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samedi, 05 décembre 2015

1914-1918 : LES FAITS TÊTUS DE LA GRANDE GUERRE

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1914-1918 : LES FAITS TÊTUS DE LA GRANDE GUERRE

Par Louis-Christian Gautier aux Éditions Dualpha

Fabrice Dutilleul
Ex: http://metamag.fr
 
1418.jpgFabrice Dutilleul : En cette période de « centenaire » ne peut-on considérer 1914-1918 comme un sujet aujourd’hui rebattu ?
Louis-Christian Gauthier : Ce n’est pas parce qu’un sujet à suscité une masse de publications, généralement à but commercial et qui répètent souvent la même chose, qu’il est épuisé. Je n’ai pas prétendu refaire une histoire de la « Grande Guerre », mais à en éclairer certains aspects méconnus ou jusqu’ici traités de manière conventionnelle.

Par exemple ?
Qui a entendu parler de la défaite anglaise de Kut-el-Amara, où une division renforcée à capitulé en 1916 devant les Turcs, malgré l’envoi d’un corps d’armée en secours ? Moi-même – malgré deux années de cours préparatoires à l’École Spéciale Militaire en option « Histoire et géographie », suivis de l’obtention d’un Certificat d’Études Supérieures d’Histoire Militaire Moderne et Contemporaine – l’ignorais jusqu’à ces dernières années.

Deux sur les cinq de vos « coups de projecteur » traitent particulièrement de la Belgique, qui a l’époque constituait un État-nation depuis moins d’un siècle (1831)…
Pour la « petite histoire », je tiens à préciser que je ne règle pas là des comptes conjugaux (je suis marié avec une bi-nationale)… Mais le cas du Royaume de Belgique est assez emblématique des manipulations de la propagande de l’époque. Ainsi son roi d’ascendance allemande a été « héroïsé » plus ou moins malgré lui par les Alliés pour l’attacher à leur cause, ce qui comme on le voit en lisant mon texte n’était pas gagné. Et sur le plan intérieur, c’était l’occasion de conforter une unité nationale qui n’était pas évidente non plus (comme on peut le constater de nos jours). En outre, la dénonciation des prétendues « atrocités allemandes » servait aussi de ciment interne et externe.

C’est loin tout ça…
Le passé explique le présent. Ainsi, comme je le rappelle dans le premier chapitre, l’Europe état alors au faîte de sa puissance. En s’entredéchirant – et par deux fois, le premier conflit ayant généré le second surtout via les différents « Diktats » imposés aux vaincus – on voit où elle est aujourd’hui tombée.

"1914-1918 : les faits têtus de la Grande Guerre" de Louis-Christian Gautier, 262 pages, 29 euros, éditions Dualpha, collection « Vérités pour l’Histoire », dirigée par Philippe Randa.

dimanche, 29 novembre 2015

Capire la politica estera della Francia nel Mediterraneo: da Francesco I a oggi

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Capire la politica estera della Francia nel Mediterraneo: da Francesco I a oggi

Perché la Francia interviene da sola, prima in Libia poi in Siria? È una domanda che abbiamo sentito spesso, in particolare dopo le recenti incursioni aeree francesi contro i jihadisti siriani.



 La prima risposta è che Parigi antepone l'interesse nazionale a qualsiasi altro fattore esterno: alleanze, accordi, equilibri internazionali. Prima risposta, sì, ma non sufficiente e neanche esaustiva: infatti, per capire la politica estera francese non si può partire da Hollande; meglio cominciare da Francesco I Valois...

Nel 1525, a Pavia, l'esercito di Francesco I di Francia subisce una durissima sconfitta da parte degli imperiali di Carlo V.

Re di Spagna, il 23 ottobre 1520 Carlo da Gand è incoronato ad Acquisgrana sovrano del Sacro Romano Impero con il nome di Carlo V. Regna su un territorio che comprende i Paesi Bassi, l'Arciducato d'Austria, la Spagna, i domini italiani e le colonie americane e, dopo la battaglia di Mohacs del 1526, anche la Boemia e l' Ungheria, quest'ultima divisa con la Grande Porta (Impero ottomano, nda).

Un regno vasto, che ostacola l'espansionismo dei due “vicini”, Francia e Impero ottomano. L'epopea di Carlo Martello a Poitiers e gli echi delle crociate sono lontani e la ragion di stato supera i limiti imposti dalle differenze religiose, storiche e culturali. E' così che, nel 1536, Francesco I di Francia e il sultano Solimano il Magnifico sottoscrivono un trattato di amicizia e di commercio.

"Un'empia alleanza”, come la definirono i contemporanei, che per duecentocinquant'anni legherà i due paesi.

Amicizia, commercio, ma anche campagne militari: la Guerra d'Italia (1542-1546) vede, infatti, la flotta francese e quella corsara di Khayr al-Dīn Barbarossa attaccare i domini spagnoli e porre d'assedio Nizza (allora parte del Ducato di Savoia). Dai porti di Provenza, poi, salpano bastimenti carichi di materiale navale e bellico (in particolare artiglierie) destinate all'esercito di Solimano, violando di fatto l'embargo sulla vendita di armi che le potenze cristiane hanno imposto a Costantinopoli.

L'accordo franco ottomano continua ancora per tutto il '700; tuttavia, proprio durante il XVIII Secolo, il ridimensionamento degli equilibri internazionali porterà alla fine dell'alleanza fra Parigi e la Grande Porta. L'asse dei commerci si sposta all'Oceano Atlantico; le colonie d'oltre Oceano sono il nuovo terreno di confronto fra francesi e inglesi; a est, sulle sponde del Mar Nero, i russi strappano ai turchi il controllo di Azov e Sebastopoli, mentre nel Mediterraneo la corsa barbaresca risente della carenza di materie prime e dell'evoluzione tecnologica delle marine europee. Poi, nel 1799 Napoleone invade l'Egitto, gesto che pone fine al secolare trattato di amicizia fra il suo paese e Costantinopoli.

Diplomazia a parte, l'invasione napoleonica mette in luce anche la debolezza dei domini ottomani in Nord Africa, debolezza della quale la Francia approfitta: prendendo come pretesto una missione anti pirateria, nel 1830 occupa Algeri.

Non sarà l'unico territorio ottomano ad essere conquistato: la Tunisia cade nel 1881. Il Marocco diverrà protettorato nel 1912.

Però, governare l'Algeria non è facile, perché Costantinopoli continua ad essere riferimento politico e religioso per le genti musulmane. Dopo un trentennio di lotte, l'autorità francese emette una serie di leggi che isolano la popolazione indigena di fede islamica: prima, con il decreto che favorisce gli ebrei d'Algeria (decreto Cremieux), poi, con l'allargamento della cittadinanza agli immigrati europei. Infine, il Code de l'indigénat del 1887 contribuisce a creare un ulteriore distacco fra la cultura occidentale francese e gli algerini. 

La fine della Grande Guerra vede dissolversi il secolare Impero turco. Gli accordi di Sykes-Picot (1916) concedono alla Francia di conquistare altri due ex domini ottomani,  la Siria e il  Libano (mandato del 1920-'44). La scomparsa della Grande Porta, però, lascia spazio al nazionalismo arabo, nemico insidioso per la stabilità delle colonie in Medio Oriente e in Africa. Una stabilità che vacilla nel 1940, quando la Germania conquista la Francia.

Con la svastica che sventola sulla Tour Eiffel, qual è il futuro dei possedimenti d'oltremare? La sorte delle colonie francesi preoccupa, in primis, le forze dell'Asse.

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Siria, Libano e Nord Africa sono sotto il controllo del Governo collaborazionista di Vichy che,  sospende il decreto Cremiuex sulla cittadinanza agli ebrei per assecondare i tedeschi, questi ultimi visti con favore dalle popolazioni locali, perché nemici delle potenze coloniali.

Ma, seppure collaborazionista, lo Stato di Vichy non è incline a tutelare gli interessi del solo Terzo Reich. Attraverso l'attività diplomatica dell'ammiraglio François Darlan, lo sbarco anglo-americano in Marocco e la conquista alleata di Algeri incontrano una debole resistenza delle truppe filo tedesche. Un doppiogiochismo animato dalla speranza che USA e Gran Bretagna riconoscano ancora, a guerra finita, l'autorità francese su quelle terre.

Dal 1946 al 1954  e dal 1954 al 1962, la Francia è impegnata nelle guerre di Indocina e d' Algeria. L'impero è perso; a restare, però, sono l'interesse e l'attenzione di Parigi per i paesi francofoni della Francafrique

L'ultima eredità del colonialismo, la Legione straniera, opera ancora oggi con basi ad  Abu Dhabi e a Gibuti. Dagli Anni Sessanta, la Legione è intervenuta in Ciad ( 1988, 1996, 2008), in Congo (1997), in Libano (2006) e ancora, nel 2002, in Costa d'Avorio a sostegno del governo di Laurent Gbagbo, nell'ambito di operazioni militari condotte al di fuori dell'egida di  organizzazioni internazionali.

Più di recente, è corretto ricordare l'incursione aerea del 19 marzo 2011 in Libia,  l' Opération Serval (Mali, 2013) e i raid in Siria del 2015.  Soffermiamoci sulla Siria. Ad ottobre, il presidente Francois Hollande rifiuta una cooperazione aerea con la Russia, parla di un dossier in preparazione sui crimini di guerra di Assad e, ancora, punta il dito contro Mosca rea di colpire le forze ribelli, nemiche di Damasco. Poi, gli attentati parigini ridimensionano gli equilibri strategici della crisi siriana e tra l'Eliseo e il Cremlino c'è un avvicinamento. Il merito? Certamente i negoziati di Vienna hanno rassicurato Parigi sul futuro di Assad, distendendo, di conseguenza, i rapporti con Putin. Ma c'è anche un'altra cosa: con un'Europa blindata di fronte al pericolo terrorismo, la Russia è per i francesi una preziosa carta da giocare sia per combattere l'Isis, sia per assicurarsi, un domani, un ruolo guida nella Siria del dopo guerra. Una risorsa importante, che potrebbe convincere la Francia a lasciare nel cassetto eventuali dossier... almeno per il momento.

 @marco_petrelli

jeudi, 26 novembre 2015

Réflexions sur la géopolitique et l’histoire du bassin oriental de la Méditerranée

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Robert Steuckers :
Réflexions sur la géopolitique et l’histoire du bassin oriental de la Méditerranée

Dérives multiples en marge de la crise grecque

La crise grecque est majoritairement perçue comme une crise économique et monétaire, détachée de tout contexte historique et géopolitique. Les technocrates et les économistes, généralement des bricoleurs sans vision ni jugeote, englués dans un présentisme infécond, n’ont nullement réfléchi à la nécessité, pour l’Europe, de se maintenir solidement dans cet espace est-méditerranéen, dont la maîtrise lui assure la paix. Sans présence forte dans cet espace, l’Europe est déforcée. Ce raisonnement historique est pourtant établi : les croisades, l’intervention aragonaise en Grèce au 14ème siècle (avec la caste guerrière des Almogavares), etc. montrent clairement que ce fut toujours une nécessité vitale d’ancrer une présence européenne dans cet archipel hellénique, menacé par les faits turc et musulman. L’absence de mémoire historique,entretenue par les tenants de nos technocraties banquières et économistes, a fait oublier cette vérité incontournable de notre histoire : la gestion désastreuse de la crise grecque le montre à l’envi.

Erdogan, Toynbee et la dynamique turque

La puissance régionale majeure dans cet espace est aujourd’hui la Turquie d’Erdogan, même si toute puissance véritable, de nos jours, est tributaire, là-bas, de la volonté américaine, dont l’instrument est la flotte qui croise dans les eaux de la Grande Bleue. Trop peu nombreux sont les décideurs européens qui comprennent les ressorts anciens de la dynamique turque dans cette région, qui donne accès à la Mer Noire, aux terres noires d’Ukraine, au Danube, au Caucase, au Nil (et donc au cœur de l’Afrique orientale), à la Mer Rouge et au commerce avec les Indes. Comprendre la géopolitique à l’œuvre depuis toujours, dans ce point névralgique du globe, même avant toute présence turque, est un impératif de lucidité politique. Nous avons derrière nous sept siècles de confrontation avec le fait turc-ottoman mais c’est plutôt dans l’histoire antique qu’il convient de découvrir comment, dans la région, le territoire en lui-même confère un pouvoir, réel ou potentiel, à qui l’occupe. C’est le byzantinologue Arnold J. Toynbee, directeur et fondateur du « Royal Institute of International Affairs » (RIIA), et par là même inspirateur de bon nombre de stratégies britanniques (puis américaines), qui a explicité de la manière la plus claire cette dynamique que pas un responsable européen à haut niveau ne devrait perdre de vue : la domination de l’antique Bithynie, petit territoire situé juste au-delà du Bosphore en terre anatolienne, permet, s’il y a impulsion adéquate, s’il y a « response » correcte au « challenge » de la territorialité bithynienne (pour reprendre le vocabulaire de Toynbee), la double maîtrise de l’Egée et de la Mer Noire. Rome devient maîtresse de ces deux espaces maritimes après s’être assurée du contrôle de la Bithynie (au prix des vertus de César, insinuaient les méchantes langues romaines…). Plus tard, cette Bithynie deviendra le territoire initial du clan d’Osman (ou Othman) qui nous lèguera le terme d’« ottoman ».

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Une Grèce antique pontique et méditerranéenne

On parle souvent de manière figée de la civilisation grecque antique, en faisant du classicisme non dynamique à la manière des cuistres, en imaginant une Grèce limitée tantôt à l’aréopage d’Athènes tantôt au gymnase de Sparte, tantôt aux syllogismes de ses philosophes ou à la géométrie de ses mathématiciens, une Grèce comme un îlot isolé de son environnement méditerranéen et pontique. Le point névralgique de cette civilisation, bien plus complexe et bien plus riche que les petits professeurs classicistes ne l’imaginaient, était le Bosphore, clef de l’ensemble maritime Egée/Pont Euxin. Le Bosphore liait la Grèce égéenne à la Mer Noire, la Crimée et l’Ukraine, d’où lui venait son blé et, pour une bonne part, son bois et ses gardes scythes, qui assuraient la police à Athènes. La civilisation hellénique est donc un ensemble méditerranéen et pontique, mêlant divers peuples, de souches européennes et non européennes, en une synthèse vivante, où les arrière-pays balkaniques, les Thraces et les Scythes, branchés sur l’Europe du Nord finno-ougrienne via les fleuves russes, ne sont nullement absents. L’espace hellénique, la future Romania d’Orient hellénophone, l’univers byzantin possèdent donc une dimension pontique et l’archipel proprement hellénique est la pointe avancée de ce complexe balkano-pontique, situé au sud du cours du Danube. En ce sens, l’espace grec d’aujourd’hui, où s’étaient concentrées la plupart des Cités-Etats de la Grèce classique, est le prolongement de l’Europe danubienne et balkanique en direction du Levant, de l’Egypte et de l’Afrique. S’il n’est pas ce prolongement, si cet espace est coupé de son « hinterland » européen, il devient ipso facto le tremplin du Levant et, éventuellement, de l’Egypte, si d’aventure elle redevenait une puissance qui compte, comme au temps de Mehmet Ali, en direction du cœur danubien de l’Europe.

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bithynia.gifToynbee, avec sa thèse bithynienne, a démontré, lui, que si l’hellénité (romaine ou byzantine) perd la Bithynie proche du Bosphore et disposant d’une façade pontique, la puissance qui s’en empareraitpourrait aiséments’étendre dans toutes les directions : vers les Balkans et le Danube, vers la Crimée, la Mer Noire et le cours des grands fleuves russes, vers le Caucase (la Colchide), tremplin vers l’Orient perse, vers l’Egypte en longeant les côtes syrienne, libanaise, palestinienne et sinaïque, vers le Nil, artère menant droit au cœur de l’Afrique orientale, vers la Mer Rouge qui donne accès au commerce avec l’Inde et la Chine, vers la Mésopotamie et le Golfe Persique. L’aventure ottomane, depuis la base initiale des territoires bithynien et péri-bithynien d’Osman, prouve largement la pertinence de cette thèse. L’expansion ottomane a créé un verrou d’enclavement contre lequel l’Europe a buté pendant de longs siècles. La Turquie kémaliste, en rejetant l’héritage ottoman, a toutefois conservé un pouvoir régional réel et un pouvoir global potentiel en maintenant le territoire bithynien sous sa souveraineté. Même si elle n’a plus les moyens techniques, donc militaires, de reprendre l’expansion ottomane, la Turquie actuelle, post-kémaliste, garde des atouts précieux, simplement par sa position géographique qui fait d’elle, même affaiblie, une puissance régionale incontournable.

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Une Turquie ethniquement et religieusement fragmentée derrière un unanimisme apparent

Le fait turc consiste en un nationalisme particulier greffé sur une population, certes majoritairement turque et musulmane-sunnite, mais hétérogène si l’on tient compte du fait que ces citoyens turcs ne sont pas nécessairement les descendants d’immigrants guerriers venus d’Asie centrale, berceau des peuples turcophones : beaucoup sont des Grecs ou des Arméniens convertis en surface, professant un islam édulcoré ou un laïcisme antireligieux ; d’autres sont des Kurdes indo-européens sunnites ou des Arabes sémitiques également sunnites ; d’autres encore descendent d’immigrants balkaniques islamisés ou de peuples venus de la rive septentrionale de la Mer Noire ; à ces fractures ethniques, il convient d’ajouter les clivages religieux: combien de zoroastriens en apparence sunnites ou alévites, combien de derviches à la religiosité riche et séduisante, combien de Bosniaquesslaves dont les ancêtres professaient le manichéisme bogomile, combien de chiites masqués chez les Kurdes ou les Kurdes turcisés, toutes options religieuses anciennes et bien ancrées que l’Européen moyen et les pitres politiciens, qu’il élit, sont incapables de comprendre ?


Le nationalisme turc de facture kémaliste voulait camper sur une base géographique anatolienne qu’il espérait homogénéiser et surtout laïciser, au nom d’un tropisme européen. Le nationalisme nouveau, porté par Erdogan, l’homme qui a inauguré l’ère post-kémaliste, conjugue une option géopolitique particulière, celle qui combine l’ancienne dynamique ottomane avec l’idéal du califat sunnite. Les Kurdes, jadis ennemis emblématiques du pouvoir kémaliste et militaire, sont devenus parfois, dans le discours d’Erdogan, des alliés potentiels dans la lutte planétaire amorcée par les sunnites contre le chiisme ou ses dérivés. Mais tous les Kurdes, face à l’acteur récent qu’est l’Etat islamique en Irak et en Syrie, ne se sentent pas proches de ce fondamentalisme virulent et ne souhaitent pas, face à un sunnisme militant et violent, céder des éléments d’émancipation traditionnels, légués par leurs traditions gentilices indo-européennes, par un zoroastrisme diffus se profilant derrière un sunnisme de façade et de convention, etc.

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Erdogan toutefois, avec son complice l’ancien président turc Gül, avait avancé l’hypothèse d’un néo-ottomanisme affable, promettant, avec le géopolitologue avisé Davoutoglu, « zéro conflits aux frontières ». Cette géopolitique de Davoutoglu se présentait, avant les dérapages plus ou moins pro-fondamentalistes d’Erdogan et le soutien à l’Etat islamique contre les Alaouites pro-chiites du pouvoir syrien, comme une ouverture bienveillante des accès qu’offre le territoire turc, union des atouts géographiques bithynien et anatolien.

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Echec du néo-ottomanisme

L’Europe, si elle avait été souveraine et non pas gouvernée par des canules et des ignorants, aurait parfaitement pu admettre la géopolitique de Davoutoglu, comme une sorte d’interface entre le bloc européen (de préférence libéré de l’anachronisme « otanien ») et le puzzle complexe et explosif du Levant et du Moyen-Orient, que le néo-ottomanisme déclaré aurait pu apaiser et, par la même, il aurait annihilé certains projets américains de balkaniser durablement cette région en y attisant la lutte de tous contre tous, selon la théorie de Donald M. Snow (l’intensification maximale du désordre par les uncivilwars).

Cependant l’Europe, entre la parution des premiers écrits géopolitiques et néo-ottomanistes de Davoutoglu et les succès de l’Etat islamique en Syrie et en Irak, a connu un ressac supplémentaire, qui se traduit par une forme nouvelle d’enclavement : elle n’a plus aucune entrée au Levant, au Moyen-Orient ou même en Afrique du Nord, suite à l’implosion de la Libye. La disparition du contrôle des flux migratoires par l’Etat libyen fait que l’Europe se trouve assiégée comme avant le 16ème siècle : elle devient le réceptacle d’un trop-plein de population (essentiellement subsaharienne) et cesse d’être la base de départ d’un trop-plein de population vers les Nouveaux Mondes des Amériques et de l’Océanie. Elle n’est plus une civilisation qui rayonne, mais une civilisation que l’on hait et que l’on méprise (aussi parce que les représentants officiels de cette civilisation prônent les dérives du festivisme post-soixante-huitard qui révulsent Turcs, Africains et Arabo-Musulmans).

Dimensions adriatiques

Si cette civilisation battue en brèche perd tous ses atouts en Méditerranée orientale et si la Grèce devient un maillon faible dans le dispositif européen, ce déclin irrémédiable ne pourra plus prendre fin. Raison majeure, pour tous les esprits qui résistent aux dévoiements imposés, de relire l’histoire européenne à la lumière des événements qui ont jalonné l’histoire du bassin oriental de la Méditerranée, de l’Adriatique et de la République de Venise (et des autres Cités-Etats commerçantes et thalassocratiques de la péninsule italienne). L’Adriatique est la portion de la Méditerranée qui s’enfonce le plus profondément vers l’intérieur des terres et, notamment, vers les terres, non littorales, où l’allemand est parlé, langue la plus spécifiquement européenne, exprimant le plus profondément l’esprit européen. La Styrie et la Carinthie sont des provinces autrichiennes germanophones en prise sur les réalités adriatiques et donc méditerranéennes, liées territorialement à la Vénétie. L’Istrie, aujourd’hui croate, était la base navale de la marine austro-hongroise jusqu’au Traité de Versailles. L’Adriatique donne accès au bassin oriental de la Méditerranée et c’est la maîtrise ininterrompue de ses eaux qui a fait la puissance de Venise, adversaire tenace de l’Empire ottoman. Venise était présente en Méditerranée orientale, Gênes en Crimée, presqu’île branchée sur les routes de la soie, laissées ouvertes par les Tatars avant qu’ils ne se soumettent à la Sublime Porte. Cette géopolitique vénitienne, trop peu arcboutée sur une masse territoriale assez vaste et substantielle, n’est peut-être plus articulable telle quelle aujourd’hui : aucun micro-Etat, de dimension urbaine ou ne disposant pas d’une masse de plusieurs dizaines de millions d’habitants, ne pourrait fonctionner aujourd’hui de manière optimale ni restituer une géopolitique et une thalassopolitique de grande ampleur, suffisante pour sortir justement toute la civilisation européenne de l’impasse et de l’enclavement dans lesquels elle chavire de nos jours.

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Double atout d’une géostratégie néo-vénitienne

Le concert européen pourrait déployer unenouvelle géopolitique vénitienne, qui serait une perspective parmi bien d’autres tout aussi fécondes et potentielles, pour sortir de l’impasse actuelle ; cette géopolitique vénitienne devrait dès lors être articulée par un ensemble cohérent, animé par une vision nécessairement convergente et non plus conflictuelle. Cette vision pourrait s’avérer très utile pour une projection européenne efficace vers le bassin oriental de la Méditerranée et vers l’espace pontique. Venise, et Gênes, se projetaient vers le bassin oriental de la Méditerranée et vers la Mer Noire, au-delà du Bosphore tant que Byzance demeurait indépendante. Cette double projection donnait accès aux routes de la soie, au départ de la Crimée vers la Chine et aussi, mais plus difficilement au fil des vicissitudes qui ont affecté l’histoire du Levant, au départ d’Antioche et des ports syriens et libanais vers les routes terrestres qui passaient par la Mésopotamie et la Perse pour amener les caravanes vers l’Inde ou le Cathay.

La présence des villes marchandes italiennes à Alexandrie d’Egypte donnait aussi accès au Nil, à cette artère nilotique qui plongeait, au-delà des cataractes vers les mystères de l’Afrique subsaharienne et vers le royaume chrétien d’Ethiopie. Les constats que nous induisent à poser une observation des faits géopolitiques et géostratégiques de l’histoire vénitienne et génoise devraient tout naturellement amener un concert européen sérieux, mener par des leaders lucides, à refuser tout conflit inutile sur le territoire de l’Ukraine actuelle car ce territoire donne accès aux nouvelles routes qui mènent de l’Europe occidentale à la Chine, que celles-ci soient ferroviaires (les projets allemands, russes et chinois de développement des trains à grande vitesse et à grande capacité) ou offre le transit à un réseau d’oléoducs et de gazoducs. Aucune coupure ne devrait entraver le développement de ces voies et réseaux. De même, les territoires libanais, syriens et irakiens actuels, dans l’intérêt d’un concert européen bien conçu, devraient ne connaître que paix et harmonie, afin de restaurer dans leur plénitude les voies d’accès aux ex-empires persans, indiens et chinois. Le regard vénitien ou génois que l’on pourrait jeter sur les espaces méditerranéen oriental et pontique permettrait de générer des stratégies de désenclavement.

L’Europe est ré-enclavée !

Aujourd’hui, nous vivons une période peu glorieuse de l’histoire européenne, celle qui est marquée par son ré-enclavement, ce qui implique que l’Europe a perdu tous les atouts qu’elle avait rudement acquis depuis la reconquista ibérique, la lutte pluriséculaire contre le fait ottoman, etc. Ce ré-enclavement est le résultat de la politique du nouvel hegemon occidental, les Etats-Unis d’Amérique. Ceux-ci étaient les débiteurs de l’Europe avant 1914. Après le désastre de la première guerre mondiale, ils en deviennent les créanciers. Pour eux, il s’agit avant tout de maintenir le vieux continent en état de faiblesse perpétuelle afin qu’il ne reprenne jamais plus du poil de la bête, ne redevienne jamais leur créancier. Pour y parvenir, il faut ré-enclaver cette Europe pour que, plus jamais, elle ne puisse rayonner comme elle l’a fait depuis la découverte de l’Amérique et depuis les explorations portugaises et espagnoles du 16ème siècle. Cette stratégie qui consiste à travailler à ré-enclaver l’Europe est la principale de toutes les stratégies déployées par le nouvel hegemon d’après 1918.

versailles.pngMême s’ils ne signent pas le Traité de Versailles, les Etats-Unis tenteront, dès la moitié des années 20, de mettre l’Europe (et tout particulièrement l’Allemagne) sous tutelle via une politique de crédits. Parallèlement à cette politique financière, les Etats-Unis imposent dans les années 20 des principes wilsoniens de droit international, faussement pacifistes, visant à priver les Etats du droit à faire la guerre, surtout les Etats européens, leurs principaux rivaux, et le Japon, dont ils veulent s’emparer des nouvelles conquêtes dans le Pacifique. On peut évidemment considérer, à première vue mais à première vue seulement, que cette volonté de pacifier le monde est positive, portée par un beau projet philanthropique. L’objectif réel n’est pourtant pas de pacifier le monde, comme on le perçoit parfaitement aujourd’hui au Levant et en Mésopotamie, où les Etats-Unis, via leur golem qu’est Daech, favorisent « l’intensification maximale du désordre ». L’objectif réel est de dépouiller tout Etat, quel qu’il soit, quelle que soient ses traditions ou les idéologies qu’il prône, de sa souveraineté. Aucun Etat, fût-il assiégé et étouffé par ses voisins, fût-il placé par ses antécédents historiques dans une situation d’in-viabilité à long terme à cause d’une précédente mutilation de son territoire national, n’a plus le droit de rectifier des situations dramatiques qui condamnent sa population à la misère, à l’émigration ou au ressac démographique. Or la souveraineté, c’était, remarquait Carl Schmitt face au déploiement de ce wilsonisme pernicieux, la capacité de décider de faire la guerre ou de ne pas la faire, pour se soustraire à des situations injustes ou ingérables. Notamment, faire la guerre pour rompre un encerclement fatidique ou un enclavement qui barrait la route à la mer et au commerce maritime, était considéré comme légitime. Le meilleur exemple, à ce titre, est celui de la Bolivie enclavée au centre du continent sud-américain, suite à une guerre du 19ème siècle, où le Pérou et le Chili lui avaient coupé l’accès au Pacifique : le problème n’est toujours pas résolu malgré l’ONU. De même, l’Autriche, vaincue par Napoléon, est privée de son accès à l’Adriatique par l’instauration des « départements illyriens » ; en 1919, Clémenceau lui applique la même politique : la naissance du royaume de Yougoslavie lui ôte ses bases navales d’Istrie (Pola), enlevant par là le dernier accès des puissances centrales germaniques à la Méditerranée. L’Autriche implose, plonge dans la misère et accepte finalement l’Anschluss en 1938, dont la paternité réelle revient à Clémenceau.

Versailles et le wilsonisme bétonnent le morcellement intra-européen

Ensuite, pour l’hegemon, il faut conserver autant que possible le morcellement territorial de l’Europe. Déjà, les restrictions au droit souverain de faire la guerre gèle le tracé des frontières, souvent aberrant en Europe, devenu complètement absurde après les traités de la banlieue parisienne de 1919-1920, lesquels rendaient impossible tout regroupement impérial et, plus précisément, toute reconstitution, même pacifique, de l’ensemble danubien austro-hongrois, création toute naturelle de la raison vitale et historique. Ces traités signés dans la banlieue parisienne morcellent le territoire européen entre un bloc allemand aux nouvelles frontières militairement indéfendables, « démembrées » pour reprendre le vocabulaire de Richelieu et de Haushofer, et une Russie soviétique qui a perdu les glacis de l’Empire tsariste (Pays Baltes, Finlande, Bessarabie, Volhynie, etc.). Le double système de Versailles (de Trianon, Sèvres, Saint-Germain, etc.) et des principes wilsoniens, soi-disant pacifistes, entend bétonner définitivement le morcellement de la « Zwischeneuropa » entre l’Allemagne vaincue et l’URSS affaiblie par une guerre civile atroce.

La situation actuelle en découle : les créations des traités iniques de la banlieue parisienne, encore davantage morcelées depuis l’éclatement de l’ex-Yougoslavie et de l’ex-Tchécoslovaquie, sans oublier le démantèlement des franges ouest de la défunte Union Soviétique, permet aujourd’hui aux Etats-Unis de soutenir les revendications centrifuges tantôt de l’une petite puissance résiduaire tantôt de l’autre, flattées de recevoir, de toute la clique néoconservatrice et belliciste américaine, le titre louangeur de « Nouvelle Europe » audacieuse face à une « Vieille Europe » froussarde (centrée autour du binôme gaullien/adenauerien de la Françallemagne ou de l’Europe carolingienne), exactement comme l’Angleterre jouait certaines de ces petites puissances contre l’Allemagne et la Russie, selon les dispositifs diplomatiques de Lord Curzon, ou comme la France qui fabriquait des alliances abracadabrantes pour « prendre l’Allemagne en tenaille », obligeant le contribuable français à financer des budgets militaires pharaoniques, notamment en Pologne, principale puissance de la « Zwischeneuropa », censée remplacer, dans la stratégie française ce qu’était l’Empire ottoman contre l’Autriche des Habsbourg ou ce qu’était la Russie lors de la politique de revanche de la Troisième République, soit un « rouleau compresseur, allié de revers », selon la funeste habitude léguée par François I au 16ème siècle. La Pologne était donc ce « nouvel allié de revers », moins lourd que l’Empire ottoman ou que la Russie de Nicolas II mais suffisamment armé pour rendre plus difficile une guerre sur deux fronts.

Depuis les années 90, l’OTAN a réduit les effectifs de la Bundeswehr allemande, les a mis à égalité avec ceux de l’armée polonaise qui joue le jeu antirusse que l’Allemagne ne souhaitait plus faire depuis le début des années 80. La « Zwischeneuropa » est mobilisée pour une stratégie contraire aux intérêts généraux de l’Europe.

Des séparatismes qui arrangent l’hegemon

Dans la partie occidentale de l’Europe, des mouvements séparatistes sont médiatiquement entretenus, comme en Catalogne, par exemple, pour promouvoir des idéologies néo-libérales (face à d’anciens Etats jugés trop protectionnistes ou trop « rigides ») ou des gauchismes inconsistants, correspondant parfaitement aux stratégies déconstructivistes du festivisme ambiant, stratégies favorisées par l’hegemon, car elles permettent de consolider les effets du wilsonisme. Ce festivisme est pleinement favorisé car il se révèle l’instrument idéal pour couler les polities traditionnelles, pourtant déjà solidement battues en brèche par soixante ou septante ans de matraquage médiatique abrutissant, mais jugées encore trop « politiques » pour plaire à l’hegemon, qui, sans discontinuer, fabrique à la carte des cocktails affaiblissants, chaque fois adaptés à la dimension vernaculaire où pointent des dissensus exploitables. Cette adaptation du discours fait croire, dans une fraction importante des masses, à l’existence d’une « identité » solide et inébranlable, ce qui permet alors de diffuser un discours sournois où la population imagine qu’elle défend cette identité, parce qu’on lui fabrique toutes sortes de gadgets à coloration vernaculaire ; en réalité, derrière ce théâtre de marionnettes qui capte toutes les attentions des frivoles, on branche des provinces importantes des anciens Etats non pas sur une Europe des ethnies charnelles, ainsi que l’imaginent les naïfs, mais sur les réseaux mondiaux de dépolitisation générale que sont les dispositifs néo-libéraux et/ou festivistes, afin qu’in fine tous communient, affublé d’un T-shirt et d’un chapeau de paille catalan ou basque, flamand ou wallon, etc. dans la grande messe néo-libérale ou festiviste, sans jamais critiquer sérieusement l’inféodation à l’OTAN.

Rendre tous les Etats « a-démiques »

Ainsi, quelques pans entiers du vieil et tenace ennemi des réseaux calvinistes/puritains anglo-américains sont encore davantage balkanisés : l’ancien Empire de Charles-Quint se disloque encore pour rendre tous ses lambeaux totalement «invertébrés » (Ortega y Gasset !). Les Bretons et les Occitans, eux, ne méritent aucun appui, contrairement aux autres : s’ils réclament autonomie ou indépendance, ils commettent un péché impardonnable car ils visent la dislocation d’un Etat occidentiste, dont le fondamentalisme intrinsèque, pure fiction manipulatrice, ne se réclame pas d’un Dieu biblique comme en Amérique mais d’un athéisme éradicateur. Les Bretons ne revendiquent pas la dissolution d’une ancienne terre impériale et européenne mais d’un Etat déjà « adémique », de « a-demos », de « sans peuple » (« a » privatif + démos, peuple en grec, ce néologisme ayant été forgé par le philosophe italien Giorgio Agamben). Il faut donc les combattre et les traiter de ploucs voire de pire encore. La stratégie du morcellement permanent du territoire vise, de fait, à empêcher toute reconstitution d’une réalité impériale en Europe, héritière de l’Empire de Charles-Quint ou de la « Grande Alliance », mise en exergue par l’historien wallon Luc Hommel, spécialiste de l’histoire du fait bourguignon. La différence entre les indépendantismes anti-impériaux, néfastes, et les indépendantismes positifs parce qu’hostiles aux Etats rénégats, qui, par veulerie intrinsèque, ont apostasié l’idéal d’une civilisation européenne unifiée et combattive, ne doit pas empêcher la nécessaire valorisation de la variété européenne, selon les principes mis en exergue par le théoricien breton Yann Fouéré qui nous parlait de « lois de la variété requise ».

Des tissus de contradictions

En Flandre, il faut combattre toutes les forces, y compris celles qui se disent « identitaires », qui ne revendiquent pas un rejet absolu de l’OTAN et des alliances nous liant aux puissances anglo-saxonnes qui articulent contre l’Europe le réseau ECHELON. Ces forces pseudo-identitaires sont prêtes à tomber, par stupidité crasse, dans tous les pièges du néo-libéralisme. En Wallonie, on doit rejeter la tutelle socialiste qui, elle, a été la première à noyer la Belgique dans le magma de l’OTAN, que les adversaires de cette politique atlantiste nommaient le « Spaakistan », rappelle le Professeur Coolsaet (RUG).

En Wallonie, les forces dites « régionales » ou « régionalistes » sont en faveur d’un développement endogène et d’un projet social non libéral mais sans redéfinir clairement la position de la Wallonie dans la grande région entre Rhin et Seine. La littérature wallonne, en la personne du regretté Gaston Compère, elle, resitue ces régions romanophones de l’ancien Saint-Empire dans le cadre bourguignon et les fait participer à un projet impérial et culturel, celui de Charles le Téméraire, tout en critiquant les forces urbaines (et donc non traditionnelles de Flandre et d’Alsace) pour avoir torpillé ce projet avec la complicité de l’« Universelle Aragne », Louis XI, créateur de l’Etat coercitif moderne qui viendra à bout de la belle France des Riches Heures du Duc de Berry, de Villon, Rutebeuf et Rabelais.

Compère inverse la vulgate colportée sur les divisions de la Belgique : il fait des villes flamandes les complices de la veulerie française et des campagnes wallonnes les protagonistes d’un projet glorieux, ambitieux et prestigieux, celui du Duc de Bourgogne, mort à Nancy en 1477. Certes Compère formule là, avec un magnifique brio, une utopie que la Wallonie actuelle, plongée dans les eaux glauques de la crapulerie politique de ses dirigeants indignes, est aujourd’hui incapable d’assumer, alors que la Flandre oublie sa propre histoire au profit d’une mythologie pseudo-nationaliste reposant sur un éventail de mythes contradictoires où se télescopent surtout une revendication catholique (le peuple pieux) contre les importations jacobines de la révolution française et une identification au protestantisme du 16ème siècle, dont les iconoclastes étaient l’équivalent de l’Etat islamiste d’aujourd’hui et qui ont ruiné la statuaire médiévale flamande, saccagée lors de l’été 1566 : il est dès lors plaisant de voir quelques têtes creuses se réclamer de ces iconoclastes, au nom d’un pannéerlandisme qui n’a existé que sous d’autres signes, plus traditionnels et toujours au sein de l’ensemble impérial, tout en rabâchant inlassablement une hostilité (juste) contre les dérives de Daech, toutefois erronément assimilées à toutes les formes culturelles nées en terres islamisées : si l’on se revendique des iconoclastes calvinistes d’hier, il n’y a nulle raison de ne pas applaudir aux faits et gestes des iconoclastes musulmans d’aujourd’hui, armés et soutenus par les héritiers puritains des vandales de 1566 ; si l’on n’applaudit pas, cela signifie que l’on est bête et surtout incohérent.

Les mythes de l’Etat belge sont eux aussi contradictoires car ils mêlent idée impériale, idée de Croisade (la figure de Godefroy de Bouillon et les visions traditionnelles de Marcel Lobet, etc.), pro- et anti-hollandisme confondus dans une formidable bouillabaisse, nationalisme étroit et étriqué, étranger à l’histoire réelle des régions aujourd’hui demeurées « belges ».

