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mercredi, 06 mai 2009

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck


«La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino»


Si fa presto a dire “democrazia”. Termine che mette effettivamente i brividi, a chi abbia un po’ di esperienza circa il modus operandi dei “democratici” d’Italia e del mondo. Ma si può essere sostenitori della democrazia nonostante i democratici? Può una democrazia essere organica, comunitaria, nazionale, antiliberale e antioligarchica? In un’epoca di tecnocrazia e grandi potentati transnazionali che espropriano i popoli di ogni brandello di sovranità può la partecipazione essere la bandiera di una politica non conforme? Arthur Moeller van den Bruck (1876 – 1925, in foto) avrebbe risposto in modo affermativo a tutte queste domande. Ma andiamo con ordine. Chi era, innanzitutto, l’autore che porta un nome tanto imponente e ridondante?

Nato il 23 aprile 1876 a Solingen, Moeller è considerato uno dei padri nobili e degli spiriti animatori della vasta corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice”. Chiamato Arthur dal padre in onore di Schopenhauer, il futuro cantore dei “popoli giovani” comincia, nelle sue prime uscite pubbliche, ad affiancare al cognome paterno anche quello – di origine olandese – della madre: Elise van den Bruck. Si forma su Nietzsche, Dostoewskij, Langbehn, Chamberlain e Gobineau. Nella giovinezza un po’ bohémien fa la conoscenza di Rudolf Steiner, August Strindberg, del pittore völkisch Fidus, Edvard Munch, Dimitri Merezkowskij, Theodor Däubler ed Ernst Barlach. Dal 1904 al 1910 scrive l’opera enciclopedica Die Deutschen (I Tedeschi) un ritratto dei maggiori geni della cultura tedesca, mentre nel 1906 inizia la traduzione delle opere complete di Dostoewskij. Nel 1913 pubblica Die italienische Schönheit (La bellezza italiana). Nel 1914 parte volontario. Nel 1916 pubblica Der prussische Stil (Lo stile prussiano) e, dopo la disfatta, nel giugno 1919 lo troviamo tra i fondatori dello Juniklub, comunità nazionalconservatrice di Berlino, e di Gewissen, importante rivista nazionalista. Del 1919 è il suo saggio politico Das Recht der jungen Völker (Il diritto dei popoli giovani). Nel 1923 pubblica invece il suo libro più celebre, Das dritte Reich (Il terzo Reich, traduzione italiana di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 2000). Nel 1925 si suicida a Berlino.

Nel suo saggio più celebre, che porta un titolo oggi piuttosto impegnativo come Il terzo Reich (ma ricordiamo che il testo uscì 10 anni prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo e che l’autore si tolse la vita otto anni prima che Hitler divenisse cancelliere), Moeller traccia una originale visione politica basata su alcune istantanee fissate in modo vivido e caustico. Il libro è in effetti composto da diversi capitoli, ognuno dei quali prende le mosse da un termine del lessico politico e da una breve frase introduttiva. Das dritte Reich, per fare un esempio, si apre con il capitolo intitolato “Rivoluzionario – Vogliamo vincere la rivoluzione”, seguito da “Socialista – Ogni popolo ha il suo socialismo”. E così via. Ora, il quarto capitolo del saggio è dedicato esattamente alla democrazia ed ha per titolo: “Democratico – La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”. Frase già di per sé rivelatrice, non c’è che dire. Come nel resto del libro, Moeller prende le mosse dalla situazione concreta della Repubblica di Weimar, per poi passare a considerazioni di tipo più generale. Leggiamo quindi l’inquadramento generale del problema in questi termini: «La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino. Ed il destino del popolo, dovremmo dire, è pertinenza del popolo. La domanda è sempre la stessa: come è realizzabile una effettiva partecipazione?». Con il Parlamento, risponderebbe il liberale. Moeller la pensa diversamente. Per lui il Reichstag è «la struttura incaricata della diffusione delle frasi fatte». Il problema, per il teorico della konservative Revolution, non sono tuttavia le istituzioni, ma lo spirito che le anima. La democrazia, scrive Moeller, esiste da prima del Parlamento. Essa era anzi intrinseca nella mentalità degli stessi antichi Germani. «Fra i neoconservatori – spiega Alain de Benoist– la nozione di Reich non è a priori antagonistica nei confronti della democrazia. Di fronte a questo tipo di regime, i membri dello Juniklub non professano, d’altronde, alcuna ostilità di principio. Cercano piuttosto di creare una “democrazia tedesca” – così come si pronunziano per un “socialismo tedesco”. È un atteggiamento, molto caratteristico in loro, mirante a “nazionalizzare” una dottrina piuttosto che non a respingerla».

Esiste una democrazia tutta tedesca, quindi, che non ha a che fare con il parlamentarismo. Quest’ultimo «in Germania non ha nessuna tradizione», e la Germania stessa «è un paese troppo nobile per il parlamentarismo». In questo quadro, «la volontà di democrazia è volontà di autocoscienza politica di un popolo: essa è la sua autoaffermazione nazionale. La democrazia è l’espressione dell’autostima di un popolo, oppure non è nulla».
In concreto, «si potrebbe immaginare in Germania una democrazia che si prenda cura soprattutto della vita del popolo, che sia in grado di radicare la repubblica nella specificità del paese, nella differenza delle componenti etniche e nell’armonia generale del popolo. Non la forma dello Stato, ma lo spirito dei cittadini realizza la democrazia. La sua base è il senso del popolo […]. Se vogliamo salvare la democrazia tedesca dobbiamo rivolgerci lì dove l’elemento umano e l’elemento tedesco non sono stati contaminati: al popolo stesso, al carattere originario di questo popolo, che può sussistere anche in questo Stato. E potremmo forse dire che vi sarà vera democrazia in Germania solo quando non vi saranno più “democratici”. Vi sono popoli che si sono sollevati mediante la democrazia. Vi sono altri popoli che sono andati in rovina con la democrazia. La democrazia può significare stoicismo, concezione repubblicana, inflessibilità, durezza. Ma allo stesso tempo può significare liberalismo, chiasso parlamentare, lassismo».

Ora, cosa ci trasmettono queste parole al di là della problematica “tedesca, troppo tedesca” e fatti salvi tutti i mutamenti di contesto dal 1923 a oggi? L’idea, ad esempio, che la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità. L’intuizione che dall’èra delle masse non si torna indietro e che essa rappresenta il campo di battaglia in cui si scontrano differenti concezioni del mondo. La consapevolezza che le battaglie antistoriche sono sempre perdenti e che è necessario “cavalcare la tigre” dei fenomeni in atto senza essere da loro cavalcati. Ma di tutto questo, va da sé, ci sarà tempo di riparlare.

L'Allemagne, la France et la fin de l'ère Locarno

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

L'Allemagne, la France et la fin de l'ère Locarno

Franz KNIPPING, Deutschland, Frankreich und das Ende der Locarno-Ära, 1928-1931. Studien zur in­ternationalen Politik in der Anfangsphase der Weltwirtschaftskrise,  Oldenbourg, München, 1987, 262 S., DM

 

Parler aujourd'hui de l'entente franco-allemande postule néces­sai­rement de revenir à cette époque de l'immédiat après-Locarno, aux espoirs de réconciliation qui se pointaient alors et à la dé­gra­dation progressive du dialogue entre les deux ennemis héré­ditaires de l'Europe de l'Ouest. Le zénith de l'entente franco-alle­mande fut marqué par la proposition de Briand de créer une Union européenne. Le 12 juin 1929, Briand propose à Stre­se­mann de «liquider la guerre», d'amorcer la construction d'une «fé­dération européenne» qui aurait pour tâche, sur le plan poli­ti­que, de stabiliser notre continent et, sur le plan économique, de le protéger contre l'emprise américaine. Cette suggestion de Briand comprenait deux tendances: celle de démanteler la colla­bo­ration économique germano-américaine qui jouait au détri­ment de la France et celle, pure et idéaliste, de sauver la «civi­li­sation européenne» du bolchévisme «ennemi de la culture» et de l'impérialisme économique américain. Ce plan souleva des en­thou­siasmes mais aussi le scepticisme du gouvernement alle­mand: celui-ci notait que l'idée d'une vaste coopération écono­mi­que européenne avait de solides racines en Allemagne mais qu'à l'heure présente, l'Allemagne, tarabustée à Versailles par l'in­transigeance française, devait conserver les acquis de ses re­lations spéciales avec les USA car la France, dans son ensem­ble, ne reflétait pas toutes les bonnes intentions de Briand. En fait, le pôle allemand, renforcé par sa coopération avec les Etats-Unis, était sur le point de dépasser en poid le pôle français et l'offensive de Briand, toute honnête qu'elle soit dans le chef de son initiateur, pouvait s'avérer une opération de charme fran­çaise consistant à cimenter un statu quo favorable à Paris. Stre­semann, quant à lui, répondit, quelques semaines avant sa mort, que la coopération européenne ne devait nullement se diriger con­tre les autres continent ni développer une orientation autar­cique, tout en admettant que les multiples frontières de notre con­tinent devaient cesser de transformer l'espace européen en une juxtaposition de petites économies boutiquières.

Son successeur, Julius Curtius, commença par orienter sa politi­que vers une colloboration germano-britannique, puis vers une of­fensive diplomatique en direction de l'Europe centrale et des Balkans, ce qui entraînait inévitablement un ralentissement du dialogue franco-allemand et un ré-amorçage des exigences alle­mandes de révision du Traité de Versailles (Rhénanie, Sarre). Ce ré-amorçage conduit la France à proposer en 1930 l'insti­tu­tio­na­lisation des idées paneuropéennes de Briand. Celle-ci pren­drait d'abord la forme d'une «commission spéciale» de la SDN. Pen­dant que les Français s'efforcent de mettre cette commission au point, l'Allemagne, frappée durement par la crise, oriente sa po­litique économique vers le Sud-Est européen, si bien que deux mou­vements européens finissent par se juxtaposer en Europe: le pan­européen de Briand et le «mitteleuropäisch» des Allemands, qui comprennent ce dernier comme une étape nécessaire vers la Pan­europe de Briand. Dans l'esprit des protagonistes, les deux mouvements vont se mêler étroitement et l'on assistera à moults confusions et quiproquos. Les nations de la «Petite En­ten­te», la Pologne, la Tchécoslovaquie, la Roumanie et la You­go­slavie, alliées de la France, finissent par comprendre que l'Al­lemagne seule peut absorber les surplus de leur production agricole et les payer en produits manufacturés. Qui plus est, les liaisons géographiques sont plus aisées entre ces pays et le Reich. La France, forte de son or, ne peut opposer que sa puis­san­ce financière à cette fatalité géographique. Les investisse­ments français ne servent finalement qu'à favoriser l'importa­tion dans les Balkans de produits français, sans que le marché français ne puisse absorber en suffisance les surplus agricoles bal­kaniques. Knipping reprend à l'historien français Georges Sou­tou l'expression «impérialisme du pauvre» pour désigner la malheureuse stratégie financière française dans la région. La puis­sance matérielle française, financière et militaire, a suc­com­bé devant les impératifs incontournables de la géographie. Il semble que l'intégration centre-européenne et balkanique soit un mouvement naturel qu'il est vain de vouloir enrayer.

L'enseignement à tirer de cet ouvrage d'histoire, c'est que Fran­çais et Allemands ne parlent pas de la même chose, lorsqu'ils par­­lent d'Europe. Les dimensions danubiennes et balkaniques sem­­blent échapper à l'opinion française, tandis qu'en Allema­gne, on leur accorde une priorité. Pour l'Allemand, la résolution des contradictions danubiennes et balkaniques est la première éta­pe dans le processus d'intégration de l'Europe Totale. Se re­plon­ger dans les discussions qui ont animé les chancelleries en­tre 1928 et 1931, sous l'impulsion de Briand, est œuvre utile pour surmonter ce gros hiatus. Le travail de Knipping peut nous y aider (Robert Steuckers).   

mardi, 05 mai 2009

Littérature de la jeunesse

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Littérature de la jeunesse

Ulrich NASSEN, Jugend, Buch und Konjunktur, 1933-1945. Studien zum Ideologiepotential des ge­nuin nationalsozialistischen und des konjonkturellen "Jugendschriftums",  Wilhelm Fink Verlag, Mün­chen, 1987, 135 S., DM 38.

 

Etude très intéressante sur la littérature de jeunesse pendant le IIIème Reich en Allemagne. Nassen nous y apprend que le na­tio­nal-socialisme se présentait à la jeunesse comme un mouve­ment sous le patronage de la figure de Siegfried, figure qui dit «oui» au combat éternel (Kampfbejahung)  et symbolise le ra­jeu­nissement, l'affirmation de la Vie et de la totalité vitale. Le mou­vement politique, qui doit entraîner la jeunesse dans son sil­lage, se place résolument sous le signe de l'affirmation, du «oui» créateur et s'instaure comme le barrage le plus efficace con­tre les négateurs. L'image mythologique de Siegfried, puisée dans la passé lointain de l'Allemagne, est couplée sans problè­me, par exemple, à l'objet moderne et technique qu'est la moto, qui permet de sentir physiquement la vitesse et le dynamisme. Le national-socialisme reprend ainsi la vieille protestation li­ber­taire du mouvement de jeunesse (Wandervogel),  expression su­blime du conflit entre les générations. Mais son apport spé­ci­fique est plus politique, plus directement lié à l'aventure et à l'installation au pouvoir d'un parti révolutionnaire: la littérature destinée à la jeunesse sera truffée de thèmes comme celui du «Füh­rer», «Sauveur» et nouvelle «image du père», celui du «mi­litant martyr», celui de la «jeunesse, phalange du NS». Seront ainsi exaltés l'esprit de camaraderie, la camp comme forme de vie et aventure planifiée, le «service» comme «sens» de l'exis­ten­ce et comme mode d'harmonisation entre les diverses strates so­ciales. Des valeurs et des mœurs nouvelles sont injectées dans le corps social allemand par l'intermédiaire de la mobili­sa­tion de la jeunesse dans le parti: l'hygiène corporelle, la diété­ti­que, l'eugénisme à connotation raciale, le sport comme pro­ces­sus de maximisation des énergies du corps et donc comme mode d'accroissement de la productivité industrielle et agricole.

 

Nassen, fidèle à quelques critiques énoncées par l'Ecole de Franc­fort, perçoit une certaine esthétique de la destruction dans l'exaltation de la guerre, conçue comme «travail», comme «aven­ture de la technique», comme «initiation». Dans ce cha­pitre, Nassen critique le calcul «fasciste» qui consiste à parier sur le sang versé et refuse d'économiser celui-ci, se mettant en fait en contradiction avec son culte du sang précieux, appelé à re­vigorer l'Europe. Un sixième chapitre de l'ouvrage aborde une question cruciale du national-socialisme, encore trop peu explo­rée en dehors de l'Allemagne: la question de l'histoire et de la pré­histoire. Ces sciences devaient être mobilisées pour donner une image plus exaltante du plus lointain passé européen et pour procurer aux contemporains, secoués par la Grande Guerre, les crises économiques, la déchéance sociale du prolétariat, une ima­ge idéaltypique de ce à quoi doit tendre la mobilisation NS des foules, c'est-à-dire une humanité germanique épurée de tous apports non européens et comparable à l'idéal que Tacite, dans sa Germania,  avait suggéré aux Romains décadants. Pour véhi­cu­ler cet idéal, le régime a fait appel à une imagerie (gravures, chromos, etc.) que Nassen qualifie de «kitsch» NS.

Le livre de Nassen est une petite mine d'informations qu'il se­rait sot de négliger. Qui plus est, elle ouvre des perspectives nou­velles au chercheur et offre une bonne et utile classification des thématiques NS, tout en ayant constamment recours aux tex­tes de l'époque (Robert Steuckers°.

lundi, 04 mai 2009

Bibliographie nietzschéenne contemporaine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

 

 

Bibliographie nietzschéenne contemporaine

 

par Robert Steuckers

 

Francesco Ingravalle, Nietzsche illuminista o illuminato?,  Edizioni di Ar, Padova, 1981.

 

Une promenade rigoureuse à travers la jungle des interprétations de l'œuvre du solitaire de Sils-Maria. Dans son chapitre V, Ingravalle aborde les innovations contemporaines de Robert Reininger, Gianni Vattimo, Walter Kaufmann, Umberto Galimberti, Gilles Deleuze, Eugen Fink, Massimo Cacciari, Ferruccio Masini, Alain de Benoist, etc.

 

Friedrich Kaulbach, Sprachen der ewigen Wiederkunft. Die Denksituationen des Philo­sophen Nietzsche und ihre Sprachstile, Königshausen + Neumann, Würzburg, 1985.

 

Dans ce petit ouvrage, Kaulbach, une des figures de proue de la jeune école nietzschéenne de RFA, aborde les étapes de la pensée de Nietzsche. Au départ, cette pensée s'exprime, affirme Kaulbach, par «un langage de la puissance plastique». Ensuite, dans une phase dénonciatrice et destructrice de tabous, la pensée nietz­schéen­ne met l'accent sur «un langage de la critique démasquante». Plus tard, le style du langage nietzschéen devient «expérimental», dans le sens où puissance plastique et critique démasquante fusionnent pour af­fron­ter les aléas du monde. En dernière instance, phase ultime avant l'apothéose de la pensée nietz­schéenne, sur­vient, chez Nietzsche, une «autarcie de la raison perspectiviste». Le summum de la dé­marche nietzschéenne, c'est la fusion des quatre phases en un bloc, fusion qui crée ipso facto l'instrument pour dépasser le ni­hi­lis­me (le fixisme de la frileuse «volonté de vérité» comme «impuissance de la volonté à créer») et affirmer le de­­venir. Le rôle du «Maître», c'est de pouvoir manipuler cet instrument à quatre vi­tesses (les langages plas­ti­que, critique/démasquant, expérimental et l'autarcie de la raison perspectiviste).

 

Pierre Klossowski, Nietzsche und der Circulus vitiosus deus,  Matthes und Seitz, München, 1986.

 

L'édition allemande de ce profond travail de Klossowski sur Nietzsche est tombée à pic et il n'est pas éton­nant que ce soit la maison Matthes & Seitz qui l'ait réédité. Résolument non-conformiste, désireuse de bri­ser la dictature du rationalisme moraliste imposé par l'Ecole de Francfort et ses émules, cette jeune maison d'é­dition munichoise, avec ses trois principaux animateurs, Gerd Bergfleth, Axel Matthes et Bernd Mat­theus, estime que la philosophie, si elle veut cesser d'être répétitive du message francfortiste, doit se re­plon­ger dans l'humus extra-philosophique, avec son cortège de fantasmes et d'érotismes, de fo­lies et de pulsions. Klossowski répond, en quelque sorte, à cette attente: pour lui, la pensée imperti­nente de Nietzsche tourne au­tour d'un axe, celui de son «délire». Cet «axe délirant» est l'absolu contraire de la «théorie ob­jective» et signale, de ce fait, un fossé profond, séparant la nietzschéité philosophique des traditions occi­dentales clas­siques. L'axe délirant est un unicum, non partagé, et les fluctuations d'intensité qui révo­lutionnent autour de lui sont, elles aussi, uniques, comme sont uniques tous les faits de monde. Cette re­ven­dication de l'unicité de tous les faits et de tous les êtres rend superflu le fétiche d'une raison objective, comme, politiquement, le droit à l'identité nationale et populaire, rend caduques les prétentions des systèmes «universalistes». Le livre de Klossowski participe ainsi, sans doute à son insu, à la libération du centre de notre continent, occupé par des armées qui, en dernière instance, défendent des «théories objectives» et in­terdisent toutes «fluctuations d'intensité».

 

Giorgio Penzo, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo,  Armando Editore, Roma, 1987.

On sait que la légende de Nietzsche précurseur du national-socialisme a la vie dure. Pire: cette légende laisse ac­croire que Nietzsche est le précurseur d'un national-socialisme sado-maso de feuilleton, inventé dans les officines de propagande rooseveltiennes et relayé aujourd'hui, quarante ans après la capitulation du IIIème Reich, par les histrions des plateaux télévisés ou les tâcherons de la presse parisienne, désormais gribouillée à la mode des feuilles rurales du Middle West. Girogio Penzo, professeur à Padoue, met un terme à cette légende en prenant le taureau par les cornes, c'est-à-dire en analysant systématiquement le téléscopage entre Nietzsche et la propagande nationale-socialiste. Cette analyse systématique se double, très heureusement, d'une classification méticuleuse des écoles nationales-socialistes qui ont puisé dans le message nietzschéen. Enfin, on s'y retrouve, dans cette jungle où se mêlent diverses interprétations, richissimes ou caricaturales, alliant intuitions géniales (et non encore exploitées) et simplismes propagandistes! Penzo étudie la forma­tion du mythe du surhomme, avec ses appréciations positives (Eisner, Maxi, Steiner, Riehl, Kaftan) et né­ga­tives (Türck, Ritschl, v. Hartmann, Weigand, Duboc). Dans une seconde partie de son ouvrage, Penzo se pen­che sur les rapports du surhomme avec les philosophies de la vie et de l'existence, puis, observe son en­trée dans l'orbite du national-socialisme, par le truchement de Baeumler, de Rosenberg et de certains pro­ta­go­nistes de la «Konservative Revolution». Ensuite, Penzo, toujours systématique, examine le téléscopage en­tre le mythe du surhomme et les doctrines du germanisme mythique et politisé. Avec Scheuffler, Oehler, Speth­mann et Müller-Rathenow, le surhomme nietzschéen est directement mis au service de la NSDAP. Avec Mess et Binder, il pénètre dans l'univers du droit, que les nazis voulaient rénover de fond en comble. A par­tir de 1933, le surhomme acquiert une dimension utopique (Horneffer), devient synonyme d'«homme faus­­tien» (Giese), se fond dans la dimension métaphysique du Reich (Heyse), se mue en prophète du natio­nal-socialisme (Härtle), se pose comme horizon d'une éducation biologique (Krieck) ou comme horizon de va­leurs nouvelles (Obenauer), devient héros discipliné (Hildebrandt), figure anarchisante (Goebel) mais aussi ex­pression d'une maladie existentielle (Steding) ou d'une nostalgie du divin (Algermissen). Un tour d'ho­ri­zon complet pour dissiper bon nombre de malentendus...

 

Holger Schmid, Nietzsches Gedanke der tragischen Erkenntnis, Königshausen + Neu­mann, Würzburg, 1984.

 

Une promenade classique dans l'univers philosophique nietzschéen, servie par une grande fraîcheur didacti­que: telle est l'appréciation que l'on donnera d'emblée à cet petit livre bien ficelé d'Holger Schmid. Le cha­pi­tre IV, consacré à la «métaphysique de l'artiste», magicien des modes de penser antagonistes, dont le corps est «geste» et pour qui il n'y a pas d'«extériorité», nous explique comment se fonde une philosophie fon­ciè­rement esthétique, qui ne voit de réel que dans le geste ou dans l'artifice, le paraître, suscité, produit, se­crété par le créateur. Dans ce geste fondateur et créateur et dans la reconnaissance que le transgresseur nietzschéen lui apporte, le nihilisme est dépassé car là précisément réside la formule affirmative la plus sublime, la plus osée, la plus haute.

 

 

 

 

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dimanche, 03 mai 2009

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Josef KREINER (Hrsg.), Japan und die Mittelmächte im Ersten Welt­krieg und in den zwanziger Jahren, Bouvier Ver­lag/Herbert Grund­­mann, Bonn, 1986, 253 S.

 

Dans cet ouvrage collectif, on lira surtout avec profit les conclusions de Rolf-Harald Wippich sur l'histoire des relations germano-japonaises avant la première guerre mondiale. Les rapports entre l'Allemagne et le Japon sont alors essen­tiel­lement déterminés par le facteur russe. Japonais et Allemands voulaient mé­nager la Russie qui se rapprochait de la France. En 1898, Ito Hirobumi déclare: «Le Japon doit tenter de s'entendre avec St. Petersbourg et de partager la gran­de sphère d'intérêts de l'Orient avec sa puissante voi­sine. L'Allemagne pourrait jouer un rôle important en tant que troisième partenaire». Le Japon n'octroyait à Berlin qu'un rôle sub­alterne. Et, en Allemagne, per­sonne n'avait un projet cohérent de politique ex­trême-orientale. Le Japon n'était pas considéré comme un facteur en soi dans les calculs allemands, mais comme une variable de la politique chinoise. Les Ja­ponais jouissaient d'une certaine bienveillance: la va­riable qu'ils constituaient agissait vaguement dans le sens des projets allemands, surtout quand ils avaient maille à partir avec la Russie, ce qui allégeait la pres­sion slave aux frontières orientales du Reich.

