójicamente por… extremismo político mal conciliable con la "centralidad" mussoliniana o hitleriana), de la serie "he aquí, si queremos citar las ideas incómodas ya perseguidas también en los años treinta, etc."; y en este caso gritando a la inversa: "no respetan el derecho a las diferencias y las características concretas y específicas de las poblaciones extraeuropeas" (acusación que muchos toleran si se refiere a nuestra cultura y raza, pero que deja un fuerte sentido de incomodidad si se generaliza en una acusación de "injusticia" hacia los otros).

Al igual que en el ejemplo citado se termina en verdad por ser influenciado por todas las componentes más bizarras, lunáticas y marginales del mundo antiliberal de la primera mitad del siglo XX, también el discurso de la Nueva Derecha relaciona la cuestión de la originalidad e incompatibilidad de las culturas que termina siempre por desembocar en la idea perniciosa de una fundamental equivalencia entre la civilización y la raza, de una "par dignidad" acordada incondicional y automáticamente en toda dirección histórica y geográfica.

Desde aquí no hay mas que un paso para admitir incluso una inferioridad de la civilización europea, o al menos de la civilización europea históricamente existente, tesis que por lo demás ya había sido aceptada tanto en los ambientes tradicionalistas ("ex oriente luz", la "acción" como sierva de la "contemplación", la decadencia moderna y el reino de la cantidad respecto a la conservación a través de usos y costumbres más cercanos a una presunta Tradición ancestral común) como en los ecologistas y neoprimitivistas (con sus declaraciones en favor de sociedades históricamente extrañas, en supuesta armonía con la naturaleza, "no-agresivas" antifaústicas).

Tal conjunto de ideas es justamente rechazado por Faye como fruto y manifestación de un disolvente oscuro, de un etnomasoquismo enfermo que reniega de las propias raíces y no puede percibir intelectual ni afectivamente la absoluta peculiaridad de la propia identidad respecto a la identidad de los demás.

En oposición a ello, el autor retiene de nuevo la afirmación polémicamente opuesta de la superioridad de la cultura europea, que el libro "demuestra" con ejemplos y argumentos cuando menos convencionales y propios del siglo XIX, como la comparación entre Miguel Angel y la estatuaria precolombina, entre Mozart y la música ritual del Asia u Oceanía, enumerando además los legados de la cultura europea "en campos tan diversos como la arquitectura, la poesía, la literatura, las artes plásticas, la música, la astronomía, la física, las ciencias naturales, las matemáticas, la filosofía, la espiritualidad, la medicina, las técnicas aplicadas".

Ciertamente, cualquier tentativa de devolver a los europeos "conciencia de sí" es seguramente apreciable. Pero el discurso de "La colonización de Europa" deviene tan ambiguo y desviado como aquellos a los que se opone el autor cuando él mismo termina por escribir: "Existen criterios objetivos y universales de comparación entre las civilizaciones". O peor aún, en una caída absolutamente insólita de Faye en el tópico y en lo "políticamente correcto": "Hay religiones objetivamente superiores a otras porque sus obras espirituales son más elevadas (?) y porque no han dado lugar a masacres" (!).

Ahora bien, la idea de la "superioridad objetiva" es exactamente el punto de vista del extremismo "blanco" americano, del colonialismo franco-británico y tambien del reciente occidentalismo liberal (como por ejemplo, en Francis Fukuyama), y está tan viciada en sus presupuestos como es perjudicial en sus recetas prácticas. Por mucho que pueda aparentar ser "etnocentrista", comporta en realidad la admisión de una comparación universalista "entre naranjas y manzanas", como dicen los ingleses, algo extraño a la experiencia y al espíritu de las grandes civilizaciones históricas. Escribe Faye: "Los pueblos de larga duración, las civilizaciones vivaces siempre se han creído centrales y superiores", y cita como ejemplos a la China y al pueblo judío. Trasladando aquí las cuestiones más complejas y absolutamente peculiares que posee éste último, es perfectamente cierto que todas las grandes culturas y razas siempre se han considerado "superiores", pero en relación a los valores que ellas mismas se daban y expresaban, sin importarles mínimamente que en la base de tales reivindicaciones obvias (y contingencias) hubiese o no cualquier "verdad objetiva" de naturaleza universal, supercultural e interracial.

También me parece equívoco el criterio del "suceso histórico", porque tal "suceso" de la civilización europea es hoy peligrosamente puesto es discusión sobre el plano cultural y biológico, sin que ello deba mínimamente poner de nuevo en discusión la fidelidad que debo tributar a la misma civilización europea. Y secundariamente porque el mismo criterio está evidentemente influenciado por un punto de vista exactamente occidental-europeo, puesto que el "suceso" (versión pervertida de la idea de la "gloria inmortal" específica de la mentalidad indoeuropea, y por nada universal) es ya un sistema de medida culturalmente relativo, y como tal puede representar bien poco, o ser completamente incomprensible, en la perspectiva original, no occidentalizada, de la cultura malgache o de la tibetana.

Aún peor me parece el recurso a los "reconocimientos" que a la "superioridad" europea vemos tributar por otras culturas ("En el Japón, por ejemplo, la música europea es reconocida como más evolucionada que la música nacional"). Es fácil identificar en muchos de tales reconocimientos nada más que la manifestación del desarraigo impuesto por el colonialismo cultural del sistema occidental, o nada menos que la regresión a un estadio ulterior de degradación, un equivalente local del exotismo folklórico y de la xenofilia que Faye reprocha a los europeos (ver los coreanos que cenan en restaurantes con los camareros disfrazados de gondoleros o con traje tirolés). Pero en otras ocasiones, los mismos reconocimientos no son sino la manifestación de un fenómeno legítimo de (crítica y limitada) "cross-pollination" cultural, que siempre ha existido a nivel de las élites, y absolutamente funcional en el nacimiento, desarrollo y floración de las grandes culturas (que para ser sí mismas tienen necesidad de otro del cual distinguirse y con el cual relacionarse dialécticamente), al cual se opone Faye, declarándose provocadoramente partidario del "aislacionismo cultural".

El pensamiento identitario de matriz, decíamos, italogermano y centroeuropeo se funda sobre una afirmación voluntarista de valores, tradiciones y elementos culturales que son defendidos y propugnados simplemente porque son los reconocidos y reivindicados como propios. Y ello sin necesidad de recurrir a una dudable Razón Universal, como tal susceptible de ser desmentida (¿qué le importa a un indio boliviano que nunca ha tomado contacto con el Occidente el pensamiento de Heráclito, o sobre qué bases debería reconocerlo como "superior" y prescindir de la cultura irreduciblemente distinta en la cual vive él?).

La misma teoría nacionalsocialista de la "raza superior", correctamente entendida, retiene la afirmación de ciertos valores y elementos a un nivel completamente interno a una dialéctica alemana y europea, a un juicio aparentemente fundado sobre elecciones y pertenencias ya dadas por descontado, y a una voluntad de poder colectiva y autofundada. A ningún autor o dirigente de tal ambiente se le habría pasado por la mente la idea de que la civilización europea pudiera ser considerada "superior" desde el punto de vista de un judío, un africano o un japonés, así como estaba claro para todos que el juicio diverso sobre estas tres razas y tradiciones, por ejemplo, fuese el único juicio posible sobre ellas: era el juicio desde el punto de vista europeo, alemán y nacionalsocialista, y no el de un inexistente "observador desencarnado".

En el momento en que –después de haber reconocido (y luego inexplicablemente olvidado) que cada raza y cultura no puede sino considerarse superior desde su propia perspectiva– introducimos la idea según la cual existe una posible "discusión" al respecto fundada en referencias comunes y "objetivas", justificamos evidentemente la "conversión" a la "superior" civilización occidental, conversión que a su vez termina por justificar la "acogida" por parte de ésta última de elementos humanos y culturales extraños, así "convertidos" y mestizados, a lo más bajo una temporal "tutela" europea, pero al final, inevitablemente, inmersos en la entropía étnica total.

Estoy perfectamente de acuerdo con el hecho de que los europeos deben ante todo (pre)ocuparse de su identidad cultural y racial antes de angustiarse por la de los otros, que además corren menos riesgos. Pero también es cierto que todo ataque occidental a la identidad de los otros representa una llama que ataca por ambos lados, porque el mestizaje étnico y cultural anula cualquier especificidad de pertenencia.

Y estas especificidades son, como reconoce Faye, una riqueza que condiciona la misma capacidad de la especie humana en su complejo de conservar la propia peculiaridad respecto al resto de la biosfera, sobrevivir y realizar el propio destino. Las razas y culturas humanas no son solamente como las razas de los caballos o de los perros. Son también experimentos, a escala cósmica y macrocósmica, de una autocreación en la cual el hombre es trágicamente llamado para ser, o mejor devenir, aquello que es. Por ello, toda gran civilización ha necesitado de la existencia y de la resistencia de otras poblaciones distintas, en términos genéticos, espirituales, lingüísticos, para autodefinirse y adquirir, polémicamente, una consistencia de sí. Lo repetimos una vez más: quien afirma agresivamente la propia identidad es un rival contingente, que la niega y reniega ("te envenena también a ti") con éxitos potencialmente fatales para todos los pueblos.

Al contrario, Faye tiene perfectamente razón cuando subraya la absoluta prioridad, entre las varias cuestiones políticas actuales, de la cuestión relativa a la inmigración alógena, como amenaza a la supervivencia étnica, física y biológica de los pueblos europeos.

En este sentido toda otra cuestión es relativamente secundaria, en cuanto que ésta representa la amenaza última, la catástrofe irremediable que hoy nos amenaza.

Pero de nuevo a mi parecer hay que añadir un nuevo dato, a nivel político, sobre la inserción de tal fenómeno en un escenario migratorio, e "inmigratorio", más complejo, que en cierto sentido constituye también el cuadro que hace posible, facilita o acompaña, tal "inmigración de población" fundamentalmente etnocida.

Intento obviamente hacer referencia a la inmigración que, por ejemplo, recibe hoy en día Italia de la Europa suroriental (Albania, Rumanía, ex Yugoslavia en primera fila), por ser un veinte por ciento del total y que técnicamente puede ser considerado un flujo interno europeo, y que aun siendo la única reprimida por el poder constituido (aunque sea con resultados ridículos) comporta consecuencias sociales desastrosas en términos por ejemplo de criminalidad común y mafiosa, de orden público, de ilegalidad difusa, que a su vez afecta a la ya limitada capacidad de resistencia y conciencia identitaria de las poblaciones más directamente expuestas. Igualmente merece ser mencionada la migración interna del Sur al Norte presente en muchos países europeos, así como de la "periferia" al "centro", en la última fase de un proceso re-instalación y proletarización (o mejor, "movilización" a la americana) que aún no ha terminado de consumarse así como aún no ha terminado de consumarse la destrucción en curso de las identidades regionales bajo el ataque concentrado de la inmigración alógena y de la "naturalización" forzada centralista aún en acto.

Reconocer el "status" de europeos a los albaneses o a los rumanos, y subrayar la paradójica discriminación sustancial que éstos sufren respecto a los senegaleses, los chinos, los filipinos o los zulúes, no significa aprobar o tolerar el traspaso en masa de aquellos a nuestras ciudades, o la implantación masiva de comunidades extrañas –y además parasitarias, nómadas o criminales– sobre el territorio italiano.

Así como la pertenencia al mismo Estado-nación no puede representar una justificación para la perduración en vastas áreas europeas, concretamente en el sur de ciertos países, de círculos viciosos típicos de la emigración – subdesarrollo – asistencialismo – clientelismo – mafia - emigración, que generan presiones fiscales y distorsiones económico-políticas inaceptables en las regiones urbanas y en el norte, causa a su vez de disgregaciones sociales según el modelo mexicano-brasileño, y de sucesivas e irresponsables importaciones de mano de obra a bajo precio sobre todo el territorio (ver la actual situación de la agricultura en el valle del Po).

Estos fenómenos, lejos de ser irrelevantes, constituyen el marco en donde se inserta y prospera el etnocidio de las poblaciones europeas autóctonas, contribuyendo a desquiciar los "fundamentos" comunitarios de una posible resistencia, como parecen al menos haberse dado cuenta las áreas más conscientes del legismo italiano, del movimiento bretón o del nacionalismo galés.

En fin, hemos visto cómo Guillaume Faye profetiza la guerra civil étnica sobre el suelo europeo. Que será, como él mismo precisa, antes que una guerra civil del tipo clásico y fratricida, una guerra de liberación nacional, en sentido muy literal.

El autor manifiesta sin embargo, con razón, una desconfianza absoluta en la capacidad de nuestra sociedad para administrar el impacto del asentamiento masivo de poblaciones y culturas alógenas y hostiles (sea a través de la absorción forzada o a través de la implantación de un modelo social "multicultural" y neotribal) y en la posibilidad actual de contrastar el fenómeno en el ámbito de la pura política gubernamental o en el ámbito de la legalidad constitucional e internacional del Sistema, y es así que prevé el alcance en todo caso de un punto de ruptura que ponga en discusión los procesos denunciados. Y no sólo. Confía en que tal crisis se produzca, como elemento necesario para que pueda producirse un vuelco de la mentalidad presente y del escenario político contemporáneo, en un contexto sustancialmente insurreccional.

Ahora bien, que no existen soluciones prácticas en el interior del contexto político y cultural contemporáneo es perfectamente cierto, así como lo es el hecho de que se debe tener el coraje salir decisivamente de los parámetros mentales de la "political correctness" y de los regímenes democrático-liberales tradicionales. La "espera de la crisis" en el pensamiento de Faye, crisis étnica en "La colonización de Europa" como económica y ecológica en "El Arqueofuturismo", amenaza sin embargo de colorearse de aspectos mesiánicos, en el sentido en que la Revolución comunista era la espera de la extrema agravación de la explotación, de la concentración de la propiedad de los medios de producción y de la lucha de clases. Por lo demás puesto que tal crisis es tanto más probable cuanto más brutal, cuanto menos gradual es el fenómeno combatido, tal postura lleva a una valoración ambigua de su agravación, por sus auspiciadas potencialidades "catastróficas", en sentido etimológico; valoración que amenaza confinar, como en todos los "adventismos" religiosos y laicos, con una "lógica de lo peor", a nivel político fundamentalmente desmovilizante, en cuanto incoherente con los valores defendidos. Una lógica verdaderamente peligrosa, exactamente a la luz de la potencial irremediabilidad, sobre lo cual el mismo Faye insiste mucho, de procesos que inciden sobe la misma existencia física del sujeto histórico europeo, entendido como grupo etnocultural concreto. Soy, en efecto, en cierto modo más pesimista que el autor; y no se me escapa, bajo la falsilla de las reflexiones de Giorgio Locchi, que, si la historia es verdaderamente "abierta", el mismo fin de la historia es posible; que, a pesar de la resistencia siempre renaciente a la misma, la entropía cultural racial y lingüística encarnada por el Sistema puede perfectamente realizarse hasta el fondo, también a precios y con costos hoy impensables para sus actores. De la "crisis" profetizada no me parece en efecto cierto ni su verificación –especialmente allí donde y cuando la gradualidad, la aceleración de los fenómenos extiendan la toma de conciencia y de reacción colectiva–, ni sobre todo el éxito. Para que estalle la guerra de liberación, y sobre todo para que resultemos vencedores, debe haber alguien dispuesto a combatir. El etnocidio de por sí no genera revuelta, o al menos revuelta de relieve político, como la crisis económica y la explotación no generan por sí la revolución, o la difusión del pecado y los cataclismos simbolizadores del adviento del Anticristo generen de por sí las condiciones para la Segunda Venida.

Pero, mientras el mito solsticial ("la ocasión se manifiesta a quien la sabe atender", "donde el peligro es mayor, allí nace lo que salva", "tocar el fondo del cual ya no se puede salir", "nada hay más oscuro que la medianoche", etc.) representa una referencia espiritual ineludible para quienes hoy se baten por el renacimiento y la misma supervivencia de Europa, es útil reafirmar que no es la crisis la que provoca la "ruptura del tiempo de la historia" de la que representa a lo sumo la ocasión, sino que es la voluntad histórica del sujeto que en ella se esconde.

Y no sabremos cómo suscitar, mantener y cementar tal voluntad si no es a través de una acción y una praxis militante y coherente con los principios afirmados, que impongan hoy combatir la colonización y el etnocidio de Europa a todos los niveles y en todos los ámbitos posibles y concretamente en la elección política y personal cotidiana, ciertamente en la conciencia de su insuficiencia y en la determinación de aprovechar el cambio de las condiciones comúnmente destinadas a producirse, pero también en el apoyo constante a cualquier iniciativa de contraste y contención que se ofrezca concretamente.

 

 

Traducción de Santiago Rivas

 

 

Notas

(1) Grupo de Investigación y Estudios para la Cultura Europea. "Grece", en francés, significa "Grecia" [NdT]

(2) Con el título "Il sistema per uccidere i popoli" (El sistema para matar a los pueblos), Societá Editrice Barbarossa, Milano 1997.

(3) Indagaciones sobre los Derechos Humanos.

(4) Nuevos discursos a la Nación Europea.

(5) Occidente como decadencia.

(6) Ediciones Nueva República. Barcelona 2003.

(7) (El eclipse de lo sacro). Editions du Labyrinthe. París 1990.

(8) Traducido al español por Klaas Malan y disponible en red-vertice.com

(9) La Colonización de Europa. Edición particular. Madrid 2001

(10) El grupo dirigido por Gianfranco Fini, que aglutina a los denominados "postfascistas" procedentes del antiguo MSI:

(11) "Catto-comunista", expresión corriente en el lenguaje político italiano y de difícil traducción literal a otras lenguas. En sí, hace referencia a las corrientes de la Iglesia Católica permeables a las ideologías progresistas en general y no tanto marxistas en particular.

(12) Se trata de una famosa asociación cultural y folclórica celticista. Los Arvernos fueron una de las tribus de la antigua Galia.

(13) Referencia a la famosa obra de Julius Evola, "Rivolta contro il mondo moderno".

(14) Beur: joven árabe nacido en Francia de padres inmigrantes.

(15) "El Islam y los EEUU. Una alianza contra Europa". Inédito, no publicado. Madrid 2000.

(16) se trata de una broma: los prefijos telefónicos internacionales, desde Italia, comienzan todos 000.

(17) Obviamente escrito antes de la segunda Guerra del Golfo y la posterior ocupación americana.

 

[Extraído de la Revista L'Uomo Libero, número 51, Mayo de 2001]

samedi, 17 janvier 2009

Waarom Israel aan het winnen is

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Waarom Israël aan het winnen is

Geplaatst door yvespernet op 13 januari 2009

Laat ik eerst even heel duidelijk zijn; mijn steun in dit ganse conflict gaat uit naar het Palestijnse volk. Niet naar Israël dat momenteel uitblinkt in blind en extreem geweld, maar ook niet naar de HAMAS, die dan wel tegen Israël vechten, maar tegelijkertijd ook een wereldomvattende imperialistische agenda heeft. Mijn persoonlijke politieke sympathie in Palestina ligt bij Fatah, bij de strekking Marwan Barghouti.

Het lijden van het Palestijnse volk is momenteel immens groot, zeker nu er bijna duizend doden zijn gevallen op een zeer korte tijd. Israël schrikt ook niet terug om verboden wapens (fosfor) te gebruiken in het meest dichtbevolkte gebied ter wereld, noch schrikken ze terug om met artillerie VN-gebouwen in Gaza te bombarderen, ondanks het feit dat de VN expliciet aan Israël had gezegd waar hun gebouwen stonden en waar ze voor dienden.

Internationale onmacht

Los van ideologische en moraliserende stellingen is het echter duidelijk dat Israël hier momenteel een overwinning aan het behalen is. De internationale gemeenschap krijgt absoluut geen vat op Israël en vooral de VSA ligt meer dan ooit aan de voeten van Israël. Het gaat zelfs zo ver dat Israël de wet dicteert aan de VSA, althans toch volgens Israëlisch premier Olmert:

http://www.iht.com/articles/2009/01/13/america/13olmert.php

In an unusually public rebuke, Prime Minister Ehud Olmert of Israel said Monday that Secretary of State Condoleezza Rice had been forced to abstain from a United Nations resolution on Gaza that she helped draft, after Olmert placed a phone call to President George W. Bush. “I said, ‘Get me President Bush on the phone,’ ” Olmert said in a speech in the southern Israeli city of Ashkelon, according to The Associated Press. “They said he was in the middle of giving a speech in Philadelphia. I said I didn’t care: ‘I need to talk to him now,’ ” Olmert continued. “He got off the podium and spoke to me.” [...] Olmert claimed that once he made his case to Bush, the president called Rice and told her to abstain. “She was left pretty embarrassed,” Olmert said, according to The AP.