En Catalogne, la revue Nihil Obstat(n°22, I/2014), publiée près de Tarragone, rappelle fort opportunément que tout catalanisme n’a pas été anti-impérial : au contraire, il a revendiqué une identité aragonaise en l’assortissant d’un discours « charnel » que l’indépendantisme festiviste qui occupe l’avant-scène aujourd’hui ne revendique certainement pas car il préfère se vautrer dans la gadoue des modes panmixistes dictées par les officines d’Outre-Atlantique ou communier dans un gauchisme démagogique qui n’apportera évidemment aucune solution à aucun des maux qui affectent la société catalane actuelle, tout comme les dérives de la NVA flamande dans le gendérisme (made in USA avec la bénédiction d’Hillary Clinton) et même dans le panmixisme si prisé dans le Paris hollandouillé ne résoudront aucun des maux qui guettent la société flamande. Cette longue digression sur les forces centrifuges, positives et négatives, qui secouent les paysages politiques européens, nous conduit à conclure que l’hegemon appuie, de toutes les façons possibles et imaginables, ce qui disloque les polities, grandes et petites, d’Europe, d’Amérique latine et d’Asie et les forces centrifuges qui importent les éléments de dissolution néolibéraux, festivistes et panmixistes qui permettent les stratégies d’ahurissement visant à transformer les peuples en « populations », à métamorphoser tous les Etats-Nations classiques, riches d’une Realpolitik potentiellement féconde, en machines cafouillantes, marquées par ce que le très pertinent philosophe italien Giorgio Agamben appelait des polities « a-démiques », soit des polities qui ont évacué le peuple qu’elles sont pourtant censées représenter et défendre.

L’attaque monétaire contre la Grèce, qui a fragilisé la devise qu’est l’euro, afin qu’elle ne puisse plus être utilisée pour remplacer le dollar hégémonique, a ébranlé la volonté d’unité continentale : on voit réapparaître tous les souverainismes anti-civilisationnels, toutes les illusions d’isolation splendide, surtout en France et en Grande-Bretagne, tous les petits nationalismes de la « Zwischeneuropa », toutes les formes de germanophobie qui dressent les périphéries contre le centre géographique du continent et nient, par effet de suite, toute unité continentale et civilisationnelle. A cette dérive centrifuge générale, s’ajoutent évidemment les néo-wilsonismes, qui ne perçoivent pas le cynisme réel qui se profile derrière cet angélisme apparent, que percevait parfaitement un Carl Schmitt : on lutte parait-il, pour la « démocratie » en Ukraine ou en Syrie, pour le compte de forces sur le terrain qui s’avèrent très peu démocratiques. Les festivismes continuent d’oblitérer les volontés et ruinent à l’avance toute reprise d’une conscience politique. Les séparatismes utiles à l’hegemon gagnent en influence. Les séparatismes qui pourrait œuvrer à ruiner les machines étatiques devenues « a-démiques » sont, eux, freiner dans leurs élans. L’Europe est un continent devenu « invertébré » comme l’Espagne que décrivait Ortega y Gasset. L’affaire grecque est le signal premier d’une phase de dissolution de grande ampleur : la Grèce fragilisée, les flots de faux réfugiés, l’implosion de l’Allemagne, centre du continent, l’absence de jugement politique et géopolitique (notamment sur le bassin oriental de la Méditerranée, sur la Mer Noire et le Levant) en sont les suites logiques.

Robert Steuckers.

Madrid, Alicante, Hendaye, Forest-Flotzenberg, août-novembre 2015.

vendredi, 20 novembre 2015

Antifascistas en el Gulag

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Antifascistas en el Gulag

por Joaquín Albaicín

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

¿Qué hacía Rafael Pelayo de Hungría, comunista español y partisano soviético en las estepas, fugándose de la Unión Soviética con un sargento de la División Azul, camuflados ambos entre los contingentes de ex combatientes alemanes repatriados tras lago cautiverio en Rusia? Pues… ¿qué iba a hacer? Sencillamente, poner pies en polvorosa como fuera tras arrojar a la letrina el lastre que siempre supone eso de tener una ideología.

Y es que uno de los muchos saldos en números rojos dejados en 1939 por la derrota de la República fue el de los exiliados, y no sólo porque el papel moneda emitido por Madrid hubiera perdido todo valor. Para los fugitivos, claro, no era lo mismo haber logrado hallar acomodo –por precario que fuera- en México o París que en la URSS. Persuadidos por sus líderes de que el paraíso de los obreros era su lugar en la vida, muchos comunistas ibéricos recalaron allí, donde desde hacía tiempo les esperaban, aparte de unos tres mil “niños de la guerra”, bastantes pilotos en su día desplazados hasta tan remotos parajes para recibir cursos de vuelo, así como marinos a cuyos barcos sorprendió el final de la contienda atracados en puertos rusos.

Lógicamente, en cuanto se coscaron del cenizo que recubría toda la pesadilla leninista y constataron que allí se vivía en la miseria y a golpe de látigo, tanto los comunistas como quienes no lo eran iniciaron denodados trámites –supuestamente existentes- para ser autorizados a abandonar el país y trasladarse bien a España, bien a otras naciones donde podrían reunirse con sus familiares. La dirección del PC español fue el mayor obstáculo con que se toparon. En primer lugar, que los antifascistas huyeran de las condiciones de vida vigentes en la URSS no constituía una propaganda deseable. En segundo, era de temer que contaran cómo de verdad transcurrían allí las cosas. Finalmente, aquello constituiría un imperdonable desaire a Dolores Ibárruri, en torno a la cual los dirigentes comunistas españoles estaban edificando un culto a la personalidad calcado del promovido por el PCUS en torno a Stalin: si éste era el severo Padrecito de Todos los Soviéticos, ella –La Pasionaria– era la amantísima Madre de Todos los Obreros Españoles.

La política adoptada por el PCE de la época se centró, pues, en la ejecución de purgas internas paralelas a las regularmente aplicadas en sus filas por el PCUS, así que la Madrecita puso enseguida manos a la obra a un equipo de leales con la misión de investigar y denunciar ante las autoridades soviéticas las conspiraciones fascistas en que andaban envueltos todos aquellos traidores que abominaban de la sopa de remolacha soviética.

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La primera medida fue suave: invitar, a todos los aspirantes a marcharse, a firmar un documento declarando lo felices que vivían en la URSS y solicitando que Moscú no prestara oídos a futuras peticiones que, para sacarlos de allí, pudieran formular sus familias o cualquier organización o gobierno. Como sólo lo rubricaron dos, los republicanos españoles empezaron muy pronto a conocer el Gulag, donde –bromas del Destino- coincidirían con los cautivos de la División Azul. Son los líos en que se mete la gente, o en los que la vida enreda a los habitantes del Valle de Lágrimas. Quién iba a decir a un buen señor nacido en un pueblo de Toledo y anarquista, comunista, socialista o, simplemente, republicano de toda la vida, que iba un buen día a verse cargando vagonetas de pedruscos en un campo de concentración del Círculo Polar Ártico, rezando codo con codo con un falangista por que Dios diese salud y larga vida a Franco, porque él era su única esperanza de salir algún día del agujero.

Irónicamente, así ocurrió. Fue el Estado franquista quien, tras varios años y muchas negociaciones, y previo indulto de aquellos que tuvieran en España causas pendientes o condenas firmes por su actuación durante la guerra civil, sacó del infierno a los supervivientes de aquel dislate (con el consiguiente y, no en vano, merecido provecho político ante la comunidad internacional). La historia de esos esfuerzos y de los –casi baldíos- del fantasmal Gobierno de la República en el Exilio, la cuenta con todos los detalles la profesora rumana Luiza Iordache, Doctora en Ciencias Políticas y docente en la UAB, en su voluminoso y amenísimo estudio En el Gulag. Españoles republicanos en los campos de concentración de Stalin (RBA).

Aparte de tratarse de una investigación muy rigurosa, valdría la pena leerlo aunque sólo fuera por conocer la historia del “niño de la guerra” Pedro Cepeda y el curtido aviador comunista José Antonio Tuñón, que –con la ayuda de diplomáticos argentinos, en cuya embajada moscovita trabajaban como intérpretes- trataron de huir de la URSS ocultos en dos baúles. O la de su cómplice Julián Fuster, verdadero personaje de novela: cirujano en el Ejército Rojo, siete años en el Gulag a las espaldas y médico también tras su liberación en la Cuba revolucionaria, de donde hubo de marcharse por advertir de que se caminaba hacia el modelo soviético, fue uno de los tripulantes del último avión de la OMS que abandonó el Congo al estallar la guerra de Katanga antes de recalar, esta vez definitivamente, en España.

Agitada fue también la de Francisco Ramos, seis meses torturado en la Lubyanka, con quien Solzhenytsin coincidió en los campos y que, irónicamente, como los demás antifascistas españoles “residentes” en el Edén socialista, sólo podía hacer llegar noticias suyas a sus familiares a través de los soldados nazis puestos en libertad y reenviados a Alemania. Retornado a España en 1957, Ramos fue elegido como diputado del PSC-PSOE por Barcelona en 1977 y 1982. No sé qué sentiría al ver sentados con él en el hemiciclo a, por lo menos, dos o tres de las personas responsables en su momento de su envío, por “fascista”, a un campo de concentración de los Urales. Regresó dos veces a la URSS acompañando en viajes oficiales a Felipe González. “Me alegré de ser tratado como una persona en el país donde, cuando me refugié en él, fui tratado como un perro”, escribió.

En fin, que basta con echar de cuando en cuando un somero vistazo a un libro de historia para constatar que, de lo que cuente cualquier político de cualquier lugar o época, lo más juicioso es no creer de la misa ni la media. Y es que la realidad suele, sí, superar a la ficción, pero, por desgracia… casi siempre por abajo.

Foto: José Luis Chaín

Bush savait que l’attaque terroriste de 2001 était imminente

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Politico rapporte que Bush savait que l’attaque terroriste de 2001 était imminente et qu’il voulait qu’elle ait lieu

Ex: http://www.arretsurinfo.ch

Un article extraordinaire de Politico du 12 novembre, intitulé « Les attaques vont être spectaculaires », révèle que le directeur de la CIA George Tenet, et que son chef de l’anti-terrorisme, Cofer Black, avaient prévenu la Maison Blanche, mais qu’on leur avait répondu : « Nous ne sommes pas tout à fait prêts à examiner cette question. Nous ne voulons pas lancer le compte à rebours. » Comme le journaliste de Politico, Chris Whipple, l’explique ensuite : « Traduction: ils ne veulent pas qu’un écrit montre qu’ils avaient été avertis. »

Ça ne pourrait pas être pire. Bush savait que ça allait arriver, mais n’a rien fait pour l’empêcher. Il n’a même pas essayé. En d’autres termes, sa seule vraie préoccupation, à l’époque, était que ce soit fait d’une manière telle qu’on ne puisse pas prouver qu’il le savait – pour qu’il puisse nier qu’il avait laissé consciemment cela se produire. Il a bien insisté là-dessus. Et c’est ce qu’il a fait, il a toujours nié sa participation.

Whipple écrit ensuite:

Le matin du 10 juillet, le chef du département de l’agence qui surveillait Al-Qaïda, Richard Blee, a fait irruption dans le bureau de Black. « Et il a dit :  Chef, ça y est. Le toit s’est écroulé, » raconte Black. « Les informations que nous avions réunies étaient absolument incontestables. Les sources se recoupaient. Et c’était en quelque sorte la goutte qui faisait déborder le vase. » Black et son adjoint se sont précipités dans le bureau du directeur pour informer Tenet. Ils sont tous tombé d’accord qu’il fallait organiser  une réunion d’urgence à la Maison Blanche.

Cette réunion a eu lieu à la Maison Blanche. Mais avec Condoleezza Rice, la conseillère à la sécurité nationale et l’amie personnelle de Bush, et pas avec Bush lui-même – la possibilité de nier était l’obsession de Bush, et agir de cette façon permettait de la préserver; si on apprenait un jour que cette réunion s’était tenue, Rice serait la seule personne à devoir se justifier. Elle protégeait le Président, qui ainsi n’aurait pas à rendre de comptes sur le fait qu’il avait permis l’attaque – si un jour on lui en demandait. En dépit de l’importance et de l’urgence du problème, Bush n’a pas jugé utile de venir en personne parler à Tenet et à Black, ni de les interroger.

Black et Tenet ont été stupéfaits de sa réponse. Black a dit Politico : « Je continue à ne rien y comprendre. Je veux dire, comment est-il possible d’avertir ses supérieurs autant de fois sans que rien ne se passe ? C’est un peu comme dans La Quatrième dimension.*»

Toutefois, lorsque la Maison Blanche avait dit: « Nous ne voulons pas lancer le compte à rebours, » la réponse à ce mystère était déjà claire, et Black et Tenet étaient tous les deux des gens intelligents; ils savaient ce que ça voulait dire, mais ils savaient aussi qu’ils se mettraient en danger s’ils venaient à dire publiquement: La Maison Blanche avait l’intention de faire une déclaration du genre, « Nous ne savions pas que ça allait se produire, » après les faits. Et c’est, bien sûr, exactement ce que la Maison Blanche a dit. Et elle continue à le dire : le successeur de Bush n’a aucun intérêt à changer de version ; le président Obama a lui-même menti au public, quand il a dit, par exemple, que les attaques du 21 août 2013 au gaz sarin en Syrie avaient été perpétrées par les forces de Bachar al-Assad, alors qu’elles l’avaient été par les forces qu’Obama soutenait – et il savait pertinemment que c’était elles qui l’avaient fait – ; ou quand il a dit que le renversement, en février 2014, du président ukrainien Viktor Yanoukovitch – démocratiquement élu (mais corrompu comme la quasi-totalité des derniers dirigeants ukrainiens) – était une révolution démocratique, et non pas un coup d’Etat américain que sa propre administration avait commencé à préparer au printemps 2013.

George W. Bush vient d’une famille de pétroliers, et toute l’opération a tourné autour du pétrole. Un autre copain de Bush était «Bandar Bush», le prince Bandar bin Sultan al-Saoud, le membre de la famille royale saoudienne qui était à l’époque ambassadeur du Royaume à Washington, mais qui, par la suite, est devenu le principal stratège international de la famille Saoud. Wikipedia, par exemple, dit de lui qu’« après la fin des tensions avec le Qatar sur l’approvisionnement de groupes rebelles [pour renverser Assad en Syrie], l’Arabie saoudite (sous la direction de Bandar) a détourné ses efforts de la Turquie pour les orienter vers la Jordanie en 2012 ; il a exercé des pressions financières sur la Jordanie pour pouvoir y développer des camps d’entraînement supervisés par son demi-frère et adjoint Salman bin Sultan. »

Le président Obama continue de protéger George W. Bush, et d’empêcher la famille Saoud d’être poursuivie pour être le principal bailleur de fonds des djihadistes (« terroristes »), en maintenant au secret dans une prison fédérale l’homme qui avait servi Oussama ben Laden en tant que comptable d’Al-Qaïda et collecteur de fonds ; il se rendait surtout en Arabie saoudite, la patrie des Sunnites, mais aussi dans d’autres royaumes arabes sunnites, pour recueillir des dons en espèces de plusieurs millions de dollars pour la cause d’Al-Qaïda du djihad mondial, du liquide provenant, entre autres, du prince Bandar bin Sultan lui-même. Le comptable / collecteur de fonds a dit qu’ils payaient de gros salaires à leurs combattants. C’était des mercenaires tout autant que des djihadistes. Le comptable / collecteur de fonds a également dit que « sans l’argent des Saoudiens, rien ne serait possible ». Le témoignage du comptable / collecteur de fonds a été requis dans une affaire judiciaire initiée par des membres de la famille de victimes du 11 septembre, et même le président américain n’a pas réussi à l’empêcher, ou alors il s’en est servi pour signifier subtilement au roi saoudien que nous, les États-Unis nous sommes le boss et que nous pouvons le faire tomber, si Obama décide de le faire. C’est seulement grâce à la collaboration des médias étasuniens que le secret du financement du mouvement de djihad international pourra désormais être gardé.

septny.jpgMais l’aristocratie américaine ne veut certainement pas que le Président, dont ils sont propriétaires, le fasse ; après tout, les Saoud leur ont toujours énormément rapporté. Comme Thalif Deen de Inter Press Service l’a rapporté le 9 novembre 2015, «Le gros contrat d’armement  d’environ 60 milliards de dollars d’armes avec l’Arabie Saoudite, est considéré comme le plus gros de toute l’histoire des États-Unis. Selon le Government Accountability Office (GAO.)**, l’organisme d’audit apolitique du Congrès des États-Unis, environ 40 milliards de dollars de transferts d’armes aux six pays du Golfe ont été autorisés entre 2005 et 2009, et l’Arabie saoudite et les Émirats Arabes Unis en ont été les plus gros bénéficiaires. « Les Saoud en achetaient plus que toutes les autres familles royales sunnites réunies, plus encore que les Thani qui contrôlent le Qatar. Ces deux pays et les Émirats arabes unis, tous des dictatures fondamentalistes sunnites, ont le plus contribué à faire tomber le leader chiite laïc de Syrie, Bachar al-Assad. L’aristocratie étasunienne a également et de longue date, le soutien de la famille Saoud pour réaliser son vieux rêve de prendre le contrôle de la Russie.

Le 9 octobre 2001, juste après le 11 septembre, Le New York Times a cité Bandar Bush:

« Ben Laden avait l’habitude de venir nous voir, quand l’Amérique, je dis bien l’Amérique, aidait nos frères moudjahidines en Afghanistan par l’intermédiaire de la CIA et de l’Arabie saoudite, pour se débarrasser des forces laïques communistes de l’Union soviétique », a déclaré le prince Bandar. « Oussama ben Laden est venu nous dire : « Merci. Merci d’avoir fait venir les Américains pour nous aider ».

Bien que le communisme soit arrivé à son terme, le gouvernement de la Russie est toujours laïc, et la Russie est un concurrent de plus en plus sérieux pour les dictateurs pétroliers sunnites fondamentalistes sur les marchés pétroliers et gaziers internationaux (en particulier le marché européen); ainsi donc, les dictatures djihadistes et les Etats-Unis font cause commune dans le but de remplacer le gouvernement de la Russie pour le plus grand profit des aristocraties de toutes ces nations.

Et, de plus, pour faire ce travail, les investisseurs de Lockheed Martin et d’autres fournisseurs du Pentagone tirent au passage un grand profit de la vente d’armement, etc.. Le président des Etats-Unis est leur meilleur démarcheur commercial. Dans la Stratégie sécurité nationale 2015*** du président Obama, le terme « agression ». revient 18 fois, dont 17 fois en référence à la Russie. Il s’agit là de la mission qu’Obama assigne au ministère de la «Défense» des États-Unis, car, bien sûr, les Etats-Unis ne pourraient jamais participer à une « agression » ; de fait, le terme « agression » n’est jamais appliqué aux États-Unis eux-mêmes. Par exemple, notre bombardement de la Libye pour se débarrasser de Mouammar Kadhafi, un allié de la Russie, était purement défensif, absolument conforme aux traditions du département de la « Défense » des États-Unis.

Voici un autre extrait de l’article du  NYT de 2001 sur Bandar Bush :

Il a reconnu que la cause d’une partie de la rage des milieux islamistes radicaux est économique, et que les droits de l’homme étaient un luxe que certains pays arabes ne pouvaient pas se permettre. « Nous voulons d’abord que la plupart des gens aient assez à manger. Si nous y arrivons, alors il sera temps de s’occuper de tous vos fantasmes, à vous les Américains, » a-t-il dit.

Le roi saoudien est la personne la plus riche du monde, et de loin : il possède le gouvernement saoudien qui détient Saudi Aramco qui possède des réserves de pétrole de 260 millions de barils, ce qui à 40 dollars du baril, équivaut à un trillion de dollars ; et ce n’est qu’un début. Il faut y ajouter la richesse personnelle de personnes comme le prince Bandar, ou le prince Al-Walid Bin Talal Bin Abdulaziz Al Saoud – ce dernier est parmi les principaux actionnaires à la fois de Rupert Murdoch News Corp. et de Citigroup (et d’autres grandes sociétés). Donc, pour ce roi mille fois milliardaire et ces princes milliardaires, les « droits de l’homme » sont un luxe que l’Arabie saoudite ne peut pas se permettre. »

Et voici quelque chose d’autre que Bandar Bush a déclaré au NYT:

« Dans une démocratie occidentale, si vous perdez le contact avec votre peuple, vous perdez les élections », a déclaré le prince Bandar. « Dans une monarchie, vous perdez votre tête. »

Résumons-nous : la raison pour laquelle le pote de Bush (et de la plus grande partie de l’aristocratie américaine), le prince Bandar, ne veut pas de la démocratie en Arabie Saoudite, c’est que c’est une monarchie et que tous les membres de la famille royale pourrait perdre leur tête si leur pays devenait démocratique. Ils veulent que «la plupart des gens aient à manger »  dans leur royaume, mais ils ne veulent pas de « tous vos fantasmes à vous, les Américains » Il leur faut d’abord construire des palais. Quand ils en auront assez (ce qui n’arrivera jamais), les Saoud laisseront les « droits de l’homme » entrer dans «leur» pays.

C’est aussi la raison pour laquelle chaque membre de la royauté doit contribuer généreusement aux fonds que les religieux saoudiens – le clergé le plus fondamentaliste de tous les pays à majorité musulmane – leur désignent comme étant saints, à savoir des groupes djihadistes comme Al-Qaïda et ISIS, qui ont pour objectif de propager leur religion dans le monde entier. Tout cela a son origine dans l’accord de 1744, que le clerc anti-chiite fanatique Muhammad ibn Abd al Wahhab et l’ambitieux chef de gang Muhammad ibn Saoud (le fondateur de l’Arabie saoudite) ont conclu, et qui a établi simultanément la nation saoudienne wahhabite et la secte wahhabite de l’Islam, qui ont une seule et même tête : les descendants de Saoud. Cet accord a été fort bien décrit dans le livre d’Helen Chapin Metz publié en 1992 au catalogue de la libraire du Congrès américain, Arabie Saoudite: une étude du pays. (C’est moi qui en souligne une phrase) :

Manquant de soutien politique en Huraymila [où il vivait], Muhammad ibn Abd al Wahhab est retourné à Uyaynah [la ville où il était né], où il a rallié à lui plusieurs dirigeants locaux. Uyaynah, cependant, était tout près de Al Hufuf, l’un des centres chiites duodécimains de l’est de l’Arabie, et ses dirigeants se sont naturellement alarmés du ton anti-chiite du message wahhabite. En partie en raison de leur influence, Muhammad ibn Abd al Wahhab a été obligé de quitter Uyaynah, et il est allé à Diriyah. Il avait auparavant pris contact avec Muhammad ibn Saoud, le chef de Diriyah à l’époque [à qui il avait insufflé sa haine des chiites], et deux des frères [de Saoud] qui l’avaient accompagné [Saoud] quand il [en accord avec les  enseignements Wahhabites de la haine des chiites] avait détruit des monuments funéraires [qui étaient sacrés pour les chiites] autour d’Uyaynah.

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En conséquence, lorsque Muhammad ibn Abd al Wahhab est arrivé à Ad Diriyah, les Al Saoud étaient prêts à le soutenir. En 1744, Muhammad ibn Saoud et Muhammad ibn Abd al Wahhab ont fait le serment musulman traditionnel de travailler ensemble à établir un État dirigé selon les principes islamiques. Jusqu’à cette époque, les Al Saoud avaient été considérés comme des chefs tribaux traditionnels dont le pouvoir était fondé sur une autorité ancienne, mais vague.

Muhammad ibn Abd al Wahhab a offert aux Al Saoud une mission religieuse clairement définie sur laquelle assoir leur autorité politique. Ce sentiment de mission religieuse imprègne toujours clairement l’idéologie politique de l’Arabie saoudite des années 1990.

Muhammad ibn Saoud a commencé sa mission à la tête d’une armée qui passait dans les villes et les villages du Najd pour éradiquer diverses pratiques populaires et chiites. La campagne a permis de rallier les villes et les tribus du Najd à la loi Al Saud-wahhabite. Dès 1765, les forces de Muhammad ibn Saoud avaient établi le wahhabisme – et avec lui l’autorité politique Al Saoud – sur la plus grande partie du Najd.

Donc: l’Arabie saoudite a été fondée sur la haine des musulmans chiites, et elle a été fondée sur un accord de 1744 entre un dignitaire fondamentaliste sunnite Wahhabite qui haïssait les Chiites, et Saoud, un chef de bande impitoyable, un accord aux termes duquel le clergé accorderait aux Saoud la sainte légitimité du Coran; et, en échange, les Saoud financeraient la propagation de la secte fanatique anti-chiite de Wahhab.

Tandis que l’aristocratie étasunienne veut, à tous prix, conquérir la Russie, l’aristocratie Saoudienne veut, à tous prix, conquérir l’Iran.

Voici ce que le prince saoudien Al-Walid ben Talal al-Saoud aurait dit à ce sujet le 27 octobre 2015, dans le journal Al Qabas du Koweït :

De mon point de vue, le litige du Moyen-Orient est une question de vie ou de mort pour le Royaume d’Arabie saoudite, et je sais que les Iraniens cherchent à renverser le régime saoudien en jouant la carte palestinienne, et donc, pour déjouer leur complot, l’Arabie Saoudite et Israël doivent renforcer leurs relations et former un front uni pour contrecarrer le programme ambitieux de Téhéran.

L’ennemi, pour les aristocrates saoudiens, n’est pas Israël; c’est l’Iran. Ils détestent les Iraniens, plus encore qu’ils ne détestent les Russes. En fait, Talal a également dit ce jour-là : « Je me rangerai aux côtés de la nation juive et de ses aspirations démocratiques si une Intifada palestinienne (un soulèvement) se déclenche. » Les Israéliens haïssaient les Iraniens autant que les Iraniens détestaient les Israéliens, et le Prince Talal accueillait les Israéliens dans sa mission de détruire l’Iran. Donc : les Saoud et Israël sont du même côté.

George W. Bush a continué la guerre de l’Amérique contre la Russie. Le 29 mars 2004, il a fièrement amené dans l’OTAN, le club militaire anti-russe, 7 nouveaux membres, qui étaient tous auparavant des alliés de la Russie au sein de l’URSS et du Pacte de Varsovie. Ces 7 pays sont: la Bulgarie, l’Estonie, la Lettonie, la Lituanie, la Roumanie, la Slovaquie et la Slovénie.

Barack Obama a poursuivi cette politique anti-russe, le 1er avril 2009, en ajoutant l’Albanie et la Croatie, puis en perpétrant un coup d’Etat en Ukraine qui a fait de ce pays un état fanatiquement anti-russe et anxieux d’adhérer à l’OTAN. Obama a également fait tuer le libyen pro-russe, Mouammar Kadhafi, et a fait attaquer le syrien pro-russe, Bachar al-Assad par les djihadistes armés par les familles royales d’Arabie saoudite et du Qatar.

L’ami des familles royales arabes, Oussama ben Laden, a finalement été sacrifié sur l’autel de l’objectif suprême de l’alliance américano-saoudienne, qui était d’éliminer le leader laïc pro-russe de l’Irak, Saddam Hussein, et d’engendrer (via le 11 septembre, etc.) l’hystérie collective qui a permis de faire passer des lois dictatoriales par le Congrès des États-Unis, et par de plus en plus de pays dans le reste de l’Empire américano-saoudien.

En outre, les industries militaires américaines se sont bien remises de l’effondrement boursier qui a précédé le 11 septembre, en grande partie grâce au succès de la campagne pour instiller la crainte de la Russie, à l’augmentation du terrorisme et à l’hystérie publique concomitante qui permet à un pays « démocratique » d’envahir et d’envahir encore pour tuer les combattants djihadistes que « nos amis » les Saoud et d’autres familles royales arabes sunnites financent.

Les Saoudiens sont actuellement très en colère contre Barack Obama pour avoir négocié sérieusement avec les Iraniens. Pour l’aristocratie américaine, la cible à détruire n’est pas l’Iran, mais la Russie. Obama représente l’aristocratie américaine, pas l’aristocratie saoudienne. Les aristocraties étasunienne et saoudienne n’ont pas les mêmes priorités.

Mais leur alliance a été très efficace. Peut-être que, lorsqu’il a surpris et même choqué sa CIA en lui répondant : « Nous ne sommes pas tout à fait prêt à examiner cette question. Nous ne voulons pas lancer le compte à rebours », George W. Bush avait déjà discuté en privé avec son pote Bandar Bush, de la manière d’atteindre les plus importants objectifs des aristocraties étasunienne et saoudienne ; et qu’ensemble ils ont mis sur pied ce plan, bien avant que la CIA n’en ait pris connaissance. Cela semble être l’explication la plus vraisemblable de la réponse énigmatique de Bush, le 10 juillet 2001.

Eric Zuesse | 18.11.2015

Historien d’investigation Eric Zuesse est l’auteur de They’re Not Even Close: The Democratic vs. Republican Economic Records, 1910-2010 et de CHRIST’S VENTRILOQUISTS: The Event that Created Christianity.

Notes :

* La Quatrième Dimension (The Twilight Zone) est une série télévisée américaine de science-fiction (Wikipedia)

** Le Government Accountability Office (GAO) est l’organisme d’audit, d’évaluation et d’investigation du Congrès des États-Unis chargé du contrôle des comptes publics du budget fédéral des États-Unis (Wikipedia).

*** https://share.america.gov/fr/la-strategie-de-securite-nat...

Article original: http://www.strategic-culture.org/news/2015/11/18/politico...

Traduction : Dominique Muselet

Source: http://arretsurinfo.ch/politico-rapporte-que-bush-savait-...

mardi, 10 novembre 2015

Yemen: catastrophe humanitaire et destruction du patrimoine mondial

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Le Yémen

Catastrophe humanitaire et destruction du patrimoine mondial

par Georg Wagner

Ex: http://www.horizons-et-debat

Le Yémen est mis à feu et à sang par une guerre impitoyable. Depuis six mois, l’Arabie saoudite et les Etats du Golfe recouvrent le pays le plus pauvre du monde arabe de bombes pour le faire retourner à l’Age de la pierre. Ils prétendent vouloir rendre au président officiel Hadi le contrôle de tout le Yémen et repousser l’Iran, sous prétexte de sa participation à l’insurrection des Houthis. L’engagement des avions de combat saoudites se fait sans égards pour la population civile du Yémen. Les bombardements font plutôt penser à un massacre ciblé des Houthis shiites qu’à une opération militaire réfléchie. L’Arabie saoudite mènerait-elle un génocide contre une population d’une croyance différente sous la couverture d’une opération militaire?


Plus de 5000 personnes sont mortes jusqu’à présent, surtout des civils. Plus de 25?000 blessés et parmi eux des milliers d’enfants. 21 millions d’environ 26 millions de Yéménites dépendent de l’aide internationale, 6,5 millions souffrent de la faim et plus de 2 millions d’enfants sont menacés de sous-nutrition.


Mais aussi les plus anciens trésors culturels de la péninsule arabe – des parties importants du patrimoine mondial – sont détruits.


Cependant aucune indignation mondiale ne se fait entendre. Face à la catastrophe des réfugiés syriens qui fait actuellement la Une des médias, on ne peut qualifier ce silence que d’hypocrisie. De plus, les Etats-Unis soutiennent cette agression de la part de l’Arabie saoudite. Dans cette guerre, comme dans tant d’autres, le principe du droit international de la responsabilité de protéger est déviée en son contraire. Ce principe devrait rendre possible une intervention de la communauté internationale pour empêcher des crimes contre les populations civiles. Mais cette fois, le «gouvernement officiel» du Yémen (c’est-à-dire le président Hadi) fait bombarder son propre pays depuis son lieu d’exil.

yem10d269d04f75cc16522ea0bd9.jpgL’actuelle République du Yémen a une surface de 530?000 km2, à peu près une fois et demie la surface de l’Allemagne. C’est un Etat arabe, l’islam est la religion d’Etat et la base de sa jurisprudence se fonde, selon l’article 3 de la Constitution, sur la sharia. La capitale Sana’a est située à 2300 mètres au dessus de la mer. Son ancienne et magnifique ville fait partie du patrimoine de l’humanité. D’autres villes importantes sont Aden, Ta’izz, Hodeïda et Machala.
Le Yémen a plus de 25 millions d’habitants et il a, contrairement à ses Etats voisins, une population très dense. Avec un taux de fécondité de 6 enfants par femme en 2009, la population grandit très rapidement et elle aura doublé jusqu’en 2030. Le Yémen fait partie des pays les plus pauvres des pays arabes. 42% de la population vivent en-dessous du seuil de la pauvreté. Dans le Human Development Index, le Yémen se trouve à la place 154 de 177 pays. Dans le Human Poverty Indicator, il se trouve à la place 76 de 85 pays.


Dans le Nord, le Yémen possède une frontière commune avec l’Arabie saoudite, à l’Est avec le Sultanat d’Oman et il est confiné à deux mers: à l’ouest, à la mer Rouge et au sud, au Golfe d’Aden faisant partie de l’océan Indien. Face au pays, sur la côte africaine, se trouvent l’Erythrée, Djibouti et la Somalie.


Les habitants des montagnes du Nord sont des chiites zaydites et dans les plaines côtières du sud et de l’est du pays vivent les Sunnites chafiites. La plupart des Yéménites sont des paysans vivant de l’agriculture et de l’élevage. 70% de la population vit dans des villages. On y cultive du café, du blé, des fruits et des légumes ainsi que du millet. Malgré cela, la production du pays ne couvre qu’un quart des besoins de la population, ce qui fait que le Yémen dépend de l’aide alimentaire internationale.

Pétrole et gaz

En comparaison avec les pays voisins, le Yémen ne dispose que de petits gisements de pétrole et de gaz naturel. Actuellement, les réserves se limitent à des gisements près de Ma’rib, Shaba et Hadramaout. On suppose de nouveaux gisements entre autre dans une région attribuée au Yémen suite au réajustement de la frontière avec l’Arabie saoudite. Toutefois, il faudrait des investissements considérables dont la rentabilité n’est pas assurée. Car dans la région, l’Iran, les Emirats arabes unis produisent déjà des quantités considérables de gaz naturel liquide.


Plusieurs sociétés pétrolières s’intéressent au Yémen, comme la société française Total, les américaines Hunt Oil et Exxon ainsi que Kyong de la Corée du Sud.


En 2009, un terminal pour le gaz naturel a été mis en service à Balhaf afin de pouvoir exporter du gaz liquide. Les revenus de l’exploitation de pétrole et de gaz représentent trois quart du revenu du pays et un quart du PIB.

La drogue Qat

La spécialité de l’agriculture yéménite est la culture des buissons de qat. Ses feuilles fraichement cueillies sont mâchées pour les utiliser ainsi comme drogue. L’après-midi, les Yéménites se retrouvent pour mâcher le qat et pour discuter ensemble. Cela fait partie de la culture yéménite et représente une véritable coutume sociale. Le qat a des effets euphorisants et réprime la faim, mais il est aussi cause d’anxiétés et d’hallucinations. L’utilisation du qat a beaucoup augmenté au cours des dernières années, la culture s’avère payante, environ 15% de la population en vivent. Cependant, la culture du qat prend 30% de la surface arable et exige environ 80% de l’irrigation artificielle, au détriment de la culture de céréales et de café. Suite à la forte augmentation de la consommation de qat, l’activité économique du pays diminue et des problèmes de santé apparaissent. Lors de la mastication de pesticides sont absorbés.

La «Porte des lamentations»

Grâce à sa situation géographique au bord de la mer Rouge, le Yémen a toujours joué un rôle important pour le commerce et, depuis la mise en service du Canal de Suez au XIXe siècle, pour le contrôle de la navigation. En effet, par le détroit de Bab el-Mendeb, la «Porte des lamentations», passe une des voies les plus importantes de la navigation mondiale.


Sur l’image satellite, on reconnaît l’île yéménite de Périm devant laquelle passent quotidiennement une cinquantaine de bateaux. Ensemble, ils transportent plusieurs millions de barils de pétrole brut vers l’Europe et des centaines de milliers de conteneurs venant d’Asie. Cette situation d’importance stratégique pourrait être une garantie de sécurité pour le Yémen, mais malheureusement il n’en est pas ainsi. De cette île, il n’y a que 15 milles nautiques jusqu’à la côte africaine. Le Yémen se trouve exactement en face de la Somalie, un pays où la guerre sévit depuis 20 ans et duquel un grand nombre de personnes s’enfuit. Selon le Haut-Commissariat des réfugiés de l’ONU 170?000 réfugiés vivent au Yémen, selon Sana’a, il y aurait 700?000 Somaliens séjournant dans le pays; le Yémen a bien ratifié la Convention de Genève relative au statut des réfugiés, mais le grand nombre de réfugiés a des conséquences néfastes sur le marché du travail, le système de santé et la sécurité nationale. Car le manque de stabilité en Somalie n’engendre pas seulement un flux migratoire mais aussi une augmentation de la piraterie dans le Golfe d’Aden.

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Arabia felix – Arabie heureuse

Dans l’antiquité cette partie de la péninsule arabe, le Yémen actuel, s’appelait Arabia felix, l’Arabie heureuse, et cela à cause du climat doux et de la fécondité des hauts plateaux suite aux pluies de mousson. Deux fois par année se forment des rivières déchaînées. Le long de ces lits de rivières asséchés, les Wadi, des oasis se formèrent dans lesquels les êtres humains s’installèrent au fil du temps et commencèrent à faire de l’agriculture. Depuis le premier siècle avant notre ère, ils construisirent des digues pour se protéger des inondations. En outre, ils développèrent un système d’irrigation artificielle pour la culture de cocotiers et de dattiers, diverses variétés de légumes et des arbres pour la production des résines aromatiques que sont l’encens et la myrrhe.


Depuis l’antiquité les habitants de l’Arabia felix étaient des paysans sédentaires et non pas des nomades. La tribu régnait sur son territoire, protégeait les terres communes, les routes et les marchés. En raison de conflits fréquents et de l’existence d’un code d’honneur pour les membres de la tribu, les paysans étaient aussi des guerriers. Aujourd’hui encore les hommes ne se séparent jamais de leur Janbiya, un poignard à lame courte et courbe, porté à la ceinture comme symbole de l’honneur de la tribu.

Les anciens royaumes du Yémen

Au cours du temps les oasis émergentes se développèrent en petits royaumes. Certaines sont peu connus, d’autres par contre sont connues dans le monde entier, tels Hadramaout et Saba.
Au IIIe et VIe siècle de notre ère, les Ethiopiens envahirent cette région avant qu’au VIe siècle, les Sassanides perses ne chassent les Ethiopiens.


Puis, après l’avènement de l’islam au VIIe siècle, il y eut un tournant. A partir de 661, le Yémen appartint au Califat des Umayyades. Partant de la Mecque et de Médine, la péninsule arabe fut peu à peu unifiée. Précisons que le mot arabe de «Yamin» signifie à droite, c’est-à-dire le Sud en regardant le soleil levant depuis la Mecque. Après plusieurs siècles de règne musulman, les tribus yéménites regagnèrent peu à peu leur indépendance.


Depuis le IXe siècle, plusieurs dynasties gagnèrent le pouvoir dans le pays. La dynastie la plus importante étaient les zaydites qui fondèrent en 901 un imamat. Les zaydites sont un sous-groupe des chiites; ils régnèrent jusqu’en 1962 sur les hauts plateaux du Nord. Leur indépendance fut aussi favorisée par un essor économique, car la voie maritime de l’Inde par le Yémen vers l’Egypte gagna considérablement en importance pour le commerce Est-Ouest.

Le Yémen et la colonisation

Une fois que les Ottomans eurent conquis la Syrie et l’Egypte, le Yémen fut également soumis à leur influence dès 1538. Aden fut développé pour devenir une base de la flotte ottomane. Sana’a fut conquis en 1546 et en 1552, l’imam des zaydites se soumit aux Ottomans. A la fin du XVIe siècle, les troupes zaydites, composées avant tout de guerriers tribaux, forcèrent les Ottomans à quitter le pays et après de violents combats, les dernières troupes ottomanes quittèrent le Yémen en 1635.


Au début de l’ère des découvertes, les navigateurs portugais firent halte sur la côte yéménite et fondèrent au XVIe siècle une base commerciale sur Socotra.