Le dés­intérêt pour le Japon en Allemagne vient d'un préjugé: le Japon s'est borné à imiter servilement le système prussien en amorçant l'ère Meiji. De surcroît, les Al­lemands souhaitent que les Russes jettent tout leur dé­volu en Extrême-Orient et s'emparent de la Mand­chourie et de la Corée. L'Empereur Guillaume, te­naillé par son obsession du «péril jaune», veut que la région soit sous domination «blanche», russe en l'oc­currence. De cette façon, les Russes ne seront pas disponibles pour un projet panslave de balkanisation de l'Europe centrale au détriment de l'Autriche et au bénéfice direct de la France. Le Japon, même s'il a agi dans un sens favorable à l'Allemagne en Chine et s'il a montré à la Russie que le véritable danger était à l'Est et non en Europe Centrale, reste un facteur qui peut troubler les relations germano-russes. Ce souci de conserver de bons rapports avec la Russie conduit les Allemands à négliger les approches du cabinet germanophile de Yamagata/Aoki (1898-1900) et à ne pas conclure un pacte tripartite dans le Pacifique avec l'Angleterre et le Japon. En 1902, Anglais et Japonais signent un traité d'alliance sans l'Allemagne, qui n'est plus que spectatrice dans le Pacifique Nord. Occupant la forteresse de Kiao Tchéou, avec un  hinterland  chi­nois, l'Allemagne pouvait jouer un rôle d'arbitrage dans le conflit russo-japonais, tant que celui-ci restait latent. Après les événements de 1905 et la défaite de la Russie, la Japon est maître du jeu en Extrême-Orient; l'Empire des Tsars se tourne vers l'Europe et la stra­tégie du «para-tonnerre japonais» ne joue plus en fa­veur du Reich. Conclusion: l'Allemagne, maîtresse de la Micronésie, restait la dernière puissance euro­péenne à éliminer dans la sphè­re d'influence directe du Japon. Ce sera le résultat de la première guerre mondiale dans la région.

 

Dans ce même volume, signalons également l'étude de Félix Moos (en langue anglaise) sur la Micronésie. Longtemps espagnol, l'immense archipel passe aux Allemands pour la somme de 4.500.000 dollars en 1899. Le Japon en prendra possession après Ver­sailles. Pour le géopoliti­cien Haushofer, ce transfert dans les mains japonaises est normal et naturel, puisque le Ja­pon est une puissance non étrangère à l'espace Pacifique (Robert Steuckers).

samedi, 02 mai 2009

La critique nationale-socialiste du capitalisme et de l'impérialisme américains

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - Novembre 1987

 

La critique nationale-socialiste du capitalisme et de l'impérialisme américains

par Günther MASCHKE

A l'automne 1918, les troupes fraîches et bien équipées (voire suréquipées) du général Pershing, com-mandant en chef du corps expéditionnaire américain, décidaient de l'issue de la Première Guerre mon-diale. Malgré cela, et bien que, contrairement à Foch, Pétain et Haig, Pershing fût le seul chef allié à vou-loir porter la guerre jusqu'à Berlin et occuper l'intégralité du territoire allemand, peu d'Allemands nourrirent à l'époque des sentiments anti-américains. La haine des vaincus se dirigea plutôt contre l'An-gle-terre et, plus encore, contre la France: n'était-ce pas les Anglais qui, dès la fin des combats, main-tinrent jusqu'en 1919 un blocus économique qui réduisit à la famine un million d'Allemands? N'était-ce pas les Français qui imposèrent le diktat de Versailles avant d'occuper la Ruhr? A l'inverse, l'éphémère prospérité que connut la République de Weimar entre 1925 et 1929 n'était-elle pas due aux crédits amé-ricains? Même si la crise économique mondiale frappait l'Amérique plus durement encore que l'Alle-magne, l'image positive d'une Amérique, pays vaste, libre, aux potentialités infinies, demeurait, parmi les Allemands, pratiquement intacte.

La sympathie allemande pour l'Amérique de Roosevelt

L'année 1933 n'altéra pas ce beau tableau, bien au contraire: la propagande nationale-socialiste et les au-teurs politiques sérieux étaient plutôt pro-américains pendant les premières années du régime. La politi-que de Franklin Delano Roosevelt, au pouvoir depuis mai 1933, fut même accueillie avec faveur, voire avec enthousiasme, et l'on s'enhardit, en Allemagne, à mettre en parallèle New Deal  et national-socialisme.

De fait, les deux systèmes furent perçus comme deux variantes d'une "Troisième Voie", la seule pro-metteuse, entre le capitalisme libéral et le bolchévisme. Comme le national-socialisme, faisait-on ob-server, le New Deal  essaie de résorber le chômage de masse par l'intervention de l'Etat dans le do-maine économique; d'un côté comme de l'autre, une politique sociale garantissait la sécurité matérielle de l'exis-tence. En Allemagne comme aux Etats-Unis, la libre entreprise, échec évident, était désormais contrôlée et bridée par l'Etat planificateur; ici comme là-bas, une nation en proie au désespoir et à la ré-signation était enfin mobilisée et vitalisée par un chef charismatique. La France et l'Angeterre, restées fi-dèles au libéralisme bourgeois, étaient condamnées au déclin. Quant à l'Union Soviétique, elle ne pou--vait, au mieux, que se maintenir par la terreur. Seuls, les Allemands, les Italiens et, dans une moin-dre mesure, les Américains, avaient compris que les temps avaient changé.

Parfois, les sympathies nationales-socialistes pour Roosevelt frisaient l'idôlatrie. Colin Ross (1), le jour--naliste le plus brillant du Troisième Reich, évoque, en 1935, l'impression que lui laissa une con-fé-rence de presse à la Maison Blanche: "Bien sûr, le sourire rooseveltien est, si l'on veut, le fameux keep smiling  américain. Mais le rire et le sourire du président sont bien plus que cela. C'est un rire fondé sur la souffrance. C'est l'expression d'une âme, d'une expérience du monde, qui, parce qu'elle connaît, pour les avoir éprouvées, toute la misère et toute la détresse de l'univers, sait sourire et soulager par la tendresse. La charge immense de travail et de responsabilité qui pèse sur Roosevelt a gravé dans son visage les mêmes sillons que dans celui d'Adolf Hitler".

L'attitude positive du national-socialisme à l'égard de Roosevelt et du New Deal s'infléchira en 1935-1936, mais pour faire place à un scepticisme prudent plutôt qu'à une hostilité déclarée. Plusieurs fac-teurs joueront, que les observateurs allemands ne purent tous identifier. Ainsi, les Américains finirent par remarquer les mesures antisémites prises peu après l'arrivée d'Hitler au pouvoir. Ils s'en alarmèrent, eux qui pensaient pouvoir tourner le dos aux querelles européennes et retrouver leur ancien iso-la-tion-nisme pour mieux s'attaquer à leurs problèmes intérieurs: montée du chômage, misère de masse, éro-sion des sols, endettement de l'Etat, etc… De plus, Roosevelt passait, y compris en Allemagne, pour un ardent défenseur de l'isolationnisme. Cependant, l'immigration juive aux Etats-Unis, de plus en plus in-fluente, entra en relation avec le brain trust  de Roosevelt, comme en témoigne l'exemple du publi-ciste et sociologue Walter Lippman. A partir de 1935, médias et "instituts scientifiques" se mettront à "édu-quer" les Américains, jusque là plutôt rétifs en la matière, sur les dangers du "nazisme". Du coup, les organisations allemandes et germanophones d'Amérique devinrent suspectes, surveillées par toutes sor-tes de mouchards. Les groupements nationaux-socialistes déclarés n'étaient pas les seuls visés: les as-sociations culturelles, musicales ou folkloriques furent surveillées, en butte aux chicanes et aux tra-cas-series.

L'échec du New Deal

Cependant, le national-socialisme assista (et sur ce point, son analyse et sa critique furent très souvent pertinentes) à la déconfiture progressive et à l'échec final de la politique de New Deal.

En 1933, Roosevelt s'était lancé dans la bataille avec un élan incroyable et dès le premier trimestre, la fameuse "Révolution des 100 jours", avait mené à bien plusieurs réformes. La nouvelle aggravation de la crise économique mondiale et quelques faillites bancaires retentissantes pendant les derniers mois du gouvernement d'Herbert Hoover, adepte à 100% du libéralisme de marché, paralysèrent pour un temps toute opposition à Roosevelt. Le printemps 1933 marqua l'apogée de la crise: tout le crédit aux USA était pratiquement gelé et peut-être Roosevelt aurait-il alors pu nationaliser en un tour de main le secteur bancaire pour financer sa révolution. Une occasion pareille ne se représenterait plus…

Mais la résistance s'organisait. Les milieux d'affaires, la haute finance, bref le Big Business,  pro-tes-tè-rent contre les interventions dirigistes et planificatrices du New Deal,  jugées "contraires à l'esprit amé-ricain" et propagèrent le mythe de l'effort individuel et de l'initiative privée. Quant aux Etats de l'U-nion, ils virent, dans la tentative de Roosevelt de créer un puissant pouvoir central, une violation de leurs droits traditionnels et fondamentaux. Enfin, la Cour Suprême fit barrage à l'extension du pouvoir exécutif du président et torpilla ses projets de loi les uns après les autres.

La critique nationale-socialiste dressa un bilan difficilement contestable: Roosevelt avait échoué parce qu'il n'avait pas su  —et aussi peut-être parce qu'il ne pouvait  pas—  devenir dictateur. En fait, le pré-sident américain, naguère encore comparé à Hitler, n'était pas un Führer  et les Etats-Unis, selon Colin Ross qui voyait ainsi confirmée sa thèse de "l'échec du melting pot", n'étaient, au mieux, que "les peuples unis de l'Amérique": ils ne formaient ni un Etat au sens européen du terme ni une nation politiquement unie. La démocratie  qui s'y manifestait à travers la lutte des pouvoirs particuliers et des lobbies  avait eu raison de la dictature souhaitée. C'est pour cela que Roosevelt ne pouvait  atteindre aucun des objectifs du New Deal.  Les réformes en profondeur firent dès lors place à la propagande; mais la propagande ne pouvait réussir que si elle se cherchait (et se trouvait) un adversaire, une cible.

L'analyse critique de Giselher Wirsing à l'encontre du New Deal de Roosevelt

Sous le Troisième Reich, Giselher Wirsing fut l'un de ces journalistes qui, tout en sacrifiant aux rites obligatoires de la propagande officielle, furent également capables d'analyses de qualité. En 1938, dans une série d'articles rédigés pour les Münchner Neueste Nachrichten,  et, l'année suivante, dans des textes plus importants écrits pour la revue qu'il dirigeait, Das Zwanzigste Jahrhundert,  Wirsing décrit les cau-ses de l'échec du New Deal:  ces travaux, de haut niveau intellectuel, sont la quintessence des innom-bra-bles reportages, articles, brochures et études scientiques parus en Allemagne entre 1935 et 1939 sur le thè-me des  Etats-Unis. En 1942, Wising regroupa ses essais dans un ouvrage intitulé Der maßlose Kontinent - Roosevelts Kampf um die Weltherrschaft  (= "Le continent de la démesure; le combat de Roo-sevelt pour la domination du monde") (2). Bien que, dans cet ouvrage, Wirsing réaffirme que le New Deal,  même s'il avait réussi, n'aurait finalement eu que de maigres résultats, sa plume de jour-na-liste y est plus acérée: entretemps, les Etats-Unis sont entrés en guerre contre l'Allemagne. "C'est pré-ci-sément dans le domaine de la politique agricole, écrit Wirsing, que le New Deal devait essuyer le re-vers moral le plus cuisant, bien qu'Henri Wallace, ministre de l'agriculture de Roosevelt,…eût révélé les carences du système agraire aux USA. La politique agricole du New Deal  devint une juxtaposition d'ex-pédients qui permirent certes d'alléger le poids de la crise mais n'en vinrent jamais réellement à bout. Pour Wallace, le problème-clé de l'agriculture mécanisée américaine était la surproduction alors que le marché mondial s'était rétréci par suite des mesures d'autarcie prises dans le monde entier. De sorte que le New Deal,  au lieu d'engager la bataille pour la production, fit l'inverse: il fit tout pour li-miter la production. C'est cette idée fondamentale qui inspira l'Agricultural Adjustment Act  (AAA) de 1933. Une politique agricole véritablement  constructive n'aurait jamais dû s'appuyer sur une analyse aus-si né--gative tant que les excédents enregistrés dans les campagnes contrastaient avec les carences les plus effroyables en milieu urbain".

La stabilisation des prix agricoles, couramment pratiquée aujourd'hui, fut alors anticipée par des méthodes extrêmement brutales: enfouissement de la viande porcine, déversement en mer de tonnes de fruits mûrs, incendie des champs de coton: toutes ces mesures étaient le contraire exact des Ernteschlachten (batailles pour les récoltes) nationales-socialistes. Elles furent considérées par les capitalistes comme typiques du "dirigisme d'Etat" et par les communistes comme … typiques du "capitalisme"…

Quand l'abondance devient un fléau

Anticapitaliste d'inspiration nationaliste et romantique, Wirsing a bien cerné la réalité en mettant en lu-mière une contradiction inhérente à plusieurs volets du New Deal:  le hiatus entre l'intervention de l'E-tat, propre au New Deal,  et les axiomes d'un libéralisme presque dogmatique:

"Wallace adopta une démarche mécanique  fondée sur la théorie du pouvoir d'achat. Il constata que l'a-gri-culteur américain produisait trop dans tous les domaines, que la chute des prix devenait irrépressible et que l'endettement menaçait d'étouffer l'ensemble du système agraire. Il en concluait qu'il fallait limi-ter la production jusqu'au point où l'offre, ainsi réduite, s'harmoniserait à la demande. Théorie parfai-te-ment conforme, du reste, au libéralisme classique… Or, les initiateurs de cette politique agricole, qui per-suadèrent  —par toute une série de mesures coercitives—  l'agriculteur de ne plus cultiver ses champs et de détruire ses récoltes, se prirent pour des révolutionnaires. Ils parvinrent effectivement à fai-re passer le revenu agricole net de 4,4 milliards de dollars en 1933 à 7 milliards en 1935, mais cette aug-mentation rapide des prix était due en bonne partie à la sécheresse catastrophique de 1935, aux tor-na-des de poussière et aux inondations de l'année 1936-1937. Paradoxalement, Roosevelt vit dans la séche-resse son meilleur allié: avec l'AAA, c'est elle qui avait miraculeusement augmenté le pouvoir d'achat dans l'agriculture. L'indstrie des biens de consommation, qui soutenait Roosevelt, pouvait être satisfaite des résultats".

Naturellement, ni Wirsing ni Colin Ross (qui publia, également en 1942, Die "westliche Hemisphäre" als Programm und Phantom des amerikanischen Imperialismus  [= "L'hémisphère occidental", pro-gram-me et spectre de l'impérialisme américain]) (3) ni d'ailleurs l'explorateur suédois Sven Hedin, le sym-pa-thisant d'Hitler sans doute le plus célèbre, n'ont manqué de signaler qu'en Allemagne, l'intervention de l'Etat s'inspirait de conceptions doctrinales macro-économiques éprouvées alors qu'aux Etats-Unis, elle res-tait con-fuse et contradictoire. Le fait est qu'en Allemagne, et pas seulement à cause du réarmement, les chômeurs disparurent (sur ce point, le régime a sans doute exagéré ses mérites: le plein emploi ne fut jamais réellement atteint, pas même au début de la guerre) alors qu'aux USA, les résultats demeu-rè-rent médiocres malgré l'organisation de travaux de nécessité publique et le Service du Travail. En Allemagne, la dictature, mais aussi la grande tradition allemande du socialisme d'Etat produisaient leurs effets. Ces deux éléments n'existaient pas aux Etats-Unis. Ecoutons Wirsing résumer la queston agraire aux Etats-Unis, en sachant que ses observations valent pour l'ensemble du New Deal:

"Les tendances régionalistes et particularistes ne se manifestèrent nulle part de façon plus marquée que dans la question agraire. Quand des régions entières furent subitement menacées d'un nouveau fléau, comme le Middle West par les tornades de poussière de 1934-35, ou les Etats du Mississipi par les crues dévastatrices de l'année 1937, le Congrès consentit à débloquer des fonds parfois importants. Mais le système démocratique empêcha une imbrication adroite des diverses mesures ponctuelles dans le cadre d'une planification globale qui eût brisé toute résistance. A cause de l'impéritie du Congrès, de la sot-tise des Governors  des Etats, des groupements d'intérêts, etc…, le gouvernement de Roosevelt ne put jamais franchir l'obstacle…".

Les excellents projets de Roosevelt sont torpillés par les intérêts corporatistes privés

La liste des projets gouvernementaux torpillés par la Cour Suprême, que ce soit la loi sur les pensions des cheminots ou la déclaration d'illégalité de l'Agricultural Adjustment Act,  en 1936, est, elle aussi, in-finie. Roosevelt essaya bien de désamorcer l'opposition en y introduisant des juges favorables à sa politique et en adjoignant à ses opposants des "suppléants" avec droit de décision (les Américains di-sent: "to pack the Court");  la manœuvre avorta. Son projet favori, notamment la création d'une "Tennessee Valley Authority",  resta lettre morte. Roosevelt voulait aménager la vallée du Tennessee en y construisant de grands barrages et d'imposantes centrales électriques afin d'empêcher les inon-da-tions, permettre l'irrigation et fournir aux agriculteurs l'électricité à bon marché dont ils avaient le plus grand besoin pour leur élevage de bétail laitier et de boucherie, sans compter les programmes de reboi-sement et de terrassement. Sur le terrain, tout cela réussit. Jusqu'au jour où les compagnies privées d'é-lec-tricité sabotèrent cette politique énergétique et ces plans grandioses de mise en valeur du sol américain.

Si la comparaison entre l'interventionnisme américain et l'interventionnisme germanique montra à quel point il avait été hasardeux, de parler, en tant qu'observateurs allemands, d'affinités, même écono-mi-ques, entre le na-tional-socialisme et le New Deal,  il devint peu à peu patent que Roosevelt et Hitler avaient, en matière de commerce extérieur, des conceptions diamétralement opposées.

La guerre commerciale : autarcie contre libre-échangisme

Cette opposition, qui fut un facteur décisif de l'entrée en guerre des USA, donna au national-socialisme l'occasion d'étudier de près l'impérialisme américain (en fermant bien sûr les yeux sur son impérialisme à lui). Dès 1933, les relations économiques germano-américaines se détériorèrent. L'économie dirigée allemande, qui tendait au réarmement et à l'autarcie, jugula et planifia les importations, adapta les ex-por-tations aux importations grâce à des accords de compensation et à l'institution de taux de change multiples. Le principe allemand "marchandise contre marchandise" et le monopole d'Etat en matière de com-merce extérieur débouchèrent, par le biais des accords bilatéraux de clearing et de la technique de la "répartition des devises", sur une bilatéralisation des échanges.

On conçoit, dès lors, que la politique américaine de libre-échange, la "open door policy",  ait rencontré une résistance de plus en plus vive: en développant leurs relations économiques avec l'Amérique latine, les Allemands réussirent même à évincer les Américains et les Anglais de marchés aussi importants que ceux de l'Argentine ou du Brésil. Avec le pacte germano-soviétique, et les victoires successives des for-ces de l'Axe, les Américains entrevirent le spectre d'une partition du marché mondial (4): ils redoutèrent de plus en plus d'être handicapés économiquement et commercialement dans des zones de plus en plus vastes; qui plus est, la main d'œuvre bon marché des pays de l'Axe risquait même de saper leurs posi-tions concurrentielles partout ailleurs.

En 1941, année de l'attaque allemande contre l'Union Soviétique, le géopoliticien allemand Karl Haus-ho-fer publia son étude intitulée "Le bloc continental" (5). Ce bloc continental devint le cauchemar des Etats-Unis. Dans cette optique, l'Allemagne, la Russie, le Japon et les territoires qu'ils contrôlaient, donc également l'Afrique du Nord, la Chine et la Corée, ainsi que l'ensemble balkanique, devaient for-mer un bloc militaro-économique sur lequel se briseraient les ambitions anglo-américaines d'hégémonie mondiale. Finalement, la terre l'emporterait sur la mer, l'économie d'Etat sur le libre-échange, l'auto-ri-ta-risme sur la démocratie car le grand-espace suivrait sa propre loi alors que le libéralisme, impliquant partout des normes apparemment objectives, était contraint d'intervenir tous azimuts et de postuler dans le monde entier des conditions d'action uniformes.

                                                        

Aux Etats-Unis, la réaction à l'encontre de cette perspective d'un bloc continental tourna rapidement à l'hystérie, surtout par calcul de propagande: depuis 1937, Roosevelt voulait la guerre avec le Japon. A partir de 1939-1940, il voudra la guerre avec l'Alle-magne. Et décrira comme un "îlot impuissant" (!) une nation comme les Etats-Unis dont le volume du commerce ex-té-rieur, grâce à un marché intérieur gigantesque, n'atteignait à l'époque que 5 ou 6%. Dans son discours du 10 juin 1940, prononcé en Virginie, Roosevelt proclamait:"Pour moi-même comme pour l'écrasante majorité des Américains, l'existence d'un tel îlot est un cau-che-mar affreux, celui d'un peuple sans liberté, le cauchemar d'un peuple affamé, incarcéré, ligoté, d'un peuple nourri jour après jour par les gardiens impitoyables qui régentent les autres continents et n'ont pour nous que mépris". Et Walter Lippman ajoutait le 22 juillet 1940 dans la revue Life:"Si les cartells étatisés des puissances de l'Axe cimentaient un bloc continental eurasien de l'Irlande au Japon, les conséquences pour les Etats-Unis en seraient la baisse du niveau de vie, la montée du chô-mage et une économie réglementée. La disparition des libertés de notre libéralisme nous obligerait du même coup à nous adapter aux puissances de l'Axe". Et Lippmann concluait: "Le fait est qu'une éco-no-mie libre telle que nous la connaissons, nous, citoyens Américains, ne peut survivre dans un monde sou-mis à un régime de socialisme militaire".

Un monde trop petit pour deux systèmes

Le 9 juin 1941, Henry L. Stimson, Ministre de la Guerre, déclarait à l'Académie militaire de West-Point (6): "Le monde est trop petit pour deux systèmes opposés". Il est frappant de constater que la cam--pagne de Roosevelt contre l'Allemagne avait commencé dès 1937,  c'est-à-dire avant l'Anschluß  et l'an-nexion de la Tchécoslovaquie, voire avant les crimes collectifs perpétrés par les nationaux-socia-listes. Par contre, elle coïncida avec le moment précis, où l'échec du New Deal  éclata au grand jour. Com-mentaire de Giselher Wirsing:"L'été 1937 fut le grand tournant. Pas seulement politiquement, mais économiquement. Au moment où le président essuyait une défaite face à la Cour Suprême, un nouveau déclin économique brutal s'a-mor-ça… Dans l'industrie et l'agriculture, s'annonça une chute générale des prix. L'industrie et le com-merce avaient constitué d'importantes réserves en prévision de nouvelles hausses. En même temps, sous la pression du Big Business  et du Congrès, le président avait réduit sensiblement les dépenses fé-dé-rales et fait des coupes sombres dans les budgets de relance et d'aide sociale… Ce fut la "dépression Roosevelt". Au printemps 1938, on comptait à nouveau 11 millions de chômeurs. L'arsenal de lois du New Deal,  déjà incohérent en lui-même, s'avérait impuissant face aux faiblesses structurelles… On élabora pour l'agriculture un Agricultural Adjustment Act,  nouvelle version, mais inspiré des vieux principes: une limitation draconienne des cultures… La loi sur les salaires et le travail fut vidée de sa sub-stance. Dans tous les domaines, aucun progrès par rapport à 1933…".

L'exutoire de Roosevelt: la politique étrangère

Sven Hedin (7) a fait remarquer que les salaires payés par la Works Progress Administration  (WPA) pour les travaux de secours aux chômeurs ne dépassaient pas 54,87 dollars mensuels. Même la sécurité sociale ne fut pas transformée radicalement par le New Deal.  Voici le bilan qu'en dresse Sven Hedin: "En juillet 1939, le Social Security Bulletin  révéla que les pensions de retraite versées aux USA at-teignaient, par personne et par mois, 19,47 dollars. Mais en Alabama, le montant ne dépassait pas 9,43 $, en Caroline du Sud, 8,18$ mensuels, en Géorgie 8,12$, dans le Mississipi 7,37$ et en Arkansas 6$ seulement! Quiconque découvre l'amère réalité américaine derrière les slogans officiels ne peut que me-surer l'échec de Roosevelt en politique intérieure. Beaucoup remarquèrent que ce fut là un facteur dé-ter-minant du recours à l'aventure extérieure". Ce point de vue, des millions d'Américains l'ont partagé et aujourd'hui encore, les historiens critiques envers Roosevelt y adhèrent.