De Hezbollah, toch de grote overwinnaars van de oorlog in 2006 (wat de schuld van Israël zelf was door het vooropstellen van onbereikbare doelen), laat ook amper van zich horen. Ze tonen zich solidair met Hamas en misschien zijn er zelfs contacten tussen de twee organisaties, maar daar beperkt het zich ook toe. Zuid-Libanon ligt immers vol Israëlische clustermijnen en de occassionele blauwhelm maakt het ook niet makkelijk voor Hezbollah om aanvallen uit te voeren. Egypte is dan weer de grote bondgenoot van Israël op dit vlak, puur vanwege opportunistische binnenlandse redenen. HAMAS is immers de Palestijnse vleugel van de Moslimbroeders, de nummer één vijand in Egypte. Laatstgenoemden zullen er dan ook alles aan doen om de Moslimbroeders, waar ook ter wereld, schade toe te brengen. Dat Egypte nu gesprekken organiseert tussen HAMAS en Israël doet bij mij het vermoeden rijzen dat er afspraken worden gemaakt tussen de Moslimbroeders en het Egyptische regime.

De onmacht van HAMAS

HAMAS zelf heeft dan weer getoond dat ze wel een militie kunnen vormen, maar dat besturen ook niet echt hun grootste talent is. Er is absoluut geen enkel noodplan in werking gesteld, ook al kon iedereen zowat de Israëlische aanval van ver zien aankomen. Het verschil in communicatie tussen Israël en HAMAS toont ook wel dat HAMAS grote schade heeft geleden:

http://apnews.myway.com/article/20090113/D95M8EBO0.html

In a speech broadcast on the group’s Al Aqsa TV station, Hamas’ prime minister, Ismail Haniyeh, claimed his group would continue fighting, but said it was pursuing diplomacy to end the conflict. He said any truce would require an Israeli withdrawal from Gaza and the opening of the territory’s blockaded borders.

http://apnews.myway.com/article/20090112/D95LSD9G1.html

Israeli Prime Minister Ehud Olmert stood within Hamas rocket range Monday and warned Islamic militants that they face an “iron fist” unless they agree to Israeli terms for an end to war in the Gaza Strip

Conclusie

Het ziet er dus naar uit dat Israël op korte en middellange termijn een overwinning zal behalen. Door de vernietiging van infrastructuur, huizen, ziekenhuizen, etc… wordt de Palestijnen een zware klap toegebracht. HAMAS wordt in diskrediet gebracht door hun falend leiderschap en de Palestijnse overheid van Abbas staat erbij en kijkt ernaar. Op lange termijn zullen de vele getraumatiseerde kinderen echter opgroeien als militanten van de radikaalste soort. En aangezien de demografie in het Palestijnse voordeel speelt, kan men nog meer Israëlische acties verwachten in de hoop zo de Palestijnse rangen “uit te dunnen” of toch op z’n minst om ze onder de knoet te houden. Vrede in het Nabije Oosten zal niet meer voor mijn generatie zijn, noch voor die na mij of die daarna.

Bijkomend, als Kadima en Labour nu de verkiezingen winnen in Israël, zal dit zijn vanwege deze oorlogscampagne. Waardoor ze niet geneigd zullen zijn om daarna nog veel over vrede te spreken. Als ze niet winnen, dan zal het de Likud zijn die de overwinning waarschijnlijk zal binnenhalen. En die staan nu ook niet direct gekend om hun knuffelvisie over de Palestijnse zaak.

En nog een laatste woord over Boycot Israël. Men kan inderdaad Israëlische producten proberen te boycotten, maar met fruit moet men oppassen. Vaak zijn het immers Palestijnse boeren die hun producten onder Israëlisch label moeten verkopen en zijn zij ook degenen die het het hardst zullen voelen. Bron hiervoor: Joe Sacco en zijn verslag van zijn reis in Palestina.

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La notion d' "Etat manqué" chez Noam Chomsky

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La notion d’ « Etat manqué » chez Noam Chomsky

 

Aux Etats-Unis nous trouvons d’autres façons de penser que la façon « officielle » de la Maison Blanche, du Pentagone, de Wall Street et des médias amis de l’élite au pouvoir comme Fox et CNN… La figure de proue de cette autre Amérique est un professeur d’université à la retraite, le linguiste Noam Chomsky qui, en 2005, avait été promu par les lecteurs du magazine américain « Foreign Policy » d’ « intellectuel contemporain le plus influent ». Dans ses écrits, nous découvrons une approche critique de la politique générale de la seule superpuissance encore en lice. Cette année est parue la traduction néerlandaise de son ouvrage le plus récent, « Mislukte Staten » (en français : « Les Etats manqués », dans la collection 10-18, n°4163).  Aux Etats-Unis, on parle d’ « Etat manqué » lorsque l’Etat, dont question, constitue un danger potentiel pour les Etats-Unis. Noam Chomsky se demande si les Etats-Unis ne présentent pas eux-mêmes tous les symptômes d’un « Etat manqué ».

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Dans la première partie de son ouvrage, notre auteur analyse comment les Etats-Unis foulent aux pieds le droit international et, dans la seconde partie, il traite des institutions démocratiques du pays. La partie la plus importante du livre concerne effectivement l’analyse de la démocratie, telle qu’elle est pratiquée aujourd’hui aux Etats-Unis, et a pour titre : « Etendre la démocratie aux Etats-Unis ». Chomsky désigne les Etats-Unis comme une « démocratie stato-capitaliste ».

 

John Dewey, le principal des philosophes/sociologues américains du 20ème siècle, définissait la politique comme l’ombre que le « big business » jetait sur la société. Sa conclusion ? Rien ne changera tant que le pouvoir demeurera aux mains des dirigeants du monde des affaires, qui veulent du profit par le truchement d’un contrôle privé sur le système bancaire, sur l’immobilier et sur l’industrie. En plus, le monde des affaires renforce son pouvoir en mettant la main sur la presse, la publicité et la propagande. Selon Chomsky, le système politique actuel aux Etats-Unis est encore plus ou moins comparable à l’esquisse de départ, du moins sur le plan formel, mais les concepteurs initiaux de la démocratie américaine seraient tous atterrés de voir comment cette esquisse a évolué pour aboutir au « Zeitgeist » contemporain.

 

Il y a surtout un fait déroutant: le système juridique adapte le droit des personnes aux besoins des « entités collectives », c’est-à-dire des sociétés. Principe important dans le droit anglo-américain de l’entreprise : celle-ci doit exclusivement viser le profit matériel. Elle peuvent avoir des activités philanthropiques ou caritatives mais uniquement si celles-ci ont une influence positive sur leur image de marque et, donc, sur leurs profits. « Tout pas supplémentaire en cette direction apporte une entorse sérieuse aux principes libéraux classiques, à la démocratie et au fonctionnement du marché », écrit Chomsky.

 

Le penseur le plus significatif en ce domaine est un certain James Madison. Il affirmait que le pouvoir devait être entre les mains de « la richesse de la nation… des hommes les plus compétents ». « Ceux qui n’ont pas de propriété ne peuvent guère comprendre les droits de la propriété et des possédants. C’est pourquoi ils ne peuvent exercer aucun pouvoir sur ceux-ci. Les possédants doivent en conséquence avoir davantage de droits que les simples citoyens ». Le problème que soulève là Madison n’est pas nouveau. Loin s’en faut. Il remonte au premier des classiques de la science politique, à la « Politika » d’Aristote. Ce philosophe grec était un partisan de la démocratie, certes réduite aux hommes libres, exactement comme Madison deux mille ans après lui. Aristote reconnaît que cette forme de gestion de la Cité présente des lacunes. « Si la richesse est trop concentrée, les pauvres utilisent leur puissance, en tant que majorité, pour répartir plus équitablement la richesse. La où quelques-uns possèdent beaucoup et d’autres rien, surgit le danger d’une démocratie extrême . Et celle-ci ne reconnaît pas les droits des riches ». Aristote et Madison parlent du même problème mais tirent des conclusions différentes. Aristote entendait évoquer le développement d’un Etat de bien-être qui devait maintenir les inégalités dans des limites acceptables car, seulement de cette façon, disait-il, les riches conserveront l’estime de tous et leurs privilèges et possessions ne seront pas contestés.

 

« Bien que les luttes populaires à travers les siècles aient enregistré de nombreux succès pour la liberté et la démocratie, cette progression fut un chemin ardu. Et bien que la spirale soit normalement ascendante, le recul est parfois si important que la population est presque mise entièrement hors jeu par le biais de pseudo-élections comme celles, caricaturales, de 2000 et celles, encore pires, de 2004 », écrit Chomsky à la p. 231 de la version néerlandaise de son ouvrage. Aujourd’hui, les réactions négatives face à la politique du président George Bush junior et son équipe signalent que l’inquiétude des Américains et du monde est profonde, une inquiétude qui n’a eu que peu ou pas d’antécédents. Dans les revues scientifiques, on se demande si le système politique américain est encore viable à terme. Certains auteurs comparent le ministère de la justice sous Bush à celui des nazis, d’autres perçoivent un parallélisme entre la gestion par Bush et le Japon « fasciste ».

 

De même, les mesures prises aujourd’hui pour tenir le peuple américain en laisse rappellent de curieux souvenirs. Fritz Stern, un spécialiste de l’histoire allemande, écrivit naguère un livre intitulé : « Le déclin de l’Allemagne : de la civilisation à la barbarie ». Dans ce livre, Stern rappelle à ses lecteurs qu’il a lui-même, avec de nombreux autres, trouvé une terre d’asile aux Etats-Unis dans les années 30 du 20ème siècle. Aujourd’hui, cet ancien réfugié se fait de gros soucis quant à l’avenir des Etats-Unis. Selon Stern, personne ne peut ignorer le parallélisme entre l’époque révolue du nazisme et notre époque.

 

Fritz Stern évoque l’appel diabolique d’Hitler qui qualifiait sa mission de « divine » et se posait comme « le sauveur de l’Allemagne ». Ensuite, il évoque aussi le fait que Hitler a voulu faire de la politique une donnée pseudo-religieuse qui cadrait parfaitement avec la doctrine traditionnelle chrétienne. Stern nous exhorte à ne pas oublier que le déclin rapide de l’Allemagne a eu lieu précisément dans le pays de la science, de la philosophie et de l’art, dans un pays qui faisait la fierté de la civilisation occidentale. Avant que la propagande délirante des années de guerre n’ait fait son effet entre 1915 et 1918, les plus éminents représentants de la science politique aux Etats-Unis considéraient que l’Allemagne était un modèle exemplaire de démocratie. On ne doit pas oublier non plus que les nazis ont appris leurs techniques de propagande auprès des agences anglo-américaines, qui les avait testées et utilisées pour la première fois. Ils ont cherché refuge, en quelque sorte, dans des symboles simplistes et des slogans sommaires, qu’ils répétaient à satiété, parce qu’ils éveillaient des peurs et d’autres émotions de base, exactement comme les slogans publicitaires.

 

Joseph Goebbels insistait pour dire « qu’il utiliserait des méthodes publicitaires américaines pour vendre le national-socialisme ». Noam Chomsky : « Le ‘messianisme diabolique’ est bien l’ingrédient naturel des groupes dominants qui cherchent, bien décidés, à faire valoir leurs intérêts à court terme dans un éventail limité de secteurs-clés de la puissance politique ou pour viser la domination mondiale. Il faut être frappé de cécité pour ne pas comprendre que ce « messianisme diabolique » n’est pas le moteur de l’actuelle politique américaine. Les buts fixés par le gouvernement et les méthodes qu’il utilise se heurtent à la résistance de l’opinion publique. Voilà pourquoi il s’avère nécessaire de manipuler le public, de lui induire une attitude préconçue, par tous les moyens. Et Noam Chomsky conclut : « Les citoyens doivent s’engager au quotidien pour créer les bases d’une culture démocratique qui puisse fonctionner ou pour les réinventer. Une culture démocratique où le public a sa voix dans le concert politique. Non seulement dans l’arène politique elle-même mais aussi dans l’arène économique, si importante, justement là où on l’empêche par définition d’exprimer » (p. 290 de l’édition néerlandaise).

 

Dans ce livre, notre auteur décortique clairement, avec l’appui d’une bonne documentation, avec 34 pages de notes explicatives, l’actuelle politique de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. Sa lecture est un « must » pour tous ceux qui veulent faire connaissance avec « l’autre Amérique », avec ces penseurs et idéologues de la gauche progressiste américaine, actifs outre-Atlantique et influents dans les cercles de gauche du parti démocrate qui, malgré tout, ont contribué à la victoire de Barack Obama.

 

Miel DULLAERT.

(recension parue dans « Meervoud », Bruxelles, n°141, novembre 2008 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

 

Noam Chomsky, « Mislukte Staten – Machtmisbruik en de aanslag op de démocratie », traduction de Wim Van Verre, éd. EPO vzw, 335 pages, 2008.

London - urbanes Testlabor der "One World"

London – urbanes Testlabor der »One World«

Gefunden : http://www.deutsche-stimme.de

Moscheen, Synagogen, Hindutempel – so wie die Themsestadt könnten bald auch deutsche Städte aussehen

Von wegen »britische« Polizei – auch die Behörden
in Großbritannien sind längst auf »Multikulti«-Kurs

Die Stadt an der Themse war einst unbestrittener Nabelpunkt der Welt und das Zentrum transnationaler Handels- und Kolonialpolitik. Auf einem Viertel des Erdballs flatterte der Union Jack, bis die vorletzte Jahrhundertwende den Höhepunkt des kolonialen Hegemonialanspruchs Großbritanniens markierte.

Seither befand sich die Hauptstadt des Vereinigten Königreichs in stetigem Wandel. London ist nicht mehr der Ausgangspunkt des britischen Expansionsdranges, sondern ein multikultureller Schmelztiegel ganz nach dem Geschmack großkapitalistischer »Global Players«. Stadt und Umgebung mutierten zum Babylon Europas. Im einstigen Zentrum des britischen Weltreiches werden heute 300 Sprachen gesprochen, es gibt 183 Synagogen, 130 Moscheen und 37 Hindu-Tempel – Europas Babylondon.

Großbritanniens koloniales Erbe und die weiterhin enge Verbindung des Inselstaats mit den ehemaligen Kolonien im Commonwealth schuf jenen besonderen Einwanderungsdruck, dessen Intensität mit einem Pendelschwung zu vergleichen ist. Während die britische Geschichte infolge der Vormachtstellung des Königreichs auf See von starken Auswanderungswellen geprägt war, in deren Verlauf Engländer, Schotten und Waliser fremde Kontinente besielten und wirtschaftlich erschlossen, änderte sich die Richtung der Menschströme schlagartig in den siebziger Jahren.

Oberste Devise der jeweiligen Kolonialverwaltungen war es, die überseeischen Landstriche eng an das »britische Mutterland« zu binden und Schulwesen und Rechtsprechung kopiert und möglichst unverfälscht auf die jeweiligen Kolonien zu übertragen. Es ist daher nicht verwunderlich, daß mit Beginn der siebziger Jahre die erste große Einwanderungswelle aus der Karibik, aus Indien, Pakistan und Bangladesch auf London hereinbrach.

Natürliche migrations-hemmende Barrieren wie die Unkenntnis der Sprache, der landesüblichen Gepflogenheiten, der Gesetzeslage und der kultureller Exklusivität stellten kaum Hindernisse für die einreisenden Fremden dar. Um die letzte Jahrhundertwende zogen dann vermehrt reiche Russen nach London. Rund 250 000 Russen haben London zum »Moskau an der Themse« gemacht – mit drei florierenden russischen Tageszeitungen und vier eigenen Schulen.

Keine Meldepflicht für Immigranten

Im Zuge der EU-Osterweiterung 2004 kamen schließlich Polen, Slowenen, Tschechen und Slowaken ins Königreich. Die meisten der osteuropäischen Zuwanderer stammen aus Polen. Sonntags sind beispielsweise nunmehr die Besucher von katholischen Gottesdiensten gegenüber den traditionellen Briten als Anglikaner in der Überzahl.

Allein seit 2004 sind schätzungsweise 1,8 Millionen Ausländer ins Land gekommen, allein nach London 650.000 Einwanderer, so der Daily Telegraph. Es fehlen aber präzise Zahlen, weil es im Vereinigten Königreich keine Meldepflicht gibt.

Zwei entscheidende Gründe machten diesen zweiten großen Zustrom möglich. Erstens: Die Labour-Regierung unter Tony Blair verzichtete 2004 nach dem Beitritt der osteuropäischen Staaten in die Europäische Union auf eine entsprechende Regulierung für den heimischen Arbeitsmarkt. Dieser freiwillige Verzicht auf eine Begrenzung hinsichtlich des Schutzes einheimischer Arbeitskräfte wurde bitter bestraft und begünstigte die Masseneinwanderung massiv.

Da – zweitens - infolge eines konjunkturellen Aufschwungs in den Jahren zwischen 1997 und 2007 mehr als zwei Millionen Arbeitsstellen geschaffen wurden, beugte sich die Labour-Regierung dem Druck der Wirtschaftslobbyisten und schuf jenen verhängnisvollen Umstand, den der konservative Politiker Chris Graylingin die Worte faßte: »Die Regierung schuf britische Jobs für ausländische Arbeitskräfte«. Auf keinen Fall herrscht in Großbritannien auch nach dieser »Job-Offensive« Vollbeschäftigung. Das Arbeitsministerium mußte einräumen, daß mehr als 80 Prozent aller neuen Stellen von Ausländern besetzt wurden.

Afrikanische Autohändler in Elephant&Castle

»Die Welt in einer Stadt« – mit diesem Motto bewarb sich London in der Bewerbungskampagne zur Austragung der olympischen Spiele 2012. In den vergangenen zehn Jahren sind mehr Ausländer nach London gezogen als nach New York. Die »Tube« – die Londoner Untergrundbahn verbindet ganze Erdteile miteinander. Von den polnischen Delikateß-Läden in West-London über den Currymarkt in Southall führt die Fahrt den Reisenden bis zu afrikanischen Autohandelsplätzen in Elephant&Castle.

Derzeit ist in London mit seinen Vororten jeder dritte gemeldete Einwohner außerhalb Großbritanniens geboren worden – in der Stadt London selbst mit mehr als sieben Millionen Einwohnern sind es fast 40 Prozent. Nur noch zwei von drei Londonern sind weiß, da auch statistisch Angehörige der zweiten und dritten Generation in Großbritannien nicht mehr als Ausländer erfaßt werden.

Auch andere britische Städte sind ein Vielvölkergemisch. Die Statistik besagt zwar, daß der Ausländeranteil in Deutschland höher liegt, aber das trügt: In Großbritannien kann man sich viel leichter einbürgern lassen, und deshalb werden die meisten Ausländer auf den Inseln irgendwann als Passport-»Briten« geführt.

Ohne Ausweiskontrollen, Einreisekriterien und Anstellungskontingente wird der Moloch laut Zukunftsprognosen weiter anschwellen. Ein Blick auf die Fernsehbildschirme, die sich in der Berichterstattung zu den Bombenanschlägen im Juni 2005 überschlugen, offenbart dem Zuschauer nicht mehr die Sicht auf eine europäische Stadt. Träger von Turban, Kaftan und Burka dominieren Londons Straßenbild.

In der Innenstadt Londons (City of London, das Viertel der globalen Hochfinanz) hört man häufig Englisch mit Akzent: 27 Prozent aller Beschäftigten in der City sind Ausländer. Die Schwerreichen aus Rußland, Amerika, Indien, den Golfstaaten und vielen anderen Teilen der ganzen Welt profitieren von den Steuerprivilegien für Ausländer.

Einheimische – nur noch Minderheit unter vielen

Nur britische Einkünfte müssen an den Staat versteuert werden – alle anderen Einnahmen bleiben steuerfrei. Zwar sollen Ausländer, die länger als sieben Jahre in Großbritannien wohnen, ab April dieses Jahres einen Pauschalbetrag von jährlich 30.000 Pfund bezahlen. Doch »für die wirklich Reichen wird dies nicht mehr als ein lästiger Flohbiß sein«, sagt Vince Cable, finanzpolitischer Sprecher der Liberaldemokraten.