Au XIXe siècle par contre, les Britanniques, suite à leur présence en Inde, commencèrent à chercher des bases pour leurs navires sur leur voie vers l’Angleterre. Ainsi, Aden se retrouva en 1839 sous domination britannique pour que la Grande-Bretagne puisse contrôler le détroit de Bab el-Mendeb, le sud de la péninsule arabe et la côte de la Somalie. L’importante situation stratégique d’Aden s’accentua encore lors de l’ouverture du Canal de Suez à la fin du XIXe siècle.
En 1872, les Ottomans conquirent la ville portuaire de Hodeïda, ce qui leur permit de reprendre le contrôle du nord du pays, ce qu’ils avaient déjà fait au XVIe siècle. La colonisation par les puissances européennes était donc une des causes pour la division du pays, car en 1905, les royaumes ottoman et britannique se partagèrent le pays sur la base de divers accords bilatéraux. Le Nord se trouva sous l’administration ottomane, même si les tribus continuèrent à adhérer à la domination de l’imam zaydite.

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Aden, la colonie portuaire britannique

De l’autre côté se trouvait la colonie portuaire britannique d’Aden et les deux protectorats Aden-occidental et Aden-oriental. Ces trois régions formèrent plus tard le Yémen du Sud. Pendant de longues années, il y eut deux Etats yéménites, engendrés, d’une part d’une scission religieuse et d’autre part de la colonisation anglo-turque. Le Nord était imprégné par la présence ottomane, le Sud resta jusqu’en 1967 sous le règne britannique. En 1919, donc après la Première Guerre mondiale, l’empire ottoman se désintégra et le Yémen du Nord obtint son indépendance sous l’imam Yahya Muhammad Hamid ad-Din, le chef de la dynastie zaydite. Il mena une guérilla contre le protectorat britannique et défendit en même temps le pays contre la conquête de Ibn Saud sur la péninsule arabe.

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Le Traité de Taïf

Finalement, le Traité de paix de Taïf fut conclu en 1934 entre les saoudites et les zaydites. Cet accord attribua à l’Arabie saoudite la domination sur les provinces yéménites d’Asir, de Nairan et de Jessan. On définit également la partie occidentale de la frontière, c’est-à-dire la partie de la mer Rouge à l’île de Jabal al-Tair. Plus à l’est, on ne put se mettre d’accord sur le tracé de la frontière. L’Arabie saoudite insista dès 1935 sur la dite Ligne de Hamza que le Yémen n’a jamais reconnue. Le tracé de la frontière n’avait jusqu’en juin 2000 jamais été fixé de manière précise.

La République arabe du Yémen du Nord

La domination des imams zaydites fut renversée en 1962 par un coup d’Etat militaire, et le Yémen du Nord devint la République arabe du Yémen avec la capitale Sana’a. Très rapidement, une guerre civile éclata entre les royalistes et les putschistes. Les putschistes étaient soutenus par l’Egypte sous Nasser avec 70?000 soldats, pendant que l’Arabie saoudite et de la Jordanie soutinrent les royalistes. La guerre dura jusqu’en 1967, après une dernière tentative des royalistes de prendre Sana’a, les partis en conflit ont cherché une solution de paix, et, finalement, l’Arabie saoudite a reconnu la République en 1970.

La République populaire démocratique du Yémen du Sud

Au sud, la Grande-Bretagne a été forcée à peu près en même temps, suite à des protestations contre la présence britannique, à quitter le pays en 1967. En 1970, la République populaire démocratique du Yémen avec Aden comme capitale fut créée. Un front de libération marxiste prit le pouvoir et il noua des liens avec l’Union soviétique. Socotra et Aden devinrent des bases militaires soviétiques. Et de l’autre côté, le Yémen du Nord devint l’allié des Etats-Unis, dans le contexte de la guerre froide. La fin de la guerre froide favorisa le rapprochement entre les deux Etats. Avec le déclin de l’Union soviétique en 1991, le Yémen du Sud perdit son bailleur de fonds principal. Ainsi, ce fut avant tout le Sud qui souhaita l’union avec le Yémen du Nord pour pouvoir exploiter ensemble les gisements pétroliers. L’Arabie saoudite se montra plutôt réticente face à ces projets. Elle préférait être confrontée à deux Etats yéménites faibles plutôt qu’à un Yémen réuni potentiellement fort et plus peuplé.

yremrn3_246df8d024.jpgL’unification du Yémen

L’Etat de la République du Yémen existe sous ce nom depuis mai 1990, soit depuis l’unification de la République arabe du Yémen plutôt conservatrice et traditionnaliste au nord et la République populaire démocratique marxiste au sud.
Au cours de cette unification, plusieurs litiges concernant les frontières furent réglés, d’abord entre le Yémen et Oman. Là, les frontières avaient été fixées par le pouvoir colonial britannique. La délimitation exacte des frontières entre les deux pays fut réglée en 1992 sans trop de problèmes, bien que le Yémen dut renoncé à une petite partie de son territoire.


Entre le Yémen et l’Arabie saoudite, les négociations furent plus dures. Ce ne fut qu’en mai 2000 que les deux pays trouvèrent un accord. Dans le Traité de Jeddah, le triangle près de la ligne de Hamza, pénétrant dans le Yémen, disparut. Ainsi le territoire du Yémen s’agrandit considérablement, de près de 37’000 km², ce qui correspond environ à la surface de la Belgique.

Le Yémen et la guerre du Golfe

Pendant la guerre du Golfe de 1990–1991, le Yémen se décida à soutenir l’Irak pour se démarquer de l’Arabie saoudite qui s’alignait à nouveau sur les Etats-Unis et le Koweït. Cela eut de sérieuses conséquences. L’Arabie saoudite expulsa immédiatement 800?000 ouvriers yéménites et les autres monarchies du Golfe cessèrent toute aide économique et financière pour le Yémen. Finalement, les problèmes économiques désastreux et les tensions entre les anciens chefs politiques du Nord et du Sud aboutirent en 1994 à l’éclatement d’une guerre civile et à la tentative de séparation du Yémen du Sud. Il y eut de violents combats à Aden et Al Mukalla. Mais la sécession échoua et la situation économique empira.


Depuis ce temps-là, le Yémen n’apparaît dans les médias que lors d’enlèvements de touristes. Les récits souvent drastiques dans la presse occidentale négligent le fait que le fonctionnement de la société yéménite obéit à d’autres règles que la nôtre. Il n’y a pas de modèle d’un Etat unitaire dans l’histoire du Yémen. Dans un pays, où les zones agricoles et de pâturage sont rares, seule l’appartenance à une communauté tribale garantissait la survie. Vu sous cet angle, les intérêts contraires entre le gouvernement autocratique de Saleh et les chefs tribaux habitués à l’autonomie sont programmés d’avance. Dans la lutte contre les désavantages et pour l’imposition de leurs exigences (par exemple la construction de routes ou de centres sanitaires), les tribus utilisent le moyen de la prise d’otages. Les victimes sont souvent des étrangers, puisque ceux-ci sont considérés selon le droit tribal comme étant des hôtes du gouvernement. Cependant, le même droit respecte l’intégrité du corps et de la vie des otages.

Le Yémen et la lutte contre le terrorisme

A la fin des années 90, il y eut des attentats en rapport avec le terrorisme international. Au Yémen, Al-Qaïda était déjà actif depuis le début des années 2000.


Le 12 octobre 2000, Al-Qaïda commit un attentat-suicide contre le destroyer Cole de la Marine américaine dans le port d’Aden. Lors de cette explosion, 17 soldats américains furent tués. Suite aux attentats du 11-Septembre, les Etats-Unis suspectèrent le Yémen d’abriter des terroristes d’Al-Qaïda. L’origine yéménite de la famille Ben Laden ainsi que la capture de douzaines de combattants yéménites en Afghanistan confirmèrent leurs soupçons.


En 2008, il y eut un attentat contre l’ambassade américaine et dans plusieurs cas contre des touristes étrangers. Ainsi, le Yémen fut de plus en plus sous pression internationale pour se mobiliser contre l’Al-Qaïda. Après que les branches saoudite et yéménite d’Al-Qaïda se furent réunies en janvier 2009 sous le nom d’Al-Qaïda dans la péninsule arabique (AQPA), le gouvernement de Sana’a décida de se joindre à la lutte contre le terrorisme. Les prises d’otages furent dès lors désignées d’actions terroristes, ce qui permit à l’armée d’intervenir avec des conséquences souvent sanglantes.
Cette nouvelle position fut pour le gouvernement de Sana’a un double avantage: elle lui donna l’occasion d’affermir son autorité dans les régions tribales insuffisamment contrôlées jusqu’à présent. Avant tout dans les régions de Shabwah, Al Jawf et Mar’ib. En outre, on empêcha ainsi que le pays soit placé par Washington sur la liste des Etats voyous.
Entre temps, Washington et Sana’a collaborent étroitement dans le domaine militaire. Les Etats-Unis envoient des conseillers militaires pour former les unités spéciales yéménites. Le FBI dispose depuis 2004 d’une agence permanente à Sana’a et la frontière dans le grand désert arabe est surveillée par des drones commandés par la base américaine de Djibouti.

Le conflit houthis

En juin 2004, le conflit houthis éclata, une révolte que l’ecclésiastique Hussein Badreddin al-Houthi, critique face au gouvernement, a lancée contre le gouvernement yéménite de Saleh. Hussein al-Houthi fut tué en septembre 2004, après trois mois de révolte. En 2005, le président Saleh accorda l’amnistie aux militants emprisonnés (plus de 600) du prédicateur zaydite. Bientôt, il y eut cependant de nouvelles arrestations et condamnations, voire des peines de mort.
Les zaydites vivent depuis plus d’un millénaire au Yémen. Les imams zaydites régnèrent jusqu’à la révolution de 1962 sur le Yémen du Nord. Dans les années 1990, les zaydites se sentirent de plus en plus écartés du pouvoir suite à l’influence grandissante des intégristes sunnites. En outre, la province Sa’ada fut politiquement et économiquement négligée par le gouvernement yéménite après la guerre civile des années 60, dont les efforts pour la formation de l’Etat se limitèrent au patronage financier des chefs de tribus, avec une distribution inégale de la richesse et des ressources.
La rébellion des Houthis déboucha en 2004 sur un conflit armé avec l’armée yéménite. Le président Saleh de cette époque – lui-même zaydite – stigmatisa les Houthis de «terroristes» et accusa l’Iran de financer les insurgés. Les Houthis luttent contre Al-Qaïda et contre les islamistes, mais Israël et les Etats-Unis les considèrent également comme des ennemis politiques. Le gouvernement yéménite mena entre 2004 et 2011 six guerres contre le mouvement des Houthis. Jusqu’en 2010, des milliers de personnes furent tués, des centaines de milliers durent s’enfuir.


En outre, il y a l’antagonisme entre les superpuissances régionales, l’Arabie saoudite et l’Iran, la prétendue lutte contre le terrorisme et ses effets sur la politique intérieure du Yémen aboutissant à une croissance de l’anti-américanisme. Puis, il y a encore l’opposition au projet de fermeture de la frontière avec l’Arabie saoudite menaçant l’accès des habitants à leurs voies traditionnelles de commerce et d’approvisionnement. En 2008, le gouvernement affirma que les Houthis voulaient renverser le gouvernement et introduire le droit religieux chiite et il accusa l’Iran de diriger et financer cette révolte.


En 2009, il y eut une nouvelle offensive contre les rebelles dans la province Sa’ada. 100?000 personnes ont fui les combats. Le long de la frontière, il y eut des chocs entre les rebelles du Nord et les forces de sécurité saoudiennes. Puis, les Saoudiens lancèrent une offensive anti-Houthis à laquelle les Etats-Unis participèrent avec 28 attaques de leurs Forces aériennes. Après une armistice au début 2010, les combats reprirent. Il y en eut dans les régions de Sa’ada, Hajjah, Amran et Al Jawf ainsi que dans la province saoudienne de Jizan.


Après 2010, les Houthis réussirent à établir des alliances pragmatiques avec des tribus locales. Beaucoup de chefs de tribus déçus du gouvernement central se joignirent aux Houthis. A l’époque, les Houthis tout comme le gouvernement encouragèrent l’éclatement des vieilles querelles tribales pour mobiliser les tribus pour leur propre position.
Lorsque le «Printemps arabe» de 2011 attint le Yémen, les Houthis joignirent le mouvement de protestation et le président Saleh dut quitter son poste. Le 21 février 2012, il y eut des élections présidentielles. L’unique candidat était le vice-président Abed Rabbo Mansur Hadi qui devait prendre en charge le poste de président pour deux ans afin d’introduire une réforme constitutionnelle. Puis, il était prévu de faire de nouvelles élections.


Mais la situation sécuritaire et économique du plus pauvre pays de la péninsule arabe s’aggrava encore et le soutien pour le nouveau gouvernement du président Hadi diminua. Al-Qaïda gagna de plus en plus en pouvoir et prit le contrôle de larges parties du Yémen du Sud.


Mars 2013: un dialogue national devait permettre le passage à la démocratie. Plusieurs groupes politiques, dont les Houthis, s’engèrent à élaborer une nouvelle Constitution. Lorsqu’il y eut des combats entre des groupes d’Al-Qaïda et les Houthis au nord du pays, les Houthis se distancèrent, début 2014, des résultats de la conférence.


En septembre 2014, 30?000 militants houthis assiégèrent la capitale Sana’a et occupèrent les principaux bâtiments gouvernementaux. En octobre, les rebelles imposent au président Hadi un remaniement du gouvernement et continuent à avancer à l’est et au sud du pays.


En janvier 2015, les Houthis cernent le Palais présidentiel de Sana’a avec des blindés. Hadi et plusieurs membres du gouvernement sont mis sous résidence surveillée, le président propose sa démission.
En février 2015, Hadi s’enfuit à Aden au Yémen du Sud et déclare son lieu de fuite comme nouvelle capitale. Les rebelles commencent leur marche vers Aden.


Fin mars 2015, les Houthis conquièrent, avec l’aide de fidèles de l’ex-président Saleh, les dernières bases militaires aux portes d’Aden. Hadi s’enfuit à Riad en Arabie saoudite et demande à ses voisins arabes d’intervenir militairement.
En mars 2015, une alliance militaire formée par l’Arabie saoudite, composée notamment de l’Egypte et des monarchies du Golfe, lance une offensive contre les rebelles houthis avec le soutien logistique des Etats-Unis, de la France et de la Grande-Bretagne.   

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Bilqis, la reine de Saba

Selon la tradition, Bilqis, reine de Saba, vivait et régnait dans un pays parsemé de jardins fleuris, envahi d’effluves d’encens et de myrrhe, tout cela dans une richesse incomparable. L’énorme barrage à Mar’ib fait toujours partie des merveilles créées par les humains sur cette terre. Le premier empire arabe de Saba exista du Xe siècle avant J. C. au IIIe siècle après J. C. Les colonnes des temples Bar’an et Adam, ainsi que les vestiges du barrage long de 600 mètres et haut de 17 mètres, dont les écluses dirigeaient l’eau venue de la rivière Wadi Adhana dans les champs, représentent cette antique et grande culture de l’Arabie du Sud. Le barrage dura mille ans. Lorsqu’il s’effondra en 600 après J. C., cela déclencha une énorme vague migratoire de l’Arabie du Sud vers les régions voisines, telle que l’Arabie saoudite actuelle.


Queen-of-Sheba.jpgLa route de l’encens passait par Saba, partant de l’Inde et allant jusqu’en Méditerranée. D’énormes richesses passèrent par cette route, transportées par des caravanes: de l’encens, de l’or, de la myrrhe, des pierres précieuses, du bois de santal et d’autres biens précieux. Dans le livre des rois de la Bible on lit: «Elle vint à Jérusalem avec une grande suite, avec des chameaux qui portaient des parfums, un énorme quantité d’or et de pierres précieuses. […]»
L’encens et la myrrhe étaient transportés par caravanes dans l’ensemble de la région méditerranéenne, en Egypte, dans le Levant et dans l’Empire romain. Le commerce se pratiquait également avec l’Abyssinie, la Perse et l’Inde. Sana’a était un véritable centre commercial avec une architecture toute particulière: de hautes maisons étroites, faisant penser à des gratte-ciel prématurés, appartiennent actuellement au patrimoine mondial.
Lorsqu’on découvrit les alizés, la route par la terre des caravanes commerciales perdit de son intérêt et la richesse de Saba s’effondra.

La route de l’encens

La route de l’encens, allant de l’Arabie du Sud à la Méditerranée, est l’une des plus anciennes voies commerciales du monde. C’est par elle qu’on transporta l’encens à partir de son pays d’origine Dhofar, situé aujourd’hui en Oman, en passant par le Yémen, l’Asir et le Hedjaz vers le port méditerranéen de Gaza et vers Damas. Les stations commerciales importantes sur cette route des caravanes étaient Shabwah, Sana’a, Medine et Pétra.
L’ouverture de la route de l’encens ne fut possible qu’après la domestication du dromadaire vers le milieu du 2e millénaire avant J. C. En utilisant le dromadaire comme bête de somme, les caravanes étaient moins dépendantes des points d’eau dans le désert.

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La route des caravanes ne servait pas qu’au transport de l’encens, mais aussi des piments et des pierres précieuses venus de l’Inde et de l’Asie du Sud-Est pour être amenés en Palestine et en Syrie. Au nord du golfe de Kaaba, près de Pétra, la route de l’encens se divisait en une route du nord allant vers Gaza et de l’est vers Damas. Selon les récits des auteurs anciens, les caravanes de chameaux mettaient 100 jours de marche pour ce trajet de 3400 km entre Dhofar et Gaza.


On suppose que la route de l’encens fut utilisée pour la première fois au Xe siècle avant J. C. Mais ce ne fut qu’après l’avènement du royaume d’Arabie du Sud Saba, Qataban, Hadramaout et Ma’in au VIIIe siècle avant J. C. que le commerce prit de l’ampleur.


La grande utilisation d’encens dans les cultes de la région méditerranéenne permit un développement important de la route de même que des villes et des empires qui la bordaient. L’empire romain à son apogée utilisait à lui seul 1500 tonnes d’encens de la production annuelle estimée à 2500–3000 tonnes.


L’ouverture de la route maritime par la mer Rouge, déclencha le déclin successif de la route de l’encens. Non seulement c’est le chemin des caravanes qui perd de son importance, mais les antiques royaumes arabes perdirent leurs bases économiques. Au IIIe siècle, cela eut pour effet la montée des Himyarites au Yémen. Ils portèrent leurs efforts sur l’agriculture dans un climat de montagne favorable et sur le contrôle du commerce maritime.
Le triomphe de l’islam au VIIe siècle porta un nouveau coup dur à la voie commerciale. Néanmoins l’encens continua à être utilisée en médecine de l’islam, mais pas dans la sphère religieuse des mosquées.

Mokka – d’où nous est venu le café

Tout un chacun connaît le terme Mokka ou tout au moins en a-t-il entendu parler. Mais qu’est-ce que le Mokka? Une variante du cappuccino avec du chocolat? Une certaine sorte de grains de café? Une méthode de préparation traditionnelle venant de l’espace turc ou arabe? Toutes ces définitions demeurent correctes, du fait qu’on utilise rarement une notion de façon si variée. Non seulement on y trouve des concepts différents, mais l’écriture elle-même est diverse. Que ce soit Mokka, Mokha ou Mocha, toutes ces écritures ont une même origine étymologique – la ville de Mokka (en arabe al-Mukha). Elle se trouve au sud-ouest du Yémen, à côté de la mer Rouge, juste 12 mètres au-dessus de la surface de la mer et vient d’une longue histoire très diverse. Les origines de la ville viennent très probablement de l’ancienne ville portuaire de Muza, qui dut se trouver au même endroit ou tout au moins à proximité. Elle faisait alors partie de la fameuse route commerciale la plus importante au monde, dite la Route de la soie.


A la fin du XVe siècle, Mokka joua un rôle primordial dans le commerce mondial, notamment en ce qui concerne le café. En un premier temps, les grains de café poussaient de manière sauvage en Ethiopie et furent cultivés plus tard au Yémen puis expédiés alors uniquement par Mokka dans le monde connu à cette époque. La demande était très forte, car la dégustation de café s’était répandue comme une traînée de poudre de l’espace arabe vers l’Europe. Dans l’Istanbul actuel, le premier «café» fut ouvert au XVIe siècle, suivi un siècle plus tard par Londres, Paris, Amsterdam ou même Hambourg. A cette époque, on a volontiers répondu à la demande de café, tout en veillant soigneusement à en conserver le monopole. C’est pourquoi on versait, avant l’exportation, de l’eau bouillante sur les grains pour les empêcher de germer.


A l’apogée de cette exportation de café, on édicta même une loi obligeant tout navire passant dans la région de s’arrêter dans le port de Mokka. Lors du passage de la mer d’Arabie à la mer Rouge ou inversement, on devait y payer les taxes sur les marchandises transportées. Mokka fut entre les 15e et 18e siècles non seulement une place commerciale importante pour le café, mais aussi un centre commercial des plus importants de toute la région.
Pour l’époque, Mokka était, avec environ 30?000 habitants une métropole où l’on trouvait des commerçants de tous les pays. Britanniques, Hollandais, Français et Danois y entretenaient des entrepôts et même leurs propres fabriques, afin de calmer la soif de café de leurs concitoyens. Mais comme bien souvent dans l’histoire, cette réussite de Mokka avait ses limites. Les Européens réussirent finalement à répandre les plantes à café et à les cultiver dans leurs colonies. Au cours du XVIIIe siècle, le café se répandit en Indonésie, au Surinam, au Brésil et dans les Caraïbes. On y trouva des conditions presque aussi bonnes pour la culture du café et c’est ainsi que le monopole de Mokka prit fin. Cette ville portuaire commença à décliner.


Actuellement, Mokka n’a plus guère d’importance et n’a plus qu’environ 10?000 habitants. Les anciens entrepôts de café et les maisons de commerce tombent en ruine, et même le port est en sursis. En 2013, l’ancienne tête de file du café, le Yémen, n’a exporté que quelques 20?000 tonnes. Ce qui apparaît comme une quantité fort importante, n’est que minime par rapport à la concurrence des autres continents. Par exemple le Brésil a récolté dans la même période environ 3?000?000 de tonnes et même des Etats comme le Burundi, Madagascar ou El Salvador dépassent largement le Yémen. Actuellement, les habitants de Mokka vivent essentiellement de la pêche et d’un tourisme à caractère marginal. Et pourtant on entend quotidiennement parler de cette ville, tant dans les bistrots de Paris que dans les «Starbucks» de New York City ou dans un restaurant berlinois.

Les villes de l’Hadramaout

Dans l’Antiquité, on appelait l’Hadramaout la «terre sainte». De nombreuses tombes de prophètes préislamiques et d’autres saints rappellent cette époque. Le Wadi Hadramaout – atteignable jusque dans les années 60, uniquement par le désert Rub al-Khali, Marib et le haut plateau de al-Mukalla – est une fertile oasis fluviale, entourée sur des kilomètres par des dattiers et des collines majestueuses. C’est dans cette région que se trouvent les trois villes de Shibam, Sa’yun et Tarim.

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L’Hadramaout est resté jusqu’à aujourd’hui une région agitée. Les Hadrami étaient sans cesse en concurrence pour profiter d’une partie des terres peu fertiles de cette région désertique. Ils protégeaient leurs petites villes par des murs épais en torchis, résistant aux balles, et se défendaient à l’aide de fenêtres en forme de meurtrières dans leurs habitations.
Les Hadrami auraient été bien protégés dans ces fortins s’il n’y avait pas eu de temps en temps de fortes pluies auxquelles les remparts et les maisons ne pouvaient résister. Assez fréquemment, les inondations firent disparaître des parts entières de ces villages.
Dans les endroits un peu fructueux du Wadi, les habitants avaient survécu depuis les temps prébibliques. Les Hadrami étaient connus en tant que commerçants, car ils entretenaient des contacts jusqu’en Indonésie, en Inde et en Afrique. Les hautes maisons en torchis, de couleur blanche étaient à l’image de leur fortune. Ils dotaient leurs façades, peu agréables à la vue, de lourdes portes soigneusement décorées.
«On pourrait désigner les villes de l’Hadramaout comme des villes mondiales de l’architecture. En effet, là où on ne s’attendait à ne voir que du désert et des roches, ce que l’on y trouve, de manière très répandue dans la péninsule arabique est issu de la force et de la volonté des habitants, créé par la terre d’origine, et cela ne peut que nous épater.»
Des gratte-ciels du désert, d’une époque où on ne trouvait en Amérique que de misérables huttes! Chacune de ces villes présente une vision architectonique parfaite, témoignant d’une architecture qu’on n’aurait pas imaginé de la part de cette population arabe.


Cette architecture particulière, qui n’est pas vraiment arabe, s’explique du fait de l’insécurité du pays. L’Arabie du Sud est constamment victime d’agressions, de pillages. Les attaques par des Bédouins se réitèrent constamment. Chaque maison, chaque village et chaque ville forme un fortin. Et toutes les maisons sont construites en torchis.» (cf. Hans Helfritz. Chicago der Wüste, 1935).
Si l’on désigne constamment Sana’a comme une perle de l’Arabie, on peut alors prétendre que Schibam est la perle de l’Hadramaout. Cette vieille cité commerciale fut pendant des siècles une base de caravanes sur la fameuse route de l’encens, dans cette curieuse contrée du Wadi Hadramaout.
Il n’y a guère de monuments à Schibam, la ville en elle-même en est un, de même que les réussites très civilisées des habitants. Des gratte-ciel sans ascenseurs? Ah non! Dans l’Antiquité déjà, on transportait des charges – voire des personnes – jusque dans les étages supérieurs au moyen d’ascenseurs qui fonctionnaient à l’aide d’une poulie fixée au toit avec les contrepoids nécessaires. Schibam fut construite au IIIe ou IVe siècles après J. C. pour succéder à l’ancienne capitale Schabwa, qui n’était plus stable du fait de la pression exercée par des tribus semi nomades venues du nord du désert.


On trouve à Schibam environ 500 gratte-ciels, la plupart de plus de 30 m de hauteur avec 8 étages. Beaucoup de ces maisons existent depuis 200 à 500 ans.
Pour la construction, on utilisait des briques séchées à l’air libre et mêlées de paille broyée au torchis. Les étages supérieurs étaient badigeonnés de chaux blanche pour les protéger de l’érosion par le vent et la pluie.
On ne retrouve guère d’autre ville où la vie arabe traditionnelle est aussi bien préservée qu’à Schibam.

lundi, 09 novembre 2015

Palmyre 2015 – Saint-Denis 1793: même folie

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Palmyre 2015 – Saint-Denis 1793: même folie

Stéphane Sieber
Journaliste, ancien rédacteur en chef presse écrite
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Comparer la destruction de Palmyre par l’Etat islamique et celle des Bouddhas de Bâmiyân par les Talibans vient tout naturellement à l’esprit. Mais prenons un peu de recul. Les extrémistes d’aujourd’hui n’ont pas trop à se casser la tête pour trouver, dans l’histoire, des destructions massives de richesses culturelles. Exemple : la France révolutionnaire. Dès le début de cette période de liberté, d’égalité et de fraternité, le « comportement citoyen » n’a pas été franchement …citoyen. Et ce n’étaient pas que des incivilités.

Rien n’est plus humiliant pour un Européen qui visite un monument historique, château ou cathédrale de France, que d’entendre le guide faire le bilan des destructions de richesses qui ont eu lieu pendant la Révolution, pendant laquelle des sauvageries et des pillages ont fait disparaître à jamais des objets d’art de la plus grande valeur.

La Bastille : une rigolade

Commençons sur un air léger. On veut bien admettre que la Bastille n’a pas laissé de souvenir impérissable. Elle était, on s’accordera là-dessus, hideuse. Sa destruction, dès juillet 1789, a même ceci en commun avec celle du Mur de Berlin : les petits morceaux récupérés ont été vendus comme souvenirs amusants par des brocanteurs à quatre sous.

On relèvera cependant deux choses. Pour l’ancedote, elle n’avait plus pour locataires que quatre faussaires, deux fous et un pervers. Pas exactement des parangons des droits humains.

D’Henri IV à l’hystérie

profanation-des-tombes-royales-a-saint-denis-g.jpgMais beaucoup plus sérieux, la prise de la Bastille a inauguré le déchaînement d’une populace assoifée de sang, annonciatrice des horreurs à venir, avec ses têtes au bout d’une pique. Côté rage jacobine contre la pierre, on allait bientôt mettre la vitesse supérieure. Et mettre en scène le renversement de la statue d’Henri IV – oui, le roi populaire, le Vert galant, l’homme du « Paris vaut bien une messe ». Puis ce fut le tour de Louis XIV, Louis le Grand, le Roi-Soleil dont Stéphane Bern vient de nous offrir un portrait brillantissime dans son émission « Secrets d’Histoire » sur F2. Evidemment, Louis XV n’allait pas échapper au même sort. Dans la foulée commençaient les grandes dépradations infligées à Notre-Dame, aux Invalides et au Louvre.

L’hystérie – sur fond d’anticléricalisme forcené, voire d’athéisme - atteint désormais tout le pays. Mettons le doigt sur l’abbaye de Cluny, le symbole du renouveau monastique en Occident, la plus grande église jusqu’à la construction de Saint-Pierre. « Nationalisée » en novembre 1789 déjà, ses biens (terres agricoles, granges, châteaux, églises, tapisseries, objets du culte) ont servi de caution aux assignats, la monnaie de singe d’ailleurs bien vite dévalorisée. Pillage, incendie des archives, explosion et utilisation des pierres pour la construction en ont achevé la destruction, si bien qu’il ne reste aujourd’hui que moins du dixième de l’édifice de l’Ancien Régime.

Ces morts qu’il faut abattre

Reste le pire. Là où se mêlèrent haine, bêtise, barbarie et obscénité : la profanation de la basilique de Saint-Denis, en 1793. Cette église, devenue cathédrale et monument historique, est bâtie sur le lieu de sépulture de saint Denis, premier évêque de Paris[1] (mort vers 250). Elle est devenue la nécropole de rois mérovingiens et Carolingiens, puis de tous les rois de France depuis les Capétiens. De quoi couper le souffle.

Mais en tout cas pas celui de Barère. Le 1er août 1793, au nom du Comité de Salut Public, celui qui avait naguère appelé à détruire Lyon expliquait à la Convention qu’il fallait sans tarder « détruire les mausolées fastueux qui sont à Saint-Denis ». On ne traînait pas à l’époque. Dix jours plus tard (premier anniversaire de la chute de la Monarchie), les vandales étaient à l’œuvre. En trois jours, des dizaines de tombeaux furent saccagés. Dans les fosses creusées dans les cimetières voisins, rois, reines, princes et grands serviteurs de l’Etat furent précipités, souvent après avoir été profanés, lorsque par exemple un soldat coupa la moustache de la dépouille d’Henri IV pour s’en affubler. Les monuments de pierre furent pulvérises, les pièces en métal réquisitionnées pour servir à la fabrication de canons et de balles. Sainte Geneviève, si chère au cœur des Parisiens[2], n’échappa pas à l’abomination : ses ossements furent brûlés et jetés dans la Seine.

On n’en dira pas plus, sinon que ce vent d’anéantissement culturel souffla dans tout le pays, au gré des autorités locales et des chargés de mission.

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La cathédrale de Liège détruite par les révolutionnaires fanatiques

Fatigués de détruire ?

Il faut relever que les notables chargés de faire le tri réussirent à conserver bien des oeuvres d’art. Des travailleurs horrifiés par la besogne qu’on leur imposait parvinrent à subtiliser quelques reliques qu’ils rendirent à l’Eglise une fois la tempête passée[3].

Rapidement aussi, il se trouva quelques Conventionnels pour s’élever contre ce vandalisme criminel. Un signe important fut donné par Charles-Gilbert Romme. Romme n’était pas un modéré ; il avait voté la mort du Roi. Il n’était pas un conservateur : ce fut lui qui conçut le calendrier révolutionnaire. Cependant, le 20 octobre 1793, il fit adopter un décret pour la protection de toutes les œuvres d’art (même celles « marquées d’insignes féodaux ». En même temps, un autre décret condamnait sévèrement les iconoclastes. Hélas, ces mesures venaient trop tard et furent mal appliquées.

Aujourd’hui encore, des blessures ne guériront pas. Dans les âmes et dans les arts. A l’heure où l’actualité immédiate et le massacre de l’enseignement de l’histoire détruisent la mémoire, le rappeler n’est pas une option, mais une exigence.

Stéphane Sieber, 5 novembre 2015

samedi, 07 novembre 2015

A New Biography Traces the Pathology of Allen Dulles and His Appalling Cabal

AS I READ The Devil’s Chessboard: Allen Dulles, the CIA, and the Rise of America’s Secret Government, a new book by Salon founder David Talbot, I couldn’t help thinking of an obscure corner of 1970s history: the Safari Club.

Dulles — the Princeton man and white shoe corporate lawyer who served as CIA director from 1953 to 1961, still the longest tenure in agency history — died in 1969 before the Safari Club was conceived. And nothing about it appears in The Devil’s ChessboardBut to understand the Safari Club is to understand Allen Dulles and his milieu.

Any normal person would likely hear the Safari Club saga as a frightening story of totally unaccountable power. But if there’s one thing to take away from The Devil’s Chessboard, it’s this: Allen Dulles would have seen it differently — as an inspiring tale of hope and redemption.

Because what the Safari Club demonstrates is that Dulles’ entire spooky world is beyond the reach of American democracy. Even the most energetic post-World War II attempt to rein it in was in the end as effective as trying to lasso mist. And today we’ve largely returned to the balance of power Dulles set up in the 1950s. As Jay Rockefeller said in 2007 when he was chairman of the Senate Intelligence Committee, “Don’t you understand the way intelligence works? Do you think that because I’m chairman of the Intelligence Committee that I just say ‘I want it, give it to me’? They control it. All of it. All of it. All the time.”

In February 2002, Saudi Prince Turki Al Faisal, head of Saudi intelligence from 1977 until September 1, 2001, traveled to Washington, D.C.

While there, Turki, who’d graduated from Georgetown University in the same class as Bill Clinton, delivered a speech at his alma mater that included an unexpected history lesson:

In 1976, after the Watergate matters took place here, your intelligence community was literally tied up by Congress. It could not do anything. It could not send spies, it could not write reports, and it could not pay money. In order to compensate for that, a group of countries got together in the hope of fighting communism and established what was called the Safari Club. The Safari Club included France, Egypt, Saudi Arabia, Morocco, and Iran … so, the Kingdom, with these countries, helped in some way, I believe, to keep the world safe when the United States was not able to do that. That, I think, is a secret that many of you don’t know.

Turki was not telling the whole truth. He was right that his Georgetown audience likely had never heard any of this before, but the Safari Club had been known across the Middle East for decades. After the Iranian revolution the new government gave Mohamed Hassanein Heikal, one of the most prominent journalists in the Arab world, permission to examine the Shah’s archives. There Heikal discovered the actual formal, written agreement between the members of the Safari Club, and wrote about it in a 1982 book called Iran: The Untold Story.

And the Safari Club was not simply the creation of the countries Turki mentioned — Americans were involved as well. It’s true the U.S. executive branch was somewhat hamstrung during the period between the post-Watergate investigations of the intelligence world and the end of the Carter administration. But the powerful individual Americans who felt themselves “literally tied up” by Congress — that is, unfairly restrained by the most democratic branch of the U.S. government — certainly did not consider the decisions of Congress to be the final word.

Whatever its funding sources, the evidence suggests the Safari Club was largely the initiative of these powerful Americans. According to Heikal, its real origin was when Henry Kissinger, then secretary of state, “talked a number of rich Arab oil countries into bankrolling operations against growing communist influence on their doorstep” in Africa. Alexandre de Marenches, a right-wing aristocrat who headed France’s version of the CIA, eagerly formalized the project and assumed operational leadership. But, Heikal writes, “The United States directed the whole operation,” and “giant U.S. and European corporations with vital interests in Africa” leant a hand. As John K. Cooley, the Christian Science Monitor’s longtime Mideast correspondent, put it, the setup strongly appealed to the U.S. executive branch: “Get others to do what you want done, while avoiding the onus or blame if the operation fails.”

This all seems like something Americans would like to know, especially since de Marenches may have extended his covert operations to the 1980 U.S. presidential election. In 1992, de Marenches’ biographer testified in a congressional investigation that the French spy told him that he had helped arrange an October 1980 meeting in Paris between William Casey, Ronald Reagan’s 1980 campaign manager, and the new Islamic Republic of Iran. The goal of such a meeting, of course, would have been to persuade Iran to keep its American hostages until after the next month’s election, thus denying Carter any last-minute, politically potent triumph.

Dulles-TIME.jpgDe Marenches and the Safari Club certainly had a clear motive to oust Carter: They blamed him for allowing one of their charter members, the Shah, to fall from power. But whether de Marenches’ claims were true or not, we do know that history unfolded exactly as he and the Safari Club would have wished. The hostages weren’t released until Reagan was inaugurated, Reagan appointed Casey director of the CIA, and from that point forward America’s intelligence “community” was back in business.

And yet normal citizens would have a hard time just finding out the Safari Club even existed, much less the outlines of its activities. It appears to have been mentioned just once by the New York Times, in a profile of a French spy novelist. It likewise has made only one appearance in the Washington Post, in a 2005 online chat in which a reader asked the Post’s former Middle East bureau chief Thomas Lippman, “Does the Safari Club, formed in the mid-70s, still exist?” Lippman responded: “I never heard of it, so I have no idea.”

So it’s really too bad Allen Dulles didn’t live to see the Safari Club.

The fallout from Watergate initially would have horrified him, with mere elected members of Congress placing restrictions on patricians like himself. But he then would have been thrilled to see the ingenuity with which his heirs escaped those bonds, and deeply satisfied that the club did its work while staying hidden from the prying eyes of History.

As Talbot points out, Dulles stated his worldview publicly and explicitly in 1938 during his only run for political office: “Democracy only works if the so-called intelligent people make it work. You can’t sit back and let democracy run itself.” Unsurprisingly, homilies like this did not carry him to victory. But so what? He went on to wield far greater power than most elected officials ever have. And while Dulles is the star of The Devil’s Chessboard, he’s surrounded by an enormous supporting cast.

As Talbot explains, “What I was really trying to do was a biography on the American power elite from World War II up to the 60s.” It’s a huge, sprawling book, and an amalgam of all the appalling things Dulles and his cohort definitely did, things the evidence suggests they probably did, and speculation about things they might plausibly have done. More than a biography, it’s a exploration of well-organized pathology.

It includes detailed reexaminations of Dulles’s most notorious failures, such as the Bay of Pigs in 1961 and the nightmarish mind control program MK-ULTRA, as well as his most notorious “successes,” the CIA’s overthrow of democratic governments in Iran in 1953 and in Guatemala in 1954. Talbot notes that an internal CIA account of the Iran coup fairly glowed with joy: “It was a day that never should have ended. For it carried with it such a sense of excitement, of satisfaction and of jubilation that it is doubtful whether any other can come up to it.” According to a participant in an Oval Office briefing for President Eisenhower, Dulles’s brother John Foster, then secretary of state, “seemed to be purring like a giant cat.”

But by this point these events are fairly well-known. Perhaps most compelling is Talbot’s in-depth look at Dulles’s lesser-known yet still extraordinarily sordid projects. As the Swiss director of the Office of Strategic Services during World War II, Dulles — whose law firm had represented German corporations and many U.S. corporations with German interests — quietly attempted to undermine Franklin D. Roosevelt’s demand that Germany surrender unconditionally, going so far as to order the rescue of an SS general surrounded by Italian partisans. Dulles also led the push to save Reinhard Gehlen, Nazi head of intelligence on the Eastern Front and a genuine monster, from any post-war justice. Dulles then made certain Gehlen and his spies received a cozy embrace from the CIA, and helped push him to the top of West Germany’s Federal Intelligence Service.

Also gruesome is the lurid story of how Jesus de Galindez, a lecturer at Columbia University, was kidnapped in Manhattan by U.S. government cutouts and delivered to Dominican Republic dictator Rafael Trujillo. Trujillo then had Galindez, whose exposés of corruption Trujillo feared, boiled alive and fed to sharks, and ordered the murder of the American pilot who’d flown Galindez there. All under the beneficent gaze of CIA Director Allen Dulles.