Le "discours de quarantaine" du 5 octobre 1937 marqua le début d'une véritable guerre froide contre l'Allemagne et le Japon. Même si l'on tient compte du conflit sino-japonais, les propos de Roosevelt sont assez énigmatiques:"Des peuples et des Etats innocents sont cruellement sacrifiés à un appétit de puissance et de domi-na-tion ignorant le sens de la justice… Si de telles choses devaient se produire dans d'autres parties du mon-de, personne ne doit s'imaginer que l'Amérique serait épargnée, que l'Amérique obtiendrait grâce et que notre hémisphère occidental ne pût être attaqué… La paix, la liberté et la sécurité de 90% de l'hu-ma-nité sont compromises par 10% qui nous menacent de l'effondrement de tout ordre international et de tout droit… Lorsqu'un mal se répand comme une épidémie, la communauté doit mettre le malade en qua-rantaine afin de protéger la collectivité".

"Hémisphère occidental" contre bloc continental

Les nationaux-socialistes virent bien que l'idée rooseveltienne d'"hémisphère occidental" (dont les limites d'intervention ne furent jamais précisées!) était grosse d'une volonté d'hégémonie mondiale directement opposée à leurs ambitions propres, plutôt continentales. Le déclin de l'Angleterre (à l'époque, le phénomène suscita en Allemagne une multitude de commentaires dans les milieux journalistiques et scientifiques) (8) positionna les Etats-Unis dans le rôle de l'héritier, mais un héritier qui apparaissait plus agressif encore que le de cujus.  Alors que s'annonçait (ou avait déjà commencé) le choc avec les Etats-Unis, en 1942-1943, plusieurs auteurs allemands se mirent à étudier ce nouvel impérialisme et leurs con-clusions ressemblent à s'y méprendre aux analyses marxistes qui furent ultérieurement publiées sur les Etats-Unis. Dans son ouvrage Imperium Americanum  (9), paru en 1943, Otto Schäfer relate "l'extension de la sphère de puissance des Etats-Unis" depuis le refoulement de l'Angleterre, la guerre contre l'Espagne, l'acquisition du Canal de Panama, le contrôle des Caraïbes jusqu'à la péné-tra-tion du Canada et de l'Amérique latine. Et Schäfer illustrait son propos par un bilan statistique de la politique américaine d'investissements à l'étranger.

Helmut Rumpf, spécialiste de droit public, décrivait en 1942, dans son livre Die zweite Eroberung Ibero-Amerikas  (= "La deuxième conquête de l'Amérique ibérique") (10), la mise au pas et le pillage économique du Mexique et de l'Amérique centrale par les USA.

Albert Kolb (11), enfin, se pencha sur les relations avec les Philippines, Hans Römer (12) sur les in-gé-ren-ces américaines dans les guerres civiles d'Amérique centrale, et Wulf Siewert (13), dans Seemacht USA  (= "La puissance maritime des Etats-Unis") sur le développement de la marine américaine sous Roosevelt, qui suscita outre-Atlantique un enthousiasme proche de la ferveur qu'avait jadis inspirée en Al-le-magne la flotte de Guillaume II (toutes proportions gardées, car la US Navy  devait connaître des len-demains plus heureux que la flotte impériale allemande). L'idée maîtresse de cette abondante litté-ra-ture, présentant, très souvent un niveau scientifique fort honorable, c'est que la doctrine de Monroe, dé-fen-sive au moment de sa conception et de sa proclamation (1823), puisqu'elle devait défendre le con-ti-nent américain contre toute intervention européenne, était depuis longtemps devenue une doctrine offen-sive autorisant des interventions illimitées dans l'"hémisphère occidental". Il était dès lors dans la logi-que des choses que le publiciste américain Clarence K. Streit (14) finisse par réclamer (en 1939) une fu-sion entre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne et que Walter Lippmann envisage la création d'un super-Etat regrou-pant —sous direction américaine— tous les pays "atlantiques" régis par le capitalisme libéral.

Les Allemands ont sous-estimé les Américains

Un économiste aussi sérieux que Friedrich Lenz (15) affirmait encore en 1942, dans son livre Politik und Rüstung der Vereinigten Staaten  (= "Politique et armement des Etats-Unis"), que la production de guerre aux USA était beaucoup trop lente pour représenter à bref délai une menace pour l'Allemagne. Le capitalisme libéral, que le New Deal n'avait fait qu'égratigner, était incapable, assurait Lenz, d'assumer la directivité qu'implique une politique d'armement. Lenz allait jusqu'à soutenir qu'en 1941, "les USA ne pouvaient aligner que 425 chars lourds". Or, même si les objectifs de production annon-cés par Roosevelt le 6 janvier 1942 (60.000 avions, 35.000 chars et 20.000 tubes de DCA pour 1942, 125.000 avions, 75.000 chars et 35.000 tubes de DCA pour 1943) ne furent jamais atteints, et si le dé-veloppement rapide de l'armée entraîna outre-Atlantique de graves difficultés, les Etats-Unis, en appro-vi-sionnant massivement l'Armée Rouge, n'en apportèrent pas moins aux Allemands la preuve irréfu-table de l'efficacité de leur production guerrière.

Sven Hedin lui-même affirmait: "Aux manœuvres de l'automne 1941, l'armée américaine était équipée de fusils mitrailleurs et de blindés en bois et en carton pâte, exactement comme la Reichswehr d'après 1919". Apès les manœuvres, le général McNair déclarait que "deux divisions seulement sont en état de se battre". Et Sven Hedin ajoutait:

"En 1940, les forces armées ne comptaient que 250.000 hommes. Or, le Victory Program  américain prévoit pour l'assaut contre l'Allemagne un effectif de 6,7 millions d'hommes répartis en 215 divisions. Comment Roosevelt va-t-il les former, les entraîner, les armer pour qu'ils viennent à bout des divisions aguerries de l'Allemagne et de ses alliés?".

Bien sûr, à l'époque, la conquête des richesses russes paraissait acquise pour l'Allemagne et les Japonais allaient de succès en succès. Mais le paradoxe, c'est que cette sous-estimation des Etats-Unis était due à une analyse pertinente de l'échec du New Deal!  L'échec économique et social des Etats-Unis trouva tout simplement un exutoire dans le domaine de l'économie de guerre…

Pourtant, on débattit, sous le Troisième Reich, des conséquences d'une défaite éventuelle de l'Axe face aux Etats-Unis: Friedrich Lenz affirma qu'après l'échec du capitalisme libéral et les succès des Etats to-ta-litaires (parmi lesquels il comptait généreusement l'Union Soviétique bien que celle-ci fût entre-temps passée dans le camp adverse), l'effondrement de ces mêmes Etats entraînerait une régression sans précé-dent dans l'histoire mondiale: "Promettre le rétablissement de la civilisation libérale du XIXème siècle sur les ruines des systèmes totalitaires d'Allemagne, d'Italie et du Japon, et peut-être même de Russie soviétique est une position réactionnaire", et Lenz d'ajouter avec une ironie féroce: "Peut-être Thomas Mann sera-t-il alors le nouveau praeceptor Germaniae  de cette civiliation libérale?".

L'idéal social de "Park Avenue"

L'idée américaine accélère-t-elle ou retarde-t-elle l'histoire? Giselher Wirsing, lui, polémique contre l'entrée en guerre des USA en avançant des arguments sociaux: "Park Avenue va-t-elle diriger le monde? Dans quel but? On a a calculé qu'en 1927, les 4000 familles qui y résidaient, dépensaient un budget annuel gloabal de 280 millions de dollars. Sur ce total, 85 mil-lions ont été dépensés pour entretenir la garde-robe de ces dames et de leurs filles… Pour se nourrir, ces 4000 familles ont dépensé 32 millions de dollars et pour leurs bijoux, 20 millions par an!… Voilà la civilisation pour laquelle il faudrait se battre! Et pour laquelle devront mourir les soldats chinois, indiens, australiens, anglais, sud-africains, canadiens et égyptiens!… Pour quelle liberté? Pour celle de Park Avenue,  celle de drainer les milliards du monde entier. Pour la liberté de profiter de la guerre".

Mais quel ordre une Amérique victorieuse offrirait-elle au monde? Le pronostic le plus séduisant est ce-lui que propose Carl Schmitt dans un article (16) publié dans la revue Das Reich  du 19 avril 1942 et in-titulé Beschleuniger wider Willen oder Problematik der westlichen Hemisphäre  (= "Accélérateur de l'his--toire malgré lui, ou le problème de l'hémisphère occidental"); Schmitt y justifie son pronostic en sou-lignant la propension obligée des Etats-Unis à violer les autres grands-espaces et leur incapacité à créer pour eux-mêmes un grand-espace (Grossraum)  cohérent et circonscrit:

"En essayant de prolonger la puissance maritime et la domination mondiale britanniques, le président des Etats-Unis n'a pas seulement recueilli de cet héritage les parts les plus avantageuses; il s'est ipso facto placé sous la loi qui gouvernait au siècle dernier l'existence politique de l'Empire britannique. L'Angleterre était devenue la gardienne de tous les "hommes malades", à commencer par celui du Bos-pho-re, jusqu'aux maharadjas indiens et aux sultans de toutes sortes. L'Angleterre était un frein au dé-veloppement de l'histoire mondiale… Quand Roosevelt quitta le terrain de l'isolationnisme et de la neutralité, il entra, qu'il le voulût ou non, dans la logique retardatrice et rigidifiante qui fut celle de l'empire mondial britannique".

Carl Schmitt poursuit: "Dans la foulée, le président proclama l'avènement du "siècle américain" afin de coïncider avec la ligne idéologique américaine traditionnelle, tournée théoriquement vers l'avenir et toutes formes d'innovation comme l'avait démontré l'essor spectaculaire des Etats-Unis au XIXème sièc-le. Ici encore, comme à toutes les étapes importantes de l'histoire politique américaine ré-cen-te, on s'enlise dans les contradictions inhérentes à cet hémisphère qui a perdu toute cohésion intérieure. Si Roosevelt, en entrant en guerre, était devenu l'un des grands ralentisseurs de l'histoire mondiale, passe encore; ce serait déjà beaucoup. Mais la vacuité de la décision annihile tout effet authentique. C'est ainsi que s'accomplit le destin de tous ceux qui lancent leur barque dans le maëlström de l'histoire sans que leur intériorité ne soit assurée (ohne Bestimmtheit des inneren Sinnes).  Ce ne sont ni des hommes impulseurs de mouvement, ni de grands retardateurs: ils ne peuvent que finir… accélérateurs malgré eux…".

Les idées de "grand-espace" (17), dont les nationaux-socialistes n'ont pas la paternité mais qu'ils ont récu-pérées pour camoufler et justifier leurs propres ambitions, succombèrent, sur le champ de bataille, à la "pensée globale" des Américains, et des millions d'Allemands, aujourd'hui encore, s'en disent soulagés. Mais ce constat n'infirme en rien la critique qui fut faite jadis, sous Hitler, du capitalisme amé-ricain ni l'idée grandiose de servir la paix en créant de grands-espaces fermés aux interventions de puis-sances géopolitiquement étrangères. On peut même prévoir que les Américains vont devenir les gar-diens de l'ordre ancien, les conservateurs des formes politiques révolues. Dans la perspective d'une éman-cipation européenne qui ne pourra compter, bien évidemment, que sur ses propres forces, il fau-drait distinguer, dans les idées de cette époque, entre ce qui relevait des besoins et de la propagande et ce qui mériterait plus ample approfondissement.

Günther MASCHKE.

(trad. Jean-Louis Pesteil; texte tiré de la revue autrichienne Aula et reproduit dans Orientations avec l'aimable autorisation de l'auteur; adresse d'Aula: AULA-Verlag, Merangasse 13, A-8010 Graz, Autriche)

mercredi, 22 avril 2009

L'éveil du traditionalisme en Allemagne

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

L'éveil du traditionalisme en Allemagne

 

Le terme “traditionalisme” n'a pas de définition précise en langue allemande. Il peut s'appliquer au catholicisme pré-conciliaire ou, plus généralement, à des personnes ou à des mouvements qui persistent à défendre le point de vue d'une tradition qui leur a été léguée. Dans les pays de langues romanes, le “traditionalisme” est quelque chose de plus précis: les vocables “traditionnel” ou “traditionalisme” y détiennent un sens particulier, surtout lorsqu'ils se réfèrent au groupe des écrivains ou des philosophes de la religion qui entendent demeurer fidèles au “traditionalisme intégral”, c'est-à-dire à “un héritage non humain”, déterminé par un “absolu d'origine divine”. Ces formules, nous les devons à l'Italien Julius Evola qui, à côté du Français René Guénon, est l'une des principales figures de proue du Traditionalisme.

 

Depuis quelque temps, des ouvrages importants d'Evola ont été traduits en allemand, comme Revolte gegen die moderne Welt (chez Arun à Engerda), Das Mysterium des Grals (chez AAGW à Sinzheim) et Menschen inmitten der Ruinen (chez Hohenrain à Tübingen). Ces ouvrages abordent principalement la “théologie politique” d'Evola et moins l'autre aspect majeur de sa pensée, les doctrines ésotériques. Toutefois, en 1989 déjà, le livre Hermetische Tradition était paru chez Ansata à Interlaken et, dix ans auparavant, chez le même éditeur, Magie als Wissenschaft vom Ich, un livre qu'Evola avait cosigné avec le “Groupe d'Ur”. Ce recueil important ne nous livrait finalement qu'une esquisse; il vient toutefois d'être complété de son deuxième volume (Schritte zur Initiation, chez Scherz, une maison d'édition très importante, établie simultanément à Berne, Munich et Vienne). Ce nouveau volume compte près de 500 pages et contient, outre des écrits d'ordre hermétique dans une traduction nouvelle, de nombreux articles qui traitent pour l'essentiel de diverses questions de “pratique magnétique”, dans une acception assez inhabituelle du terme.

 

Si l'œuvre d'Evola se limite encore essentiellement à l'Italie et à la France, si, jusqu'ici, elle n'a soulevé que peu d'intérêt en Allemagne (à l'exception notoire de Hermann Hesse, Gottfried Benn, Edgar J. Jung et Ernst Jünger, plus récemment de Botho Strauss), les études traditionnelles font désormais lentement leur chemin en Allemagne. La preuve: la parution récente d'une nouvelle revue, Gnostika (c/o AAGW, Lothar-von-Kübel-Straße 1, D-76.547 Sinzheim; cette publication paraît quatre fois par an; l'abonnement coûte 40 DM). Le premier numéro est paru à l'automne dernier. Jusqu'ici trois livraisons ont été envoyées aux abonnés. L'éditeur est l'AAGW ou Archiv für Altes und Geheimes Wissen (= Archives pour le Savoir Ancien et Occulte). Cet éditeur offre également une édition bibliophilique du livre d'Evola Mysterium des Grals. Nous avons affaire ici à un organe très différent de toutes ces publications sans relief émanant de la sphère “New Age”: le niveau intellectuel en est très élevé, les auteurs traitent des matières ésotériques avec une grande compétence. Beaucoup de contributions de Gnostika  n'éveilleront que l'attention des spécialistes, mais la présentation succincte de l'histoire de l'hermétisme, des travaux de Nicholas Goodrick-Clarke sur les rapports entre Rosicruciens et philosophie des Lumières, de même qu'un essai du Dr. H. Th. Hakl, publié en plusieurs parties, sur le national-socialisme et l'occultisme méritent d'être connus d'un public plus large.

 

Si en général l'on désigne aujourd'hui le traditionalisme comme un phénomène propre aux pays de langues romanes, il convient, me semble-t-il, de faire quelques exceptions. Surtout si l'on se souvient du poète et penseur religieux Leopold Ziegler. Après avoir connu une gloire beaucoup trop brève dans les années 20, cet Allemand a sombré dans l'oubli. Mais on vient de le réhabiliter. Une revue qui a l'habitude de nous surprendre, Tumult/Schriften zur Verkehrswissenschaft  vient de consacrer son n°23 à Ziegler (Verlag Turia und Kant, Weinberggasse 17, A-1190 Wien; cette revue paraît deux fois par an; abonnement: 32 DM; prix au numéro: 26 DM; le n°16 avait été consacré à Ernst Kantorowicz; le n°18 à Georges Dumézil). Le n°23, consacré à Ziegler, présente cinq essais de cet auteur, dont le livre Überlieferung (= Tradition), paru en 1936, a joué un rôle essentiel et constitue très certainement la profession de foi traditionnelle la plus solide en Allemagne. Ziegler se réfère aux conceptions de Guénon, qu'il complète de ses propres réflexions, mûries au départ d'un livre de 1922, Gestaltwandel der Götter. Rappelons la phrase récente de Botho Strauss: “Eh oui, Leopold Ziegler fait bien partie de cette liste d'auteurs qu'il faut absolument redécouvrir”. Cette nécessité ne doit pas valoir pour Ziegler seul, elle doit s'étendre à tous les traditionalistes, qui représentent une branche injustement oubliée de la pensée européenne.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(article paru dans Criticón, n°154/1997; trad. franç.: Robert Steuckers).

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lundi, 20 avril 2009

Nationalisme allemand 1850-1920

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Nationalisme allemand 1850-1920

 

Le dernier numéro de la Revue d'Allemagne  est consacré au «Nationalisme allemand 1850-1920». Dans sa contribution, L. Dupeux écrit à propos des deux conceptions —la "française et l'"allemande"—  de la nation et du peuple: «...en fait, s'il est bien vrai que les deux conceptions-perceptions sont antagonistes, elles sont durcies et partiellement faussées dans le combat politique et idéologique. En premier lieu, il ne manque pas d'énoncés nuancés, surtout du côté français, mais ils sont souvent biaisés, voire tronqués, pour les besoins de la Cause. Ainsi de la fameuse définition avancée par Renan dans sa conférence en Sorbonne du 11 mars 1882: “Qu'est-ce qu'une Nation?”. L'auteur affirme, certes, et c'est resté célèbre, que l'existence d'une nation est “un plébiscite de tous les jours”; mais il fait aussi référence au passé, au “legs de souvenirs”, presque autant qu'au consentement actuel... En Allemagne, surtout après 1918 il est vrai, on verra des auteurs de premier rang comme Moeller van den Bruck, l'auteur du Droit des Peuples jeunes (1919), mais surtout du fameux Troisième Reich, évoquer la “volonté du peuple à devenir une nation”, solidaire face à l'Etranger, au “monde de Versailles”... Est-il par ailleurs nécessaire de rappeler que le nationalisme historisant existe aussi en France, surtout dans la nouvelle extrême-droite qui émerge après la crise boulangiste et celle de Panama, mais sans être absent au centre ni même toujours, quoi qu'on en dise (ou taise), à gauche? Qu'on songe au nationalisme barrésien, celui de “la terre et (des)morts”, ou au “nationalisme intégral” à références gréco-latines de Maurras; mais que l'on n'ignore pas par ailleurs le “patriotisme” et même le nationalisme “à la 93”  —entre autres— qui parcourt même les rangs communistes à partir de 1935 — non plus que les appels du PCF au “front national”, à l'époque de la Résistance... En vérité, les deux nationalismes, français et allemand, ne font pas que s'opposer: ils se font écho, positif ou négatif, et quand ils sont de la même famille “sociétale”, ils s'empruntent jusqu'au va-et-vient: ainsi dans les années vingt de ce siècle pour l'ultranationalisme d'Ernst Jünger, qui n'est pas sans devoir à Barrès, étant clair que celui-ci doit pas mal à la pensée romantique allemande». Un intéressant numéro avec entre autres des contributions de C. Baechler («Le Reich allemand et les minorités nationales 1871-1918») et de J.-P. Bled («Les Allemands d'Autriche et la question nationale,1850-1918») (P. MONTHÉLIE).

 

La Revue d'Allemagne, Centre d'Etudes Germaniques,  8 rue des Ecrivains, F-67.081 Strasbourg Cedex . Abonnement annuel pour quatre numéros: 260 FF.

mercredi, 15 avril 2009

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

L'influence d'Oswald Spengler sur Julius Evola

par Robert Steuckers

 

«Je traduisis de l'allemand, à la demande de l'éditeur Longanesi (...) le volumineux et célèbre ouvrage d'Oswald Spengler, Le déclin de l'Occident. Cela me donna l'occasion de préciser, dans une introduction, le sens et les limites de cette œuvre qui, en son temps, avait connu une renommée mondiale».  C'est par ces mots que commence la série de paragraphes critiques à l'égard de Spengler, qu'Evola a écrit dans Le Chemin du Cinabre  (op. cit.,  p. 177). Evola rend hommage au philosophe allemand parce qu'il a repoussé les «lubies progressistes et historicistes», en montrant que le stade atteint par notre civilisation au lendemain de la première guerre mondiale n'était pas un sommet, mais, au contraire, était de nature «crépusculaire». D'où Evola reconnaît que Spengler, surtout grâce au succès de son livre, a permis de dépasser la conception linéaire et évolutive de l'histoire. Spengler décrit l'opposition entre Kultur  et Zivilisation, «le premier terme désignant, pour lui, les formes ou phases d'une civilisation de caractère qualitatif, organique, différencié et vivant, le second les formes d'une civilisation de caractère rationaliste, urbain, mécaniciste, informe, sans âme»   (ibid., op. cit., p.178). 

Evola admire la description négative que donne Spengler de la Zivilisation,  mais critique l'absence d'une définition cohérente de la Kultur,  parce que, dit-il, le philosophe allemand demeure prisonnier de certains schèmes intellectuels propres à la modernité. «Le sens de la dimension métaphysique ou de la transcendance, qui représente l'essentiel dans toute vraie Kultur, lui a fait défaut totalement»  (ibid., p. 179). Evola reproche également à Spengler son pluralisme; pour l'auteur du Déclin de l'Occident,  les civilisations sont nombreuses, distinctes et discontinues les unes par rapport aux autres, constituant chacune une unité fermée. Pour Evola, cette conception ne vaut que pour les aspects extérieurs et épisodiques des différentes civilisations. Au contraire, poursuit-il, il faut reconnaître, au-delà de la pluralité des formes de civilisation, des civilisations (ou phases de civilisation) de type "moderne", opposées à des civilisations (ou phases de civilisation) de type "traditionnel". Il n'y a pluralité qu'en surface; au fond, il y a l'opposition fondamentale entre modernité et Tradition.

Ensuite, Evola reproche à Spengler d'être influencé par le vitalisme post-romantique allemand et par les écoles "irrationalistes", qui trouveront en Klages leur exposant le plus radical et le plus complet. La valorisation du vécu ne sert à rien, explique Evola, si ce vécu n'est pas éclairé par une compréhension authentique du monde des origines. Donc le plongeon dans l'existentialité, dans la Vie, exigé par Klages, Bäumler ou Krieck, peut se révéler dangereux et enclencher un processus régressif (on constatera que la critique évolienne se démarque des interprétations allemandes, exactement selon les mêmes critères que nous avons mis en exergue en parlant de la réception de l'œuvre de Bachofen). Ce vitalisme conduit Spengler, pense Evola, à énoncer «des choses à faire blêmir» sur le bouddhisme, le taoïsme et le stoïcisme, sur la civilisation gréco-romaine (qui, pour Spengler, ne serait qu'une civilisation de la "corporéité"). Enfin, Evola n'admet pas la valorisation spenglérienne de l'«homme faustien», figure née au moment des grandes découvertes, de la Renaissance et de l'humanisme; par cette détermination temporelle, l'homme faustien est porté vers l'horizontalité plutôt que vers la verticalité. Sur le césarisme, phénomène politique de l'ère des masses, Evola partage le même jugement négatif que Spengler.

Les pages consacrées à Spengler dans Le chemin du Cinabre  sont donc très critiques; Evola conclut même que l'influence de Spengler sur sa pensée a été nulle. Tel n'est pas l'avis d'un analyste des œuvres de Spengler et d'Evola, Attilio Cucchi (in «Evola, la Tradizione e Spengler», Orion,  n°89, Février 1992). Pour Cucchi, Spengler a influencé Evola, notamment dans sa critique de la notion d'«Occident»; en affirmant que la civilisation occidentale n'est pas la civilisation, la seule civilisation qui soit, Spengler la relativise, comme Guénon la condamne. Evola, lecteur attentif de Spengler et de Guénon, va combiner éléments de critique spenglériens et éléments de critique guénoniens. Spengler affirme que la culture occidentale faustienne, qui a commencé au Xième siècle, décline, bascule dans la Zivilisation,  ce qui contribue à figer, assécher et tuer son énergie intérieure. L'Amérique connaît déjà ce stade final de Zivilisation  technicienne et dé-ruralisée. C'est sur cette critique spenglérienne de la Zivilisation  qu'Evola développera plus tard sa critique du bolchévisme et de l'américanisme: si la Zivilisation  est crépusculaire chez Spengler, l'Amérique est l'extrême-Occident pour Guénon, c'est-à-dire l'irreligion poussée jusqu'à ses conséquences ultimes. Chez Evola, indubitablement, les arguments spenglériens et guénoniens se combinent, même si, en bout de course, c'est l'option guénonienne qui prend le dessus, surtout en 1957, quand paraît l'édition du Déclin de l'Occident  chez Longanesi, avec une préface d'Evola. En revanche, la critique spenglérienne du césarisme politique se retrouve, parfois mot pour mot, dans Le fascisme vu de droite  et Les Hommes au milieu des ruines. 