Rund 66 Prozent der Edel-immobilien mit einem Preis von mehr als zwei Millionen Pfund (2,7 Millionen Euro) sind nach Angaben der Maklerfirma Knight Frank im Besitz von Ausländern.

Das Privatleben der Hochfinanz findet immer noch weitgehend in den westlich gelegenen Edelstadtteilen Kensington und Chelsea, Knightsbridge, Mayfair und Notting Hill statt. Hier leben die begüterten Briten und Ausländer, und hier verschwimmen die Grenzen zwischen den Nationalitäten – die Wohlhabenden und Superreichen bilden eine Multikulti-Klasse für sich. Die Mehrheit der zugereisten Fremden bleibt naturgemäß ethnozentrisch und weiterhin unter sich und die Ghettoisierung einzelner Volksgruppen prägen die Viertel Londons.

Europas erstes Babylon ist unzweifelhaft London. Andere Städte wie Paris, Stuttgart, Freiburg und Mannheim werden dem Beispiel Londons in Kürze folgen. Es ist nur eine Frage der Zeit, bis das abendländische Antlitz deutscher Städte nicht nur verschwommen, sondern gänzlich unkenntlich sein geht. Es liegt am Willen des Volkes, es nicht soweit kommen zu lassen.

Mathias Krebs

L'héritage de Sparte

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - CRITICON (Munich) - ORIENTATIONS (Bruxelles) - Février 1990

L'héritage de Sparte:

Hommage à la Prusse de la Grèce antique

par Gerd-Klaus KALTENBRUNNER,

Si la Prusse-Brandebourg fut le "pôle nord" et l'Autriche le "pôle sud" de l'histoire allemande mo-derne, la politique et la civilisation hellé-niques furent marquées pendant des siècles par l'opposition entre Athènes et Sparte. L'Autriche et la Prusse ne furent pas seulement des constructions étatiques: elles ont également in-carné une manière d'être, un état d'esprit, un style, une éthique. Il en est de même pour Athènes et Sparte. Ce dualisme resta d'ailleurs bien vivace longtemps après que les deux cités-Etats grecques eurent perdu leur puissance et même leur indépendance. A l'instar de l'ancien Empire allemand, qui comprenait une multitude d'Etats dont certains étaient de taille mi-cro-sco-pique, la Grèce antique ne formait pas une unité politique; c'était une mosaïque de villes et de confédé-rations, toutes jalouses de leur indépen-dance. Cer-taines de ces poleis  jouèrent, en leur temps, un rôle éminent, politiquement ou cultu-rellement. Citons par exemple les villes grecques d'Asie mineure, Ephèse, Milet et Smyrne, les colonies grecques de la Mer Noire, de Sicile ou d'Italie du Sud. Sur le continent hellénique, ce furent Corinthe et Thèbes, Argos et Némée, Eleusis et Delphes, sans oublier les nombreuses villes-Etats de la Mer Egée: la Crète, Chypre, Rhodes, Samos, Lesbos, Delos, Chios, etc...

Chacun de ces noms renvoie à une facette de l'"hel-lénité", incarne un aspect unique, irré-ductible, de la culture grecque. Pourtant, seules Athènes et Sparte ont acquis une dimension historique mondiale. C'est qu'elles furent, avant tout, des "idées" au sens plato-nicien, c'est-à-dire susceptibles, selon les circons-tances, de se réactualiser, de se réincarner sans cesse. Elles ne furent pas des concepts abstraits mais des modèles vivants d'existence historique pouvant à tout moment orienter l'histoire réelle. La Guerre du Pélo-ponnèse, cette "guerre mondiale grec-que" selon la formule magistrale de Thucydide, constitue l'épiphanie de cette opposition, où se résorbe l'insurmontable dualité Sparte-Athènes. Pour Platon mais aussi pour Rousseau et, plus récemment, pour Maurice Barrès, Sparte était l'archétype de l'"Etat vrai". Or, cet arché-type sert depuis longtemps de repoussoir à une politologie qui s'est dégradée en "science de la démocra-tie" au service de l'"esprit du temps".

Sparte ou Spartacus?

On peut, bien entendu, être spartakiste, puisque ce terme ne renvoie pas à un groupe d'extrême-droite mais à un mouvement communiste (le communisme passant déjà pour une forme de démocratie). Etre spartakiste, cela n'a plus rien de dégradant. Le sparta-kisme, c'est de gauche, donc c'est bien. Le mot n'évoque-t-il pas l'es-clave Spartacus, originaire, non de Sparte, mais de Thrace, qui avait organisé la révolte contre ses maîtres romains? Sparte, en revanche, voilà le diable. La "spartitude", c'est synonyme de ru-desse, de dureté, de vexations inutiles... Mais que valent les beaux discours sur la "démo-cratie" quand survient l'Ernstfall:  le cas d'ur-gen-ce, la situation périlleuse, exception-nelle? L'ins-tant où la question n'est plus de savoir si l'on va se permettre un peu plus ou un peu moins de confort "démocratique"? Où le défi existen-tiel se résume en deux mots: se battre ou dispa-raî-tre...

Combien pèsent, sur le plateau de la balance, les so-phismes libéraux-démocratiques le jour où les armées ennemies franchissent la frontière, saluées par des cin-quièmes colonnes qui déroulent joyeusement le drapeau de l'étranger et s'ali-gnent pour la collabora-tion? A ce moment-là, la seule alternative n'est-elle pas: Aut Spartiates aut Spartacus  (Etre Spartiate ou Spartakiste)?

Aujourd'hui, au nom de Sparte, qui se souvient du mythe d'Hélène, la plus belle femme du mon-de? Qui se souvient que Castor et Pollux, le cou-ple inséparable des deux frères héros qui recevra plus tard une patrie céleste en devenant la constellation zodiacale des Gé-meaux, étaient d'o-ri-gine spartiate et furent honorés à Sparte? On a oublié que Cythère, île fortunée dédiée à Aphro-dite, faisait partie du territoire de Sparte. Révolu est le temps où les écoliers découvraient, le coeur bat-tant, les légendes de l'Antiquité classi-que et s'enthousiasmaient de ce que Sparte, pour-tant située au centre de la plaine de l'Eurotas, ait renoncé, jusqu'à la période hellénistique, à se construire des remparts. Si les Spartiates n'ont pas voulu ériger des fortifica-tions artificielles et des forteresses, c'est parce qu'à Sparte, les hommes, c'était l'Etat. Ces hoplites, qui misaient sur la force de leurs poings et de leurs armes, savaient que chacun était une pierre d'un rempart vi-vant: l'esprit de défense de la Polis. Qui se rappelle en-fin ce que rapportaient Aris-tote, Plutarque et d'autres écrivains antiques: nulle part ailleurs, dans aucun autre Etat grec, la femme n'avait autant de droits civils et publics que dans cette cité dorienne qui exaltait comme nulle autre la fraternité virile?

La Gérousie

On oublie souvent, semble-t-il, que Sparte fut le pre-mier Etat au monde à posséder une sorte de tribunal constitutionnel. Il s'agit des cinq épho-res ou "gardiens des lois" qui pouvaient même traduire les rois (il y en avait toujours deux à la tête de la polis) devant leur ju-ridiction. Il faut rappeler que Sparte, justement parce que sa constitution était "spartiate", a toujours su étouf-fer dans l'oeuf l'émergence de tyrans populaires, ce qui ne fut pas le cas des autres cités-Etats grecques. Soucieux de donner une expression politique à la sa-gacité, à l'expérience et à la sa-gesse des Anciens, les Spartiates créèrent la Gé-rousie: aucune affaire impor-tante de l'Etat ne pouvait être tranchée sans l'assentiment préala-ble de ce Conseil des Anciens qui, avec les deux rois représentant le couple de Gémeaux mythologi-ques, Castor et Pollux, comprenait trente mem-bres au total. Pour siéger à la Gérousie, il fallait avoir au moins soixante ans. L'appartenance à ce corps, incarnation politique du principe de sénio-rité, était définitive: seule la mort pouvait y met-tre fin. Il ne fait guère de doute que la stabilité politique de Sparte, pendant des siècles, était due en partie à cette institu-tion, capable de dé-jouer à temps tous les projets préci-pités, les ini-tiatives inconsidérées ou les idées non mû-ries.

Mais ni la belle Hélène ni les dioscures siégeant au firmament étoilé ni la sagesse du Conseil des Anciens n'ont aujourd'hui droit de cité lorsqu'il est question de Sparte. Même le poète Tyrtée, qui vivait au VIIième siècle avant notre ère et dont les éloges de Sparte sont nombreux, paraît oublié. Et pourtant, Tyrtée était Athénien de naissance. On dit qu'il boitait et avait été maître d'école. Ce n'est que plus tard qu'il devint pa-né-gyriste de Lacédémone et citoyen spartiate. Plus de deux mille ans après, le Souabe Hegel allait bien à Berlin où il devint... philosophe de l'Etat prussien! C'est dans la guerre, disait Hegel, que se manifeste la cohésion de chacun avec l'ensemble. Et il ajoutait que la guerre était l'esprit et la forme où se focalisait l'essentiel de la sub-stance éthique d'un peuple ou d'une nation.

Quant à Tyrtée, j'hésite à le citer car, s'il vivait de nos jours, ses éloges de l'héroïsme spartiate lui vaudraient certainement d'être marqué du signe infamant d'"extrémiste de droite". Une de ses élégies, consa-crée aux héros de la deuxième guerre médique, paraî-trait presque obscène à des oreilles pacifistes, à l'instar du fameux vers d'Ho-race selon lequel "il est doux et honorable de mourir pour la patrie" (Carmina  III, 2, 13), ou encore de Hölderlin dont on s'obstine —sans suc-cès— à faire un Jacobin en puissance:

"Sois grande, ô ma patrie,

Et ne compte point les morts;

pour toi, ma bien-aimée

Aucun mort ne sera de trop!".

Le Romain Horace et l'Allemand Hölderlin sont en fait des fils posthumes de Tyrtée, Spartiate d'adoption, qui, dès le VIIième siècle avant no-tre ère, proclamait son mépris pour l'homme, fût-il par ailleurs de qualité ou de haut rang, qui ne fît pas ses preuves sur un champ de bataille. Voici les premiers vers d'une élégie à laquelle se réfère explicitement Platon dans son dia-logue Des Lois  (629, a-e):

"Je ne ferais nulle mention ni ne tiendrais compte d'un homme,

Quand il serait couronné à la course ou à la lutte,

Aurait la taille et la force d'un cyclope,

serait aussi rapide que le vent de Thrace,

Serait plus beau que Tithonos

Et plus riche que, jadis, Midas et Kinyras;

quand il serait de sang plus noble que Pélops, fils de Tantale,

et aurait la magie du verbe d'Adraste,

et serait grand en toutes choses,

s'il n'est pas grand dans la tourmente du combat!

Car il ne sera pas brave à la guerre

Celui qui ne supporte pas de regarder la tuerie sanglante

Et n'attaque pas l'adversaire

en l'affrontant de près.

C'est la vraie vertu, le plus beau et le meilleur des prix

Que le jeune sang puisse un jour conquérir (1)".

L'Etat guerrier

Les vers de Tyrtée, Spartiate d'adoption, nous rap-pel-lent sans équivoque possible que Sparte fut un Etat guerrier au sens le plus vrai du terme. Un Etat enca-serné, a-t-on pu dire, un Etat pratiquant l'élitisme eu-géniste et dont certains as-pects évoquent le commu-nisme de guerre. Le mo-dèle de la politeia  selon Pla-ton, aristocrate athénien mais spartanophile. Une synthèse appa-remment perverse entre prussianisme et so-cia-lisme. Et le cauchemar de tous les libéraux, de Wil-helm von Humboldt à Karl Popper et à Hen-ri Marrou.

Il ne faut pas s'illusionner: toutes ces descrip-tions, même exagérées dans les détails, même caricaturales (et caricaturées pour les besoins de la polémique) ont un fond de vérité. Athènes exceptée, aucun autre Etat antique ne nous est mieux connu que celui des Spar-tiates qui se nom-maient eux-mêmes Lacédémoniens (le Spartiate était l'homme libre, citoyen à part entière). Les anecdotes les plus effarantes reposent sur de so-lides témoignages. Il est hors de doute que Spar-te, même et surtout à une époque avancée de l'his-toire an-tique, était, comparée à Athènes, un Etat extrême-ment archaïque, rude et xénophobe. Et il est indéniable que jusqu'à la fin, cet Etat a veillé jalousement et or-gueilleusement à préser-ver cette différence-là. Inutile de broder sur l'orgueil ostentatoire, sur la morgue du Spartiate, fût-il citoyen ordinaire. Chaque Spartiate était moi-tié roi moitié brigand. Les textes authen-ti-ques de Tyrtée lui-même sont là pour infirmer toute tentative de banalisation. Tyrtée nous mon-tre sans conteste un Etat où le guerrier l'empor-tait sur le bel esprit et le marchand. Toute la cul-ture était axée sur la chose mi-litaire et l'idéal était le sous-officier d'active. Quand une mère avait perdu son fils à la bataille, elle refusait la-co-niquement (c'est le cas de le dire) toutes con-do--léances: "Je n'ignorais pas qu'il était mortel", et ce que proclame solennellement le choeur de la pièce de Schiller Die Braut von Messina:  "La vie n'est pas le bien suprême" (acte 4, scène 10), était, à Sparte, le b.a.-ba de la formation po-li-tique de n'importe quelle recrue. L'épigramme du lyrique Simonidès dédié aux Spartiates tom-bés aux Thermopyles exprime lapidai-rement ce que l'on attendait du soldat:

"Passant, va dire à Sparte

Que tu nous as trouvés, gisants

Conformément à ses lois".

Vouloir minimiser a posteriori la sévérité spar-tiate est une entreprise vouée à l'échec. La civi-lisation lacédé-monienne n'était guère littéraire mais très athlétique. A Sparte, la poésie fut un produit d'importation, comme en témoigne l'exem-ple des trois grands poètes, Tyrtée, Ter-pandros et Thaletas: le premier venait d'Athènes, le second d'Antissa (Ile de Lesbos), le troisième de Crète. Sparte les fit venir comme poètes offi-ciels, un peu comme la Prusse prendra à son service les Souabes Hegel et Schelling, le Baron de Stein, origi-naire de Nassau, le Hessois Sa-vigny et le Saxon Ranke. La cuisine était aus-tère, c'était le cauchemar des gosiers corinthiens, crétois ou sybarites. Les dis-tributions collectives de "soupe au sang" étaient considérées, hors de Sparte, comme un vomitif.

Un système d'éducation terrible

A sept ans révolus, les enfants appartenaient à l'Etat qui prenait en charge leur éducation. Les garçons, no-tamment, devaient gravir, échelon par échelon, les étapes de la hiérarchie dans les formations de la jeu-nesse d'Etat. La musique et la poésie étaient considé-rées comme des acces-soires de la pédagogie d'Etat. L'autonomie du sens et du goût esthétiques n'était guère prisée: la danse réduite à un exercice gymnique, la poé-sie au rôle d'auxiliaire de l'éducation politique et la musique à un instrument de drill et de dres-sage. Outre le chant choral, musique militaire et chansons de marche au son de la flûte (qui jouait dans l'Antiquité, on le sait, le rôle de nos tam-bours et trompettes): tel était le parnasse spar-tiate.

La vertu suprême était le patriotisme poussé jus-qu'au sacrifice et la subordination des intérêts in-dividuels au salut de l'Etat. Obéissance, endurcis-se-ment des corps et des âmes, frugalité et dis-cipline faisaient partie des règles de vie les plus na-turelles. La discipline, surtout, imprégnait et mo-delait toutes choses: celle des enfants et des adul-tes, discipline à l'école, discipline à table, discipline du corps et de l'esprit, de la concep-tion à la tombe: c'était l'art de gouverner à la spartiate. Est-il besoin de souligner que dans cet-te polis dorienne, la pédérastie, amours "inver-ses d'homme à homme", comme disait Hans Blü-her, était omniprésente? Force est de la considé-rer comme une devotio lacedaemonia,  spéci-fique d'un Etat organisé en Männerbund  (con-frérie virile). Dans ce domaine comme dans d'au-tres, n'enjolivons rien.

Le Taygète

Même observation à propos d'une loi que Plu-tarque fait remonter à Lycurgue, le législateur semi-légendaire de Lacédémone: à sa naissance, l'enfant est examiné par les Anciens du clan. S'il est jugé sain, bien fait et vigoureux, il est dé-claré digne d'être éduqué. Si en re-vanche, le Con-seil des Anciens le trouve malingre et mal constitué, l'enfant est "exposé" au fond d'un précipice rocailleux du Taygète. Car "ils pensaient que pour un être incapable, dès le début de sa vie, de se développer et de devenir sain et fort, il vaut mieux ne pas vivre du tout car il ne sera utile ni à lui-même ni à l'Etat" (Lycurgue, 16).

De l'eugénisme spartiate à l'avortement libéral

Cette loi est à mes yeux la seule dans la constitution de Sparte qui devrait trouver grâce auprès des tenants ac-tuels de l'ordre libéral-dé-mo-cratique, quoique pour des raisons opposées: les Lacédémoniens formés à l'école de Lycurgue avaient une pensée eugéniste alors que nos parasites obéissent à des motivations essentielle-ment individualistes et hédonistes: ce n'est pas pour "améliorer la race", c'est pour augmenter leurs chances d'"épanouissement personnel" qu'ils souscri-vent à l'adage selon lequel "être né ne confère aucun droit à la vie": de nos jours, le "citoyen adulte" ne se laisse nullement prescrire si l'enfant venu au monde doit vivre ou non. Le Conseil des Anciens, institution "réactionnaire", a été remplacé, en ce qui concerne le sort du nouveau-né ou du foetus, par l'auto-détermi-na-tion du "conseil parental" et, si ur-gence il y a, par le droit de la mère dans le sein de laquelle se développe, tel un abcès, le fruit de ses en-trailles. La possibilité, admise par la société, de prati-quer, comme à Sparte, l'"exposition" de l'enfant (à ce détail près que l'opération est chronologiquement avancée au stade du foetus) contraste favorablement avec les méthodes "barbares" de Sparte où la mort n'était même pas intra-utérine. L'avancement progres-sif du meurtre silencieux à une période comprise entre le premier et le si-xième mois de la grossesse, et son remplace-ment, au niveau du vocabulaire, par un doux eu-phémisme, l'"interruption de grossesse" (IVG), sont considérés comme des acquis d'une civili-sation qui paraît avoir définitivement surmonté Sparte. C'est ainsi qu'en Allemagne par exem-ple, on considère comme un "progrès" le meurtre d'enfants par le Ge-bärstreik  ou "grève des ventres" bien que cette grève-là fasse cha-que année mille fois plus de victimes en-fantines que n'en fit, en sept siècles d'histoire spartiate, l'exposition rituelle sur le Taygète...

 

La liberté de la femme

La sympathie du démocrate sincère est toujours allée à Athènes, jamais à Sparte. L'homme de par-ti, l'honnête homme respectueux de l'ordre libéral-démocratique, se voudrait Périclès, au moins en miniature. Personne, en revanche, ne souhaite passer pour un héritier ou un disciple de Lycurgue! Athènes est synonyme, on le sait, de Lumière, de Culture, de Démocratie et Périclès est la superstar de ces divinités éthérées. Par contre, la Sparte de Lycurgue passe pour avoir été pire que la Prusse frédéricienne, pres-que une préfiguration an-tique de l'Etat national-so-cialiste!

"Louons ce qui nous affaiblit et nous désarme! Mé-fions-nous de ceux qui nous parlent d'union, de force, de grandeur, de discipline, de cohésion! Ou nous ris-querions de glisser vers le fascisme —et Hitler de re-venir!". C'est à peu près le discours que tient, la main sur le coeur, l'Occident démocratiste et bien-pensant. L'objur-gation, tantôt articulée du bout des lèvres tantôt hurlée, se gonfle démesurément dans le bour-don-ne-ment des médias. Il existe donc bien ce que j'ap-pe-lerais une réaction émotionnelle antispar-tia-te. Elle nour-rit la lutte contre tout ce qui, de près ou de loin, pourrait évoquer l'ascèse, l'hé-roïsme ou la disci-pline. Se recommander de Spar-te, admirer Sparte comme paradigme d'éta-tici-té sévère, certes, mais puis-sante et capable, voilà qui, aujourd'hui, choque. Comme pou-vait choquer, voici cinq siècles, le fait de nier la tri-nité divine ou l'incarnation du Christ.