In a sense, however, all of The Devil’s Chessboard seems to exist to set the stage for the final chapters about the assassinations of John F. Kennedy and Robert Kennedy. In the first 500 pages you are convinced that Dulles would have had no moral qualms about killing any politician, including Americans. You learn Dulles had a lifetime of experience in arranging assassinations, and apparent ties to attempts to overthrow or murder French president Charles de Gaulle. And you discover the depth of his grudge against John F. Kennedy, who dismissed him and several of his key underlings after the Bay of Pigs.

But were JFK and possibly Robert Kennedy killed by conspiracies involving Dulles? That’s the conjecture of The Devil’s ChessboardThere’s no question Talbot has pulled together a lot of suggestive old information, and uncovered some that’s new. Furthermore, he certainly proves there was a great deal of reluctance on the part of journalists and politicians at the time to pull on even the most obvious threads. But 50 years later, I don’t think there’s any way to say much for sure on this subject, except that it’s pretty interesting. (Given humanity’s history of catastrophic slapstick, I’ve always enjoyed the theory that a Secret Service agent shot Kennedy accidentally.)

In the end, whatever the reality of Talbot’s most sensational claims, he unquestionably makes the case that — unless you believe we’re governed by shape-shifting space lizards — your darkest suspicions about how the world operates are likely an underestimate. Yes, there is an amorphous group of unelected corporate lawyers, bankers, and intelligence and military officials who form an American “deep state,” setting real limits on the rare politicians who ever try to get out of line. They do collaborate with and nurture their deep state counterparts in other countries, to whom they feel far more loyalty than their fellow citizens. The minions of the deep state hate and fear even the mildest moves towards democracy, and fight against it by any means available to them. They’re not all-powerful and don’t get exactly what they want, but on the issues that matter most they almost always win in the end. And while all this is mostly right there in the open, discernible by anyone who’s curious and has a library card, if you don’t go looking you will never hear a single word about it.

Moreover, it’s still right there in front of us today. Talbot recently argued, “The surveillance state that Snowden and others have exposed is very much a legacy of the Dulles past. I think Dulles would have been delighted by how technology and other developments have allowed the American security state to go much further than he went.”

Or as a staff member of the 1970s congressional investigation of Kennedy’s murder said in an interview with Talbot: “One CIA official told me, ‘So you’re from Congress — what the hell is that to us? You’ll be packed up and gone in a couple of years, and we’ll still be here.’” According to The Devil’s Chessboard, the Safari never ends.

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Quand l’Australie s’appelait “Jave la Grande”…

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Quand l’Australie s’appelait “Jave la Grande”…

par Daniel Pardon

Ex: http://www.tahiti-infos.com & http://metamag.fr

L’histoire officielle de la découverte de l’Australie est connue : l’île continent aurait été abordée le 26 février 1606 par le Hollandais Willem Janszoon, qui navigua à bord du “Duifken” jusqu’au golfe de Carpenterie (dans les actuels “Territoires du Nord”). Il était parti en novembre 1605 de l’île de Java. Les Hollandais baptisèrent leur découverte la Nouvelle Hollande ; pourtant, elle avait déjà un autre nom de baptême, bien français, “Jave La Grande”…


La mappemonde Dauphin (1547), avec une représentation (à droite du document) de l'Australie, appelée Jave La Grande.
La mappemonde Dauphin (1547), avec une représentation (à droite du document) de l'Australie, appelée Jave La Grande.
PAPEETE, le 16 octobre 2015. L’Australie a-t-elle été découverte par les Hollandais, comme le certifie l’histoire officielle de notre grand voisin ? C’est possible, mais loin d’être certain, tant le faisceau de présomptions indiquant que d’autres marins abordèrent la grande île est dense.

A Dieppe, on savait…

Le premier nom de baptême connu et reconnu de l’Australie plaide pour une découverte antérieure : des cartographes français, qui n’avaient pas pu inventer cette terre, la firent figurer sur leurs portulans dès le milieu du XVIe siècle. La carte de Jean Rotz date de 1542 et figure, en lieu et place de l’actuelle Australie, cette terre nouvelle, baptisée du nom français de “Jave la Grande” ; un élément repris en 1546 par une autre cartographe, Pierre Desceliers, à qui l’on doit une mappemonde où figure “Jave La Grande”, que l’on retrouve encore en 1547, sur la “Harleyan World Map” ou “carte Dauphin”.
A Dieppe, plus de soixante ans avant la découverte officielle par Janszoon, les dessinateurs et cartographes auteurs de portulans savaient donc parfaitement qu’une terre immense s’étendait au sud de l’Asie du Sud-Est.
Les Français seraient-ils, dans ces conditions, les vrais découvreurs de la grande île ?

Un voyage secret en 1521

L’histoire non officielle de la découverte de l’Australie nous apprend que les Portugais organisèrent, en grand secret, au début du XVIe siècle, un voyage d’exploration dans cette région du monde. Les Lusitaniens s’étaient durablement installés en Indonésie dès 1511, puis au Timor en 1516, à 500 km seulement des côtes australiennes.
A cette époque, le traité de Tordesillas, conclu en 1494 entre l’Espagne et le Portugal, afin de séparer le monde en deux parties, l’une réservée aux Espagnols, l’autre aux Portugais, interdisait à ces derniers de naviguer dans le Pacifique Sud. Or, ceux-ci cherchaient avec avidité des épices, mais surtout de l’or et de l’argent.
Depuis Timor, le navigateur portugais Cristóvão de Mendonça entreprit, dans la plus grande discrétion, une exploration de la proche mer du sud, avec deux -ou trois- caravelles, entre 1521 et 1524, afin d’en recenser les richesses ; mais, compte tenu de l’interdit dû au traité de Tordesillas, l’expédition resta quasiment confidentielle. Rien ne devait filtrer ni “fuiter”. Après ce voyage, d’autres expéditions suivirent, les Portugais, aussi intrépides que discrets, étant apparemment parvenus à quasiment faire le tour de l’Australie.

Des noms français et portugais

A la suite de ces voyages, des cartes secrètes furent ramenées d’Asie et conservées à Lisbonne, cartes détruites lors du grand tremblement de terre de 1755 (durant lequel se perdit une bonne partie des archives du royaume).
Mais, malgré le devoir d’absolue confidentialité, dès 1540, des navigateurs et cartographes portugais venus travailler à Dieppe (dont Cristóvão de Mendonça lui-même) auraient révélé le secret de leur découverte, celle de la “Terra Australis”, à leurs confrères cartographes français.
Le port de Dieppe était alors la ville où les portulans les plus précis et les plus sophistiqués étaient dessinés. D’ailleurs, sur ces cartes de l’école de Dieppe, figurent à la fois des noms francisés et des noms portugais, preuve de l’origine des sources d’inspiration des géographes et dessinateurs dieppois, sans doute portugais pour certains d’entre eux.

Un kangourou dès 1593 !

Pour corroborer ces quasi certitudes, mentionnons les ruines de Bittangabee Bay, en Nouvelle Galles du Sud ; sur les fondations d’une construction réalisée par les premiers colons en 1844, émergent des pierres anciennes dont une est datée de 1524, possible preuve qu’une caravelle portugaise a sans doute hiverné ici.
Mieux même, en 1593, l’atlas "Speculum Orbis Terrae", du Hollandais Cornelis de Jode, fait apparaître, pour symboliser cette région, une grande île et… un kangourou ! (Un cheval pour l’Europe, un chameau pour l’Asie, un lion pour l’Afrique). On connaissait donc déjà les marsupiaux.
Enfin, les débris d’une caravelle de Cristóvão de Mendonça auraient été découverts en 1836 par des baleiniers naufragés, vers Port Fairy, dans l’Etat du Victoria (épave qui a été observée et décrite par une quarantaine de témoins jusqu’en 1880, date à laquelle on en perdit la trace).

Java Major, Java Minor

Il semble évident, à la lecture de ces éléments, que les Portugais connaissaient parfaitement bien l’existence de l’île continent, 80 ans avant sa découverte officielle ; ils lui avaient donné le nom de“Java Major” en portugais, devenu “Jave La Grande” une fois francisé à Dieppe, par opposition à l’autre île qu’était “Java Minor” (“Jave La Petite”, aujourd’hui l’île de Java, en Indonésie).
En revanche, à la lumière des informations exhumées du passé, il est assez peu probable que des Français aient pu découvrir l’Australie avant les Portugais et les Anglais (sinon en 1504, mais c’est une autre histoire dont nous vous reparlerons…). En France, les cartographes dieppois connaissaient l’existence de la Terra Australis, grâce aux indiscrétions de leurs collègues et amis portugais, longtemps avant le Hollandais Janszoon, en 1606.
“Jave La Grande” (et la secrète) fut, après le débarquement néerlandais, rebaptisée Nouvelle-Hollande, avant de prendre officiellement, en 1824, le nom d’Australie…
 

Australie : les grandes dates

- Dès le IXe siècle, à l’époque de Charlemagne donc, des navigateurs chinois ont très probablement exploré la côte nord de l’Australie. En 1290, le journal de Marco Polo fait état d’une terre riche au sud de Java.

- Dès le Xe siècle, des marins venus du Sud-Est asiatique (bugis, makassar et bajau) fréquentent régulièrement les eaux australiennes (le pays est appelé Marege) pour y pêcher des holothuries, revendues ensuite en Asie.

- Entre 1521 et 1524, le Portugais Cristóvão de Mendonça conduisit la première expédition européenne (deux ou trois caravelles) en Australie. D’autres navigateurs lusitaniens lui emboîtèrent le pas.

- En 1540, l’existence de la grande île était révélée par les Portugais aux cartographes de l’école de Dieppe, en France, cette nouvelle terre étant baptisée “Java Major” (“Jave La Grande” en français).

- En 1606, la découverte officielle est faite par Janszoon, suivi de nombreux autres navigateurs hollandais.

- En 1688, le boucanier anglais William Dampier suit et reconnaît la côte nord-ouest et finalement, après beaucoup d’autres, James Cook la “découvre” à son tour en 1770. Il accoste à Botany Bay. 18 ans plus tard, la Grande-Bretagne débarque ses premiers forçats ; une nation va naître.
 

Le frontispice de l’atlas "Speculum Orbis Terrae", du Hollandais Cornelis de Jode, publié en 1593. Sur la partie gauche du document, on distingue, pour symboliser les quatre continents connus, un cheval (en haut à droite), un chameau (en haut à gauche), un lion (en bas à droite) et un kangourou (en bas à droite). Sur la partie droite de notre document, un gros plan sur le kangourou de 1593, portant ses deux petits dans sa poche, facile à distinguer.
 
Le frontispice de l’atlas "Speculum Orbis Terrae", du Hollandais Cornelis de Jode, publié en 1593. Sur la partie gauche du document, on distingue, pour symboliser les quatre continents connus, un cheval (en haut à droite), un chameau (en haut à gauche), un lion (en bas à droite) et un kangourou (en bas à droite). Sur la partie droite de notre document, un gros plan sur le kangourou de 1593, portant ses deux petits dans sa poche, facile à distinguer.

A gauche de cette illustration, une reproduction de la première carte portugaise établie à Dieppe par Jean Rotz, en 1542. A droite, l’Australie vue par les Hollandais quasiment un siècle plus tard, aux environs de 1628. Il est clair que les Lusitaniens en savaient beaucoup plus longs que les Néerlandais !
 
 
A gauche de cette illustration, une reproduction de la première carte portugaise établie à Dieppe par Jean Rotz, en 1542. A droite, l’Australie vue par les Hollandais quasiment un siècle plus tard, aux environs de 1628. Il est clair que les Lusitaniens en savaient beaucoup plus longs que les Néerlandais !
Rédigé par Daniel PARDON
 

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lundi, 02 novembre 2015

Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

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Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

Da Hafez a Bashar Al Assad, l'ultimo gruppo politico "panarabo" si è rinnovato pur conservando i suoi valori socialisti e patriottici, tradizionalisti e laici, anti-colonialsti e identitari.
 
 
Ex: http://www.linttelletualedissidente.it
 

In Medio Oriente, nell’universo politico di cultura laica, sono tante e spesso in conflitto tra loro, le personalità che si sono elevate al di sopra delle nazioni per incarnare l’ideale panarabo. Ahmed Ben Bella in Algeria, Gamal Abdel Nasser in Egitto, Saddam Hussein in Iraq, Muammar Gheddafi in Libia, Hafez Al Assad in Siria. Gli uomini passano, le idee restano. Di fronte ai grandi sconvolgimenti della regione, il più delle volte rimodellata dall’esterno, un solo gruppo politico è riuscito a conservarsi nel tempo e a mantenere viva la fiamma di un pensiero politico che ancora oggi appare profondamente attuale. È la storia del Baath, il partito che attualmente governa in Siria e che fa capo al presidente Bashar Al Assad.

Nato nel Rashid Coffee House di Damasco (divenuto successivamente il Centro Culturale Sovietico), dove ogni venerdì un gruppo di giovani studenti provenienti da tutto il Paese – comprese le piccole delegazioni di Giordania, Libano e Iraq – il Baath si riunisce intorno aMichel Aflaq (1910-1989) e Salah Al Bitar (1912-1980), due insegnanti damasceni, rispettivamente di confessione cristiana e islamica, che si erano conosciuti a Parigi quando frequentavano le aule universitarie della Sorbona. Il primo nucleo si costituisce negli anni Quaranta sulle note di Nietzsche, Marx e del romanticismo tedesco, ma l’ufficializzazione del partito si colloca nel 1947 dopo un incontro tra i vertici a Latakia in cui è raggiunto l’accordo sia sul programma politico che sul nome da dare allo schieramento nascente: Baath, ovvero, Partito della Resurrezione araba. Al congresso costitutivo la maggior parte dei delegati sono di estrazione borghese, principalmente notabili delle campagne, e di confessione drusa e alawita, anche se poi saranno sempre di più i cristiani e i sunniti che vi aderiranno.

baath33904400000.jpgCosì mentre si delinea lo scenario di una Guerra Fredda articolata sulla contrapposizione tra due blocchi, quello statunitense e quello sovietico, i teorici Aflaq e Al Bitar mirano a edificare un’ideologia esclusivamente araba che si smarca sia dal capitalismo imperialista che dal marxismo internazionalista e che allo stesso tempo riesca a conciliare laicità, tradizione islamica, socialismo e nazionalismo. Patrick Seale, giornalista irlandese e biografo di Hafez Al Assad scrive ne Il Leone di Damasco parafrasando la dottrina del partito: “La nazione araba, insegna Aflaq, è millenaria, eterna ed unica, risale all’inizio dei tempi e ha davanti a sé un ancor più luminoso futuro. Per liberarsi dall’arretratezza e dall’oppressione straniera, gli arabi devono avere fede nella loro nazione ed amarla senza riserve”.

Michel Aflaq formula così le parole di battaglia e le trasmette al popolo siriano durante le conferenze e tramite gli opuscoli distribuiti in tutto il Paese dai giovani militanti che si organizzano capillarmente in cellule e sezioni. Nel 1953 il Baath fallisce il primo tentativo di colpo di Stato, ma riesce a ramificarsi in tutti i Paesi della regione, principalmente in Iraq. E paradossalmente proprio in Iraq, nel 1963, riesce a conquistare il potere facendo cadere il regime di Abd al Karim Qaem, (il governo baathista durò pochi mesi per poi consolidarsi soltanto qualche anno dopo, nel luglio del 1968, con Ahmed Hasan Al Bakr), aprendo tuttavia la strada a un parallelo capovolgimento in Siria. Nello stesso anno il Baath siriano fu portato al potere dai militari e da essi ricevette il consenso per rimanervi. Fu intrapreso immediatamente un percorso per lo sviluppo del cosiddetto socialismo arabo, tentando di liquidare le basi economiche della vecchia élite ancora legate all’occupazione inglese e francese. Fu applicata la riforma agraria, furono nazionalizzate banche (1963), aziende commerciali e industriali (1965).

Mentre in Iraq, nel novembre del 1963, i militari posero fine al regime bathista, in Siria continuò, pur con tanti problemi interni. Inizialmente fu l’ideatore sunnita Al Bitar ad occupare il potere (1966), poi però fu estromesso dall’ala radicale del partito che decise di espellerlo dal Paese insieme all’altro ideatore Michel Aflaq, il quale si rifugiò in Iraq dove contribuì alla conquista dello Stato nel 1968 (questo esilio fu, oltre all’inimicizia personale tra Hafez Al Assad e Saddam Hussein, uno dei motivi della rottura tra il Baath siriano e quello iracheno). L’espulsione dei due padri fondatori consacrava un nuovo corso: il Baath siriano assunse un carattere più nazionale, se non più alawita, conservando l’ideale “panarabo” come strumento di legittimazione nell’intera regione. Ma la vera svolta avviene nel febbraio del 1971 quando i dirigenti del partito e l’ala militare affidarono il potere ad un uomo che si era fatto spazio nella classe politica, Hafez Al Assad, primo presidente alawita della storia siriana, che orientò immediatamente il Paese verso l’Unione Sovietica, attuò una politica economica di natura socialista e tutelò la laicità dello Stato. Pur dichiarandosi promotore della tradizione islamica nel Paese, tre dei suoi fedelissimi, Jubran Kurieyeh, Georges Jabbur ed Elyas Jibranerano, erano di religione cristiana.

Ma chi era il padre di Bashar? Il generale Hafez Al Assad (1930-2000), nacque a Qardaha, nell’area di Latakia, terzogenito di una famiglia alawita. Svolse i suoi studi primari nel suo villaggio, quelli secondari a Latakia, e nel 1946 si iscrisse al nascente partito Bath, facendosi notare nel 1951 per aver presieduto il congresso degli studenti. Più avanti si iscrisse alla scuola militare di Homs e, appena uscito nel 1955 con il grado di tenente, diventò pilota alla scuola aviatoria di Aleppo. Dopo una serie di vicissitudini interne al Baath e una serie di colpi di Stato falliti (1961, 1963 e 1966) in cui partecipò in prima persona, Hafez al Assad, che acquistò sempre più peso politico, entrò nella direzione del partito nel 1969 e assunse la carica di ministro della difesa nel maggio del 1969. Fu eletto presidente della Repubblica Araba Siriana nel 1970. Con sistemi a volte brutali – tra questi il bombardamento di Hama nel 1982 – riuscì a dare autorevolezza e dignità ad un Paese che in quegli anni era diventato probabilmente il più importante protagonista del Medio Oriente.Giulio Andreotti, che fu uno degli uomini più popolari in quella regione, rimase affascinato dall’omologo siriano. Le autorità sovietiche lo consideravano il miglior alleato nel mondo arabo. Bill Clinton dopo averlo incontrato nell’ottobre 1994 lo definì “duro ma leale”. Il giornalista irlandese Patrick Seale, morto l’anno scorso all’età di 84 anni, è stato il suo “biografo” occidentale. Nel suo libro pubblicato nel 1988, intitolato Il Leone di Damasco(Gamberetti editrice), ritrae fedelmente la figura di un uomo che nel bene e nel male, attraverso il figlio Bashar Al Assad, fa ancora parlare di sé e dell’ideale “panarabo”.

Articolo pubblicato su Il Giornale

La Nouvelle Revue d'Histoire n°81 est en kiosque

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La Nouvelle Revue d'Histoire est en kiosque (n° 81, novembre - décembre 2015)

Le dossier central est consacré aux scandales financiers et à la corruption politique. On peut y lire, notamment,  des articles de Philippe Conrad ("La corruption des « grands ancêtres »" ; "Panama et les « chéquards »"), de Martin Benoist ("1847 : l'affaire Teste-Cubières"), de Christian Lépagnot ("Le duc de Morny et les bons Jecker"), de Jean Kappel ("Le krach de l'Union générale" ; "La Légion d'honneur à l'encan" ; "La cinquième république des « affaires»"), de Clément Mesdon ("L'affaire Stavisky") et d'Olivier Dard ("Politique et finance, les raisons du scandale").

Hors dossier, on pourra lire, en particulier, deux entretiens avec Jean-Paul Bois ("Une nouvelle histoire militaire") et un autre intitulé "Dominique Venner et le Blanc Soleil des vaincus"), ainsi que des articles d'Emma Demeester ("Godefroy de Bouillon. Un preux à Jérusalem", de Philippe Parroy ("Les deux siècles de la croisade d'Orient"), d'Agnieszka Moniak-Azzopardi ("La Grande Guerre, une guerre polonaise ?"), de Laurent Wetzel ("Jean-Paul Hutter, un normalien dans la Wehrmacht") d'Isabelle de La Mettrie ("Décembre 1965. De Gaulle en ballotage") et de Martin Benoist ("Le monde disparu de la Prusse rouge"), ou encore les chroniques de Péroncel-Hugoz et de Philippe d'Hugues....

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vendredi, 30 octobre 2015

Diplomaţia lui Stalin

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Diplomaţia lui Stalin

Istoria secolului nostru este învăţată din punctul de vedere american. La fel este şi în cazul celui de-al doilea Război Mondial, al Războiului Rece şi al Războiului din Golf. În optica americană, secolul XXI este “secolul american”, în care trebuie să se instaleze şi să se menţină o ordine mondială conform cu interesele americane, secol care este simultan “sfârşitul istoriei”, sfârşitul aventurii umane, sinteza definitivă a dialecticii istoriei. Francis Fukuyama, chiar înainte de războiul din Golf, afirma că odată cu căderea Cortinei de Fier şi sfârşitul “hegelianismului de stânga” pe care îl reprezenta URSS-ul, un singur model, cel al liberalismului american, va subzista secole de-a rândul. Cu condiţia ca niciun competitor să nu se zărească la orizont. De unde misiunea americană era aceea de a reacţiona rapid, mobilizând maximum de mijloace, contra oricărei veleităţi de a construi o ordine politică alternativă.

Cu câţiva ani înainte de Fukuyama, un autor germano-american, Theodore H. von Laue, pretindea că singura revoluţie veritabilă în lume şi în istorie era aceea a occidentalizării şi că toate revoluţiile politice non-occidentaliste, toate regimurile bazate pe alte principii decât cele în vogă în America, erau relicve ale trecutului, pe care numai nişte reacţionari perverşi le puteau adula, reacţionari pe care puterea americană, economică şi militară, urma să le măture rapid pentru a face loc unui hiper-liberalism de factură anglo-saxonă, debarasat de orice concurenţă.

Dacă hitlerismul este în mod general considerat ca o forţă reacţionară perversă faţă de care America a contribuit la eliminarea din Europa, se ştiu mai puţin motivele care l-au împins pe Truman şi pe protagoniştii atlantişti ai Războiului Rece să lupte contra stalinismului şi să facă din el un căpcăun ideologic, considerat explicit de către von Laue drept „reacţionar” în ciuda etichetei sale proprii de „progresist”. Această ambiguitate faţă de Stalin se explică prin alianţa americano-sovietică în timpul celui de-al Doilea Război mondial, când Stalin era supranumit în mod prietenos “Uncle Joe”. Cu toate acestea, de câţiva ani, numeroşi istorici revăd în mod inteligent poncifele pe care patruzeci şi cinci de ani de atlantism furibund le-au vehiculat în mass-media şi în cărţile noastre de istorie. Germanul Dirk Bavendamm a demonstrat în două lucrări meticuloase şi precise care au fost responsabilităţile lui Roosevelt în declanşarea conflictelor americano-japonez şi americano-german şi de asemenea care era duplicitatea preşedintelui american faţă de aliaţii săi ruşi. Valentin Falin, fostul ambasador al URSS-ului la Bonn, a publicat în Germania o lucrare de amintiri istorice şi de reflecţii istoriografice, în care acest briliant diplomat rus afirmă că Războiul Rece a început imediat după debarcarea anglo-americană din iunie 1944 pe plajele din Normandia: desfăşurându-şi armada lor navală şi aeriană, puterile occidentale duceau deja un război mai ales contra Uniunii Sovietice şi nu contra Germaniei muribunde.

O lectură atentă a mai multor lucrări recente consacrate multiplelor aspecte ale rezistenţei germane contra regimului hitlerist ne obligă să renunţăm definitiv la interpretarea istoriei celui de-al Doilea Război mondial şi a alianţei anglo-americano-sovietice după modelul convenţional. Ostilitatea faţă de Stalin după 1945 provine mai ales din faptul că Stalin înţelegea să practice o diplomaţie generală bazată pe relaţiile bilaterale între naţiuni, fără ca acestea să fie supervizate de o instanţă universală cum ar fi ONU. Apoi, după ce şi-a dat seama că cele două puteri anglo-saxone deciseseră singure la Casablanca să facă războiul excesiv cu Reich-ul, să declanşeze războiul total şi să ceară capitularea fără condiţii a Germaniei naţional-socialiste, Stalin s-a simţit exclus de aliaţii săi. Furios, el şi-a concentrat mânia în această frază bine ticluită, în aparenţă anodină, dar foarte semnificativă: „Hitlerii vin şi se duc, poporul şi statul german rămân”. Stalin nu considera naţional-socialismul hitlerist ca pe răul absolut sau chiar ca pe o esenţă netrecătoare, ci ca pe un accident al istoriei, o vicisitudine potrivnică Rusiei eterne, pe care armatele sovietice urmau pur şi simplu să caute s-o elimine. Dar, în logica diplomatică tradiţională, care îi aparţinea lui Stalin, în ciuda ideologiei mesianice marxiste, naţiunile nu pier: nu trebuie prin urmare să ceri o capitulare necondiţionată şi trebuie mereu să laşi poarta deschisă unor negocieri. În plin război, alianţele se pot schimba cu totul, aşa cum o arată clar istoria europeană. Stalin se mulţumeşte să ceară deschiderea unui al doilea front pentru a uşura misiunea armatelor sovietice şi a diminua pierderile de vieţi omeneşti în rândul ruşilor, dar acest front nu vine decât foarte târziu, ceea ce-i permite lui Valentin Falin să explice această întârziere ca pe primul act al Războiului Rece între puterile maritime anglo-saxone şi puterea continentală sovietică.

Această reticenţă a lui Stalin se explică şi prin contextul care a precedat imediat epilogul lungii bătălii de la Stalingrad şi debarcarea anglo-saxonă în Normandia. Când armatele lui Hitler şi ale aliaţilor săi slovaci, finlandezi, români şi unguri au intrat în URSS în 22 iunie 1941, sovieticii, oficial, au estimat că clauzele Pactului Molotov/Ribbentrop au fost trădate şi, în toamna lui 1942, după gigantica ofensivă victorioasă a armatelor germane în direcţia Caucazului, Moscova a fost constrânsă să sondeze adversarul său în vederea unei eventuale păci separate: Stalin dorea să se revină la termenii Pactului şi conta pe ajutorul japonezilor pentru a reconstitui, în masa continentală eurasiatică, acel „car cu patru cai” pe care i-l propusese Ribbentrop în septembrie 1940 (sau „Pactul Cvadripartit” între Reich, Italia, URSS şi Japonia). Stalin dorea o pace nulă: Wehrmacht-ul să se retragă dincolo de frontiera fixată de comun acord în 1939 şi URSS-ul să-şi panseze rănile. Mai mulţi agenţi au participat la aceste negocieri, ce au rămas în general secrete. Printre ei, Peter Kleist, ataşat în acelaşi timp de Cabinetul lui Ribbentrop şi de „Biroul Rosenberg”. Kleist, naţionalist german de tradiţie rusofilă în amintirea prieteniei dintre Prusia şi Ţari, va negocia la Stockholm, unde jocul diplomatic va fi strâns şi complex. În capitala suedeză, ruşii sunt deschişi la toate sugestiile; printre ei, ambasadoarea Kollontaï şi diplomatul Semionov. Kleist acţionează în numele Cabinetului Ribbentrop şi al Abwehr-ului lui Canaris (şi nu al „Biroului Rosenberg” care avea în vedere o balcanizare a URSS-ului şi crearea unui puternic stat ucrainean pentru a contrabalansa „Moscovia”). Al doilea protagonist al părţii germane a fost Edgar Klaus, un evreu din Riga care făcea legătura între sovietici şi Abwehr (el nu avea relaţii directe cu instanţele propriu-zis naţional socialiste).

În acest joc mai mult sau mai puţin triangular, sovieticii doreau revenirea la status-quo-ul de dinainte de 1939. Hitler a refuzat toate sugestiile lui Kleist şi a crezut că poate câştiga definitiv bătălia prin cucerirea Stalingradului, cheie a fluviului Volga, a Caucazului şi a Caspicii. Kleist, care ştia că o încetare a ostilităţilor cu Rusia ar fi permis Germaniei să rămână dominantă în Europa şi să-şi îndrepte toate forţele contra britanicilor şi americanilor, trece atunci de partea elementelor active ale rezistenţei anti-hitleriene, chiar dacă este personal dator instanţelor naţional-socialiste! Kleist îi contactează deci pe Adam von Trott zu Solz şi pe fostul ambasador al Reich-ului la Moscova, von der Schulenburg. El nu se adresează comuniştilor şi estimează, fără îndoială odată cu Canaris, că negocierile cu Stalin vor permite realizarea Europei lui Coudenhove-Kalergi (fără Anglia şi fără Rusia), pe care o visau de asemenea şi catolicii. Dar sovieticii nu se adresează nici ei aliaţilor lor teoretici şi privilegiaţi, comuniştii germani: ei pariază pe vechea gardă aristocratică, unde exista încă amintirea alianţei prusacilor şi ruşilor contra lui Napoleon, ca şi cea a neutralităţii tacite a germanilor în timpul Războiului Crimeii. Cum Hitler refuză orice negociere, Stalin, rezistenţa aristocratică, Abwehr-ul şi chiar o parte a gărzii sale pretoriene, SS-ul, decid că el trebuie să dispară. Aici trebuie văzută originea complotului care va duce la atentatul din 20 iulie 1944.

Dar după iarna lui 42-43, sovieticii au revenit la Stalingrad şi au distrus vârful de lance al Wehrmacht-ului, armata a şasea, care încercuia metropola de pe Volga. Partida germană a sovieticilor va fi atunci constituită de „Comitetul Germania Liberă”, cu mareşalul von Paulus şi cu ofiţeri ca von Seydlitz-Kurzbach, toţi prizonieri de război. Stalin nu avea în continuare încredere în comuniştii germani, din rândul cărora a eliminat ideologii nerealişti şi revoluţionarii maximalişti troţkişti, care au ignorat mereu deliberat, din orbire ideologică, noţiunea de „patrie” şi continuităţile istorice multiseculare; finalmente, dictatorul georgian nu l-a păstrat în rezervă, ca bun la toate, decât pe Pieck, un militant care nu şi-a pus niciodată prea multe întrebări. Pieck va face carieră în viitoarea RDG. Stalin nu visa nici un regim comunist pentru Germania post-hitleriană: el dorea o „ordine democratică forte”, cu o putere executivă mai marcată decât sub Republica de la Weimar. Această dorinţă politică a lui Stalin corespunde perfect alegerii sale iniţiale: pariul pe elitele militare, diplomatice şi politice conservatoare, provenind în majoritate din aristocraţie şi din Obrigkeitsstaat-ul[1] prusac. Democraţia germană, care trebuia să vină după Hitler, în opinia lui Stalin, urma să fie de ideologie conservatoare, cu o fluiditate democratică controlată, canalizată şi încadrată de un sistem de educaţie politică strictă.

Britanicii şi americanii au fost surprinşi: ei crezuseră că „Unchiul Joe” va înghiţi fără probleme politica lor maximalistă, ruptă total de uzanţele democratice în vigoare în Europa. Dar Stalin, ca şi Papa şi Bell, episcopul de Chichester, se opuneau principiului revoluţionar al predării necondiţionate pe care Churchill şi Roosevelt au vrut s-o impună Reich-ului (care va rămâne, cum gândea Stalin, în calitate de principiu politic în ciuda prezenţei efemere a unui Hitler). Dacă Roosevelt, făcând apel la dictatura mediatică pe care o controla bine în Statele Unite, a reuşit să-şi reducă adversarii la tăcere, indiferent de ideologie, Churchill a avut mai mari dificultăţi în Anglia. Principalul său adversar era acest Bell, episcop de Chichester. Pentru acesta din urmă, nu se punea problema de a reduce Germania la neant, căci Germania era patria lui Luther şi a protestantismului. Filosofiei predării necondiţionate a lui Churchill, Bell îi opunea noţiunea unei solidarităţi protestante şi-i punea în gardă pe omologii săi olandezi, danezi, norvegieni şi suedezi, ca şi pe interlocutorii săi din rezistenţa germană (Bonhoeffer, Schönfeld, von Moltke), pentru a face faţă belicismului exagerat al lui Churchill, care se exprima prin bombardarea masivă a obiectivelor civile, chiar şi în oraşe mici fără infrastructură industrială importantă. Pentru Bell, viitorul Germaniei nu era nici nazismul nici comunismul, ci o „ordine liberală şi democratică”. Această soluţie, preconizată de episcopul de Chichester, nu era evident acceptabilă de către naţionalismul german tradiţional: ea constituia o întoarcere subtilă la Kleinstaaterei, la mozaicul de state, principate şi ducate, pe care viziunile lui List, Wagner etc. şi pumnul lui Bismarck le şterseseră din centrul continentului nostru. „Ordinea democratică forte” sugerată de Stalin era mai acceptabilă pentru naţionaliştii germani, al căror obiectiv a fost mereu crearea unor instituţii şi a unei paidei puternice pentru a proteja poporul german, substanţa etnică germană, de propriile sale slăbiciuni politice, de lipsa simţului său de decizie, de particularismul său atavic şi de durerile sale morale incapacitante. Astăzi, evident, mulţi observatori naţionalişti constată că federalismul constituţiei din 1949 se înscrie poate destul de bine în tradiţia juridică constituţională germană, dar forma pe care a luat-o, în cursul istoriei RFG-ului, îi relevă natura sa de „concesie”. O concesie a puterilor anglo-saxone…

 

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În faţa adversarilor capitulării necondiţionate din sânul coaliţiei antihitleriste, rezistenţa germană a rămas în ambiguitate: Beck şi von Hassel sunt pro-occidentali şi vor să urmeze cruciada anti-bolşevică, dar într-un sens creştin; Goerdeler şi von der Schulenburg sunt în favoarea unei păci separate cu Stalin. Claus von Stauffenberg, autorul atentatului din 20 iulie 1944 contra lui Hitler, provenea din cercurile poetico-ezoterice din München, unde poetul Stefan George juca un rol preponderent. Stauffenberg este un idealist, un „cavaler al Germaniei secrete”: el refuză să dialogheze cu „Comitetul Germania Liberă” al lui von Paulus şi von Seydlitz-Kurzbach: „nu putem avea încredere în proclamaţiile făcute din spatele sârmei ghimpate”.

Adepţii unei păci separate cu Stalin, adversari ai deschiderii unui front spre Est, au fost imediat atenţi la propunerile de pace sovietice emise de agenţii la post în Stockholm. Partizanii unei „partide nule” la Est sunt ideologic „anti-occidentali”, aparţinând cercurilor conservatoare rusofile (cum ar fi Juni-Klub sau acei Jungkonservativen din siajul lui Moeller van den Bruck), ligilor naţional-revoluţionare derivate din Wandervogel sau „naţionalismului soldăţesc”. Speranţa lor era de a vedea Wehrmacht-ul retrăgându-se în ordine din teritoriile cucerite în URSS şi de a se replia dincolo de linia de demarcaţie din octombrie 1939 în Polonia. În acest sens interpretează exegeţii contemporani ai operei lui Ernst Jünger faimosul său text de război intitulat „Note caucaziene”. Ernst Jünger percepe aici dificultăţile de a stabiliza un front în imensele stepe de dincolo de Don, unde gigantismul teritoriului interzice o reţea militară ermetică ca într-un peisaj central-european sau de tip picard-champenoise, muncit şi răsmuncit de generaţii şi generaţii de mici ţărani încăpăţânaţi care au ţesut teritoriul cu îngrădituri, proprietăţi, garduri şi construcţii de o rară densitate, permiţând armatelor să se prindă de teren, să se disimuleze sau să întindă ambuscade. Este foarte probabil ca Jünger să fi pledat pentru retragerea  Wehrmacht-ului, sperând, în logica naţional-revoluţionară, care îi era proprie în anii 20 sau 30, şi unde rusofilia politico-diplomatică era foarte prezentă, ca forţele ruseşti şi germane, reconciliate, să interzică pentru totdeauna accesul în „Fortăreaţa Europa”, chiar în „Fortăreaţa Eurasia” puterilor talasocratice, care practică sistematic ceea ce Haushofer numea „politica anacondei”, pentru a sufoca orice veleitate de independenţă pe marginile litorale ale „Marelui Continent” (Europa, India, ţările arabe etc.).

Ernst Jünger redactează notele sale caucaziene în momentul în care Stalingradul cade şi armata a şasea este înecată în sânge, oroare şi zăpadă. Dar în ciuda victoriei de la Stalingrad, care le permite sovieticilor să bareze calea spre Caucaz şi Marea Caspică germanilor şi să impiedice orice manevră în amontele fluviului, Stalin urmează mai departe negocierile sale sperând în continuare să joace o „partidă nulă”. Sovieticii nu pun un termen demersurilor lor decât după întrevederile de la Teheran (28 noimebrie – 1 decembrie 1943). În acel moment, Jünger pare a se fi retras din rezistenţă. În celebrul său interviu din Spiegel din 1982, imediat după ce primise premiul Goethe la Frankfurt, el declara: „Atentatele întăresc regimurile pe care vor să le dărâme, mai ales dacă sunt ratate”. Jünger, fără îndoială ca şi Rommel, refuza logica atentatului. Ceea ce nu a fost cazul cu Claus von Stauffenberg. Deciziile luate de către aliaţii occidentali şi de către sovietici la Teheran au făcut imposibilă revenirea la punctul de pornire, adică la linia de demarcaţie din octombrie 1939 în Polonia. Sovieticii şi anglo-saxonii s-au pus de acord să „transporte dulapul polonez” spre Vest prin cedarea unei zone de ocupaţie permanentă în Silezia şi în Pomerania. În atari condiţii, naţionaliştii germani nu mai puteau negocia iar Stalin era din oficiu prins în logica maximalistă a lui Roosevelt, în vreme ce la început o refuzase. Poporul rus urma să plătească foarte scump această schimbare de politică, favorabilă americanilor.

După 1945, constatând că logica Războiului Rece vizează încercuirea şi izolarea Uniunii Sovietice pentru a o împiedica să ajungă la mările calde, Stalin a reiterat oferta sa Germaniei epuizate şi divizate: unificarea şi neutralitatea, adică libertatea de a-şi alege regimul politic după placul său, mai ales o „ordine democratică forte”. Acesta va fi obiectul „notelor lui Stalin” din 1952. Decesul prematur al Vojd-ului sovietic în 1953 nu a mai permis URSS-ului să continue să joace această carte germană. Hruşciov a denunţat stalinismul, a apăsat pe logica blocurilor pe care Stalin o refuzase şi nu a revenit la antiamericanism decât în momentul afacerii Berlinului (1961) şi a crizei din Cuba (1962). Nu se va mai vorbi despre „notele lui Stalin” decât înainte de perestroika, în timpul manifestaţiilor pacifiste din 1980-1983, când mai multe voci germane au reclamat afirmarea unei neutralităţi în afara oricărei logici de tip bloc. Unii emisari ai lui Gorbaciov vor mai vorbi despre acele note şi după 1985, mai ales germanistul Viatcheslav Dachitchev, care a luat cuvântul peste tot în Germania, chiar şi în câteva cercuri ultra-naţionaliste.