Le préfacier de l'édition allemande de ce dernier livre (Menschen inmitten von Ruinen,  Hohenrain, Tübingen, 1991), le Dr. H.T. Hansen, confirme les vues de Cucchi: plusieurs idées de Spengler se retrouvent en filigrane dans Les Hommes au milieu des ruines;  notamment, l'idée que l'Etat est la forme intérieure, l'«être-en-forme» de la nation; l'idée que le déclin se mesure au fait que l'homme faustien est devenu l'esclave de sa création; la machine le pousse sur une voie, où il ne connaîtra plus jamais le repos et d'où il ne pourra jamais plus rebrousser chemin. Fébrilité et fuite en avant sont des caractéristiques du monde moderne ("faustien" pour Spengler) que condamnent avec la même vigueur Guénon et Evola. Dans Les Années décisives (1933), Spengler critique le césarisme (en clair: le national-socialisme hitlérien), comme issu du titanisme démocratique. Evola préfacera la traduction italienne de cet ouvrage, après une lecture très attentive. Enfin, le «style prussien», exalté par Spengler, correspond, dit le Dr. H.T. Hansen, à l'idée évolienne de l'«ordre aristocratique de la vie, hiérarchisé selon les prestations». Quant à la prééminence nécessaire de la grande politique sur l'économie, l'idée se retrouve chez les deux auteurs. L'influence de Spengler sur Evola n'a pas été nulle, contrairement à ce que ce dernier affirme dans Le chemin du Cinabre. 

 

 

lundi, 06 avril 2009

Spengler: An Introduction to his Life and Ideas

Spengler: An Introduction to His Life and Ideas

Keith Stimely

Oswald Spengler was born in Blankenburg (Harz) in central Germany in 1880, the eldest of four children, and the only boy. His mother's side of the family was quite artistically bent. His father, who had originally been a mining technician and came from a long line of mineworkers, was an official in the German postal bureaucracy, and he provided his family with a simple but comfortable middle class home. [Image: Oswald Spengler.]

The young Oswald never enjoyed the best of health, and suffered from migraine headaches that were to plague him all his life. He also had an anxiety complex, though he was not without grandiose thoughts -- which because of his frail constitution had to be acted out in daydreams only.

When he was ten the family moved to the university city of Halle. Here Spengler received a classical Gymnasium education, studying Greek, Latin, mathematics and natural sciences. Here too he developed his strong affinity for the arts -- especially poetry, drama, and music. He tried his hand at some youthful artistic creations of his own, a few of which have survived -- they are indicative of a tremendous enthusiasm but not much else. At this time also he came under the influence of Goethe and Nietzsche, two figures whose importance to Spengler the youth and the man cannot be overestimated.

After his father's death in 1901, Spengler at 21 entered the University of Munich. In accordance with German student-custom of the time, after a year he proceeded to other universities, first Berlin and then Halle. His main courses of study were in the classical cultures, mathematics, and the physical sciences. His university education was financed in large part by a legacy from a deceased aunt.

His doctoral dissertation at Halle was on Heraclitus, the "dark philosopher" of ancient Greece whose most memorable line was "War is the Father of all things." He failed to pass his first examination because of "insufficient references" -- a characteristic of all his later writings that some critics took a great delight in pointing out. However, he passed a second examination in 1904, and then set to writing the secondary dissertation necessary to qualify as a high school teacher. This became The Development of the Organ of Sight in the Higher Realms of the Animal Kingdom. It was approved, and Spengler received his teaching certificate.

His first post was at a school in Saarbrücken. Then he moved to Düsseldorf and, finally, Hamburg. He taught mathematics, physical sciences, history, and German literature, and by all accounts was a good and conscientious instructor. But his heart was not really in it, and when in 1911 the opportunity presented itself for him to "go his own way" (his mother had died and left him an inheritance that guaranteed him a measure of financial independence), he took it, and left the teaching profession for good.

Historical Explanation of Current Trends

He settled in Munich, there to live the life of an independent scholar/philosopher. He began the writing of a book of observations on contemporary politics whose idea had preoccupied him for some time. Originally to be titled Conservative and Liberal, it was planned as an exposition and explanation of the current trends in Europe -- an accelerating arms race, Entente "encirclement" of Germany, a succession of international crises, increasing polarity of the nations -- and where they were leading. However in late 1911 he was suddenly struck by the notion that the events of the day could only be interpreted in "global" and "total-cultural" terms. He saw Europe as marching off to suicide, a first step toward the final demise of European culture in the world and in history.

The Great War of 1914-1918 only confirmed in his mind the validity of a thesis already developed. His planned work kept increasing in scope far, far beyond the original bounds.

Spengler had tied up most of his money in foreign investments, but the war had largely invalidated them, and he was forced to live out the war years in conditions of genuine poverty. Nevertheless he kept at his work, often writing by candle-light, and in 1917 was ready to publish. He encountered great difficulty in finding a publisher, partly because of the nature of the work, partly because of the chaotic conditions prevailing at the time. However in the summer of 1918, coincident with the German collapse, finally appeared the first volume of The Decline of the West, subtitled "Form and Actuality."

Publishing Success

To no little surprise on the part of both Spengler and his publisher, the book was an immediate and unprecedented success. It offered a rational explanation for the great European disaster, explaining it as part of an inevitable world-historic process. German readers especially took it to heart, but the work soon proved popular throughout Europe and was quickly translated into other languages. Nineteen-nineteen was "Spengler's year," and his name was on many tongues.

Professional historians, however, took great umbrage at this pretentious work by an amateur (Spengler was not a trained historian), and their criticisms -- particularly of numerous errors of fact and the unique and unapologetic "non-scientific" approach of the author -- filled many pages. It is easier now than it was then to dispose of this line of rejection-criticism. Anyway, with regard to the validity of his postulate of rapid Western decline, the contemporary Spenglerian need only say to these critics: Look about you. What do you see?

In 1922 Spengler issued a revised edition of the first volume containing minor corrections and revisions, and the year after saw the appearance of the second volume, subtitled Perspectives of World History. He thereafter remained satisfied with the work, and all his later writings and pronouncements are only enlargements upon the theme he laid out in Decline.

A Direct Approach

The basic idea and essential components of The Decline of the West are not difficult to understand or delineate. (In fact, it is the work's very simplicity that was too much for his professional critics.) First, though, a proper understanding requires a recognition of Spengler's special approach to history. He himself called it the "physiogmatic" approach -- looking things directly in the face or heart, intuitively, rather than strictly scientifically. Too often the real meaning of things is obscured by a mask of scientific-mechanistic "facts." Hence the blindness of the professional "scientist-type" historians, who in a grand lack of imagination see only the visible.

Utilizing his physiogmatic approach, Spengler was confident of his ability to decipher the riddle of History -- even, as he states in Decline's very first sentence, to predetermine history.

The following are his basic postulates:

1. The "linear" view of history must be rejected, in favor of the cyclical. Heretofore history, especially Western history, had been viewed as a "linear" progression from lower to higher, like rungs on a ladder -- an unlimited evolution upward. Western history is thus viewed as developing progressively: Greek >Roman >Medieval >Renaissance >Modern, or, Ancient > Medieval >Modern. This concept, Spengler insisted, is only a product of Western man's ego -- as if everything in the past pointed to him, existed so that he might exist as a yet-more perfected form.

This "incredibly jejune and meaningless scheme" can at last be replaced by one now discernible from the vantage-point of years and a greater and more fundamental knowledge of the past: the notion of History as moving in definite, observable, and -- except in minor ways -- unrelated cycles.

'High Cultures'

2. The cyclical movements of history are not those of mere nations, states, races, or events, but of High Cultures. Recorded history gives us eight such "high cultures": the Indian, the Babylonian, the Egyptian, the Chinese, the Mexican (Mayan-Aztec), the Arabian (or "Magian"), the Classical (Greece and Rome), and the European-Western.

AthenaEach High Culture has as a distinguishing feature a "prime symbol." The Egyptian symbol, for example, was the "Way" or "Path," which can be seen in the ancient Egyptians' preoccupation -- in religion, art, and architecture (the pyramids) -- with the sequential passages of the soul. The prime symbol of the Classical culture was the "point-present" concern, that is, the fascination with the nearby, the small, the "space" of immediate and logical visibility: note here Euclidean geometry, the two-dimensional style of Classical painting and relief-sculpture (you will never see a vanishing point in the background, that is, where there is a background at all), and especially: the lack of facial expression of Grecian busts and statues, signifying nothing behind or beyond the outward. [Image: Atlas Bringing Heracles the Golden Apples in the presence of Athena, a metope illustrating Heracles' Eleventh Labor, with Athena helping Heracles hold up the sky. From the Temple of Zeus in Olympia, c. 460 BC.]

The prime symbol of Western culture is the "Faustian Soul" (from the tale of Doctor Faustus), symbolizing the upward reaching for nothing less than the "Infinite." This is basically a tragic symbol, for it reaches for what even the reacher knows is unreachable. It is exemplified, for instance, by Gothic architecture (especially the interiors of Gothic cathedrals, with their vertical lines and seeming "ceilinglessness"). [Image: Amiens choir.]

The "prime symbol" effects everything in the Culture, manifesting itself in art, science, technics and politics. Each Culture's symbol-soul expresses itself especially in its art, and each Culture has an art form that is most representative of its own symbol. In the Classical, they were sculpture and drama. In Western culture, after architecture in the Gothic era, the great representative form was music -- actually the pluperfect expression of the Faustian soul, transcending as it does the limits of sight for the "limitless" world of sound.

'Organic' Development

3. High Cultures are "living" things -- organic in nature -- and must pass through the stages of birth-development-fulfillment-decay-death. Hence a "morphology" of history. All previous cultures have passed through these distinct stages, and Western culture can be no exception. In fact, its present stage in the organic development-process can be pinpointed.

The high-water mark of a High Culture is its phase of fulfillment -- called the "culture" phase. The beginning of decline and decay in a Culture is the transition point between its "culture" phase and the "civilization" phase that inevitably follows.

The "civilization" phase witnesses drastic social upheavals, mass movements of peoples, continual wars and constant crises. All this takes place along with the growth of the great "megalopolis" -- huge urban and suburban centers that sap the surrounding countrysides of their vitality, intellect, strength, and soul. The inhabitants of these urban conglomerations -- now the bulk of the populace -- are a rootless, soulless, godless, and materialistic mass, who love nothing more than their panem et circenses. From these come the subhuman "fellaheen" -- fitting participants in the dying-out of a culture.

With the civilization phase comes the rule of Money and its twin tools, Democracy and the Press. Money rules over the chaos, and only Money profits by it. But the true bearers of the culture -- the men whose souls are still one with the culture-soul -- are disgusted and repelled by the Money-power and its fellaheen, and act to break it, as they are compelled to do so -- and as the mass culture-soul compels finally the end of the dictatorship of money. Thus the civilization phase concludes with the Age of Caesarism, in which great power come into the hands of great men, helped in this by the chaos of late Money-rule. The advent of the Caesars marks the return of Authority and Duty, of Honor and "Blood," and the end of democracy.

With this arrives the "imperialistic" stage of civilization, in which the Caesars with their bands of followers battle each other for control of the earth. The great masses are uncomprehending and uncaring; the megalopoli slowly depopulate, and the masses gradually "return to the land," to busy themselves there with the same soil-tasks as their ancestors centuries before. The turmoil of events goes on above their heads. Now, amidst all the chaos of the times, there comes a "second religiosity"; a longing return to the old symbols of the faith of the culture. Fortified thus, the masses in a kind of resigned contentment bury their souls and their efforts into the soil from which they and their culture sprang, and against this background the dying of the Culture and the civilization it created is played out.

Predictable Life Cycles

Every Culture's life-span can be seen to last about a thousand years: The Classical existed from 900 BC to 100 AD; the Arabian (Hebraic-semitic Christian-Islamic) from 100 BC to 900 AD; the Western from 1000 AD to 2000 AD. However, this span is the ideal, in the sense that a man's ideal life-span is 70 years, though he may never reach that age, or may live well beyond it. The death of a Culture may in fact be played out over hundreds of years, or it may occur instantaneously because of outer forces -- as in the sudden end of the Mexican Culture.

Also, though every culture has its unique Soul and is in essence a special and separate entity, the development of the life cycle is paralleled in all of them: For each phase of the cycle in a given Culture, and for all great events affecting its course, there is a counterpart in the history of every other culture. Thus, Napoleon, who ushered in the civilization phase of the Western, finds his counterpart in Alexander of Macedon, who did the same for the Classical. Hence the "contemporaneousness" of all high cultures.

In barest outline these are the essential components of Spengler's theory of historical Culture-cycles. In a few sentences it might be summed up:

Human history is the cyclical record of the rise and fall of unrelated High Cultures. These Cultures are in reality super life-forms, that is, they are organic in nature, and like all organisms must pass through the phases of birth-life-death. Though separate entities in themselves, all High Cultures experience parallel development, and events and phases in any one find their corresponding events and phases in the others. It is possible from the vantage point of the twentieth century to glean from the past the meaning of cyclic history, and thus to predict the decline and fall of the West.
Needless to say, such a theory -- though somewhat heralded in the work of Giambattista Vico and the 19th-century Russian Nikolai Danilevsky, as well as in Nietzsche -- was destined to shake the foundations of the intellectual and semi-intellectual world. It did so in short order, partly owing to its felicitous timing, and partly to the brilliance (though not unflawed) with which Spengler presented it.

Polemic Style

There are easier books to read than Decline -- there are also harder -- but a big reason for its unprecedented (for such a work) popular success was the same reason for its by-and-large dismissal by the learned critics: its style. Scorning the type of "learnedness" that demanded only cautionary and judicious statements -- every one backed by a footnote -- Spengler gave freewheeling vent to his opinions and judgments. Many passages are in the style of a polemic, from which no disagreement can be brooked.

To be sure, the two volumes of Decline, no matter the opinionated style and unconventional methodology, are essentially a comprehensive justification of the ideas presented, drawn from the histories of the different High Cultures. He used the comparative method which, of course, is appropriate if indeed all the phases of a High Culture are contemporaneous with those of any other. No one man could possibly have an equally comprehensive knowledge of all the Cultures surveyed, hence Spengler's treatment is uneven, and he spends relatively little time on the Mexican, Indian, Egyptian, Babylonian, and Chinese -- concentrating on the Arabian, Classical, and Western, especially these last two. The most valuable portion of the work, as even his critics acknowledge, is his comparative delineation of the parallel developments of the Classical and Western cultures.

Spengler's vast knowledge of the arts allowed him to place learned emphasis on their importance to the symbolism and inner meaning of a Culture, and the passages on art forms are generally regarded as being among the more thought-provoking. Also eyebrow-raising is a chapter (the very first, in fact, after the Introduction) on "The Meaning of Numbers," in which he asserted that even mathematics -- supposedly the one certain "universal" field of knowledge -- has a different meaning in different cultures: numbers are relative to the people who use them.

"Truth" is likewise relative, and Spengler conceded that what was true for him might not be true for another -- even another wholly of the same culture and era. Thus Spengler's greatest breakthrough may perhaps be his postulation of the non-universality of things, the "differentness" or distinctiveness of different people and cultures (despite their fated common end -- an idea that is beginning to take hold in the modern West, which started this century supremely confident of the wisdom and possibility of making the world over in its image.

Age of Caesars

But is was his placing of the current West into his historical scheme that aroused the most interest and the most controversy. Spengler, as the title of his work suggests, saw the West as doomed to the same eventual extinction that all the other High Cultures had faced. The West, he said, was now in the middle of its "civilization" phase, which had begun, roughly, with Napoleon. The coming of the Caesars (of which Napoleon was only a foreshadowing) was perhaps only decades away. Yet Spengler did not counsel any kind of sighing resignation to fate, or blithe acceptance of coming defeat and death. In a later essay, "Pessimism?" (1922), he wrote that the men of the West must still be men, and do all they could to realize the immense possibilities still open to them. Above all, they must embrace the one absolute imperative: The destruction of Money and democracy, especially in the field of politics, that grand and all-encompassing field of endeavor.

'Prussian' Socialism

After the publication of the first volume of Decline, Spengler's thoughts turned increasingly to contemporary politics in Germany. After experiencing the Bavarian revolution and its short-lived Soviet republic, he wrote a slender volume titled Prussianism and Socialism. Its theme was that a tragic misunderstanding of the concepts was at work: Conservatives and socialists, instead of being at loggerheads, should united under the banner of a true socialism. This was not the Marxist-materialist abomination, he said, but essentially the same thing as Prussianism: a socialism of the German community, based on its unique work ethic, discipline, and organic rank instead of "money." This "Prussian" socialism he sharply contrasted both to the capitalistic ethic of England and the "socialism" of Marx (!), whose theories amounted to "capitalism for the proletariat."

In his corporate state proposals Spengler anticipated the Fascists, although he never was one, and his "socialism" was essentially that of the National Socialists (but without the folkish racialism). His early appraisal of a corporation for which the State would have directional control but not ownership of or direct responsibility for the various private segments of the economy sounded much like Werner Sombart's later favorable review of National Socialist economics in his A New Social Philosophy [Princeton Univ. Press, 1937; translation of Deutscher Sozialismus (1934)].

Prussianism and Socialism did not meet with a favorable reaction from the critics or the public -- eager though the public had been, at first, to learn his views. The book's message was considered to "visionary" and eccentric -- it cut across too many party lines. The years 1920-23 saw Spengler retreat into a preoccupation with the revision of the first volume of Decline, and the completion of the second. He did occasionally give lectures, and wrote some essays, only a few of which have survived.

Political Involvement

In 1924, following the social-economic upheaval of the terrible inflation, Spengler entered the political fray in an effort to bring Reichswehr general Hans von Seekt to power as the country's leader. But the effort came to naught. Spengler proved totally ineffective in practical politics. It was the old story of the would-be "philosopher-king," who was more philosopher than king (or king-maker).

After 1925, at the start of Weimar Germany's all-too-brief period of relative stability, Spengler devoted most of his time to his research and writing. He was particularly concerned that he had left an important gap in his great work -- that of the pre-history of man. In Decline he had written that prehistoric man was basically without a history, but he revised that opinion. His work on the subject was only fragmentary, but 30 years after his death a compilation was published under the title Early Period of World History.

His main task as he saw it, however, was a grand and all-encompassing work on his metaphysics -- of which Decline had only given hints. He never did finish this, though Fundamental Questions, in the main a collection of aphorisms on the subject, was published in 1965.

In 1931 he published Man and Technics, a book that reflected his fascination with the development and usage, past and future, of the technical. The development of advanced technology is unique to the West, and he predicted where it would lead. Man and Technics is a racialist book, though not in a narrow "Germanic" sense. Rather it warns the European or white races of the pressing danger from the outer Colored races. It predicts a time when the Colored peoples of the earth will use the very technology of the West to destroy the West.

Reservations About Hitler

There is much in Spengler's thinking that permits one to characterize him as a kind of "proto-Nazi": his call for a return to Authority, his hatred of "decadent" democracy, his exaltation of the spirit of "Prussianism," his idea of war as essential to life. However, he never joined the National Socialist party, despite the repeated entreaties of such NS luminaries as Gregor Strasser and Ernst Hanfstängl. He regarded the National Socialists as immature, fascinated with marching bands and patriotic slogans, playing with the bauble of power but not realizing the philosophical significance and new imperatives of the age. Of Hitler he supposed to have said that what Germany needed was a hero, not a heroic tenor. Still, he did vote for Hitler against Hindenburg in the 1932 election. He met Hitler in person only once, in July 1933, but Spengler came away unimpressed from their lengthy discussion.

His views about the National Socialists and the direction Germany should properly be taking surfaced in late 1933, in his book The Hour of Decision [translation of Die Jahre der Entscheidung]. He began it by stating that no one could have looked forward to the National Socialist revolution with greater longing than he. In the course of the work, though, he expressed (sometimes in veiled form) his reservations about the new regime. Germanophile though he certainly was, nevertheless he viewed the National Socialists as too narrowly German in character, and not sufficiently European.

Although he continued the racialist tone of Man and Technics, Spengler belittled what he regarded as the exclusiveness of the National Socialist concept of race. In the face of the outer danger, what should be emphasized is the unity of the various European races, not their fragmentation. Beyond a matter-of-fact recognition of the "colored peril" and the superiority of white civilization, Spengler repeated his own "non-materialist" concept of race (which he had already expressed in Decline): Certain men -- of whatever ancestry -- have "race" (a kind of will-to-power), and these are the makers of history.

Predicting a second world war, Spengler warned in Hour of Decision that the National Socialists were not sufficiently watchful of the powerful hostile forces outside the country that would mobilize to destroy them, and Germany. His most direct criticism was phrased in this way: "And the National Socialists believe that they can afford to ignore the world or oppose it, and build their castles-in-the-air without creating a possibly silent, but very palpable reaction from abroad." Finally, but after it had already achieved a wide circulation, the authorities prohibited the book's further distribution.

Oswald Spengler, shortly after predicting that in a decade there would no longer be a German Reich, died of a heart attack on May 8, 1936, in his Munich apartment. He went to his death convinced that he had been right, and that events were unfolding in fulfillment of what he had written in The Decline of the West. He was certain that he lived in the twilight period of his Culture -- which, despite his foreboding and gloomy pronouncements, he loved and cared for deeply to the very end.


Journal of Historical Review, 17/2 (March/April 1998), 2-7. The illustrations, with the exception of the Spengler photo, do not appear in the original article.

samedi, 04 avril 2009

Hommage à Armin Mohler

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

«Homme de droite à sa façon»

Hommage à Armin Mohler pour ses 75 ans

 

Journaliste, politologue, historien de l'art, directeur de fondation, polémiste et analyste, Armin Mohler a fêté ses 75 ans en avril. Ses adversaires en profiteront sans doute pour le dénigrer une fois de plus. Ce que Mohler acceptera avec une parfaite égalité d'humeur, voire avec satisfaction, car cette hostilité ré­pond à ses attentes: «L'homme de droite est aujourd'hui le seul véritable trouble-fête dans notre société».

 

Mohler adore ce rôle de trouble-fête. Peut-être est-ce dû à ses origines helvétiques, dans la mesure où les Suisses aiment généralement le consensus et chassent par tradition les agitateurs hors du pays. Les Reisigen (du terme moyen-haut-allemand Reise, la campagne militaire) ont été appréciés par toutes les puissances européennes parce qu'ils savaient se battre. Günter Zehm, le célèbre journaliste de Die Welt,  a un jour fait grand plaisir à Mohler en l'appelant le Reisiger, et, plus précisément le Reisläufer des Konkreten, c'est-à-dire “celui qui part en campagne dans les immensités de la concrétude”. Certes, les campagnes de Mohler dans les concrétudes de ce monde ont été moins dures et moins sanglantes que celles de ses compatriotes qui luttaient dans toutes les armées de mercenaires d'Europe: pendant de longues années, il a été correspondant de journaux importants en France, puis a dirigé la Fondation Siemens entre 1962 et 1985, a envisagé une carrière universitaire. Qu'il n'a pas obtenue. Parce que Mohler a choisi le chemin le plus ardu, le plus abrupt, le plus couvert de ronces. Un chemin privé. Un chemin à lui. A lui tout seul.

 

En se situant résolument à droite, Mohler n'en a pas moins gardé un profil tout-à-fait personnel; sans tenir compte de humeurs en vogue dans les droites, les bonnes comme les mauvaises, il cultivait ses sympa­thies pour des hommes aussi différents que Manfred Stolpe, Gerhard Schröder, Helmut Kohl et Franz Schönhuber, sans oublier le respect qu'il dit devoir à Gregor Gysi, parce que ce dernier défenseur du sys­tème de la RDA l'a beaucoup amusé. Dans ses conversations, on perçoit un respect très conservateur  —pour ne pas dire vieux-franc—  pour les institutions et les dignitaires, mais on s'étonne toujours de le voir changer brusquement d'attitude et de brocarder sans merci l'absence d'humour des conformistes.