Et pourtant, sur les traces de Plutarque et de Platon, j'ai rassemblé ici quelques bons points en faveur de Sparte. Il faut tout d'abord signaler que dans cette Sparte au "conservatisme" rigide, les femmes pou-vaient faire tout ce qui leur était strictement interdit à Athènes-la-libérale. A La-cé-dé-mone, les femmes étaient beaucoup plus libres que les hommes. Non seulement en amour mais en affaires. Elles jouissaient de droits in-connus partout ailleurs. Au IIIième siècle, par exem-ple, les femmes spartiates possédaient plus de richesses (y compris des biens fonciers éten-dus) que leurs maris, leurs frères ou leurs amants (Plutarque, Agis,  5, 23, 29). Aristote, déjà, reprochait à Ly-curgue de n'avoir pas extir-pé le "dérèglement et le matriarcat" des femmes spartiates (Politique,  2, 1270a, 6). A l'étranger habitué à un strict et exclusif patriarcat, la ville de Sparte offrait presque le spectacle d'un Etat "exotique", dominé par les femmes (Plu-tarque, Numa,  25,3): "Les femmes spartiates ont sans doute été assez irrévérencieuses et se sont sans doute comportées de façon extrêmement virile, surtout à l'égard de leurs maris puisqu'à la maison, elles déte-naient un pouvoir sans partage et qu'à l'extérieur elles intervenaient en toute liberté dans les affaires d'Etat les plus impor-tantes". Et pourtant, elles n'avaient rien de spa-dassins hirsutes et grivois: leur charme un peu abrupt était proverbial dans toute l'Hellade. Leur li-berté semblait excessive même aux Athéniens les plus "progressistes" et les plus "éclairés".

La rigueur d'un Etat guerrier résolument viril était adoucie par la grâce souriante, la malice, l'élégance spontanée de ses jeunes femmes qui, contrairement à leurs soeurs d'Athènes, avaient accès aux exercices sportifs et gymniques. Com-me les hommes, les fem-mes lacédémo-nien-nes étaient célèbres pour leur sens de la répartie et leur laconisme (le mot, d'ailleurs, nous est resté: Sparte est située au centre de la Laco-nie). Plu-sieurs anecdotes témoignent de cette vivacité de l'esprit, de cette concision propres aux Spartia-tes. Comme une étrangère disait à Gorgo, épou-se de Léo-nidas, roi de Sparte: "Vous autres La-cédémoniennes êtes bien les seules à pouvoir dominer vos maris", Gorgo répliqua avec su-perbe: "Après tout, c'est nous, et nous seules, qui les mettons au monde!" (Plutarque, Lycur-gue,  14, conclusion).

Sans Sparte, pas d'Athènes

Mais concluons. Nous venons d'inscrire le nom de Léonidas. Nous avions, au début de ce texte, cité Si-mo-nidès célébrant les Lacédémoniens morts aux Ther-mopyles face à la supériorité numérique des Perses: "Voyageur, va dire à Spar-te...". Disons-le la-conique-ment: si l'on con-si-dère la civilisation grecque comme le fon-dement permanent de la culture euro-péenne, on ne peut ignorer Sparte. Toute la culture de la Grèce classique, que l'on identifie volontiers à Athènes, n'aurait jamais pu s'épanouir si un peuple de guerriers, comparativement prosaïque, discipliné, en odeur de quasi barbarie, n'avait pas combattu jusqu'à la mort, pour sauver l'Hel-lade, aux Thermopyles, à Sa-la-mine et à Platée. Les victoires militaires, qui ne fu-rent possibles que grâce à la présence spartiate, ont alors conquis, préservé et élargi cet espace où purent s'épanouir librement le théâtre grec, la philo-so-phie grecque, la science grecque et même la démocratie grec-que. C'est ce qu'il faut se garder d'oublier.

Regardons Sparte, presque étrangère dans sa rudesse. Cette société a pu pervertir jusqu'à la caricature des traits qui ont existé, à un degré moindre, dans toute polis grecque. Mais surtout, Sparte, qui incarnait au plus haut point toutes les potentialités de la polis, nous rappelle brutale-ment combien toute l'Antiquité clas-si-que nous apparaîtrait étrangère si nous cessions d'y pro-jeter notre propre humanisme. Sparte nous fait éga-lement saisir le sens du mot "politeia" à l'état chi-miquement pur: l'Etat, "le plus froid de tous les mons-tres froids", comme l'affirme le Zarathoustra de Nietzsche. On peut ne pas aimer Sparte. Mais qui-con-que se sent une attirance pour l'héritage grec doit se souvenir que toutes ces merveilles, toute cette splen-deur, tout ce qui, en nous, "parle" et nous en-thou-siasme (au sens étymologique du terme), que tout cela n'a pu s'épanouir et se déployer que dans un monde soustrait à la menace du despotisme oriental par le sacrifice suprême de quelques dizaines de milliers d'hommes.

Mais Sparte nous remet aussi en mémoire les fonde-ments de la culture européenne sur les-quels on fait si volontiers l'impasse aujourd'hui: l'espace où cette cul-tu-re a pu éclore n'était certes pas défendu par des déserteurs ou des objecteurs de conscience! Il était dé-fendu par des soldats résolus face à la supériorité nu-mérique écrasante de l'adversaire. Les meilleurs guer-riers, la plus belle discipline militaire, étaient à Lacé-démone. Après la victoire sur les Perses, aucun équi-libre harmonieux ne put s'établir entre les deux types de société grecque qu'incarnaient respective-ment Spar--te et Athènes. Peut-être fut-ce là la grande tragédie de la Grèce antique. Culturellement, Sparte fut une im-passe. Mais Athènes elle-même, la "voie" athénienne, nous le pres-sentons aujourd'hui, pouvait-elle se poursuivre en ligne droite jusqu'à nous?

Peut-être, après tout, la culture n'est-elle qu'un inter-mède, un gaspillage stérile d'énergie sur l'arrière-plan des espaces cosmiques infinis. Un certain défaitisme gagne autour de nous. Il déclare publiquement que l'orientalisation de l'Eu-rope, si elle s'était accomplie beaucoup plus tôt, nous aurait épargné bien des maux. Pour ce genre de discours, les victoires grecques sur les Perses ne signifient donc rien. Mais c'est déjà une autre histoire. Il reste que Sparte nous rap-pelera tou-jours, de façon lancinante, une vérité éternelle, large-ment occultée de nos jours: sans un certain degré de "spartitude", non seulement aucun Etat n'est possible, mais aucune civilisation ne peut vivre et… survivre.

Il faut redécouvrir notre héritage lacédémonien.

Gerd-Klaus KALTENBRUNNER.

(texte paru dans Criticón, n°100, März-Juni 1987; traduction française: Jean-Louis Pesteil; adresse de Criticón: Knöbelstraße 36/V, D-8000 München 22; prix de l'abonnement annuel (six numéros): DM 57; étudiants: DM 38).

Note

(1) Dans le dialogue de Platon, Clinias ajoute: "C'est un fait que (ces poèmes) sont venus jusque chez nous, im-portés de Lacédé-mone" (ndt).  

vendredi, 16 janvier 2009

L'Europa delle patrie

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Citaat v. Nicolas Gomez Davila

 

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"Geweld is niet nodig om een beschaving te vernietigen. Elke beschaving sterft aan de onverschilligheid tegenover de unieke waarden waaruit ze ontstaan is."


Nicolás Gómez Dávila (Colombiaans filosoof)

Tintin a 80 ans et fait toujours polémique

http://ettuttiquanti.blogspot.com

Tintin a 80 ans et fait toujours polémique

Hergé, anti-coco ?
"L'anti-bolchévisme du tout premier tome, Tintin chez les Soviets est plus ou moins assumé en 1973, par Hergé qui, interrogé sur le sujet dans l'émission de l'ORTF "Ouvrez les guillemets" animée par un Bernard Pivot tout jeunot, confirme que Tintin est né dans une publication "catholique, d'extrême droite, dans un contexte alors très anti-blochévique". Ambigü, Hergé se réfugie cependant derrière la caricature lorsque la conversation dévie sur le colonialisme et le racisme de Tintin au Congo, également réédité en 73. Idem en 1976, dans un débat télévisé lors du festival du livre de Nice : Hergé, qui se voit repprocher sa vision idéalisée de la colonisation sans avoir jamais été en Afrique, ainsi que sa misogynie, invoque encore la caricature. Pourtant Hergé a bien émis des regrets en 1978, mais sur la manière dont il traite les animaux dans Tintin au Congo... dans l'émission 30 millions d'amis !

Hergé, collabo ?
Ces dernières années ont également vu fleurir des biographies et autres essais critiques sur Hergé, comme celles de Pierre Assouline, 1998, et de Benoît Peeters qui reviennent sur la participation du dessinateur au journal collaborationniste Le Soir sous l'Occupation. Certains vont plus loin comme Maxime Benoît-Jeannin qui, en 2006 avec Les guerres d'Hergé : Essai de paranoïa-critique analyse Tintin comme le médium privilégié des idées de la classe dominante du long XXème siècle : du colonialisme au racisme et à l'antisémitisme, et de l'anticommunisme à la collaboration. Mais la palme de la virulence revient certainement à Emile Brami qui publie en 2004, Céline, Hergé et l'Affaire Haddock dans lequel il établit un parallèle entre l'apparition en 1938 du personnage du capitaine Haddock et ses célèbres bordées d'injures très littéraires mais borderline, voire carrément racistes, et la publication du pamphlet antisémite de Bagatelles pour un massacre de Louis Ferdinand Céline qui en interdira lui-même la réédition.

Tintin, homo ?
L'ancien député conservateur britannique Matthew Parris s'est quant à lui amusé, dans un article très acide paru dans le Times, à prouver par A+B l'homosexualité de Tintin, depuis fort longtemps supposée. Sans passé, comme nombre jeunes gays qui débarquent en ville après avoir coupé les ponts avec leur famille, il finit par s'installer chez le capitaine Haddock ! Sans oublier la passion douteuse des jumeaux Dupond et Dupont (Thompson et Tompson en anglais) pour les déguisements exotiques... Ainsi déjà en 73, chez Pivot, la question est sous-entendue par les chroniqueurs qui soulignent l'absence de femmes. Hergé lui-même semble avouer le penchant de son personnage lorsqu'il évoque son album préféré, Tintin au Tibet, dans lequel le reporter part à la recherche de son ami Tchang. Pour son créateur, il s'agit d' "une histoire simple, sans méchants, juste une histoire forte d'amitié, voire même d'amour."
Cependant la dernière biographie officielle d'Hergé signée Philippe Goddin et parue à l'occasion de son centenaire en 2007 réfute les rumeurs d'homosexualité du dessinateur. Décrivant un homme à femmes, marié deux fois et peu fidèle, Goddin sous-entend qu'Hergé serait en fait mort du SIDA suite à des transfusions de sang contaminé. D'où les rumeurs d'homosexualité dans un début des années 80 bien homophobes."

Source

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Géopolitique de l'Afrique australe

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES / Orientations (Bruxelles) - 1986

"Un point d'appui pour soulever le monde"

Géopolitique de l'Afrique australe

 

par Robert STEUCKERS

Conférence prononcé à l'Université de Genève, pour le "Cercle Proudhon", juin 1986

 

 

Depuis l'accession de Reagan au pouvoir, les Etats-Unis ont adopté une attitude "pragmatique" à l'égard de la RSA, ont décidé de pratiquer "a constructive engagement",  à la condition expresse toutefois que l'Afrique du Sud renonce à son modèle de développement autonome et accepte les critères économiques dictés par l'Amé­ri­que, critères que celle-ci drape dans la "moralité". De manière expresse, les porte-paroles de la Maison Blanche ont déclaré que les propositions sud-africaines en matière de défense commune des eaux de l'Atlantique Sud et de l'Océan Indien passaient au second plan et que les réformes intérieures, c'est-à-dire l'abrogation de l'apartheid, constituaient l'objectif numéro un de la diplomatie américaine dans cette région du monde (Cf. "US policy on SA has a basic condition", The Sunday Times, 4/11/1984). C'est pourquoi, en dépit des propositions d'allian­ces militaires suggérées par la RSA, les Etats-Unis font pression sur leurs propres firmes pour qu'elles cessent d'investir en Afrique Australe.

 

Une subordination du militaire à la "morale"?

 

En guise de conclusion, nous serions tentés de dire que les Etats-Unis placent la "morale" au-dessus de leurs in­térêts militaires les plus évidents... Mais une telle attitude contredit de manière trop flagrante les principes d'ac­tion les plus naturels de la diplomatie et les règles les plus élémentaires du struggle for life  entre les na­tions. Il serait naïf de déclarer que les Etats-Unis pratiquent en Afrique Australe une diplomatie masochiste, con­traire à leurs intérêts de grande puissance. Si les Etats-Unis placent aujourd'hui avec Reagan comme hier avec Carter la "morale" au-dessus d'une politique d'alliance militaire, c'est que leurs intérêts nationaux, en l'oc­currence leurs intérêts économiques, coïncident avec cette subordination du militaire à la "morale".

 

Comment expliquer cette subordination, en apparence contraire à toute saine logique politique? Par l'histoire même de l'Afrique du Sud. Les "treks" des Boers entre 1835 et 1837 correspondent à une vieille nostalgie euro­péenne, celle de former des républiques paysannes libres, autonomes, économiquement auto-centrées, purement agraires et libres de toute immixtion étrangère, notamment celle de la couronne britannique qui venait de s'arro­ger la Province du Cap. Après une quantité d'escarmouches, une première guerre des Boers, en 1881, se termi­ne par la déconfiture britannique. Entre-temps, les mines d'or connaissent une expansion croissante, ce qui at­ti­re les capitaux internationaux et les convoitises des banquiers de Lombardstreet (la Wall Street du XIXème). Ce monde de la finance internationale incitera le gouvernement britannique à déclencher une seconde guerre des Boers, la plus connue, afin de s'emparer définitivement des deux républiques paysannes libres de l'Etat d'Orange et du Transvaal. Cette guerre atroce, qui inaugure tristement l'ère concentrationnaire, détruit 60% de la richesse nationale des républiques boers. La "liberté" au vieux sens européen du terme cède le pas à l'économie mon­dia­liste: les républiques sont englobées dans le système économique mondial et perdent ipso facto leur auto­no­mie. La famille Oppenheimer peut commencer à construire son empire capitaliste. Mais, dans les quatre "co­lo­nies" britanniques, la résistance nationale va contrecarrer ce projet. De 1910, année où ces quatre colonies de­viennent un dominion, celui de l'Union Sud-africaine, jusqu'en 1961, où cette union proclame son indé­pen­dance totale à l'égard de la Grande-Bretagne et du Commonwealth, le combat Boer n'a pas cessé contre le li­bé­ra­lisme mondialiste britannique.

 

L'affrontement de deux économies

 

Aux Volkskongressen (congrès du Peuple) de 1938 et 1939, les nationalistes Kestell et du Plessis réclament la cons­titution d'une puissance économique autonome pour les Afrikaaners. Du Plessis, adepte d'un socialisme prag­matique et populiste, entonne un plaidoyer pour la création d'un capital coopératif. Et il ajoute: "une puis­sance d'argent basée sur du sable ne constitue nullement l'objectif de nos efforts, car cette puissance serait aux mains de l'étranger. Ce n'est pas là la voie qu'ont choisie les Afrikaaners". Dès cette époque, au-delà de la que­relle raciale, deux économies vont s'affronter: l'économie mondialiste, portée par les Britanniques d'Afrique du Sud et par le système Oppenheimer, et l'économie nationale, portée par les descendants des Trekkers. Sur le plan géopolitique, cette opposition va se révéler porteuse d'histoire.

 

Le défi de Cecil Rhodes

 

En effet, à cette époque où l'impérialisme est roi, Cecil Rhodes rêve de relier Le Caire au Cap par chemin de fer et de placer l'intégralité de cette ligne sous contrôle britannique. Pour réaliser ce plan, il faut sauter au-dessus de l'obstacle que constituent les deux petites républiques boers. La guerre des Boers se déclenchera dès lors pour trois raisons: 1) l'inclusion des mines d'or et de diamants dans la sphère d'une économie mondialisée, 2) l'annihilation d'un système politique de paysannat libre qui incite les peuples d'Europe à rejeter les jougs ab­so­lutistes et, enfin, 3) la réalisation du plan de Cecil Rhodes. Les Britanniques auront la rage de vaincre les deux républiques paysannes car ils savent que l'Europe, en son for intérieur, prend parti pour les Boers. Les Allemands y investissent des capitaux colossaux et construisent, avec l'aide des Hollandais, un chemin de fer entre Witwatersand et la côte mozambicaine de l'Océan Indien, sous juridiction portugaise. Cette ouverture sur une mer entièrement dominée par l'Empire britannique de trois puissances européennes est considérée par l'An­gleterre comme un insupportable défi. C'est Bismarck, européocentriste, qui empêchera une coalition euro­péenne contre l'Angleterre, arguant que l'équilibre de notre continent était trop fragile pour être mis en jeu. L'Em­pereur d'Allemagne Guillaume II est, lui, moins prudent: il rappelle sans cesse les liens de sang qui unis­sent Boers et Allemands; à la suite d'un putsch avorté au Transvaal, fomenté par Rhodes, il congratule ouverte­ment le gouvernement Krüger et le félicite d'avoir contrecarré les visées britanniques. Les Boers s'imaginent dès lors que l'Allemagne interviendra à leurs côtés. L'Angleterre adopte la stratégie suivante: elle exige que les ré­publiques donnent le droit de vote aux mineurs et chercheurs d'or blancs n'ayant pas la nationalité de l'Etat du Transvaal ou de l'Etat d'Orange. Krüger refuse pour la simple raison que son peuple n'est plus majoritaire dans son pays, du fait que le boom minier a draîné une population très hétérogène mais essentiellement blanche (les "Uitlanders") dans les villes nouvelles qui s'étendent comme des champignons. Krüger déclare au dernier mes­sager britannique venu le voir: «Vous ne voulez pas le droit de vote, vous voulez nous voler notre pays!». La guerre éclate, l'Allemagne livre du matériel mais n'intervient pas directement, l'Europe prend parti pour les Boers mais l'Angleterre emporte la victoire.

 

Lénine pour l'apartheid?

 

Mais cette victoire n'imposera pas définitivement le principe d'égalité, c'est-à-dire, en fait et nonobstant la co­lo­ration "morale", la capitulation des fondateurs des deux républiques au profit des Britanniques. Cinq années après la signature du traité de paix, la démocratie de style britannique porte les anciens "jusqu'au-boutistes" Botha, Smuts et Hertzog au pouvoir. En 1910, le 31 mai, les deux républiques, la colonie du Cap et le Natal for­ment ensemble l'Union sud-africaine et adoptent une constitution ségrégationniste. Tous les Blancs y adhè­rent, Britanniques comme Afrikaaners. Mais la lutte entre le principe libéral de mondialisation de l'économie et le principe autarcique des nationalistes boers n'est pas terminée pour autant. En 1922, les socialistes et les syn­dicalistes se révoltent contre l'admission de Noirs à certaines professions. Leur slogan: "Prolétaires de tous les pays, luttez pour une Afrique du Sud blanche!". Lénine approuve. La troupe tire sur les émeutiers. La mo­rale à tirer, aujourd'hui, de cet événement historique, c'est qu'il y a soixante ou septante ans, la gauche prenait parti pour les Boers et la politique de ségrégation et la droite libérale favorisait l'intégration des races. Et de cette morale, nous devons tirer la leçon suivante: la situation actuelle en RSA ne peut en aucun cas s'analyser se­lon les schémas manichéens que propagent les médias d'Occident. Le clivage gauche/droite est ici également inopérant: la gauche ouest-européenne, avec des théoriciens comme Lipietz du parti des Verts à Paris, Grjébine proche du CERES, Lambert de la Revue Nouvelle  et du parti Ecolo à Bruxelles, Werner Mayer-Larsen du Spiegel, Philippe Messine du Monde Diplomatique, Samir Amin, l'économiste égyptien qui réclame la dé­connexion des économies du Tiers-Monde par rapport au système mondial, etc., cette gauche donc, s'est faite, avec raison, l'avocate de l'auto-centrage de nos économies, favorise les projets d'investissements locaux ou grand-européens et prône, à l'instar des Kathedersozialisten  du XIXème, l'autarcie européenne. Comment peut-elle dès lors refuser aux Boers ce qu'elle réclame pour la classe ouvrière européenne? A droite, où l'on aime au­jourd'hui se pavaner dans les frusques du libéralisme, version XVIIIème, on n'est pas plus logique quand on dé­fend l'Afrique du Sud. Quand un Jean-Marie Le Pen, ou tout autre polémiste, politicien ou journaliste dit de "droite", manifeste sa solidarité avec l'Afrique du Sud conjointement à son hostilité aux syndicats français, on est parfaitement en droit de lui demander quelle est la logique de ce bricolage de slogans? Et on est en droit de lui poser une question perfide: que pensez-vous, Monsieur Le Pen, en tant qu'historien, de la révolte des ouvriers sud-africains de 1922?

 

Une très grande Afrique du Sud

 

Mais ce pilpoul des cafés de commerce européens nous occulte l'enjeu réel que représente l'Afrique australe. Re­venons à l'histoire. En s'affirmant petit à petit, entre 1910 et 1931, année où l'Union sud-africaine accède à l'indépendance formelle au sein du Commonwealth, les Afrikaaners chercheront à créer une plus grande Afrique du Sud, "a Greater South Africa". Première étape: l'absorption du Betschuanaland (l'actuel Botswana), du Swa­zi­land et du Basutoland (l'actuel Lesotho). Deuxième étape: arriver à créer une grande confédération sud-équa­to­riale avec les possessions portugaises et le Congo belge (l'actuel Zaïre). Le projet renoue là avec une vieille idée allemande, celle de la Mittelafrika, s'étendant de l'Atlantique Sud à l'Océan Indien, de l'embouchure du fleu­ve Congo à Zanzibar. Pas étonnant dès lors que les Britanniques chercheront à tout prix à torpiller ce pro­jet. Comment opèreront-ils? En essayant de créer un dominion fidèle au nord de l'Union, dominion ras­sem­blant la Rhodésie du Nord (l'actuelle Zambie), le protectorat du Nyassaland (l'actuel Malawi) et la Rhodésie du Sud (l'actuel Zimbabwé). Pour les Britanniques, ce nouveau dominion plus aisément contrôlable servirait de bar­rage à l'expansion boer et surtout de pion contre la constitution d'une vaste zone semi-autarcique au sud de l'Equateur, indépendante du système d'échanges internes qu'était le Commonwealth.

 

Car c'est bien là que réside le problème sud-africain tout entier: le refus par les Britanniques d'abord, par les Amé­ricains ensuite, de voir se créer une zone totalement auto-suffisante dans l'hémisphère australe, capable de se passer de toute aide et de toute importation européenne ou américaine et, de surcroît, maîtresse des minerais. La stratégie de la balkanisation, celle de diviser pour régner, s'impose en Afrique équatoriale comme en Europe et surtout comme partout ailleurs sur le continent africain, ce qui a scellé l'effondrement de l'espoir panafricain, de la troisième voie panafricaine, dont rêvent tous les indépendantistes du continent noir. De plus, ce pôle aus­tral se situerait à mi-chemin entre l'Australie et l'Amérique Latine, position géopolitique qui permettrait le con­trôle de la circulation maritime de l'Atlantique Sud et de l'Océan Indien. La Grande-Bretagne impériale du dé­but de ce siècle refusait à toute puissance l'accès direct à l'Océan Indien: ce fut le cas quand les Russes prirent pied en Asie Centrale, quand les Allemands construisirent le chemin de fer Berlin-Bagdad, quand les Italiens oc­cupèrent l'Abyssinie. A fortiori, elle refusait qu'une de ses colonies, devenue indépendante, réitère la révolution américaine, se détache de la couronne et pratique une politique impériale dans une région où elle règne sans par­tage.

 

Les succès d'une diplomatie

 

Cette volonté d'empêcher le renforcement du pôle sud-africain, les Etats-Unis l'ont reprise à leur compte, tout en déclarant vouloir "a constructive engagement", un "engagement constructif". Ces dernières années en effet, la diplomatie sud-africaine avait enregistré des succès prometteurs. Le 16 février 1984, la RSA et l'Angola se met­tent d'accord pour faire cesser les hostilités par personnes interposées entre les deux pays. L'Angola, avec ses 8,56 millions d'habitants est un pays agricole si riche qu'il pourrait être totalement suffisant. En plus, il possède du pétrole et une aile de son parti communisant au pouvoir (le MPLA) est prête à un dialogue plus re­serré encore avec la RSA. Je me permets ici une petite question perfide: cette aile serait-elle la seule fidèle aux idées de Lénine? Le Malawi également est auto-suffisant au niveau alimentaire et entretient de bonnes relations avec la RSA. Le 16 mars 1984, Pieter Botha signe un pacte de bon voisinage et de non-agression avec le Mo­zam­bique de Samora Machel. Mais ce pacte est torpillé par les rebelles du RNM, qui font échouer le rap­pro­chement entre les deux pays et la mise en œuvre d'une complémentarité industrielle. L'île Maurice entretient dé­sormais de meilleures relations avec la RSA, grâce aux initiatives du leader social-démocrate Gaétan Duval, homme toutefois  sérieusement contesté au sein de son propre parti.

 

Autre indice de l'hostilité des thalassocraties à l'encontre de la RSA: l'embargo rigoureux sur les ventes d'armes et de matériels, durant les années 60 et 70, notamment des pièces de rechange pour frégates et des hélicoptères anti-sous-marins de type Wasp. Pourtant, lors du Simonstown Agreement, pris à Londres en 1955, Britan­ni­ques et Sud-Africains étaient convenus de renforcer substantiellement la marine de Pretoria et de mettre sur pied une force d'intervention capable d'agir au-delà des frontières sud-africaines. Ces accords londoniens ont été pris dans le cadre de l'OTAN, organisation qui tirait seule les bénéfices de l'opération, puisque la RSA mettait à l'entière disposition de l'Alliance Atlantique sa base navale de Simonstown. Certes les lignes maritimes sud-atlantiques n'étaient pas fréquentées, à l'époque, par les navires de guerre soviétiques. Ce qui ne faisait pas ap­pa­raître la région comme menacée. Au cours des années 60, la Grande-Bretagne retire ses navires de l'Atlan­ti­que Sud. Johnson décrète l'embargo sur les ventes d'armes en 1967 et interdit à l'US Navy de fréquenter les ports sud-africains. La riposte de Pretoria, qui tente de briser le boycott, prend en 1966 la forme d'une politique de dialogue avec les Etats latino-américains, appuyée par le Portugal encore maître de l'Angola et du Mo­zam­bique. L'Argentine est le premier Etat à répondre aux offres sud-africaines, suivie ensuite par le Brésil. En 1968 et en 1969, des manœuvres rassemblent les marines brésilienne, argentine, portugaise et sud-africaine. Le "Cinquième Empire", dont rêvait Dominique de Roux, prenait forme. Qui plus est, la RSA équipe alors son aviation de "Mirages" français, exprimant là, en quelque sorte, son soutien au désengagement gaullien vis-àvis de l'OTAN. Sous les pressions de l'opinion publique internationale, le Brésil quitte cette ébauche d'alliance.

 

Double embargo américain

 

Avec l'arrivée au pouvoir du conservateur Heath à Londres et du républicain Nixon à Washington, Pretoria croit que son isolement va prendre fin. Au contraire, rien ne bouge. Nixon ne change rien aux dispositions pri­ses par Johnson. Quand le travailliste Wilson succède au conservateur Heath, la Grande-Bretagne renforce son em­bargo et dénonce les accords de Simonstown. La France, abandonnant la stratégie gaullienne, se joindra aux partisans de l'embargo en 1977. La RSA, parfaitement capable de devenir maîtresse du pôle austral de l'Afri­que, ne peut opérer son décollage naval et n'acquiert de ce fait pas l'outil pour forger sa politique économique, pour concrétiser son projet de confédération sud-équatorial. Les Etats latino-américains ne sont pas mieux lotis. Washington prend ombrage de leurs initiatives et jugule le développement de leurs marines. Les Etats-Unis dissuadent leurs "alliés" sud-américains de se lancer dans l'acquisition d'armements modernes et insistent pour qu'ils consacrent davantage d'efforts à leur développement économique. Résultat de ces pressions: les Etats latino-américains se tournent vers l'Europe. Mais là encore, les Etats-Unis s'interposeront. Ils feront pression sur la République Fédérale pour faire annuler le contrat de livraison d'une centrale nucléaire au Brésil. Le Brésil ripostera en dénonçant tous les accords militaires qui le lient aux Etats-Unis. Mais la crise sera de courte durée.

 

Avec Reagan, la collaboration reprend tant avec les Sud-Africains qu'avec les Latino-Américains pour s'enliser une fois de plus après la Guerre des Malouines. Comme le souligne très justement le géopoliticien français Her­vé Coutau-Bégarie, l'Occident orchestré par Washington ne cherche pas à ce que se constituent dans l'At­lan­tique Sud des blocs autonomes, en matières de défense et d'économie. Les Américains pratiquent là une poli­ti­que semblable à celle qu'ils pratiquent en Europe: ils refusent que le pilier européen de l'OTAN acquière une cer­taine autonomie. L'affaire Kiessling, qui avait mobilisé les médias en janvier 1984, le prouve amplement. Ce général ouest-allemand, bras droit de Rodgers au QG de l'OTAN à Mons-Casteau, souhaitait que les Euro­péens de l'OTAN puissent s'organiser de manière plus autonome et puissent répondre plus souplement à des défis diplomatiques régionaux. Kiessling voulait que se poursuive la Doctrine Harmel de dialogue inter-euro­péen et que soit abandonnée la nouvelle guerre froide inaugurée par l'Administration Reagan. Mieux: Kiessling voulait que l'OTAN abandonne sa stratégie de limitation au théâtre européen d'un éventuel conflit nucléaire en Europe. En tant qu'Allemand, Kiessling ne pouvait admettre que sa patrie serve de terrain de combat sans pou­voir tenter au moins une solution diplomatique.

 

La géopolitique allemande avait une dimension européenne et c'est heureux que la pensée politique française soit en train de la redécouvrir et de la rééditer aujourd'hui. Elle souhaitait avant-guerre que les relations interna­tio­nales ne soient plus dominées par les seules thalassocraties britannique et américaine, qui avaient éliminé la marine allemande à Versailles en 1919 et imposé une limitation de tonnage à la France et à l'Italie en 1923 (Georges Valois s'insurgera contre ses mesures). Dans plusieurs régions du monde, en Inde, dans le cône sud du continent latino-américain, en Europe et en RSA, se dressent de nouvelles puissances qui ne peuvent ac­cepter sans conditions la tutelle imposée par Washington, sous prétexte que Moscou risque de frapper. Or Mos­cou a plutôt montré une radicale incompétence en Afrique. Les liens tissés entre Machel et Botha, le dia­lo­gue entre l'Angola et l'Afrique du Sud, prouve que la présence soviétique en Afrique n'est finalement plus qu'un souvenir. Le défi du XXIème siècle qui frappe à notre porte, c'est précisément de remplacer une économie mon­dialiste qui craque de toutes parts par des zones semi-autarciques auto-centrées.

 

Gagner la bataille des médias

 

Les nations candidates à jouer un rôle déterminant dans ces futures confédérations doivent gagner la bataille des médias. Pour la RSA, il s'agit de rappeler, notamment aux forces de gauche, que Lénine bénissait l'apartheid et condamnait la politique des grands groupes capitalistes en Afrique australe, favorables, eux, à l'égalité des droits. Et qu'en conséquence, les discours anti-sud-africains aujourd'hui apparaissent particulièrement puérils quand on se réclame par ailleurs de la tradition socialiste ou marxiste européenne. Plus importante à mes yeux est cette option actuelle de la gauche politique et intellectuelle qui préconise l'auto-centrage des économies et la déconnexion vis-à-vis des institutions mondialistes. Auto-centrage et déconnexion qui trouvent d'ailleurs un large écho dans le Tiers-Monde: la Chine de Mao l'a pratiquée hier en enthousiasmant les jeunes contestataires européens, Kwame Nkrumah s'est fait l'avocat de cette forme moderne d'autarcie en Afrique Noire, l'Egyptien Samir Amin vient d'exprimer cet espoir avec brio dans un livre récemment paru à Paris... Et c'est là pré­ci­sément que le bât blesse puisqu'on peut être simultanément partisan de l'émancipation du Tiers-Monde sur base de l'auto-centrage des économies et admettre que l'Afrique du Sud, en accord avec les forces qui sous-tendent son histoire, puisse se trouver une solution confédéraliste conforme à son passé et impliquant aussi une forme d'auto-centrage économique, tel que l'avaient préconisé les orateurs nationalistes Kestell et du Plessis en 1938 et en 1939. Dans les discours médiatiques européens d'aujourd'hui, tant la gauche que la droite manquent de cohérence et cette absence de cohérence provoque une dépolitisation par irréalisme et par inculture historique. Ces deux maux constituent l'assise de l'assomption de l'Europe dans les limbes de la transhistoire, où végètent nos peuples faute d'informateurs sérieux et d'hommes politiques valables.

 

Reste la question raciale. Les discours dits "racistes" ou assimilés comme tels ne sont finalement que paroles, tout comme sont vaines paroles les discours anti-racistes propagés par les médias occidentales. Ces discours relèvent du domaine des sentiments, pas du domaine de l'analyse politique sérieuse qui, lui, ne retient que les phénomènes de puissance politique. Le fond du problème racial sud-africain réside dans la distribution inéqui­table des terres. Le géopoliticien allemand Walther Pahl avait déjà milité, entre 1937 et 1939, pour une redis­tri­bution des terres aux paysans noirs, de manière à ne pas condamner les ethnies non blanches à la dépendance économique totale. Comme le déclarait un citoyen sud-africain à Michel Droit: "Nul ici ne devrait avoir le pou­voir de dominer l'autre. Ni le plus fort numériquement ni le plus fort techniquement et culturellement". La tâ­che des Sud-Africains est immense; elle doit parvenir à harmoniser les desiderata de plusieurs dizaines d'eth­nies sans léser personne. Mais n'est-ce pas le cas également en Europe, où la nécessité d'unir les efforts de tous nos peuples se heurte bien souvent à des mécompréhensions dramatiques, dictées parfois par de bonnes inten­tions, comme dans le dialogue franco-allemand sans cesse avorté? Ou dans le dialogue avec le monde slave, dont nous ignorons tout de l'histoire, ici à l'Ouest?

 

Les dettes en guise d'épée de Damoclès

 

L'avenir des relations entre l'Europe et la RSA dépendra de l'interdépendance entre les deux régions mais aussi du degré d'autonomie économique qu'elles pourront chacune acquérir. Certes l'Afrique du Sud doit vendre ses minerais dans l'hémisphère nord si elle veut survivre économiquement. Mais si les banques américaines accu­lent la RSA à l'illiquidité, un appauvrissement généralisé frappera toutes les ethnies de l'Afrique australe qui ré­pondra, comme l'URSS, par la création d'une industrie autonome produisant des biens de moindre qualité mais suffisants pour son marché intérieur soustrait, à cause du boycott, à la concurrence internationale. La RSA se verra alors contrainte de refuser de payer ses dettes aux banques américaines et de tenter au moins d'honorer celles qu'elle a contracté avec les banques européennes. La politique de Washington va-t-elle de ce fait rapprocher les Européens des Sud-Africains? Nous pouvons l'espérer mais rien ne se dessine à l'horizon pour reprendre la politique d'un De Gaulle qui avait livré des Mirages à la RSA, sans se préoccuper des boycotts anglais et américains.

 

Un humanisme de la différence

 

Si les Etats-Unis ont proclamé la Doctrine de Monroe en 1823 et voulu par là que l'Amérique soit aux Amé­ricains, nous voulons, nous, que l'Afrique soit aux Africains, blancs ou noirs, et que l'Europe soit aux Euro­péens, à tous les Européens qu'ils vivent aujourd'hui à l'Est ou à l'Ouest du Rideau de Fer. Ce souhait im­plique précisément une autre logique des relations internationales et un rejet des doctrines et des praxis qui postulent une mondialisation de l'économie et un arasement total des cultures et des modes de vie qui ont fait l'histoire, les littératures, les créations artistiques des peuples de notre planète. Ce que nous voulons voir triom­pher, c'est l'idée d'un confédéralisme, que ce soit celui suggéré par la RSA, ou celui présenté par l'URSS, avec ses potentialités et ses lacunes, l'URSS qui est, ne l'oublions pas, une "fédération d'Etats" ou par les di­vers projets qui en Scandinavie, en Europe Centrale ou dans les Balkans n'ont pas encore abouti. Dans la con­fédération, les principes fondamentaux de l'humanisme sont préservés, c'est-à-dire les principes fondamentaux de celui ou celle qui puit dire "rien d'humain ne m'est étranger". Humain signifiant ici, bien sûr, production originale, organique et non schéma conceptuel désincarné.

 

Robert STEUCKERS.

Le 4 juin 1986.

jeudi, 15 janvier 2009

La révolution protectionniste selon Emmanuel Todd

 

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La révolution protectionniste selon Emmanuel Todd

http://www.europemaxima.com/

dimanche 2 novembre 2008, par Pierre Le Vigan

Pour bien comprendre les réflexions de Pierre Le Vigan, il est important au préalable de lire l’entretien qu’Emmanuel Todd accorde à Élisabeth Lévy pour l’hebdomadaire Le Point, n° 1 884, du 23 octobre 2008. Historien des structures familiales, auteur en 1976 de La chute finale sur l’effondrement prochain de l’U.R.S.S. (après avoir largement puisé dans les travaux de Jules Monnerot sans d’ailleurs le citer), il a publié en 1998 L’illusion économique, en 2002 Après l’empire et maintenant Après la démocratie, tous chez Gallimard. Hostile au libre-échange et ayant préfacé la réédition en 1998 Système national d’économie politique de Friedrich List, Emmanuel Todd a ouvert en 2004 à la demande de Dominique de Villepin la Conférence sur l’emploi et les salaires par un plaidoyer en faveur du protectionnisme. En 2005, et adversaire de Maastricht appelle à voter « oui » (avec réticence toutefois) au Traité constitutionnel européen - La rédaction


Les propos de Emmanuel Todd sont généralement intéressants même si on ne les partage pas tous. Le protectionnisme européen est bien sûr la condition de l’emploi et de la cohésion sociale. Il est aussi parfaitement exact que les élites qui ont choisi le libre échangisme mondial jouent contre la démocratie et détruisent les conditions de son effectivité.

Par contre, la notion de « pogrom antirépublicain » avancée par Finkielkraut à propos des émeutes en banlieues est-elle si inadaptée que semble le penser Emmanuel Todd ? La formule est forte, mais la réalité était brutale. Comment appeler l’acte de gens qui brûlent des écoles, des gymnases mais qui essaient de piller les magasins de vêtements, et non de les brûler ? Des gens qui ont certes peu d’argent mais adorent ses symboles ? Et qui détruisent ce que la République met à leur disposition ? Todd écrit : « Lorsqu’une bande mêlée, de toutes les couleurs, caillasse la police, c’est que l’assimilation fonctionne ». Cela laisse perplexe. Il ne suffit pas d’énoncer des propos paradoxaux pour qu’ils soient justes. Quand des Russes émigrés après 1917 allaient à l’embauche aux usines Renault, cela prouverait que l’assimilation ne marchait pas alors que quand une famille vit aujourd’hui des aides sociales et que ses enfants brûlent les écoles, cela prouverait que cette assimilation fonctionne ?

Ensuite, le libre échange et les délocalisations sont-elles les seules causes de la situation et du malaise de nombre de jeunes de banlieues ? Bien sûr, le fait que l’emploi ne soit pas aussi abondant que dans les années soixante ne favorise pas l’intégration. Mais ces jeunes cherchent-ils vraiment du travail ? Sont-ils prêts à se lever tôt ? Ont-ils vraiment acquis un savoir-faire qui rend apte à l’emploi ? Pour nombre d’entre eux, la réponse est bien sûr : non.

Quand au déclin culturel que Todd conteste, il suffit pour en être convaincu de comparer l’orthographe de nos grands-parents qui quittaient l’école à onze ou quatorze ans à celle des jeunes qui peuvent y rester jusqu’à dix-huit ans, sans rien y faire pour beaucoup, et on comprendra qu’il y a vraiment déclin culturel. On peut aussi écouter les conversations au pied d’une barre H.L.M. pour avoir son opinion. La vérité que E. Todd ne veut pas voir c’est que l’immigration de masse est un désastre humain et culturel. Pour les accueillis et pour les accueillants.

Finissons sur un point d’accord : « La narcissisation des comportements, l’implosion centripète des individus et des groupes vont tellement loin que le mythe national instrumentalisé par le couple Sarkozy / Guaino n’embraye sur aucune réalité. De ce point de vue, le peuple ne vaut pas mieux que l’élite. Et l’Europe ne va pas mieux que la France. Le sens du collectif se dérobe. » Mais on peut en tirer diverses conclusions. E. Todd appelle à « l’adoption d’un protectionnisme coopératif, mis en œuvre au niveau d’un collectif supranational, délivré de tout mythe fondateur ethnique ou étatique ». Sans mythe fondateur, il ne reste que l’économie, et le protectionnisme nécessaire n’est pas suffisant. Il faut un mythe englobant l’économie. L’Europe doit être ce mythe, celui d’une Grande Patrie englobant les Patries nationales et régionales, un mythe animé par le souffle d’un Peuple-source (1), comme écrit le philosophe Philippe Forget, un Peuple bâtisseur d’histoire.

Pierre Le Vigan

Note

1 : Philippe Forget, « Culte de la “ diversité ” et dépècement du peuple souverain », mis en ligne par L’Esprit européen, http://www.esprit-europeen.fr/agora_enjeux_france_europe-3#forget_diversite.

 

Het dogma van groen: "de aarde warmt op"

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Het dogma van groen:” de aarde warmt op”

http://klauwaert.blogspot.com

Tot voor kort had ik nog nooit gehoord van de Nederlandse klimatoloog, professor dokter Solomon Kroonenberg.
Maar dankzij een artikel in het Laatste Nieuws van afgelopen weekeinde heeft deze man mij de ogen geopend.

Er zijn nu meerdere waarnemingen die erop wijzen dat de aarde wel degelijk afkoelt.
a) Het warmste decennium van de vorige eeuw waren de jaren dertig en NIET de jaren negentig.

b) Het afsmelten van de gletsjers in het Himalayagebergte heeft weinig of niets met een opwarming te maken maar alles met een plaatselijke "atmosferische wolk" veroorzaakt door luchtverontreiniging (China?) dit volgens een recent milieurapport van de verenigde naties.

c) De middeleeuwse mens hier ten lande van ongeveer duizend jaar geleden (wat een korte tijdspanne is in de klimaatwetenschap) heeft in een tijdsbestek van enkele tientallen jaren veel hogere temperaturen gekend dan in de jaren negentig. (recent wetenschappelijk onderzoek).
d) Op het noordelijk halfrond is vorige winter de grootste hoeveelheid sneeuw gevallen sinds 1966. In de Alpen zijn nu de beste ski-omstandigheden sedert meer dan twintig jaar bekend, onder meer wat betreft de sneeuwdikte.

De stad Las Vegas in de Verenigde Staten van Amerika werd in december 2008 geteisterd door de ergste sneeuwstorm in meer dan dertig jaar. In de Alpen zijn nu de beste ski-omstandigheden sedert meer dan twintig jaar gemeld.
e) De hoeveelheid pakijs in alle oceanen is nu aangegroeid tot het niveau van 1979. Op de noordpool is de ijsksap met 500.000 vierkante meter aangegroeid in ongeveer tien maanden tijd, de aangroei in september 2008 is de grootste maandelijkse aangroei ooit opgemeten.

Volgens sommige biologen bereikt de ijsbeer alweer record aantallen.
f). Afgelopen meteorologisch jaar dat liep van december 2007 tot november 2008 was het koudste in acht jaar en dit volgens de onverdachte bron zijnde de NASA.
Goede Klauwaertvrienden, waarom horen we hier niets over in de andere media? Zou het kunnen dat deze info te veel de belangen van de groenen en andere linksen schaadt?

Die gemeenschap leeft immers van het algemeen doemdenken en van de sinistrose onder de bevolking. Men probeert de moderne mens met een schuldgevoel op te zadelen zodat hij weer maakbaar wordt en volgzaam en iedere draconische maatregel zal slikken. Een voorbeeld hiervan is de negentig km/u bij smogalarm waarvan iedere milieudeskundige weet dat het geen snars uithaalt om de luchtkwaliteit te verbeteren op korte termijn.

Laat jullie dus niet op sleeptouw nemen door deze politici informeer u en oordeel zelf.

En ja er bestaan evenzeer argumenten om aan te tonen dat de aarde zou opwarmen maar dan nog is de vraag of dit hoofdzakelijk te wijten zou zijn aan de menselijke activiteit en ook daar zijn de wetenschappers het niet over eens….

Jan zonder Land

 

"Leda" de Victor Rousseau

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Kiezen tussen de Utopische Samenleving en de Naïeve Anarch

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Kiezen tussen de Utopische Samenleving en de Naïeve Anarch

A Posthumous Conversation With Arnold Gehlen

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A Posthumous Conversation With Arnold Gehlen

Thomas Molnar

My only "encounter" with Arnold Gehlen was on the pages of Criticon: He was the subject of the Autorenportrat in the first issue of the review; I was the subject in the second. This is not much, yet I have mentally "conversed" with him several times, thereafter as a conservative social anthropologist. I employ conservative both as a term of praise and disagreement. Facing his progressive colleagues, a conservative social philosopher is one who does not indulge in wishful imaginings that he presents as the inevitable future of mankind. At the same time, he runs the risk of becoming intellectually rigid when he assumes that man, less plastic than the evolutionists believe, is determined by successive civilizational forms, from that of the hunter-gatherers to postindustrial society.
       
        Gehlen is part of a school of thought whose members divide history--not l'histoire evenementielle but sociotechnical history--into boxes, then shuffle their contents and are visibly annoyed when the cards from one box spill over to another box. A good illustration of this method of over classification is found in the works of the cultural anthropologist Pitirim Sorokin who involves himself in so many cross-references that the reader finally loses the line of argument and can only hold on to a few passages for their illustrative value.
       
        In the above paragraph, I tried to unmask the scholarly processes of these men when I called their professional object "sociotechnical history." It seems to me that most, if not all, of these admirable thinkers are over impressed by our "age of technology," and have become its victims in the sense that they regard it as the end of history, culture, and the human condition. To be sure, this view may be more defensible than that of their progressive colleagues. These latter are similarly overimpressed but build temples to technology, congratulating each other that they can now pray at the same shrine, members of the same ultimate cult. Gehlen and his colleagues were less naïve; they did not like what they saw. Yet they, too, considered technological civilization as the ultimate human achievement, though perhaps in the negative sense, as if man's being turned into a machine were inscribed in the natural order of things.
       

History As Positive Achievement
       
        What can one do after reaching such a conclusion? Two possibilities are left. One is given by the pessimistic historian Oswald Spengler: the replaying of the whole scenario from infancy to senility in some other geographical setting, endlessly. The fatalism of this process shuts off all discussion. The other possibility was explored by Gehlen: the explanation of our supposedly final civilizational shape as seen in reference to former ages, now perceived as approaches to the present level of mechanized living. Facing Spengler's picture of a cyclical history, Gehlen declares the course of history irreversible and, as such, a positive achievement.
       
        The French philosopher Henri Bergson at least contemplated a pair of alternatives, one of them negative, and the other positive. The élan vital had two choices, one of which ended in the cul-de-sac of perfect but mechanized instincts (the lepidoptera); the other of which flowed in the direction of an incalculable freedom and in the direction of man--the open intelligence, the creative artist, mystic, saint. Gehlen, however, insists on basic human constants--stability, regularity, and domination over nature--and is led to such a strange rapprochement: equation between the magical practices of archaic man and modern technological inventions. In both cases, Gehlen holds, man projects his need for regularity and routing onto the outside world. Magic brings him the obedience of the organic universe (or what his animism regards as organic); governing technology brings him the scientific laws of inorganic matter.
       
        This is, of course, reductionism of a rather materialistic kind. Marx and Engels, and before them, Helvetius and the Renaissance adepts of Epicurus, could have subscribed to it: Religion is merely a method of influencing imaginary superior forces. Once these forces are harnessed, scientific laws and their technical embodiments take over--and give us at least as much satisfaction as religion. The logic of this position does not stop here; it compels us to distinguish between our dependence on animate forces (in the age of magic) and our freedom today, as we manipulate the inanimate world. Max Weber's concept Entzauberung may be relevant here; that is, nature's desacralization as not merely an option, but an inevitable and irreversible transformation. As Gehlen writes, with man's switch from near passive object to active-dominant subject of historical and productive forces, the moral ideal has also changed. Is this not the line of argument of all utopian thinkers, from Joachim of Fiore to Teilhard de Chardin, not to mention the solid phalanx of progressive social scientist and ideologues?

       
A Rationalistic Future

       
        I hope the reader sees now the nature of my objection to Gehlen's quasi-deterministic vision. It is a vision that German thinkers adopted at the end of the last century, and that they have had certain reasons to cultivate in this one. Writes Gehlen: "The future no longer holds any prospect of a resurgence of mystical consciousness, since the industrial culture now conquering the globe is rationalistic through and through" (Man in the Age of Technology, p. 122). He proceeds to analyze industrialization's dreary consequences, the bureaucratization of life, mechanization of work, and institutional dissolution. This is Max Weber and Oswald Spengler again, themselves influenced by Vico, Burckhardt, and Tocqueville, and in their turn influencing Toynbee, Ortega, and others. Gehlen is by no means along; in fact, the cultural mood he represents has become all-pervasive, a sign of the times. But no matter how many brilliant names subscribe to and illustrate this mood and trend of thought, it is no more than a vision of the world closing in upon us.
       
        If I read Gehlen correctly, his philosophical anthropology contains two principal propositions. The first is that one may speak of culture only in a magical ritualistic sense, which suggests man views himself as a fragile being. This would also explain the human need for institutions because they mediate the sphere of transcendence to communities, at least to Gemeinschaften. And it further explains why, according to Gehlen, the place of institutions in our time is taken over by organizations (Gesellschaften). These temporary products of social relationships regulate themselves without pointing to a beyond and express ad hoc subjective desires.
       
        Gehlen's second proposition is that the consciousness of an age alters in response to changes in culture, in the form of human settlement or method of production. In our industrial civilization, then, culture has come to an end, and our consciousness is shaped by vast, manipulated, and manipulatory forces (the media, commercial publicity, government propaganda). The small enclave, in which each of us lives his impoverished private existence, with neither gods nor genuine human contacts to console us, has no cultural motivation and is easily adaptable to a hedonistic life-style.
       
        Although Arnold Gehlen and the other philosophers of civilization neither make excessive use of the so-called objective methods of measurement nor reject value judgments such as "decadence," "moral decline," and "social fragility," their central weakness is their inability to rise above the typological view of history. They ought to take into account the fact that every age proceeds to divide historical time according to its own convenience or prejudice, distributing praise, difference, or hostility by means of labels it nails to the various time-sections. "Middle Ages" contains a negative verdict, "Enlightenment" a positive one, while "ecumenic age" has a question mark attached to it.
       
        No wonder, then, that our preoccupation with industry and technology has introduced and encouraged a new classification based on the ways and methods of production. This is why we discovered in retrospect the nomadic gatherers; the clans of hunters and fishermen; the settled agriculturists and animal breeders; the urban population; artisanship and trade; large-scale, indeed global, industry; then, with an anxious look at the future, the age of nuclear energy and spatial navigation. The postulate that overarches this enumeration is irreversibility. As Gehlen writes, we cannot return from the industrial to the mythical consciousness because the former destroyed the later with its cold, rationalistic methods and has expanded throughout the planet.
       

The Shaping Of Societal Consciousness
       
        Where is my disagreement with Gehlen and the school to which he belongs? It is questionable to what extent the consciousness of a society is shaped by its material substratum, productive forces, and social relationships. It was the Marxist Lucien Goldman who tried (in Le Dieu cache) to demonstrate that Pascal's and Racine's work can be explained in terms of the new sociological position of the noblesse de robe--a thesis brilliantly demolished by a young scholar, Gerard Ferrey-rolles. Similar attempts at a basically Marxist analysis abound in the works of sociologists of knowledge like Karl Mannheim, and, of course, Georg Lukacs and the
Frankfurt School.
       
        Gehlen did not belong to any of these groups, yet he shares with them a number of intellectual ancestors and presuppositions. Industrial society was so traumatic for scholars holding a tradition-based worldview that some drew apocalyptic conclusions from its predominant position and gradual annexation of various areas of daily and cultural life. Let us not forget that in the nineteenth century not scholars but primarily artists opposed scientific progress (Blake, Baudelaire, Flaubert, then Pound, Yeats, Eliot); most intellectuals were swept off their feet by the prospect of utopia, but art historians soon joined the artists in their opposition to technology and mechanization (Sedlmayr, Ortega, Weidle).
       
        We must, however, question the theories of civilization built on nineteenth century culture shock, and regard fully developed technological society not as the last phase of a sadly declining history, but as a dead-end street, in the sense that lepidoptera represent an exhausted biological line in Bergson's system. (This is not a general approval of his Evolution cretrice!) Ghelen was impressed by the gradual buildup of the civilizational stages from the nomadic food gatherers to the present, cybernetic era. When the nomads made fire with a flint, that act was profoundly needed; hence, it was sponsored by a god (Agni in the Hindu pantheon, Vulcanus in the Roman), and it was an organic, unremovable part of civilization. This quality of permanence integrated "fire" with theology, philosophy (from the pre-Socratics until the Stoics), the magical worldview, alchemy, mining, poetry, and images of love and passion.
       
        Cybernetics, no matter what its giant achievements, cannot create counterparts in imagination nor install them in the pantheon. It is in the strictest sense unneeded, an embarrassing burden, a manipulative device; since nobody really wants it, it cannot catch our fancy. It is not part of the human condition. In short, there will never be a "cybernetic consciousness", only the learning by specialists of an auxiliary branch of industrial technology. No matter what sophisticated machines we build, man remains man, and machines, insofar as they enter our imagination at all, will be strange, freakish, monstrous, or ridiculous Frankensteins.
       
The Building Of A "Lepidopteran" World

       
        Thus industrial civilization, which so overwhelms us today, is a Bergsonian quasi-impasse in the succession of civilizations. I mentioned that its first opponents were those nineteenth-century artists who rebelled against photography, the railroad, the grisaille of factory life, functional architecture, the smoke that defiles the air of cities--not mere Luddites but clear-sighted insurgents against mechanization. Of course, this kind of milieu created its own human type, utilitarian man, who judges beauty in terms of supermarkets and building speculation.
       
        However, the whole thing can be diagnosed as a "lepidopteran" undertaking: Technology will simply not fuse with consciousness, it will frighten it, alienate it. The machine encourages things like the Centre Pompidou; it may even reach a kind of apotheosis in a night skyline mirrored in the river, as the illuminated cubes of
Manhattan. Such a vista is impressive, but it does not speak to the emotional roots where time, exaltation, awe, and humility enter into alchemic combination.
       
        Like many of his colleagues, Gehlen feared, in fact, the end of history, a typical and understandable rightist response to the present dehumanization and vulgarity of bureaucracy and mass culture. An abundance of histories of civilization has been written in the last hundred years. The authors either spoke openly of the decadence of the West or tried to balance Western civilization on the point of a needle, guessing whether it would remain or fall. At any rate, the authors believed they were publishing the last book before the end of the world, an end to come in an apocalypse or a whimper, as T.S. Eliot suggested. The books themselves were conceived on the model of inventories, the last tour d'horizon before all books are closed.
       
        Yet, history continues, and it is not irreversible. Indeed, irreversibility itself is a mechanical concept, exemplified by the machine that never stops functioning. But how could we say of Chartres or a Mozart symphony that it is irreversible, or that Augustine and Michelangelo did forever? Such statements, we know deep inside, do not make sense. Likewise, we know that a mechanical product, like the Centre Pompidou, regardless of how long it stands, will not be assimilated by historical consciousness.
       
        The modern reductionist methodology is responsible for Gehlen's pessimism about civilizations. It may be tempting and spectacular to equate archaic magic with the mathematical certainties derived from scientific technology, but it is a false equation. Magic was not solely an attempt to secure desired results--it suggested that the cosmos is one totality, the unimaginably vast scene of cross-influences by all its myriad components, human and other. Even when the magician obtained negative or no results, he felt the safety of belonging to a meaningful whole.
       
        The contemporary engineer has no such support. Our civilization, built on a "second nature" as it were, cannot be intimately ours. We will leave it behind and proceed to new configurations in the light of which dehumanizing technology and its computer brain may again appear as marginal--abandoned by post-technological man. Industrial society does not have to be followed by "more of the same"; envisioning the next civilization postulates is not in our power.

The Argument For Divine Censorship
       
        A final point. Gehlen expected, like many modern thinkers, that mankind would formulate a new, sound moral relationship with industrial culture. This may take the form of an "ethics of responsibility" (Hans Jonas) inspired by ecological considerations, a new awareness of our growing and perhaps unlimited power over nature. It must be noted, however, that morals are not formulated and observed in vacuo; they are creations of an ontological penetration into the universe by which human relations, too, are seen in a new light.
       
        Even if we accept the classification of previous historical epochs as sedentarization, agriculture, city building, and so on, it is obvious that each presented itself under the sponsorship of divinities who fulfilled two essential civilizational functions: They offered their followers a meaning of, and justification for, what gods and men were doing, thereby suggesting myths, rituals, and art forms. Their second function was setting the limits that the given technical instruments were unable to transcend--unless the gods themselves changed, but that act created another civilization.
       
        No such relationship exists between the technological age and what I have called the ontological penetration. Science has cleared the cosmos of the sacred presence; technology simply fills the empty place thus left, the way chairs fill the stage in Ionesco's Les Chaises: relentlessly, endlessly, even after the curtain falls. In other words, for a morality to exist as an active agent, the universe must have a meaning, and therefore techne must have limits. As if he had anticipated Hans Jonas' call for an "ethics of responsibility", Gehlen warned that Western man has had two centuries of conditioning in an uncritical admiration of technology. I think we must go farther and realize that we do have a system of ethics adjusted to science and technology, just as we have a system of esthetics. The trouble is that both are false: "Technological esthetics" is represented by the Centre Pompidou, while "technological ethics" is contained in the phrase, What is technically feasible is also moral. Neither system harmonizes with man's deeper vision of himself and the world.
       
        Thus my final disagreement with Gehlen can now be summarized. If there were a law according to which a new and different moral vision must coincide with every major change in technology, then the weight of importance in spiritual anthropology would have to shift from the moral demand as such to what technology can offer. In short, technology would determine morality, and anthropologists would merely register this fact. This is a fashionable view, which recently found a brilliant expression in Le desenchantement du monde, by Marcel Gauchet. The French writer's work is predicated on an also fashionable "historical entropy": We have left the religious worldview behind and have descended, as if from the mountains to the endlessly stretching plain, onto a self-regulating society.
       
        However attractive this thesis may appear, it is merely speculation for people ideologically committed to the infrastructure/superstructure process of history: With changes in the material and psychological preconditions, moral truth also shifts in a predetermined direction. But how do we measure the ratio that exists between, let us say, the structure of production or ownership, and the moral judgement? To my knowledge, there is no formula for the calculation of such a ratio, and speculation about the existence of one is the fading legacy of nineteenth-century positivism. There is thus no demonstrable relationship between infrastructure and superstructure, to use these loaded terms. The freedom and specificity of man--and if we do not postulate them, we might as well abandon all thought of an anthropology--are ultimately not tied to his material condition. Otherwise, given the present state of civilization, this "conversation with Arnold Gehlen" could not take place or would be without meaning.

Thomas Molnar is professor of religion at Yale. He is the author of The Pagan Temptation; The Decline of the Intellectual; Sartre: Ideologue of Our Time; and God and Knowledge of Reality.

[The World and I (New York), November, 1989]

 

mercredi, 14 janvier 2009

Gaza: Israël n'a rien à gagner sur le plan politique

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Günther DESCHNER :

Gaza : Israël n’a rien à gagner sur le plan politique

 

On est plutôt prompt à penser que la culpabilisation, que l’acte de désigner le coupable, est l’affaire des lobbyistes. La plupart des hommes politiques et des journalistes s’emparent aujourd’hui de la nouvelle guerre au Proche Orient, que mène actuellement Israël, et prennent parti avec tant d’aplomb qu’on a l’impression qu’ils considèrent comme inopportunes et incorrectes toute connaissance approfondie de la question, toute objectivité et toute indépendance d’esprit. Trop de faiseurs d’opinion, de pontes médiatiques et de politiciens posent aujourd’hui des jugements à l’emporte-pièce, préfabriqués, tant et si bien qu’on pourrait penser, si l’on venait d’une planète lointaine, que l’histoire du Proche Orient vient à peine de commencer il y a deux semaines, quand, tout à coup, une bande ensauvagée de fous islamistes et antisémites, la barbe drue, aurait jailli du cloaque de Gaza et aurait, tout de go, commencé à tirer des fusées, par eux-mêmes bricolées, sur Israël, une Etat qui ne veut que la paix. Et que maintenant l’aviation israélienne leur donne la leçon qu’ils ont pleinement méritée. La plus pénible fut la Chancelière Angela Merkel qui sombra dans les simplismes outranciers, en déclarant : « Seul le Hamas est responsable de l’escalade ».

 

Mais, voilà, l’histoire n’est ni aussi simple ni aussi unidimensionnelle. Cela nous rappelle un peu la fameuse notion de « ruse de l’histoire » chez Hegel, lorsque nous lisons dans les journaux que ce sont surtout les frappes du Hamas, depuis Gaza, contre la ville littorale d’Achkalon, qui ont justifié les attaques d’Israël contre la Bande de Gaza. Or ce sont justement les Palestiniens qui vivaient à Achkalon et dans sa région, une ville qui s’appelait à l’époque Madchal, qui ont été dépossédés et expulsés en 1948 par les Israéliens. Ils se sont retrouvés à Gaza. Ce sont eux, ou plutôt leurs enfants, petits-enfants et arrière-petits-enfants qui constituent une bonne part du million et demi de fugitifs palestiniens parqués sur les 360 km2 que l’on a appelé, depuis lors, la Bande de Gaza. Les dimensions de celle-ci correspondent à peu près à la moitié de la superficie de l’agglomération de Hambourg et la densité démographique y est deux fois plus importante. Voilà le noyau du problème. Tous ces gens n’ont jamais eu aucune raison ni aucune occasion d’oublier la conquête de leurs terres, l’expulsion des leurs et la misère de leur condition de réfugiés. Cela n’excuse pas certaines de leurs réactions anti-israéliennes, mais cela les expliquent.

 

Depuis qu’existe Israël, donc depuis soixante ans, les tensions irrésolues n’ont cessé de s’accumuler et elles sont les plus perceptibles à Gaza. Cette ville est un cauchemar pour les deux partis. Déjà David Ben Gourion avait exprimé sa crainte en 1948, quand il a donné l’ordre aux troupes sionistes d’entrer dans la région. Dans les années 90, les premiers ministres israéliens Yitchak Rabin et Shimon Peres souhaitaient clairement la disparition de Gaza ; ils disaient qu’il fallait tout simplement couler la Bande et l’expédier au fond de la mer.

 

On ne sait pas quand le sang cessera bientôt de couler à Gaza : quoi qu’il en soit, la pause et le répit ne seront que les préludes de nouvelles catastrophes. Les experts ès questions militaires se demandent ce qu’Israël cherche à gagner en lançant ses troupes à l’assaut de la Bande. Car le but officiel de toute l’opération, selon le ministre de la défense Ehud Barak, reste vague. Les militaires israéliens disent vouloir forcer « un changement radical de la situation en matière de sécurité dans le Sud d’Israël », afin que cette partie du pays ne soit plus menacée dans l’avenir par les tirs de missiles des Palestiniens. Ne s’agit-il pas plutôt qu’un coup politicien en vue des élections prochaines, qui auront lieu en février ? Ou s’agit-il vraiment de conjurer une menace mortelle ?

 

Ceux qui critiquent l’action de l’armée israélienne évoquent la disproportion des moyens : au cours de ces sept dernières années, 17 Israéliens ont été tués par des missiles tirés depuis la Bande de Gaza. Certes, Israël a le droit indiscutable de ne pas accepter plus longtemps cette menace qui pèse sur ses citoyens et d’invoquer son droit à se défendre. En Occident, mais aussi à Berlin, ce droit est posé comme « non négociable ». Dans le même laps de temps, plus de 4000 Palestiniens ont été tués lors d’opérations israéliennes. En Cisjordanie, d’où aucun missile n’est lancé, 45 Palestiniens ont été tués par les Israéliens, rien qu’en 2008. Les Palestiniens, dès lors, évoquent, eux aussi, leur droit à se défendre. Ils ne comprennent pas pourquoi personne ne considère ce droit comme « non négociable » ou le dénonce comme du « terrorisme ».

 

Assurément, Israël, qui est la principale puissance militaire du Proche Orient, emportera la victoire dans l’actuelle « Guerre de Gaza », du moins sur le plan militaire. Mais, en revanche, sur le plan politique, Israël ne gagnera rien. L’opération militaire, qui n’est pas la première, loin s’en faut, ne préparera pas le terrain, à Gaza, pour des partis politiques fiables et compétents, que les Israéliens pourront prendre comme interlocuteurs. Les groupes radicaux ne mettront jamais vraiment un terme à leurs attaques, si les conditions politiques et économiques ne changent pas. Même Israël, tout puissant, n’a pas réussi à empêcher ces attaques lorsque ses armées occupaient Gaza et tenaient la région sous son contrôle. Le Hamas ne disparaîtra pas si on le boycotte et si, simultanément, on affame 1,5 million de Palestiniens.

 

Les objectifs du Hamas sont les suivants : arrêter les opérations militaires, mettre un terme au blocus de la Bande de Gaza et ouvrir tous les points de passage sur la frontière. Depuis avril 2008, dans les rangs du Hamas, on discute ferme pour savoir si l’on reconnaîtra Israël ou non, du moins dans les frontières de 1967, telles qu’elles sont reconnues par le droit international. Cela correspond exactement au plan que l’Arabie Saoudite, en tant que puissance très influente du monde arabe, a suggéré maintes fois. Négocier sur base de telles requêtes rapporterait plus à Israël que cette succession interminable de guerres,  d’armistices, d’actions de représailles, d’attaques suicides et d’assassinats « ciblés », qu’il connaît depuis plus de soixante ans. Quant à l’influence iranienne, qu’Israël perçoit comme une menace pour ses intérêts vitaux, elle ne cessera de croître au fur et à mesure que disparaîtra l’espoir des Palestiniens d’obtenir un Etat, qui soit le leur

.

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°3/2009 ; trad. franç. : Robert Steuckers).

Terre & Peuple n°38: Capitalisme, non merci! - Pour une troisième voie identitaire!

Terre et Peuple Magazine

n°38

Hiver 2008

 

 

Sommaire - TP Mag n°38

TERRE ET PEUPLE MAGAZINE - Terre et Peuple Magazine n°38 - Hiver 2008
Samedi, 18 Octobre 2008 01:59

Éditorial de Pierre Vial :

Pour une Troisième Voie identitaire

En Bref
- Nouvelles d'ici et d'ailleurs

Identité
- La ligue des Peuples d'Europe

Origines
- Nos racines généalogiques

Nos traditions
- Les fourneaux d'Epona

Indo Européens
- Les Faussaires de l'Histoire

XIII° table Ronde de Terre et Peuple
- Le combat Culturel, pour quoi faire ?

Culture
Patrimoine
- Prora, une mémoire Allemande
- Le mur Slave de Jaromarsburg

- Notes de lectures

DOSSIER - Capitalisme ? Non Merci !  Pour une Troisième Voie

Editorial - TP Mag n°38

TERRE ET PEUPLE MAGAZINE - Terre et Peuple Magazine n°38 - Hiver 2008
Samedi, 18 Octobre 2008 00:00
Pour une Troisième Voie identitaire

Face à la crise qui ébranle si fortement le système capitaliste (jusqu’où ? L’avenir le dira…) il est indispensable d’apporter une réponse alternative. Une réponse qui ne peut être que révolutionnaire. On ne se refait pas…Frileux s’abstenir.

Comme le rappelle l’entretien que nous publions dans notre dossier « Capitalisme ? Non merci ! », le concept de Troisième Voie a été très formateur pour toute une génération de militants (et militantes !) dans les années 1980. Il est nécessaire de le revivifier aujourd’hui car il est au cœur de notre combat idéologique – et plus que jamais nécessaire au vu de la situation présente.

Certains esprits chagrins vont critiquer ce choix. D’abord parce que critiquer les autres, tous les autres, est leur passe-temps favori, d’autant plus qu’en retour ils ne proposent rien, incapables qu’ils sont d’avoir une pensée positive. Ensuite, au mauvais prétexte qu’une Troisième Voie n’est plus de saison puisque la Troisième Voie des années 1980 se définissait tout à la fois contre l’impérialisme américain et contre l’impérialisme soviétique. Or celui-ci a disparu… Certes. Mais c’est confondre, volontairement ou involontairement, système soviétique et marxisme. Or celui-ci est toujours vivant, bien vivant, trop vivant puisqu’il imbibe, sans le dire (c’est le b-a ba de la subversion), tous les pouvoirs en place. Bien sûr, se dire marxiste n’est plus autant à la mode que dans le passé. Mais le marxisme n’en exerce pas moins, sous une forme souvent banalisée, son contrôle sur le pouvoir culturel, lequel (merci Gramsci !) conditionne la conscience de nos contemporains – si bien que, fin du fin, beaucoup d’acteurs de la vie publique font du marxisme sans le savoir, en dignes successeurs de Monsieur Jourdain.

Sur le plan politique, une ligne Troisième Voie permet de dénoncer droite et gauche comme les deux faces de la même (fausse) monnaie (exemple criant : le mondialisme libéral et l’altermondialisme gauchiste ont en commun d’affirmer la nécessité d’un mondialisme). Une Troisième Voie est une nécessité absolue pour sortir du jeu de tricheurs, utilisant des fausses cartes, qu’est le Système en place.

Les turpitudes des socialistes ont l’avantage d’étaler sur la place publique une vérité accablante pour les cœurs sincères qui croient encore au socialisme : le Parti qui parle en leur nom accepte le système capitaliste sous prétexte qu’on pourrait le réformer, l’aménager, le rendre supportable. Cela s’appelle la sociale-démocratie. C’est à dire le frère jumeau du capitalisme libéral. Comme en a fait l’aveu publiquement Delanoë, qui est d’après Le Nouvel Observateur (22 mai 2008) « le candidat préféré des électeurs de gauche pour la prochaine présidentielle ». Et qui annonce tranquillement : « La gauche que je défends est par essence libérale (…) Je suis donc libéral et socialiste ». Si les mots ont encore un sens, cela apparaît comme le mariage de la carpe et du lapin. Mais ce mariage n’a pas empêché Martine Aubry, qui veut nous la jouer « plus pure et plus dure socialiste que moi, tu meurs », d’accepter dans son escarcelle les voix de Delanoë pour venir à bout, bien difficilement d’ailleurs, de Ségolène Royal, en battant le rappel de tous les dinosaures du PS.

La déclaration de Delanoë, présentée dans les media comme une grande nouveauté et une belle audace, n’est en fait nouvelle et audacieuse en rien. Elle correspond en effet parfaitement à un jeu de dupes qui remonte au XIXe siècle, lorsque les radicaux-socialistes de la IIIe République firent en sorte de neutraliser, en acceptant le jeu constitutionnel et électoral, les ardeurs révolutionnaires des vrais socialistes français, héritiers de Proudhon et de Blanqui, marqués par le beau rêve de la Commune de Paris. Ces hommes et ces femmes (honneur à Louise Michel !) que les bourgeois versaillais traitaient dédaigneusement de « Communards », incarnaient une tradition politique qui, comme l’a rappelé Alain de Benoist dans son bel édito du n° 126 d’Eléments (automne 2007), « impliquait à la fois le refus de l’exploitation du travail, de l’égoïsme prédateur et du nihilisme jouisseur, en même temps qu’un certain conservatisme moral, le sens de l’honneur et de la parole donné, le goût de la loyauté, de l’entraide et de la solidarité ». Une telle conception, forgée dans les luttes contre la bourgeoisie louis-philipparde et héritière du compagnonnage,  transcendait le clivage artificiel gauche-droite, conçu pour couper les peuples en deux – pour le plus grand profit des usuriers cosmopolites. Un tel idéal a survécu au fil du temps avec l’aventure boulangiste, avec Maurice Barrès candidat aux élections de 1898 à Nancy sous l’étiquette « nationaliste-socialiste », avec le Cercle Proudhon fondé en 1911 sous l’influence de Sorel et du premier Maurras (« une des premières tentatives d’union des forces révolutionnaires de droite et de gauche en vue d’un syndicalisme à la fois socialiste et nationaliste », Dictionnaire de la politique française, 1967), avec ces « non-conformistes des années 30 » (Mounier, Maulnier, Rougemont et tant d’autres) bien étudiés par Jean-Louis Loubet del Bayle, avec les néo-socialistes de Déat, Marquet, Montagnon et Renaudel, avec le PPF de Doriot. Au-delà de leur diversité, ces hommes, ces mouvements étaient en quête d’une Troisième Voie, comme l’étaient, entre 1919 et 1945, Jose-Antonio, Ramiro Ledesma Ramos et Onesimo Redondo en Espagne, Degrelle et Henri de Man en Belgique, le premier fascisme (et le retour aux sources avec la République Sociale) en Italie, les courants nationaux-révolutionnaires et volkisch, à l’intérieur et à l’extérieur de la NSDAP, en Allemagne, et tant d’autres courants comparables dans la plupart des pays européens.

Après 1945 – et pour ne parler que de la France – François Perroux, le « gaullisme de gauche », le groupe « Patrie et Progrès », les courants Algérie Française au sein de la SFIO et du Parti Radical (Jean-André Faucher et ses amis), Maurice Bardèche et son Défense de l’Occident, Jeune Nation puis Europe-Action et, bien sûr, Troisième Voie, ont représenté peu ou prou, chacun à leur façon et dans des registres évidemment très différents, la volonté d’une ligne anticapitaliste et antimarxiste.

Aujourd’hui, face au marxisme rampant (travesti en droitsdelhommisme larmoyant) et au libéralisme sûr de lui et dominateur, s’impose la nécessité d’une Troisième Voie clairement affirmée. Elle doit reposer sur la nécessaire primauté d’un pouvoir politique exerçant sa légitime souveraineté sur l’outil économique, pour imposer la justice sociale. Elle doit reposer aussi sur la notion d’identité : dans la mesure où marxisme et libéralisme s’accordent sur le primat de l’économique et la nécessité d’un mondialisme tueur de peuples, niveleur et destructeur des appartenances organiques, ethniques, c’est l’affirmation des patries charnelles enracinées et du droit du sang qui fonde la légitimité d’une référence « Troisième Voie ».

Il faut le dire à ceux qui croient sincèrement au socialisme : le seul socialisme authentique est celui qui affirme la primauté des droits de la communauté sur les droits de l’individu et qui rappelle à celui-ci la nécessité des devoirs envers sa communauté. C’est en cela qu’il n’est pas compatible avec le libéralisme, lequel est indissociable de l’individualisme, source d’un égoïsme narcissique. Or les seules communautés légitimes sont les communautés organiques, populaires, qui reposent sur l’identité ethnique.

C’est pourquoi la Troisième Voie que nous voulons est celle d’un socialisme fidèle à ses origines, un socialisme identitaire, solidariste et fédéraliste, qui mettra en application la nécessaire justice sociale en éradiquant l’exploitation capitaliste mondialiste, sûre d’elle et dominatrice, cause véritable de l’invasion de notre terre par des populations victimes du Système et qui devront, pour retrouver une vie équilibrée et satisfaisante, retourner sur leurs terres d’origine. Ce qui permettra, alors, de passer avec elles des accords bilatéraux destinés à permettre à tous les peuples d’affirmer avec force, face au mondialisme niveleur, dans un monde multipolaire, leur droit à l’identité ethnique.



Pierre VIAL
 

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De nazaten van Djengis Khan

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De nazaten van Djengis Khan
http://klauwaert.blogspot.com/
Hoe de christenen een gouden kans om de opmars van de islam tot staan te brengen uit hun handen lieten glippen en waarom het westerse schuldcomplex met bijbehorende zelfkastijding onzinnig is –een lesje uit de geschiedenis.

Djengis Khan, geboren als Temudjin rond 1167, verloor al op jonge leeftijd zijn vader en leefde als uitgestotene jarenlang in uiterst precaire omstandigheden. Na vele omzwervingen en tegenslagen werd hij in 1206 in een kuriltai (samenkomst van alle stamleiders) verkozen tot Grote Khan van de door hem verenigde Mongolenstammen. Hij teisterde als een ‘gesel Gods’ het grootste deel van Azië, met een door hem gecreëerde, schier onoverwinnelijke strijdmacht.


Niet alleen was dit leger optimaal toegerust (door de inzet van reservepaarden, het dragen van een zijden onderhemd dat het verwijderen van pijlen uit schotwonden vergemakkelijkte, het gebruik van een geavanceerde composietboog), ook de strijdwijze was zeer effectief. Mongolen vernietigden hun tegenstanders door manoeuvrerend op hun snelle paarden een regen van pijlen af te schieten en het vrijwel nooit op een man-tegen-man gevecht te laten aankomen (daarbij waren ze kwetsbaar). Ook adopteerden ze gretig de militaire innovaties van over-wonnen tegenstanders: belegeringswerktuigen, buskruid, zelfs schepen. Ze verpletterden niet alleen de fine fleur van het Europese ridderschap, maar ook de tot dan toe zo succesvolle moslimlegers.

Djengis had vele concubines, maar de enige nakomelingen van belang waren de vier zonen die hij verwekte bij zijn vrouw Börte. De afkomst van de oudste, Jodji, was verdacht (kort na hun huwelijk werd Börte door tegenstanders van Djengis ontvoerd en verkracht), maar hij behandelde hem niet anders. Alle zoons kregen grote leengebieden (ulus) toegewezen. Djengis stierf in 1227 en werd opgevold door zijn bekwame, maar drank-beluste derde zoon Ögödei, die de scepter doorgaf aan zijn verwaten spruit Güyük. Deze volgde hem spoedig in het graf, waarmee deze tak als factor van betekenis uitstierf. De nazaten van zijn drie andere zonen vestigden afzonderlijke khanaten.

Batu, de tweede zoon van de eveneens in 1227 gestorven Jodji, breidde het hem toegewezen leengebied in het noordwesten van het rijk met behulp van de briljante generaal Subodai uit tot voorbij Moskou en roofde Polen en Hongarije leeg. Hij perste zulke gigantische tributen af van zijn Russische vazallen, dat zijn fabelachtig rijke clan de bijnaam de Gouden Horde kreeg. Na een zeer korte heerschappij van zijn zoon en kleinzoon ging de macht naar zijn tot de islam bekeerde jongere broer Berke. De laatste nazaat van Djengis, Berdebek, stierf in 1335, maar de Gouden Horde overleefde onder andere leiders tot 1502.

De bescheiden tweede zoon Djaghatai, die aan het hoofd van het dagelijkse bestuur van het rijk stond, kreeg de gebieden van de Kara-Kitai en Transoxanie in Centraal Azië (het huidige Afghanistan en de omringende landen) en had het daarmee niet echt goed getroffen.

Tolui kreeg het ‘hart van Mongolië, waarop hij als laatstgeboren zoon vanuit de traditie recht had. Hij stierf in 1233, maar dankzij de capaciteiten van zijn vrouw Sorghahtani Beki, een geboortige christin die door een Perzische historicus werd beschreven als “buitengewoon intelligent en bekwaam en hoog boven alle andere vrouwen op aarde verheven”, werd deze lijn de meest succesvolle. Ze sloot een bondgenootschap met Batu en wist in 1251 haar oudste zoon Möngke tot Grote Khan te laten kronen. Deze werd acht jaar later opgevolgd door zijn jongere broer Kubilai, na een burgeroorlog met de jongste zoon Arik Böke, die populair was onder de conservatievere Mongolenleiders omdat hij niet ‘verpest’ was door een leven in luxe.

Möngke en Kubilai onderwierpen China (dat door hun voorgangers alleen was geteisterd met roofovervallen) en Kubilai, de grootste van de Grote Khans, wijdde vrijwel al zijn tijd aan het bestuur van dit rijk. Door het herstellen van rust en orde, het bevorderen van de landbouw en het aanknopen van handelsbetrekkingen bloeide China weer op. Hij stichtte een nieuwe dynastie, de Juan, die een eeuw later door een volksopstand onder leiding van de eerste Ming-keizer aan zijn eind kwam.

Hülagü, de tweede zoon van Tolui, liep Perzië onder de voet en hield op afschrikwekkende wijze huis in het Midden-Oosten: hij veroverde o.a. Baghdad en ruimde bijna 200 ‘Assassijnen-nesten’ op (waarvoor velen hem zeer dankbaar waren). Hij was de christenen gunstig gezind: een belangrijk deel van zijn leger bestond uit Armeense en Georgische christenen en de christenen in de veroverde steden werden gespaard, terwijl alle moslimmannen aan het zwaard geregen werden en de vrouwen en kinderen als slaven naar het oosten werden versleept. Hij bood de kruisridders en de christelijke vorsten in Europa herhaalde malen een bondgenootschap tegen de islamieten aan, maar de eersten verkozen de kat uit de boom te kijken en de laatsten waren de ravage die door Batu in Oost-Europa was aangericht nog niet vergeten. Ze gingen niet op het aanbod in –een fatale vergissing. Hülagü’s positie werd bovendien verzwakt door een conflict met Berke, die liever niet zag dat zijn moslimbroeders in het Midden-Oosten werden uitgeroeid.

Iedere keer als een Grote Khan stierf werden van heide en verre leiders bijeengeroepen om in een kuriltai een nieuw opperhoofd te kiezen. De veroveringstochten werden dan afgebroken. Zo trok Batu zich bij een dergelijk gelegenheid terug uit Polen, Hongarije en het westelijk deel van Rusland en Hülagü uit het Midden-Oosten. Vaak was men het niet onmiddellijk eens en duurde het jaren voor de opvolger bekend was. Dit betekende uiteindelijk de redding van Oost-Europa en de islam in het Midden-Oosten.

Nadat Hülagü zich met het grootste deel van zijn troepen had teruggetrokken uit Syrië en het stroomgebied van de Eufraat bleef er nog slechts een klein Mongolenleger achter. Kortzichtige kruisvaarders besloten de Egyptische Mamelukken-generaal Qutuz vrije doortocht te verlenen en deze wist de Mongolen, die onder bevel stonden van de christelijke generaal Ked-Buka, bij Ain Jalut een vernietigende nederlaag toe te brengen -de eerste en de laatste keer dat de Mongolen verslagen zijn. Het Midden-Oosten was voor de islam veilig gesteld en kort daarop vielen de laatste kruisvaarderbolwerken.

Het rijk van Hülagü en zijn nazaten (de Ilkhans) beperkte zich voortaan tot Perzië. Het gebied bleef onrustig en Ghazan de Hervormer, die in 1295 aan de macht kwam, besloot de banden met zijn onderdanen aan te halen door zich tot de islam te bekeren. Hij werd nagevolgd door de meeste van zijn bevelhebbers. Zijn neef Abu Sa’id was de eerste khan met een islamitische naam –en tevens de laatste, want hij had geen kinderen. De resterende Mongolen gingen geruisloos in de Perzische bevolking op.

De nazaten van Djaghatai, ook tot de islam bekeerd, leken in Centraal Azië aan het kortste eind getrokken te hebben, maar hielden het uiteindelijk nog het langste vol. Een aanvankelijk onbeduidende prins, Babur, kwam op de vlucht voor binnenlandse onrusten in Noord-India terecht en stichtte aan het begin van de 16e eeuw het Moghul Rijk, dat (uiteindelijk in sterk afgeslankte vorm) tot 1857 zou bestaan.

Bij hun veroveringstochten gingen de Mongolen met ongekende wreedheid te werk. De minste weerstand had totale vernietiging tot gevolg, maar ook de bevolkingen van steden die zich direct overgaven werden soms uitgeroeid, louter om schrik aan te jagen. Bij de verovering van Baghdad kwamen volgens Perzische bronnen tussen de 800.000 en 2.000.000 mensen om het leven. Zelfs als men aanneemt dat deze cijfers zwaar overdreven zijn, liep het aantal doden in de honderdduizenden. Daarbij vallen de 2700 islamitische krijgsgevangenen die Richard Leeuwenhart bij de strijd om Akko liet executeren en zelfs de 40.000 burgers die sneefden bij de verovering van Jeruzalem volkomen in het niet. [Het beestachtige gedrag van de Mongolen is men echter vergeten, het aanzienlijk minder beestachtige gedrag van de Kruisvaarders niet.] De rooftochten van Djengis en Ögödei in China kostten volgens schattingen ca. 30 miljoen Chinezen het leven. Dat hadden er nog heel wat meer kunnen zijn, want generaal Subodai kon er slechts met moeite van weerhouden worden 10 miljoen Noord-Chinese boeren over de kling te jagen om hun land te kunnen benutten als weidegrond voor Mongoolse paarden.

De huidige Mongolen denken echter niet met afschuw terug aan de bloederige daden van hun nietsontziende voorouders. Integendeel: de herinnering aan Djengis Khan is de reddingboei waaraan dit door het communisme vernederde volk, verdeeld over een Russische vazalstaat en een Chinese provincie, zich vastklampt. Zijn portret prijkt op talloze voorwerpen, van wodkaflessen tot tapijten, en wekt niets dan trots en nostalgie op.

Vergeleken met de vernietigingstochten van de Mongolen waren de koloniale expedities van het Westen een toonbeeld van beschaving en ingetogenheid. Hoog tijd dus om maar eens op te houden ons te wentelen in schuldgevoelens. Die zijn nergens voor nodig, want in het rijtje van de grootste schurken uit de geschiedenis nemen westerse koloniale veroveraars zeer bescheiden posities in.

Jeremia 5 januari 2009

Bron
http://www.hetvrijevolk.com/?pagina=7618

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Vers un nouveau récit du monde?

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Vers un nouveau récit du monde ?

 

http://www.europemaxima.com

dimanche 9 novembre 2008, par Noël Rivière


Le monde a toujours fait l’objet de lectures en termes de grands récits. Il s’agit de narrations du monde, de ses origines et de son sens. Très liés à la mythologie, les grands récits se sont partagés entre grands récits païens ou monothéistes. La Bible hébraïque est bien entendu un cas singulier. L’aspect de révélation est à bien des égards éclipsé par ce qui relève de la Loi dès l’origine du récit. Ce qui est bien est immédiatement distingué de ce qui est mal. De là le fondement très rationnel de la Bible hébraïque. « Le récit de l’Ancien Testament tranche par bien des traits sur d’autres récits de création, de fondLe monde a toujours fait l’objet de lectures en termes de grands récits. Il s’agit de narrations du monde, de ses origines et de son sens. Très liés à la mythologie, les grands récits se sont partagés entre grands récits païens ou monothéistes. La Bible hébraïque est bien entendu un cas singulier. L’aspect de révélation est à bien des égards éclipsé par ce qui relève de la Loi dés l’origine du récit. Ce qui est bien est immédiatement distingué de ce qui est mal. De là le fondement très rationnel de la Bible hébraïque. « Le récit de l’Ancien Testament tranche par bien des traits sur d’autres récits de création, de fondation ou… d’établissement de peuples » écrit Claude-Raphael Samama. Dans la Bible hébraïque mais aussi, à sa suite, dans le Nouveau Testament, l’homme est le but et la fin d’une création divine.

À l’inverse, les mythes grecs constituent une autre forme de grands récits. Dans ceux-ci se déploie le monde entre terre et ciel, et aussi ce qui permet son jeu, à savoir le vide, la béance ou encore le chaos, le « Grand Ouvert ». Il n’y alors pas de Loi qui soit donnée aux hommes.

Il y a d’autres grands récits comme celui de Vico au XVIIIe siècle qui fait de l’homme le narrateur de sa propre relation au monde. Vico fait se succéder l’âge des dieux, l’âge des héros, l’âge des hommes. Le sens de l’histoire est une appropriation par les hommes de leurs actes. Au final, les hommes obéissent à « la loi de la conscience, de la raison et du devoir ».

Avec Hegel, c’est un autre grand récit qui est élaboré et qui se veut la réalisation d’une essence, l’Esprit absolu. Marx prolonge cette ambition mais sous une forme matérialiste et dialectique, non essentialiste. À la suite de cela, Le Déclin de l’Occident de Spengler, malgré la puissance de ses intuitions ne débouche absolument pas sur une théorie du monde.

Nous sommes ainsi maintenant dans un certain vide où le seul grand récit qui a essayé de se mettre en place – en vain – a été celui de Fukuyama, à savoir celui de la fin de l’histoire (idée qu’il développe dés l’été 1989) par triomphe définitif de ce qu’on a appelé libéralisme mais qui est bien plutôt la démocratie soluble et liquéfiée dans le marché.

Un double scepticisme s’installe. Le premier est le scepticisme face aux récits du monde existants, et ce qui subsiste est moins le récit du Progrès (en faillite) que le récit du « il n’y a qu’une politique possible », hier le développement à outrance, maintenant ce que l’on appelle le « développement durable ». Le second scepticisme est celui qui doute même de la nécessité d’un récit du monde. Quand il n’y a plus d’idéaux à représenter et à faire vivre, il ne reste que la « bonne gouvernance » à exercer et l’humanitarisme impolitique du côté de la pseudo-société civile et de ses multiples associations d’autant plus stipendiées qu’elles ne représentent qu’elles-mêmes.

Dans cette situation, pourquoi ne pas se tourner vers le grand récit de la création qu’est le big bang ? Il a bel et bien une vertu de prédictivité puisque le rayonnement rouge a été confirmé par Arno Penzias et Robert Wilson. Il ne manque pas à ce grand récit non plus la dimension esthétique. Il obtient même un temps l’onction papale par Pie XII avant sa rétraction. Mais il manque quelque chose au grand récit du big bang : c’est de pouvoir servir de règle pour l’ordonnancement des attitudes, des mœurs, des comportements humains. Quelle est la place de l’homme dans le monde ? Et de quoi est-il responsable ? Voilà ce à quoi aucune théorie purement cosmologique ne peut répondre. Le big bang ne débouche ni sur une loi morale ni sur une éthique de l’homme face au monde.

Les grands récits non monothéistes qui unifient la vision de l’homme et du monde ne sont pas nombreux. La pensée romaine est l’un de ceux-là. Chez les Romains la culture agricole en fonction des états du ciel (Tempus) a toujours été liée à la nécessaire « culture de soi » (Cicéron). Les droits humains et les droits divins sont liés. Les humanités (Humanitas) sont à la fois une discipline, un effort de culture et l’apprentissage des douceurs. Enfin, la grandeur de la liberté s’inscrit toujours dans un héritage, une mémoire. Tempus fugit, non autem memoria. Ce sont là les signes d’un vrai grand récit. Aujourd’hui, face à l’extinction du pouvoir de création historique et d’enchantement des fabulations antérieures, notamment la fable du Progrès, il faut inventer de nouvelles grandes figures pour peupler la terre de signes, de sens, et de beauté. Il faut pour cela des poètes qui soient aussi des mages. Le monde est lui-même un poème qui se déploie entre les affects et le signes. Il est, comme écrit Jean-Pierre Luminet, « un Songe aux ailes rognées par le Chiffre ». Seuls des poètes qui soient aussi des mages et des oracles pourront donner du sens aux signes. N’oublions pas que l’oracle est la réponse et le lieu de la réponse. Face au nomadisme et à une civilisation du hors site, il restaure le topos. Peut-être l’exaltation de la pleine liberté créatrice de l’homo faber, à l’opposé des dispositifs de mécanicisation de l’homme peut elle être ce nouveau mythe de force et de joie. « En définitive, l’intelligence, envisagée dans ce qui en paraît être la démarche originelle, est la faculté de fabriquer les objets artificiels, en particulier des outils à faire des outils, et d’en varier indéfiniment la fabrication » écrivait Bergson (L’évolution créatrice, 1907). Indéfiniment, disait Bergson. Une conception de l’homo faber qui voit sa nature dans l’inventivité et non dans la répétitivité et la mécanisation monotone. Dans un ouvrage de Tchekhov, Gourov dit à Anna : « Nous allons bien trouver quelque chose ».

Cela va venir.

Noël Rivière

• Revue dirigé par Philippe Forget, L’Art du Comprendre, « Récits du monde, récits de l’homme », n° 17, juin 2008, 324 p., 23 €. Diffusion Vrin : 6 place de la Sorbonne, F - 75005 Paris.

 

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Hitlérisme, stalinisme, reaganisme

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES / ORIENTATIONS (Bruxelles) - juillet 1988

 

 

Hitlérisme, stalinisme, reaganisme

 

 

John GALTUNG, Hitlerismus, Stalinismus, Reaganismus. Drei Variationen zu einem Thema von Orwell,  mit einem Vorwort von Dieter S. Lutz, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1987, 169 S., DM

 

 

Ouvrage pour le moins étonnant, ce livre de John Galtung, inspiré des visions de George Orwell, se veut une critique tous azimuts des grandes options politiques de notre siècle. Ces grandes idéologies ont toutes cherché à domestiquer le psychisme humain, à créer les conditions de leur propre non-dépassement, à effacer les souvenirs légués par l'histoire, à forger des loisirs sur mesure, à se décréter infaillibles, à manipuler mots et concepts pour les détourner de leur sens premier. Pour retrouver les racines de ce phénomène totalitaire, propre à notre époque, Galtung procède à une "analyse cosmologique" comparative et ré-su-me ses thèses dans deux tableaux. Le premier de ces tableaux juxtapose les caractéristiques de l'homo occidentalis  (HO), de l'homo teutonicus  (HT) et de l'homo hitlerensis  (HH), où l'homo teutonicus, imprégné de cette autorité théologienne de facture luthérienne, est l'homo occidentalis in extremis  et l'homo hitlerensis,  l'homo teutonicus in extremis.  Si l'HO place l'homme au-dessus de la nature, l'HT voue un culte romantique à la nature et l'HH conçoit une unité mystique entre l'homme et la nature. Après la disparition de l'HH, le monde a été dominé par l'homo sovieticus (HS), dont la forme extrême est l'homo stalinensis (HSt) et par l'homo americanus (HA), dont la forme extrême est l'homo reaganensis (HR). Cette classification peut apparaître spécieuse, empreinte de naïveté américaine; mais la conclusion de Galtung, c'est d'affirmer que toutes ces façons de mal être homme en ce siècle sont des variantes perverses de l'homo occidentalis expansator  (HOEx), qui doit son existence au christianisme, lui-même dérivé de la Bible, réceptacle d'autoritarisme, de mentalité inquisitoriale, d'intolérance, d'esprit de vengeance. Certes, ce sont là les caractéristiques de la version du-re  du christianisme, non de la version douce,  incarnée par exemple par un François d'Assise. Mais dans la sphère politique, ce sont les laïcisations de la version dure qui se sont seules affirmées, si bien que celui qui prend ce christianisme-là pour modèle de comportement, finit par se prendre pour un dieu unique et omnipotent et par devenir une menace pour autrui. Ce-lui qui s'imagine être un instrument du Dieu judéo-chrétien et fait appel à des récits bibliques fortement intériorisés par la population, finit par devenir aussi une menace pour autrui (cf. Reagan). Le résultat politique contemporain du christianisme dur, c'est un monde de type orwellien, comme dans 1984  ou dans Animal Farm,  avec des oripeaux idéologiques variables mais un égal résultat stérilisateur.

(Robert STEUCKERS).

 

"L'Amazone blessée" de Franz von Stuck

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mardi, 13 janvier 2009

Für Israel ist die EU nur als Zahlmeister willkommen

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Abfuhr für Europa

Für Israel ist die EU nur als Zahlmeister willkommen 

Von Andreas Mölzer

Nun hat die Europäische Union versucht, im blutigen Gazakonflikt zu vermitteln. Allerdings erfolglos, denn Israel zeigte nicht die geringste Bereitschaft, auf den Vorschlag Brüssels – UNO-Beobachter in das Kriegsgebiet zu entsenden – einzugehen. Offenbar versucht Jerusalem zu verhindern, daß die Welt die volle Tragweite dessen erfährt, was in dem schmalen Landstreifen an der Mittelmeerküste alles vor sich geht. Und daß die Vermittlungsbemühungen der EU gescheitert sind, mag auch daran liegen, daß die Europäer in der Vergangenheit eine ausgewogenere Haltung als die USA gezeigt und sich nicht ausschließlich an den Interessen der sogenannten „einzigen Demokratie“ im Nahen Osten orientiert haben.

Willkommen ist die Europäische Union für Israel freilich immer dann, wenn es darum geht, die von ihm bei verschiedenen Kriegen und Militäroperationen verursachten Schäden zu beseitigen. Im Jahr 2006 etwa, nachdem die israelische Armee bei ihrem Angriffskrieg weite Teile des Libanons in Schutt und Asche gelegt hatte, stellten die EU und ihre Mitgliedstaaten 77 Millionen Euro an humanitärer Hilfe zur Verfügung. Und man darf davon ausgehen, daß Jerusalem auf den „Zahlmeister“ Europa zurückgreifen wird, wenn es darum gehen wird, die im Gazastreifen verursachten Zerstörungen zu beseitigen.

Was den Krieg gegen die Palästinenser im Gazastreifen betrifft, so ist die sogenannte Brüsseler Wertegemeinschaft gut beraten, den Notwehrexzeß Israels klar und unmißverständlich zu verurteilen. Schließlich sind seit Ausbruch der Kampfhandlungen Hunderte Palästinenser ums Leben gekommen, darunter unzählige Frauen und Kinder, und die Lage der Zivilbevölkerung ist mehr als katastrophal. Anderseits müßte auch der Hamas klargemacht werden, daß der Beschuß südisraelischer Orte mit Raketen einzustellen ist und daß sie sich vom Terror zu distanzieren und das Lebensrecht Israels anzuerkennen hat. Sollte sich die Hamas vom Terror distanzieren, dann müßte Brüssel diese Organisation ohne Wenn und Aber als Gesprächs- und Verhandlungspartner anerkennen. Denn immerhin ist die Hamas im Jänner 2006 eindeutig als stärkste Partei aus den demokratischen Wahlen in den palästinensischen Autonomiegebieten hervorgegangen. Auch wenn deren politisches Programm den politisch korrekten Moral- und Bedenkenträgern in Europa nicht gefallen mag, so entspricht ihre Stärke dem Wählerwillen der Palästinenser.

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Crise mondialiste: les mondialistes y voient la preuve... qu'il n'y a pas assez de mondialisme

Novopress, 9/1/2009 : "Pour la commissaire à la Concurrence européenne Neelie Kroes (photo), « la crise actuelle ne peut être résolue par des approches locales, protectionnistes, ou par une résurgence des nationalismes ». Dans le contexte de la crise, « il peut être tentant de paniquer et d’avoir recours au protectionnisme. De dé-globaliser, en quelque sorte». Et «c’est ce qui se passe dans certains pays», a-t-elle déploré. « Il n’y a pas d’alternative à la mondialisation » a-t-elle prévenu, ajoutant qu’il ne faut pas « tout reformuler », mais « garder ce qui marche et changer ce qui ne marche pas ». « Nous avons besoin de réponses mondiales. Sur le front des politiques de concurrence la tendance va dans la bonne direction ».

« Nous avons besoin des interventions de l’Etat et d’une meilleure régulation pour fixer les règles du jeu », a néanmoins reconnu la commissaire, afin d’« éviter que le capitalisme dégénère en casino ou en copinage ». Des propos qui ont été repris au bond par Nicolas Sarkozy qui vient de mettre en garde les Etats-Unis contre toute tentation de bloquer l’adoption de mesures de « refondation du capitalisme » lors du prochain sommet du G20 à Londres. « Il ne peut plus y avoir un seul pays qui explique aux autres “payez la dette qui est la nôtre”, il ne peut plus y avoir un seul modèle », a doctement expliqué à ses amis américains un Nicolas Sarkozy qui semble avoir oublié qu’il préside aux destinées d’un pays « en faillite » selon les termes mêmes de son Premier ministre, et qui croule sous le poids d’une dette abyssale…

Les propos très natio-centrés du président de la République ont suscité l’ironie de président du Front National. « Auréolés d’une gloire factice, éblouis par des idées qu’ils croyaient modernes, ils ont détruit les nations, les Etats constitués (…) les services publics, tous livrés aux lois de la marchandisation universelle » a lancé M. Le Pen lors de ses vœux à la presse, au nouveau siège du parti à Nanterre. « Les voilà tous, avec l’ardeur des néophytes, des nouveaux convertis, défenseurs des nations protectrices, des intérêts de la communauté nationale, adeptes du contrôle et des réglementations, eux qui ne juraient hier que par le “laissez faire, laissez aller” ! » a-t-il ironisé."

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