În lumina acestei noi istorii a rezistenţei germane şi a belicismului american, putem să înţelegem într-un mod diferit stalinismul şi anti-stalinismul. Acesta din urmă, de exemplu, serveşte la răspândirea unei mitologii politice false şi artificiale, al cărei obiectiv ultim este să respingă orice formă de concert internaţional bazat pe relaţiile bilaterale, să impună o logică a blocurilor sau o logică mondialistă prin intermediul acestui instrument rooseveltian care este ONU (Coreea, Congo, Irak: mereu fără Rusia!), să stigmatizeze din start orice raport bilateral între o putere medie europeană şi Rusia sovietică (Germania în 1952 şi Franţa lui De Gaulle după evenimentele din Algeria). Antistalinismul este o variantă a discursului mondialist. Diplomaţia stalinistă era, în felul ei şi într-un context foarte particular, păstrătoare a tradiţiilor diplomatice europene.

Bibliografie:

– Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Weg zum Krieg. Amerikanische Politik 1914-1939, Herbig, München, 1983.

– Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Krieg 1937-45 und das Rätsel von Pearl Harbour, Herbig, München, 1993.

– Valentin FALIN, Zweite Front. Die Interessenkonflikte in der Anti-Hitler-Koalition, Droemer-Knaur, München, 1995.

– Francis FUKUYAMA, La fin de l’histoire et le dernier homme, Flammarion, 1992.

– Klemens von KLEMPERER, German Resistance Against Hitler. The Search for Allies Abroad. 1938-1945,  Oxford University Press/Clarendon Press, 1992-94.

– Theodore H. von LAUE, The World Revolution of Westernization. The Twentieth Century in Global Perspective,  Oxford University Press, 1987.

– Jürgen SCHMÄDEKE/Peter STEINBACH (Hrsg.), Der Widerstand gegen den National-Sozialismus. Die deutsche Gesellschaft und der Widerstand gegen Hitler,  Piper (SP n°1923), München, 1994.

Traducere: Vladimir Muscalu

Sursa: http://robertsteuckers.blogspot.ro/2011/12/normal-0-21-false-false-false_29.html

[1] Statul autoritar (n. tr.)

mercredi, 28 octobre 2015

Edmund Burke en de mensenrechten

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Door: Tom Potoms

Solide solidaire samenleving

Edmund Burke en de mensenrechten

Ex: http://www.doorbraak.be

Een solide solidaire samenleving kun je moeilijk uitbouwen met een liberaal opengrenzenbeleid. Dat wist Edmund Burke al.

Met de recente vluchtelingencrisis en bijbehorende (politieke en sociaal-economische) uitdagingen voor het beleid is er ook een interessante discussie ontstaan rond de praktische invulling of interpretatie van het begrip 'mensenrechten'. Tevens hoor je weer her en der de interessante tegenstelling tussen diezelfde mensenrechten (die een 'universeel' karakter dienen te hebben) enerzijds en burgerrechten (die gekoppeld zijn aan het territorium of de jurisdictie waar men zich bevindt). 

Dit debat is zeker niet nieuw en bovendien is het boeiend om de aloude filosofische tradities te zien opduiken binnen een actueel politiek debat. Aan de 'progressieve' kant van het politieke spectrum hoor je voornamelijk dat de nadruk gelegd wordt op het feit dat vluchtelingen mensen in nood zijn en omwille van dat 'mens-in-nood-zijn' dient men, de logica van de mensenrechten volgende, hen op eenzelfde voet te behandelen (in juridische termen) als de eigen burgers. 

Meer conservatieve politici en denkers zijn een eerder trapsgewijze benadering genegen. Zo kennen we inmiddels de voorstellen van Bart De Wever die een apart statuut voor vluchtelingen voorstelt, met onder meer ook een latere uitbetaling van kindergelden. 

Hoewel de concrete (beleidsgeoriënteerde, technische) invulling anders is, deze discussies gaan terug naar de tijd van de Franse Revolutie, waar men ook soms de geboorte van de moderne politieke links-rechtsopdeling situeert. 

Gematigde versus radicale Verlichting

Binnen de Europese filosofische traditie kan men een zekere lijn trekken waarbij we aan de ene zijde de 'Schotse variant' van de Verlichting terugvinden (met denkers als David Hume, Adam Smith en Adam Ferguson) en anderzijds de Franse versie (o.m. Voltaire, Rousseau, Condorcet). Grof gesteld kan men zeggen dat de eerste richting veeleer de nadruk legt op gewoontes, traditie en maatschappelijke regels als nuttige (zelfs noodzakelijke) aspecten om onze doeleinden (vaak aangedreven door passies, driften …) tot een succesvol einde te brengen. De Schotse school stond dan ook (ongeacht de zeer eenzijdige moderne lezing van bijvoorbeeld Smith zijn ‘onzichtbare hand') eerder sceptisch ten aanzien van ideeën op het Europese continent (in Frankrijk en Duitsland) rond het geloof in de zuiver rationele vermogens van individuen. 

Hoewel zeker een scherp en interessant onderscheid tussen diverse continentale Verlichtingsfilosofen gemaakt kan worden, zien we dat binnen de Franse traditie (met de cartesiaanse twijfel als methodologisch instrument) de idee van maatschappelijke regels die gefundeerd dienen te worden in rationele analyse vruchtbare grond vond. Uit het idee van individuen als vrije, autonome en rationele wezens, behept met zekere universeel geldende rechten, ziet men dan ook veeleer de moderne progressieve idee van politiek als een instrument tot 'social engineering'. Instituties, gewoontes en regels die men niet kan funderen vanuit rationalistische kritiek zijn 'imperfect' en dienen vervangen te worden. 

Denkers die binnen de traditie van de Schotse school werken, o.m. conservatieve en klassiek-liberale denkers, hameren op het feit dat vele instituties en maatschappelijke regels ontstaan uit een lang evolutionair (historisch) proces en moeilijk samen te vatten of te funderen zijn in rationele analyse. Toch zijn zulke regels uitermate nuttig, precies omdat ze ontstaan zijn uit een lang evolutionair  trial and error -proces. Regels die niet voldoende effectief zijn in de verwezenlijking van individuen hun doeleinden zullen na verloop van tijd verdwijnen. Deze redeneerstijl kan men terugvinden in de kritiek van Friedrich August von Hayek op het socialisme (en aanverwante 'constructivistische' ideologieën) om de maatschappij te hervormen op basis van 'rationele' analyse'. 

Edmund Burke en de mensenrechten

In deze context is ook de Iers/Britse politicus Edmund Burke (1729-1797) van tel. Burke geldt als een inspiratiebron voor N-VA voorzitter Bart de Wever. Daarom ga ik na wat de 'vader van het moderne conservatisme' te zeggen had over mensenrechten. 

burke781108018845.jpgVooreerst is het belangrijk om op te merken dat sommigen een schijnbare paradox vaststellen bij Burkes gedachtegoed. Zo was hij enerzijds een fervente criticus van het Britse koloniale bestuur in Indië en ondersteunde hij de Amerikaanse revolutionairen in hun onafhankelijkheidsstrijd, anderzijds was hij een fervente tegenstander van de Franse revolutionairen. De meeste auteurs wijzen echter op de continuïteit die men in deze attitudes aantreft, vooral wanneer men nauwgezet de Reflections on the revolution in France (1790) erop naleest. In dit werk, waarvoor hij zo bekend (of berucht) is geworden als vader van het moderne politieke conservatisme, maakt hij een duidelijk onderscheid tussen de traditie van de (Engelse) Glorious Revolution (1688) (en die hij ook terugvond bij de Amerikaanse revolutie) en de Franse revolutionairen van 1789 en nadien. 

Bij de Engelse en Amerikaanse revoluties, zo beargumenteert Burke, ging het niet om het opeisen van universele, natuurlijke rechten van individuen die men moest institutionaliseren, maar veeleer om het verdedigen van de oude gevestigde rechten en wederzijdse verplichtingen (krachtsverhoudingen) tussen vorst en maatschappij. Zoals Burke noteert: 

'The Revolution [De Engelse Glorious Revolution waarbij James II werd vervangen door Willem III van Oranje, hetgeen final resulteerde in de Bill of Rights, 1689, TP] was made to preserve our ancient, indisputable laws and liberties, and that ancient constitution of government which is our only security for law and liberty. If you are desirous of knowing the spirit of our constitution, and the policy which predominated in that great period which has secured it to this hour, pray look for both in our histories, in our records, in our acts of parliament, and journals of parliament, and not in the sermons of the Old Jewry, and the after­dinner toasts of the Revolution Society [Een Engels radicaal genootschap, TP].'

Belangrijk in de kritiek van Burke is het gegeven dat 'abstracte' principes (zoals het formuleren van natuurlijke rechten), wanneer ze los komen te staan van het gewoonterecht en tradities die geëvolueerd zijn binnen een samenleving ('circumstances' ) aanleiding geven tot een erosie in gezag van de gevestigde instituties en dit heeft op zijn beurt weer verregaande niet-bedoelde (en potentieel zeer schadelijke) zij-effecten: 

'These metaphysic rights entering into common life, like rays of light which pierce into a dense medium, are by the laws of nature refracted from their straight line. Indeed, in the gross and complicated mass of human passions and concerns the primitive rights of men undergo such a variety of refractions and reflections that it becomes absurd to talk of them as if they continued in the simplicity of their original direction. The nature of man is intricate; the objects of society are of the greatest possible complexity; and, therefore, no simple disposition or direction of power can be suitable either to man's nature or to the quality of his affairs. When I hear the simplicity of contrivance aimed at and boasted of in any new political constitutions, I am at no loss to decide that the artificers are grossly ignorant of their trade or totally negligent of their duty.'

Een van die onvoorspelbare zij-effecten op politiek vlak, aldus Burke, zou zijn dat het verval van de gevestigde machten kan leiden tot initieel anarchie en chaos waarop dan enkel een tiranniek regime de orde zou kunnen herstellen. Dit heeft men uiteraard effectief vastgesteld in de Jakobijnse Terreur en het daaropvolgende napoleontische bewind. 

Die prudentiële houding tegenover het formuleren van universele rechten, wars van praktische toepasbaarheid binnen historische sociale omstandigheden, vormt de basis van Burke zijn notie van rechten en vrijheden. Op die manier kan men Burke dus veeleer aan de kant van de burgerrechten plaatsen. Burke wenste evenwel niet over te gaan tot een volledige verwerping van welbepaalde burgerlijke vrijheden en rechten:

'The pretended rights of these theorists [de voorstanders van 'abstracte, natuurlijke' rechten, TP] are all extremes; and in proportion as they are metaphysically true, they are morally and politically false. The rights of men are in a sort of middle, incapable of definition, but not impossible to be discerned. The rights of men in governments are their advantages; and these are often in balances between differences of good; in compromises sometimes between good and evil, and sometimes, between evil and evil.'

Lessen voor vandaag? 

De kritiek van klassiek-conservatieve denkers als Burke is uiterst pertinent en dient men serieus te nemen, zeker in het licht van de goede voorspellingen die vervat zitten in het doortrekken van 'abstracte' en 'rationalistische' principes om te komen tot maatschappelijke veranderingen. Totalitarisme (zoals vertegenwoordigd in nationaalsocialisme en communisme) is immers gefundeerd, aldus Hannah Arendt in haar Origins of Totalitarianism (1951), in het koelbloedig toepassen van logisch denken: 'This stringent logicality as a guide to action permeabel the whole structuren of totalitarian movements and governments.'

De reden waarom zoveel mensen uiterst verontwaardigd reageren op bepaalde pleidooien om rechten louter vanuit de bril van burgerrechten te bekijken, is uiteraard dat deze houding zeer snel kan ontaarden tot een egocentrisch of opportunistisch politiek discours, waarbij men de angsten van burgers exploiteert voor electorale motieven. Dit is soms een terechte vrees (waarmee ik mij niet uitlaat over de motieven van bijvoorbeeld Bart De Wever) en daar dienen we ook een afdoende theoretisch antwoord op te formuleren. 

Een goede bron daartoe is de al aangehaalde Hannah Arendt. Zij was zich, als Joodse Duitser, maar al te zeer bewust van enerzijds een doorgedreven ontkennen van menselijkheid als universeel principe en anderzijds de zwakte van 'mensenrechten' om aanvallen op de rechten van individuen tegen te gaan. Arendt formuleerde daarom, uitgaande van een gedeelde menselijkheid (en dus een zeker universalisme) als alternatief het 'recht op rechten', wat impliceert dat elk individu het recht heeft om tot een politieke gemeenschap te behoren. Dit sluit een permanente uitsluiting vanwege elke gemeenschap van bepaalde individuen uit, maar vereist daarentegen ook niet dat men een opengrenzenbeleid moet voeren. 

In die zin kan ik mij, als gematigde sociaaldemocraat die sterk geïnspireerd is door Hannah Arendt, volmondig scharen achter een gefaseerde, stapsgewijze toekenning van rechten. Niet alleen vervalt dit niet in een onhaalbaar en schadelijk (in de zin van het opbreken van het ongeschreven sociale contract tussen burgers, die de fundering is voor solidariteit binnen een politieke gemeenschap) idealisme, maar ook niet in een opportunistisch egoïsme. Ik zou dan ook mijn collega's aan de linkerzijde, zeker binnen de sociaaldemocratie, oproepen om deze moeilijke, maar gezonde middenweg, te bewandelen. Zeker indien men bekommerd is om het instandhouden van de broze en noodzakelijke ondersteuning vanuit de burgers voor de systemen van herverdeling en solidariteit (de sociale zekerheid). Met egoïsme heeft dit niets te maken, integendeel. Zoals de Amerikaanse Democratische presidentskandidaat (en zelfverklaard 'democratisch socialist') Bernie Sanders onlangs stelde: het zijn liberale tegenstanders van de welvaartsstaat die de meeste belangen hebben bij een volledig opengrenzenbeleid.

 

samedi, 17 octobre 2015

La rivoluzione nazionale di Filippo Corridoni

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La rivoluzione nazionale di Filippo Corridoni

da Gennaro Malgieri
Ex: http://www.barbadillo.it

FilippoM849659.jpgIl 23 ottobre di cento anni fa Filippo Corridoni, giovane sindacalista rivoluzionario, già affermato agitatore politico, interventista, cadeva eroicamente all’età di 28 anni, dopo pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, nella cosiddetta «Trincea delle Frasche», nei pressi di San Martino del Carso. Il giovane soldato guidava un drappello di commilitoni cantando l’inno di Oberdan, avvicinandosi alle postazioni austriache. La sua «leggenda» fiorì immediatamente.

 

Il fascismo ne fece un precursore della «rivoluzione nazionale». Mussolini, che gli era stato amico e con lui aveva condiviso le battaglie sindacaliste e interventiste, s’impegnò personalmente nella costruzione del «mito». La città natale, Pausula, nelle Marche, prese il nome di Corridonia; un monumento venne eretto a Parma, teatro di alcune delle sue più significative «gesta» rivoluzionarie; in tutti i borghi e le città italiane gli venne dedicata una strada.

Come si conviene quando si tratta di un martire che è stato pure un precoce ideologo, oltre che attivissimo militante, nel rievocarne la figura generalmente si è più portati ad enfatizzarne il sacrificio piuttosto che a scandagliarne il pensiero. È questo il destino toccato a Corridoni la cui elaborazione culturale all’interno del movimento rivoluzionario social-sindacalista è restata sullo sfondo della sua azione lasciando incompresa la portata innovatrice della sua concezione «sovversiva» agli inizi del Novecento. La maggior parte degli scritti a lui dedicati tra le due guerre hanno infatti avuto quasi esclusivamente intenti apologetici. È indubitabile che questa «limitazione» abbia nuociuto alla diffusione delle idee corridoniane. Tuttavia, pur attribuendo all’immatura morte la ragione principale della notorietà di Corridoni, non è detto che essa non la si possa considerare come il punto più alto e conclusivo della sua stessa militanza rivoluzionaria e inquadrarla, pertanto, al di là delle oggettive valenze umane, come la «materializzazione» di una parola e di un pensiero coerenti con un’azione complessivamente dispiegata in funzione dell’affermazione di una visione del mondo e della vita che prevedeva anche il sacrificio supremo.

Filippo_Corridoni.jpgLa morte di Corridoni, quindi, ha tutto il senso di un «sacrificio liberatorio» sotto due aspetti: la rivendicazione dell’indipendenza nazionale e l’affermazione dello «spirito nuovo» che muoveva i rivoltosi degli anni Dieci del Ventesimo secolo reclamanti nuove solidarietà in vista del «bene comune» della nazione che pretendevano finalmente sottratta, anche moralmente, all’egemonia della borghesia che aveva fatto il Risorgimento.

Il corpus dottrinario corridoniano è tutt’altro che povero, oltretutto derivato dalla «lezione» di Georges Sorel, riferimento primario di tutti i sindacalisti rivoluzionari. Ecco perché aver legato la sua fama quasi esclusivamente all’impegno interventista e all’episodio bellico che lo vide tragicamente protagonista, sembra un’ingiustizia. Così come è ingiusto ritenere che l’aver trovato la morte in giovane età non abbia permesso a Corridoni di esprimere compiutamente una coerente concezione del sindacalismo che, caratterizzato da una perfetta adesione tra teoria e prassi rivoluzionaria, per quanto fosse acceso, passionale, romantico non si nutriva dunque soltanto di apriorismi filosofici, né di mera attività «sobillatoria». Esso era piuttosto il risultato della contemperanza tra l’elemento volontaristico-spirituale, mutuato dalla lettura precoce di alcuni testi di Friedrich Nietzsche, e delle ragioni materiali del proletariato italiano su cui si era a lungo esercitato frequentando la scolastica marxista. Da qui il suo tentativo di elevare le categorie lavoratrici attraverso il cosiddetto «sindacato di mestiere», fino a portarle al diritto di cittadinanza nel governo della produzione economica. Dunque, il sindacalismo di Corridoni, segnato da un processo formativo assai fecondo, teso a «spiritualizzare» e a «nazionalizzare» il proletariato italiano, lo si può definire «eroico» e come tale avente una particolare connotazione rispetto alle altre tendenze del sindacalismo del tempo ed in specie di quelle proprie del sindacalismo rivoluzionario nel cui alveo la dottrina corridoniana s’innesta.

Corridoni e Mussolini, che ritenevano la guerra l’occasione rivoluzionaria per eccellenza, nel maggio 1915 infiammarono Milano con riunioni e comizi. Il giovane «sovversivo» si arruolò volontario, insieme con altri compagni di lotta. Dopo un breve noviziato in trincea arrivò all’appuntamento con la morte. Il suo corpo non fu mai ritrovato. (da Il Tempo)

@barbadilloit

Di Gennaro Malgieri

lundi, 12 octobre 2015

Histoire, mémoire, identité

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Charles Maurras & Action Franҫaise

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Charles Maurras & Action Franҫaise

The following text is the transcript by V. S. of Jonathan Bowden’s last lecture, delivered at The London Forum on March 24, 2012. The original title was “Charles Maurras, Action Franҫaise, and the Cagoule,” but since he does not mention the Cagoule, I dropped it from the online version. I want to thank V. S. for transcribing a largely unlistenable audio track, and Michèle Renouf and Jez Turner for making the recording available. 

French Action was largely a newspaper, but it extended out into a political movement between the First and Second World Wars and to a certain extent the second decade of the 20th century just passed, so after the first of those two wars. What made Action Franҫaise so special was the theoretical and literary contribution of Charles Maurras.

Maurras was born in Provence. He was an intellectual who was drawn to a kind of revolutionary tradition in French life. France had always been characterized until the later 19th century by a significant quadrant of the population who rejected the logic of the French Revolution. The French Revolution, which lasted from 1789 until Napoleon’s essential conquest of military power in the French Republic in 1796 and his full dictatorship in 1799 thereafter to 1815, was a period of extraordinary and grotesque change the likes of which European civilization had not seen before. Considerable parts of France, like the Vendée and elsewhere, also fought against the revolutionary tyranny of that time. These were known as the Whites, or the counter-revolutionaries. This tradition of regretting the French Revolution was part of High Catholicism and part of the deep social conservatism of sections of the bourgeoisie that existed in France throughout the existence of the Third Republic.

The Third Republic was created after the collapse of France’s military honor in 1870 when the Prussians badly defeated France in the territorial war between two major European states. The emergence and unification of Prussia on the disemboweled and disinherited torso of modern France was something the French took very much to heart. Particularly in 1871, there was a communistic uprising in Paris known as the Commune which started in a particular period and which French troops put down in an extremely bloody and savage way with the sponsorship of German arms behind them in the rear.

Now, Maurras believed totally in what he called “integral nationalism” or nationalisme intégral. This is the idea that France came first in all things. Regarded as a “Germanophobe” for most of his life, Maurras escaped death after the Second World War during the period of purification when a large number of politicians, collaborators, Vichyites, revisionists, quasi-revisionists, independently minded Right-wing intellectuals, and many people who fought in the Middle East and were involved in some way or another with the Vichy regime were put to death or were hounded from the society. The trial that Maurras had at this particular time was truncated and was laughable in terms of French statute then or since.

The Resistance was very much enamored with the prospect of guillotining Maurras, seeing him as the spiritual father of Vichy. However, there was a degree to which this was an incorrect assessment, because de Gaulle had sat at Maurras’ feet during much of his early life. The interesting thing about Maurras is that he did not just influence the French radical Right, he influenced the entire French Right and he provided all of the families of the French Right, particularly those who looked to a more Orléanist monarchical replacement, those who looked to a Bourbon monarchical replacement (this is the Republic, of course), those who looked to a Napoleonic claim, and those that wanted a different type of Right-wing republic. All of these found in Maurras’ theories sustenance for the soul.

Maurras was released from prison into a hospital in the early 1950s and died soon after. He died in a degree of disgrace, and yet there’s also a degree to which that disgrace was not complete nor did it totally fill the sky. Maurras was removed from the Académie Française, the French Academy, which is the elixir of conservative and reactional and literalist and neo-classical standings in French intellectual life, yet he was reposed by somebody who was almost identical to him given the aged and conservative conspectus of the academy.

There is a degree to which Maurras identified four enemies of the French nation as he perceived them from early on in his political career and before the creation of the Action Française movement, which was an anti-democratic movement and which never took part in parliamentary elections. We shall come on to the view that politics was primary for Maurras, unlike spirituality and religion, in a moment.

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Maurras believed that these four “anti-nations” within France were Protestants, Jews, Masons, and all foreigners living on French territory. He perceived all of France as essentially sacred and universal in expectancy and energy. He believed that the Third Republic was a rotten, bourgeois counterpace that needed to be ripped down and replaced by absolutist, legitimist, and monarchical tendencies. Unlike the post-war radical Right in France which has made peace with the Republic for reasons of electoral viability, such as the Front National for example which never even intimates that it would like to restore the monarchy if it was ever put anywhere near power, Maurras and his associates were obsessed with monarchical restoration. This gave their type of Rightism a deeply reactionary and deeply counter-revolutionary cast of thought, but it is important to realize that these things were significantly popular in large areas of French national life. Large areas of the unassimilated aristocracy, the upper middle class, most of the upper class, and even parts of the essentially middle bourgeoisie, retained a suspicion of the legacy of the French Revolution and wished to see the recomposition of France along monarchical lines. These policies even lasted well into the 20th century, even beyond the Second World War. Even into the 1960s a better part of 5% of the French nation rejected the logic of the French Revolution, which is a quite extraordinary number of people given the fact that the revolutionary inheritance had lasted so long and had been re-imposed upon the country after the revolutions, themselves abortive, in 1848.

Maurras believed that France needed a strong and social Catholicism in order to be viable. This is complicated given his own tendentious hold on religious belief. Maurras, though never an atheist, rejected the early, comforting Catholicism of his childhood youth and was an agnostic for most of his life. This did not prevent him from adopting a viewpoint which was fundamentalist in relation to Catholic rigor and in the belief of what would now be called traditionalist Catholicism since the Vatican II settlement of the early 1960s, which in Catholic terms began to liberalize the Church and adapted it to a modern, secular age inside of France and beyond its borders.

Maurras believed that spirituality was intensely important for a people and without it a people rotted and became as nothing. He therefore supported radical religion as a maximalizing social agenda whilst not believing in it himself. Indeed, he implicitly distrusted much of the Gospel message and found the Old Testament disastrous in its pharisaical illumination.

Maurras believed that Christianity was a useful tool that an elite would make use of in order to create a docile, happy, contented and organic society. This means that the papacy was deeply suspicious of Maurras despite the fact that politically he seemed to be a drummer boy for what they might have been perceived to want. This led to the prorogation of the Action Française movement by the Vatican at a particular time. I believe this occurred in the 1920s and was not rescinded until 1939 by which time Maurras had been elected to the Académie Française. The Vatican was concerned at the agnosticism from the top and the synthetic use of Catholicism as a masking agent and cloaking ideology for Right-wing politics inside France that it otherwise found quite a lot to support in. There were enormous numbers of clergy in the Action Française as a movement, and they were shocked and horrified by the removal of papal support which undercut support for the Action Française from key sectors of French life at a particular time.

Maurras believed in anti-Semitism as a core element of his ideology and beliefs. He believed that Jews should have no role in national life and no role whatsoever in the sort of France which he wished to see. Although they had not been responsible in any sort of way for much of the events of the French Revolution, he believed that their emancipation, as the emancipation had occurred in Germany, Britain, and elsewhere during the 19th century, had led to a collusion of interests which were detrimental to the sacred nature of France.

He was also strongly anti-Protestant and anti-Masonic and had a view of nationality which is regarded almost as simple-minded today. He basically thought that to command a status within the French nation you had to be French in word, in deed, and in prior cultural inheritance. It wasn’t any good to claim that you were French. You had to be French in terms of the self-limiting definitions of what it was to be national. This meant that there were radiating hierarchies within France as within other European societies inside modernity. This was the idea that some people were more French than others and this implicit elitism was always part and parcel of the nature of his movement.

It’s important to realize that there was an intellectual complexity about French Action which commands a considerable degree of respect, especially from a distance. French Action appealed to an enormous number of intellectuals across the spectrum even though it was sold by quasi-paramilitaries in the street. The youth wing and the radical wings of the Action Française movement were known as the Knights of the King, Camelots du Roi, and they sold these publications in the streets, often engaging in ferocious fights with Left-wing street gangs who attempted to crowd the same pitches, particularly in Montmartre in the center of Paris and the centers of other urban areas.

Maurras believed in action in the streets as a part of politics and disprivileged voting, which he thought was sterile, bourgeois, majoritarian, and anti-elitist. One wonders if there was ever a coherent structure to come to power in the Action Française movement and the only way in which this can be corralled with the historical evidence is to see the Action Française as a [inaudible] group for a particular type of restorationist, social conservatism, and Catholicism inside France.

If Maurras’ vision had been successful, you would have had a national France with an extremely strong and powerful monarchy and an extremely strong and powerful, even hermetic Catholic clergy at the heart of the nation. You would have had strong military and other institutions that ramify with other elements of this traditional French power as expressed in Bourbon restorationist and pre-revolutionary and post-revolutionary Romantic royalist France.

Maurras believed that to be happy people had to be content in the structures of their own livery and their own inheritance. The inheritance of the French nation was all-important, and this is why he collaborated with Third Republic politicians such as General Boulanger towards the end of the 19th century. He did this in order to undermine the nature of the liberal republic and lead to reforms and authoritarian constitutions within it which would have served his purpose. He supported a large range of bourgeois, radical, and liberal politicians at the time of the First World War, which he thought was a national surprise of glory and a chance for France to redeem herself on the battlefield against a traditional enemy, which he always perceived as Germany.

This is the area where Maurras is most disprivileged by contemporary nationalist thinkers across Europe and even beyond. His obsession with Germany and with Germany’s strength and his belief that France was belittled by any strength in Germany led him to support French arms in both the First World War 1914-1918 and the Second World War 1939-1945. Initially, he supported de Gaulle and de Gaulle’s use of tank warfare in the early stages of the Second World War. Of course, by the time de Gaulle became supreme commander of French forces, France would be decimated on the battlefield and there was nothing left to repair or even to defend. Guderian, who had read all of the theory which de Gaulle had based his own warfare predictions upon, had already trumped that particular card, and the Germans used British and French ideas about tank warfare to defeat both the British Expeditionary Force and the French army in France. Seizing with revolutionary energy the generational gap in the conduct of warfare, the Germans routed and humiliated the French, who had fought them to a standstill in the past in the Great War, in a matter of weeks, by maneuvering around the Maginot Line and by passing through the allegedly impassable Ardennes Forest to appear behind French lines with roving and energetic Panzer squadrons backed by Stuka bombers.

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This catastrophe became a divine and a national surprise to Maurras. Maurras never actively collaborated although nearly all those in his circle would find themselves involved in the Vichy government at one time or another. Vichy began an institutionalization of a revolution from above and a national revolution within France largely permitted under German auspices, particularly in the early years before the radicalization and momentum building of what became the French Resistance under British artillery and the Gaullist movement in opposition and exile.

Maurras believed that the only true purpose of a Frenchman was to enhance the glory of France and all other was tackle and blither. He believed that during the German occupation it was best for French ideologues such as themselves to retreat to his family estate and live there in quietude even though many of his philosophical children collaborated openly with German arms both within and beyond Vichy. People like Laval and Déat with his neo-socialist movement and people like the founder of the French Popular Party, Doriot, the Parti Populaire Français (PPF) all collaborated in various degrees and were influenced by an attraction or repulsion to Maurras’ ideas in one form or another. He was truly the great old man of the French Right by this time.

After the war, the resistance sought to blame Maurras for much of the collaboration that had gone on, including the expulsion of some Jews from France, the international humiliation, as they perceived it, of French subjection to German arms, and the neo-colonial aspects within Europe of German policy in the French nation-state. It’s true to point out, however, that German military rule in France was surprisingly liberal and even benign in comparison to the full-on fury that could be exercised elsewhere in accordance with radical ideologies that had little to do with the calm, cultural intensity when Colonel Abetz met Robert Brasillach for coffee and croissants in a bar in Paris during the French occupation. There was intense collaboration between the young, former students of Maurras like Brasillach, who edited a fascist magazine called Je suis partout which means “I am everywhere,” and cultural Germans such as Abetz who were part and parcel of the German regime that had been installed over Vichy and to one side of it to allow Right-wing Frenchmen to run their own country albeit under German auspices. The relationship was probably somewhat similar to the relationship of American imperialism and its client states in the Third World such as Karzai’s regime in Afghanistan which controls Afghanistan though ultimately beholden to American power in that particular society.

Maurras wasn’t guillotined after the war because he significantly told at his trial, “Nobody hates the Germans more than me.” And this is what saved him from the guillotine, because the Resistance, although they were dying to guillotine him and would have given their eyes and teeth for it, because this gnarled, knotty Frenchman was irreducible on that point. So, they gave him life imprisonment instead which, as an old man, was effectively a death sentence in and of itself. When it was read out to him in the court, a steaming Maurras leapt from his seat and declared that, “It was the revenge of Dreyfus!” An otherwise obscure reference, which for those who are culturally knowledgeable about the entire extensive life of Maurras would have realized refers to the Dreyfus case at the end of the 19th century.

This is again an important disjunction between Maurras and much of the rest of the Right. Maurras was not concerned whether Dreyfus was guilty or not of passing secrets and engaging in espionage, of helping a foreign power, and so on. What he was concerned with is the dishonor done to the French judiciary if he was not found guilty and done to the French army and national state society if he was now to get away with this. This idea that an individual could be found guilty for connective and social-organic reasons irrespective of whether they were actually guilty of the offense one-to-one and in the customary nature of normal life is anathema to liberal ideas of the sovereignty of the individual that should be placed in a premium position in relation to all social actions.

Maurras was a fundamentalist anti-Dreyfusard and was part of a campaign spearheaded by elements of the revanchist Catholic Church and post-Boulanger elements in the French Republic to the extent that Dreyfus should be found guilty and executed if possible. For many like Maurras, the actual condemnation of Dreyfus which ensued and his being sent to Devil’s Island in the Caribbean was a minor punishment in comparison to the ingloriousness of the episode for France and what it told you about the conduct of the French national general staff at that time.

The Dreyfus case divided France between brother and brother, between father and children, between man and wife like no other case that had convulsed the nation in the course of its late 19th century/early 20th century development. It was truly one of those instances which define a generation. When Zola wrote J’accuse…! And accused the French police, army and courts of essentially fixing on an unfortunate man and blaming him for the sins of others and deporting him to Devil’s Island as a result of a false charge, he laid an explosive mound at the bottom of French national life which men like Maurras were determined to defuse.

Maurras believed that the English were always perfidious and were always against the divine France, although there were moments when he sought collaboration with English and British figures but always against the more dreaded bogey of Germany. It could be seen from a distance that Maurras’ nationalism has negative and anti-European features, although its simplicity and its purity about who belongs and who doesn’t belong is very clear and is easy to sustain. His views were not particularly racial beyond the fact that France was the leading light of world civilization and had to be treated as such. It was quite clear what he meant by who he was and who he was not, a Frenchman or a French woman, in the era in which he lived. You inherited genealogically what you were from the generations that had lived in the society prior to you and you were a Catholic and you were, to all intents and purposes, a reasonably pious one and you yearned for the return of the monarchy in France as against the secular republican institutions which replaced the monarchical structures of the Bourbon era after the Revolution and again after the Restoration which followed after the Revolution. You were not Protestant and you were not a Mason and you were not a Jew and you were not a foreigner and you were not of foreign mixture, namely of non-national French admixture. These things are quite clear and quite capacious in their reasonableness.

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There’s a degree to which Maurras’ intense nationalism has fueled an enormous amount of the radical Right that exists in the south of Europe and the southeast of Europe and further in Central and Latin America where its ideas have been taken to heart by many Dominican, Costa Rican, Brazilian, and Argentinian nationalist writers and thinkers and academics. His thinking is also most crucial to the development of Catholic societies and, of course, he has little social interplay with the Anglo-Saxon world. Maurras seems to have little to say to Anglo-Saxony, though much to say to the integral nature of the nation which is always the defiant and unyielding France.

Where did Maurras get his opinions from? A strong bourgeois background and an affiliation with the French provinces led to an identification with the rural ideal of France as a place touched by the glory of God, even a deity that he didn’t subscribe to for much of his active life. Maurras believed that France had a new destiny amongst all of the nations on Earth not to bring people together, not to supervise people and not to be loyal to Swiss institutional ideas, as he dismissed the ideas of Rousseau, who was Swiss and strongly influenced by Calvinist and Protestant thinking which he blamed for the French Revolution.

Rousseau once declared in the first line of his social contract that in the prisons of the future men will have “Libertas,” “liberty,” stamped upon their chains. This uniquely Protestant idea whereby even the social organs of direction are there to free the individual from bondage. It’s a notable instant where in Louisiana, in the southern state of the United States, the steel batons that American police use for riot control have “liberty” inscribed upon the baton. This means that there’s the head of a rioter being broken by a riot policeman. You are being beaten over the head with freedom. You are being beaten into freedom! And this uniquely, sort of sado-masochistic and ultra-Protestant view whereby you are being punished in freedom, for freedom, by freedom is a uniquely American take upon the French Revolution. Indeed, handcuffs wielded by many American police forces have “freedom” written upon them. So, as you are handcuffed and beaten you are receiving both liberty and freedom. These are very important ideas which come from the French Revolution.

When you stand before a French court you have to prove your innocence. As everybody knows, the British idea, which transcends the Atlantic and is visible in the jurisprudence of the United States, is that you are innocent before the bar of the courts and you have various barristers there to defend your rights. In France, the opposite is true. In accordance with revolutionary jurisprudence, the state knows best. The state has divulged religiosity to itself. The state is the residual legatee of all ideas of liberty and dispassionate justice. You have to prove your innocence to the state, because if the state argues in a prior way for the possibility of your guilt you must be guilty of something or why else would the state dare to accuse you.

Maurras’ ideas come quite close to certain Anglo-Saxon ideas in his rejection of this idea of the martial, republican and even Protestant French republican state. This means that Maurras seeks help from German and English intellectual critics even as he is unmasking French intellectual culture for its support and tolerance of the French Revolution.

The French Revolution remains the most cardinal event in history as regards the modern history of France. The French Revolution characterized an enormous range of change in European society and in the lifestyle of European man. If you remember, the revolution had quite timid beginnings with the desire for bourgeois reformism and the integration of politicians like Mirabeau in 1789. It then morphed into a more legalistic liberal assembly with a legislative assembly in 1790-1791 which then became the much more revolutionary Convention in 1792-1794. This is the period associated with the Terror and the dominion of Maximilien Robespierre. Robespierre had his rival, Danton, who he sent successfully to the guillotine, but he only preceded him by a matter of a few months, was convulsed by the idea that he was imposing with revolutionary violence the implementation of justice upon France and that he’d been given the right to do so not by God but by a new-fangled Deist cult or religion called the Cult of the Supreme Being. This attempt is the height of the Revolution’s attempt to replace Catholicism with an atheistic cult, whereby reason was worshipped as a goddess and a naked virgin was placed in the [inaudible] with a liberty cap on the high altar in Notre Dame by French revolutionary Jacobins, deeply shocked the sensibility of Catholic France that it had never forgiven Paris for its revolutionary energies which were disliked by much of the rest of society.

For much of French history, Paris had always been the center of revolution even though the French revolutionary anthem, La Marseillaise, came from Marseille to Paris in order to save revolutionary Paris by adding fuel from the most revolutionary and violent part of the provinces who were then fighting against the Whites, or the counter-revolutionaries, as they came to be known.

Napoleon Bonaparte was an equivocal figure for Maurras. He liked the authoritarianism, he liked the glorification of France, but he also saw the extension of French imperialism under Bonaparte’s agency to be anti-French and to ultimately portend to national dishonor. This meant that there was if not a pacifist then a limit to national aggrandizement in Maurras scheme of things. If the nation was crucial to all social development, the nation had borders, and the nation had limits, and authoritarianism inevitably put constraints upon social action, which reminds people that Maurras remains a sort of radical or revolutionary conservative.

Regarded retrospectively as something of a French fascist, Maurras was never fascistic, although his conservativism contained strongly sublimated elements of fascism and quasi-fascism and certain beliefs in the corporate state and certain methodological axes which he would share with movements in Salazar’s Portugal, Mussolini’s Italy, and Franco’s Spain. All of these three regimes were endorsed by Maurras and by the Action Française. Hitler’s movement in Germany and its successful breakthrough there was in no sense endorsed. Indeed, he supported de Gaulle, and he supported mainstream Third Republican politicians who were anti-Hitler just as he supported Clemenceau in the First World War because he was anti-Kaiser.

The threat to France from Germany and the helplessness of France in the face of German military might were abiding themes for Maurras who saw the possibility of defeat on the battlefield as a moral and spiritual defeat for France, although like all quixotic and intuitive nationalists, Maurras believed that France could never be totally defeated. A political system had gone down under the Panzers, a political system had gone down under the Stuka bombers, but France itself was irrational and eternal and would always spring up again.

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Initially, he supported the de Gaullist fight against the Germans. He immediately switched to Vichy and national liberation when he saw that much of what he wanted in policy terms could be instituted under German aegis. The fact that it was under German aegis caused him great psychic pain and wanton disregard. He therefore retreated to his own estates to cover the dichotomy of supporting Vichy at a distance without wishing to be seen to champion its German precursor.

Maurras lived in an era of tumultuous change and violent excess. None more so than the events of the 6th of February 1934. These events, unlike the Paris events of 1968 which have been emblazoned in world history and have counter-parts in Berkeley, California and the streets of Britain and the streets of West Germany as it then was and elsewhere throughout the Western world, have largely been forgotten and have been deliberately dropped down the memory hole, collectively and historically. Maurras, however, was deeply involved in the events of 1934 which were nothing more or less than an attempt to overthrow the French Third Republic by revolution from the Right-wing.