 

Entre cette imprévisibilité idéologique et ses efforts constants pour tenter de définir intellectuellement ce qui est “de droite”, il y a une logique. Qui a démarré dès son célèbre livre Die Konservative Revolution in Deutschland  jusqu'à son long essai sur le “style fasciste”, ses études sur la technocratie et ses innom­brables articles sur des “thèmes de droite” (Sex in der Politik, Vergangenheitsbe­wältigung  et Liberalenbeschimpfung)  ou sur des auteurs (Oswald Spengler, Arnold Gehlen, Joachim Fernau). Dans tous ses écrits, Mohler se concentre sur ce problème: la définition de ce qui est “de droite”. Tous ses autres intérêts, notamment dans le domaine de l'histoire de l'art (Giorgio Morandi, Edward Hopper et la lutte contre la “mauvaise infinitude”) sont passés à l'arrière-plan.

 

Mohler a donc entamé une longue quête pour savoir ce qu'est ou devrait être l'“homme de droite” contem­porain, qui a volontairement abandonné tous les costumes historiques, les bottes d'équitation des clubs d'officiers ou les escarpins de l'Ancien Régime. Cette quête, on la suit avec intérêt et enthousiasme, sans perdre son étonnement pour quelques-unes de ses idées ou de ses passions politiques. Cet étonnement s'accompagne de regrets quant aux livres que Mohler n'a pas eu le temps d'écrire: son “Traité de poli­tique”, son ouvrage sur Georges Sorel, son travail sur les “anarchistes de droite”... Mais j'ai peut-être tort de lui faire ces reproches dans un hommage comme celui-ci... Car Mohler risque bel et bien de nous ré­server une bonne surprise un de ces jours. Ad multos annos.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(hommage issu de Junge Freiheit,  n°16/95; trad. franç.: Robert Steuckers).

vendredi, 03 avril 2009

Arthur Moeller van den Bruck

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Il y a 70 ans mourrait Arthur Moeller van den Bruck

 

«C'est une question que vous adressez au destin de l'Allemagne, lorsque vous me demandez qui fut Arthur Moeller van den Bruck», déclarait sa veuve Lucy en 1932, dans le seul et unique interview qu'elle a accordé pour évoquer la mémoire de son mari. En effet, la vie de Moeller van den Bruck, le protagoniste le plus significatif de la Révolution Conservatrice de l'entre-deux-guerres, reflète parfaitement l'esprit du temps. Mais si son époque l'a marqué, il l'a marquée tout autant. Le Juni-Klub qu'il avait fondé avec Heinrich von Gleichen en 1919 quand il devinait l'effondrement du Reich, la révolution spartakiste et les affres du Diktat de Versailles, devait devenir la cellule de base d'un mouvement “jeune-conservateur”. Un an plus tard, le Juni-Klub déménage et se fixe au numéro 22 de la Motzstraße à Berlin, pour déployer de nouvelles activités. Outre les soirées de débat, le Juni-Klub s'empressa de mettre sur pied un “collège politique” pour parfaire la formation politique des “nationaux”. En 1923, le Juni-Klub acquiert le droit de dé­cerner des diplômes reconnus par l'Etat et entame une activité journalistique intense. Finalement jusqu'à 50 journaux importants ou revues au tirage plus restreint ont été chercher leurs éditoriaux ou leurs bonnes feuilles dans les locaux de la Motzstraße. Dans tout le territoire du Reich, ces structures de for­mation et de publication se multiplient et se donnent un nom, Der Ring (= L'Anneau), qui symbolise le mou­vement national naissant, quadrillant le pays.

 

Le périodique le plus significatif des Jeunes-Conservateurs fut Gewissen,  une revue rachetée en 1920, dont la forme fut entièrement remodelée par Moeller. La revue a tout de suite suscité un grand intérêt et a eu les effets escomptés, comme l'atteste une lettre de Thomas Mann à Heinrich von Gleichen (1920): «Je viens de renouveler mon abonnement à Gewissen,  une revue que je décris comme la meilleure publication allemande, une publication sans pareille, à tous ceux avec qui je m'entretiens de politique». Moeller était véritablement le centre de toutes ces activités. En écrivant des brochures et d'innombrables articles, il façonnait le mouvement, lui donnait son idéologie, ses lignes directrices. Mais sa forte personnalité jouait un rôle tout aussi intense, rassemblait les esprits. Pourtant, jamais il n'écrivit de grande œuvre politique, mis à part des ouvrages de référence indispensables, comme Das Recht der jungen Völker  [= Le Droit des peuples jeunes] (1919), puis l'ouvrage collectif écrit de concert, notamment avec Heinrich von Gleichen et Max Hildebert Boehm, et destiné à devenir la base d'un programme “jeune-conservateur”, Die Neue Front  [= Le Front Nouveau] (1922) et, bien sûr, le plus connu d'entre tous ses livres, Das Dritte Reich (1923). Bien entendu, ce titre fait penser, par homonymie, au “Troisième Reich” des nationaux-so­cialistes, ce qui a nuit à la réputation de l'auteur et du contenu de l'ouvrage. Pourtant, Moeller émettait de sérieuses réserves à l'endroit de Hitler et de la NSDAP. Malgré son opposition, Hitler put parler un jour à la tribune du Juni-Klub en 1922, mais Moeller en tira une conclusion laconique, négative: «Ce gaillard-là ne comprendra jamais!». Après le putsch de Munich, Moeller commenta sévèrement l'événement dans Gewissen:  «Hitler a échoué à cause de sa primitivité prolétarienne».

 

Le mouvement jeune-conservateur

 

L'influence prépondérante de Moeller van den Bruck peut parfaitement se jauger: en 1924, quand une grave maladie le frappe et le contraint à abandonner tout travail politique, les structures mises en place se défont. Le 27 mai 1995, après plusieurs mois de souffrances, Moeller met volontairement un terme à ses jours. Ce sera Max Hildebert Boehm qui prononcera le discours traditionnel au bord de sa tombe: «Le chef, le bon camarade, l'ami cher, auquel nous rendons aujourd'hui un dernier hommage, est entré comme un homme accompli, comme un homme “devenu”, dans notre cercle de “devenants” (... trat als ein Gewordener in unseren Kreis von Werdenden)».

 

Pour Moeller, comme pour tant d'autres, la Première Guerre mondiale et ses conséquences ont constitué un grand tournant de l'existence. En effet, quand Moeller s'est définitivement donné au travail politique, il était déjà un homme accompli, un “devenu”. Né le 23 avril 1876 à Solingen, il avait derrière lui un chemine­ment aussi extraordinaire que typique. Il appartenait à une génération qui n'avait plus pu s'insérer dans la société du tournant du siècle; adolescent, il avait interrompu sa formation scolaire et s'était installé d'abord à Leipzig, où il fit la connaissance du dramaturge et poète Franz Evers, qui l'accompagnera long­temps et marquera plusieurs stades cruciaux de son existence. Ses seuls intérêts, à l'époque, étaient lit­téraires et artistiques. Ce jeune homme très sérieux avait un jour suscité la remarque ironique d'un audi­teur: «Vous avez-vous? Le jeune Moeller a ri aujourd'hui!». En 1896, il part pour le centre de la vie intellec­tuelle du Reich: Berlin.

 

Le style prussien

 

C'est dans la capitale allemande qu'il épousera un amour de jeunesse, Hedda Maase, qui partageait ses passions. Plus tard, elle a rédigé un mémoire détaillé sur son époque berlinoise, où elle décrit son mari: «Il s'habillait de façon très choisie et cherchait à exprimer l'aristocrate intérieur qu'il était à tous les niveaux, dans ses attitudes, dans les formes de son maintien, dans son langage». Un héritage leur permettait de vivre sans travailler; ainsi, ils pouvaient passer beaucoup de temps dans les cafés littéraires et dans les restaurants, et discuter des nuits entières avec des hommes et des femmes partageant leur sensibilité: parmi eux, Richard Dehmel, Frank Wedekind, Detlev von Liliencorn, le peintre et dessinateur Fidus, Wilhelm Lentrodt, Ansorge ou Rudolf Steiner. Ces réunions donnait l'occasion de pratiquer de la haute voltige intellectuelle mais aussi, assez souvent, comme Moeller l'avoue lui-même, de rechercher “le royaume au fond du verre”. Avec sa femme, il traduit, dans ces années-là, des ouvrages de Baudelaire, de Barbey d'Aurevilly, de Thomas de Quincey, de Daniel Defoë et surtout d'Edgar Allan Poe. Entre 1899 et 1902, il achève un ouvrage en douze volumes: Die moderne Literatur in Gruppen- und Einzeldarstellungen.

 

En 1902, Moeller quitte précipitamment Berlin sans sa femme, qui épousera plus tard Herbert Eulenberg. En passant par la Suisse, il aboutit à Paris. Il y restera quatre ans, parfois en compagnie d'Evers. Il édite plusieurs ouvrages, Das Variété (1902), Das Théâtre Français (1905) et Die Zeitgenossen (= Les Contemporains) (1906), flanqués de huit volumes, écrits entre 1904 et 1910, Die Deutschen. Unsere Menschengeschichte  (= Les Allemands. Notre histoire humaine). A Paris, Moeller avait fait la connais­sance de deux sœurs originaires de Livonie (actuellement en Lettonie), Less et Lucy Kaerrick, et de Dimitri Merejkovski. Ces amitiés ont permis l'éclosion du plus grand travail de Moeller: la première édition allemande complète de l'œuvre de Dostoïevski. Plus tard, Moeller épouse Lucy Kaerrick. En 1906, il voyage en Italie avec Barlach et Däubler, ce qui lui permettra de publier en 1913 Die italienische Schönheit  [= La beauté italienne]. En 1907, il retourne en Allemagne et accomplit sur le tard son service militaire, pour exprimer son engagement en faveur de l'Allemagne qu'il n'avait jamais cessé de manifester à l'étranger. Ensuite, il voyage encore dans tous les pays d'Europe. Quand éclate la Première Guerre mondiale, il est affecté dans une unité territoriale (Landsturm).  C'est à cette époque qu'il aura plusieurs longues conversations avec un jeune juriste, Carl Schmitt. En 1916, Moellers change d'affectation: il se retrouve dans le “département étranger” de l'état-major de l'armée de terre. La même année paraît un de ses meilleurs livres: Der preußische Stil  [= Le style prussien], recueil d'articles et d'essais antérieurs mais dont la portée ne s'était nullement atténuée.

 

Guido FEHLING.

(article paru dans Junge Freiheit, n°21/1995).

lundi, 30 mars 2009

Het Antifa-complex

Het Antifa-complex

Geïnduceerde politiek-correcte psychopathologie

Ex: http://onsverbond.wordpress.com/

De antideutsche (2) is een organisatie die illustreert hoe extreem zelfhaat wel kan zijn. Tijdens een recente betoging in Dresden bedankte zij de oorlogsmisdadiger Harris middels een spandoek voor zijn prestaties. Men droeg ook spandoeken mee waarop stond te lezen “Bomber Harris: do it again”. Deze zelfhaat spruit voort uit een zogenaamd ‘antifascistisch complex’.(3) Dit houdt in dat alles wat verband houdt met de nationale identiteit Pavloviaans geassocieerd wordt met een traumatische ervaring uit een ver nationaal-socialistisch verleden. Dit antifa-complex maakt deel uit van het cultureel marxisme, of in bekender woorden, de politieke correctheid.

CULTURELE HEGEMONIE

De Italiaanse communist Antonio Gramsci (4) ontwikkelde de theorie van de culturele hegemonie. Deze stelt dat de politieke bovenbouw gevormd wordt door de culturele onderbouw. Wie dus  een hegemonie vestigt in het sociaal- culturele veld, bepaalt hoe de samenleving er politiek uit ziet.

Hierop is het begrip politieke correctheid gebaseerd. Dit betekent rudimentair dat men met een semantisch en ideologisch eenheidskader bepaalt welke menselijke sociale interactie (taal, beleid, gedachten, handelingen, politieke uitingen enzovoort) wenselijk is en welke dat niet is, met andere woorden: welke politiek-correct en welke niet-politiek correct is.

In de praxis is de opzet van politieke correctheid drieledig. Primo, het verabsoluteren van politiek-correcte thesen betreffende democratie tot ‘de’ democratie. Wie niet politiek-correct is, is bijgevolg niet democratisch. Secundo, het middels het antifa-complex discrediteren van andersdenkenden wanneer hun boodschap, of delen daarvan, niet in het politiek-correcte discours passen. Tertio, aangezien etnisch-culturele identiteit een hinderpaal vormt voor het vormen van een internationaal proletariaat (vanuit marxistisch oogpunt) of van een internationale consument (vanuit liberaal-kapitalistisch oogpunt), het onderdrukken der dagelijkse praxis van een gezond identiteitsbesef .

NIEUWE SOCIALE BEWEGINGEN

Een culturele hegemonie heeft socialisatiefactoren nodig. Deze werden gevonden in de nieuwe sociale bewegingen vanaf de jaren 1970: vredesbeweging, groene beweging, holebi-beweging, anti-racistische beweging, feministische beweging, multiculturele beweging enzovoort. Elk van deze bewegingen bewerkstelligde zeer uitdrukkelijk niet het respect voor andere culturen, de gelijkwaardigheid en gelijke ontplooiingskansen tussen man en vrouw, het evenwicht tussen mens en natuur, maar wel het afbreken van de sociale, culturele, geslachtelijke en etnische onderscheiden tussen mensen en groepen mensen. Door het afbreken van die verschillen hoopte men de (haast) geslachtsloze, cultuurloze, geatomiseerde en tegelijk universele mens te creëren. Gelijk in het Zijn, dus gelijk in zijn belangen, dus gelijk in zijn bestuur en maatschappijordening, met andere woorden: de globale, gelijke en materialistische eenheidsmaatschappij, de (neo)communistische consumptiemaatschappij.

NEO-COMMUNISME

Francis Fukuyama besloot bij het ineenstorten van het Oostblok tot “the end of history”: de allocatie via de vrije markt had het tot het einde der tijden gewonnen van allocatie door de collectiviteit, i.c. de planeconomie van de staat. Marxisten die sindsdien nog steeds de (staatsgeleide) planeconomie verdedigen voeren inderdaad een achterhaald gevecht sinds hun allocatiesysteem gefalsifieerd is. Er zijn ook andere marxisten die zich geheroriënteerd hebben, zoals de neoconservatieve beweging in de VS. De belangrijkste ideologen hiervan zijn oud-marxisten, zoals de Amerikaanse Joden Leo Strauss of Irving Kristol. We spreken in dit kader dan ook beter van neocoms (neocommunisten) dan van neocons (neoconservatieven).

De termen zijn veranderd, maar de doelstellingen zijn dezelfde, net zoals de methode van politieke correctheid. De liberale thesen ondersteunen evenzeer het fundamentele waardenstelsel van de politieke correctheid dat bestaat uit universalisme, materialisme, de maakbaarheidsgedachte, precies omdat zowel marxisme als liberalisme zich op een identiek filosofisch kader beroepen.

HET VALSE DISCOURS

Een goed voorbeeld hiervan is het multiculturalisme. Gelijkheid, maakbaarheid en universaliteit zijn kernelementen uit de marxistische leer. Vertaald in politiek-correcte termen wordt dit: verrijking door diversiteit en multiculturaliteit. Dit impliceert massamigratie. Culturen hebben een verschillend normen-, waarden- en wettelijk kader. Om sociale interactie mogelijk te maken is dus een gemene deler nodig die altijd afbreuk zal doen aan de specificiteit van onderscheiden culturen. De finale doelstelling is dus niet diversiteit en multiculturaliteit, maar monoculturaliteit: de uniforme eenheidsmens. Wie van oordeel is dat mensen en groepen mensen cultuurspecifiek zijn en hun eigen socio-culturele ‘habitat’ behoeven, pleit fundamenteel voor diversiteit (= onderscheid) en multiculturaliteit (= veelheid aan culturen), maar worden in politiek-correcte termen bestempeld als racisten en dus anti-democraten. Het betreft dus een vals discours.

Met de val van de Berlijnse Muur is het totalitarisme niet overwonnen; het is integendeel uit zijn kooi gelaten, heeft een andere gedaante aangenomen en heeft nu ook het vrije Westen in zijn totalitaire greep. Vrije burgers, de strijd is nog maar pas begonnen!  

Vbr. OS lic. rer. pol. Tom Vandendriessche

dimanche, 29 mars 2009

Duits socialisme

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Boekbespreking: Jacques Van Doorn - Duits socialisme

Duits socialisme: het falen van de sociaal-democratie en de opkomst van het nationaal-socialisme

Ex: http://onsverbond.wordpress.com/

Prof. em. dr. Jacques van Doorn (1925-2008) was in de jaren 1960 een der grondleggers van de Nederlandse sociologie en van de Faculteit Sociale Wetenschappen van de Erasmus Universiteit in Rotterdam. Met het standaardwerk Moderne sociologie: een systematische inleiding uit 1959 - samen met C.J. Lammers geschreven - werd een hele generatie Nederlandse sociologen opgeleid. Hoewel het de jaren van de maakbaarheid van de samenleving waren, verloor de uit Maastricht afkomstige van Doorn geleidelijk zijn geloof in de maakbaarheidsidee en werd hij steeds meer aangetrokken door het conservatisme, dat de illusie van aardse verlossing verving door een scherp besef van de onvolkomenheid van al het menselijk streven. Die ontnuchtering had alles te maken met de utopische en populistische inslag van het studentenprotest en Nieuw Links in de jaren 1970. In 1987 ging van Doorn met vervroegd en niet geheel vrijwillig emeritaat. Dat jaar werd namelijk de door hem opgerichte opleiding Sociologie aan de Erasmus Universiteit opgeheven en de staf collectief ontslagen, omdat hij een geniepige poging van de toenmalige directeur-generaal voor het wetenschappelijk onderwijs om zichzelf een leerstoel in Rotterdam te bezorgen publiek scherp bekritiseerd had. De volgende 21 jaren ‘pensioen’ bleken zowel voor zijn intellectuele reputatie als ideologisch belangrijker dan zijn 40 academische jaren.
Politiek bewoog deze bekende hoogleraar zich van links tot rechts-conservatief. Hij schreef niet om zijn persoonlijke mening te uiten, maar analyseerde. Als columnist bij NRC-Handelsblad stapte hij in 1990 over naar de dagbladen Trouw en HP/De Tijd, nadat hij valselijk beschuldigd was van antisemitisme door NRC-Handelsblad, dat dit pas recent officieel toegaf. De laatste jaren werd hij vooral bekend vanwege zijn moedige en tegendraadse kritiek op het rechtse populisme en op fanatieke islamcritici als Ayaan Hirsi Ali, Marco Pastors, Ehsan Jami en Geert Wilders. Zijn intellectuele provocaties waren een welkom tegengeluid tegen het ongenuanceerde zwart-wit denken van de neocons en de Verlichtingsfundamentalisten. De altijd onafhankelijke geest van Doorn was daarmee een van de belangrijkste naoorlogse intellectuelen in Nederland, een land dat weinig echte vrijdenkers kent.

Het vlak voor zijn dood - op 14 mei 2008 - verschenen meesterwerk Duits socialisme: het falen van de sociaal-democratie en de triomf van het nationaal-socialisme beschrijft de opkomst en het verval van de sociaal-democratie in Duitsland in Fin-de-Siècle en interbellum, evenals de opkomst en machtsovername van het nationaal-socialisme. Het resultaat van een leven lang denken werd neergeschreven in dit indrukwekkende nieuwe boek. Met zijn enorme sociologische, historische en politiek-theoretische kennis onderbouwt professor van Doorn hierin de vlijmscherpe stelling dat het nationaal-socialisme een authentieke revolutie en zelfs een alternatieve vorm van socialisme was. Zonder enige twijfel vormt het de kroon op zijn veelzijdige oeuvre.

Het boek bestaat uit drie delen. Het eerste deel beschrijft de geschiedenis van de sociaal-democratische beweging; het tweede bespreekt de vele stromingen die in de jaren 1920 nationalisme en socialisme trachtten aaneen te smeden, terwijl het derde deel het nationaal-socialisme schetst als een vorm van socialisme.

De Duitse sociaal-democratische beweging was het vlaggenschip van het internationale socialisme. De centrale vraag in dit boek is hoe Hitler aan de macht kon komen ondanks de ongeëvenaarde organisatorische, electorale en intellectuele kracht van de SPD. Niet door een geslaagd politiek manoeuvre, zo blijkt, maar wel als resultaat van diepgaande maatschappelijke onderstromen, waarin zich twee versnellingsmomenten voordeden: augustus 1914 en november 1918, het begin en het einde van de Eerste Wereldoorlog.

De meeste historici ontkennen of relativeren het socialistisch gehalte van het nazisme. Zij doen de socialistische component in het nazisme af als een maskerade, waarmee ze de verwantschap tussen sociaal-democratie en nationaal-socialisme uit de weg kunnen gaan. Toen bijvoorbeeld de Utrechtse historicus Maarten van Rossem als student zijn scriptie wou schrijven over de tot op heden bestaande sociale maatregelen van de Duitse bezetter, werd hem dit met klem ontraden met het argument dat dit hem tot een paria in de historische wetenschap zou maken. De contemporaine historiografie schetst immers het Derde Rijk als een boosaardige misvatting in de Europese geschiedenis en als een exclusief Pruisisch-Duits verschijnsel. Jacques van Doorn toont echter de evidente verwantschap tussen sociaal-democratie en nationaal-socialisme aan. Traditioneel wijzen historici de conservatieven, de Reichswehr, de adel en de industriëlen aan als wegbereiders van Hitler. Nochtans was de NSDAP in de Weimarrepubliek zowat de enige Duitse politieke partij die níet gefinancierd werd door voornoemde groepen. De auteur wijst erop dat de arbeidersklasse nooit genoemd wordt als steunpilaar van het nazisme, maar integendeel steevast afgeschilderd wordt als een alleen door de sociaal-democratie vertegenwoordigde groep verschoppelingen, die vanzelfsprekend tot de ‘goeden’ gerekend wordt.

Dit vormt van Doorns uitgangspunt voor een verhelderende studie naar de wortels van het nazisme in de Duitse sociaal-democratie. De SPD had het in het Fin-de-Siècle immers moeilijk met zijn nationale identiteit en kampte steeds opnieuw met groepen revisionisten en dissidenten die - anders dan de marxistische partijtop - de staat, militarisme en patriottisme positief waardeerden. Naast socialistische verdedigden zij ook nationalistische belangen. Hiermee geeft van Doorn het nationaal-socialisme een verleden. De sociaal-democratische antecedenten van het nazisme werden echter tijdens de Tweede Wereldoorlog verdrongen door de orgie van vernietiging waarin het nationaal-socialisme culmineerde, hoewel Duitsland tot in de eerste oorlogsjaren zowel militair-politiek als ideologisch een voorsprong op de rest van Europa had.

De auteur toont aan dat het nationaal-socialisme noch programmatisch, noch in zijn praktische uitvoering een reactionaire kracht was, maar in tegendeel juist een uitermate revolutionaire. Op amper enkele jaren tijd werd de sociale structuur van het krachteloze Weimar-Duitsland gesloopt. De stelling dat het naziregime een logische voortzetting was van een autoritair, Pruisisch Duitsland blijkt volkomen onjuist. Hitlers weerzin tegen de staat, die hem met zijn inherente bureaucratie en legalisme in zijn bewegingsruimte belemmerde, vertaalde zich binnenlands in een ware sociale omwenteling. Het nationaal-socialisme wordt door professor van Doorn als een anti-kapitalistische stroming beschreven, waartegen de sociaal-democraten het moesten afleggen omdat ze het nationalisme niet wisten te integreren in hun programma. Het boek is een onconventionele kijk op de geschiedenis van de arbeidersbeweging.
Bijna nergens werd het Keynesianisme zo succesvol toegepast en genoten werknemers zo’n uitgebreide sociale zekerheid als in nazi-Duitsland. De liberale geallieerden waren zelfs zo beducht voor de bekoring van de nazi-welvaartsstaat bij de Europese bevolking dat ze zich gedurende de oorlog genoodzaakt zagen een op het Duitse voorbeeld geïnspireerde verzorgingsstaat te ontwerpen. Jacques van Doorn toont hiermee aan dat onze huidige sociale zekerheid ontstond uit het nationaal-socialisme.

Volgens de auteur faalde de Duitse sociaal-democratie dus vanwege haar grootste tekort: het onvermogen om nationalisme en socialisme te verzoenen. Dit gebrek belastte de Duitse sociaal-democratie vanaf haar ontstaan tot op heden: geen enkele Duitse partij huivert zo voor vlagvertoon en het uitdrukken van identitaire gevoelens als de SPD. Reeds in de jaren 1860 leidde dit tot een hevige tweestrijd tussen enerzijds de internationalisten Karl Marx en Friedrich Engels en anderzijds de ‘eerste nationaal-socialist’ Ferdinand Lassalle (1825-1864). Het Duitse socialisme ontstond trouwens bij de Pruisische staatssocialist Lassalle, die de eerste socialistische partij ter wereld oprichtte. Zijn vroege dood in 1864 zorgde er echter voor dat de strekking Marx-Engels de overhand kreeg. Toch schreef ook Lasalles opvolger Johann Baptist von Schweitzer (als voorzitter van de ADAV - een voorganger van de SPD) in het ADAV-tijdschrift Der Socialdemokrat nog regelmatig over nationalistische thema’s, zoals het goedkeuren van de annexatie van de Deense gebieden Sleeswijk en Holstein door Pruisen of het benoemen van Duitsers die niet participeerden aan de Frans-Duitse Oorlog als landverraders. Volgens hem bestond de Duitse macht “uit de Pruisische bajonet en de vuist van Duitse proletariërs”.
Binnen de sociaal-democratische partij - sinds 1890 heette die SPD - waren dergelijke bekentenissen echter omstreden. Nooit kon een verzoeningsformule gevonden worden voor dit permanente conflict tussen internationalisten en ‘nationalen’. De partij schipperde dan ook decennialang tussen de ene keer het ondersteunen en de andere keer het bestrijden van de regering inzake nationale belangen. Vanaf zijn ontstaan tot zijn ondergang in 1933 manifesteerde de SPD zich steeds weer als een tweeslachtige partij, die bovendien permanent werd veracht door ‘rechts’ en gewantrouwd door ‘links’.

Uit het onsamenhangende werk van Marx en Engels distilleerde hun politieke erfgenaam Karl Kautsky (1854-1938) een marxistische orthodoxie die weliswaar de SPD aaneensmeedde door een vast geloof, doch tegelijk de socialisten ook dwong zich tegenover Duitsland te blijven opstellen. In augustus 1914 waren ze echter door de tegenstelling tussen hun reformistische praktijk en hun revolutionaire programma niet tegen de nationalistische oorlogseuforie bestand, waardoor de SPD gedwongen werd in de Rijksdag voor de oorlogskredieten te stemmen. Veel partijleden bleken immers voorstander van oorlogsdeelname en wezen erop dat Duitsland het land was van organisatie en een paternalistische staat, terwijl ook de Duitse Kultur op een hoger niveau stond dan de liberale oppervlakkigheid van Engeland en Frankrijk. En hoewel het de historische taak van de SPD was in Duitsland het socialisme te verwezenlijken, een einde te stellen aan vergaande sociale mistoestanden en het ongebreidelde kapitalisme aan banden te leggen, mislukten de Duitse sociaal-democraten hierin tijdens de ongelukkige Novemberrevolutie van 1918, die dan ook door de Vrijkorpsen werd neergeslagen.

Hierdoor kregen ze tijdens de daaropvolgende Weimarrepubliek de schuld voor de verloren oorlog toegeschoven, terwijl de SPD tot overmaat van ramp door het marxisme van Kautsky niet voorbereid was om het land te besturen. Zo werden de door de sociaal-democraten decennialang beloofde economische hervormingen nauwelijks uitgevoerd. De SPD beperkte zich daarentegen tot het verdedigen van de in Duitsland onpopulaire liberale democratie. De partij faalde dus jammerlijk, wat van Doorn toeschrijft aan één tekort: de partij kon Duitsland niet vinden. Daarom zou de SPD ten onder gaan in de confrontatie met een partij die bewees dat het socialisme wél een unieke nationaal-bindende kracht kon zijn. Het nationaal-socialisme voltooide bijgevolg de geschiedenis van het Duitse socialisme door zich te identificeren met Duitsland. Om dat Duitse socialisme vervolgens te vernietigen door er de meest extreme consequenties aan te geven, die “zum Teufel führen”, zoals van Doorn schrijft.
Hoe groot de behoefte aan een synthese tussen socialisme en nationalisme was, bleek uit het enorme succes van de NSDAP in de loop van de jaren 1930, toen de omvang ervan veel groter bleek dan de SPD ooit gekend had. Maar anders dan de SPD stelde de NSDAP de Duitsers niet teleur: in 1951 noemde veertig procent der Duitsers de jaren 1930 de beste tijd die Duitsland ooit had gekend. Omdat het nazisme bijgevolg weinig weerwerk van de bevolking te vrezen had, telde de Gestapo in die jaren slechts 8.000 man (op ca. 80 miljoen inwoners). Ter vergelijking: het wérkelijk onpopulaire DDR-regime had 91.000 medewerkers - zonder de ca. 175.000 informanten! - nodig om een onwillige bevolking van 17 miljoen mensen in bedwang te houden. Het ontbreken van de dwang waarmee de regimes in de Sovjetunie en diens Midden-Europese satellietstaten zich moesten handhaven, wettigt volgens professor van Doorn zelfs “de vraag of het juist is nazi-Duitsland een totalitaire staat te noemen, en zelfs of het regime dat serieus beoogde te zijn”.

Zowel de marxistische klassenstrijd als de oude keizerlijke standenmaatschappij werden begraven en vervangen door een echte Volksgemeinschaft. Sociale en culturele ongelijkheid werd met kracht bestreden. Voortaan telden prestaties in plaats van geboorte of financiële status bij het toewijzen van posities in leger, partij, SS en maatschappij. De sociale mobiliteit nam aanzienlijk toe, terwijl tevens de samenleving opener werd, een ontwikkeling die na 1945 niet meer kon worden teruggedraaid. Het Derde Rijk, concludeert de auteur, was wel degelijk op weg naar een socialisme gezien de verregaande toename van sociale gelijkheid en emancipatie. De nazi’s slaagden erin een eind te maken aan de standenstaat en de diepe scheiding tussen burgerij en arbeiders, waartoe de SPD - ondanks zijn electorale successen - nooit in staat was geweest. Hierbij dient wel duidelijk gesteld te worden dat deze transformatie niet berustte op een wijziging van de economische structuur - zoals het marxistisch socialisme wou - maar wel op een sociaal-psychologisch veranderingsproces. Met andere woorden, de nazi’s socialiseerden niet de banken en fabrieken, maar “wir sozialisieren die Menschen”. Daarmee bewijst van Doorn dat het Duitse nationaal-socialisme wel degelijk als een socialisme moet worden beschouwd, daar het gaat om de gemeenschappelijke kern van alle vormen van socialisme: de kritiek op laissez-faire kapitalisme en traditionele sociale ongelijkheid.

Het algemeen aanvaarde beeld is dat de 20ste eeuw het strijdtoneel was tussen liberale democratie en de totalitarismen fascisme en communisme. Dit blijkt slechts geallieerde propaganda te zijn. In het interbellum kon de liberale democratie zich in Europa nauwelijks handhaven, vermits het geen antwoord had op de Grote Depressie en op de uitdaging van de nieuwe massacultuur. Het was juist de nationaal-socialistische verzorgingsstaat die een serieus alternatief organiseerde waar vasthouden aan het liberaal-kapitalisme tot massale werkloosheid en uitzichtloosheid leidde. De gruwelijke slotperiode van het Derde Rijk, met de barbarij van de Tweede Wereldoorlog, werd volgens van Doorn maar al te gemakkelijk gebruikt om dit onder de mat te vegen. Naast de New Deal, de Zweedse verzorgingsstaat en het plansocialisme was er daardoor nooit aandacht voor de succesvolle maatschappelijke ordening van Robert Ley, leider van het Deutsche Arbeitsfront. Als uitsmijter herinnert de auteur er ons tevens nog aan dat veel sociale wetgeving uit de nazitijd in Duitsland én in Nederland na de oorlog intact is gebleven.

Van Doorns boek laat een ontembare nieuwsgierigheid en een verfrissende onbevangenheid zien. Zijn uiteenzettingen zijn zeer helder, leesbaar en rijk aan weinig bekende, maar belangrijke feiten. Daarmee zal hij - zeker onder historici - geen vrienden maken. Maar dat zou de tijdens het schrijfproces reeds terminaal zieke en ondertussen overleden hoogleraar vermoedelijk niet veel kunnen schelen hebben.

Vbr. lic. hist. Filip Martens

samedi, 28 mars 2009

P. Scholl-Latour: l'homme qui nous explique la marche du monde

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Peter Scholl-Latour: l’homme qui nous explique la marche du monde

Hommage à l’occasion de ses 85 ans

 

Pour son vaste public, Peter Scholl-Latour est le dernier auteur capable de nous expliquer la marche du monde. Depuis son voyage dans l’île de Timor-Est l’an passé, Peter Scholl-Latour a désormais visité les 193 pays que compte la Terre et est devenu, au fil des années, l’essayiste le plus publié et le plus lu dans l’espace linguistique allemand. Pour les téléspectateurs et pour ses lecteurs, il est l’incarnation du véritable journalisme. Il n’y en a pas deux comme lui qui soient capables de fusionner expérience personnelle, savoir historique et culturel et puissance narrative percutante. Dans les films qu’il a produits pour la télévision et dans ses “best-sellers” politiques, il jette toujours un regard pertinent sur les points chauds de l’actualité internationale, explique les tenants et aboutissants des vicissitudes politiques, montre les liens entre les événements. Ceux qui l’appellent aujourd’hui, vingt ans après qu’il ait pris sa retraite, s’entendent parfois dire: “Téléphonez-moi dans deux semaines parce que je suis à la bourre”. Comme s’il était en permanence sur un tapis volant, il est en voyage s’il n’a pas une émission de télévision à finir ou un ouvrage à terminer, qui le forcent à la sédentarité.

 

Le 9 mars 2009, cet esprit bouillonnant, toujours en alerte, a eu 85 ans [...]. Il est né dans la famille d’un médecin aux ascendances lorraines et sarroises, à Bochum en 1924. Il a grandi sur les rives de la Ruhr et de la Sarre ainsi qu’à Metz. Ses années d’écolier, il les a passées dans un collège de jésuites en Suisse et a ainsi bénéficié d’une éducation catholique solide, pétrie d’une culture européenne, hissée bien au-dessus des nations vernaculaires. Bien que son père fut membre du Stahlhelm national-allemand, Scholl-Latour est parvenu à échapper à l’incorporation dans la Wehrmacht, ce qui ne l’a pas empêché, après 1945, de s’enrôler, par esprit d’aventure et goût du voyage, dans le corps expéditionnaire français en partance pour l’Indochine, et non pas dans la Légion Etrangère, comme on le colporte souvent en Allemagne.

 

Il revient désillusionné de cette guerre lointaine, entreprend des études en Allemagne, à Paris et à Beyrouth, où il décroche un diplôme de philologie orientale. Après un bref intermède en 1954-55, où il fut porte-paroles du gouvernement de la Sarre, il devient le correspondant de l’ARD en Afrique et en Asie du Sud-Est, puis directeur de studio à Paris, ensuite, pendant quelques années, le directeur de la chaîne WDR et l’éditeur de l’hebdomadaire “Stern”.

 

Bien que ce ne fut pas son premier livre, son “best-seller” sur le Vietnam, intitulé “Der Tod im Reisfeld” (= “Mort dans la rizière”), publié en 1979, amorça sa carrière d’écrivain à succès et tissa sa légende. Depuis longtemps, Scholl-Latour est un mythe mais aussi un esprit rare, capable de comprendre le destin de l’Allemagne, de la France et de l’Europe. Il voit que, désormais, l’homme blanc est fatigué, que les identités héritées sont en voie de dissolution, que la substance ethnique et culturelle des peuples européens part en quenouille: et ce sont là des phénomènes qui le préoccupent davantage que les petites mesquineries du journalisme. Plus il avance en âge, plus il ajoute à son style journalistique qui confine à la perfection, ce cachet unique, cette marque qui est la sienne et qui consiste en ce mélange de spiritualité et de sens de l’histoire. Cet élixir commence à donner des fruits, à influencer la politque. Quelle aubaine ce serait, pour nous tous, si ce sacré Peter Scholl-Latour parvenait encore, pendant de nombreuses années, à le distiller dans les esprits.

 

Günther DESCHNER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°11/2009; traduction française: Robert Steuckers).

mercredi, 25 mars 2009

Frédéric Nietzsche et ses héritiers

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Frédéric Nietzsche et ses héritiers

 

(Intervention de Robert Steuckers - Université d'été de la FACE - 1995)

 

L'inpact de Nietzsche est immense: on ne peut remplacer la lecture de Nietzsche par une simple doxa, mais si l'on fait de l'histoire des idées politiques, on est obligé de se pencher sur les opinions qui mobilisent les élites activistes. L'objet de cet exposé n'est donc pas de faire de la philosophie mais de procéder à une doxanalyse du nietzschéisme politisé. Nous allons donc passer en revue les opinions qui ont été dérivées de Nietzsche, tant à gauche qu'à droite de l'échiquier politique. Nietzsche est présent partout. Il n'y a pas un socialisme, un anarchisme, un nationalisme qui n'ait pas reçu son influence. Par conséquent, si l'on maudit Nietzsche, comme cela arrive à intervalles réguliers, si l'on veut expurger tel ou tel discours de tout nietzschéisme, si l'on veut pratiquer une “correction politique” anti-nietzschéenne, on sombre dans le ridicule ou le paradoxe. On en a eu un avant-goût il y a deux ans quand un quarteron de cuistres parisiens a cru bon de s'insurger contre un soi-disant rapprochement entre “rouges” et “bruns”: si rapprochement il y avait eu, il aurait pu tout bonnement se référer à du déjà-vu, à des idées nées quand socialistes de gauches et pré-fascistes communiaient dans la lecture de Nietzsche.

 

L'an passé, pour le 150ième anniversaire de la naissance de Frédéric Nietzsche, un chercheur américain Steven A. Aschheim a publié un ouvrage d'investigation majeur sur les multiples impacts de Nietzsche sur la pensée allemande et européenne, The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990 (California University Press). Etudier les impacts de la pensée de Nietzsche équivaut à embrasser l'histoire culturelle de l'Allemagne dans son ensemble. Il y a une immense variété d'impulsions nietzschéennes: nous nous bornerons à celles qui ont transformé les discours politiques des gauches et des droites.

 

Steven Aschheim critique les interprétations du discours nietzschéen qui postulent justement que Nietzsche a été “mésinterprété”. Il cite quelques exemples: l'école de Walter Kaufmann, traducteur américain de l'œuvre de Nietzsche. Kaufmann estime que Nietzsche a été “droitisé”, au point de refléter l'idéologie des castes dominantes de l'Allemagne wilhelmienne. Or celles-ci conservent une idéologie chrétienne, essentiellement protestante, qui voit d'un assez mauvais oeil la “philosophie au marteau” qui démolit les assises du christianisme. Le professeur anglais Hinton Thomas, lui, a publié un ouvrage plus pertinent, dans le sens où il constate que Nietzsche est bien plutôt réceptionné à la fin du 19ième siècle par des dissidents, des radicaux, des partisans, des libertaires, des féministes, bref, des transvaluateurs et non pas des conservateurs frileux ou hargneux.

 

Nietzsche est donc d'abord un philosophe lu par les plus turbulents des sociaux-démocrates, par les socialistes les plus radicaux et les plus intransigeants. Ces hommes et ces femmes manifestent leur insatisfaction face à l'orthodoxie marxiste du parti social-démocrate, où le marxisme devient synonyme de socialisme procédurier, sclérosé, bureaucratique. Les socialistes allemandes les plus fougueux rejettent la filiation “Hegel-Marx-Sociale-Démocratie”. L'itinéraire de Mussolini est instructif à cet égard. De même, la correspondante du journal L'Humanité, Isadora Duncan, en publiant des articles apologétiques sur la révolution russe, écrit, en 1920, que cette révolution réalisent les idéaux et les espoirs de Beethoven, Nietzsche et Walt Whitman. Aucune mention de Marx.

 

Ces socialistes radicaux voulaient en finir avec la “superstructure”. Ils pensaient pouvoir mieux la démolir avec des arguments tirés de Nietzsche qu'avec des arguments tirés de Marx ou d'Engels. Les jeunes sociaux-démocrates regroupés autour de Die Jungen, la revue de Bruno Wille, l'idéologue Gustav Landauer critiquent les pétrifications du parti et exaltent la fantaisie créatrice. La féministe Lily Braun s'oppose à toutes les formes de dogmatisme, vote les crédits de guerre contre le knout du tsarisme, le bourgeoisisme français et le capitalisme anglais, et finit, comme Mussolini, par devenir nationaliste. De même le pasteur non-conformiste Max Maurenbrecher évolue de la sociale-démocratie aux communautés religieuses libres, dégagées des structures confessionnelles, et de celles-ci à un nationalisme ferme mais modéré.

 

Après 1918, la gauche ne cesse pas de recourir à Nietzsche. Ainsi, Ernst Bloch, futur conseiller de Rudy Dutschke qui finissait par théoriser un national-marxisme, dérive une bonne part de sa méthodologie de Nietzsche. Marcuse, en se réclamant de l'Eros, critique la superstructure idéologique de la civilisation occidentale.

 

Mais les conformistes de la gauche n'ont jamais accepté ces “dérives indogmatisables”. Dès le début du siècle, un certain Franz Mehring ne cesse de rappeler les jeunes amis de Bruno Wille à la “raison”. Kurt Eisner, qui avait pourtant aimé Nietzsche, rédige un premier manuel d'exorcisme en 1919. Plus tard, Georg Lukacs abjure à son tour l'apport de Nietzsche, alors qu'il en avait été compénétré. Plus récemment, Habermas tente d'expurger tous les linéaments de nietzschéisme dans le discours de l'école de Francfort et de ses épigones. En France, Luc Ferry et Alain Renaut tente de liquider le nietzschéisme français incarné par Deleuze et Foucault, sous prétexte qu'il prône le vitalisme contre le droit. Toutes les manifestations de “political correctness” depuis le début du siècle ont pour caractéristique commune de vouloir éradiquer les apports de Nietzsche. Vaine tentative. Toujours vouée à l'échec.

 

(résumé de Catherine NICLAISSE).

mardi, 24 mars 2009

Le porteur de Torche de Willy Meller

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En souvenir de tous les amis de la 7ème Cie MAT, en manoeuvre à Vogelsang en juin 1983, ce "Porteur de Torche" sous lequel nous aimions nous reposer en ces soirées si chaudes du début de l'été...

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lundi, 23 mars 2009

Baldur Springmann, pionnier de l'écologie allemande

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

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Baldur Springmann, pionnier de l'écologie allemande

 

Baldur Springmann, né en 1912 à Hagen en Westphalie, est le fils d'un grand industriel. Après 1945, il est expulsé de sa propriété de l'Est, achète une ferme dans le Holstein et l'exploite. En 1954, il la transforme en entreprise pionnière de l'agriculture biologique/dynamique. Il participe au vaste mouvement qui s'oppose aux centrales nucléaires. Conjointement à Herbert Gruhl, ancien porte-paroles de la CDU en matières écologiques, il contribue au lancement du mouvement vert. Il le quitte quand les groupes marxistes commencent à noyauter le mouvement et placent leurs hommes aux postes-clef. En 1982, il publie un livre, Partner Erde (= Notre partenaire, la Terre). Depuis 1991, il appartient au mouvement des écologistes indépendants en Allemagne.

 

Q.: Y a-t-il eu dans votre vie un événements crucial, qui a fait de vous un écologiste?

 

BS: Oui. Par exemple, dès l'âge de quinze ans, j'ai ressenti, dans mon fors intérieur, qu'existait bel et bien ce que C.G. Jung appelait l'“archétypal”; j'ai donc ressenti que mon vécu se branchait immédiatement sur l'essence même de la nature. Par ce contact direct, j'ai pris conscience des forces mortelles que dé­ployait l'industrialisation, avec laquelle je ne voulais ni ne pouvais vivre. Voilà pourquoi je suis devenu paysan. Mais j'ai dû constater par la suite qu'il y avait agriculture et agriculture...

 

Q.: Vous avez été l'un des co-fondateurs du parti des “Verts”. Peut-on encore considérer que ce parti est aujourd'hui encore une plate-forme pour un véritable mouvement écologique?

 

BS: Dans l'ensemble, non. Ce qui s'est passé dans les années 70 pour le mouvement anti-nucléaire, s'est passé chez les Verts. Les idéologues marxistes qui cherchaient un tremplin et qui ne se souciaient pas le moins du monde de l'écologie, se sont introduits dans le mouvement, l'ont transformé et déformé, l'ont forcé à prendre une direction qui n'a plus grand'chose à voir avec les positions véritablement écologiques du début. Quoi qu'il en soit, les Verts sont encore le seul parti qui a défendu des positions écologiques, avec des hauts et des bas.

 

Q.: Quel est le reproche principal que vous adressez aux Verts?

 

BS: Leur anti-germanisme. L'anti-germanisme est aujourd'hui une forme de racisme beaucoup plus viru­lente que l'anti-sémitisme. Pourquoi l'anti-germanisme serait-il moins raciste, moins hostile à la vie, moins dangereux que l'anti-sémitisme? C'est la présence de ce racisme qui me dégoute chez les Verts. C'est aussi la raison pour laquelle ils ont eu des difficultés avec le mouvement Bündnis 90, où ce racisme n'est pas présent. Ces hommes et ces femmes ont encore le sentiment d'appartenir à un peuple, tout naturel­lement, sans aucune crispation. Ceux qui veulent se faire valoir en répétant à satiété des slogans comme «germanité = criminalité», développent au fond une idéologie qui n'a rien à voir avec l'écologie. Les ob­sessions racistes et discriminantes sont une preuve d'incompétence en matières écologiques.

 

Q.: Cette équation entre germanité et criminalité que l'on trouve chez les Verts, qu'a-t-elle à voir avec les questions écologiques?

 

BS: On peut tout bonnement se débarrasser de l'écologie comme d'un vulgaire déchet si, d'une part, on revendique la guérison de la nature, et, d'autre part, on nie les liens qui unissent le peuple, le terroir et l'homme. L'écologie, c'est davantage que l'installation d'un biotope protégé pour les grenouilles et les crapauds, et le terroir, c'est beaucoup plus que le parking du supermarché du coin. Pour l'homme, le ter­roir c'est le fait de se sentir protégé, de se sentir à l'abri, dans une Geborgenheit dirait le philosophe Heidegger; mais à l'abri de quoi? D'une culture protectrice, englobante, maternante et poliçante. Le sen­timent du terroir touche directement ce que j'appelle l'“écologie proprement humaine”. L'écologie, en effet, est la tentative de reconnaitre scientifiquement les liens qui unissent tous les domaines de la nature. L'homme n'est pas en dehors de la nature. Il est lié à elle. Et à tout l'univers. Peut-on, sans sombrer dans l'irréalisme et la sottise, nier ces liens qui unissent l'homme à la nature et à l'univers?

 

Q.: Prochainement, vous allez faire paraître un nouveau livre. De quoi s'agit-il?

 

BS: Mon livre paraîtra bientôt aux éditions dirigées par Siegfried Bublies [l'éditeur de la revue Wir Selbst, ndlr]. L'essentiel de cet ouvrage autobriographique, c'est de contribuer à une éthique de libération écolo­gique. Faire passer dans les esprits une mutation de conscience radicalement écologique, voilà bien l'une des questions essentielles de notre époque, qui décidera de la survie des peuples. Il s'agira de susciter un véritable partenariat entre l'homme et la Terre, de proposer des alternatives réalisables, des formes actuelles, non passéistes, de vie écologique.

 

Q.: Beaucoup de militants de droite estime que l'écologie sert de cache-sexe à l'utopisme habituel des gauches. C'est ce qui explique leurs réticences.

 

BS: Ces militants-là ont encore l'esprit encombré de scories du 19ième siècle. Celui qui pense véritable­ment en termes d'écologie n'appartient ni à la gauche ni à la droite, mais est un homme en avance sur son temps. Nous sommes sur le point d'entrer dans une nouvelle ère culturelle et nous n'avons plus à nous orienter sur des boussoles idéologiques du passé, nous devons aller de l'avant! Le clivage passera très vite entre une minorité prête à respecter la vie et à comprendre les forces de la Nature comme révélations du divin, et une majorité relative, plus puissante, composée de technocrates arrogants qui croiront tou­jours pouvoir dominer la nature selon le slogan: “Soumettez-vous la Terre”.

 

Q.: L'écologie n'est-elle pas une thématique fondamentalement conservatrice?