Riddled with scandal and approximating to extreme decay due to the economic lashings of depression from the United States and elsewhere who were beginning to humiliate the French exchequer, the radical Right decided to depose by going onto the streets the French Third Republic in early February 1934. This was awful rioting, and it was very serious and very destructive social rioting by about 100,000 demonstrators from all of the French combat action leagues that then existed in the country. These included the Action Française and the large veteran association from the First World War called Cross of Fire or Croix-de-Feu. It also involved large apolitical veterans’ organizations and smaller, more targeted Right-wing combat veterans’ leagues.

All of these movements marched on Paris and marched on the National Assembly and marched on the presidential buildings in an attempt to overthrow the Third Republic with violent revolutionary activism from the streets. It’s quite remarkable that these events have been excised from history to the degree that they have, particularly as they were to force catalytic change in French political life. Daladier’s regime, which was part of a Left front and Left coalition government collapsed and was replaced by the more general government of the Right.

One of the interesting examples of this period is the fact that, unlike today where the radical Right is shunted off to the side and all the areas of political thought including the moderate Right strive to have nothing to do with it whatsoever, in that era the radical Right infused the mainstream Right and even liberal, center Right elements of the Right were not immune to radical Right-wing ideas. This shows you that politics is about energy and about how you corral and contrast various forms of energy over time. There is no earthly reason why radical forms of opinion, as occurred in the 1960s the other way around on the Left, can’t influence more moderate, more statist, more staid, and more centric forms of opinion. It all depends upon the timing, the character of the men involved and the secondary forces which they can put into play. No one knew this better than Maurras who influenced these structured, highly controlled Right-wing mobs, which is what they essentially amounted to, in their assaults on French liberal bourgeois power at this time.

Sixteen died as a result of the rioting, and over 2,000 were injured, which is a large number of injuries to be sustained in endless fighting with French riot police and French police who turned out en masse to defend the Third Republic. Communists and socialists and trade unionists of the Left also mobilized large counter-demonstrations. Very much akin to events which occurred in Dublin in not too distant a period when there was a concertedly disconcerted attempt by the Civic Guard movement of Eoin O’Duffy to overthrow the post-IRA Fianna Fáil movement which then dominated the Irish Republic. It should be noticed that both societies had a penchant for political violence and for the rhetoric of extremism in the street and both were Roman Catholic societies unlike Britain, which existed of course halfway between these two polities.

The Right failed in both Ireland and France to replicate what had occurred in Portugal, Spain, and Italy, never mind Germany. However, the radical Right had an enormous transforming impact upon the entire Right wing which led a large element of the pre-collaborationist cabinet in the mid- to late-1930s to collaborate once the Vichy government was set up.

Vichy is always described as a regime by historians in an attempt to discredit it in relation to a proper government which is so described. Yet there is a degree to which the Vichy government had the support actively of at least a third of the French. De Gaulle, through a remarkable piece of political [inaudible] to make after the war, said that no one ever collaborated. This is after the purification, of course, which killed many thousands of those who were alleged to have done so. But the trick of saying that no one collaborated allowed the post-war generations to unite over the fact that there was a German occupation, no French collaboration except for a few purists and traitors and a Resistant movement activated from home and abroad. It was a clever and intellectual and ideological start to enable France to recover more quickly after the war and settle differences without being too hawkish or squeamish about it. But there is a degree to which it was a lie and a blatant untruth.

France bore quite a large price for its staunching of social peace after 1945. You have to remember that after 1945 there was no effective Right in France, because the whole of the Right had been allegedly discredited by collaboration. This meant that there was an enormous gap and only classic centrist, conservative movements fielded candidates against the center and Left in the immediate post-war elections.

De Gaulle, of course, was trying to capture the market for existing Right-wing opinion with his movement [inaudible]. De Gaulle had subliminally fascistic credentials for some of his policies and went back to yearnings for a hard man and a strong man to govern France with an iron hand. These go back to General Boulanger and back to the Bonapartism of the 19th century. De Gaulle’s movement with his endless personality cult and military drills and obsession with the cult of the leader certainly had strong fringe associations with the radical Right which he’d never the less repudiated and excoriated both in action and in print.

No internal warfare on the Right has been more striking than the one in France between the legacy of de Gaullist historical tradition and the legacy of collaboration. This again is to be seen in the Algerian War long after Maurras’ death in which the two wings of the French Right fight fanatically with each other. The government and the Civic Action Service movement and the Barbouzes fighting with the official French army against both the Algerian nationalists of the FNA and the ultra Right-wing Secret Army Organization or Organisation de l’armée secrete, which was formed by revolutionary members of the paratroopers and other French regiments firstly in Indo-China and then in Algeria to prevent the removal of Algeria from the French nation.

41e12-dpbWL.jpgFrance and Algeria, of course, were joined at the hip in accordance with the Napoleonic doctrine of Algérie française. In the end, the division had to occur, but at least a million French Algerians, who were totally French of course, pieds noirs, black feet, came back from North Africa to live in the south of France where they became the bedrock for the Front National vote in the deep south of the country in generations to come.

There is also a degree to which Maurras’ influence on the French Right is pervasive, and this is the influence of social Catholicism. At every large FN event there is a ferverous mass. For those not in the know, this is a traditionalist type of Catholicism that rejects Vatican II and settlements around it in the contemporary Catholic Church. It is essentially an old-fashioned, in Protestant terms, smells and bells mass whereby the priest turns hieratically to God and doesn’t look at the congregation and the congregation look at him, or look at his back, and he’s looking up because he’s looking up at that which is exalted and beyond him. This type of social Catholicism which exists in the FN on a take-it-or-leave-it basis, because if you don’t believe in it you don’t have to go along with it, it part and parcel of their appeal to all of those national constituencies which were not buried in 1945 and were not buried in 1789 and were not buried in 1815 but have continued to exist as a vital part of the French nation and of the French national whole.

Maurras’ belief in the integral France – organic, unified, militarized, Catholicized, and hierarchical – was never achieved during his lifetime, but his influence on the French Right-wing and on neo-Bourbon, legitimist, Orléanist, and Bonapartist tendencies of opinion was profound. His influence on French military thinking was also profound, although his influence on Catholicism became strained when Catholic humanists like Jacques Maritain, who had been close to the Action Française for a considerable period, moved away from it in the 1920s. The Papacy moved against Maurras and Action Française because of his doctrine of politics first. Maurras believed that if politics was put first all the other problems that beset France and lead to spiritual difficulties could be changed retrospectively.

However, there was a degree to which this put the cart before the horse. By making himself a declared agnostic and being relatively open about this fact, he played into the hands of certain radical Catholic traditionalists who didn’t like a mass movement that used Catholicism synthetically to cover over political differences of opinion inside France.

He was also guilty of the anti-legitimist claim put forward by many deeply conservative apolitical and asocial French Catholics. This was the view that they should have nothing to do with the bourgeois Third Republic and that they should remain French and Catholic forever irrespective of a wicked regime that could not be stopped from sinning in its own right. Maurras would have nothing to do with this and believed that politics first, second, and third was necessary for the redemption of France.

The idea of monarchical restoration and a return of the French monarchy was not a quaint political ideal as far as Maurras and his immediate supporters were concerned. They believed that only by repudiating the Republic, only by ripping out the accretions of what could be described as the French version of the Bolshevik regime, namely the latter day inheritance of the French republican, revolutionary tradition and all its structures, could the France that he wanted be brought about.

Although post-war forms of the radical Right-wing in France have had to make peace with republicanism in order to survive and contest democratic elections where they have had considerable support, more so than in most other Western European countries, there is a degree to which Maurras was quite technically direct in the issue of the French republican experiment and the mass terror that it induced between 1792 and 1794 which cast the shadow of a guillotine across French revolutionary rhetoric.

Most of the great Right-wing figures, such as Abel Bonnard, look back through Maurras to the great ultramontanist figure, Joseph de Maistre. Joseph de Maistre, who wrote in the late 18th century and earlier, is responsible for the doctrine of papal infallibility up to a point at least in terms of its theoretical mark when it was introduced quite late in the day in 1870 in recognition of extra-Catholic and intra-Catholic disputes.

Maurras was determined to see Catholicism revived within France and put at the heart of the French nation, and he did residually return to the Catholicism of his childhood near to his own deathbed. Whether this was just an insurance policy or was a genuine conversion to the faith with which he had always lingered is open for his biographers to contest.

Maurras was a peppery individual with a sort of reynardical moustache and trimmed beard. He was splenetic and outrageous in debate and commentary. He called for the assassination of many public figures from the editorial mouthpiece of his magazine for which he was given many suspended sentences. When a French politician argued that all of the Right-wing combat leagues should be disarmed in France because he saw the danger of the events of 1934, Maurras called for his assassination in print, which as the calling for an execution of a government minister he was jailed 8 months for his transgression.

Maurras was never afraid to speak his mind about any of the problems that beset France from the Dreyfus case through to the French armies in the First World War to the conduct of the Treaty of Versailles. He also wanted France to impose more rigorous and more judgmental and more harsh and caustic sanctions on Germany, long considered by most historians to be a disastrous maneuver. But there is nothing in relation to what it is to be French beyond which Charles Maurras would not go.

Maurras saw himself as the quiet leader of a counter-revolutionary force in French life that would lead to the institution of an integral nation and an integral nationality above sectional interests and above party interests, which he always despised. The interesting thing about his form of Frenchness is that everyone could have a role in it. All of the minorities which he effectively despised as foreigners, métèques, would actually always have a role within France. It’s just that role would be lesser proportional to who and what they are in relation to the role of the French. Ultimately, his vision was conservative. If you were more French than somebody else, you had more of a say and more of a role. If you were Catholic rather than Protestant or Jewish or something, you had more of a role in France. It is not to say the others would have no role, but they would have a severely restricted and reduced role in relation to those who would supervene over the goddess. The goddess was one of his private terms for France and for the French nation, which was always perceived as a feminine creation and identity by all of its proponents and detractors.

Charles Maurras is so French a figure that he is largely ignored in the Anglo-Saxon and Anglophone world because he’s seen to have little to teach to the rival Protestant, national, and imperial trajectories of these societies. This is arguably true. Maurras has to be seen and judged in French terms and in French terms alone.

Although he never succeeded in the most radical of his aims, part of the regime that existed under Vichy can be seen as the endorsement of many of his ideas although the resistance groups would pitch and the Allied invasion pulled back upon Vichy and led to the end of the collaboration. The irony of Maurras’ tradition and career is that the sort of France he wanted was brought about under the arms and vigilance of the nation he hated more than any other, namely the Germans. This is part of the irony of history, which would not be forgotten on somebody as literate and carefully minded as Charles Maurras.

One of the things that is most striking about Maurras is that the Action Française was read intellectually right across the spectrum. A young, homosexual Jewish author called Marcel Proust, who was later to write one of the most famous books in French literature called Remembrance of Things Past, used to literally run every Friday down to the Camelots du Roi paramilitaries who sold Action Française on the street in order to buy Action Française. When he was asked by a certain dumbfounded bohemian who had met his acquaintance why he did this, he said he did it because it was the most interesting paper in France. This is something which is key to an understanding of people like Maurras and the radical Right cultural tradition that they represented. They were admired by all sorts of people who didn’t share their opinions at all, and that was part of the elixir of their power and their cultural influence. This is why he was elected to the French Academy, the most august and antiquated of French cultural institutions.

508611258.jpgSo, I think it falls upon us, as largely non-French people, to look back upon this traditionalist philosopher of the French radical Right with a degree of quiet appraisal. Maurras was a figure who could be admired as somebody who fought for his own country to the last element of his own breath. He was also somebody who’s own cultural dynamics were complicated and ingenious. To give one cogent example, the Greek play Antigone deals with the prospect of the punishment of a woman by Creon because she wishes to honor the death sacrifice of her brother. This becomes a conflict between the state and those who would seek to supplant the state’s momentary laws by laws which are regarded as matriarchal or affirmative with the chthonian or the fundamental in human life. George Steiner once commented in a book looking at the different varieties of Antigone that most critics of the Left have always supported her against Creon and most socially Right-wing commentators like T. S. Eliot have always supported Creon against Antigone. And yet Maurras supported Antigone against Creon, because she wished to bury her brother for reasons which were ancestral and chthonian and came up from under the ground and were primeval and were blood-related and were therefore more important and more profound than the laws that men had put together with pieces of parchment and bits of writing on paper.

Charles Maurras: hero of France, national collaborator with excellence, we salute you over this time, we remember your contribution to the [inaudible] of a rival nationality!

Thank you very much!

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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mardi, 06 octobre 2015

LE COMBAT POUR L'HISTOIRE CONTINUE…

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LE COMBAT POUR L'HISTOIRE CONTINUE…

Au moment où la caste médiatique officielle se déchaîne pour interdire toute contestation du système en place, l'importance du combat pour l'Histoire se révèle plus prioritaire que jamais. Les tenants de l'Humanité hors-sol, qui appellent de leurs vœux  la naissance d'un village mondial peuplé de zombies déracinés et méthodiquement normalisés, ont bien évalué le danger que représentait pour leur projet utopique le réveil en cours des diverses identités ethniques, nationales ou religieuses.

Ils ont donc promptement décrété que tout questionnement identitaire était « réactionnaire » et ne pouvait « qu'emprisonner la société dans la nostalgie d'un passé mythifié. » L'abandon de l'enseignement de l'Histoire nationale ou la préférence donnée au royaume africain du Monomotapa au détriment du siècle de Louis XIV s'inscrivent dans cette volonté de déconstruction et de rupture contre laquelle il est à l'évidence urgent de réagir

Engagée depuis plusieurs années dans le combat en faveur d'une  histoire vivante  qui redonne aux Français et aux Européens la conscience de leurs racines et la fierté de leur héritage commun, l'Association Pour l'Histoire organise sur ce thème, le 24 octobre prochain, le colloque intitulé

«HISTOIRE, MEMOIRE, IDENTITE»

 

avec la participation de

Oskar Freysinger, homme politique et essayiste suisse

Identité et démocratie. L'exemple helvétique

Jean Pierre Arrignon, historien médiéviste spécialiste de la Russie

La surprenante renaissance de l'identité russe

Philippe Conrad, directeur de la Nouvelle Revue d'Histoire

L'Histoire, une arme de résistance au service des peuples

 

Samedi 24 octobre 2015 à partir de 14h30

Salle de la Maison des Mines - 270 rue Saint Jacques - 75005 Paris

Participation aux frais de 10 euros

 

Association Pour l'Histoire: a-p-h@orange.fr

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mardi, 29 septembre 2015

Quand la réalité vient sèchement démentir le monde virtuel que s’était construit les élites occidentales...

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Quand la réalité vient sèchement démentir le monde virtuel que s’était construit les élites occidentales...

Entretien avec le Prof. David Engels

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un entretien donné par David Engels à Atlantico et consacré à la réaction des élites européenne à la crise multiforme qui touche leur continent. Professeur d'histoire à l'Université libre de Bruxelles, David Engels a récemment publié un essai fort intéressant intitulé Le déclin - La crise de l'Union européenne et la chute de la République romaine (Toucan, 2013).

Atlantico : En quoi des évènements majeurs comme ceux de Charlie Hebdo au mois de janvier, mais aussi la crise des migrants que l'Union européenne gère péniblement, ont-ils pu constituer un choc pour la vision qu'avaient les élites occidentales du monde ? Dans quelle mesure ces dernières se voient-elles bousculées ?

David Engels : En analysant les diverses expressions d’opinion dans les grands médias, je ne suis pas certain de la mesure dans laquelle on peut vraiment parler d’un bousculement des opinions établies au sein des élites occidentales. Certes, les nombreux drames humanitaires et sécuritaires des derniers mois ont été vécus comme extrêmement affligeants, à la fois par le grand public et par les milieux politiques et intellectuels, mais ce qui l’est encore plus, c’est l’absence totale de véritable remise en question d’une certaine vision du monde qui est à l’origine de ces drames.

Comprenons-nous bien : quand je parle ici de « responsabilité », ce n’est pas dans un sens moralisateur, mais au contraire, dans un sens pragmatique. Car il faut bien séparer deux aspects : d’un côté, le drame migratoire, la crise économique et les dangers du fondamentalisme musulman nous mettent devant des contraintes morales et nécessités pragmatiques que nous ne pouvons nier sans inhumanité ; d’un autre côté, il faudrait enfin cesser d’ignorer que ces crises sont en large part dues au dysfonctionnement politique, économique et identitaire profond de notre propre civilisation.

Il faudrait enfin accepter les nouveaux paradigmes sociaux qui s’imposent et prendre les mesures, à l’intérieur comme à l’extérieur, pour arrêter la casse, au lieu de surenchérir sur nos propres erreurs. Car c’est exactement ce que nous faisons pour le moment. Le refus de mener une politique extérieure européenne digne de ce nom a-t-il laissé le champ libre aux interventions des États-Unis et provoqué un exode ethnique sans pareil ? Retirons-nous encore plus de notre responsabilité politique et cantonnons-nous à faire le ménage des autres ! La libéralisation de l’économie nous a-t-elle poussés dans une récession sans pareil ? Pratiquons encore plus de privatisations et d’austérité ! Le remplacement des valeurs identitaires millénaires de notre civilisation par un universalisme matérialiste et individualiste a-t-il créé partout dans le monde la haine de notre égoïsme arrogant ? Prêchons encore plus les vertus d’un prétendu multiculturalisme et de la société de consommation !

Dès lors, le véritable enjeu n’est pas la question de savoir s’il faut accueillir ou non les réfugiés syriens, iraquiens ou afghans – la réponse découle obligatoirement des responsabilités de la condition humaine –, mais plutôt la nécessité d’œuvrer courageusement et efficacement pour que les réfugiés puissent rapidement retourner chez eux et trouver un pays stabilisé, au lieu de rester en Europe et d’être exploités soit par une économie en recherche d’une main d’œuvre bon marché, soit par des groupuscules islamistes fondamentalistes. Le véritable enjeu, ce n’est pas l’assainissement des finances grecques, mais plutôt la réforme d’un système économique global permettant à des agences de notation privées de rendre caduques toutes les tentatives désespérées de diminuer les dettes souveraines des États avec l’argent des contribuables européens. Le véritable enjeu, ce n’est pas la question de savoir s’il faut renvoyer chez eux les nombreux étrangers nationalisés depuis des décennies, mais plutôt, comment les intégrer durablement dans notre société et maintenir le sens de la loyauté et solidarité envers notre civilisation européenne.

D'ailleurs, comment décririez-vous cette vision "virtuelle" du monde d'après ces élites ? En quoi consist(ai)ent ces représentations mentales ?

David Engels : La vision du monde développée par la majorité de nos élites actuelles est caractérisée, consciemment ou inconsciemment, par une profonde hypocrisie me faisant souvent penser à la duplicité du langage idéologique pressentie par Orwell, car derrière une série de mots et de figures de pensée tous aussi vaticanisants les uns que les autres, se cache une réalité diamétralement opposée. Jamais, l’on n’a autant parlé de multiculturalisme, d’ouverture et de « métissage », et pourtant, la réalité est de plus en plus caractérisée par l’hostilité entre les cultures et ethnies. Jamais, l’on n’a autant prêché l’excellence, l’évaluation et la créativité, et pourtant, la qualité de notre système scolaire et universitaire est en chute libre à cause du nivellement par le bas généralisé. Jamais, l’on n’a autant fait pour l’égalité des chances, et pourtant, notre société est de plus en plus marquée par une polarisation dangereuse entre riches et pauvres. Jamais, l’on n’a autant appelé à la protection des minorités, aux droits de l’homme et à la tolérance, et pourtant, le marché du travail est d’une dureté inouïe et les droits des travailleurs de plus en plus muselés. Jamais, l’on ne s’est autant vanté de l’excellence de nos démocraties, et pourtant, la démocratie représentative, sclérosée par la technocratie et le copinage à l’intérieur, et dépossédée de son influence par les institutions internationales et les « nécessités » de la globalisation, a abdiqué depuis bien longtemps. Force est de constater que non seulement nos élites, mais aussi les discours médiatiques dominés par l’auto-censure du « politiquement correct » sont caractérisés par un genre de schizophrénie de plus en plus évidente et non sans rappeler les dernières années de vie de l’Union soviétique avec son écart frappant entre la réalité matérielle désastreuse d’en bas et l’optimisme idéologique imposé d’en haut…

david engels,actualité,europe,affaires européennes,politique internationale,entretien,déclin,déclin européenCertains intellectuels avancent l'idée que cette déconnexion découle de la fin de la guerre froide, qui les aurait contraint à penser le monde de manière pragmatique. Comment expliquer que ces élites en soient arrivées-là ?

David Engels : Oui, la fin de la Guerre Froide me semble aussi être un élément crucial dans cette équation, car la défaite de l’idéologie communiste et le triomphe du capitalisme ont fait disparaître toute nécessité de respecter l’adéquation entre discours politique et réalité matérielle afin de ne pas donner l’avantage à l’ennemi idéologique, et ont instauré, de fait, une situation de parti unique dans la plupart des nations occidentales. Certes, nous maintenons, sur papier, un système constitutionnel marqué par la coexistence de nombreux partis politiques, mais la gauche, le centre et la droite sont devenus tellement proches les uns des autres que l’on doit les considérer désormais moins comme groupements idéologiques véritablement opposés que comme les sections internes d’un seul parti.

De plus, n’oublions pas non plus l’ambiance générale de défaitisme et d’immobilisme auto-satisfait qui s’est installée dans la plupart des nations européennes depuis déjà fort longtemps : la valorisation de l’assistanat social, l’américanisation de notre culture, le louange de l’individualisme, la perte des valeurs et repères traditionnels, la déconstruction de la famille, la déchristianisation, l’installation d’une pensée orientée uniquement vers le gain rapide et la rentabilité à court terme – tout cela a propulsé l’Europe dans un genre d’attitude volontairement post-historique où l’on vivote au jour le jour tout en laissant la solution des problèmes occasionnés aujourd’hui à de futures générations, selon cette maxime inoubliable d’Henri Queuille qui pourrait servir de devise à la plupart de nos États : « Il n'est pas de problème dont une absence de solution ne finisse par venir à bout. »

A quel point est-ce que ce décalage a pu s'observer ? Quels en sont, selon vous, les exemples les plus marquants ?

David Engels : Le potentiel d’un décalage formidable entre l’idéal et la réalité des démocraties libérales modernes s’est déjà manifesté dans l’entre-deux-guerres, période d’ailleurs non sans quelques ressemblances évidentes avec la nôtre. Mais la Guerre Froide, avec l’immobilisme de la politique étrangère qu’elle a imposée aux États et avec les avantages sociaux qu’elle a apportés aux travailleurs dans les sociétés capitalistes, a, pendant quelques décennies, endigué cette évolution. Néanmoins, au plus tard depuis le 11 septembre, il est devenu évident que l’Occident fait fausse route et va de nouveau droit dans le mur. Ainsi, en mettant délibérément de côté l’importance fondamentale des identités culturelles au profit d’une idéologie prétendument universaliste, mais ne correspondant en fait qu’à l’idéologie ultra-libérale, technocratique et matérialiste développée dans certains milieux occidentaux, l’Ouest a provoqué l’essor du fondamentalisme musulman et ainsi le plus grave danger à sa sécurité. De manière similaire, en contrant le déclin démographique généré par la baisse des salaires et l’individualisme érigé au titre de doctrine officielle par l’importation cynique d’une main d’œuvre étrangère bon marché sans lui donner les repères nécessaires à une intégration efficace, nos élites ont durablement déstabilisé la cohésion sociale du continent. De plus, en concevant l’Union européenne non comme un outil de protection de l’espace européen contre les dangers de la délocalisation et de la dépendance de biens étrangers, mais plutôt comme moyen d’arrimer fermement le continent aux exigences de ces « marchés » aussi anonymes que volatiles et rapaces, nos hommes politiques ont créé eux-mêmes toutes les conditions nécessaires à la ruine des États européens structurellement faibles comme la Grèce ainsi qu’à la prise d’influence de quelques grands exportateurs comme l’Allemagne. Finalement, en appuyant les interventions américaines en Afghanistan et en Iraq, puis en projetant, sur le « printemps » arabe, une réalité politique occidentale, l’Europe a été complice de la déstabilisation du Proche Orient et donc de l’exode de ces centaines de milliers de réfugiés dont le continent commence à être submergé. Et je pourrai continuer encore longtemps cette liste illustrant les égarements coupables de nos élites politiques et intellectuelles…

David Engels (Atlantico, 20 septembre 2015)

vendredi, 25 septembre 2015

Esploratori tedeschi nel cuore dell’Africa: Heinrich Barth, Adolf Overweg, Eduard Vogel

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Esploratori tedeschi nel cuore dell’Africa: Heinrich Barth, Adolf Overweg, Eduard Vogel

 

Chissà perché, oggi in certi ambienti storiografici è considerato politicamente poco corretto, o quanto meno discutibile, occuparsi degli esploratori europei del XIX secolo, particolarmente di quelli che rivolsero le loro ricerche al continente africano. Più o meno esplicitamente, viene loro imputata la colpa di aver fornito l’avanguardia degli eserciti coloniali; perciò, nell’ambito dei circoli culturali “progressisti”, i loro nomi sono caduti nell’oblio, a dispetto dei notevoli meriti scientifici che, indubbiamente, molti di essi ebbero.

Così, siamo caduti da un estremo all’altro: se, un tempo, le storie del continente africano scritte dagli Europei tendevano ad assegnar loro uno spazio sproporzionato, “dimenticandosi” delle culture locali e delle civiltà indigene, adesso sta divenendo difficile vederli citati anche solo di sfuggita, a parte i cinque o sei più famosi e a meno che le loro vite abbiano qualcosa a che fare con gli eccessi e i crimini del colonialismo.

Un buon esempio di ciò è la famosissima, e forse sopravvalutata, Africa, del saggista inglese John Reader, apparsa nel 1997 (e tradotta in italiano dalla casa Editrice Mondadori nel 2001), tipico prodotto del rigetto anti-vittoriano e anti-etnocentrico della fine del XX secolo. Invano si cercherebbero, nelle oltre 700 pagine di questa grossa opera, una sola citazione dei nomi di Heinrich Barth, Adolf Overweg ed Eduard Vogel (anche se quelle di Livingstone si sprecano addirittura: il lupo sciovinista perde il pelo, ma non il vizio…).

Questa tacita rimozione è particolarmente vistosa nel caso degli esploratori tedeschi, che pure diedero un contributo decisivo alla conoscenza del continente africano dal punto di vista geografico, botanico, zoologico ed etnografico. Infatti, dopo la prima guerra mondiale – quindi, assai prima delle altre potenze europee – la Germania dovette rinunciare alle sue colonie; e la motivazione con cui Francesi e Britannici gliele tolsero, spartendosele, fu che essa aveva dato prova di una estrema irresponsabilità nell’amministrazione delle popolazioni africane.

Ora, se è vero che vi furono, nella storia coloniale tedesca, delle pagine tremende (cfr. F. Lamendola, Namibia 1904: la «soluzione finale» del problema herero nel Sud-ovest africano, pubblicato in libro nel 1988 e su rivista nel 2007, e consultabile anche sul sito di Arianna), è altrettanto vero che anche le altre potenze europee commisero efferatezze; e che, comunque, ciò non autorizza a cancellare le pagine positive, culminate nell’opera di un Albert Schweitzer nel lebbrosario di Lambaréné.

È, quindi, nel segno di una maggiore equità storica che riteniamo si possa riaprire il capitolo sull’opera svolta dagli esploratori europei negli altri continenti. E, dopo esserci occupati di un insigne esploratore tedesco dell’Australia (cfr. il nostro articolo Ludwig Leichhardt, ultimo esploratore romantico nei deserti proibiti dell’Australia), vogliamo qui ricordare una triade di esploratori germanici che percorsero in lungo e in largo la porzione centrosettentrionale del continente africano, allargando enormemente l’orizzonte delle conoscenze che si avevano allora su quelle terre remote e quasi inaccessibili.

HeinrichBarth.jpgHeinrich Barth

Nella prima metà del XIX secolo, l’interno dell’Africa settentrionale era ancora in gran parte ignoto agli Europei, i quali non erano riusciti a spingersi molto al di là delle coste, dopo il grande viaggio esplorativo dello scozzese Mungo Park.

Questi era giunto alla foce del Gambia nel giugno del 1795 con l’obiettivo di raggiungere il Niger, per determinarne le sorgenti e la foce, cosa che era riuscito parzialmente a compiere, tra enormi difficoltà, raggiungendo di nuovo la costa nel 1797 e dimostrando che il grande fiume scorre verso est e non ha alcun rapporto con il Senegal; ma una buona parte del suo corso e, soprattutto, la foce, rimanevano avvolti nell’oscurità. Nel 1805 Park ritornò in Africa per risolvere definitivamente quel problema geografico, ma questa volta la fortuna gli voltò le spalle. Raggiunto il fiume Bamako, lo discese fino a Bussa, dove fu attaccato dagli indigeni: per salvarsi si gettò in acqua, ma perì annegato. Negli anni successivi l’attenzione dei geografi e dei viaggiatori europei si concentrò sul grande deserto dell’Africa settentrionale, il Sahara; ma una serie di spedizioni andarono incontro a un infausto destino. Nel 1823, tuttavia, gli inglesi Clapperton, Denham e Hornemann, partendo da Tripoli, si spinsero audacemente fino alle sponde del lago Ciad: che, a quell’epoca, doveva offrire uno spettacolo ben più maestoso e affascinante, con le sue rive verdeggianti e le sue acque pescose; mentre oggi si sta rapidamente prosciugando. A Murmur, Odney morì e Clapperton si rimise in viaggio da solo, giungendo a Sokoto, ove fu accolto benevolmente dal sultano Bello. Impossibilitato, tuttavia, a proseguire in direzione dell’Atlantico, dovette riprendere la via dell’interno e giunse a Tripoli passando per il Bornu, da dove fece poi vela verso l’Inghilterra. Ormai, però, il «mal d’Africa» lo aveva afferrato e, appena due mesi dopo, era di nuovo in Africa per completare l’impresa, questa volta partendo da Lagos. Ma, dopo aver raggiunto il Niger, a Sokoto, morì improvvisamente; fu il suo compagno, Richard Lander, a trovare la via della costa e a pubblicare, tornato in Inghilterra, le memorie del suo capo.

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Intanto il quadro politico e strategico stava cambiando, specialmente dopo che la Francia ebbe invaso l’Algeria nel 1830 e ne completò la conquista nel 1843, piegando la resistenza dell’indomito Abd-el-Kader. Nell’Africa settentrionale comparvero esploratori di valore e, spesso, di formazione universitaria: naturalisti ed etnologi, che univano alla passione per l’avventura un autentico interesse scientifico. Uno d essi fu il principe von Pücker-Muskau, che viaggiò attraverso l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia.

A quell’epoca, la Germania non aveva ancora raggiunto la sua unificazione politica e nessuno degli Stati tedeschi, nemmeno i due più potenti – l’Austria e la Prussia – avevano interessi da far valere in proprio nei confronti dell’Africa, per cui un certo numero di viaggiatori ed esploratori tedeschi si misero al servizio di altre potenze, in particolare della Gran Bretagna. Tale fu il caso di uno dei maggiori di essi, Heinrich Barth, nato ad Amburgo il 16 febbraio 1821 e morto a Berlino il 25 novembre 1865, e dei suoi compagni Adolf Overweg (1822-1852), anch’egli amburghese, ed Eduard Vogel (1829-1856), di Krefel.

barthAZMX06L..jpgDa giovane, Barth aveva studiato i classici all’Università di Berlino e aveva acquisito buone cognizioni filologiche le quali, unite a una naturale predisposizione per le lingue, gli avevano permesso di padroneggiare, sin dal suo primo viaggio africano, l’inglese, il francese, l’italiano, lo spagnolo e l’arabo. Dotato di uno spirito di ricerca scrupoloso e sistematico, nel 1845 Barth aveva compiuto la traversata del deserto da Tripoli all’Egitto, facendosi una buona reputazione, benché in quel primo viaggio avesse quasi perduto la vita nel corso di una aggressione dei predoni nomadi. Così ricorda la figura e le imprese di Heinrich Barth il saggista tedesco Anton Mayer, nel suo libro 6 000 anni di esplorazioni e scoperte (traduzione italiana di Rinaldo Caddeo, Valentino Bompiani Editore, Milano, 1936, pp. 204-206):

…Anche Richardson, che al tempo del viaggio di Barth s’era spinto da Tripoli a Murzuk, lo conobbe di fama. Quando nel 1849 veniva preparata una grande impresa per l’esplorazione del Sudan occidentale e del Sahara e di cui Richardson ottenne il comando, anche Barth e il suo compatriota Overweg vi parteciparono. Il governo inglese aveva un interesse speciale all’esplorazione del Sudan. Non vi erano, è vero, problemi fluviali da risolvere, ma, oltre all’allettamento del bel paesaggio, delle vaste foreste e della fertilità del terreno, si offriva la possibilità di allacciare rapporti commerciali col grande e potente regno degli Arabi, e con quelli dei popoli misti e degli indigeni che esistevano verso la metà del secolo XIX.

L’English mixed scientific and commercial expedition (Spedizione scientifico-militare inglese) che tradiva col suo nome il suo duplice fine, lasciò Tunisi nel dicembre del 1849 e Tripoli, dove cominciò la vera e propria attività di esplorazione, nel febbraio 1850. Da Murzuk Barth si diresse per Gat ad Agades nel paese di Air per entrare in rapporti di commercio col sultano; a Damergu, al confine settentrionale del regno del Bornu, Barth si divise dai suoi compagni ed andò ad oriente verso il lago Ciad. Aveva intenzione di ritrovarsi a Kuka con Richardson che aveva battuto una via ancora più ad oriente, ma l’Africa voleva ancora la sua vittima e Richardson moriva alcuni giorni prima che i suoi compagni raggiungessero il punto d’incontro. Barth lo sostituì nel comando della spedizione e si occupò innanzitutto dell’esplorazione del lago Ciad: la sua descrizione delle acque non assomiglia affatto a quella di Denham del 1823. Egli mette già in luce il carattere paludoso della “laguna” che allargava ogni anno le sue rive e accentuava l’impossibilità di stabilire esattamente la forma del lago. Il viaggiatore proseguì la marcia verso Sud, si spinse ad Adamaua e scoprì il 18 giugno 1851 il fiume Benué. A luglio si incontrò a Kuka nuovamente con Overweg, e poiché quanto aveva fatto non era sufficiente al suo desiderio di attività, decise di spingersi nuovamente a Sud e Sud-Est nel paese dei Baghirmi. Mentre ancora lavorava in quella regione la morte africana gli strappò Overweg, cosicché Barth rimase solo. Egli fidò volentieri su se stesso e diresse la sua marcia dal lago Ciad ad occidente; il Niger fu raggiunto il 12 giugno 1853 presso Sinder per canoa, ma egli non lo percorse. Preferì attraversare l’arco del fiume per terra verso Timbuctù, la qual città aveva assunto in certo qual modo la funzione di Lhasa nel Tibet e fungeva da «regale città del deserto». Qui rimase sei mesi e raccolse una quantità di materiale.

Per apprezzare il merito dell’impresa compiuta dai primi messaggeri dell’Europa nei paesi islamici dell’Africa non dobbiamo dimenticare che la vita di un Europeo era colà minacciata ad ogni istante e che la minima imprudenza poteva avere le più gravi conseguenze.

L’8 aprile 1854 Barth cominciò a discendere il Niger e da Sinder ritornò al Bornu. Il 1 dicembre 1854 incontrò inaspettatamente un collega tedesco, Eberhard [in realtà, Eduard] Vogel, che la Società inglese aveva mandato a sostituire Richardson alla notizia della sua morte. Barth rimase ancora un inverno sul lago Ciad; il 5 maggio 1855 riprendeva la marcia di ritorno per il Sahara, che esattamente verso nord lo riportò per Murzuk a Tripoli. Barth era stato ininterrottamente per sei anni nell’interno dell’Africa, dando prova di una resistenza fisica e spirituale che al di fuori di lui solo pochissimi, come Livingstone, hanno potuto ripetere. La lunghezza dei tratti da lui superati ammontò a più di 20.000 chilometri; le sue osservazioni, ricerche e risultati si distinguono per un’esattezza e acutezza eccezionali e costituiscono la base della conoscenza odierna del Sahara e del Sudan. Egli viaggiò attraverso la metà occidentale dell’Africa dove il continente è più largo, dal Niger al Uadai, centro della parte settentrionale.

Barth ha avuto oltre alle sue qualità di scienziato anche quelle di un buon conoscitore degli uomini che sapeva come trattare, essendogli riuscito di allacciare amichevoli relazioni con i più potenti principi del Sudan e del Sahara meridionale, che gli conservarono la vita. Inoltre Barth era di una modestia straordinaria; egli aveva, disse, lasciato molto, moltissimo da fare ai suoi successori, ma aveva almeno la soddisfazione di aver schiuso alla scienza e persino, forse, ad uno scambio regolare con l’Europa, una parte considerevole dell’interno dell’Africa.

«Da nessun esploratore dell’Africa – disse l’inglese Thomson, occupandosi dell’attività di Barth – è stata raccolta una messe così ricca di materiale geografico, storico, filologico e folcloristico come da Barth».

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Eberhard [sic] Vogel era un uomo di fegato e un esploratore di valore che raggiunse presto buoni risultati quando dopo la partenza di Barth intraprese anch’egli una punta ad Adamaua giungendo poi nel paese di Uadai i cui confini non erano stati superati dagli Europei. Dopo questo sparì e solo le ricerche di Nachtigal hanno messo in luce il suo destino. Egli non possedeva la circospezione di Barth, ed eccitava gli indigeni con scritti, disegni ed altre “magie” tanto da essere battuto a morte con randelli per ordine del Sultano di Uadai. Come suole avvenire molto spesso in Africa, egli compromise senza alcuna intenzione un altro bianco, l’ufficiale prussiano Moritz von Beuermann, che venne inviato per salvarlo., quando fu dato per scomparso. Beuermann andò a Kuka per il Sahara e tentò di entrare nel Uadai; era appena giunto a quei confini che gli indigeni lo uccisero, nel 1863.

Tornato in Europa, Barth ricevette congratulazioni e un alto riconoscimento dalla Reale Società Geografica di Londra; tuttavia – come riconosce l’Enciclopedia Britannica – i viaggi di questo notevolissimo esploratore ricevettero scarsa attenzione da parte del grosso pubblico, ed egli stesso rimase relativamente poco conosciuto anche in seguito. Solo dopo la morte, la sua figura emerse in tutta la sua statura, come quella di uno degli uomini che avevano maggiormente contribuito alla conoscenza del continente africano.

Ritornato in Germania, occupò la cattedra di geografia all’Università di Berlino nel 1863 e divenne presidente della Società Geografica Berlinese. Ma non era fatto per star seduto dietro a un tavolo; instancabile viaggiatore, fu in Asia Minore (1858), in Spagna (1861), ancora in Turchia (1862), sulle Alpi (1863), in Italia (1864) e, per la terza volta, in Turchia (1865). Forse, tutti quei viaggi e quegli strapazzi finirono per logorare il suo organismo: si spense all’età di soli quarantaquattro anni, a Berlino, nel novembre del 1865. Heinrich Barth ha pubblicato la relazione dei suoi viaggi sia in inglese, sia in tedesco (5 volumi), e una edizione abbastanza recente è quella di Londra, in tre volumi, del 1965, con il titolo Travels and discoveries in North and Central Africa.

Altre notizie si possono reperire (citiamo dal Dizionario degli esploratori di Silvio Zavatti, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 23) in: A. Jacobs, Expédition du Dr. Barth en Afrique, in Revue des deux mondes, 15 giugno 1858-1 marzo 1859; B. Malfatti, Enrico Barth e le sue esplorazioni nell’Africa Centrale, in Scritti geografici ed etnografici, Milano, 1869; S. Günther, Heinrich Barth der Erforscherdes runklen Kontinents, Wien-München, 1896; G. von Schubert, Heinrich Barth, der Bahnbrechter der Deutschen Afrikaforschung. Ein Leben und Characterbild, ecc., Berlin, 1897; R. Mansel Prothero, Heinrich Barth and the western Sudan, in The Geographical Journal, settembre 1958. Degli esploratori tedeschi dei due decenni successivi – Rohlfs, Nachtigal e Schweinfurth – parleremo in un prossimo articolo.