 

BS: Oui. Mais il ne faut pas oublier qu'il existe aussi un conservatisme négatif, qui ne songe qu'à préser­ver les vieilles formes mortes. En fait, il faut que forme, contenu et temporalité puissent être en harmonie. Aujourd'hui plus personne ne se laisse enthousiasmer par le vocable “patrie” (Vaterland), mais vu les succès des Verts et d'un certain féminisme, on pourra susciter l'intérêt en parlant de “matrie” (Mutterland). Nous n'aurons plus affaire à des “patriotes” mais à des “matriotes”, c'est-à-dire des hommes et des femmes qui aiment toujours leur peuple, la matrice de ce qu'ils sont, leur “matrie”. C'est un amour tranquille, doux, qu'on ne saurait comparer au patriotisme des tambours et des trompettes. Le “matriotisme” pourrait parfaitement être accepté par les jeunes d'aujourd'hui.

 

Q.: La CSU vient de faire quelques déclarations claires contre l'hostilité à la technique qui se répandrait dans la population. Elle a également réclamé davantage de “progrès” dans quelques secteurs-clef de l'économie. Elle a traité les socialistes et les verts de “bloqueurs du progrès”. A votre avis, la CSU est-elle la forge idéologique où l'on crée des arguments contre ceux qui veulent préserver les fondements de notre existence biologique?

 

BS: La tendance de tous les partis actuels est d'être ennemis de la vie. Les partis se perçoivent comme les protecteurs de l'économie capitaliste et non pas comme les protecteurs de la Terre. Herbert Gruhl, quand il était encore parmi nous, a dit clairement ce qu'il fallait dire à propos de la folie de ce système, qui ne peut survivre sans “croissance”.

 

Q.: Mais tous le monde parle pourtant de protection de l'environnement...

 

BS: La préservation de la nature n'est pas, en premier lieu, un problème technique. Il s'agit d'une néces­sité beaucoup plus profonde, c'est-à-dire d'une rénovation totale sur les plans spirituel et culturel. L'homme est un être de culture qui, bien entendu, influence directement ou indirectement la Nature par tout ce qu'il fait. Au départ, la relation d'échange entre l'homme et la Nature n'a pas remis en question les systèmes et les circuits écologiques existants. Mais les efforts des hommes en Occident d'échapper à l'emprise des formes socio-culturelles d'ancien régime a dégénéré, pris le mors aux dents, pour devenir une volonté d'échapper aux liens qui nous unissent biologiquement à la Nature. Les hommes en sont arri­vés à vouloir s'émanciper de notre Mère la Nature, mais cela n'a pas fonctionné.

 

Q.: Vous voulez promouvoir une volonté d'émancipation hors de la superstition techniciste...

 

BS: Nous n'avons nullement l'intention de promouvoir une hostilité généralisée à la technique, mais nous voulons installer dans les esprits une attitude critique à l'endroit de la technique. Nous disons que telle ou telle situation doit être changée. Nous raisonnons dans un cadre global écologique en matières agricoles, économiques, dans les domaines des communications, de l'urbanisme, de l'habitat, bref, dans tous les domaines de la vie. Nous souhaitons que les décisions politiques soient prises en tenant compte de notre cadre écologique global, en tenant compte des impératifs de la Nature et non le contraire.

 

Q.: Il y a une question typique que posent les partis: pendant combien de temps encore serons-nous en mesure de financer la protection de l'environnement?

 

BS: C'est une question qu'il ne faudrait pas poser. En revanche, il faudrait en poser une autre: que signi­fient les progrès que nous avons faits sur la voie techniciste et mécaniciste par rapport à l'ensemble des paramètres de la Vie sur notre Terre? Et quels sont les effets de ces “progrès” sur l'environnement, la cul­ture, les faits ethniques, qui structurent l'homme? Le question du financement de la protection de l'environnement est une question d'irresponsable, une question d'esprit libéral.

 

Q.: La question écologique est-elle simultanément une question profondément religieuse?

 

BS: Pour que nous puissions vivre un bouleversement réel, définitif, de notre pensée, marqué par la conscience écologique, il faut qu'une religiosité nouvelle se déploie. Aujourd'hui, la religion a pour ainsi dire disparu. Il ne reste plus que des structures confessionnelles. Le christianisation de l'Europe a été la première étape dans le houspillement du divin hors de la nature, hors de notre vivifiante proximité, hors du tellurique. Cette christianisation a préparé le terrain au désenchantement, puis au désenchantement technicisto-mécaniciste, qui nous a conduit à la situation désastreuse que nous connaissons aujourd'hui. Quand je parle de déployer une nouvelle religiosité, je n'évoque pas le New Age ou une autre superficialité du même acabit, mais je veux retourner aux sources mêmes de toute religiosité, c'est-à-dire au regard plein d'émerveillement que jetaient nos plus lointains ancêtres sur l'harmonie cosmique, sur les astres. Pour eux, la Nature, dans sa plus grande perfection, c'était ces étoiles qui brillaient au firmament. Il faut restaurer cette dimension cosmique et astronomique de la religion. Et se rappeler de l'année cosmique dont parlait Platon, année cosmique qui durait 2150 ans. Un cycle de cet ordre de grandeur est en train de s'achever: nous nous trouvons dans une sorte d'interrègne, dans une phase de transition, nous allons rentrer dans une nouvelle année cosmique selon Platon. Les religions révélées dualistes, qui ont dominé au cours des siècles précédents, vont s'effillocher et céder le terrain à des religiosités de l'immédiateté, des religiosités holistes. Notre tâche: trouver des formes socio-politiques adéquates, qui correspondent à cette transition, à cette nouvelle année cosmique.

 

Q.: Y a-t-il une recette patentée pour nous débarrasser de la dictature du matérialisme et des paradigmes du mécanicisme?

 

BS: Je suis opposé à toutes les “recettes patentées”. Elles ont plutôt l'art d'exciter mes critiques. Mais l'humanité doit prendre des décisions fondamentales. Le retournement des valeurs va s'opérer, en dépit de l'hostilité que lui porte le capitalisme dominant. Je ne crois pas que ce retournement va s'opérer bruta­lement, en un tourne-main, par une sorte de révolution-parousie. La lutte sera longue. Nous, les écolo­gistes, nous devons élaborer des propositions réalistes.

 

Q.: Ce sont des propositions réalistes de ce type que vous suggérez dans votre livre, notamment en for­mulant «Dix thèses pour une agriculture vraiment paysanne». En même temps, vous formulez une critique acérée contre les politiques agricoles conventionnelles...

 

BS: Pour la plupart des politiciens de l'établissement, les quelques misérables pourcents de l'agriculture dans le PNB sont une quantité négligeable. C'est pour cette raison que tout le discours sur la “promotion des entreprises agricoles familiales” n'a jamais été suivi d'effets, que ce discours n'a été que propagande et poudre aux yeux. En réalité, on a, par décrets administratifs, systématiquement exterminé le paysan­nat européen. Cette politique a commencé avec Mansholt; elle a continué avec Bochert; leur intention était claire: évacuer le fossile paysannat, le jeter définitivement au dépotoir de l'histoire. Je m'oppose avec vigueur à ce génocide, je refuse de considérer le paysannat comme une quantité négligeable. Je pose une question qui vous donne d'emblée le clivage qui s'installe: Agriculture véritablement paysanne ou industrie agro-alimentaire? Si nous luttons pour revenir à une agriculture naturelle, nous luttons pour l'avenir de tous les hommes sur la planète. Ce retour à l'agriculture s'effectuera sans doute à la fin de la période de transition que nous vivons aujourd'hui. Mais si nous ratons cette transition, nous mettrons en jeu la survie de l'humanité, nous préparerons le dépérissement misérable de nos descendants.

 

Je veux promouvoir une renaissance du mode de production originel. Seuls les produits issus d'un tel mode de production peuvent générer la vraie Vie. Une véritable agriculture, c'est le pilotage et l'accroissement naturel des processus agraires dans le cadre d'un environnement naturel, sans que ce­lui-ci ne soit artificiellement transformé. Les bio-paysans, nombreux en Allemagne aujourd'hui, pratiquent cette agriculture avec succès. Leurs produits sont meilleurs, sont demandés. Leurs méthodes scienti­fiques, écologiques au sens scientifique du terme, sont performantes. Ils pratiquent ainsi une immédia­teté avec la nature, le sol, la géologie, ils s'abstiennent d'utiliser des méthodes transformatrices dange­reuses sur le long terme; ils reviennent au mode de production originel, tout en restant concurrentiels. Voilà des exemples concrets à suivre. Dans tous les domaines de l'économie.

 

(propos recueillis par Hanno Borchert et Ulrich Behrenz, parus dans Junge Freiheit, n°16/95).

samedi, 21 mars 2009

Christopher Isherwood : "Adieu à Berlin"

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Christopher Isherwood: «Adieu à Berlin»

 

 

«Ainsi défilaient les champions de la Révolution. La flambée de passion propice à la réalisation du rêve ardent de sang et de barricades devrait surgir de cette fourmilière noirâtre?» (Ernst von SALOMON).

 

La disparition, voici bientôt dix ans, de l'écrivain anglais Christopher Isherwood, auteur, entre autres nouvelles, d'Adieu à Berlin, nous rappelle qu'il faut aborder différemment la littérature traitant des événements qui ont secoué l'Allemagne de la défaite de 1918 à l'avènement du national-socialisme. Isherwood (1904-1986) a traité cette époque de manière magistrale, surtout la véritable période charnière entre 1929 et 1933, époque où il a vécu en Allemagne et a été témoin direct des bouleversements politiques. L'auteur a observé la reconstitution d'une forme particulière d'engagement politique collectif, propre à l'action de l'ère du nihilisme, due à un surplus de volonté accompagnant la décomposition des hautes sphères de la bourgeoisie et le déclin des valeurs civiques, entraînant la disparition du citoyen traditionnel, pacifique et productif.

 

Adieu à Berlin correspond à ce que Roger Stéphane décrit dans Portrait de l'aventurier comme étant un moment particulier de la culture européenne, où éclot la «désolidarisation d'avec un monde moribond». Ce monde, en effet, produit une “réalité négative et obscure”, où domine un type humain bien cerné par Drieu la Rochelle: «l'homme de main communiste, l'homme citadin, neurasthénique, excité par l'exemple des “fasci” italiens, de même celui des mercenaires des guerres de Chine, des soldats de la Légion Etrangère».

 

Malgré la volonté d'Isherwood de se distancier de l'horreur et de la violence d'une guerre civile berlinoise se camouflant derrière une fausse normalité, celle des cabarets, des quartiers riches en marge des masses et des hôtels de maître hors de la réalité violente de la rue, sa narration se transforme en une chronique de la révolte aveugle et désespérée, celles des hommes qui diront plus tard: «nous connaissions ce que nous aimions et nous n'aimions pas ce que nous connaissions» (propos rapportés par Ernst von Salomon).

 

L'importance d'Isherwood réside au fond en ceci: il est curieux d'une époque et d'une atmosphère, il s'en fait donc le chroniqueur et l'historien et, par l'excellence littéraire de son récit, il nous offre un accès aisé à cette trame d'événements qui ont fait les “années décisives” comme les a appelées Spengler. Vue sous cet angle, l'œuvre de l'écrivain anglais, devenu par après citoyen américain, n'est pas seule: sur le plan narratif, nous avons la nouvelle autobiographique d'Ernst von Salomon, Les Réprouvés;  sur un plan plus philosophique, nous avons les Considérations d'un apolitique de Thomas Mann, réflexions, hésitations d'un intellectuel qui est organiquement un citadin et un bourgeois et qui jette son regard sur ce que sont devenues les valeurs des Lumières.

 

Adieu à Berlin  est donc l'adieu à une époque qui se termine, à ces illusions bourgeoises qui prétendent que “plus rien ne doit se passer”. Adieu à Berlin nous restitue le cadre d'une réalité, nous livre la chronique d'une histoire complexe qui est aussi la récapitulation en condensé d'un large pan de l'histoire européenne contenu tout entier dans les années qui ont immédiatement suivi la défaite allemande de 1918. Dans Les Réprouvés  de von Salomon, on trouve les sédiments de ce qu'expérimentera Isherwood quelques années plus tard. Les thématiques littéraires qui fascineront ou horrifieront l'écrivain anglais étaient déjà nées dans les expériences de ce volontaire des Corps Francs, de ce franc-tireur, de ce terroriste, de cet aventurier, de ce partisan des solutions les plus radicales dans la lutte contre le spartakisme ou contre la République bourgeoise et procédurière de Weimar: Ernst von Salomon.

 

Isherwood décrit les violences des combats de rues à Berlin, la ville conquise par l'habilité propagandiste du Dr. Goebbels et de son journal agressif, dur, caustique et percutant, Der Angriff. «Dans les murs d'un Berlin qui se transformait, apparaissaient, écrites en lourdes lettres gothiques, les affiches de la peste brune. On pouvait y lire: “l'Etat bourgeois approche de sa fin! Il faut forger une nouvelle Allemagne! Elle ne sera ni un Etat bourgeois ni un Etat de classe! Pour réaliser cette mission, l'histoire t'a choisi, toi, le Travailleur manuel et intellectuel!». Pour sa part, von Salomon ne se fait plus aucun illusion, ses espoirs se sont définitivement évanouis: «Le vin qui fermentait dans les tonneaux de la bourgeoisie, sera un jour bu sous la dénomination de “fascisme”».

 

Adieu à Berlin est la mémoire qui nous reste d'une civilisation vieille-bourgeoise, démocratique et pluraliste, perdue au milieu de la marée montant du nihilisme s'annonçant dans l'élan et les ruines, dans un nouveau vitalisme, tel celui que prévoit un personnage du livre, Hinnerk: «Unir les jeunesses communistes et hitlériennes et, avec l'aide de ces bataillons unifiés, envoyer au diable les voleurs de la grosse industrie et de la haute finance, avec leurs appendices, ces ordonnances de merde, et ensuite établir, comme loi suprême, comme unique loi décente, la camaraderie (...) Et tu pourras appeler cela socialisme ou nationalisme, cela m'est absolument égal».

 

Sur les décombres et les différences, Christopher Isherwood salue un écrivain allemand, dont l'idiosyncrasie est foncièrement différente de la sienne, mais dont le constat est pareil au sien: une époque entrait, à Berlin, dans ces années décisives, en extinction.

 

José Luis ONTIVEROS.

(Trad. franç.: Rogelio PETE).

vendredi, 20 mars 2009

Ernst Jünger et le retour aux Grecs

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Ernst Jünger et le retour aux Grecs

 

 

(conférence d'Isabelle Fournier lors de l'Université d'été de la FACE, juillet 1995)

 

L'œuvre jüngerienne est, selon l'auteur lui-même, divisée en deux parties, un “ancien testament” (1920-1932), dont le fleuron est Le Travailleur (1932) et un “nouveau testament”, commencé par Sur la douleur. Pour Jünger, comme pour tous les hommes de culture en Europe, le recours aux Grecs est une démarche essentielle, malgré l'irrevéresibilité de l'histoire. Aujourd'hui, époque nihiliste, la clef de voûte de la civilisation hellénique, c'est-à-dire la Cité, s'effondre. L'homme libre doit la quitter, retourner à la forêt, au resourcement.

 

Dans l'œuvre jüngerienne, le symbolisme de la Cité est essentiel. Du temps des Grecs, la Cité s'opposait au chaos des périphéries incultes et sauvages. Mais cette Cité, symbole de l'empire que l'homme est parfois capable d'exercer sur lui-même, est périssable, comme nous le constantons, constat qui autorise à proclamer son imperfection. Jünger s'intéresse à la signification de cette mort des cités. Dans le monde grec, la Cité, justement, permettait d'élaborer, à l'abri du chaos, une pensée rationnelle, se substituant progressivement au mythe, fondateur de la culture initiale. L'esprit grec est celui qui a inscrit la pensée humaine dans la mémoire et la durée. C'est Hérodote qui fait passer l'hellénité du mythe à l'histoire. C'est aussi dans cette intersection que se situe Thucydide. Mais cette construction va s'éroder, s'effondrer. Nous sommes alors entrés dans l'âge des cités imparfaites.

 

Les cités imparfaites découlent de la dévaluation des valeurs supérieures: elles annoncent le nihilisme. La décadence est le concours de l'érosion de l'autorité spirituelle, de la dissolution des hiérarchies et du déclin de la langue. Le temps des virtualités religieuses est épuisé, l'unité mentale du peuple n'existe plus, les fidélités communautaires sont fissurées, on rompt avec le mos majorum. La Cité des Falaises de marbre est une de ces cités imparfaites, où il n'y a plus unité de culte, où les rites funéraires sont en déchéance, banalisés par la technique, où le sacré se retire, où la raison n'est plus qu'un outil de puissance. Mais Jünger sait surtout que l'on n'exhume pas les dieux morts. Dans Heliopolis, il se penche sur cette question du vide laissé par ces dieux et place cette autre cité imparfaite qu'imagine son génie poétique, à l'enseigne des néo-spiritualismes, palliatifs éphémères et maladroits à cette déchéance. Toute chute est précédée d'un affaiblissement intérieur, nous dit Jünger. Comment supporter ce déclin, qui est en même temps terreur? Par la fuite. Les héros jüngeriens présentent dès lors des itinéraires individuels tout de solitude, de nostalgie du monde originel, d'inquiétude existentielle. Ils sont volontairement des étrangers à l'histoire.

 

Œuvre et des cités primordiales et des cités imparfaites, l'œuvre de Jünger est aussi celle qui tente de donner un sens à cette fuite. L'homme peut-il guérir d'un monde foncièrement vicié? Oui, à condition de passer par l'athanor de la souffrance (de la douleur). Oui, à condition de recourir aux archétypes féminins, de retourner à la Grande Mère, retour qui est simultanément “réhabilitation du temps”.

 

(notes prises par Etienne Louwerijk et Catherine Niclaisse).

jeudi, 19 mars 2009

De moderne Inquisitie : Fall Sascha Jung

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De moderne inquisitie: Fall Jung

 

Ex: http://onsverbond.wordpress.org/

Beieren, land van Oktoberfeesten, Alpenhoorns en bergidylle. Land waar traditie en toekomst mekaar ontmoeten in Laptop und Lederhosen. Land met legendarische minister-presidenten als Franz Jozef Strauss en Edmond Stoiber, waar de conservatieve CSU sinds jaar en dag de absolute meerderheid behaalt en de immigratie- en demografische problematiek beantwoordt met “Kinder statt Inder” (Kinderen in plaats van Indiërs). Niet toevallig het favoriete vakantieland van Bart De Wever. Als we aan Beieren denken, roept dat bij ons, nationaal-conservatieven, niets dan goede connotaties op. Beieren, waar mensen nog zelfbewust en trots op hun identiteit zijn, waar Duitsers nog zonder complexen Duits zijn. Dat dachten we tenminste.

 

DEUTSCHE BURSCHENSCHAFT

 

De Deutsche Burschenschaft of DB! is een koepelorganisatie van academische clubs. De Burschenschaft ontstond in 1815 uit studentenvrijwilligers die in de oorlog tegen Napoleon dienden. De DB! plaatst zich rond vrijheidslievende, patriottische en democratische beginselen. Haar leuze is Ehre-Freiheit-Vaterland.

De DB! was één van de drijvende krachten achter de burgerrevolutie van 1848. Zonder aan haar beginselen van burgervrijheid, democratie en Duitse eenheid te sleutelen, maar omdat de realiteit veranderde, evolueerde de DB! van revolutionaire beweging in staatsdragend bij de Duitse eenmaking van 1870. In 1936 werd de DB! door het nationaal-socialistisch regime opgeheven en ondergebracht in een academische eenheidsbeweging. De fameuze Gleichschaltung trof ook academische middens. De DB! telt onder haar Alte Herren (= oud-studenten) tal van prominenten: Friedrich Nietzsche, Ferdinand Porsche, Carl Bosch, Max Weber, Otto Skorzeny, … Ook de Vlaamse studentenleiders Albrecht Rodenbach, Jef Van den Eynde en Mon De Goeysse haalden hun mosterd voor de vorm en inhoud van het Vlaamse studentenleven bij de Deutsche Burschenschaft. De DB! staat enkel open voor Duitse mannen die hun dienstplicht vervuld hebben. Leden van de DB! zijn verplicht de Mensur te beoefenen. Anno 2008 bestaat de Deutsche Burschenschaft uit 120 afdelingen - inclusief 6 clubs in Chili - met zo’n 14.000 leden.

 

SASCHA JUNG

 

Sascha Jung (°1972) is rechtsgeleerde en Alte Herr van de Münchener Burschenschaft Danubia (°1848), een bijzonder prestigieuze en traditierijke lidvereniging van de DB! In Leipzig geboren, verzette Sascha Jung zich tegen de communistische dictatuur en weigerde zijn dienstplicht in de Nationalen Volksarmee te vervullen omdat hij geen totalitaire staat wou verdedigen. Hij nam ook deel aan de beroemde betoging van het Neues Forum die sterk bijdroeg tot de ineenstorting van de DDR. Na de hereniging vervulde hij twee jaar dienstplicht in de Bundeswehr en werd reserve-officier.

Jung is tevens lid van de sociaaldemocratische SPD en richtte in 1992 der Hofgeismarer Kreis op, een afdeling van de Jungsozialisten (JuSo). Hij stelde zich tot doel in einer Zeit zunehmender gesamtgesellschaftlicher Orientierungslosigkeit, des Werteverfalls und des Verlustes an realistischen Zukunftsvisionen linkspatriotische politische, ökonomische und kulturelle Alternativen auszuarbeiten und in die sozialdemokratische Politik einzubringen.”

 

 

DEMOCRATISCHE PARADOX

 

In 1971 besloot Willy Brandt, toenmalig sociaal-democratisch premier van de BRD, dat het openbaar ambt enkel ingevuld kon worden door mensen die de democratische rechtstaat onderschreven. Elk jaar maakt het Bundesambt für Verfassungsschütz (staatsveiligheid) een lijst op van organisaties en personen die naar haar oordeel vijandig staan tegenover de democratische rechtstaat of waarvan er genoeg twijfel bestaat omtrent het onderschrijven van die democratische rechtsstaat. Deze personen of leden van deze organisaties kunnen niet benoemd worden in een openbaar ambt: Berufsverbot. Deze maatregel was in volle Koude Oorlog gericht tegen communisten. Zo’n 3,5 miljoen mensen werden als staatsgevaarlijk omschreven, terwijl 11.000 een beroepsverbod kregen en 1.500 uit hun ambt ontzet werden. In 1991 nam Beieren als laatste Bundesland deze maatregel in zijn wetgeving op.

Deze maatregel was bedoeld om de democratie te versterken. Democratie bestaat echter uit vrije burgers met onvervreemdbare rechten en vrijheden: burgers vormen de democratie. Als de democratie evenwel moet beschermd worden tegen zijn burgers, is er dan nog sprake van democratie? De paradox moge duidelijk zijn. Een democratie moet immers niet beschermd worden, maar beschermt zichzelf; niet vanuit de staat, maar vanuit zijn burgers.

 

HEKSENJACHT

 

In de periode 1994-2002 was Jung lid van de Aktivitas B! Danubia, maar deed zich een incident voor in het huis van B! Danubia. In 2001 liet een verblijvende gast een vriend overnachten in het huis van B! Danubia. Later bleek dat de vriend van deze gast een gezochte rechtsextremist was. Het Bundesambt für Verfassungsschutz kwalificeerde om deze reden in haar jaarrapport over 2001 B! Danubia als een rechtsextremistische vereniging. Nochtans stelde het politieonderzoek B! Danubia buiten elke verdenking. In Vlaanderen klinkt dit nogal irrelevant, wij Vlaams-nationalisten zijn immers per definitie staatsgevaarlijk.

In Duitsland zit dat evenwel net iets anders in mekaar. De Duitse Groenen eisten confiscatie van het huis en alle tegoeden van B! Danubia, de SPD verklaarde dat Burschenschafter geen lid konden zijn van hun verdraagzame partij, Jung werd uitgesloten maar ging in beroep en kreeg finaal in 2008 gelijk van de rechter. Verder hield de Verfassungschütz het huis van B! Danubia in het oog, terwijl ook diverse linkse demonstraties en aanvallen aan hun huis plaatsvonden, met andere woorden: B! Danubia werd zwaar onder druk gezet.

Traditionele en zelfbewust-Duitse verenigingen als de DB! zijn al langer een doorn in het oog van de linkerzijde. Hun tentakels in de pers bliezen het voorval op tot “Danubia verstopt neonazi”. Toenmalig Beiers minister van Binnenlandse Zaken en huidig minister-president Günther Beckstein (CSU) handhaafde deze staatsgevaarlijke status jarenlang spijts massaal protest. Beieren is zoals gezegd conservatief, maar de rest van Duitsland is dat in veel mindere mate. Allicht door zijn toenmalige ambities om nationaal minister te worden sprong hij mee op de kar van de door de linkerzijde georganiseerde lastercampagne tegen B! Danubia. En zo ontstond ‘Fall Jung’.