La situazione politica, in Africa, stava evolvendo rapidamente. Anche se il “Continente Nero” celava ancora molti segreti – primo fra tutti, quello sulle sorgenti del Nilo – che appassionavano non soltanto una ristretta cerchia di studiosi europei, ma anche l’opinione pubblica, si andavano creando le condizioni per un assalto concentrico da parte delle potenze europee e per una spartizione sistematica, che verrà sanzionata dal Congresso di Berlino del 1885.

Adolf_Overweg.jpgOrmai, si andava verso una nuova fase storica, quella della colonizzazione – almeno per quanto riguarda le zone più favorevoli; quella di cui sono testimonianza opere letterarie quali Cuore di tenebra di Joseph Conrad e Via dall’Africa di Karen Blixen.

L’intera impresa dei tre esploratori tedeschi – Barth, Overweg e Vogel – è stata così riassunta dallo scrittore inglese Richard Hall in La scoperta dell’Africa (titolo originale: Discovery of Africa, London, Hamlyng Publishing, 1969; traduzione italiana di Michele Lo Buono, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1971, pp. 96-98):

La strada settentrionale fino al lago Ciad e al Sudan occidentale era stata aperta da High Clapperton e dai suoi colleghi nel 1820-29. Nel 1859 la ripercorse un gruppo di tre uomini di cui uno solo, Heinrich Barth, di Amburgo, era destinato a sopravvivere. La spedizione, pur patrocinata dal governo inglese, era composta da Barth e da un altro tedesco, Adolf Overweg, con un solo inglese, James Richardson. Questi morì vicino al lago Ciad un anno dopo la partenza da Tripoli. Overweg fu il secondo a soccombere, ma prima di morire aveva compiuto la circumnavigazione del lago su un battello pneumatico. Barth non si scoraggiò, e nei tre anni che seguirono esplorò minuziosamente la regione compresa fra Timbuctù e il Camerun. Egli istituì un modello completamente nuovo di osservazione scientifica, e l’opera in cinque volumi che riporta le sue scoperte ha contribuito immensamente alla comprensione dell’Africa da parte degli europei. Ogni fatto veniva registrato, la larghezza dei fiumi, l’altezza delle sponde, la natura della vegetazione, la distanza fra una città e l’altra, le usanze delle tribù. Ma ciò non tolse nulla al fascino e all’umanità dei suoi scritti. Ecco come sapeva descrivere una difficile traversata del Benué: «Per fortuna aveva messo i pioli della mia tenda sul fondo della canoa, e così l’acqua non è arrivata fino ai bagagli; ma per la sbadataggine dei suoi compagni tutti i libri di Haggi si sono bagnati, con suo grande dispiacere, dopo l’ho visto spargere calde lacrime, mentre asciugava i suoi tesori rovinati sulla spiaggia sabbiosa del promontorio. I cavalli, che procedevano a nuoto accanto alle canoe, dovettero faticare molto, ma disperata fu la lotta dei cammelli, che erano troppo ostinati per farsi guidare dai fragili battelli, e si dovette ricorrere al bastone; il cammello di Haggi fu per un po’ considerato spacciato fra la disperazione di tutti».

Dopo tre anni senza vedere un altro europeo, Barth fu raggiunto da Alfred [leggi: Eduard] Vogel, anch’egli tedesco. Questi, che era stato mandato con due soldati a causa della crescente preoccupazione per la sorte di Barth, venne assassinato con uno dei soldati a est del lago Ciad. Nel settembre del 1855, accompagnato dal soldato rimasto, Barth ritornò a Londra. Egli fu coperto di onori, fece altri viaggi nell’Asia Minore, divenne professore a Berlino e morì nel 1865 all’età di 44 anni. Un risultato delle sue imprese fu quello di attirare l’attenzione della Germania sulle possibilità dell’Africa.

Syrie: Des intérêts coloniaux de la Grande-Bretagne et de la France à la protection de l’approvisionnement en matières premières pour les USA

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Syrie: Des intérêts coloniaux de la Grande-Bretagne et de la France à la protection de l’approvisionnement en matières premières pour les USA

Interview de Karin Leukefeld*

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch

Dans les médias, on parle déjà d’une migration moderne des populations. De même, on débat de la responsabilité des soi-disant bandes de passeurs pour le transport de réfugiés qu’on soupçonne être des criminels ou sinon des migrants économiques aisés. Les vraies causes de la misère de masse des réfugiés ne sont guère étudiées. La correspondante en Syrie, Karin Leukefeld, décrit dans une interview accordée à Jens Wernicke, la situation d’une guerre économique par procuration détruisant de plus en plus l’Etat syrien, affamant la population et provoquant la fuite de 11 millions de Syriens.


Jens Wernicke: A ma connaissance, vous êtes la seule journaliste allemande, à part Jürgen Todenhöfer, qui se trouve réellement sur place au Moyen Orient, qui discute avec les gens concernés et qui en tire des analyses qualifiées sans que ce soient des stéréotypes. En ce moment, vous revenez d’un voyage en Syrie. Quelle est la situation sur place?

Karin Leukefeld: Cela dépend où on se trouve en Syrie. Dans la région côtière, c’est calme. Il y a même des Syriens vivant actuellement en Europe, qui s’y rendent pour y passer leurs vacances et retrouver leurs familles. Cependant, on y trouve de nombreux déplacés internes, donc l’espace libre se fait rare partout.

A Idlib, une province limitrophe de la région côtière, ce trouvent l’«Armée de la conquête» et le Front al-Nusra. Des dizaines de milliers de personnes se sont enfuies, certains villages sont assiégés. A Alep, la situation est très sérieuse. C’est la guerre entre divers groupes armés et l’armée syrienne. De grandes parties de la ville sont détruites, l’approvisionnement en eau et en courant est souvent interrompu, les denrées alimentaires sont très chères, là où on en trouve. Des groupes armés tirent des grenades de mortier, des missiles et des projectiles fabriqués par eux-mêmes en direction des quartiers habités et l’armée syrienne riposte.
A l’est d’Alep, il y a des régions contrôlées par les Kurdes, d’autres sont contrôlées par l’«Etat islamique en Irak et au Levant» auto-proclamé (EI). Là, on est en grande insécurité, les fronts changent quotidiennement, les forces aériennes syriennes et l’«Alliance anti-EI», dirigée par les Etats-Unis, effectuent leurs attaques. Depuis peu, les forces aériennes turques effectuent également des raids. Elles attaquent les positions du Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK) dans le nord de l’Irak. Dans le nord de la Syrie, elles attaquent les régions contrôlées par les Kurdes syriens. L’attaque est menée sous le mot d’ordre «lutte contre l’‹Etat islamique›». Au nord d’Alep, les Etats-Unis et la Turquie veulent imposer une «zone de protection». C’est une mesure militaire à l’intérieur du territoire syrien exigeant la permission du Conseil de sécurité de l’ONU. Puisque celle-ci n’existe pas, il s’agit donc d’une attaque contre un Etat souverain et d’une violation du droit international.
Les régions habitées de la province centrale de Homs sont contrôlées par le gouvernement syrien et l’armée. Les zones désertiques, s’étendant de l’est jusqu’à la frontière avec l’Irak ne sont pas sûres. La situation à Tadmur, une ville moderne, proche de Palmyre, n’est pas claire. Dans le cloître de Deir Mar Elian, que j’ai souvent visité, le prêtre Jacques Mourad et un autre religieux ont été kidnappés. On n’a aucune trace d’eux. Entretemps, les habitants de Qaryatayn et de Sadat, dont une grande partie sont des chrétiens, ont été chassés par l’Etat islamique.
A Damas, 7 millions de personnes ont trouvé refuge; ce sont des réfugiés internes, venant de toutes les parties du pays. La situation est assez calme, l’électricité et l’eau manquent, de la banlieue de Damas, où se trouvent les bases du Front islamique et d’al-Nusra on tire souvent sur la ville. L’armée syrienne riposte.
A Sweida, où habitent les Druses et les chrétiens, la situation est encore calme. J’y vais chaque fois que je suis en Syrie. Deraa et le Golan, à la frontière israélienne, sont toujours disputés. Actuellement, une grande bataille pour Zabadani, située à la frontière libanaise, est en cours. Là, se trouve un quartier général des groupes armés combattant aux alentours de Damas. L’armée syrienne et le Hezbollah libanais, luttant en commun, veulent reconquérir cette base stratégiquement importante pour ces combattants.
La vie est chère. La livre syrienne n’a plus qu’un cinquième de son pouvoir d’achat comparé à 2010. Beaucoup d’habitants ont tout perdu; on mendie, la viande s’est raréfiée à table, pour autant qu’il y ait encore une table. Le taux de chômage est à 40%, les enfants travaillent pour aider la famille et ne vont plus à l’école. La moitié des 500?000 Palestiniens syriens ont fui, car leurs camps, qui étaient plutôt des villes, sont détruits.
Les centres économiques de la Syrie – situés autour d’Alep, de Homs et de Damas – sont presque totalement détruits. La Syrie possédait sa propre industrie pharmaceutique, une excellente industrie textile, un secteur agroalimentaire et d’importantes réserves céréalières: tout a été détruit, pillé et vendu en Turquie. Les modestes réserves pétrolières dans l’est du pays sont contrôlées par des groupes de combattants, le pétrole étant vendu dans le pays, également au gouvernement, ou souvent aussi transporté illégalement hors du pays.
Entretemps, une grande partie des stations d’extraction de pétrole ont été bombardées par l’alliance anti-EI. Et puis les sites archéologiques syriens, datant de plus de 10?000 ans avant notre ère – sont occupés, assiégés, pillés, détruits par des combattants.
La situation est dure, la misère est grande. Surtout pour les Syriens en fuite. 4 millions ont fui dans les pays voisins, 7 millions supplémentaires sont des réfugiés internes à l’intérieur de la Syrie.
Ce qui est vraiment perfide c’est que ces flux migratoires sont politiquement instrumentalisés. Le conflit interne de la Syrie a d’abord été élargi en un conflit régional, puis en une guerre internationale par procuration. Partout où les habitants se sont enfuis, des groupes armés, soutenus par des forces régionales et internationales, se sont installés. Puis, on a déclaré que le gouvernement syrien n’avait plus le contrôle dans son pays, qu’il était en outre le problème fondamental, la «racine de tous les maux» en Syrie. Tout récemment un porte-parole du Secrétariat d’Etat américain vient de le répéter: il a déclaré que la Syrie est un «Etat en déliquescence» dans lequel on peut s’ingérer aux niveaux humanitaire et militaire.

Et cette pauvreté, cette misère que vous décrivez et qui fait fuir les gens: d’où vient-elle, quelles en sont les raisons? Et que voulez-vous dire avec le terme de «guerre par procuration»? Je vous prie de préciser cela …

La Syrie est un pays en développement. En 2010, la situation avait déjà beaucoup évolué, et on prévoyait qu’en 2015, donc cette année, le pays serait à la cinquième place des puissances économiques du Monde arabe.
Actuellement, la Syrie se trouve juste devant la Somalie. La crise économique causée par la guerre est encore aggravée par les sanctions économiques de l’UE. Ce que nous observons dans ce pays est aussi une guerre économique contre un pays ascendant.
Les sanctions économiques édictées par l’UE, commencèrent déjà fin 2011 et concernaient le commerce du pétrole et du gaz ainsi que le secteur financier. La compagnie aérienne syrienne n’avait plus le droit d’atterrir sur les aéroports européens, tous les projets bilatéraux furent arrêtés, le personnel fut retiré, la Syrie fut isolée. Au début, l’Etat et la population purent encore surmonter les pénuries grâce à leurs propres réserves, mais le jour vint, où celles-ci furent épuisées. L’Etat obtint un soutien financier et des crédits de l’Iran. Ainsi, on put diminuer les pertes de l’industrie pétrolière. On put livrer du pétrole et du gaz à la population, à l’industrie encore en fonction et à l’armée. L’économie nationale fut cependant soumise à la guerre, une économie de guerre se développa.
Avec ses sanctions économiques, l’UE veut officiellement mettre sous pression la direction politique et militaire du pays afin de la faire plier et démissionner. Cela n’a pas eu lieu. C’est donc la société qui fut sanctionnée; on détruisit ses moyens d’existence créés et développés avec de grands efforts. Dorénavant, c’étaient les profiteurs de guerre qui gagnèrent de l’argent: les milices, les contrebandiers, les marchands du marché noir.
Au delà de la politique des sanctions, on détruisit de façon ciblée l’économie syrienne au niveau matériel. Cela était le plus apparent à Alep et à Damas. Au cours de l’été 2012, il y a eut une attaque coordonnée qui aurait dû mener à la chute du gouvernement syrien. A Damas, quatre hauts militaires et membres des services secrets furent tués lors d’une attaque contre le Conseil national de sécurité. Directement après, suivirent des attaques contre Alep et Damas. Ces vagues d’attaques furent effectuées par des combattants qui avaient été retirés de Homs après que la bataille pour Babr Amr avait été gagnée par les forces armées syriennes. Ces combattants s’étaient rassemblés aux alentours de ces deux grandes villes où ils furent soutenus par les forces locales. Le coup d’Etat ne réussit pas, car les responsables d’Alep et de Damas refusèrent d’ouvrir les portes de la ville aux groupes de combattants. En réaction à ce refus, les zones industrielles autour d’Alep et de Damas furent détruites et pillées et on en fit des bases pour de futures attaques contre ces deux villes.
Le fait qu’il s’agit réellement d’une guerre par procuration est évident aussitôt qu’on prend en compte que le dit Etat islamique, appelé «Daech» dans le pays, n’est nullement surgi du néant, comme nos médias dominants veulent nous le faire croire. Des sponsors régionaux et internationaux le soutienne ce qui semble lui permettre de disposer de ressources financières inépuisables.
Ces sponsors utilisent les combattants pour détruire les Etats nationaux, créés au Levant, il y a 100 ans, contre la volonté des populations de l’époque. En ce temps, les intérêts coloniaux de la Grande Bretagne et de la France primaient, aujourd’hui, il s’agit de la protection des matières premières pour l’Occident dirigé par les Etats-Unis. Le courroux des Etats du Golfe contre la politique indépendante défendue en Syrie, se reflète dans l’armement et la formation de groupes de combats irréguliers, dominés par «Daech». Le terrain sociétal qui les nourrit, c’est la pauvreté.

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Pourriez-vous nous donner un exemple concret de cette «spirale de la pauvreté» dont il semble s’agir?

Prenons une entreprise vendant des équipements médicaux à des cabinets et des hôpitaux. Jusqu’à présent, cette entreprise achetait les équipements en Allemagne. Suite aux sanctions de l’UE, plus rien ne pouvait être acheté ou livré. Acheter dans un autre pays était difficile pour cette entreprise, car tous les transferts financiers étaient interrompus. La Banque centrale syrienne est soumise aux sanctions, personne n’a le droit de faire des affaires avec elle. Pour contourner cela, l’entreprise allemande livre par exemple les produits à une entreprise libanaise qui les vend à l’entreprise syrienne. Le Liban n’est pas soumis aux sanctions de l’UE. Le transfert de marchandises se renchérit ainsi massivement.
 Un autre exemple est que les parents, dont les enfants font des études à l’étranger, ne peuvent plus leur envoyer de l’argent parce que les banques syriennes n’ont plus le droit de faire des affaires. La même chose est valable pour les bourses du gouvernement syrien pour les étudiants à l’étranger. Ou prenons l’exemple des médicaments: jusqu’à présent, ils étaient très avantageux grâce à une bonne production en Syrie. L’industrie pharmaceutique est pratiquement détruite, donc, il faut importer les médicaments par le Liban ou se les procurer de la Turquie par contrebande – ce qui permet d’exiger des prix astronomiques.

Et les intérêts à l’arrière-plan de ce conflit – de quelles forces parlons-nous? A qui pensez-vous, en parlant de «sponsors»?

Les sponsors sont ceux qui soutiennent les groupes armés contre le régime syrien et l’armée. La Russie et l’Iran, qui soutiennent le gouvernement syrien, sont ses alliés parce qu’ils sont liés avec l’Etat syrien par des accords de droit international. Les Etats régionaux, la Turquie, l’Arabie saoudite et le Qatar sont plutôt des «sponsors», parce qu’ils se servent des groupes pour leurs propres objectifs, et si c’est opportun, ils les laissent tomber. Cela est également valable pour les sponsors parmi les Etats européens, de l’Australie et des Etats-Unis.
Le chaos déployé en Irak et en Syrie profite avant tout aux Etats du Golfe, à la Turquie et aux Etats-Unis. Evidemment pas à la population, mais aux élites politiques et industrielles, en premier lieu à l’industrie de l’armement. La péninsule arabe s’est transformée au cours des dernières 5 années en un immense dépôt d’armes. Des militaires occidentaux, étatiques et privés, entraînent des combattants, les arment et les envoient à la guerre. Les Etats-Unis livrent du matériel de guerre valant plusieurs milliards dans les Etats du Golfe et en Israël. L’Allemagne arme les Peschmerga kurdes du nord de l’Irak et les entraîne, et la Turquie profite en tant que pays membre de l’OTAN de sa position de front face à la Syrie et à l’Irak. La Syrie est évidemment aidée militairement par la Russie et l’Iran, mais cela se passe, comme déjà dit, sur la base d’accords bilatéraux.
D’ailleurs, dans aucun des pays affectés par le «printemps arabe», le mouvement de protestation de la jeunesse éclairée et moderne n’a survécu nulle part! En Tunisie, en Egypte et en Syrie les événements sont déterminés par l’islam politique, que ce soit en tant que groupe de combat ou d’opposition.

Face à tout cela, le fanatisme religieux des gens sur place est certes également important, car il contribue pour ainsi dire à de véritables «guerres religieuses» …

Les Syriens n’ont jamais été des fanatiques religieux! Ce sont uniquement les Frères musulmans, qui propagent un islam politique, ou plus précisément une aile des Frères musulmans syriens, qui ont essayé, à la fin des années 1970, de se révolter contre le parti baathiste ayant imposé un Etat séculaire. Cette révolte se termina en 1982 par le massacre de Hama. Des milliers de personnes moururent suite aux attaques aériennes de l’armée syrienne. Des milliers disparurent ou se retrouvèrent en prison. Ceux qui en furent capables prirent la fuite et les Frères musulmans furent interdits sous peine de mort.
Il va de soi que cela continue d’agir. Beaucoup de jeunes gens, qui sont engagés dans des unités de combat islamiques, parlent de Hama, quand on leur demande pourquoi ils combattent. Un jeune homme, tout en manifestant pacifiquement, m’a raconté en 2011 lorsque tout commença, que son oncle avait disparu à Hama et que suite à cela toute sa famille soutenait l’opposition. Toutefois, il faut aussi rappeler que l’aile des Frères musulmans de Damas s’opposait à la révolte armée dans les années 1970.
Le rôle des Frères musulmans dans la montée de l’islam politique radical ne doit pas être sous-estimé. Le parti gouvernemental AKP en Turquie est aussi un parti frère des Frères musulmans, et un sondage a démontré que plus de 10% de la population turque ne voit pas l’«Etat islamique en Irak et au Levant» comme étant une organisation terroriste dont on doit avoir peur, tout au contraire, ils le soutiennent comme une force légitime. Cela n’est possible que parce que le gouvernement turc poursuit lui-même une ligne de l’islam politique. Dans un Etat séculaire une telle chose serait impensable.
Mais retournons en Syrie. Il y eut beaucoup de conflits politiques, mais au niveau culturel et religieux, la Syrie a toujours été un pays tolérant et ouvert. Actuellement, on tente aussi de détruire cette tolérance. Cela ne vient pas «d’en bas» ou «de l’âme des êtres humains» vivant sur place – c’est une conséquence des intérêts géopolitiques et des affrontements stratégiques.

Flag_of_the_French_Mandate_of_Syria_(1920)_svg.jpgAinsi, les gens fuient et souffrent parce que le dit Occident recouvre leur patrie de guerre et la met économiquement à genoux? Les méchantes bandes de passeurs, dont nous entendons beaucoup parler dans nos médias, ne sont pas le problème principal, expliquant pourquoi 11 millions de Syriens sont en fuite?

Les bandes de passeurs sont la conséquence d’une politique totalement erronée au Moyen Orient, non pas la cause. Ces bandes font partie de l’économie de guerre. Sans guerre, ils n’auraient rien à faire. Ils utilisent les mêmes voies pour transporter illégalement des armes, de la munition, des équipements, des téléphones par satellite et des combattants ainsi que des drogues et toutes choses dont on a besoin pour faire la guerre en Syrie.
Les réfugiés rencontrent sur ces sentiers de contrebande des combattants, les organisateurs sont les mêmes. Le bureau des Nations Unis pour la lutte contre la drogue et le crime a présenté un rapport détaillé sur ces voies de contrebande.
Aussi longtemps que l’on peut gagner beaucoup d’argent avec la guerre et la souffrance des gens concernés, on ne peut pas s’attendre à de grands changements.

Comment se fait-il que dans nos médias, on ne rapporte rien de pareil ou alors, si quelque information passe, ce sont en règle générale des infos totalement indifférenciées?

Il faudrait poser ces questions aux médias dominants. Ils doivent diriger, guider et «classer» la perception de la population, c’est ainsi qu’on définit leur tâche depuis peu. Pour moi, cela veut dire qu’ils définissent la direction de nos réflexions et la manière de «classer» un conflit. Cela a peu à voir avec la réalité dans les régions de conflits, d’autant plus que beaucoup de collègues ne s’y trouvent pas, mais plus souvent ils sont dans une ville d’un pays voisin ou dans le studio de leur propre chaîne télévisuelle ou radio. Un pendant à cette présentation serait un reportage, rapportant les options et les développements guerriers, mais donnant au moins autant de place aux propositions, initiatives et développements politiques non armés.

Que faudrait-il, selon vous, changer en Syrie pour que la paix puisse être rétablie? Et: y’a-t-il quelque chose que nous, la population allemande, puissions faire pour soulager la misère dans le pays?

Les Etats-Unis et la Russie doivent se mettre d’accord sur une procédure commune pour stabiliser la Syrie et l’Irak et en intégrant les forces armées et le gouvernement syriens ainsi que l’armée et le gouvernement irakiens. Il faut laisser de côté toutes conditions préalables – telles que «Assad n’a pas d’avenir en Syrie». Les acteurs syriens doivent être soutenus et non empêchés de participer à la table de négociations. Tout le monde doit s’abstenir d’influencer la situation en faveur de ses propres intérêts. La Turquie doit être forcée – par l’OTAN ou bilatéralement par certains pays membres de l’OTAN – de cesser son soutien au prétendu Etat islamique. Si elle ne le fait pas, il faut sanctionner militairement la Turquie. Et les pays d’origine des djihadistes internationaux doivent empêcher les combattants ou sympathisants islamistes de partir à l’étranger. Pour ce faire, il faut aussi ouvrir dans les Etats respectifs le débat sur une cohabitation respectueuse et une égalité des chances.
La population doit surtout assister les réfugiés arrivant en Allemagne. Toutefois, le gouvernement fédéral, qui a contribué à leur fuite par sa politique erronée, ne doit pas être libéré de sa responsabilité pour ces personnes. Au Bundestag, dans les Parlements des Länder, dans les syndicats, les écoles, les églises, les blogs et les réunions politiques –il faut partout expliquer les réels dessous de la guerre en Syrie. C’est la responsabilité de quiconque voulant mettre fin à cette guerre.

Encore un dernier mot?

Oui. 70 ans après la fin de la Seconde Guerre mondiale, je veux rappeler le poème de Wolfgang Borchert: «Alors une seule chose compte: dire NON!». Dans le voisinage direct de l’Europe, dans l’espace méditerranéen oriental et dans diverses parties de l’Afrique ont lieu, sans cesse depuis 25 ans, des guerres qui s’étendent de plus en plus. En ajoutant le conflit israélo-palestinien, nous sommes en guerre au Proche-Orient depuis 1948. Avec l’occupation de l’Irak en 2003, en violation du droit international, les Etats-Unis ont finalement ouvert la «porte de l’enfer», les mises en garde étaient déjà nombreuses en ce temps-là.
Les Palestiniens sont depuis bientôt 70 ans en fuite ou vivent – par exemple dans la bande de Gaza ou en Cisjordanie – comme des prisonniers dans leur propre pays. Des Irakiens fuient leur pays, maintenant les Syriens. L’Occident attise ces guerres, l’Allemagne aussi en livrant des armes et en se taisant face aux violations du droit international. L’opposition politique au Bundestag ou au Parlement européen n’est pas à la hauteur de sa tâche en ce qui concerne la guerre et la paix. De nombreux médias jouent aux va-t-en-guerre.
Je regrette le temps des grands mouvements pour la paix et contre la guerre, qui se retrouvèrent jadis dans la rue contre la guerre en Irak. Ils doivent se rassembler sans se laisser diviser. Le mouvement pour la paix doit se manifester dans la rue contre ces guerres!

Merci de cet entretien.    •

* Karin Leukefeld, 1954, a étudié l’ethnologie, l’islam et les sciences politiques et est libraire de formation. Elle fut responsable des relations publiques entre autre de la Fédération d’initiatives citoyennes pour la protection de l’environnement (BBU), des Verts (parti fédéral) ainsi que du bureau d’information El Salvador. Depuis l’an 2000, elle est correspondante indépendante pour toutes questions concernant le Proche-Orient. Son site internet: www.leukefeld.net

(Propos recueillis par Jens Wernicke)
(Traduction Horizons et débats)
Source: www.nachdenseiten.de/?p=27340
du 27/8/15

jeudi, 17 septembre 2015

Syrien – von den kolonialen Interessen Grossbritanniens und Frankreichs, zur Sicherung von Rohstoffen für die USA

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Syrien – von den kolonialen Interessen Grossbritanniens und Frankreichs, zur Sicherung von Rohstoffen für die USA

Interview mit Karin Leukefeld*

Ex: http://www.zeit-fragen.ch

In den Medien ist bereits von einer neuzeitlichen Völkerwanderung die Rede. Und auch über die Verantwortung sogenannter Schlepperbanden für die Flucht womöglich krimineller, mindestens aber heimlich wohlhabender Flüchtlinge wird diskutiert. Die Ursachen des Massenelends der Flüchtigen werden jedoch kaum erforscht. Die Syrien-Korrespondentin Karin Leukefeld berichtet im Interview mit Jens Wernicke von einem Wirtschafts- und Stellvertreterkrieg, der zunehmend zum Exitus des syrischen Staates führe, die Bevölkerung in den Hungertod treibe und bereits 11 Millionen Syrer auf die Flucht getrieben hat.

Frau Leukefeld, Sie sind neben Jürgen Todenhöfer die einzige mir bekannte deutsche Journalistin, die im Mittleren Osten wirklich vor Ort unterwegs ist, mit den Menschen dort spricht und darauf aufbauend dann qualifizierte Analysen, die mehr als nur Stereotype bedienen, produziert. Im Moment kommen Sie gerade von einer Syrien-Reise zurück. Wie ist die Situation vor Ort?

Es kommt darauf an, wo man sich in Syrien aufhält. In der Küstenregion ist es ruhig, manche Syrer, die jetzt in Europa leben, fahren sogar zum Urlaub dorthin, um ihre Familien zu treffen. Allerdings gibt es dort sehr viele Inlandsvertriebene, es ist also überall sehr eng geworden.
In Idlib, einer an die Küstenregion angrenzenden Provinz, herrschen die «Armee der Eroberung» und die al-Nusra-Front, Zehntausende sind geflohen, manche Dörfer werden belagert. In Aleppo ist die Lage schlimm, es herrscht Krieg zwischen den bewaffneten Gruppen und der syrischen Armee. Viele Teile der Stadt sind zerstört, die Strom- und Wasserversorgung bricht immer wieder ein, Lebensmittel sind sehr teuer, wenn sie überhaupt erhältlich sind. Bewaffnete Gruppen feuern Mörsergranaten, Raketen und selbstgebaute Geschosse in Wohngebiete, die syrische Armee feuert zurück.


Östlich von Aleppo gibt es Gebiete, die von Kurden kontrolliert werden, andere von dem selbsternannten «Islamischen Staat im Irak und in der Levante» (IS). Dort ist es extrem unsicher, die Fronten wechseln täglich, die syrische Luftwaffe und die von den USA geführte «Anti-IS-Allianz» fliegen Luftangriffe. Neuerdings fliegt auch die türkische Luftwaffe Angriffe. Im Nordirak greift sie Stellungen der Arbeiterpartei Kurdistans (PKK) an. Im Norden Syriens greift sie die von den syrischen Kurden kontrollierten Gebiete an. Der Einsatz läuft unter dem Motto «Kampf gegen den ‹Islamischen Staat›». Die USA wollen mit der Türkei nördlich von Aleppo eine «Schutzzone» durchsetzen. Das ist eine militärische Massnahme innerhalb Syriens, die der Genehmigung des UN-Sicherheitsrates bedarf. Die gibt es nicht, also handelt es sich um den Angriff auf einen souveränen Staat und ist eine Verletzung des Völkerrechts.
Die besiedelten Gebiete der zentralen Provinz Homs werden weitgehend von der syrischen Regierung und von der Armee kontrolliert. Die Wüstengebiete, die sich im Osten bis an die Grenze zum Irak erstrecken, sind unsicher. Die Lage in Tadmur, der modernen Stadt, die bei Palmyra liegt, ist unklar. Aus dem Kloster Deir Mar Elian, das ich sehr oft besucht habe, wurden Ende Mai der Priester Jacques Mourad und ein weiterer Geistlicher entführt. Von beiden fehlt jede Spur. Inzwischen wurden die Menschen auch aus Qaryatayn und Sadat vom IS vertrieben, viele von ihnen Christen.


Damaskus beherbergt bis zu 7 Millionen Menschen, Inlandsvertriebene aus allen Teilen des Landes. Es ist weitgehend ruhig, Strom und Wasser sind knapp, aus den Vororten um Damaskus, wo die Islamische Front und die al-Nusra-Front Basen haben, wird immer wieder auf die Stadt gefeuert, umgekehrt feuert die syrische Armee auch dorthin.
Sweida, wo die Drusen und Christen leben, ist noch ruhig, ich fahre jedes Mal dorthin, wenn ich in Syrien bin. Deraa ist weiter umkämpft und der Golan, an der Grenze zu Israel, ebenso. Derzeit findet eine grosse Schlacht um Zabadani statt, das liegt an der Grenze zu Libanon. Dort gibt es ein Hauptquartier der bewaffneten Gruppen, die um Damaskus herum agieren. Die syrische Armee und die libanesische Hizbullah, die gemeinsam kämpfen, wollen diese strategisch wichtige Basis der Kampfgruppen zurückerobern.


Das Leben ist teuer, das syrische Pfund hat nur noch ein Fünftel der Kaufkraft von 2010. Viele Menschen haben alles verloren, es wird gebettelt, Fleisch kommt nur noch selten auf den Tisch. Wenn die Leute überhaupt noch einen Tisch haben. Die Arbeitslosigkeit liegt bei über 40 Prozent, Kinder arbeiten, um der Familie zu helfen und gehen nicht mehr in die Schule. Die Hälfte der 500 000 syrischen Palästinenser ist geflohen, weil ihre Lager, die eigentlich Städte waren, zerstört sind.


Die wirtschaftlichen Zentren Syriens – die um Aleppo, Homs und Damaskus angesiedelt waren – sind weitgehend zerstört. Syrien hatte eine eigene Pharmaindustrie, eine hervorragende Textilindustrie, eine Lebensmittelindustrie und grosse Getreidereserven: Alles ist zerstört, geplündert und in die Türkei verkauft. Die bescheidenen Ölvorkommen im Osten des Landes werden von Kampfgruppen kontrolliert, das Öl ausser Landes geschmuggelt und dort oder auch im Land verkauft, selbst an die Regierung.


Inzwischen sind viele Ölförderanlagen von der Anti-IS-Allianz bombardiert worden. Und dann die archäologischen Stätten in Syrien, die bis zu 10 000 Jahre vor die christliche Zeitrechnung zurückdatieren – von Kämpfern besetzt und belagert, geplündert, zerstört.


Die Lage ist hart, das Elend gross. Besonders für die Syrer auf der Flucht. 4 Millionen von ihnen sind in Nachbarstaaten geflohen, weitere 7 sind innerhalb Syriens auf der Flucht.
Die Perfidie ist, dass diese Fluchtbewegungen politisch instrumentalisiert werden. Der innersyrische Konflikt wurde zu einem regionalen und schliesslich zu einem internationalen Stellvertreterkrieg ausgeweitet. Dort, wo Menschen flohen, zogen bewaffnete Gruppen ein, die bis heute regional und international unterstützt werden. Und dann hiess es, die syrische Regierung hat keine Kontrolle mehr und ist ohnehin die «Wurzel von allem Bösen» in Syrien, wie es gerade erst wieder ein Sprecher des US-Aussenministeriums erklärte. Syrien wird zu einem «failed state» erklärt, in den man humanitär und militärisch eingreifen kann.

Und diese Armut, dieses Elend, das Sie beschreiben und vor dem die Leute fliehen: Wo kommen die her, woraus resultieren die? Und wie meinen Sie das mit dem Stellvertreterkrieg? Bitte führen Sie das doch kurz aus …

Syrien ist ein Entwicklungsland. Es war 2010 auf dem aufsteigenden Ast und sollte 2015, also in diesem Jahr, die fünftstärkste Wirtschaftsmacht der arabischen Welt sein.
Heute liegt Syrien knapp vor Somalia. Die durch den Krieg entstandene Wirtschaftskrise wird durch die Wirtschaftssanktionen der EU noch verschärft. Was wir hier beobachten, ist auch ein Wirtschaftskrieg gegen ein aufstrebendes Land.


Die Wirtschaftssanktionen der EU begannen bereits Ende 2011 und betrafen den Öl- und Gashandel sowie den Finanzsektor. Die syrische Fluggesellschaft durfte europäische Flughäfen nicht mehr anfliegen, alle bilateralen Projekte wurden gestoppt, das Personal abgezogen, Syrien wurde isoliert. Anfangs konnten der Staat und die Bevölkerung Mängel aus eigenen Ressourcen überbrücken, doch die waren eines Tages aufgebraucht. Der Staat erhielt finanzielle Unterstützung und nahm bei Iran Kredite auf. Damit konnten Verluste aus der Ölindustrie verringert werden, Öl und Gas konnten an die Bevölkerung, an die noch funktionierende Industrie und die Armee geliefert werden. Doch die nationale Ökonomie wurde dem Krieg untergeordnet, es entstand eine Kriegsökonomie.

 

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Offiziell will die EU mit ihren Wirtschaftssanktionen die politische und militärische Führung Syriens unter Druck setzen, dass sie nachgeben und zurücktreten soll. Das ist nicht geschehen. Statt dessen wurde die Gesellschaft bestraft, ihre mühsam aufgebaute Existenzgrundlage zerstört. Geld konnten fortan diejenigen verdienen, die vom Krieg profitierten: Milizen, Schmuggler, Schwarzmarkthändler.


Jenseits der Sanktionspolitik wurde die Wirtschaft Syriens auch gezielt materiell zerstört. Am besten war das in Aleppo und in Damaskus zu sehen. Im Sommer 2012 gab es einen koordinierten Angriff, der eigentlich zum Sturz der syrischen Führung führen sollte. In Damaskus wurden bei einem Anschlag im Nationalen Sicherheitsrat vier hochrangige Militärs und Geheimdienstler getötet. Unmittelbar darauf folgten Angriffe auf Aleppo und Damaskus. Ausgeführt wurden diese Angriffswellen von Kämpfern, die aus Homs abgezogen worden waren, nachdem der Kampf um Baba Amr sich zugunsten der Streitkräfte entschieden hatte. Diese Kämpfer hatten sich im Umland der beiden grossen Städte gesammelt, wo sie von lokalen Kräften unterstützt wurden. Der Umsturz gelang nicht, sowohl die Aleppiner als auch die Damaszener weigerten sich, den Kampfgruppen die Tore in ihre Städte zu öffnen. Als Reaktion auf diese Weigerung wurden die Industriegebiete um Aleppo und um Damaskus zerstört, geplündert und zu Stützpunkten für weitere Angriffe auf die beiden Städte gemacht.
Und dass es sich hier um einen Stellvertreterkrieg handelt, wird klar, wenn man versteht, dass der sogenannte Islamische Staat, der vor Ort «Daish» genannt wird, anders als in unseren Leitmedien gern verbreitet, alles andere als aus dem Nichts aufgetaucht ist. Regionale und internationale Sponsoren stehen hinter ihm, so dass er offenbar über unerschöpfliche finanzielle Ressourcen verfügt.


Diese Sponsoren benutzen die Kämpfer, um die Nationalstaaten zu zerstören, die vor 100 Jahren in der Levante gegen den Willen der damaligen Bevölkerung geformt worden waren. Damals ging es um die kolonialen Interessen von Grossbritannien und Frankreich, heute geht es um die Sicherung von Rohstoffen für die von den USA angeführte westliche Welt. Der Zorn der Golf-Staaten auf die unabhängige Politik, die in Syrien verteidigt wird, schlägt sich nieder in der Bewaffnung und Ausbildung von irregulären Kampfgruppen, die von «Daish» dominiert werden. Der gesellschaftliche Boden, der sie nährt, ist Armut.

Haben Sie für derlei «Spirale in die Armut», um die es ja offenkundig geht, vielleicht ein konkretes Beispiel parat?

Nehmen wir einen Betrieb, der medizinische Einrichtungen für Praxen und Kliniken verkauft. Bisher hat der Betrieb die Einrichtungen aus Deutschland bezogen. Auf Grund der EU-Sanktionen konnte nichts gekauft und nichts mehr geliefert werden. Und in einem anderen Land zu kaufen, war schwierig für den Betrieb, weil sämtliche Geldgeschäfte unterbrochen waren. Die syrische Zentralbank steht unter Sanktionen, niemand darf mit ihr Geschäfte machen. Um das zu umgehen, liefert nun beispielsweise die deutsche Firma die Produkte an ein Unternehmen in Libanon, das sie dann an die syrische Firma weiterverkauft. Libanon ist an die EU-Sanktionen nicht gebunden. Der Warentransfer wird so extrem teuer.


Ein anderes Beispiel ist, dass Eltern, deren Kinder im Ausland studieren, ihnen kein Geld mehr schicken können, weil mit den syrischen Banken keine Geschäfte gemacht werden dürfen. Das gleiche gilt übrigens auch für Stipendien der syrischen Regierung für Studierende im Ausland. Oder Medikamente: Bisher waren sie sehr billig, weil sie in Syrien produziert wurden. Die Pharmaindustrie ist weitgehend zerstört, also werden Medikamente aus Libanon eingeführt oder aus der Türkei geschmuggelt – das treibt den Preis in schwindelnde Höhen.

Und die Interessen im Hintergrund dieses Konfliktes – von welchen Kräften sprechen wir hier? Wen meinen Sie, wenn Sie «Sponsoren» sagen?

Sponsoren sind diejenigen, die die bewaffneten Gruppen gegen die syrische Regierung und Armee unterstützen. Russland und Iran, die die syrische Regierung stützen, sind deren Alliierte oder Bündnispartner, weil sie mit dem syrischen Staat durch völkerrechtlich bindende Verträge verbunden sind. Die Regionalstaaten die Türkei, Saudi-Arabien und Katar sind eher «Sponsoren», weil sie Gruppen für eigene Zwecke benutzen, sie aber auch, wenn es opportun ist, wieder fallen lassen können. Das gilt auch für die Sponsoren unter den europäischen Staaten, aus Australien und aus den USA.


Von dem Chaos, das sich über den Irak und Syrien ausbreitet, profitieren vor allem die Golf-Staaten, die Türkei und die USA. Nicht die Bevölkerung natürlich, sondern politische und industrielle Eliten, allen voran die Rüstungsindustrie. Die arabische Halbinsel ist in den letzten 5 Jahren zu einem riesigen Waffenlager aufgerüstet worden. Westliche Militärs, staatliche und private, bilden Kämpfer aus, bewaffnen sie und schicken sie in den Krieg. Die USA liefern Rüstungsgüter in Milliardenhöhe an die Golf-Staaten ebenso wie an Israel. Deutschland bewaffnet die nord­irakischen kurdischen Peschmerga und bildet sie aus, und die Türkei profitiert als Nato-Land von ihrer Frontstellung zu Syrien und zum Irak. Natürlich wird Syrien von Russ­land und Iran militärisch unterstützt, aber das geschieht, wie gesagt, auf der Basis von bilateralen Verträgen.


Übrigens haben in keinem der vom «arabischen Frühling» betroffenen Länder die Protestbewegungen der jungen, aufgeklärten und modernen Jugend überlebt, nirgends! In Tunesien, Ägypten und Syrien wird das Geschehen vom politischen Islam bestimmt, ob als Kampf- oder Oppositionsgruppe.

Relevant ist bei alldem aber sicher doch auch der religiöse Fanatismus der Menschen vor Ort, der dazu beiträgt, dass es sozusagen regelrechte «Religionskriege» gibt …

Die Syrer waren nie religiöse Fanatiker! Lediglich die Muslim-Bruderschaft, die den ­politischen Islam propagiert, genauer gesagt, ein Flügel in der syrischen Muslim-Bruderschaft versuchte Ende der 1970er Jahre den Aufstand gegen die Baath-Partei, die einen säkularen Staat durchgesetzt hatte. Dieser Aufstand endete 1982 mit dem Massaker von Hama. Tausende starben beim Luftangriff der syrischen Armee, Tausende verschwanden ganz oder in Gefängnissen. Wer konnte, floh, die Muslim-Bruderschaft wurde bei Todesstrafe verboten.
Das wirkt natürlich nach, und viele junge Leute, die sich heute bei islamistischen Kampfverbänden verdingt haben, erinnern an Hama, wenn man sie fragt, warum sie kämpfen. Ein junger Mann, der allerdings friedlich demonstrierte, erzählte mir 2011, als alles begann, dass sein Onkel in Hama verschwunden sei und die ganze Familie deswegen die Opposition unterstütze. Allerdings muss man auch daran erinnern, dass der Damaskus-Flügel der Muslim-Bruderschaft damals, in den 1970er Jahren, gegen den bewaffneten Aufstand war.


Die Rolle der Muslim-Bruderschaft bei der Entstehung des radikalen politischen Islam darf dennoch nicht unterschätzt werden. Auch die Regierungspartei AKP in der Türkei ist eine Schwesterpartei der Muslim-Bruderschaft, und eine Umfrage hat ergeben, dass mehr als 10 Prozent der türkischen Bevölkerung den «Islamischen Staat im Irak und in der Levante» nicht als terroristische Organisation oder als Gefahr ansehen, sondern für legitim halten und unterstützen. Das ist nur möglich, weil die türkische Regierung selber eine Linie des politischen Islam verfolgt. In einem säkularen Staat wäre so etwas nicht denkbar.
Doch zurück zu Syrien. Es gab viele ­politische Konflikte, aber kulturell und religiös war Syrien immer ein sehr tolerantes und offenes Land. Auch diese Toleranz soll jetzt zerstört werden. Das kommt allerdings nicht «von unten» oder «aus dem Wesen der Menschen» vor Ort – das ist Folge der geopolitischen Interessen und strategischen Auseinandersetzungen.

Die Leute fliehen und leiden also, weil der sogenannte Westen ihre Heimat mit Krieg überzieht und wirtschaftlich in die Knie zwingt? Böse Schlepperbanden, über die wir medial viel hören, sind also nicht das Hauptproblem, auf Grund dessen inzwischen 11 Millionen Syrer auf der Flucht sind?

Die Schlepperbanden sind die Folge einer völlig falschen Politik im Mittleren Osten, nicht die Ursache. Diese Schlepperbanden sind integraler Teil der Kriegswirtschaft. Ohne Krieg hätten sie gar kein Geschäft. Sie benutzen die gleichen Wege, über die Waffen, Munition, Ausrüstung, Satellitentelefone und Kämpfer ebenso geschmuggelt werden wie Drogen und andere Dinge, die für den Krieg in Syrien gebraucht werden.


Die Flüchtlinge begegnen auf diesen Schmuggelpfaden den Kämpfern, die Organisatoren sind die gleichen. Das Büro der Vereinten Nationen für Drogen- und Verbrechensbekämpfung hat über diese Schmuggelpfade einen ausführlichen Bericht vorgelegt.
Solange sich mit Krieg und dem Leid betroffener Menschen viel Geld verdienen lässt, wird sich wohl auch nichts daran ändern.

Wie kommt es, das in unseren Medien hierüber kaum überhaupt und wenn dann in aller Regel vollkommen undifferenziert berichtet wird?

Diese Fragen muss man den grossen, den sogenannten Leitmedien stellen. Sie sollen das Denken und die Wahrnehmung der Bevölkerung leiten, anleiten und «einordnen», wie es neuerdings heisst. Für mich heisst das so viel wie: Sie geben vor, in welche Richtung zu denken und ein Konflikt «einzuordnen» ist. Mit der Realität in den Konfliktregionen hat das wenig zu tun, zumal viele Kollegen gar nicht dort, sondern in der Stadt eines Nachbarlandes oder auch im Heimatstudio eines Senders sind. Ein Pendant zu dieser Darstellung wäre eine Berichterstattung, die über kriegerische Optionen und Entwicklungen zwar berichtet, die nichtbewaffneten und politischen Vorschlägen, Initiativen und Entwicklungen aber mindestens ebenso viel, wenn nicht mehr Raum einräumen würde.

 

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Was müsste Ihrer Einschätzung nach geschehen, damit in Syrien wieder Frieden möglich wird? Und: Gibt es etwas, das wir, die deutsche Bevölkerung, tun können, um zu unterstützen und zu helfen gegen das Elend vor Ort?

Die USA und Russland müssen sich auf ein gemeinsames Vorgehen zu Stabilisierung Syriens und des Iraks einigen und die syrische Regierung und Streitkräfte ebenso wie die Regierung und Armee des Iraks einbeziehen. Vorbedingungen – wie «Assad hat keine Zukunft in Syrien» – haben zu unterbleiben. Die syrischen Akteure müssen dabei unterstützt und nicht davon abgehalten werden, sich an einen Tisch zu setzen. Einflussnahme im eigenen Interesse hat zu unterbleiben. Die Türkei muss – von der Nato oder bilateral von einzelnen Nato-Staaten – dazu gezwungen werden, ihre Unterstützung für den sogenannten Islamischen Staat einzustellen. Falls sie das nicht tut, muss die Türkei militärisch sanktioniert werden. Und die Heimatländer der internationalen Dschihadisten müssen die Ausreise islamistischer Kämpfer oder Unterstützer unterbinden. Dazu gehört in den jeweiligen Staaten auch eine Auseinandersetzung über ein respektvolles Zusammenleben und Chancengleichheit.
Die Bevölkerung muss vor allem den in Deutschland eintreffenden Flüchtlingen zur Seite stehen. Allerdings darf die Bundesregierung, die mit einer falschen Politik zu deren Flucht beigetragen hat, nicht aus der Verantwortung für diese Menschen entlassen werden. Im Bundestag, in den Landesparlamenten, Gewerkschaften, Schulen, Kirchen, in Blogs und politischen Versammlungen – überall muss über die Hintergründe des Krieges in Syrien aufgeklärt werden. Das ist Sache von jeder und jedem, der diesen Krieg beenden will.

Noch ein letztes Wort?

Ja. 70 Jahre nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges will ich an das Gedicht von Wolfgang Borchert erinnern: «Dann gibt es nur eins, sag NEIN». In der direkten Nachbarschaft Europas, im östlichen Mittelmeerraum und in Teilen Afrikas finden seit 25 Jahren ununterbrochen Kriege statt, die sich immer mehr ausweiten. Nehmen wir den Israel-Palästina-Konflikt hinzu, haben wir seit 1948 Krieg im Mittleren Osten. Mit der völkerrechtswidrigen Besetzung des Iraks 2003 haben die USA schliesslich «das Tor zur Hölle» geöffnet, vor dem viele bereits damals warnten.


Palästinenser sind seit bald 70 Jahren auf der Flucht oder leben – etwa in Gaza oder der West Bank – wie Gefangene in ihrem eigenen Land. Iraker sind auf der Flucht, jetzt die Syrer. Der Westen befeuert diese Kriege, auch Deutschland, das Waffen liefert und zum Bruch des Völkerrechts schweigt. Die politische Opposition im Bundestag oder im Europaparlament wird ihrer Aufgabe in Sachen Krieg und Frieden nicht gerecht. Und viele Medien agieren wie Kriegstrommler.


Ich vermisse die grosse Friedens- und Antikriegsbewegung, die einst gegen den Irakkrieg noch auf die Strasse ging. Sie muss zusammenstehen und darf sich nicht spalten lassen. Die Friedensbewegung muss gegen diese Kriege auf die Strassen!

Ich bedanke mich für das Gespräch.    •

(Interview Jens Wernike)

Quelle: www.nachdenkseiten.de/?p=27340 vom 27.08.2015

*    Karin Leukefeld, Jahrgang 1954, studierte Ethnologie, Islam- und Politikwissenschaften und ist ausgebildete Buchhändlerin. Organisations- und Öffentlichkeitsarbeit unter anderem beim Bundesverband Bürgerinitiativen Umweltschutz (BBU), Die Grünen (Bundespartei) sowie der Informationsstelle El Salvador. Seit dem Jahr 2000 ist sie als freie Korrespondentin zum Mittleren Osten tätig. Ihre Webseite ist leukefeld.net.

 

lundi, 14 septembre 2015

Commémorations : mais l’histoire existe-t-elle encore ?

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Commémorations: mais l’histoire existe-t-elle encore?

Ex: http://www.dedefensa.org

Nous avions envisagé comme titre initial “Commémorations : à qui l’histoire appartient-elle?”, puis nous avons préféré le titre que vous lisez, qui est en fait une réponse, elle-même en forme de question, à ce premier projet de titre... “A qui l’histoire appartient-telle ?” Réponse : “Mais l’histoire existe-t-elle encore ?” La réponse est évidemment négative.

Ce (très-vaste) sujet est abordé à l’occasion de la commémoration de la fin de la Deuxième Guerre mondiale qui a eu lieu hier en Chine, un jour après le 70ème anniversaire de la signature de l’armistice entre le Japon et les puissances alliées le 2 septembre 1945. (Voir aussi une contribution de dedefensa.org le 2 septembre 2015.) Cette commémoration en Chine suit la commémoration à Moscou, le 9 mai dernier, de la signature de l’armistice de 1945, entre l’Allemagne et les puissances alliées. Ces deux évènements sont singuliers et marquent, ou plutôt confirment une sorte de bouleversement de la fonction mémorielle de l’histoire, et de l’histoire elle-même.

Pour ce qui est de la fonction mémorielle, il est devenu évident que l’acte de la commémoration représente désormais un acte politique, où le symbolique est utilisé directement comme un acte de la politique. C’est la première fois, cette année, que les commémorations de 1945 sont interprétées directement de cette façon, dans une atmosphère d’antagonisme exacerbé. C’est cet aspect que présente le texte présenté ci-dessous, de Mikhail Gamandiy-Egorov pour Sputnik-français, le 3 septembre 2015. Gamandiy-Egorov présente la célébration du 3 septembre, après celle du 9 mai, respectivement dans les deux capitales du nouvel axe Moscou-Pékin, comme une affirmation de la nouvelle multipolarité du monde contre la vision unipolaire des USA, ou plutôt du bloc BAO selon notre terminologie. Nous présentons également un extrait d’un texte de MK Bhadrakumar, en date du 27 août 2015, qui donne une appréciation des effets de la Seconde Guerre mondiale sur la situation actuelle en Asie, en mettant l’accent sur certains points intéressants, – le plus intéressant étant certainement celui de la présence à Pékin de la présidente sud-coréenne Park Geun-hye, montrant que l’antagonisme avec le Japon qui unit la Corée du Sud et la Chine (souvenirs de la guerre) est extrêmement fort aujourd'hui face au Japon qui voudrait affirmer sa puissance militaire, et plus fort dans le cas sud-coréen que les consignes des USA.

On retrouve donc les mêmes caractères que lors de la commémoration de Moscou, avec le même boycott de la part des mêmes pays du bloc BAO, à peu près selon les mêmes lignes de conduites, parfois avec des arguments exotiques qui montrent une complète absence d’attention diplomatique pour de tels actes, c’est-à-dire le degré étonnant de crudité et de primitivisme auquel est réduite aujourd’hui la politique, surtout lorsqu’il s’agit de prendre en compte des facteurs historiques et culturels. Lorsque Spuntik-français écrit, le 1er septembre 2015 que le porte-parole de la Maison-Blanche «a déclaré lundi lors d'une conférence de presse qu'il ne connaissait rien du projet du président chinois de commémorer cette date et notamment du défilé donné à l’occasion de l’anniversaire de la fin de la Seconde Guerre mondiale», on se dit que le réseau russe pousse un peu du point de vue de la traduction... A peine, à peine, puisque lorsqu’on consulte le texte officiel (le 31 août 2015), on tombe sur cet échange où, effectivement, le porte-parole Josh Earnest n’a pas l’air au courant de grand’chose, y compris, peut-être, le fait lui-même de la Deuxième Guerre mondiale après tout ... (On notera, en passant, que la question elle-même est truffée d’inexactitudes diverses, situant le climat culturel des connaissances à cet égard, et de l’intérêt pour tout ce qui n’est pas Washington D.C.)

Question : «President Xi this week is hosting a sort of military parade to commemorate the 70th anniversary of World War II, and a lot of U.S. allies... Prime Minister Modi, Prime Minister Abe... have declined their invitations to go to that ceremony. I'm wondering if you think that it's appropriate, considering some of the regional tensions, for him to be hosting this, and if this is something that came up with Susan Rice.»

Josh Earnets : «Justin, I don't know if this came up in the context of the National Security Advisor’s trip to China. I can check on that for you. Actually, I will acknowledge I was actually not aware of the Chinese President’s plans to mark the end of the second world war, but you might check with the State Department to see if they have an official response to this. And I'll see if I can get my colleagues at the NSC to respond to your question in terms of whether or not this came up in Dr. Rice’s visit to China this week.»

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Au reste, si l’on s’en tient à cette réponse assez étrange du porte-parole de la Maison-Blanche, qui aurait aussi bien pu la raccourcir en disant simplement qu’il est actually not aware of the end of the second world war et qu’il peut éventuellement check on that for you auprès de ses collègues du NSC, on en vient au constat que tout cela n’a plus rien à voir avec l’histoire elle-même que la commémoration est censée célébrer. Il y a là un phénomène en pleine accélération, né avec les évènements d’Ukraine, les diverses narrative, les diverses récritures de l’histoire (des évènements de la Seconde Guerre mondiale) développées pour pouvoir répondre à la logique de fer du déterminisme-narrativiste, etc. L’histoire, dont la commémoration est devenue un enjeu presque exclusif pour les évènements en cours selon l’interprétation de communication qu’on veut leur donner, est en train de se transformer en un magmas incompréhensible et insaisissable qui n’a plus pour fonction que de correspondre à l’événement de communication “du jour”. Bien entendu, cette évolution est toute entière et absolument de la responsabilité du Système mais elle entraîne nécessairement des réactions antiSystème qui sont nécessairement déployées dans le même sens, – car comment faire autrement ? Que la Chine commémore comme elle le fait la la victoire alliée sur le Japon est une façon de réparer une grande injustice, parce que le rôle de la Chine dans cette victoire a souvent été minorée, sinon complètement ignorée dans les diverses commémorations faites depuis 1945. Pour autant, commémorer cette victoire alliée quasiment in absentia des États-Unis, du Royaume-Uni, etc., n’a pas tellement plus de sens.

Ainsi l’action du Système tend-elle à étouffer, non plus telle ou telle version de l’histoire, mais l’histoire elle-même, en tant que récit fondamental de notre passé commun. D’une certaine façon, on observera que cela n’a rien pour étonner dans la mesure où se développe à très grande vitesse une perception du monde qui se résume dans la formule dite du big Now, bannissant toute existence du passé et réduisant l’avenir à une formule postmoderne qui proclame une sorte de “présent éternel” contenant à la fois le “présent“ et le “futur inéluctable de ce présent”. Cela permet effectivement de faire passer à peu près tout, de proclamer un jour Pravy Sektor mouvement patriotique de libération d’Ukraine, sans s’interdire une seule seconde de le condamner le lendemain comme mouvement “fasciste” téléguidé par Moscou, ou d’affirmer que l’armée ukrainienne a libéré Auschwitz, ce qui permet de fêter le 70ème anniversaire de la libération d’Auschwitz en se passant d’inviter Poutine, représentant actuel de l’Armée Rouge qui libéra le camp.

Le constat de cette expulsion de l’histoire de notre champ de perception, correspondant à la dissolution de la “réalité” au profit de narrative éventuellement diverses, n’est pas un phénomène absolument nouveau et certainement pas inattendu si l’on observe l’évolution du Système. Mais il est extrêmement rapide (évident depuis l’Ukraine) et il n’est jamais apparu aussi évident qu’aujourd’hui. Bien entendu, la disparition de l’histoire telle qu’on l’observe ici ouvre toutes grandes les portes à l'interprétation de la métahistoire, tout comme la disparition de la “réalité” ouvre l’intuition à des constats de “vérités de situation” dont la richesse et la puissance sont incontestables. Bien entendu, nous persistons plus que jamais à considérer que le grand perdant dans cette opération est le Système parce qu’il perd ainsi toute sa légitimité globale qu’il tenait d’un récit de l’histoire jusqu’alors arrangé à son avantage (ce que nous avions notamment traduit par l’idée de métaphysique de l’Holocauste).

Cela ne signifie pas nécessairement que cette légitimité passe à l’antiSystème qu’on pourrait identifier notamment dans l’axe Moscou-Pékin, parce qu’on sait, justement, comme on l’a souvent rappelé, que cette fonction d’antiSystème se développe au sein même du Système (des pays comme la Russie et comme la Chine sont, selon notre formule, “un pied en-dedans, un pied en-dehors” par rapport au Système). L’antiSystème n’est pas une alternative au Système, ce n’est pas une entité d’une essence nouvelle mais une simple fonction, dont la dynamique est de facto d’attaquer le Système, même si cela revient à attaquer le cadre dans lequel on est soi-même installé. (Bien entendu, il faut apporter des nuances à cette règle, mais on les connaît, et certaines auront peut-être, voire certainement un rôle à jouer lors de l’arrivée à maturation extrême de la Grande Crise d’effondrement du Système actuellement en cours ; l’une des nuances les plus connues, d’une grande importance, est la résilience de la nation russe et sa force spirituelle qui, à côté de la fonction antiSystème de la Russie, font de ce pays un acteur central des bouleversements à venir.)

Le résultat général de l’évolution qu’on décrit ici est simplement la disparition de la légitimité comme principe, comme d’ailleurs la disparition de la structure principielle en général, et par conséquent l’affaiblissement du Système qui avait depuis longtemps repris à son avantage l’exploitation subversive de cette structure. Le résultat opérationnel est visible de plus en plus chaque jour, comme le constatait très récemment un orfèvre en la matière, Tony Blair, dont l’article du 31 août 2015 a été l’objet d’une analyse dans notre F&C du 1er septembre 2015. (L’on notera que cet article il a été traduit pour Le Monde, il a été très remarqué dans les milieux européens, – les moutons vont toujours par troupeaux, – avec des commentaires alarmistes devant cette description du surgissement de phénomènes antiSystème jugés “incohérents” et donc insensibles à quelque riposte que ce soit. L’article de Blair, lui-même apprécié comme extrêmement avisé sinon admirable du point de vue de la vision politique, est partout cité dans les milieux-Système, surtout européens, comme un signal d’alarme, et essentiellement dans ce cas parce que le “magicien-Blair” avoue qu’il ne sait pas comment on peut riposter devant de telles inconvenances. Que tout ce remue-ménage puisse encore être produit par un Blair, même un Blair-s’avouant-impuissant, donne une mesure des capacités du Système et de sa hauteur de pensée.)

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... Mais nous devons en revenir à des préoccupations plus terre-à-terre, qui ont salué cette commémoration chinoise du 70èmre anniversaire de la capitulation du Japon. Dire “plus terre-à-terre” ne signifie de notre part nul dédain ni condescendance, mais simplement une description opérationnelle. Pour le reste, la bataille Système versus antiSystème a lieu à tous les échelons, partout, de toutes les façons. Il n’y a rien qui ne mérite d’être salué pour sa participation à la bataille contre le Système... Voici donc les deux textes complet/partiel que nous avons annoncés plus haut.

dedefensa.org

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Après Moscou, la grande marche multipolaire se poursuit à Pékin

La grande alliance multipolaire une nouvelle fois en marche ! Après le défilé de la Victoire du 9 mai dernier à Moscou, célébrant le 70ème anniversaire de la victoire sur le nazisme, cette fois c'est l’allié chinois qui célèbre depuis sa capitale Pékin la fin de la Seconde guerre mondiale.

Pour rappel, l'URSS et la Chine ont perdu respectivement 27 millions et 20 millions de morts (militaires et civils) durant ce conflit, faisant des deux pays ceux qui ont sacrifié le plus pour anéantir la peste brune.

A noter la participation en plus des forces armées de la République populaire de Chine et à l'instar du défilé de la Victoire de Moscou, des forces armées d'autres pays. Et comme pour remercier les amis chinois d'avoir été la plus grande délégation étrangère lors du 9 mai à Moscou, à Pékin ce sont les forces russes qui étaient deuxièmes en termes d'effectifs, après bien évidemment les forces armées chinoises. A noter aussi l'absence à Pékin de tous les dirigeants occidentaux. Seul le courageux président tchèque a fait le déplacement comme il l'avait déjà fait à Moscou, étant ainsi le seul chef d'Etat représentant un pays de l'UE. Pour le reste que des ambassadeurs des pays dits du monde "civilisé". A l'opposé donc des dirigeants russe, kazakh, biélorusse, kirghize, sud-africain, vénézuélien, serbe et d'autres, qui ont bien été présents à Pékin, et pour qui l'histoire ne se réécrit pas.

Pour revenir au défilé, qui a été grandiose, en plus donc des représentants de l'Armée populaire de libération (nom officiel de l'armée chinoise), y ont pris part aussi les militaires de la Russie, de la Biélorussie, du Kirghizistan, du Venezuela, de Cuba, de Mongolie, du Mexique, du Kazakhstan, d'Egypte, du Tadjikistan, du Pakistan, de Serbie, de Cambodge, du Laos, des Fidji et du Vanuatu.

On pouvait aussi observer, comme ce fut le cas à Moscou, les présidents chinois et russe, côte à côte, tout au long du défilé. Et malgré toute la puissance affichée de la Chine, le leader chinois n'a pas manqué de noter dans son allocution que son pays est déterminée à défendre la paix: "La Chine ne recherchera jamais d'hégémonie, pas plus qu'elle ne cherchera à s'étendre. Elle n'imposera jamais des souffrances tragiques à d'autres nations", a affirmé ainsi le président Xi Jinping. Un message clair, précis et plein de sens. Un sens d'ailleurs qui devrait faire méditer une fois de plus le leadership d'un certain nombre de pays, dont un en particulier.

Ce qui est certain, c'est que par cette vision commune de l'histoire des leaders et des peuples de Russie et de Chine, mais également par une vision très proche sur l'avenir du monde, qui ne peut être que multipolaire, l'humanité attend avec espoir la suite des événements. Et compte tenu des événements que l'on observe en ce moment, il ne peut y avoir que deux suites logiques: soit le monde multipolaire s'impose une bonne fois pour toute et les partisans de l'unipolarité dépassée l'acceptent. Soit les habitués du monde unipolaire continuent à prétendre de garder leur hégémonie sur toute la planète, avec tout le chaos qui en découle.

Reste grandement à espérer que c'est la première option qui l'emportera, même si vraisemblablement du temps supplémentaire sera nécessaire, ainsi que des efforts communs de tous les partisans de la multipolarité, peu importe que nous soyons citoyens de grands ou de petits pays.

Mikhail Gamandiy-Egorov

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China’s WW2 parade guest list has meanings

[...] The western countries have a misconception that if they do not grace an international event, it loses importance. It’s a hangover from the colonial era. But then, the vanity has limits, too – provided, there is serious money involved. How the western countries fell over each other to join the China-led Asian Infrastructure Investment Bank [AIIB] as ‘founding members’ is legion. They instinctively saw AIIB as a free ride on Chinese money and no amount of American persuasion could keep them away from the honey pot. Britain and Germany hold very little equity in the AIIB in comparison with India, but are keen on the commercial spin off from the investment projects.

Alas, there is no money in China’s celebrations over the 70th anniversary of World War II. And there is no David Cameron at the ceremony in Beijing on September 3. The western media insists it’s a ‘snub’. Whereas, China says it didn’t press the invite but left to the invitees to suit themselves. At any rate, why should any country ‘snub’ China for celebrating a magnificent victory over fascism? There wasn’t any Holocaust in the Asian theatre, but the marauding Japanese army was no less horrific in war crimes than Nazi Germany.

China wasn’t the aggressor in World War II. It didn’t spill Anglo-Saxon blood. China’s participation took the form of its liberation struggle against Japanese imperialism. No doubt, the impact of World War II on the Asian region was historical. Fundamentally, the war galvanized the national movements across the region. Asia could shake off the colonial yoke, finally.

But in geopolitical terms, the single biggest beneficiary turned out to be the United States. The war on Japan – and the deliberate use of atomic weapons – enabled the US to eventually get embedded in the Asian region. Today, it claims to be an ‘Asian power’. On the other hand, the biggest loser was Imperial Britain, since its decline as a second rate power really began when it found that clinging on to the Indian colony was no longer sustainable. Of course, India’s independence in 1947 is attributable to World War II.

All the same, if the expected line-up in Beijing next week is interesting, it is for three reasons. First, Russian President Vladimir Putin’s presence in Beijing on September 2-4 affirms beyond doubt that the quasi-alliance between the two big powers is only getting stronger by the day and world politics and the international system will be profoundly affected by the Sino-Russian strategic partnership.

Second, the absence of the western countries at the celebrations underscores that they are a long way from accepting China as a strategic partner – and, furthermore, that if push comes to shove, blood will prove thicker than water and the Europeans will dutifully line up behind the US in any confrontation with China. Germany or Britain cannot do without the Chinese market to ensure that their economies remain resilient, but they see China inherently as an adversarial power in the world order. Their disquiet over China’s rise is compounded by the acute awareness of the West’s decline after a long history of global dominance since the Industrial Revolution.

Third, the presence of South Korean President Park Geun-hye as well as the absence of Japanese Prime Minister Shinzo Abe and North Korean leader Kim Jong UN will make a significant template of the emergent realignments in the politics of the Far East. China and South Korea have drawn together as strong economic partners, while Park’s presence in Beijing will underscore the two countries’ shared concerns over the rise of militarism in Japan under Abe. Significantly, setting aside speculations, Park decided to attend the military parade as well...

M.K. Bhadrakumar

S.P.Q.R

S.P.Q.R

Inno Impero Romano

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dimanche, 13 septembre 2015

Heiliges Römisches Reich deutscher Nation

Heiliges Römisches Reich deutscher Nation

Ich stand auf hohem Berge:


Ich stand auf hohem Berge
sah runter ins tiefe Tal
Ein Schifflein sah ich schweben
darin drei Grafen warn.

Der jüngste von den Grafen
der in dem Schifflein saß
gab mir einmal zu trinken
aus einem venedischen Glas

"Ach Mädchen, du wärst schön genug,
wärst Du nur ein wenig reich;
fürwahr, ich wollt Dich nehmen,
wär´n wir einander gleich."

Er zog von seinem Finger
ein goldenes Ringelein.
"Nimm hin, Du Hübsche, Feine,
das soll dein Denkmal sein."

Was soll ich mit dem Ringe,
den ich nicht tragen kann?
Ich bin ein armes Mädchen,
das stehet mir nicht an.

Und weil ich ja nicht reich bin,
daß es dem Herren frommt,
will ich die Zeit abwarten,
bis meinesgleichen kommt."

"Wenn deinesgleichen nun nicht kommt,
was willst du fangen an?"
"Dann geh ich in ein Kloster,
will werden eine Nonn´."

Es stand wohl an ein Vierteljahr,
dem Grafen träumte es schwer,
daß sein herzallerliebster Schatz,
ins Kloster gegangen wär.

"Steh auf, mein Knecht und tummle Dich,
sattle mir und dir ein Pferd;
Wir wollen reiten Tag und Nacht,
der Weg ist des Reitens wert!"

Und als der Graf geritten kam,
wohl vor des Klosters Tür,
fragt er nach seiner Liebsten,
ob sie wohl darinnen wär.

Sie kam heraus geschritten,
in einem schneeweißen Kleid.
Ihr Haar war abgeschnitten,
zur Nonn´ war sie bereit.

Sie kam mit einem Becher,
den sie dem Ritter bot;
er trank und ein paar Stunden
danach war er schon tot.

Ihr Mädchen laßt Euch raten,
schaut nicht nach Geld und Gut.
Sucht Euch einen braven Burschen,
der euch gefallen tut.

vendredi, 11 septembre 2015

American False Flags That Started Wars

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American False Flags That Started Wars

In this March 13, 1964 file photo, President Lyndon Johnson, right, talks with Secretary of Defense Robert McNamara, center sitting, after McNamara returned from a fact-finding trip to South Vietnam, at the White House in Washington. Fifty years ago Sunday, Aug. 10, 2014, reacting to reports of a U.S. Navy encounter with enemy warships in the Gulf of Tonkin off Vietnam, reports long since discredited, Johnson signed a resolution passed overwhelmingly by Congress that historians call the crucial catalyst for deep American involvement in the Vietnam War. (AP Photo/File)

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KITCHENER, Ontario — As this is being written, Congress is experiencing extensive and dramatic hand-wringing as it decides between doing what is best for the country and the world or doing what is best for the American Israel Political Affairs Committee. This is no easy task for members of Congress, especially Democrats who, on the one hand, want to assure a “victory” for President Barack Obama, but who are also loathe to displease the Israeli lobby. Whether preventing a war factors into their deliberations is not known.

AIPAC and its countless minions in Congress are painting the recent agreement reached between Iran and the P5+1 (China, France, Russia, the United Kingdom, and the United States, plus Germany), as nothing short of the end of Israel.

If this deal preventing Iran from developing nuclear weapons is approved, they warn darkly, Iran will secretly develop nuclear weapons. This will mean the destruction of Israel, they say. But if it isn’t approved, Iran will develop such weapons. This, they say, will also mean the destruction of Israel. Feel free to re-read those sentences whenever time allows.

From this point of view, the only alternative is war, with the ostensible purpose of destroying Iran’s nuclear capabilities — capabilities that the Islamic Republic has always said are for peaceful energy purposes. Yet the risk of Iran ever having nuclear weapons is too great. If it did obtain them, then Israel would have a hostile nation to counterbalance its power in the Middle East, and, of course, it doesn’t want that competition. And whatever Israel wants, the U.S. wants. Hence the fear-mongering.

This is a tried-and-true method in the U.S. of getting wars started: Tell lies about some situation that can be construed as a threat to U.S. security (or in this case, Israel’s national security, which seems to be threatened by just about everything), get the populace riled up with jingoistic fervor, watch pompous politicians proclaim their great patriotism on the evening news, and then go bomb some country or other.

The U.S. again gets to flex its international muscle, the citizenry is, for some bizarre reason, proud of the destruction the country has caused, the weapons manufacturers spend all their time tallying their astronomical profits, and all is once again right in the twisted world of U.S. governance.

A few examples will suffice to show that this means of starting wars has been used repeatedly. The examples discussed herein do not by any means represent an exhaustive list, but only show that lying to the world to make the citizenry believe that the U.S. or its citizens had been threatened in some way, and that war was the only response, is business as usual in the U.S.

The War of 1812 (June 18, 1812 – Feb. 18, 1815)

Less than 40 years after the American Revolution, the still-new U.S. government felt constrained in areas of international trade, despite tremendous growth in such trade in the years leading up to the war. In 1811, Britain issued an Order-in-Council, excluding American salted fish from the West Indian colonies and imposing heavy duties on other U.S. imports. This, the U.S. could not countenance.

Additionally, although the heady concept of Manifest Destiny would not actually be defined for several more years, territorial expansion was always on the minds of the leaders of the fledgling nation. Canada, with its rich abundance of natural resources and wide expanses of land, was coveted.

The Battle Lake Borgne Hornbrook, War of 1812.

The Battle Lake Borgne Hornbrook, War of 1812.

Yet trade and expansion were not foremost on the minds of the populace, at least not sufficiently for them to support a war. But many nations at this time had a policy of impressment, wherein the ships of another country were boarded, and their sailors kidnapped and forced to work for the kidnapping navy. This was something with which the common man and woman could identify. Although this wasn’t a common occurrence, it was exaggerated and combined with the trade issues to introduce the rallying cry of “Free Trade and Sailor’s Rights,” Carl Benn wrote in his 2003 book “Essential Histories: The War of 1812.” However, this wasn’t a simple, spontaneous cry of justice. It seems to have been promoted by annexationists running the government, and was sufficient for the U.S. to start an unsuccessful war against Canada.

Spanish-American War (April 25, 1898 – Aug 12. 1898)

Fast-forward to the end of the 19th century. On Feb. 15, 1898, the battleship Maine exploded in Havana harbor, killing 266 men. According to Hyman George Rickover, in his 1976 book “How the Battleship Maine was Destroyed”:

“Lieutenant Frank F. Fletcher, on duty at the Bureau of Ordnance, wrote in a personal letter to [Lieutenant Albert] Gleaves: ‘The disaster to the Maine is the one topic here now. Everybody is gradually settling down to the belief that the disaster was due to the position of the magazine next to the coal bunkers in where there must have been spontaneous combustion.’”

Theodore Roosevelt (center front, just left of the flag) and his "Rough Riders," 1898.

Theodore Roosevelt (center front, just left of the flag)
and his “Rough Riders,” 1898.

The official inquiry into the disaster, however, concluded that an underwater mine had been the culprit. With the battle cry “Remember the Maine,” the U.S. quickly declared war on Spain.

But this “inquiry” was more than a bit flawed. Two widely-recognized experts in ordnance volunteered their services for the investigation, but were not invited to participate. One of them, Prof. Philip Alger, had greatly displeased Secretary of the Navy, and future president, Theodore Roosevelt, when he commented on the disaster in an interview for the Washington Evening Star a few days after it happened. He said, in part, the following, as reproduced by Rickover:

“As to the question of the cause of the Maine’s explosion, we know that no torpedo that is known to modern warfare, can of itself cause an explosion of the character of that on board the Maine. We know of no instances where the explosion of a torpedo or mine under a ship’s bottom has exploded the magazine within. It has simply torn a great hole in the side or bottom, through which water entered, and in consequence of which the ship sunk. Magazine explosions, on the contrary, produce effects exactly similar to the effects of the explosion on board the Maine. When it comes to seeking the cause of the explosion of the Maine’s magazine, we should naturally look not for the improbable or unusual causes, but those against which we have had to guard in the past.”

But Roosevelt was anxious to establish the U.S. as a world power, especially in terms of its Navy. By accusing Spain of blowing up the ship, he had the perfect excuse to launch the Spanish-American War.

The Vietnam War (major U.S. involvement: 1964 – 1975)

Off the coast of China and northern Vietnam is the Gulf of Tonkin, which was the staging area for the U.S. Seventh Fleet in the early 1960s. On the evening of Aug. 4, 1964, the U.S. destroyers Maddox and the C. Turner Joy were in the gulf, when the Maddox’s instruments indicated that the ship was under attack or had been attacked. Both ships began firing into the darkness, with support from U.S. warplanes. However, they “later decided they had been shooting at ghost images on their radar. … The preponderance of the available evidence indicates there was no attack.”

U.S. Huey helicopter spraying Agent Orange over Vietnam. (Photo by the U.S. Army Operations in Vietnam R.W. Trewyn, Ph.D.)

U.S. Huey helicopter spraying Agent Orange over Vietnam. (Photo by the U.S. Army Operations in Vietnam R.W. Trewyn, Ph.D.)

Yet something needed to be done about Vietnam, with anti-Communist hysteria still rampant in the U.S., and this gave Congress the perfect ploy to escalate the war. This non-incident was presented to the world as an act of aggression against the U.S. Congress quickly passed the Gulf of Tonkin resolution. By the end of the following year, the number of U.S. soldiers invading Vietnam increased from 23,000 to 184,300. Eleven years later, with over 55,000 U.S. soldiers dead, hundreds of thousands wounded, and, by conservative estimates, 2,000,000 Vietnamese dead, the U.S. fled Vietnam in defeat.

The Gulf War (Aug. 2, 1990 – Feb. 28, 1991)

In order to gain support for the Gulf War of 1990, Congress and President George Bush relied heavily on what is commonly referred to as the Nayirah testimony. In early October 1990, a 15-year-old girl referred to only as “Nayirah,” who claimed to have been a hospital volunteer, testified of seeing babies dumped by Iraqi soldiers from hospital incubators. This, in the eyes of Congress and the president, highlighted the monstrosity of Iraq, and was widely used to gain support for the war.

However, like nearly all of the information the government feeds to the citizenry to start its wars, this testimony was all lies. “Nayirah” was actually the daughter of the Kuwaiti ambassador to the U.S. She later admitted that she had once visited the hospital in question, but only for a few minutes. She did see an infant removed from an incubator, but only very briefly. A group called Citizens for a Free Kuwait had hired one of the world’s foremost public relations firms, Hill and Knowlton, to create the illusion of legitimacy for an invasion. They coached “Nayirah” on what to say and how to say it when she appeared before Congress.

We will do no more than mention the U.S.’s drafting of a letter for Grenada to send to the U.S., requesting military intervention when that small island nation’s government was overthrown in 1983. Nor will we dwell on the weapons of mass destruction that Iraq was said to possess in 2002, which justified in the eyes of U.S. citizens the disastrous 2003 invasion of that nation. But as we look at this ugly record of lies that the U.S. has used to expand its territory, power and/or influence around the world, we must consider that it is once again using the same tactics to march the nation toward war with Iran.

Responding to Iraq's invasion of Kuwait, troops of the U.S. 1st Cavalry Division deploy across the Saudi desert on Nov. 4, 1990 during preparations prior to the Gulf War. (AP Photo/Greg English, File)

Responding to Iraq’s invasion of Kuwait, troops of the U.S. 1st Cavalry Division deploy across the Saudi desert on Nov. 4, 1990 during preparations prior to the Gulf War. (AP Photo)

The U.S. for generations was successful in deceiving its citizens, and a good part of the world, that it was a beacon of freedom and peace, despite the fact that it has been at war for most of its bloody existence. That myth began to crack during the Vietnam War, broke into pieces with the Iraq War, and may have been dealt a fatal blow by the U.S.’s support of Israeli atrocities in 2014.

Robert Fantina 

Regardless of the outcome of the congressional vote on the Iran agreement, the U.S. will find itself less able to lie its way into corporate wars in the future. That capacity diminished during the lead-up to the Iraqi invasion, and while no one ever went broke betting on the gullibility and short-term memory of the U.S. citizenry, people are beginning to wake up. When they finally do, much of the carnage in the world will end. That day cannot come soon enough.