 

FALL JUNG

 

Sascha Jung slaagde in mei 2004 voor het staatsexamen wat hem toegang gaf tot een loopbaan in de magistratuur. Hij solliciteerde voor een openstaande vacature en loog niet over zijn lidmaatschap van B! Danubia. Zijn kandidatuur werd op grond hiervan in juni niet weerhouden (cfr. supra). Jung moest een andere professionele richting uit. In september 2004 slaagde hij met glans in het examen voor een assistentenmandaat aan de universiteit van Bayreuth. Minister Beckstein interpelleerde de universiteit van Bayreuth echter over zijn twijfel over de “fundamentele democratische overtuiging” van Jung wegens zijn lidmaatschap van B! Danubia en de staatsgevaarlijke kwalificatie van deze nochtans zeer respectabele vereniging. In februari 2005 werd Jung door Eckehardt Beck, rector van de universiteit van Bayreuth, twee dagen lang (!) ondervraagd over zijn politieke, ideologische en andere inzichten en opinies. In april 2005 werd hij nogmaals, voor vijf-en-een-half uur ondervraagd over zijn politieke standpunten door Marion Frisch van het Beierse ministerie van Binnenlandse Zaken. Zeer concreet werd hem verweten een podium aan extreemrechts te hebben gegeven door Horst Mahler van de NPD ooit eens uitgenodigd te hebben voor een lezing. Natuurlijk nodigt B! Danubia tal van andere politici uit. Maar de rede was allang zoek in deze zaak. Vrijheid van vergadering? Vrijheid van meningsuiting? Frisch verklaarde dat ze nog steeds twijfelde aan de politieke ideeën van Jung omdat “er betont weiterhin seine Verbundenheit zur Danubia und ihren Zielen. Die Einstufung des Verfassungsschutzes qualifiziert er ab. Had hij met andere woorden afstand genomen van zijn broeders en de doelstellingen van B! Danubia, was er geen probleem. Was hij zonder eer geweest en had hij zichzelf en zijn club verloochend, was er geen probleem. Jung is echter een Burschenschafter: Ehre-Freiheit-Vaterland.

In mei 2005 liet de universiteit van Bayreuth weten dat hij niet langer kon aangeworven worden omdat de fondsen voor zijn mandaat ondertussen … aan boeken waren uitgegeven. Jung liet het daar niet bij en bracht de zaak voor de arbeidsrechtbank. Wegens de risico’s en de hoge kosten zag hij zich in februari 2007 echter genoodzaakt om zijn rechtzaak te staken.

BURGERINITIATIEF

 

Het onrecht dat Sascha Jung werd aangedaan, was zo schandalig dat burgers opstonden. De voormalige topambtenaar dr. iur. Hans Merkel, sinds 1967 lid van de CSU, stichtte de Initiatieve Akademische Freiheit en richtte een verzoekschrift ondertekend door 3.000 Beierse burgers - waaronder bijzonder veel academici, professores en leden van de CSU - aan de Beierse minister van Binnenlandse Zaken om het Berufsverbot tegen Jung op te heffen. Merkel verklaarde zijn initiatief: “Ik ben lid van Münchener Burschenschaft Arminia-Rhenania. Zo u weet, waren de Burschenschafter de speerpunt van de Duitse vrijheidsbeweging in de 19de eeuw en pleitte die vanaf 1815 voor menswaardigheid, de rechtstaat, nationale eenheid en democratisch zelfbeschikkingsrecht. In deze traditie sta ik als Burschenschafter, bewust van de vluchtigheid van de opportunistische tijdsgeest. Danubia streed bij de revolutie van 1848 voor burgerrechten en -vrijheden. In 1919 nam ze deel aan het neerslaan van de Münchner radenrepubliek en redde ons zo van de communistische dictatuur. In 1935 werd ze ontbonden door de NS-dictatuur. Danubia staat voor een vrijheidstraditie! De strijd tegen B! Danubia kadert zich in de strijd van de linkerzijde ‘gegen rechts’, waarbij geen rechtsextremisten gediscrediteerd worden, maar conservatieven en rechtsen.”

Het verzoekschrift van Merkel werd beantwoord met een nietszeggende standaardbrief van minister Beckstein. Burschenschafter uit gans Duitsland betoonden op de Burschentag 2007 in Eisenach hun solidariteit met Sascha Jung, namen de zaak in december 2007 over en dienden klacht in tegen de Beierse regering. Nu heeft de Beierse staat niet langer Sascha Jung of B! Danubia tegenover zich, maar de ganse Deutsche Burschenschaft: 14.000 academici, 120 clubs en bijna 200 jaar traditie in de strijd voor Freiheit en Vaterland. Wordt ongetwijfeld vervolgd!

 

 

Vbr. OS lic. rer. pol. Tom Vandendriessche

 

lundi, 16 mars 2009

W. Sombart: Perché negli Stati Uniti non c'è il socialismo

Werner Sombart

Il libro della settimana: Werner Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo

di Carlo Gambescia

Leggere un libro di Werner Sombart è come degustare quei vini, che più invecchiano più si fanno apprezzare. E’ perciò sicuramente meritoria l’idea di ripubblicare Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? ( Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. XXXVIII-153, euro 15,00, con prefazione di Guido Martinotti e traduzione dal tedesco di Giuliano Geri, entrambe nuove di zecca).

Quando uscì per la prima volta in Italia nel 1975 (Edizioni Etas), con una prefazione di Alessandro Cavalli, ci si interrogava ancora positivamente sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906.

Se le date, e soprattutto le accelerazioni della storia, hanno un senso, si può dire, che quello che è accaduto tra il 1905 (anno della prima rivoluzione russa) e il 1975 (anno in cui gli Stati Uniti escono, e con le ossa rotte, dalla guerra vietnamita), non è ancora niente rispetto a quel che accadrà tra 1976 e il 2006: dalla caduta del comunismo all’ascesa degli Stati Uniti a unica potenza mondiale.

Perciò se oggi Sombart miracolosamente tornasse in vita non potrebbe più considerare il socialismo, come una specie di orizzonte obbligato: come il naturale prolungamento del capitalismo. Perciò la sua domanda non potrebbe più essere la stessa: perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, dal momento che non c’è più socialismo nel resto del mondo…
In tal senso, mentre trent’anni fa, il testo sombartiano doveva essere letto avidamente dal socialista “inquieto” per tracciare il rapido identikit, di un capitalismo pericoloso, ma comunque battibile, oggi lo stesso libro deve essere divorato dal capitalista “quieto”, sicuro di sé, perché vittorioso. E che come Narciso, gode immensamente, nel guardarsi allo specchio, fornitogli un secolo fa da Sombart.

Insomma, il grande sociologo tedesco - di qui la classicità del suo studio - ci spiega, in modo indiretto, perché il capitalismo ha vinto… Anche se, si può aggiungere, per il famoso principio delle accelerazioni storiche di cui sopra, solo per il momento…
Ma veniamo al libro.

Per Sombart il capitalismo americano è una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti la possibilità di arricchirsi. Detta così l’affermazione sombartiana può sembrare banale. Ma si deve prestare attenzione all’idea di “possibilità” : nel senso dell’essere possibile che una cosa avvenga. Ma anche, proprio perché si tratta di una possibilità, che un certa cosa non avvenga. Di più: il continuare a credervi, anche dopo un certo numero di fallimenti personali, implica una fede nel successo quasi religiosa.

Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).

Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sono almeno formalmente aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto interessanti e attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125).

Come del resto è significativo quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69).

E lo stesso discorso, può essere esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. Non c’è alcun Paese, conclude Sombart, “nel quale il godimento del frutto capitalistico da parte della popolazione sia così diffuso” (p. 18).

Perciò, una volta chiuso il libro, non possono non essere chiare le ragioni della vittoria del capitalismo made in Usa su quasi tutti i fronti: ideologia del successo e individualismo concorrenziale, ma anche “fame” di consumi sociali. Curioso, su quest’ultimo punto, il vezzoso ritratto sombartiano delle operaie americane dell’epoca: “Qui l’abbigliamento, in particolare tra le ragazze, diventa semplicemente elegante: in più di una fabbrica ho visto operaie in camicette chiare, addirittura di seta bianca; quasi mai si recano in fabbrica senza il cappello” (p.126).

Siamo davanti all’ idealizzazione del capitalismo americano? Un Sombart che come Gozzano sembra rinascere non nel 1850 ma nel 1905… Non tanto, se pensiamo alle segrete cure che oggi hanno nel vestire, le impiegate e le operaie. Il modello non è più solo americano.

Allora, tutto bene quel che finisce bene? Sombart, nonostante tutto, pensava che il socialismo (magari in veste socialdemocratica) si sarebbe comunque imposto anche negli Stati Uniti. Soprattutto una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’ “esercito industriale di riserva”. Infatti, secondo il sociologo tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151).

Tuttavia le terre libere sono state occupate, e il capitalismo Usa è ancora lì, più forte che mai. A meno che l’attuale frontiera americana in realtà non racchiuda ben più vasti territori. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti (gli alti tassi di sviluppo e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi) sia attualmente pagata in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle cosiddette economie “dollarodipendenti”.
Se così fosse, l’ ottimo vino sombartiano avrebbe un retrogusto amarognolo.

Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/


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Neue Bücher über Werner Sombart

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Werner Sombart

Jürgen Backhaus (Hg.)

Werner Sombart (1863-1941) - Klassiker der Sozialwissenschaften

271 Seiten · 26,80 EUR
ISBN 3-89518-275-3 (Juli 2000)

 
 

Beschreibung

Ein halbes Jahrhundert nach seinem Tod erwacht ein neues und reges Interesse am wissenschaftlichen Werk des Nationalökonomen und Soziologen, ganz allgemein aber umfassend und integrierend arbeitenden Sozialwissenschaftlers Werner Sombart (1863-1943). Sogar ein regelrechter Historikerstreit hat sich kürzlich an seiner Person entzündet. Dieser Band wendet sich ausdrücklich an das deutsche Publikum, weil Sombarts Werk vor allem im deutschen Sprachraum immer wieder aufgelegt wird - daneben ist sein Werk auch in Japan in aktuellen Ausgaben präsent. Sombart ist nicht nur Volks- und Sozialwirt, sondern auch Stillist, und sein Werk hat insofern nicht nur literarische Qualität, sondern entfaltet seine Bedeutung auch insbesondere in modernen Entwicklungen in den Wirtschafts- und Sozialwissenschaften, insbesondere seit dem Zusammenbruch der staatssozialistischen Systeme und nachdem die Suche nach neuen Formen der Wirtschaftsgestaltung Sombarts Fragen wieder hat aktuell werden lassen.

Inhalt

Jürgen Backhaus
Vorwort
Helge Peukert
Werner Sombart
Wolfgang Drechsler
Zu Werner Sombarts Theorie der Soziologie und zur Betrachtung seiner Biographie
Manfred Prisching
Unternehmer und kapitalistischer Geist. Sombart psychohistorische Studie
Oskar Kurer
Die Rolle des Staates für die wirtschaftliche Entwicklung
Friedrich Lenger
Marx, das Handwerk und die erste Auflage des Modernen Kapitalismus
Karl-Heinz Schmidt
Sombarts Bevölkerungstheorie
Horst K. Betz
Sombarts Theorie der Stadt
Fritz Reheis
Zurück zum Gottesgnadentum. Werner Sombarts Kompromiß mit dem Nationalsozialismus
Shigenari Kanamori
Die Ähnlichkeiten der Ansichten von Werner Sombart und Ekiken Kaibara auf dem Gebiet der Gesundheitswirtschaft

Michael Appel

Werner Sombart

Historiker und Theoretiker des modernen Kapitalismus

339 Seiten · 24,80 EUR
ISBN 3-926570-49-0 (August 1992)

Beschreibung

Sein Werk werde Generationen überdauern, so prophezeiten die Zeitgenossen die Wirkung des großen deutschen Wirtschaftshistorikers Werner Sombart. Tatsächlich beschäftigen sich noch heute Historiker und Wirtschaftswissenschaftler mit Sombarts epocheübergreifendem Werk zur Geschichte des modernen Kapitalismus. Liebe, Luxus, Krieg, Religionen, Bevölkerungsexplosion und Unternehmenseliten - sie alle haben Platz in Sombarts umfassender Enzyklopädie von den Entstehungsursachen des Kapitalismus seit dem Mittelalter.

Die Deutungen von Werner Sombart sind aktuell und heute noch eine Quelle der Inspiration. Zu Lebzeiten war er der bekannteste und meistgelesenste Wirtschafts- und Sozialwissenschaftler und noch heute erleben viele seiner Werke Neuausgaben in hoher Auflage. Dennoch gab es bislang keine werkgeschichtliche Interpretation von Sombarts sechsbändigem Hauptwerk Der moderne Kapitalismus. Erst die Arbeit von Michael Appel bietet die Geschichte der Auseinandersetzungen und wissenschaftlichen Durchbrüche, die mit der Diskussion um Sombarts Deutung des Kapitalismus einhergingen.

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

(Günther Chaloupek in Wirtschaft und Gesellschaft, Heft 2, 1994)

dem Verlag bekannte Rezensionen (Auszüge)

Soziologische Revue, 1995, S. 573-574 (Markus C. Pohlmann)  [ nach oben ]

"Es ist ein gelungenes Stück Arbeit, mit dem uns der Autor zu einer Rückbesinnung auf grundlegende Diskussionen bei der Herausbildung der Soziologie, insbesondere der Wirtschaftssoziologie, einlädt. Er entführt uns nochmals in die für die Soziologie so wichtigen ersten Jahrzehnte nach der Jahrhundertwende, stetig einen Denker umkreisend, den diese nur schwer in den Kanon der Fachausbildung integriert hat. Werner Sombart hat eine der prominentesten Fragestellungen der Soziologie zusammen mit Karl Marx und Max Weber aus der Taufe gehoben. Eine Fragestellung, die auch heute noch von höchster Aktualität und Brisanz ist: Wie und warum welche Paradigmen des Wirtschaftens in bestimmten Gesellschaftsformationen entstehen und wie, mit welchen Geschwindigkeiten und Modifikationen sie sich in welchen Wirtschaftsräumen verbreiten und helfen, die 'mächtigen Kosmen' der Wirtschaftsordnungen zu erbauen, die den Lebensstil aller Einzelnen mit 'überwältigendem Zwange' bestimmen (Weber). Auch wenn das Webersche Pathos an dieser Stelle berühmt ist: Werner Sombart begründete diese Fragestellung in entscheidender Weise und vergessen ist häufig, wie stark Weber von Sombart beeinflußt wurde. Sombart etablierte den Begriff des 'Kapitalismus' und half mit, die genuine Leistung der Soziologie gegenüber den Geschichts- und Staatswissenschaften sichtbar zu machen. Dies herausgearbeitet und die weit verzweigten Diskussionen um Sombarts zentrale Werke, insbesondere der ersten und zweiten Fassung von 'Der moderne Kapitalismus' ausführlich dargestellt zu haben, ist das große Verdienst des Buches von Michael Appel. Appel fängt diese Diskussionen bis in die 40er Jahre hinein in hervorragender Weise ein und gibt einen schmalen Ausblick auf die Diskussionen nach dem zweiten Weltkrieg.

Nach dem sehr kurz gehaltenen Versuch einer 'intellektuellen Biographie' widmet sich Appel unter unterschiedlichen thematischen Schwerpunkten der Entstehungs- aber vor allem der Wirkungsgeschichte von Sombarts Werk. ...Er arbeitet den in Abgrenzung von Marx wichtigen Sombartschen Bezugspunkt auf die Motive der wirtschaftlich handelnden Menschen als Entscheidungszentren heraus (31), aber auch seine Anlehnung an Marx in der historischen Beurteilung des Verwertungsstrebens des Kapitals als 'letzte Ursache' der wirtschaftlichen Entwicklung (34). Er stellt Sombarts Geworfenheit in die Zeit dar, deren unterschiedlichen Strömungen der historischen Schule, des Marxismus, des Sozialismus, des Kulturpessimismus seine Positionen durch Einbezug und Abgrenzung mitbestimmten. Er zeigt seine Begegnungen und Auseinandersetzungen, seine Rezeption und seine Wirkungen bei so bekannten 'Zeitgeistern' wie Georg von Below, Lujo Brentano, Karl Bücher, Alphons Dopsch, Otto Hintze, John Maynard Keynes, Karl Korsch, Rosa Luxemburg, Friedrich Naumann, Max Scheler, Gustav Schmoller, Joseph Alois Schumpeter, Ferdinand Tönnies, Thorstein Veblen, Max Weber - um nur einige zu nennen - auf. Hier läßt Appels Buch nur noch wenig zu wünschen übrig. Spannend und neue Perspektiven aufzeigend ist vor allem das Kapitel über den Sonderweg der Kapitalismustheorie nach 1919 (217ff.), in dem gezeigt wird, wie sich Sombarts Position einer 'antimodernen, idealistischen Grundeinstellung' herausbildet und Anklang findet, wie dem 'Spätkapitalismus' sein letztes Glöcklein geläutet wird (228ff.), Sombarts Perspektive der 'autarkistischen Planwirtschaft' aufscheint und seine 'nationale, antiliberale Gesinnung' von den Nationalsozialisten dann doch nicht vorbehaltlos goutiert wird.

In diesem und in anderen Kapiteln demonstriert Appel seine Stärken und Schwächen zugleich: Er schreibt in fruchtbarer und spannender Weise Literaturgeschichte, aber weniger Soziologiegeschichte und noch weniger betreibt er Soziologie." ...



Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 4/1993, S. 539-540 (Karl Heinrich Kaufhold)  [ nach oben ]

"Wemer Sombart, lange Zeit wenig beachtet und von der Forschung allenfalls selektiv wahrgenommen, erfreut sich seit einigen Jahren wieder zunehmender Aufmerksamkeit. Doch fehlte der Diskussion bisher eine Grundlage in Form eines Überblicks über sein ausgedehntes Werk, dessen Rezeption und über die wissenschafts- wie zeithistorischen Zusammenhänge, in denen es sich bewegte und diskutiert wurde. Das Buch von Michael Appel schließt diese Lücke in einer knappen, doch eindrucksvollen und überzeugenden Form.

A. stellt in den Mittelpunkt seiner 'intellektuellen Biographie' mit Recht Sombarts Hauptwerk 'Der modeme Kapitalismus' in den beiden Fassungen von 1902 und 1916/27; er übersieht aber darüber die frühen Arbeiten der 1890er Jahre sowie die späten Studien nicht. Die beiden Hauptprobleme einer Beschäftigung mit Sombart, nämlich den Wandel seiner Grundposition von einem revisionistischen Marxismus hin zu einer antikapitalistischen 'Metaphysik des Seins" und die überaus widersprüchliche Rezeption seiner Arbeiten durch Nationalökonomen, Soziologen und Historiker, treten dabei deutlich hervor und werden in ihren verschiedenen Aspekten diskutiert. A. macht deutlich, wie konsequent Sombarts geistige Entwicklung in Auseinandersetzung mit jeweils bestimmenden Strömungen seiner Zeit verlaufen ist, doch auch, daß er ungeachtet solcher Wandlungen in bestimmten Grundauffassungen sich treu blieb.

Ein knappes Resümee zu ziehen, verbietet sich von Sombarts Werk, doch auch von der diesem gerecht werdenden Weise her, in der es hier geschildert wird: Jede Vereinfachung vergröbert, ja verfälscht. Hervorzuheben sind aber die im ganzen treffende Würdigung der jüngeren historischen Schule und die feinfühlige Art, mit der Sombart in diese eingeordnet wird (hinsichtlich Schmoller finden sich allerdings einige kleinere Mißverständnisse). Das Buch kann jedem empfohlen werden, der sich über das Werk Sombarts und dessen Wirkungen bis an die Schwelle der Gegenwart in Zuspruch und Widerspruch zum wechselnden 'Zeitgeist' informieren will."



Wirtschaft und Gesellschaft, 2/1994, S. 314-319 (Günther Chaloupek)  [ nach oben ]

"Im Mittelpunkt von Appels Darstellung steht Sombarts fraglos bedeutendstes Werk 'Der moderne Kapitalismus', an welchem sich die intellektuelle Entwicklung seines Verfassers ebenso wie die Besonderheiten der deutschen Nationalökonomie vorzüglich demonstrieren lassen. ... Große Teile von Appels Buch beschäftigen sich letztlich mit der Frage, worin die gedanklichen Wurzeln des 'Sonderweges' liegen, den die deutsche Nationalökonomie in der Zwischenkriegszeit einschlug. Die Ablehnung des Marktmechanismus als Vergesellschaftungszusammenhang und seine tendenzielle Ersetzung durch eine organismusanaloge Gemeinschaft ist für viele Autoren dieser Zeit charakteristisch ... Auch Sombart war von einer solchen anti-marktwirtschaftlichen Haltung geprägt. Appels Buch zeigt in eindrucksvoller Weise die geistesgeschichtlichen Zusammenhänge dieser Orientierung auf."

samedi, 14 mars 2009

Götz KUbitschek - Provokation

 

Götz Kubitschek - Provokation

“Unsere Hoffnung ruht in den jungen Leuten, die an Temperaturerhöhung leiden”, sagte Ernst Jünger, und das gilt heute wieder. Kubitscheks Aufruf zur Provokation ist das Manifest des rechten, politischen Existentialismus: Immer dann, wenn einer entschieden etwas tut, vergewissert er sich seiner selbst und gewinnt für sich und seine Überzeugung Strahlkraft und Deutungsmacht. www.edition-antaios.de

00:29 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, conservatisme, existentialisme, allemagne, droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 13 mars 2009

Schietpartijen op scholen

 

People lay flowers at the school Wednesday.

Schietpartijen op scholen

 

Geplaatst door yvespernet

De wereld slaat door moet je soms wel denken. We zijn dan wel gespaard van oorlogen in ons deel van de oorlog, een historische luxesituatie, sommige vinden het blijkbaar nodig om in onze scholen schietpartijen te beginnen. Anderen schieten dan weer willekeurig op mensen op straat. Er gaat wel degelijk iets grondig mis in onze maatschappij. De laatste weken stapelt het zich immers verdacht op.

http://edition.cnn.com/2009/WORLD/europe/03/11/germany.sc...

WINNENDEN, Germany (CNN) — A gunman dressed in military gear killed 15 people Wednesday in a shooting spree in Germany, police said.

http://edition.cnn.com/2009/CRIME/03/11/alabama.shooting....

McLendon was armed with two assault rifles, two semiautomatic weapons, a handgun and a shotgun, and “high-capacity” rounds. ”We believe he fired in excess of 200 rounds during the assaults,” Alabama State Police Cpl.  [...] Eight people, including Myers’ wife and 18-month-old daughter, were killed on that porch.

http://www.gva.be/nieuws/buitenland/politie-schiet-dolle-...

In Parijs is maandag een man doodgeschoten door de politie. De man van ongeveer 50 jaar oud had zijn moeder gegijzeld en begon daarna vanuit zijn appartement te schieten op voorbijgangers. Eén man raakte gewond.

In de Westerse wereld gaat er blijkbaar iets zwaar fout. Uiteraard ben ik geen socioloog, psycholoog of andere expert in deze materie. Deze voornoemde experten zijn trouwens ook zeer snel verdeeld op dit soort vlakken. Maar een paar factoren spelen volgens mij toch een rol. Doorheen het leven van de mens kunnen we stellen dat ieder van ons op eenbepaald moment “stopt” en denkt “Waar kom ik vandaan, wie ben ik en waar ga ik naartoe?”. In andere woorden; de mens zoekt een antwoord op zijn rol in de maatschappij en de wereld. De mens zoekt naar een vorm van legitimatie, een reden van bestaan.

In een maatschappij waar het individu moet voorop staan en de gemeenschap niet telt, waar eeuwenoude tradities, die voor een groot deel de mensen conformeerden aan de maatschappij en zijn rol en bestaan leerde aanvaarden, vernietigd worden, daar worden de zaden geplant voor een catastrofe. De globalisering van de eenzaamheid zorgt ervoor dat mensen geen uitweg meer zien om zichzelf te verwijderen van deze planeet. Maar zij zorgt er ook voor dat mensen geen waarde meer hechten aan de rest van de wereld. Zij zien dus ook geen probleem in het meetrekken van zoveel mogelijk mensen in hun daden.

Maar boven alles is dit natuurlijk een zeer triestige zaak. Mijn medeleven gaat dan ook uit naar de nabestaanden en vrienden van deze slachtoffers.

14:45 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : écoles, massacres, allemagne | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook