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jeudi, 07 mai 2009

Democrazia e guerra fredda: anatomia di un paradosso

Democrazia e guerra fredda: anatomia di un paradosso


di Carlomanno Adinolfi - ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Con la fine della guerra mondiale “democrazia” sembra diventare la parola d’ordine per tutti gli Stati protagonisti della scena globale. “Democrazia” diventa il baluardo della modernità e dei popoli contro le “dittature” sconfitte con le armi dall’alleanza finanza-comunismo. Eppure “democrazia” diventa sempre di più una parola astratta a cui ognuno dà diversi significati a seconda talvolta della convenienza, talvolta della matrice culturale in cui essa nasce.
Nell’immediato dopoguerra, quando il mondo comincia ad assumere l’assetto deciso a Jalta dai cosiddetti “grandi” (Roosevelt, Stalin e il proclamatore dell’inizio delle belligeranze, Churchill) i principali modelli di democrazia diventano quello occidentale, di stampo parlamentare, e quello popolare, proprio dei regimi ad est della cortina di ferro.
Ovviamente i rappresentanti dei due modelli rivendicano ognuno la legittimità del definirsi “democratico”.

Le democrazie occidentali

I paesi cosiddetti occidentali, sotto la leadership militare, economica e politica degli Usa, sono tutti fautori di quelle che comunemente vengono definite democrazie parlamentari. Questi paesi ponevano e pongono tutt’ora come concetto cardine della loro democrazia le libertà individuali e la loro difesa in tutti i campi. In questa concezione la massima espressione di libertà è il voto per decidere i propri rappresentanti in parlamento e negli organi di governo territoriale.

Tuttavia il principio fondante di quella che dovrebbe essere una democrazia nel vero senso della parola, ossia “governo del popolo”, viene del tutto a mancare: la partecipazione stessa del popolo al governo e alla vita politica. La partecipazione attiva dei cittadini alla sfera politica nasce e si esaurisce all’interno delle urne nella scelta dei rappresentanti. Da quel momento in poi quella che dovrebbe essere res publica torna di fatto ad essere sfera privata degli eletti a “rappresentanti del popolo”. Se si va ad analizzare a fondo la realtà concreta, infatti, è evidente che solo una piccolissima percentuale della popolazione ha a che fare con la gestione effettiva della politica, e si prospetta una visione che sembra sempre più quella di una oligarchia, piuttosto che quella di una democrazia – visione che diviene sempre più accentuata man mano che i cosiddetti rappresentanti diventano sempre più legati alle lobbies economico-finanziarie.

Altro fattore che faceva degli Stati occidentali delle democrazie solo a parole è il fatto che (altro cardine del mondo occidentale) a vincere sia la cosiddetta maggioranza.
Nei paesi con una moltitudine di partiti nella scena politica, questo, di fatto, sta a significare che al governo, tranne in casi eccezionali, non vada affatto la rappresentanza della maggioranza dei cittadini, ma semplicemente i rappresentanti della minoranza più grande. Nei paesi a sistema proporzionale è poi necessario che queste “grandi minoranze” debbano allearsi con partiti teoricamente più vicini ideologicamente per raggiungere e mantenere il governo. Questo crea altri scenari paradossali con partiti che di fatto sono rappresentanti di una minima parte di cittadinanza che hanno il potere di ricatto politico verso i più grandi, e che possono in questo modo andare al governo a discapito di partiti ben più rappresentativi che si trovano però fuori dalla coalizione vincente.

L’unico caso in cui ad andare al governo è effettivamente la maggioranza, ossia chi si accaparra almeno un voto in più del 50% dei votanti, è quello dei sistemi bipolari in cui di fatto sono presenti solo due partiti ma, fuori dagli
Usa, un terzo conta sempre qualcosa, come accade in Germania o Inghilterra. Ma anche qui il paradosso è enorme, in quanto la totalità della popolazione deve per forza riconoscersi in uno dei due schieramenti.
In tutti i casi, comunque, chi raggiunge la cosiddetta maggioranza, sia essa relativa o assoluta, lascia di fatto esclusa dal governo una fetta enorme della popolazione, rendendo il termine “governo del popolo” del tutto inadatto a descrivere il sistema di governo occidentale.

Le democrazie popolari

Paradossalmente gli Stati che durante la guerra fredda si avvicinavano di più al concetto vero di democrazia erano proprio gli Stati sotto influenza sovietica, i quali avevano dalla loro le cosiddette democrazie popolari.

Facendo propria la considerazione di J. J. Rousseau (1712 – 1778), secondo cui la volontà di tutti (volonté générale) non coincide affatto con la somma delle singole volontà, queste democrazie cercarono di scardinare il sistema atomista, secondo cui ognuno deve promuovere i propri interessi a discapito di quelli dell’avversario sperando di andare al governo (o di esservi rappresentato) per veder così attuato il proprio programma personale o quello della propria fazione. Promossero pertanto un sistema che vedeva tutta la popolazione rappresentata da un unico partito: quello comunista.
In quest’ottica si cercò di reintrodurre il concetto di partecipazione attiva della popolazione alla politica, rendendo obbligatoria l’iscrizione al partito, vietando il più possibile la proprietà privata e rendendo, di conseguenza, tutto proprietà dello Stato, facendo sì che ogni lavoratore e ogni fabbrica lavorassero solo ed unicamente per il partito, in un’ottica che vedeva l’economia del tutto assoggettata al volere degli alti gradi del polit bureau che rappresentavano l’intera collettività.

Sebbene però questo sistema fosse, dal punto di vista teorico, più vicino al concetto di “governo del popolo” rispetto alla controparte occidentale, di fatto anche qui il popolo era del tutto estraneo non solo alle decisioni ma anche ai vantaggi del proprio lavoro. Essendo praticamente annullata la sfera individuale a discapito di quella collettiva, la politica economica attuata tramite i cosiddetti “piani quinquennali” non era affatto finalizzata al benessere economico e sociale dei lavoratori, ma piuttosto al benessere – appunto – dell’intera collettività, che – di fatto – era rappresentata dal partito e dallo Stato.

I paradossi dei due mondi

Abbiamo già visto il paradosso secondo cui sarebbe stato più corretto chiamare democrazie quelle popolari piuttosto che quelle occidentali.
Ma ci sono altri e ben più grandi paradossi nei due sistemi.
Nell’ottica sovietica appena trattata, secondo la quale l’individuo è annullato nella collettività, il lavoratore diventa un ingranaggio per il benessere dello Stato e non per se stesso, facendo un lavoro di cui non vedrà mai personalmente i frutti, economici o politici, andando a ricostruire esattamente lo scenario criticato dallo stesso Marx, e facendo dell’economia dei paesi sovietici praticamente un capitalismo di Stato.

Ma il paradosso più grande forse riguarda proprio il mondo occidentale. La volontà esplicita di liberare l’economia e la finanza dal controllo dello Stato favorì non solo l’assoggettarsi delle politiche nazionali alle logiche di mercato, ma soprattutto favorì la creazione e il proliferare di una classe finanziaria internazionale che cercò e riuscì a gestire le politiche nazionali per i propri fini. Questo fece sì che lobbies sovra e inter-nazionali potessero controllare i governi, e che Stati con assai poca sovranità nazionale potessero essere governati di fatto da rappresentanti di aziende o multinazionali straniere. A conti fatti, il mondo occidentale risultò quindi attuare perfettamente il concetto di internazionalismo che il comunismo russo invece aveva abbandonato fin dai tempi in cui Stalin estromise a picconate Trotsky, attuando invece un gigantesco nazionalismo al servizio della Grande Russia.

Il terrore come mezzo di auto-sostentamento dei due modelli

Il clima di guerra fredda che iniziò fin dalla fine della guerra mondiale di certo aiutò il consolidarsi dei due modelli, che furono comunque contrastati per una ventina d’anni dai paesi non-allineati, i quali facevano riferimento a leaders popolari e nazionali come l’egiziano Nasser e l’argentino Perón.

A est della cortina di ferro qualunque contatto con il mondo occidentale era vietato o fortemente “sconsigliato” per la difesa dell’utopia sovietica. Qualunque corrente non conforme a quella dominante di volta in volta nel politburo di Mosca era purgata con esecuzioni od omicidi politici, tacciata d’essere “reazionaria” o comunque “nemica del popolo”. Qualunque tentativo di indipendenza dall’influenza moscovita, o qualunque tentativo di riforma della classe politica anche solo verso il socialismo o la socialdemocrazia, era repressa nel sangue, come nei casi ben noti di Praga, Budapest o in Polonia.

Ma anche in Occidente si fece largo uso del terrore per mantenere lo status quo deciso a Jalta. Con il piano Marshall – di fatto – tutti i paesi europei divennero talmente legati alla politica statunitense, tanto da divenirne praticamente schiavi. Il quotidiano timore per l’imminente scoppio del conflitto nucleare costrinse gli Stati occidentali a fare quadrato dietro agli Usa, e ciò impedì di fatto qualunque forma di ricerca (o di ritorno) di una terza via, tanto politica quanto economica.

Non è un caso poi che le nazioni in cui si permise di avere fortissimi partiti comunisti fossero proprio i paesi più pericolosi per l’ottica che voleva l’Europa assoggettata politicamente ed economicamente: tolte la Germania divisa e l’Inghilterra, che si era già demolita con Churchill fin dagli anni ‘30, si permise ai partiti comunisti di divenire potentissimi in Italia, chiave del mediterraneo e a cui si doveva impedire di tornare ad avere una politica da protagonista, e in Francia, dove una tradizione di grandeur e di senso dello Stato poteva intaccare quel senso di internazionalismo anti-Stato. Di fatto questa politica riuscì solo in Italia, in cui il PCI e i suoi alleati riuscirono ad abbattere tanto l’auto-sostentamento militare che quello energetico con la battaglia antinucleare e con la guerra ai sostenitori della politica mediterranea e filo-araba (si pensi al delitto Moro, alla guerra a Craxi e alla collusione tanto di dirigenti che di terroristi rossi con lobbies israeliane come Terracini, Bertoli, Israelil rosso”, ecc.).
Gli stessi Usa, paladini della libertà, usarono l’arma del terrore durante l’epoca McCarthy e soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione dalla loro influenza dai paesi dell’America Latina.

Di fatto il clima di continua tensione, certamente aiutato dall’impotenza politica dell’Onu che prevedeva diritto di veto tanto dagli Usa che dai sovietici, non fece altro che aiutare i due grandi colossi a reggersi in piedi nel dominio delle rispettive sfere d’influenza. Tensione che i due colossi fecero ben attenzione a non far mai esplodere e far andare fuori controllo, come dimostrano il sospetto assassinio del presidente Kennedy e il contemporaneo improvviso golpe contro il presidente Kruscev, proprio i due uomini politici che rischiarono di dar inizio alla guerra nell’episodio della crisi missilistica di Cuba.

La mission de Sixte de Bourbon-Parme

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

 

La mission de Sixte de Bourbon-Parme

Tamara GRIESSER-PECAR, Die Mis­sion Sixtus. Österreichs Frie­dens­versuch im Ersten Welt­krieg, Amalthea, Wien/ München, 1988, 414 S., DM 38.

 

La guerre sévissait depuis deux ans déjà, lorsque l'Empereur et l'Impératrice d'Autriche-Hongrie déci­dèrent, en décembre 1916, de me­ner des négociations secrètes extraordinaires. Par l'intermédiaire des Princes Sixte et Xavier de Bourbon-Parme, de leur propre chef et sans en avertir l'allié allemand, l'Empereur Charles et l'Impératrice Zita, prirent des contacts secrets avec les autorités politiques des puis­sances de l'Entente, la France et la Grande-Bretagne. Leur objectif: obtenir la paix, tant qu'il y avait encore quelque chose à sauver. En effet, le couple im­périal était parfaitement conscient de la volonté française d'éclater l'ensemble austro-hongrois en plusieurs pe­tites nations aisément contrôla­bles, qu'on pourrait té­léguider depuis Paris contre Berlin et Vienne. Par la paix anticipée qu'ils espéraient obtenir, ils voulaient éviter un sort funeste à l'œuvre politique plurisécu­laire de leurs ancêtres. Les tractations auront quelque chose de tragique: les intermédiaires de l'Em­pereur étaient tous deux officiers de l'armée bel­ge, en guerre contre l'Allemagne, alliée de l'Autriche-Hongrie. Les négociations, menées sans que Berlin le sache, fini­ront par être con­nues de tous et faire passer Charles de Habs­bourg pour un traître qui complotait dans le dos de l'Allemagne.

Les Allemands d'Autriche lui en voudront cruellement. Mais l'intérêt du livre de Ta­mara Griesser-Pecar ne réside pas seule­ment dans la narration détaillée de cette affaire, mais aussi dans l'analyse du rôle de l'Italie dans l'échec des négocia­tions secrètes. En plein mi­lieu de celles-ci, l'Italie es­suie un cuisant échec militaire, ce qui renforce la po­sition de l'Au­triche et déforce celle des Alliés, qui avaient es­compté des victoires italiennes pour faire fléchir Vienne. Les Autrichiens avaient le dessus et pouvaient demander des conditions de paix ho­no­­rables, d'autant plus que des unités françaises s'étaient mutinées après les offensives inutiles de George Nivelle. Des grèves secouent la Fran­ce et les ouvrières descendent dans les rues en criant: «Nous voulons nos maris!».

Deux projets différents ani­maient alors la diplomatie française: 1) celui de main­tenir l'Autriche-Hon­grie telle quelle, afin de faire contre-poids à la Prusse et de ne pas créer le chaos en Europe Centrale et 2) celui d'éliminer l'Empire des Habsbourgs, de le morceler et d'instaurer des régimes d'idéologie républicaine et illuministe en Europe Centrale. La deuxième solution finira par l'emporter. Dans ce contexte, le Prince Sixte arrive à Paris et ex­plique que l'Italie est prête à faire une paix séparée à condition que l'Autriche cède le Trentin italophone (pas le Sud-Tyrol germanophone), avec pour com­pensation, l'en­semble ou une partie de la Somalie. La France et l'Angleterre ont donc intérêt, elles aussi, à signer une paix séparée avec l'Autriche. Lloyd George était favorable au projet, car les évé­nements de Russie laissaient entrevoir la ces­sation des hostili­tés entre Russes et Allemands, le Prince Lwow ayant contacté les autorités du Reich en ce sens. De ce fait, l'Italie et la Russie risquaient de quitter l'Entente et de laisser Français et Britanniques seuls face aux armées allemandes et austro-hongroises. Poincaré et Ribot rétorquent que ni les intérêts serbes ni les intérêts roumains ni la question polonaise n'ont été pris en compte par le vieux monarque au­trichien. Les Fran­çais se montrent très réticents à l'endroit du projet vi­sant à coupler la ré­trocession du Trentin à l'Italie et la récupération de l'Alsace-Lorraine. En effet, si l'Italie reçoit le Trentin, elle cessera de se battre et l'Entente manquera de troupes pour arracher par les armes les départements alsaciens et lorrains à l'Alle­magne.

Les Alliés occidentaux se rendaient comp­te que l'Italie jouait son jeu seule mais que son poids militaire était tel qu'ils ne pouvaient la négliger. Le 3 juin 1917: coup de théâtre: l'Italie proclame qu'elle entend exer­cer un protectorat sur l'Albanie, coupant de la sorte l'accès de la Serbie à la mer. Le petit royaume slave des Balkans ipso facto ne pouvait plus acquérir un ac­cès à l'Adriatique qu'en grignotant le territoire aus­tro-hongrois, situation inacceptable pour Vienne. Au même moment, les Slovènes, Croates et Serbes à l'intérieur de la monarchie souhaitent constituer un royaume constitutionnel séparé selon le modèle hon­grois.

Les contra­dictions internes de la monarchie la fragilise et la tenacité du Ministre italien Sonnino, im­posant aux Alliés ses vues sur l'Albanie malgré les revers militaires italiens, négociant avec les Anglais et les Français un partage des Iles de l'Egée et du terri­toire turc, fait échouer les pourparlers entre Sixte et les autorités anglaises et françaises. De plus, les pro­positions de paix italiennes ne venaient ni de Sonnino ni du Roi d'Italie, ce qui réduisait considérablement les chances de l'Empereur autrichien et des frères de Bourbon-Parme. Le livre de Tamara Gries­ser-Pecar est une enquête très serrée qui nous permet de saisir la vision européenne et pa­cifiste, éloignée des engoue­ments idéologiques générateurs de carnages abomi­nables, des Bour­bon-Parme et des Habsbourgs. Al­bert Ier y avait pleinement souscrit. La réussite de leurs projets aurait évité la seconde guerre mondiale et la partition de l'Europe à Yalta (Robert Steuckers).

mercredi, 06 mai 2009

L'Allemagne, la France et la fin de l'ère Locarno

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

L'Allemagne, la France et la fin de l'ère Locarno

Franz KNIPPING, Deutschland, Frankreich und das Ende der Locarno-Ära, 1928-1931. Studien zur in­ternationalen Politik in der Anfangsphase der Weltwirtschaftskrise,  Oldenbourg, München, 1987, 262 S., DM

 

Parler aujourd'hui de l'entente franco-allemande postule néces­sai­rement de revenir à cette époque de l'immédiat après-Locarno, aux espoirs de réconciliation qui se pointaient alors et à la dé­gra­dation progressive du dialogue entre les deux ennemis héré­ditaires de l'Europe de l'Ouest. Le zénith de l'entente franco-alle­mande fut marqué par la proposition de Briand de créer une Union européenne. Le 12 juin 1929, Briand propose à Stre­se­mann de «liquider la guerre», d'amorcer la construction d'une «fé­dération européenne» qui aurait pour tâche, sur le plan poli­ti­que, de stabiliser notre continent et, sur le plan économique, de le protéger contre l'emprise américaine. Cette suggestion de Briand comprenait deux tendances: celle de démanteler la colla­bo­ration économique germano-américaine qui jouait au détri­ment de la France et celle, pure et idéaliste, de sauver la «civi­li­sation européenne» du bolchévisme «ennemi de la culture» et de l'impérialisme économique américain. Ce plan souleva des en­thou­siasmes mais aussi le scepticisme du gouvernement alle­mand: celui-ci notait que l'idée d'une vaste coopération écono­mi­que européenne avait de solides racines en Allemagne mais qu'à l'heure présente, l'Allemagne, tarabustée à Versailles par l'in­transigeance française, devait conserver les acquis de ses re­lations spéciales avec les USA car la France, dans son ensem­ble, ne reflétait pas toutes les bonnes intentions de Briand. En fait, le pôle allemand, renforcé par sa coopération avec les Etats-Unis, était sur le point de dépasser en poid le pôle français et l'offensive de Briand, toute honnête qu'elle soit dans le chef de son initiateur, pouvait s'avérer une opération de charme fran­çaise consistant à cimenter un statu quo favorable à Paris. Stre­semann, quant à lui, répondit, quelques semaines avant sa mort, que la coopération européenne ne devait nullement se diriger con­tre les autres continent ni développer une orientation autar­cique, tout en admettant que les multiples frontières de notre con­tinent devaient cesser de transformer l'espace européen en une juxtaposition de petites économies boutiquières.

Son successeur, Julius Curtius, commença par orienter sa politi­que vers une colloboration germano-britannique, puis vers une of­fensive diplomatique en direction de l'Europe centrale et des Balkans, ce qui entraînait inévitablement un ralentissement du dialogue franco-allemand et un ré-amorçage des exigences alle­mandes de révision du Traité de Versailles (Rhénanie, Sarre). Ce ré-amorçage conduit la France à proposer en 1930 l'insti­tu­tio­na­lisation des idées paneuropéennes de Briand. Celle-ci pren­drait d'abord la forme d'une «commission spéciale» de la SDN. Pen­dant que les Français s'efforcent de mettre cette commission au point, l'Allemagne, frappée durement par la crise, oriente sa po­litique économique vers le Sud-Est européen, si bien que deux mou­vements européens finissent par se juxtaposer en Europe: le pan­européen de Briand et le «mitteleuropäisch» des Allemands, qui comprennent ce dernier comme une étape nécessaire vers la Pan­europe de Briand. Dans l'esprit des protagonistes, les deux mouvements vont se mêler étroitement et l'on assistera à moults confusions et quiproquos. Les nations de la «Petite En­ten­te», la Pologne, la Tchécoslovaquie, la Roumanie et la You­go­slavie, alliées de la France, finissent par comprendre que l'Al­lemagne seule peut absorber les surplus de leur production agricole et les payer en produits manufacturés. Qui plus est, les liaisons géographiques sont plus aisées entre ces pays et le Reich. La France, forte de son or, ne peut opposer que sa puis­san­ce financière à cette fatalité géographique. Les investisse­ments français ne servent finalement qu'à favoriser l'importa­tion dans les Balkans de produits français, sans que le marché français ne puisse absorber en suffisance les surplus agricoles bal­kaniques. Knipping reprend à l'historien français Georges Sou­tou l'expression «impérialisme du pauvre» pour désigner la malheureuse stratégie financière française dans la région. La puis­sance matérielle française, financière et militaire, a suc­com­bé devant les impératifs incontournables de la géographie. Il semble que l'intégration centre-européenne et balkanique soit un mouvement naturel qu'il est vain de vouloir enrayer.

L'enseignement à tirer de cet ouvrage d'histoire, c'est que Fran­çais et Allemands ne parlent pas de la même chose, lorsqu'ils par­­lent d'Europe. Les dimensions danubiennes et balkaniques sem­­blent échapper à l'opinion française, tandis qu'en Allema­gne, on leur accorde une priorité. Pour l'Allemand, la résolution des contradictions danubiennes et balkaniques est la première éta­pe dans le processus d'intégration de l'Europe Totale. Se re­plon­ger dans les discussions qui ont animé les chancelleries en­tre 1928 et 1931, sous l'impulsion de Briand, est œuvre utile pour surmonter ce gros hiatus. Le travail de Knipping peut nous y aider (Robert Steuckers).   

mardi, 05 mai 2009

Les Belges ont-ils créé les Tutsis?

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Les Belges ont-ils créé les Tutsi ?

 

par Bernard Lugan
(17 juin 1994)

La colonisation belge aurait-elle créé Tutsi et Hutu au Rwanda et au Burundi ? A lire la presse, on en serait presque persuadé. Les tiers-mondistes qui la colonisent font passer le message suivant : Tutsi et Hutu étaient des définitions économiques, donc mobiles, et les Belges en firent des castes figées. Conclusion : si Hutu et Tutsi se massacrent, la colonisation en est responsable. La réalité est évidemment autre.

***

Lorsque, entre 1896 et 1900, les premiers Blancs arrivent dans ces pays, la société est dirigée par un groupe pastoral minoritaire composé des Tutsi dominant un groupe agricole très largement majoritaire, exclusivement composé des Hutu.

Entre ces deux groupes, les différences étaient très souvent physiques, toujours économiques et éthiques. Elles se retrouvaient dans le mode de vie et dans les habitudes alimentaires et elles étaient assez nettes pour que, durant 60 ou 70 ans, les missionnaires, administrateurs, chercheurs… aient pu distinguer des hommes de la houe et des hommes de la vache. L’appartenance à ces groupes était héréditaire et irréversible. Elle était déterminée comme le sexe d’un enfant, car elle était ethnico-raciale avant d’être sociale.

Il existait même un modèle physique auquel il était de bon ton de pouvoir ressembler, à tel point que la fraction dirigeante de l’aristocratie dominante avait recours à une véritable sélection raciale pour y parvenir. Pour que les enfants puissent approcher des canons esthétiques tutsi, les grand-mères et les mères agissaient sur leur physique : élongation de la colonne vertébrale, application de cordelettes et de compresses d’herbes chaudes destinées à produire un crâne à la “belle” dolicocéphalie et au front bombé.

Peut-on sérieusement prétendre que cette recherche d’un morphotype idéal serait une conséquence artificielle résultant de la présence coloniale, et non un idéal traditionnel ? Evidemment non.

La littérature coloniale, les archives missionnaires allemandes et belges contiennent des centaines de rapports indiquant l’étonnement des premiers Européens devant les différences raciales et culturelles, ces véritables barrières séparant Tutsi et Hutu.

Tous insistent sur la taille élevée des Tutsi - l’exemple du roi du Rwanda et de son oncle dépassant les 2,10 m est souvent cité -, « leur port altier, leur arrogance, leurs traits non négroïdes, souvent sémites, la finesse de leurs membres ». Le paraître tutsi impressionna à ce point les voyageurs qu’il leur sembla naturel de voir cette race commander à la masse de la population qui était selon eux d’une autre origine.

Cette idée fut clairement exprimée par Rickmans lorsqu’il écrivit :
« Les Batutsi étaient destinés à régner. Leur seule prestance leur assure déjà, sur les races inférieures qui les entourent un prestige considérable ; leurs qualités - et même leurs défauts - les rehaussent encore. Ils sont d’une extrême finesse, jugent les hommes avec une infaillible sûreté, se meuvent dans l’intrigue comme dans leur élément naturel. Fiers avec cela, distants, maîtres d’eux-mêmes, se laissant rarement aveugler par la colère, écartant toute familiarité, insensibles à la pitié, et d’une conscience que les scrupules ne tourmentent jamais, rien d’étonnant que les braves Bahutu, moins malins, plus simples, se soient laissé asservir sans esquisser jamais un geste de révolte. »(1)

Les traditions tutsi insistent d’ailleurs sur leur absolue différence d’avec les Hutu, véhiculant une idéologie qui se manifeste avant tout par un orgueil racial et une revendication de supériorité.

A la fin du XVIIe siècle et au début du XVIIIe, les Tutsi ont éprouvé le besoin de limiter l’essor démographique des Hutu. Il devint urgent de « sauvegarder les droits de la vache contre la rapacité de la houe. »(2) Pour garantir leur mode de vie pastoral, ils instaurèrent alors des droits exclusifs de pacage en réservant de vastes étendues aux seules activités pastorales.
Le Rwanda et le Burundi classiques sont probablement les produits de ces mutations antérieures de plusieurs siècles à la colonisation et fondées sur des différences raciales qui ne doivent évidemment rien aux Européens.

(1) Rickmans P., “Dominer pour servir”, Bruxelles, 1931, p. 26.
(2) Lugan B., “Entre les servitudes de la houe et les sortilèges de la vache. Le monde rural dans l’ancien Rwanda”, thèse de doctorat d’Etat, 6 vol., Université de Provence, 1983.

Source : Le libre journal


 

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samedi, 02 mai 2009

La critique nationale-socialiste du capitalisme et de l'impérialisme américains

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - Novembre 1987

 

La critique nationale-socialiste du capitalisme et de l'impérialisme américains

par Günther MASCHKE

A l'automne 1918, les troupes fraîches et bien équipées (voire suréquipées) du général Pershing, com-mandant en chef du corps expéditionnaire américain, décidaient de l'issue de la Première Guerre mon-diale. Malgré cela, et bien que, contrairement à Foch, Pétain et Haig, Pershing fût le seul chef allié à vou-loir porter la guerre jusqu'à Berlin et occuper l'intégralité du territoire allemand, peu d'Allemands nourrirent à l'époque des sentiments anti-américains. La haine des vaincus se dirigea plutôt contre l'An-gle-terre et, plus encore, contre la France: n'était-ce pas les Anglais qui, dès la fin des combats, main-tinrent jusqu'en 1919 un blocus économique qui réduisit à la famine un million d'Allemands? N'était-ce pas les Français qui imposèrent le diktat de Versailles avant d'occuper la Ruhr? A l'inverse, l'éphémère prospérité que connut la République de Weimar entre 1925 et 1929 n'était-elle pas due aux crédits amé-ricains? Même si la crise économique mondiale frappait l'Amérique plus durement encore que l'Alle-magne, l'image positive d'une Amérique, pays vaste, libre, aux potentialités infinies, demeurait, parmi les Allemands, pratiquement intacte.

La sympathie allemande pour l'Amérique de Roosevelt

L'année 1933 n'altéra pas ce beau tableau, bien au contraire: la propagande nationale-socialiste et les au-teurs politiques sérieux étaient plutôt pro-américains pendant les premières années du régime. La politi-que de Franklin Delano Roosevelt, au pouvoir depuis mai 1933, fut même accueillie avec faveur, voire avec enthousiasme, et l'on s'enhardit, en Allemagne, à mettre en parallèle New Deal  et national-socialisme.

De fait, les deux systèmes furent perçus comme deux variantes d'une "Troisième Voie", la seule pro-metteuse, entre le capitalisme libéral et le bolchévisme. Comme le national-socialisme, faisait-on ob-server, le New Deal  essaie de résorber le chômage de masse par l'intervention de l'Etat dans le do-maine économique; d'un côté comme de l'autre, une politique sociale garantissait la sécurité matérielle de l'exis-tence. En Allemagne comme aux Etats-Unis, la libre entreprise, échec évident, était désormais contrôlée et bridée par l'Etat planificateur; ici comme là-bas, une nation en proie au désespoir et à la ré-signation était enfin mobilisée et vitalisée par un chef charismatique. La France et l'Angeterre, restées fi-dèles au libéralisme bourgeois, étaient condamnées au déclin. Quant à l'Union Soviétique, elle ne pou--vait, au mieux, que se maintenir par la terreur. Seuls, les Allemands, les Italiens et, dans une moin-dre mesure, les Américains, avaient compris que les temps avaient changé.

Parfois, les sympathies nationales-socialistes pour Roosevelt frisaient l'idôlatrie. Colin Ross (1), le jour--naliste le plus brillant du Troisième Reich, évoque, en 1935, l'impression que lui laissa une con-fé-rence de presse à la Maison Blanche: "Bien sûr, le sourire rooseveltien est, si l'on veut, le fameux keep smiling  américain. Mais le rire et le sourire du président sont bien plus que cela. C'est un rire fondé sur la souffrance. C'est l'expression d'une âme, d'une expérience du monde, qui, parce qu'elle connaît, pour les avoir éprouvées, toute la misère et toute la détresse de l'univers, sait sourire et soulager par la tendresse. La charge immense de travail et de responsabilité qui pèse sur Roosevelt a gravé dans son visage les mêmes sillons que dans celui d'Adolf Hitler".

L'attitude positive du national-socialisme à l'égard de Roosevelt et du New Deal s'infléchira en 1935-1936, mais pour faire place à un scepticisme prudent plutôt qu'à une hostilité déclarée. Plusieurs fac-teurs joueront, que les observateurs allemands ne purent tous identifier. Ainsi, les Américains finirent par remarquer les mesures antisémites prises peu après l'arrivée d'Hitler au pouvoir. Ils s'en alarmèrent, eux qui pensaient pouvoir tourner le dos aux querelles européennes et retrouver leur ancien iso-la-tion-nisme pour mieux s'attaquer à leurs problèmes intérieurs: montée du chômage, misère de masse, éro-sion des sols, endettement de l'Etat, etc… De plus, Roosevelt passait, y compris en Allemagne, pour un ardent défenseur de l'isolationnisme. Cependant, l'immigration juive aux Etats-Unis, de plus en plus in-fluente, entra en relation avec le brain trust  de Roosevelt, comme en témoigne l'exemple du publi-ciste et sociologue Walter Lippman. A partir de 1935, médias et "instituts scientifiques" se mettront à "édu-quer" les Américains, jusque là plutôt rétifs en la matière, sur les dangers du "nazisme". Du coup, les organisations allemandes et germanophones d'Amérique devinrent suspectes, surveillées par toutes sor-tes de mouchards. Les groupements nationaux-socialistes déclarés n'étaient pas les seuls visés: les as-sociations culturelles, musicales ou folkloriques furent surveillées, en butte aux chicanes et aux tra-cas-series.

L'échec du New Deal

Cependant, le national-socialisme assista (et sur ce point, son analyse et sa critique furent très souvent pertinentes) à la déconfiture progressive et à l'échec final de la politique de New Deal.

En 1933, Roosevelt s'était lancé dans la bataille avec un élan incroyable et dès le premier trimestre, la fameuse "Révolution des 100 jours", avait mené à bien plusieurs réformes. La nouvelle aggravation de la crise économique mondiale et quelques faillites bancaires retentissantes pendant les derniers mois du gouvernement d'Herbert Hoover, adepte à 100% du libéralisme de marché, paralysèrent pour un temps toute opposition à Roosevelt. Le printemps 1933 marqua l'apogée de la crise: tout le crédit aux USA était pratiquement gelé et peut-être Roosevelt aurait-il alors pu nationaliser en un tour de main le secteur bancaire pour financer sa révolution. Une occasion pareille ne se représenterait plus…

Mais la résistance s'organisait. Les milieux d'affaires, la haute finance, bref le Big Business,  pro-tes-tè-rent contre les interventions dirigistes et planificatrices du New Deal,  jugées "contraires à l'esprit amé-ricain" et propagèrent le mythe de l'effort individuel et de l'initiative privée. Quant aux Etats de l'U-nion, ils virent, dans la tentative de Roosevelt de créer un puissant pouvoir central, une violation de leurs droits traditionnels et fondamentaux. Enfin, la Cour Suprême fit barrage à l'extension du pouvoir exécutif du président et torpilla ses projets de loi les uns après les autres.

La critique nationale-socialiste dressa un bilan difficilement contestable: Roosevelt avait échoué parce qu'il n'avait pas su  —et aussi peut-être parce qu'il ne pouvait  pas—  devenir dictateur. En fait, le pré-sident américain, naguère encore comparé à Hitler, n'était pas un Führer  et les Etats-Unis, selon Colin Ross qui voyait ainsi confirmée sa thèse de "l'échec du melting pot", n'étaient, au mieux, que "les peuples unis de l'Amérique": ils ne formaient ni un Etat au sens européen du terme ni une nation politiquement unie. La démocratie  qui s'y manifestait à travers la lutte des pouvoirs particuliers et des lobbies  avait eu raison de la dictature souhaitée. C'est pour cela que Roosevelt ne pouvait  atteindre aucun des objectifs du New Deal.  Les réformes en profondeur firent dès lors place à la propagande; mais la propagande ne pouvait réussir que si elle se cherchait (et se trouvait) un adversaire, une cible.

L'analyse critique de Giselher Wirsing à l'encontre du New Deal de Roosevelt

Sous le Troisième Reich, Giselher Wirsing fut l'un de ces journalistes qui, tout en sacrifiant aux rites obligatoires de la propagande officielle, furent également capables d'analyses de qualité. En 1938, dans une série d'articles rédigés pour les Münchner Neueste Nachrichten,  et, l'année suivante, dans des textes plus importants écrits pour la revue qu'il dirigeait, Das Zwanzigste Jahrhundert,  Wirsing décrit les cau-ses de l'échec du New Deal:  ces travaux, de haut niveau intellectuel, sont la quintessence des innom-bra-bles reportages, articles, brochures et études scientiques parus en Allemagne entre 1935 et 1939 sur le thè-me des  Etats-Unis. En 1942, Wising regroupa ses essais dans un ouvrage intitulé Der maßlose Kontinent - Roosevelts Kampf um die Weltherrschaft  (= "Le continent de la démesure; le combat de Roo-sevelt pour la domination du monde") (2). Bien que, dans cet ouvrage, Wirsing réaffirme que le New Deal,  même s'il avait réussi, n'aurait finalement eu que de maigres résultats, sa plume de jour-na-liste y est plus acérée: entretemps, les Etats-Unis sont entrés en guerre contre l'Allemagne. "C'est pré-ci-sément dans le domaine de la politique agricole, écrit Wirsing, que le New Deal devait essuyer le re-vers moral le plus cuisant, bien qu'Henri Wallace, ministre de l'agriculture de Roosevelt,…eût révélé les carences du système agraire aux USA. La politique agricole du New Deal  devint une juxtaposition d'ex-pédients qui permirent certes d'alléger le poids de la crise mais n'en vinrent jamais réellement à bout. Pour Wallace, le problème-clé de l'agriculture mécanisée américaine était la surproduction alors que le marché mondial s'était rétréci par suite des mesures d'autarcie prises dans le monde entier. De sorte que le New Deal,  au lieu d'engager la bataille pour la production, fit l'inverse: il fit tout pour li-miter la production. C'est cette idée fondamentale qui inspira l'Agricultural Adjustment Act  (AAA) de 1933. Une politique agricole véritablement  constructive n'aurait jamais dû s'appuyer sur une analyse aus-si né--gative tant que les excédents enregistrés dans les campagnes contrastaient avec les carences les plus effroyables en milieu urbain".

La stabilisation des prix agricoles, couramment pratiquée aujourd'hui, fut alors anticipée par des méthodes extrêmement brutales: enfouissement de la viande porcine, déversement en mer de tonnes de fruits mûrs, incendie des champs de coton: toutes ces mesures étaient le contraire exact des Ernteschlachten (batailles pour les récoltes) nationales-socialistes. Elles furent considérées par les capitalistes comme typiques du "dirigisme d'Etat" et par les communistes comme … typiques du "capitalisme"…

Quand l'abondance devient un fléau

Anticapitaliste d'inspiration nationaliste et romantique, Wirsing a bien cerné la réalité en mettant en lu-mière une contradiction inhérente à plusieurs volets du New Deal:  le hiatus entre l'intervention de l'E-tat, propre au New Deal,  et les axiomes d'un libéralisme presque dogmatique:

"Wallace adopta une démarche mécanique  fondée sur la théorie du pouvoir d'achat. Il constata que l'a-gri-culteur américain produisait trop dans tous les domaines, que la chute des prix devenait irrépressible et que l'endettement menaçait d'étouffer l'ensemble du système agraire. Il en concluait qu'il fallait limi-ter la production jusqu'au point où l'offre, ainsi réduite, s'harmoniserait à la demande. Théorie parfai-te-ment conforme, du reste, au libéralisme classique… Or, les initiateurs de cette politique agricole, qui per-suadèrent  —par toute une série de mesures coercitives—  l'agriculteur de ne plus cultiver ses champs et de détruire ses récoltes, se prirent pour des révolutionnaires. Ils parvinrent effectivement à fai-re passer le revenu agricole net de 4,4 milliards de dollars en 1933 à 7 milliards en 1935, mais cette aug-mentation rapide des prix était due en bonne partie à la sécheresse catastrophique de 1935, aux tor-na-des de poussière et aux inondations de l'année 1936-1937. Paradoxalement, Roosevelt vit dans la séche-resse son meilleur allié: avec l'AAA, c'est elle qui avait miraculeusement augmenté le pouvoir d'achat dans l'agriculture. L'indstrie des biens de consommation, qui soutenait Roosevelt, pouvait être satisfaite des résultats".

Naturellement, ni Wirsing ni Colin Ross (qui publia, également en 1942, Die "westliche Hemisphäre" als Programm und Phantom des amerikanischen Imperialismus  [= "L'hémisphère occidental", pro-gram-me et spectre de l'impérialisme américain]) (3) ni d'ailleurs l'explorateur suédois Sven Hedin, le sym-pa-thisant d'Hitler sans doute le plus célèbre, n'ont manqué de signaler qu'en Allemagne, l'intervention de l'Etat s'inspirait de conceptions doctrinales macro-économiques éprouvées alors qu'aux Etats-Unis, elle res-tait con-fuse et contradictoire. Le fait est qu'en Allemagne, et pas seulement à cause du réarmement, les chômeurs disparurent (sur ce point, le régime a sans doute exagéré ses mérites: le plein emploi ne fut jamais réellement atteint, pas même au début de la guerre) alors qu'aux USA, les résultats demeu-rè-rent médiocres malgré l'organisation de travaux de nécessité publique et le Service du Travail. En Allemagne, la dictature, mais aussi la grande tradition allemande du socialisme d'Etat produisaient leurs effets. Ces deux éléments n'existaient pas aux Etats-Unis. Ecoutons Wirsing résumer la queston agraire aux Etats-Unis, en sachant que ses observations valent pour l'ensemble du New Deal:

"Les tendances régionalistes et particularistes ne se manifestèrent nulle part de façon plus marquée que dans la question agraire. Quand des régions entières furent subitement menacées d'un nouveau fléau, comme le Middle West par les tornades de poussière de 1934-35, ou les Etats du Mississipi par les crues dévastatrices de l'année 1937, le Congrès consentit à débloquer des fonds parfois importants. Mais le système démocratique empêcha une imbrication adroite des diverses mesures ponctuelles dans le cadre d'une planification globale qui eût brisé toute résistance. A cause de l'impéritie du Congrès, de la sot-tise des Governors  des Etats, des groupements d'intérêts, etc…, le gouvernement de Roosevelt ne put jamais franchir l'obstacle…".

Les excellents projets de Roosevelt sont torpillés par les intérêts corporatistes privés

La liste des projets gouvernementaux torpillés par la Cour Suprême, que ce soit la loi sur les pensions des cheminots ou la déclaration d'illégalité de l'Agricultural Adjustment Act,  en 1936, est, elle aussi, in-finie. Roosevelt essaya bien de désamorcer l'opposition en y introduisant des juges favorables à sa politique et en adjoignant à ses opposants des "suppléants" avec droit de décision (les Américains di-sent: "to pack the Court");  la manœuvre avorta. Son projet favori, notamment la création d'une "Tennessee Valley Authority",  resta lettre morte. Roosevelt voulait aménager la vallée du Tennessee en y construisant de grands barrages et d'imposantes centrales électriques afin d'empêcher les inon-da-tions, permettre l'irrigation et fournir aux agriculteurs l'électricité à bon marché dont ils avaient le plus grand besoin pour leur élevage de bétail laitier et de boucherie, sans compter les programmes de reboi-sement et de terrassement. Sur le terrain, tout cela réussit. Jusqu'au jour où les compagnies privées d'é-lec-tricité sabotèrent cette politique énergétique et ces plans grandioses de mise en valeur du sol américain.

Si la comparaison entre l'interventionnisme américain et l'interventionnisme germanique montra à quel point il avait été hasardeux, de parler, en tant qu'observateurs allemands, d'affinités, même écono-mi-ques, entre le na-tional-socialisme et le New Deal,  il devint peu à peu patent que Roosevelt et Hitler avaient, en matière de commerce extérieur, des conceptions diamétralement opposées.

La guerre commerciale : autarcie contre libre-échangisme

Cette opposition, qui fut un facteur décisif de l'entrée en guerre des USA, donna au national-socialisme l'occasion d'étudier de près l'impérialisme américain (en fermant bien sûr les yeux sur son impérialisme à lui). Dès 1933, les relations économiques germano-américaines se détériorèrent. L'économie dirigée allemande, qui tendait au réarmement et à l'autarcie, jugula et planifia les importations, adapta les ex-por-tations aux importations grâce à des accords de compensation et à l'institution de taux de change multiples. Le principe allemand "marchandise contre marchandise" et le monopole d'Etat en matière de com-merce extérieur débouchèrent, par le biais des accords bilatéraux de clearing et de la technique de la "répartition des devises", sur une bilatéralisation des échanges.

On conçoit, dès lors, que la politique américaine de libre-échange, la "open door policy",  ait rencontré une résistance de plus en plus vive: en développant leurs relations économiques avec l'Amérique latine, les Allemands réussirent même à évincer les Américains et les Anglais de marchés aussi importants que ceux de l'Argentine ou du Brésil. Avec le pacte germano-soviétique, et les victoires successives des for-ces de l'Axe, les Américains entrevirent le spectre d'une partition du marché mondial (4): ils redoutèrent de plus en plus d'être handicapés économiquement et commercialement dans des zones de plus en plus vastes; qui plus est, la main d'œuvre bon marché des pays de l'Axe risquait même de saper leurs posi-tions concurrentielles partout ailleurs.

En 1941, année de l'attaque allemande contre l'Union Soviétique, le géopoliticien allemand Karl Haus-ho-fer publia son étude intitulée "Le bloc continental" (5). Ce bloc continental devint le cauchemar des Etats-Unis. Dans cette optique, l'Allemagne, la Russie, le Japon et les territoires qu'ils contrôlaient, donc également l'Afrique du Nord, la Chine et la Corée, ainsi que l'ensemble balkanique, devaient for-mer un bloc militaro-économique sur lequel se briseraient les ambitions anglo-américaines d'hégémonie mondiale. Finalement, la terre l'emporterait sur la mer, l'économie d'Etat sur le libre-échange, l'auto-ri-ta-risme sur la démocratie car le grand-espace suivrait sa propre loi alors que le libéralisme, impliquant partout des normes apparemment objectives, était contraint d'intervenir tous azimuts et de postuler dans le monde entier des conditions d'action uniformes.

                                                        

Aux Etats-Unis, la réaction à l'encontre de cette perspective d'un bloc continental tourna rapidement à l'hystérie, surtout par calcul de propagande: depuis 1937, Roosevelt voulait la guerre avec le Japon. A partir de 1939-1940, il voudra la guerre avec l'Alle-magne. Et décrira comme un "îlot impuissant" (!) une nation comme les Etats-Unis dont le volume du commerce ex-té-rieur, grâce à un marché intérieur gigantesque, n'atteignait à l'époque que 5 ou 6%. Dans son discours du 10 juin 1940, prononcé en Virginie, Roosevelt proclamait:"Pour moi-même comme pour l'écrasante majorité des Américains, l'existence d'un tel îlot est un cau-che-mar affreux, celui d'un peuple sans liberté, le cauchemar d'un peuple affamé, incarcéré, ligoté, d'un peuple nourri jour après jour par les gardiens impitoyables qui régentent les autres continents et n'ont pour nous que mépris". Et Walter Lippman ajoutait le 22 juillet 1940 dans la revue Life:"Si les cartells étatisés des puissances de l'Axe cimentaient un bloc continental eurasien de l'Irlande au Japon, les conséquences pour les Etats-Unis en seraient la baisse du niveau de vie, la montée du chô-mage et une économie réglementée. La disparition des libertés de notre libéralisme nous obligerait du même coup à nous adapter aux puissances de l'Axe". Et Lippmann concluait: "Le fait est qu'une éco-no-mie libre telle que nous la connaissons, nous, citoyens Américains, ne peut survivre dans un monde sou-mis à un régime de socialisme militaire".

Un monde trop petit pour deux systèmes

Le 9 juin 1941, Henry L. Stimson, Ministre de la Guerre, déclarait à l'Académie militaire de West-Point (6): "Le monde est trop petit pour deux systèmes opposés". Il est frappant de constater que la cam--pagne de Roosevelt contre l'Allemagne avait commencé dès 1937,  c'est-à-dire avant l'Anschluß  et l'an-nexion de la Tchécoslovaquie, voire avant les crimes collectifs perpétrés par les nationaux-socia-listes. Par contre, elle coïncida avec le moment précis, où l'échec du New Deal  éclata au grand jour. Com-mentaire de Giselher Wirsing:"L'été 1937 fut le grand tournant. Pas seulement politiquement, mais économiquement. Au moment où le président essuyait une défaite face à la Cour Suprême, un nouveau déclin économique brutal s'a-mor-ça… Dans l'industrie et l'agriculture, s'annonça une chute générale des prix. L'industrie et le com-merce avaient constitué d'importantes réserves en prévision de nouvelles hausses. En même temps, sous la pression du Big Business  et du Congrès, le président avait réduit sensiblement les dépenses fé-dé-rales et fait des coupes sombres dans les budgets de relance et d'aide sociale… Ce fut la "dépression Roosevelt". Au printemps 1938, on comptait à nouveau 11 millions de chômeurs. L'arsenal de lois du New Deal,  déjà incohérent en lui-même, s'avérait impuissant face aux faiblesses structurelles… On élabora pour l'agriculture un Agricultural Adjustment Act,  nouvelle version, mais inspiré des vieux principes: une limitation draconienne des cultures… La loi sur les salaires et le travail fut vidée de sa sub-stance. Dans tous les domaines, aucun progrès par rapport à 1933…".

L'exutoire de Roosevelt: la politique étrangère

Sven Hedin (7) a fait remarquer que les salaires payés par la Works Progress Administration  (WPA) pour les travaux de secours aux chômeurs ne dépassaient pas 54,87 dollars mensuels. Même la sécurité sociale ne fut pas transformée radicalement par le New Deal.  Voici le bilan qu'en dresse Sven Hedin: "En juillet 1939, le Social Security Bulletin  révéla que les pensions de retraite versées aux USA at-teignaient, par personne et par mois, 19,47 dollars. Mais en Alabama, le montant ne dépassait pas 9,43 $, en Caroline du Sud, 8,18$ mensuels, en Géorgie 8,12$, dans le Mississipi 7,37$ et en Arkansas 6$ seulement! Quiconque découvre l'amère réalité américaine derrière les slogans officiels ne peut que me-surer l'échec de Roosevelt en politique intérieure. Beaucoup remarquèrent que ce fut là un facteur dé-ter-minant du recours à l'aventure extérieure". Ce point de vue, des millions d'Américains l'ont partagé et aujourd'hui encore, les historiens critiques envers Roosevelt y adhèrent.

Le "discours de quarantaine" du 5 octobre 1937 marqua le début d'une véritable guerre froide contre l'Allemagne et le Japon. Même si l'on tient compte du conflit sino-japonais, les propos de Roosevelt sont assez énigmatiques:"Des peuples et des Etats innocents sont cruellement sacrifiés à un appétit de puissance et de domi-na-tion ignorant le sens de la justice… Si de telles choses devaient se produire dans d'autres parties du mon-de, personne ne doit s'imaginer que l'Amérique serait épargnée, que l'Amérique obtiendrait grâce et que notre hémisphère occidental ne pût être attaqué… La paix, la liberté et la sécurité de 90% de l'hu-ma-nité sont compromises par 10% qui nous menacent de l'effondrement de tout ordre international et de tout droit… Lorsqu'un mal se répand comme une épidémie, la communauté doit mettre le malade en qua-rantaine afin de protéger la collectivité".

"Hémisphère occidental" contre bloc continental

Les nationaux-socialistes virent bien que l'idée rooseveltienne d'"hémisphère occidental" (dont les limites d'intervention ne furent jamais précisées!) était grosse d'une volonté d'hégémonie mondiale directement opposée à leurs ambitions propres, plutôt continentales. Le déclin de l'Angleterre (à l'époque, le phénomène suscita en Allemagne une multitude de commentaires dans les milieux journalistiques et scientifiques) (8) positionna les Etats-Unis dans le rôle de l'héritier, mais un héritier qui apparaissait plus agressif encore que le de cujus.  Alors que s'annonçait (ou avait déjà commencé) le choc avec les Etats-Unis, en 1942-1943, plusieurs auteurs allemands se mirent à étudier ce nouvel impérialisme et leurs con-clusions ressemblent à s'y méprendre aux analyses marxistes qui furent ultérieurement publiées sur les Etats-Unis. Dans son ouvrage Imperium Americanum  (9), paru en 1943, Otto Schäfer relate "l'extension de la sphère de puissance des Etats-Unis" depuis le refoulement de l'Angleterre, la guerre contre l'Espagne, l'acquisition du Canal de Panama, le contrôle des Caraïbes jusqu'à la péné-tra-tion du Canada et de l'Amérique latine. Et Schäfer illustrait son propos par un bilan statistique de la politique américaine d'investissements à l'étranger.

Helmut Rumpf, spécialiste de droit public, décrivait en 1942, dans son livre Die zweite Eroberung Ibero-Amerikas  (= "La deuxième conquête de l'Amérique ibérique") (10), la mise au pas et le pillage économique du Mexique et de l'Amérique centrale par les USA.

Albert Kolb (11), enfin, se pencha sur les relations avec les Philippines, Hans Römer (12) sur les in-gé-ren-ces américaines dans les guerres civiles d'Amérique centrale, et Wulf Siewert (13), dans Seemacht USA  (= "La puissance maritime des Etats-Unis") sur le développement de la marine américaine sous Roosevelt, qui suscita outre-Atlantique un enthousiasme proche de la ferveur qu'avait jadis inspirée en Al-le-magne la flotte de Guillaume II (toutes proportions gardées, car la US Navy  devait connaître des len-demains plus heureux que la flotte impériale allemande). L'idée maîtresse de cette abondante litté-ra-ture, présentant, très souvent un niveau scientifique fort honorable, c'est que la doctrine de Monroe, dé-fen-sive au moment de sa conception et de sa proclamation (1823), puisqu'elle devait défendre le con-ti-nent américain contre toute intervention européenne, était depuis longtemps devenue une doctrine offen-sive autorisant des interventions illimitées dans l'"hémisphère occidental". Il était dès lors dans la logi-que des choses que le publiciste américain Clarence K. Streit (14) finisse par réclamer (en 1939) une fu-sion entre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne et que Walter Lippmann envisage la création d'un super-Etat regrou-pant —sous direction américaine— tous les pays "atlantiques" régis par le capitalisme libéral.

Les Allemands ont sous-estimé les Américains

Un économiste aussi sérieux que Friedrich Lenz (15) affirmait encore en 1942, dans son livre Politik und Rüstung der Vereinigten Staaten  (= "Politique et armement des Etats-Unis"), que la production de guerre aux USA était beaucoup trop lente pour représenter à bref délai une menace pour l'Allemagne. Le capitalisme libéral, que le New Deal n'avait fait qu'égratigner, était incapable, assurait Lenz, d'assumer la directivité qu'implique une politique d'armement. Lenz allait jusqu'à soutenir qu'en 1941, "les USA ne pouvaient aligner que 425 chars lourds". Or, même si les objectifs de production annon-cés par Roosevelt le 6 janvier 1942 (60.000 avions, 35.000 chars et 20.000 tubes de DCA pour 1942, 125.000 avions, 75.000 chars et 35.000 tubes de DCA pour 1943) ne furent jamais atteints, et si le dé-veloppement rapide de l'armée entraîna outre-Atlantique de graves difficultés, les Etats-Unis, en appro-vi-sionnant massivement l'Armée Rouge, n'en apportèrent pas moins aux Allemands la preuve irréfu-table de l'efficacité de leur production guerrière.

Sven Hedin lui-même affirmait: "Aux manœuvres de l'automne 1941, l'armée américaine était équipée de fusils mitrailleurs et de blindés en bois et en carton pâte, exactement comme la Reichswehr d'après 1919". Apès les manœuvres, le général McNair déclarait que "deux divisions seulement sont en état de se battre". Et Sven Hedin ajoutait:

"En 1940, les forces armées ne comptaient que 250.000 hommes. Or, le Victory Program  américain prévoit pour l'assaut contre l'Allemagne un effectif de 6,7 millions d'hommes répartis en 215 divisions. Comment Roosevelt va-t-il les former, les entraîner, les armer pour qu'ils viennent à bout des divisions aguerries de l'Allemagne et de ses alliés?".

Bien sûr, à l'époque, la conquête des richesses russes paraissait acquise pour l'Allemagne et les Japonais allaient de succès en succès. Mais le paradoxe, c'est que cette sous-estimation des Etats-Unis était due à une analyse pertinente de l'échec du New Deal!  L'échec économique et social des Etats-Unis trouva tout simplement un exutoire dans le domaine de l'économie de guerre…

Pourtant, on débattit, sous le Troisième Reich, des conséquences d'une défaite éventuelle de l'Axe face aux Etats-Unis: Friedrich Lenz affirma qu'après l'échec du capitalisme libéral et les succès des Etats to-ta-litaires (parmi lesquels il comptait généreusement l'Union Soviétique bien que celle-ci fût entre-temps passée dans le camp adverse), l'effondrement de ces mêmes Etats entraînerait une régression sans précé-dent dans l'histoire mondiale: "Promettre le rétablissement de la civilisation libérale du XIXème siècle sur les ruines des systèmes totalitaires d'Allemagne, d'Italie et du Japon, et peut-être même de Russie soviétique est une position réactionnaire", et Lenz d'ajouter avec une ironie féroce: "Peut-être Thomas Mann sera-t-il alors le nouveau praeceptor Germaniae  de cette civiliation libérale?".

L'idéal social de "Park Avenue"

L'idée américaine accélère-t-elle ou retarde-t-elle l'histoire? Giselher Wirsing, lui, polémique contre l'entrée en guerre des USA en avançant des arguments sociaux: "Park Avenue va-t-elle diriger le monde? Dans quel but? On a a calculé qu'en 1927, les 4000 familles qui y résidaient, dépensaient un budget annuel gloabal de 280 millions de dollars. Sur ce total, 85 mil-lions ont été dépensés pour entretenir la garde-robe de ces dames et de leurs filles… Pour se nourrir, ces 4000 familles ont dépensé 32 millions de dollars et pour leurs bijoux, 20 millions par an!… Voilà la civilisation pour laquelle il faudrait se battre! Et pour laquelle devront mourir les soldats chinois, indiens, australiens, anglais, sud-africains, canadiens et égyptiens!… Pour quelle liberté? Pour celle de Park Avenue,  celle de drainer les milliards du monde entier. Pour la liberté de profiter de la guerre".

Mais quel ordre une Amérique victorieuse offrirait-elle au monde? Le pronostic le plus séduisant est ce-lui que propose Carl Schmitt dans un article (16) publié dans la revue Das Reich  du 19 avril 1942 et in-titulé Beschleuniger wider Willen oder Problematik der westlichen Hemisphäre  (= "Accélérateur de l'his--toire malgré lui, ou le problème de l'hémisphère occidental"); Schmitt y justifie son pronostic en sou-lignant la propension obligée des Etats-Unis à violer les autres grands-espaces et leur incapacité à créer pour eux-mêmes un grand-espace (Grossraum)  cohérent et circonscrit:

"En essayant de prolonger la puissance maritime et la domination mondiale britanniques, le président des Etats-Unis n'a pas seulement recueilli de cet héritage les parts les plus avantageuses; il s'est ipso facto placé sous la loi qui gouvernait au siècle dernier l'existence politique de l'Empire britannique. L'Angleterre était devenue la gardienne de tous les "hommes malades", à commencer par celui du Bos-pho-re, jusqu'aux maharadjas indiens et aux sultans de toutes sortes. L'Angleterre était un frein au dé-veloppement de l'histoire mondiale… Quand Roosevelt quitta le terrain de l'isolationnisme et de la neutralité, il entra, qu'il le voulût ou non, dans la logique retardatrice et rigidifiante qui fut celle de l'empire mondial britannique".

Carl Schmitt poursuit: "Dans la foulée, le président proclama l'avènement du "siècle américain" afin de coïncider avec la ligne idéologique américaine traditionnelle, tournée théoriquement vers l'avenir et toutes formes d'innovation comme l'avait démontré l'essor spectaculaire des Etats-Unis au XIXème sièc-le. Ici encore, comme à toutes les étapes importantes de l'histoire politique américaine ré-cen-te, on s'enlise dans les contradictions inhérentes à cet hémisphère qui a perdu toute cohésion intérieure. Si Roosevelt, en entrant en guerre, était devenu l'un des grands ralentisseurs de l'histoire mondiale, passe encore; ce serait déjà beaucoup. Mais la vacuité de la décision annihile tout effet authentique. C'est ainsi que s'accomplit le destin de tous ceux qui lancent leur barque dans le maëlström de l'histoire sans que leur intériorité ne soit assurée (ohne Bestimmtheit des inneren Sinnes).  Ce ne sont ni des hommes impulseurs de mouvement, ni de grands retardateurs: ils ne peuvent que finir… accélérateurs malgré eux…".

Les idées de "grand-espace" (17), dont les nationaux-socialistes n'ont pas la paternité mais qu'ils ont récu-pérées pour camoufler et justifier leurs propres ambitions, succombèrent, sur le champ de bataille, à la "pensée globale" des Américains, et des millions d'Allemands, aujourd'hui encore, s'en disent soulagés. Mais ce constat n'infirme en rien la critique qui fut faite jadis, sous Hitler, du capitalisme amé-ricain ni l'idée grandiose de servir la paix en créant de grands-espaces fermés aux interventions de puis-sances géopolitiquement étrangères. On peut même prévoir que les Américains vont devenir les gar-diens de l'ordre ancien, les conservateurs des formes politiques révolues. Dans la perspective d'une éman-cipation européenne qui ne pourra compter, bien évidemment, que sur ses propres forces, il fau-drait distinguer, dans les idées de cette époque, entre ce qui relevait des besoins et de la propagande et ce qui mériterait plus ample approfondissement.

Günther MASCHKE.

(trad. Jean-Louis Pesteil; texte tiré de la revue autrichienne Aula et reproduit dans Orientations avec l'aimable autorisation de l'auteur; adresse d'Aula: AULA-Verlag, Merangasse 13, A-8010 Graz, Autriche)

mardi, 28 avril 2009

An Interview with Dominique Venner

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An Interview with Dominique Venner

 

 

by Michael O'Meara

TRANSLATOR’S NOTE: It’s testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. But everything he writes bears directly on us — “us” here referring not specifically to the anglophone world, but to the European world that exists wherever white men still carry on in any of the old ways.

Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially 20th-century European history. He has played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalionalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the U.S. Civil War, and the two world wars. The universe I’ve discovered in his works is one that reminds me of Ernst von Salomon’s “Die Geächteten” — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in U. S. white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar. -Michael O’Meara

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Although the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an anarch, this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Up until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest, his subsequent discovery of the Gulag and of the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenging a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not only against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Succession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to succeed. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, the true rebels emerged, who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In the “Vanquished,” one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate rebel, Drusilla, who never doubts the justice of his cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage in this age whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. To someone who should gives us cause to reflect. In “The Gulag Archipelago,” he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his attitude and behavior it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed. “He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.” In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original
“Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?”
http://www.jisequanie.com/blogs/index.php?2006/06/18/13-entretien
avec-dominique-venner-comment-peut-on-ne-pas-etre-rebelle

On Venner
“From Nihilism to Tradition”
http://www.theoccidentalquarterly.com/vol4no2/mm-venner.html

lundi, 27 avril 2009

Biribi: les bagnes coloniaux de l'armée française

Biribi : Les bagnes coloniaux de l'armée française

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Présentation de l'éditeur
Biribi, c'est le nom donné à la fin du XIXe siècle aux nombreux bagnes militaires que l'armée française installa en Afrique du Nord pour se débarrasser de ses " mauvais sujets " : on y envoyait les fortes têtes, les indisciplinés, les condamnés des conseils de guerre, les jeunes qui sortaient de prison, mais aussi parfois les opposants politiques, les homosexuels ou les faibles d'esprit. Ce livre retrace, pour la première fois, l'histoire tragique de ces " corps spéciaux " : compagnies disciplinaires, bataillons d'Afrique ou ateliers de travaux publics. Il décrit le sort terrible réservé aux milliers d'hommes qui y furent envoyés, les brimades, les sévices, parfois les tortures infligées par des sous-officiers indignes, le travail harassant sous un soleil de plomb, la violence des relations entre hommes dans ce qui était considéré comme les bas-fonds de l'armée. Mais il montre aussi comment le courage de quelques-uns, condamnés, médecins, militants ou journalistes comme Albert Londres, contribua à faire peu à peu prendre conscience au pays de l'horreur quotidienne vécue dans ces camps disciplinaires. Les derniers " corps spéciaux " de l'armée française furent supprimés au début des années 1970.

Dominique Kalifa,
Biribi : Les bagnes coloniaux de l'armée française, Perrin, 2009.
Commande possible sur Amazon.fr.

dimanche, 26 avril 2009

Furet/Nolte: fascisme et communisme

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Archives de "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1997

 

Furet & Nolte : fascisme et communisme

 

 

Chez Plon est paru Fascisme et communisme de François Furet et Ernst Nolte. Voici un extrait de la présentation: «Cet essai, qui réunit huit lettres échangées entre François Furet et l'historien allemand Ernst Nolte, constitue une sorte de prolongement au livre majeur de François Furet, Le passé d'une illusion. En réponse aux pages consacrées par Furet à l'analyse du fascisme et du nazisme chez Nolte, ce dernier entreprit de préciser et de développer une interprétation qui, lors de sa parution voilà dix ans, avait déclenché la plus importante controverse historique de l'après-guerre en Europe. Mais ce texte est davantage qu'une réflexion contradictoire entre deux grands historiens. Il propose une lecture de l'histoire du XXième siècle hors des sentiers battus à partir d'un événement fondateur, la guerre de 1914, et des liens qui unissent les trois "tyrannies" du siècle le fascisme, le nazisme et le communisme. Il s'agit de comprendre et d'expliquer l'étrange fascination que ces mouvements idéologiques et politiques ont exercée tout au long du siècle ». A propos de la liberté de la recherche historique, F. Furet écrit: « Rien n'est pire que de vouloir bloquer la marche du savoir, sous quelque prétexte que ce soit, même avec les meilleures intentions du monde. C'est d'ailleurs une attitude qui n'est pas tenable à la longue, et qui risquerait d'aboutir à des résultats inverses de ceux qu'elle prétend rechercher. C'est pourquoi je partage votre hostilité au traitement législatif ou autoritaire des questions historiques. L'Holocauste fait hélas partie de l'histoire du XXième siècle européen. Il doit d'autant moins faire l'objet d'un interdit préalable que bien des éléments en restent mystérieux et que l'historiographie sur le sujet n'en est qu'à son commencement » (P. MONTHÉLIE).

 

François FURET et Ernst NOLTE, Fascisme et communisme, 1998. 146 pages. 89 FF. Editions Plon.

samedi, 25 avril 2009

Le tyran qui sert de modèle à Obama

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Le tyran qui sert de modèle à Obama

 

par Jan von FLOCKEN

 

Au début de cette année, quand Barack Obama a été officiellement intronisé Président des Etats-Unis, un souffle chargé de symboles flottait sur la cérémonie. La figure d’Abraham Lincoln, président assassiné en 1865, semblait omniprésente. On évoquera en cette année 2009 le 200ème anniversaire de la naissance de ce Lincoln, devenu en quelque sorte l’un des saints patrons de la démocratie occidentale.  Obama ne s’est pas contenté de reproduire le trajet en chemin de fer que fit Lincoln au printemps 1861, partant de Philadelphie, passant par Baltimore pour arriver à Washinghton D.C., à la Maison Blanche. Obama a également insisté pour poser la main, lors de  sa prestation de serment, sur la Bible reliée et recouverte de velours, vieille de 156 ans, que feu “Old Abe”, alias Lincoln, avait utilisée. A la suite de ce serment, Obama a juré, comme le veut la tradition, de “maintenir la Constitution américaine, de la protéger et de la défendre”.

 

Personne n’a autant violé la Constitution que Lincoln...

 

Toute cette démonstration qui cherche à établir un parallèle entre l’homme d’Etat devenu légendaire et le jeune Président, nouvel espoir de l’Amérique, éveille cependant des souvenirs dérangeants voire compromettants, bien que non voulus. En effet, aucun président des Etats-Unis, au cours de ces 220 dernières années, n’a autant violé la Constitution et jugulé les droits fondamentaux des citoyens que Lincoln. Son mandat s’est déployé sous le signe sanglant d’une guerre civile entre Etats du Nord et Etats du Sud. Ces derniers s’étaient séparés de l’Union en 1860-61 et avaient fondé un Etat propre, la Confédération. La Constitution américaine n’interdisait nullement une sécession de ce type car ce n’est qu’en 1868 que la Cour Suprême a énoncé un verdict contraire. Dans un premier temps, les deux parties ont accepté la Sécession. Indice de cette acceptation: Horace Greeley, l’éditeur influent de la “New York Tribune” et ami politique de Lincoln, écrivit dans son journal, en date du 9 novembre 1860: “Nous ne vivrons jamais, espérons-le, au sein d’une République où nous serions contraints de rester à tout jamais par la force des baïonnettes”. 

 

Or ce sont justement les baïonnettes qu’a fait jouer Lincoln peu après son entrée en fonction. Il a saisi rapidement la première occasion venue: en l’occurrence, un échange de coups de feu aux abords de Fort Sumter, appartenant à la Confédération. Cet incident, qui ne fit que quelques blessés légers, servit de prétexte pour une déclaration de guerre de facto contre les Etats du Sud qui prit la forme d’un appel à 75.000 volontaires le 15 avril 1861. Dans la foulée, Lincoln ordonne en plus qu’un embargo commercial soit décrété contre la Confédération esclavagiste. Cet appel et cet embargo constituent deux fautes politiques graves car, immédiatement après leur mise en oeuvre, quatre Etats demeurés neutres, la Virginie, l’Arkansas, la Caroline du Nord et le Tennessee, quittent à leur tour l’Union pour rejoindre la Confédération.

 

Dans l’Etat du Maryland, qui, par tradition, penchait pour la Confédération, mais qui devait rester dans l’Union vu qu’il était proche de la capitale fédérale Washington, la population proteste en masse contre la politique belliciste de Lincoln. Le Président met aussitôt l’Article I/9 de la Constitution hors jeu, alors qu’il est cardinal en tant qu’ “Habeas Corpus Act” qui protège le citoyen contre toute arrestation arbitraire et lui garantit le droit d’être entendu par un juge dans des délais rapides. La capitale du Maryland, Annapolis, et la ville de Baltimore, celle où Barack Obama s’est rendu en voulant suivre les traces de Lincoln, ont été placées à l’époque sous la loi martiale. Le 13 mai 1861, le maire de Baltimore, George W. Brown, le chef de sa police et tous les membres du conseil municipal, ont été arrêtés,  sans qu’il n’y ait justification en droit, et emprisonnés jusqu’à la fin des hostilités en 1865. Parmi ces embastillés, il y avait, ô ironie, le petit-fils de Francis Scott Key, le poète qui avait composé l’hymne national américain, lequel chante les louanges de “ce pays des hommes libres et de ce foyer des braves”.

 

Lorsque le Parlement de l’Etat du Maryland condamna cette incoyable mesure et fustigea l’action illégale et tyrannique du Président des Etats-Unis, Lincoln fit immédiatement arrêter 31  députés qui furent incarcérés pendant trois à six mois sans jugement. Cette action musclée  enfreint clairement l’article additionnel VI de la Constitution, selon lequel tout accusé a droit à un procès immédiat et public devant un jury indépendant. Le président de la Cour Suprême, Roger B. Taney, l’homme devant lequel Lincoln avait officiellement prêté serment sur la Bible, exigea que le Président rende caduques ces arrestations car elles heurtaient trop manifestement les principes de la Constitution. Le Président s’était ainsi arrogé des compétences qui ne sont que du seul ressort du Parlement. A la suite des admonestations de Roger B. Taney, Lincoln lança une directive incitant toutes les autorités publiques à ignorer purement et simplement le jugement rendu par la Cour Suprême, ce qui constitue, bien évidemment, une entorse manifeste à la Constitution (Art. III/1). Un observateur, pourtant favorable à Lincoln, le démocrate allemand Otto von Corvin, correspondant du “Times”, nota, à l’époque, que les gesticulations de Lincoln lui rappellait celles d’un “instituteur de village”.

 

Pendant la guerre civile,  d’autres entorses à la Constitution eurent lieu; ainsi, en juin 1863, lorsque la Virginie fut partiellement occupée par les militaires nordistes, on proclama la naissance d’un Etat fédéral artificiel, la “Virginie occidentale” (“West Virginia”), alors que l’article IV/3 de la Constitution prescrit sans ambiguïté qu’aucun nouvel Etat fédéral ne peut être créé ou établi au départ du territoire d’un autre Etat fédéral. Toutes ces violations anti-démocratiques de la Constitution sont aujourd’hui relativisées sous prétexte que Lincoln a été le libérateur des esclaves  noirs. Or, à l’été 1862, une demie année avant la proclamation officielle de leur libération, le Président avait encore déclaré: “Si je pouvais sauver l’Union, sans avoir à affranchir un seul esclave, je le ferais”. Le maintien de l’Union a finalement coûté la vie à 600.000 personnes. Il reste aux Américains à espérer qu’Obama, à l’avenir, se contentera d’imiter Lincoln dans des cérémonies purement festives. Car n’oublions pas qu’Obama a dit, peu après son entrée en fonction en janvier: “Ma politique consiste à ne pas avoir de politique”. 

 

Jan von FLOCKEN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°16/2009, trad.  franç.: Robert Steuckers). 

vendredi, 24 avril 2009

Drieu on the Failure of the Third Reich

 

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Drieu on the Failure of the Third Reich

 

by Michael O’Meara

TRANSLATOR’S NOTE:  The powers threatening our people became hegemonic in May 1945, when the liberal-Communist coalition known as the “United Nations” imposed its dictatorship on defeated Germany. This dictatorship — whose defining characteristic, East and West, is its techno-economic worship of the Jewish Moloch — was subsequently imposed on the rest of Europe and, in the form of globalization, now holds the whole world in its grip. For white nationalists, the defeat of National Socialist Germany is both the pivotal event of the 20th century and the origin of their own movement. Opposing the powers which are one generation away from exterminating their race, white nationalists resume, in effect, the struggle of the defeated Germans. But they do so not uncritically.

As an idea and a movement, National Socialism (like Fascism) was a product of the late 19th-century political convergence that brought together elements from the revolutionary anti-liberal wing of the labor movement and elements from the revolutionary anti-liberal wing of the nationalist right.  Hitler’s NSDAP was the most imposing historical offshoot of this anti-liberal convergence, but one not always faithful to its origins — which bears on the fact
that Hitler shares at least part of the responsibility for the most devastating defeat ever experienced by the white race. 

It is not enough, then, for the present generation of white nationalists to honor his heroic resistance to the anti-Aryan forces.  Of greater need, it seems to me, is to identify and come to terms with his failings, for these, more than his triumphs, now weigh on our survival as a people.

The following is an excerpt from a piece that Pierre Drieu La Rochelle wrote in the dark days after August 1944, after the so-called “Liberation” of Paris and before the suicide that “saved” him from De Gaulle’s hangman.  It was written in haste, on the run, and never completed, but is nevertheless an illuminating examination of Hitler’s shortcomings (even where incorrect).

The central point of Drieu’s piece (and it should be remembered that he, like many of France’s most talented thinkers and artists, collaborated with the Germans in the hope of creating a new European order) is that Germany alone was no match for the combined powers of the British Empire, the United States, and the Soviet Union.  Only a Europe recast on the basis of National Socialist principles, he believed, could triumph against the Jew inspired coalition.   Hitler’s petty bourgeois nationalism, critiqued here by Drieu, prevented him from mobilizing the various national families of Europe in a common front, proving that his distillation of the anti-liberal project was inadequate to the great tasks facing the white man in this period.

*

From Drieu’s “NOTES SUR L’ALLEMAGNE:” 

I was shocked by the extreme political incompetence of the Germans in 1939, ‘40, and ‘41, after the victories [which made them Europe's master].  It was in this period that their political failings sealed the fate of their future military defeat.

These failings seem even greater than those committed under Napoleon [in the period 1799-1815, when the French had mastered Europe]. The Germans obviously drew none of the lessons from the Napoleonic adventure.

Was German incompetence the incompetence of fascism in general?  This is the question.

The imbecilic maxim guiding Hitler was: “First, wage and win the war; then, reorganize Europe.”  This maxim contradicted all the lessons of history, all the teachings of Europe’s greatest statesmen, particularly those of the Germans, like Frederick and Bismarck.  It was Clausewitz who said war is only the extension of politics.

But even if one accepts Hitler’s maxim, the German dictator committed a number of military mistakes:

1. Why did he wait six months between the Polish campaign and the French campaign?

2. Why did he squander another ten months after the French campaign?

3. Why in late 1940 did he wage a futile aerial assault on England, instead of striking the British Empire at its most accessible point, Gibraltar?

After July 1940 [when no European power opposed him on the continent], he could have crossed Spain, destroyed the [English] naval base at Gibraltar, and closed off the Mediterranean.

The armistice with Pétain [which led to the establishment of the Vichy regime] was [another] German disaster.  If the French had followed [Paul] Reynaud [the last Premier of the Third Republic who advocated continued resistance from France's North African colonies], the Germans would have been forced to do what was [militarily] necessary to win the war.  For once master of Gibraltar, Hitler would have rendered [the English base at] Malta useless, avoided the Italian folly in the Balkans [which doomed Operation Barbarosa in Russia], and assured the possibility of an immediate and relatively uncostly campaign against [English occupied] Egypt.  Rather than bombing London, he should, instead, have seized Alexandria, Cairo, and Suez.  This would have settled the peace in the Balkans, avoiding the exhausting occupations of Greece and Yugoslavia, [it would have cut England off from her overseas empire, and guaranteed Europe's Middle Eastern energy sources].

These military failings followed from Hitler’s total lack of imagination outside of Germany.  He was [essentially] a German politician; good for Germany, but only there.  Lacking political culture, education, and a larger tradition, having never traveled, being a xenophobe like many popular demagogues, he did not possess an understanding of what was necessary to make his strategy and diplomacy work outside Germany.  All his dreams, all his talents, were devoted to winning the war of 1914, as if conditions [in 1940] were still those of 1914. . .  He thus underestimated Russian developments and totally ignored American power, which had already made itself felt in 1914.

He did understand the importance of the tank and the airplane [whose military possibility came into their own after 1918], but not in relationship to the enormous industrial potential of Russia and America. He neglected [the role of] artillery, which was a step back from 1916-1918.  He is least reproachable in his estimation of submarine warfare, whose significance was already evident in the Great War.  But even here, the Anglo-Saxons [i.e., the Anglo-Americans] deployed their maritime genius in a way difficult for a European continental to anticipate.

Hitler’s political errors [, however,]  were far worse and more thorough-going than his military errors.  He hardly comprehended the problem, seeing it in terms of 1914 — in terms of diplomacy, national states, cabinet politics, and [rival] chancelleries.  His understanding of Europe did not even measure up to that of old aristocrats like Bismarck and Wilhelm II, who never forgot the traditions of solidarity that united Europe’s dynasties, courts, and nobilities. . .

It is curious that this man who knew how to inspire the masses in his own country, who always maintained the closest contact with his people, never, not for a second, thought of extending his [successful] German policies to the rest of Europe.  He [simply] did not understand the necessity of forging a policy to address Europe domestically and not just internationally.  Diplomats and ambassadors had lost command of the stage — it was now in the hands of political leaders capable of winning the masses with the kind of social policies that had succeeded in Germany and could succeed elsewhere.

Hitler didn’t understand this.  After his armies invaded Poland, France, and elsewhere, he never thought of implementing the social and political practices that had worked in Germany . . .  He never thought of carrying out policies that would have forged bonds of solidarity between the occupied and the occupiers. . .

These failures lead me to suspect that the Germans’ political stupidity . . . owed something to fascism — that political and social system awkwardly situated between liberal democracy and Communist totalitarianism.

In the fascist system there was something of the “juste milieu” that could not but lead to the Germans’ miserable failure.  [A French term meaning a "golden mean" or a "happy medium," "juste milieu" is historically associated with the moderate centrist politics (or anti-politics) of bourgeois constitutionalists -- first exemplified by France's July Monarchy (1830-48) and subsequently perfected in the American party system].

The Germans have no political tradition.  For centuries, most of them inhabited small principalities or cities where larger political forces had no part to play.  There was, however, Vienna and Berlin.  In these two capitals, politics was the province of a small [aristocratic] caste.  The events of 1918 [i.e., the liberal revolutions that led to the Weimar and Viennese republics] abruptly dislodged this caste, severing its ties from the new governing class.

Everything that has transpired in the last few years suggests that Germany remains what it was in the 18th century . . . a land unable to anchor its warrior virtues in politically sound principles . . .

[Part of this is due to the fact that] the German is no psychologist.  He is too much a theoretician, too intellectually speculative, for that.  He lacks psychology in the way a mathematician or metaphysician does.  German literature is rarely psychological; it develops ideas, not characters.  The sole German psychologist is Nietzsche [and] he was basically one of a kind. . .  Politically, the Germans [like the French] are less subtle and plastic than the English or the Russian, who have the best psychological literature and hence the best diplomacy and politics.

Hitler’s behavior reflected the backward state of German, and beyond that, European attitudes.  This son of an Austrian custom official inherited all the prejudices of his father’s generation (as had Napoleon).  And like every German nationalist of Austrian extraction, he had an unshakable respect for the German Army and the Prussian aristocracy.  Despite everything that disposed him against it, he remained the loyal Reichwehr agent he was in Munich [in 1919]. . . If he subsequently became a member of a socialist party [Anton Drexler's German Workers' Party] — of which he promptly became the leader — it was above all because this party was a nationalist one. Nationalism was always more important to him than socialism — even if his early years should have inclined him to think otherwise . . .

Like Mussolini, Hitler had no heartfelt commitment to socialism.  [Drieu refers here not to the Semitic socialism of Marx, with its materialism, collectivism, and internationalism, but rather to the older European tradition of corporate socialism, which privileges the needs of family, community, and nation over those of the economy] . . . That’s why he so readily sacrificed the [socialist] dynamism of his movement for the sake of what the Wehrmacht aristocracy and the barons of heavy industry were willing to concede.  He thought these alone would suffice in furnishing him with what was needed for his war of European conquest. . .

Fascism failed to organize Europe because it was essentially a system of the “juste milieu” — a system seeking a middle way between communism and capitalism. . .

Fascism failed because it did not become explicitly socialist.  The narrowness of its nationalist base prevented it from becoming a European socialism . . .  Action and reaction: On the one side, the weakness of Hitlerian and Mussolinian socialism prevented it from crossing national borders and becoming a European nationalism; on the other, the narrowness of Mussolinian and Hitlerian nationalism stifled its socialism, reducing it to a form of military statism. . .

Source: Pierre Drieu La Rochelle.  Textes retrouvées.
Paris: Eds. du Rocher, 1992.

mercredi, 22 avril 2009

Il était une fois l'Afrique...

Il était une fois l'Afrique


Dans «Histoire de l'Afrique des origines à nos jours», Bernard Lugan brosse une histoire du continent noir sans hésiter à sortir des sentiers battus. Raconter l'Afrique depuis sa préhistoire, voici plus de douze mille ans, jusqu'à nos jours : telle est l'ambition de ce livre de 1 300 pages qui retrace l'aventure d'un continent méconnu du fait de son extraordinaire complexité. Une performance réalisée par l'africaniste Bernard Lugan. Après avoir évoqué les premiers peuplements de cette région, il développe de manière chronologique les grandes périodes qui ont façonné le visage multiple de l'Afrique, de la civilisation égyptienne à l'islamisation des royaumes berbères du Nord, en passant par le développement des empires africains de l'Ouest (Ghana, Mali, Songhay), les débuts de l'intrusion européenne au début du XVIe siècle, et bien sûr la colonisation et ses conséquences. Ce récit aussi linéaire qu'érudit aurait pu être monotone, mais Lugan, qui a vécu sa jeunesse au Maroc et longtemps travaillé au Rwanda, est un passionné. Il insiste particulièrement sur des épisodes que nous avons quelquefois oubliés. Par exemple l'histoire de ces anciens esclaves noirs revenus vivre en Afrique de l'Ouest au XIXe siècle, au Liberia ou en Sierra Leone. Ou encore la guerre des Boers, au début du XXe, en Afrique australe où l'Angleterre de Cecil Rhodes, fondateur de la Rhodésie, et les Afrikaners du Transvaal se sont combattus : un conflit qui, par sa cruauté - les Anglais créèrent les premiers camps de concentration du siècle -, est comme un prélude aux déchaînements à venir en Europe. Bernard Lugan nous rappelle l'épopée des aventuriers de légende que furent Livingstone et ­Stanley à la recherche des sources du Nil et revient très longuement sur la tragédie de l'esclavage. L'auteur, qui enseigne depuis vingt ans l'histoire de l'Afrique, ne cache rien de ses partis pris. Opposé à toute forme de repentance historique, tout en étant plus que critique à l'égard de l'impérialisme, il considère que la colonisation, si elle a bouleversé la vie de ce continent, n'a été qu'une parenthèse : « La période coloniale, qui débute véritablement après la conférence de Berlin, organisée par Bismarck, et s'achève dans les années 1960, représente la durée de vie d'un homme. Ce n'est qu'un bref éclair dans la longue histoire africaine, et c'est pourquoi il est faux de lui attribuer tous les malheurs de ce continent. » À ses yeux, le modèle d'une relation réussie entre Européens et colonisés fut le protectorat de Lyautey au Maroc, parce qu'il était respectueux des traditions de ce pays. Son antimodèle fut la colonisation de l'Algérie fondée sur le mépris de la population et l'utopie de l'assimilation. Plus généralement, pour Bernard Lugan, il est absurde de vouloir que l'Afrique nous ressemble au nom d'un universalisme censé être favorisé par la mondialisation. « La colonisation au nom du développement, idée totalement occidentale, a voulu modifier le socle social et familial de l'Afrique. Donc tout a été fait pour développer les villes. Ce qui était insensé. En Europe, la ville ou la cité fait depuis toujours partie de notre réalité. Au sud du Sahara, à l'exception de l'Éthiopie, il n'existait pas de ville. Les exemples de villes africaines précoloniales sans influence arabe ou européenne sont très rares », explique l'universitaire. Pour lui, l'Afrique fascine justement parce qu'elle est « autre », irréductible et foisonnante depuis toujours. Un point de vue évidemment contestable, mais qui mérite le détour, à travers ce livre que l'on peut lire tout à la fois comme un essai et une encyclopédie.

Paul-François Paoli , Le Figaro, 29 janvier 2009

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lundi, 20 avril 2009

Nationalisme allemand 1850-1920

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Nationalisme allemand 1850-1920

 

Le dernier numéro de la Revue d'Allemagne  est consacré au «Nationalisme allemand 1850-1920». Dans sa contribution, L. Dupeux écrit à propos des deux conceptions —la "française et l'"allemande"—  de la nation et du peuple: «...en fait, s'il est bien vrai que les deux conceptions-perceptions sont antagonistes, elles sont durcies et partiellement faussées dans le combat politique et idéologique. En premier lieu, il ne manque pas d'énoncés nuancés, surtout du côté français, mais ils sont souvent biaisés, voire tronqués, pour les besoins de la Cause. Ainsi de la fameuse définition avancée par Renan dans sa conférence en Sorbonne du 11 mars 1882: “Qu'est-ce qu'une Nation?”. L'auteur affirme, certes, et c'est resté célèbre, que l'existence d'une nation est “un plébiscite de tous les jours”; mais il fait aussi référence au passé, au “legs de souvenirs”, presque autant qu'au consentement actuel... En Allemagne, surtout après 1918 il est vrai, on verra des auteurs de premier rang comme Moeller van den Bruck, l'auteur du Droit des Peuples jeunes (1919), mais surtout du fameux Troisième Reich, évoquer la “volonté du peuple à devenir une nation”, solidaire face à l'Etranger, au “monde de Versailles”... Est-il par ailleurs nécessaire de rappeler que le nationalisme historisant existe aussi en France, surtout dans la nouvelle extrême-droite qui émerge après la crise boulangiste et celle de Panama, mais sans être absent au centre ni même toujours, quoi qu'on en dise (ou taise), à gauche? Qu'on songe au nationalisme barrésien, celui de “la terre et (des)morts”, ou au “nationalisme intégral” à références gréco-latines de Maurras; mais que l'on n'ignore pas par ailleurs le “patriotisme” et même le nationalisme “à la 93”  —entre autres— qui parcourt même les rangs communistes à partir de 1935 — non plus que les appels du PCF au “front national”, à l'époque de la Résistance... En vérité, les deux nationalismes, français et allemand, ne font pas que s'opposer: ils se font écho, positif ou négatif, et quand ils sont de la même famille “sociétale”, ils s'empruntent jusqu'au va-et-vient: ainsi dans les années vingt de ce siècle pour l'ultranationalisme d'Ernst Jünger, qui n'est pas sans devoir à Barrès, étant clair que celui-ci doit pas mal à la pensée romantique allemande». Un intéressant numéro avec entre autres des contributions de C. Baechler («Le Reich allemand et les minorités nationales 1871-1918») et de J.-P. Bled («Les Allemands d'Autriche et la question nationale,1850-1918») (P. MONTHÉLIE).

 

La Revue d'Allemagne, Centre d'Etudes Germaniques,  8 rue des Ecrivains, F-67.081 Strasbourg Cedex . Abonnement annuel pour quatre numéros: 260 FF.

lundi, 13 avril 2009

Aux origines de la Croatie militaire

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Aux origines de la Croatie militaire

 

L'éditeur C. Terana, spécialisé dans les rééditions de livres d'histoire militaire, publie La Croatie militaire (1809-1813). Les régiments croates à la Grande Armée  du Commandant P. Boppe, ouvrage paru en 1900 et illustré de six planches en couleurs et d'une carte des “Provinces Illyriennes”. L'auteur nous rappelle les origines de la Croatie militaire: «Après que les Turcs, en 1685, eurent été contraints de le­ver le siège de Vienne et eurent été rejetés en Bosnie, l'empereur Léopold Ier, roi de Hongrie, organisa en 1687 un cordon de régiments frontières pour servir de barrière aux incursions qu'ils pourraient en­core tenter, autant qu'à la propagation de la peste. Ce cordon fut établi sur une longue bande de pays s'étendant du littoral hongrois de l'Adriatique à la Transylvanie et ne dépassant pas la largeur moyenne de huit lieues, c'est à dire une journée de marche. Tout ce territoire fut soustrait à la féodalité seigneu­riale, le souverain en devenant le maître absolu, et fut divisé en dix-sept provinces dites régiments; chaque régiment fut subdivisé en compagnies et celles-ci en familles (...). Cette organisation subsistait au commencement de ce siècle telle qu'elle avait été créée, tant elle s'adaptait aux besoins qui l'avaient fait concevoir, aussi bien qu'aux mœurs et au tempérament des habitants de contrées qui por­taient le nom, justifié dans la réalité, de Confins militaires. Les Croates ayant toujours à se défendre contre les brigands venant de Turquie, vivaient sur un perpétuel qui-vive et étaient constamment ar­més; un fusil, un khangiar, plusieurs pistolets à la ceinture faisaient partie de leur costume, on pourrait presque dire d'eux-mêmes; ils étaient soldats de naissance:l eur groupement en régiments s'imposait donc par la nature même des choses et c'est un peuple organisé militairement que Napoléon devait, en 1809, trouver sur la rive droite de la Save» (P. MONTHÉLIE).

 

P. BOPPE, La Croatie militaire, Editions C. Terana; 31 bd Kellermann, F-75.013 Paris, 268 p., 150 FF.

vendredi, 10 avril 2009

Le crépuscule de Byzance

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Le crépuscule de Byzance

 

Ivan Djuric est un historien serbe qui a quitté la Serbie en l991. Il enseigne actuellement à l'Université de Paris VIII. Il vient de publier chez Maisonneuve et Larose Le crépuscule de Byzance. Il écrit: «Je suis issu d'une école "purement" historique, et c'est ainsi, d'abord en tant qu'historien et seulement ensuite en tant que byzantiniste, que je présente Le crépuscule de Byzance aux lecteurs français. Cette école a été créée en 1906 (date de la naissance de la première chaire universitaire dans les Balkans consacrée aux études byzantinologiques) et depuis lors, sous le nom de l'“École de Belgrade”, elle offre ses propres réponses quant à la compréhension de Byzance. Plus tard, à partir des années 30 de ce siècle, elle sera durablement influencée par l'arrivée de Georges Ostrogorsky (1902-1974) à Belgrade. Ostrogorsky a été mon maître et l'un des grands historiens de notre époque. Selon lui, Byzance a été fondée sur trois éléments: “structure romaine de l'État, culture grecque et foi chrétienne” (...). Ostrogorsky croyait en un caractère "supranational" de cet Etat, il découvrait les débuts de son histoire dans les réformes entreprises par les empereurs Dioclétien et Constantin au cours des premières décennies du IVième siècle, il refusait l'identification simpliste du passé byzantin exclusivement à la destinée du peuple grec pendant le Moyen Age ainsi qu'il était opposé à d'autres identifications réductrices: Byzance et l'orthodoxie, Byzance et les  Slaves, ou bien Byzance et l'Antiquité prolongée. Tout en étant historien, Ostrogorsky, d'origine russe, a été formé par les philosophes et économistes allemands au lendemain de la Grande Guerre. D'où sa préoccupation pour l'idéologie impériale, d'où sa curiosité pour l'histoire économique et sociale, d'où, finalement ses analyses de la féodalité byzantine».

 

Ivan Djuric a subi ensuite l'influence de l'historiographie contemporaine française. La synergie des deux influences lui fait définir le monde byzantin “essentiellement (sans oublier ses dimensions grecque, slave et orthodoxe) comme la Méditerranée largement comprise dont les frontières sont les confins septentrionaux de trois grandes péninsules (Balkans, Apennins, Ibérie), le Proche-Orient et le Maghreb”. Cette vision nous semble un peu trop élastique au regard de la situation actuelle où certains réclament l'association du Maroc ou de la Turquie à la communauté européenne. Et que cela plaise ou non, c'est l'Orthodoxie qui est l'héritière de Byzance.

 

Jean de BUSSAC.

 

Ivan DJURIC, Le crépuscule de Byzance, Editions Maisonneuve et Larose, 1996, 432 pages, 175 FF.

samedi, 28 mars 2009

Le premier royaume des Burgondes

Dorothea WACHTER :

Le premier royaume des Burgondes

 

La Bourgogne ! Il y a une charge véritablement magique dans ce nom mais il suscite également bien de la mélancolie lorsque l’historien, professionnel ou amateur, examine les hauts et les bas de l’histoire burgonde et bourguignonne.

 

La Bourgogne et la Burgondie de jadis sont situées au coeur de l’Europe, en un espace qui devrait leur conférer une grande importance politique. De surcroît, les nombreuses impulsions  culturelles qui ont émané de cette région d’Europe ont contribué à forger le meilleur de l’esprit occidental.

 

La Bourgogne n’est pas seulement le nom d’une riche et belle province de la France actuelle. Elle doit son nom au peuple germanique des Burgondes, qui s’était installé, au départ, dans la dépression formée par la Saône. A l’Ouest, la Bourgogne est surplombée par le plateau calcaire de la Côte d’Or et les monts du Charolais. A l’Est, la “Haute Bourgogne” s’étend jusqu’au Jura et jusqu’à ce plateau central de la région montagneuse du Morvan, qui est située bien plus au nord que le Massif Central. La “Basse Bourgogne” s’avance au nord vers le pays calcaire du Bassin Parisien.

 

La Suisse occidentale actuelle, avec Berne, Fribourg dans l’Üchtland, Lausanne et Genève se trouve sur le sol de l’ancienne Burgondie.

 

En Allemagne, la conscience populaire associe encore et toujours le terme de “Burgund” à une partie du Grand Duché de la fin du moyen âge. Ce territoire est resté partiellement la base de  départ d’un ensemble plus vaste où, du 5ème au 15ème siècle, des entités politiques différentes, de nature et de taille, ont émergé. Toutes portaient le nom de “Burgondie” ou de “Bourgogne”. Seule l’aire culturelle compacte de la Bourgogne actuellement française en a conservé le nom: ces terres furent le noyau du duché médiéval, que je traiterai dans mon livre. C’est là qu’une branche parallèle de la famille royale française exerçait ses prérogatives: les Valois.

 

L’historien et médiéviste néerlandais Huizinga ne fut pas le seul à évoquer “le sort et l’héritage” du duché des Valois, en spéculant sur ce qu’aurait pu devenir la Bourgogne des Grands Ducs. Mais il me semble oiseux d’aborder l’histoire en avançant l’éternelle question empreinte de nostalgie: “Que serait-il advenu, si...?”. Nous ne parlerons donc que fort brièvement des thèses d’Huizinga.

 

Aujourd’hui, un important réseau routier traverse ce pays de transit entre le Rhin, la Saône, la Loire et le Rhône. Dans l’antiquité, la route la plus importante, qu’empruntaient alors bon nombre de peuples, partait de Cabillonum (Châlon) à Augusta Rauracorum (Bâle); César et le chef paysan germanique Arioviste l’ont tous deux empruntée. Les recherches historiques ont également prouvé qu’il y avait en Bourgogne actuelle l’une des plus anciennes voies de communication nord-sud d’Europe, qui partait de la Méditerranée, plus exactement de Masilia (Marseille), longeait le Rhône et passait par Alésia, où, en 52 avant J. C., César l’emporta définitivement sur le chef militaire celte et arverne Vercingétorix. Celui-ci avait tenté d’organiser depuis Bibracte la résistance des peuples celtiques de Gaule contre l’emprise romaine. La prise d’Alésia par César marqua le début de l’occupation définitive des Gaules.

 

Aux paysages différents de l’espace burgonde-bourguignon doit également s’associer un phénomène générateur d’histoire, qui doit susciter en nous un questionnement perpétuel sur la vie et la mort des grands peuples. La tradition bourguignonne est née il y a plus de 1500 ans. On connait bien ses débuts. Il suffit de se replonger dans l’histoire des premières rencontres entre Romains et Germains.

 

Les historiens de l’antiquité évoquent plus de cinq cents ans d’histoire marqués par les mouvements des peuples germaniques et par les confrontations militaires qu’ils ont suscitées. Les derniers siècles de ces mouvements migratoires portent le nom de “migration des peuples” (Völkerwanderungen) en Allemagne et d’ “invasions barbares” chez les héritiers des Gallo-Romains. On pourrait tout aussi bien parler de “migrations germaniques”, car le raid des Huns d’Attila, parti du sud de la Russie pour débouler en Gaule et y être arrêté, n’a jamais été qu’un corps étranger au beau milieu d’un déménagement de peuples exclusivement germaniques.

 

L’époque de ce “déménagement de peuples” peut se subdiviser en trois parties: la première eut lieu entre 260 et 400, la seconde entre 400 et 550 et la dernière de 550 à 700. Au cours de la première phase, la culture germanique subit une transformation; elle se trouvait sous l’influence des provinces romaines. Dans la seconde phase, les influences germaniques orientales dominent,  avec l’apport des Goths. Lors de la dernière phase, c’est une nouvelle culture germanique qui se déploie avec faste et se diffuse en Europe. C’est aussi l’époque du renforcement de l’église dite romaine, ce qui a pour résultat que les dons offerts aux défunts dans les tombes germaniques traditionnelles disparaissent. Nous pouvons considérer que les “migrations des peuples”, à la fin de l’Empire romain, sont l’aboutissement final de mouvements migratoires très anciens, observables dès les premiers balbutiements de la proto-histoire, chez les peuples et tribus d’Europe. Le grand raid des Huns, l’un des plus importants mouvements migratoires d’Eurasie, conserve une importance historique uniquement dans la mesure où il a forcé les Germains à quitter leurs territoires d’origine.

 

Lorsque nous parlons aujourd’hui de Bourgogne, nous songeons, le plus souvent, aux 14ème et 15ème siècles, à cet Age d’Or bourguignon, qui n’a pas été épargné par la lutte entre les puissants de l’heure. Il s’agit alors de la Bourgogne, actuelle région de France, qui ne couvre jamais que la sixième partie de ce que fut la grande Burgondie. Cet espace burgonde comprend certes la Bourgogne actuelle mais aussi et surtout les royaumes médiévaux de Basse Burgondie et de Haute Burgondie, la terre impériale romaine-germanique de “Burgund” ou Arélat, partagé aujourd’hui entre la France et la Suisse. Cet ensemble territorial burgonde, à l’Est de la frontière médiévale de la France (Francie occidentale), a été la matrice d’une culture riche et originale de l’antiquité à l’Age d’Or des Grands Ducs. Les acquis culturels de cet ensemble burgonde ont été capitaux dans la formation politique et culturelle de l’Europe toute entière. Les villes de cet ensemble ont toutes été des centres de culture et de créativité politiques et religieuses.

 

La Provence appartenait  jadis à la “Basse Bourgogne” ou “Basse Burgondie”, qui s’étendait de Mâcon à Marseille. Cette région a joué le rôle capital d’intermédiaire entre les cultures du Sud et du Nord de l’Europe.

 

La Franche-Comté, avec l’ancienne ville impériale romaine-germanique de Besançon  (“Bisanz” en allemand), fut, du point de vue politique et culturel, la porte d’entrée, au nord, de ce royaume de “Basse Burgondie”.

 

A tout cela s’ajoutent, comme nous l’avons déjà dit, les cantons suisses du Valais et du Vaud, avec l’abbaye royale de Saint Maurice d’Agaune, burgonde dès ses origines, et les villes de Genève et de Lausanne, entre le Jura et les Alpes.

 

Malheureusement, l’Arélat, en tant qu’ensemble territorial, n’a jamais trouvé d’assises politiques et ethniques suffisamment solides pour durer et n’a jamais pu devenir une province culturelle burgonde bien établie sur une identité homogène. Il ne reste plus que des coutumes anciennes partagées mais incapables de susciter l’éclosion d’un profil politique durable.

 

L’époque des Ducs de Valois, avec leur Cour et leurs fastes, symboles de leur statut, avec les grandes chasses ducales, leurs fêtes flamboyantes, où parfois des cruautés sans nom étaient perpétrées, a laissé de fort belles traces dans la littérature. Nous y reviendrons. Dans cette introduction, nous préférons évoquer la nécropole de Champmol près de Dijon qui a été construite pour servir de tombeau au Duc Philippe le Hardi (son sarcophage et celui de Jean Sans Peur se trouvent désormais au Musée du Palais des Ducs à Dijon). A Beaune, nous trouvons les peintures flamandes de Roger de la Pasture (van der Weyden) et des frères Van Eyck; nous découvrons les églises romanes et gothiques dont les façades ont été cruellement détruites lors de la Révolution Française mais où se trouvent encore des oeuvres du grand sculpteur Claus Sluter, mort en 1406 à Dijon. Ce sculpteur avait dépassé le style gothique du 14ème et contribué grandement à créer le style du 15ème. De prestigieuses abbayes nous ramènent des siècles en arrière, où une vie active florissait et où le religieux se mêlait étroitement à la politique.

 

Nous sommes plongés dans la confusion quand nous voyons que les termes de “Bourgogne” et de “Burgondie” ont été donnés, à différentes époques, à des pays aussi différents les uns des autres et aux contours fluctuants, qui ont émergé et puis disparu. Nous pouvons considérer que la Bourgogne est une terre de traditions où plus d’un peuple a donné le meilleur de lui-même, pour sa région et pour l’Europe. N’oublions pas, nous, Allemands, les rapports étroits qui ont existé entre les parties orientales du Royaume de Burgondie et l’ancien Empire: Adelaïde (Adelheid), la seconde épouse de l’Empereur Othon I, était la fille du Roi Rodolphe de Burgondie et elle était surnommée “la mère de tous les Rois”.

 

Revenons aux racines les plus anciennes, aux origines réelles de la Bourgogne, chez le peuple des Burgondes, tribu germanique orientale, composée d’hommes et de femmes à la haute stature de type scandinave et que Pline considérait comme parents proches des Vandales. Ils se sont mis en route vers 100 avant J. C., se détachant des autres peuples de la branche nordique de l’ensemble germanique, quittant leur patrie originelle scandinave, en passant par Burgundarholm (l’île de Bornholm), où ils se sont établis brièvement. Ils s’installent ensuite à l’embouchure de l’Oder et, au départ de cette nouvelle patrie, explorent le continent de long en large à la recherche de terres. Les Rugiens de Poméranie ultérieure les chassent; ils bousculent les Vandales et trouvent refuge entre l’Oder et la Vistule, où leur présence est attestée au 2ème siècle de l’ère chrétienne. Dès le début de ce 2ème siècle, ils poursuivent leur migration. Une partie d’entre se serait installée dans le sud de la Russie, sur les côtes de la Mer Noire. La partie demeurée sédentaire fut alors assiégée par des tribus gothiques puis chassée. Elle trouva de nouvelles terres en Lusace. Vers la moitié du 3ème siècle, un parti de Burgondes se meut vers l’Est et subit une cruelle défaite face aux Gépides. Les restes épars de ce parti défait a dû vraisemblement migrer lentement vers le Sud-Est, comme le firent par ailleurs les Goths de Crimée. Le gros de la tribu s’ébranle alors vers l’Ouest et s’installe sur le cours supérieur et moyen du Main, où un conflit l’opposera en 278 aux Alamans. Ils restèrent environ une centaine d’années sédentaires dans la région de Kocher et de Jagst, où ils furent agriculteurs et artisans. Au 4ème siècle, leur territoire s’étend à l’Ouest jusqu’au Rhin et au Sud jusqu’à Schwäbisch Hall.

 

Le Limes romain (dans son ensemble le monument romain le plus impressionnant d’Allemagne) les a empêchés pendant près d’un siècle de poursuivre leurs pérégrinations vers l’Ouest, malgré leurs tentatives de le percer.

 

Les Burgondes n’avaient pas de roi, seulement un “Ancien” disposant de droits sacrés et ayant le statut de grand prêtre: il exerçait son pouvoir fort sur l’ensemble de la tribu. Ce grand prêtre tribal était inamovible à vie et portait le titre de “Sinistus”. Ulfila, l’évêque des Goths, désigne également les prêtres païens de ce terme dans sa traduction en gothique de la Bible. Leurs  voisins alamans devinrent rapidement leurs ennemis les plus obstinés. Les racines de cette inimitié tenace peut s’expliquer par le caractère des deux peuples. Les Burgondes étaient réputés pour leur patience et leur tolérance. L’archéologue Paret, en analysant un grand nombre de découvertes archéologiques, estime prouvé que le caractère des Alamans était plutôt sauvage et farouche, souvent animé par une rage de détruire.

 

Les Burgondes étaient plus prompts à s’entendre avec les Romains car leur caractère était plus paisible, plus patient et souple; ils préféraient commercer et négocier les produits de valeur de  leur artisanat très raffiné. Cette propension à la négociation et la volonté de se frotter à la civilisation, les Romains et les peuples celtiques autochtones mais romanisés de leur future patrie en ont tiré profit. Les Romains ont accepté que les Burgondes, au détriment des Alamans, s’installent de l’Odenwald au Rhin, en partant de leur foyer sur le cours moyen du Main.

 

La patience et la tolérance des Burgondes ont eu des revers: elles leur ont fait perdre très tôt leur indépendance politique et favorisé la dilution de leur identité.

 

Avant la fin du 4ème siècle, des troupes armées de Burgondes atteignent les rives du Rhin. Elles profitent ensuite du passage des Vandales pour traverser le fleuve. A la même époque, le Roi des Wisigoths, Alaric, se trouvait en Italie et avait atteint le faîte de sa puissance, tandis que l’Empire romain avait été profondément ébranlé par des désordres intérieurs et des troubles de toutes sortes. Sans doute pour apaiser les Burgondes en quête de terres, les Romains leur donnèrent des territoires autour de Worms et Mayence et en firent des “foederati”. L’Ancien de la tribu, le Sinistus, perd son statut et se voit remplacer par un Roi, chef d’armée, issu de la lignée des Gibikides. Le premier roi des Burgondes fut en effet un certain Gibich. A l’époque de ce premier roi, les Burgondes semblent déjà avoir adopté le christianisme dans sa version arianiste. Nous reviendrons sur la nature de ce filon du christianisme, qui, apparemment, favorisait la patience et la tolérance fondées sur le raisonnement. La tribu n’embrassa le catholicisme romain que vers 500.

 

Parmi les successeurs de Gibich, il y eut Gundahar qui, pour obtenir de nouvelles terres où se sédentariser, tenta, vers 435, de conquérir la province romaine de Belgica Prima, à laquelle était rattachée toute la région mosellane. Cette tentative se solda par un échec face aux troupes du général romain Aetius. Cette défaite burgonde entraîna l’impossibilité de s’installer dans le pays qui allait plus tard devenir la Lorraine. Celle-ci attira les Alamans et les Francs qui se heurtèrent fréquemment aux Burgondes. Après que la paix fut conclue entre Burgondes et Romains, à la  suite de la tentative avortée de conquérir la Belgica Prima, les Romains rompirent la trêve en favorisant des attaques frisonnes (les Hünen, que l’on ne confondra pas avec les Huns) contre les Burgondes. Lors d’une bataille, dans cette guerre, une armée burgonde toute entière périt au combat, avec toute la lignée de ses rois. Il faut préciser ici que cette tragédie ne constitue nullement la source de l’épopée des Nibelungen. Les Nibelungen n’ont rien à voir avec les Burgondes. L’idée d’associer la tragédie burgonde à l’épopée des Nibelungen vient du fait que des chroniqueurs ont de fait combiné arbitrairement la matière de l’épopée germanique au sort de cette armée burgonde, anéantie en 436. Il n’y a jamais eu de campagne burgonde le long du Danube jusqu’à la Tisza.

 

Les Nibelungen était un tribu franque. Déjà dans la Chanson de Walthari, on parle des “Franci Nebulones”. D’après les recherches les plus récentes, notamment celles de Heinz Ritter-Schaumburg (“Die Nibelungen zogen nordwärts”, Munich, 1981), les “Niflungen” seraient originaires de Neffel près de Zülpich en Rhénanie. De là, ils firent mouvement le long de la Dhün, jusqu’à son confluent avec le Rhin, et de ce confluent vers Dortmund et Soest où ils livrèrent combat aux Hünen frisons (et non pas les Huns), dont le Roi se nommait Attala, Attila ou Atilius et non pas l’Etzel hun de la Chanson des Nibelungen. Les “Niflungen” furent ainsi écrasés au 6ème siècle. La Chanson des Nibelungen a repris cette confusion avec les Burgondes et l’a diffusée à grande échelle, ce qui n’ôte rien, bien entendu, à sa valeur poétique et littéraire. Mais rien d’historique n’atteste cette équation entre les Nibelungen et les Burgondes.

 

Après la défaite des Burgondes face aux Hünen frisons, les restes de la tribu se reconstituèrent et connurent une nouvelle expansion démographique, exerçant une pression constante contre les Romains, auxquels ils réclamaient des terres. Ils forcèrent bientôt Aetius en 443 à accepter un “déménagement”. Les Romains leur cédèrent le pays de Sapaudia, sur les rives gauche et droite du Rhône dans les régions de Grenoble et de Genève, où ils s’installèrent au titre de “hospites”. Le nom de “Sapaudia” est gaulois et signifie “pays des sapins”, du terme celtique “sapaud” signifiant “résineux”. Les forêts qui couvraient à l’époque la Gaule n’étaient pas denses sur de grands territoires et étaient généralement, à quelques exceptions, des forêts de feuillus, et surtout de broussailles avec, éparses, des chênées, comme on en voit encore aujourd’hui en Bourgogne et en Franche-Comté.

 

Du point de vue d’Aetius, le déménagement des Burgondes avait ses raisons stratégiques: protéger le frontière dans la partie méridionale de l’ancien royaume des Suèves. Ensuite, dans le midi de la Gaule, venait de s’installer un peuple germanique oriental. Genève devint ainsi le premier centre important de la nouvelle patrie des Burgondes. Ceux-ci se distinguent des autres peuplades germaniques orientales sur un point majeur: ils n’ont jamais vécu de longues pérégrinations; leur objectif a toujours été la sédentarité. Les Germains orientaux, contrairement aux Germains occidentaux, ont toujours été marqués par un certain nomadisme (surtout les Goths). Exception chez les Germains occidentaux: les Lombards. Ils furent les derniers grands nomades de la famille germanique: ils furent les premiers à débouler à l’embouchure du Danube dans le seconde moitié du 2ème siècle et les derniers à cesser tout mouvement après 550. Leur première installation sédentaire le long de la Waag, ils la doivent aux bonnes relations qu’ils avaient tissées avec les Marcomans. La masse principale des Lombards, fixées à l’époque dans la région de Lauenburg-Lüneburg, suivit en 489 les Germains orientaux en direction de la Basse Autriche, à la recherche de terres. Ils ont alors pratiqué l’agriculture et l’élevage sur des terres fertiles entre les Ostrogoths et les Gépides, d’une part, et les Suèves, d’autre part. Ils demeurèrent longtemps des paysans et des artisans, qui n’avaient nulle envie de servir comme officiers dans les légions romaines. Quand ils constatèrent que les Ostrogoths qui, eux, avaient servi dans ces légions, y avaient perdu énormément de sang et de monde, ils s’ébranlèrent vers le Sud et s’installèrent sur les bonnes terres de la Haute Italie. Paul Warnefried de Cividale, rédacteur de l’Historia Langobardorum, est un Lombard à l’esprit vif et clair, exemple emblématique des talents de son peuple. Selon le germaniste contemporain Goez, les origines de la littérature allemande sont à trouver chez les Lombards, dans leurs cloîtres de la plaine du Pô. Les premiers témoignages de l’art poétique en langue germanique, l’épopée gothique de Hildebrand et Hadubrand, ont été récités et transmis par des Lombards de Haute Italie. Ce sont eux qui ont donné à cette matière poétique un lustre littéraire incontestable. Dans l’éclosion et le développement de la future langue allemande, les Lombards ont été les premiers, affirme le germaniste Bruckner.

 

Ce furent encore les Lombards qui, après la disparition du réseau des voies romaines, ont recréé une nouvelle liaison routière entre leur métropole royale de Pavie et l’ancienne Urbs impériale (Rome): la Via Sancti Petri. Le peuple lombard a été un agent de civilisation, a brillé par l’excellence de sa culture mais son oeuvre a été trop longtemps méconnue: de nombreuses études et travaux académiques du 20ème siècle ont enfin réhabilité ce peuple.

 

Dorothea WACHTER.

(introduction au livre “Die Burgunden. Historische Landschaft – Versunkenes Volk”, Orion-Heimreiter, Kiel, 1986; adaptation française: Elfrieda Popelier).

mardi, 24 mars 2009

The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great

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The Kalash: The Lost Tribe of Alexander the Great

by Aithon

 Ex: http://www.creternity.com/

  When the great hero and general, Alexander, who was as great as the god Apollo and Zeus, left his troops here, he asked them to stay here in this land without changing their beliefs and traditions, their laws and culture until he returned from the battles in the East. This is a story that is told not in a village in Greece but on the the mountainsides of the great Hindu Kush. In this remote area of the northwestern region of Pakistan lives a peculiar tribe, the Kalash. The Kalash proclaim with pride that they are the direct descendents of Alexander the Great. There are many similarities between them and the Hellenes of Alexander the Great’s time. Similarities such as religion, culture, and language reinforce their claims to Hellenic ancestry.

  The Kalash are a polytheistic people, meaning that they believe in many gods. The gods that they believe in are the twelve gods of Ancient Greece which makes them the only people who continue this worship! Gods such as Zeus, the god of gods, Apollo, the god of the sun, and Aphrodite, the goddess of beauty, are such gods that they pay homage to. Shrines which are found in every Kalash village remind us of the religious sanctuaries we would stumble across in Ancient Greece. They serve as houses of worship where prayers and sacrifices are offered. Oracles who played a major role in acting as mediators and spokespeople between the gods and the mortals still hold a position of importance in the social structure of the Kalash. Every question or prayer towards the gods is usually followed by a sacrifice of an animal. It is reminiscent of the sacrifices the Hellenes gave to the gods to assure them a victory over the city of Troy.

  Religions always possess certain traditions and rituals which are observed by their followers. The Kalash practice a ritual that is celebrated on August 6th. This feast day is named the Day of the Transfiguration. It is the day where the grapes are brought out to the god Dionysus to be blessed and to guarantee them of a plentiful crop. This ritual can be traced back to Ancient Greece where it was practiced by the cult of Dionysus who paid their respect to the god of fertility and wine. An active member of the cult of Dionysus was Olympia, mother of Alexander the Great, who is said to have recruited many of her son’s soldiers and who in return practiced it throughout their expedition (Alexandrou, pg. 184).

  The Kalash also live a lifestyle that can be positively compared to that of the Ancient Greeks. Let us start with the observation of their homes. The Kalash are the only people in the East who make and use accessories such as chairs and stools that cannot be found anywhere else in the surrounding regions! Their chairs are decorated with drawings such as the ram’s horns which symbolize the horns that decorated Alexander the Great’s helmet. Battle scenes depicting Greek soldiers are also observed. In the recent archaeological discoveries in Vergina, Greek archaeologists found the exact same replicas as the ones the Kalash use in their homes (National Herald, pg. 7).

As we know, Pakistan is a nation ruled by Islamic law. Under the law of the Koran alcohol consumption is prohibited. When we enter the region of the Kalash we encounter fields that are inhabited by grape vines. The Kalash are the only people who produce and consume wine and indulge themselves in feasts such as for the aforementioned feast of Dionysus. Greeks such as Socrates would participate in wine feasts such as we come across in the Symposium. Their feasts are always followed by songs and dances. The Kalash dance in a cyclical motion and the men usually follow it by loud cries of i-a and i-o which can be traced back to the battle cries let loose by Alexander’s soldiers. There is a saying held by the Pakistanis who state that only the Greeks and the Kalash whistle in such a way (Alexandrou, pg 87).

  In 1896 a British explorer by the name of George Robertson visited the Kalash and did a study on them. He concluded that fifty percent of the Kalash’s language derives from Ancient Greek. Such similarities can be found in their gods’ names. Zeus is called Zeo, Aphrodite is called Frodait, the name Dionysus has kept the same pronounciation. The Kalash have words such as demos meaning city-state and use the word ‘ela’ as an imperative command meaning come here. There was recently a tablet found in a village of the Kalash whose message was in the form of hieroglyphics. When the code was deciphered the message read, “Alexander the Great lives forever” (National Herald, pg.8).

  In this article we have observed similarities between people of the past, the ancient Greeks and people of the present, the Kalash. Through these similarities the Kalash have justified their claim as descendants of Alexander the Great. Ancient Greece and the tales of Alexander the Great were once believed to exist only in history books. However as the article insists, these great legacies live on with the Kalash of the mountainous Hindu Kush.

BIBLIOGRAPHY:
Alexandrou Dimitris N., "Kalash, The Greeks of the Himalayans", Thessaloniki, Greece, 1997

vendredi, 20 mars 2009

La Nouvelle Revue d'Histoire: Vraies et fausses catastrophes

 

Disponible en kiosque !

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Eurasisme et atlantisme: quelques réflexions intemporelles et impertinentes

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Robert STEUCKERS:

Eurasisme et atlantisme: quelques réflexions intemporelles et impertinentes

 

Préface à un ouvrage de Maître Jure Vujic (Zagreb, Croatie)

 

Il y a plusieurs façons de parler de l’idéologie eurasiste, aujourd’hui, après l’effondrement du bloc soviétique et la disparition du Rideau de Fer: 1) en parler comme s’il était un nouvel avatar du soviétisme; 2) en faisant référence aux idéologues russes de l’eurasisme des années 20 et 30, toutes tendances idéologiques confondues; 3) en adoptant, par le truchement d’un eurasisme synthétique, les lignes de force d’une stratégie turco-mongole antérieure, qui deviendrait ainsi alliée à la spécificité russe; un tel eurasisme est finalement une variante du pantouranisme ou du panturquisme; 4) faire de l’idéologie eurasiste le travestissement d’un traditionalisme révolutionnaire, reposant in fine sur la figure mythique du “Prêtre Jean”, évoquée par René Guénon; cet eurasisme-là prendrait appui sur deux pôles religieux: l’orthodoxie russe et certains linéaments de l’islam centre-asiatique, mêlant soufisme et chiisme, voire des éléments islamisés du chamanisme d’Asie centrale. Ces quatre interprétations de l’eurasisme sont certes séduisantes sur le plan intellectuel, sont, de fait, des continents à explorer pour les historiens qui focalisent leurs recherches sur l’histoire des idées, mais d’un point de vue realpolitisch européen, elles laissent le géopolitologue, le stratège et le militaire sur leur faim.

 

L’eurasisme, dans notre optique, relève bien plutôt d’un concept géographique et stratégique: il tient compte de la leçon de John Halford Mackinder qui, en 1904, constatait que l’espace centre-asiatique, alors dominé par la Russie des Tsars, était inaccessible à la puissance maritime anglaise, constituait, à terme, un môle de puissance hostile aux “rimlands”, donc, du point de vue britannique, une menace permanente sur l’Inde. L’eurasisme des géopolitologues rationnels, s’inscrivant dans le sillage de John Halford Mackinder, n’est pas tant, dans les premières expressions de la pensée géopolitique, l’antipode d’un atlantisme, mais l’antipode d’une puissance maritime centrée sur l’Océan Indien et possédant le sous-continent indien. Si l’Angleterre est, dès l’époque élisabéthaine, une puissance nord-atlantique en passe de conquérir toute l’Amérique du Nord, au faîte de sa gloire victorienne, elle est essentiellement une thalassocratie maîtresse de l’Océan Indien. La clef de voûte de son empire est l’Inde, qui surplombe un “arc” de puissance dont les assises se situent en Afrique australe et en Australie et dont les points d’appui insulaires sont les Seychelles, l’Ile Maurice et Diego Garcia.

 

Le premier couple de concepts antagonistes en géopolitique n’est donc pas le dualisme eurasisme/atlantisme mais le dualisme eurasisme/indisme. L’atlantisme ne surviendra qu’ultérieurement avec la guerre hispano-américaine de 1898, avec le développement de la flotte de guerre américaine sous l’impulsion de l’Amiral Alfred Thayer Mahan, avec l’intervention des Etats-Unis dans la première guerre mondiale, avec le ressac graduel de l’Angleterre dans les années 20 et 30 et, enfin, avec l’indépendance indienne et la relative neutralisation de l’Océan Indien. Qui ne durera, finalement, que jusqu’aux trois Guerres du Golfe (1980-1988, 1991, 2003) et à l’intervention occidentale en Afghanistan suite aux “attentats” de New York de septembre  2001.

 

Route de la Soie et “Greater Middle East”

 

Avec l’indépendance des anciennes républiques musulmanes de l’ex-URSS, la Russie cesse paradoxalement d’être une véritable puissance eurasienne, car elle perd les atouts territoriaux de toutes ses conquêtes du XIX° siècle, tout en redécouvrant le punch de l’idéologie eurasiste. Donc la fameuse “Terre du Milieu”, inaccessible aux marines anglo-saxonnes, comprenant le Kazakhastan, le Turkménistan, l’Ouzbékistan, le Tadjikistan et le Kirghizistan, est théoriquement indépendante de toute grande puissance d’Europe ou d’Asie. Un vide de puissance existe ainsi désormais en cette Asie centrale, que convoitent les Etats-Unis, la Chine, l’Iran et la Turquie, au nom de concepts tour à tour anti-russes, panasiatiques, panislamistes ou pantouraniens. Les Etats-Unis parlent tout à la fois, avec Zbigniew Brzezinski, de “Route de la Soie” (“Silk Road”), et, avec d’autres stratégistes, de “Greater Middle East”, comme nouveau débouché potentiel pour une industrie américaine enrayée dans ses exportations en Europe, avec l’émergence d’une UE à 75% autarcique, et en Amérique ibérique avec l’avènement du Mercosur et d’autres regroupements politico-économiques.

 

Vu la population turcophone des anciennes républiques musulmanes d’Asie centrale, cet espace, hautement stratégique, ne partage plus aucune racine, ni culturelle ni linguistique, avec l’Europe ou avec la Russie. Un barrage turcophone et islamisé s’étend de l’Egée à la Muraille de Chine, empêchant le regroupement de puissances à matrice européenne: l’Europe, la Russie, la Perse et l’Inde. La conscience de ce destin raté n’effleure même pas l’immense majorité des Européens, Russes, Perses et Indiens.

 

L’idée-force qui doit, tout à la fois, ressouder l’espace jadis dominé par les Tsars, de Catherine II à Nicolas II, et donner une conscience historique aux peuples européens, ou d’origine européenne, ou aux peuples d’aujourd’hui qui se réfèrent à un passé historique et mythologique européen, est celle d’un eurasisme indo-européanisant. Cet eurasisme trouve son origine dans la geste des vagues successives de cavaliers et de charistes, dites “proto-iraniennes”, parties de l’ouest de l’Ukraine actuelle pour se répandre en Asie centrale entre 1800 et 1550 avant J. C. Deux historiens et cartographes nous aident à comprendre cette dynamique spatiale, à l’aurore de notre histoire: le Britannique Colin McEvedy (1) et le Suisse Jacques Bertin (2).

 

L’aventure  des cavaliers indo-européens dans la steppe centre-asiatique

 

Pour McEvedy, la césure dans le bloc indo-européen initial, dont le foyer primordial se situe en Europe centrale, survient vers 2750 av. J. C. quand le groupe occidental (cultures de Peterborough et de Seine-Oise-Marne) opte pour un mode de vie principalement sédentaire et le groupe oriental, de l’Elbe à la Mer d’Aral, pour un mode de vie semi-nomade, axé sur la domestication du cheval. Bien que la linguistique contemporaine opte pour une classification des langues indo-européennes plus subtile et moins binaire, reposant sur la théorie des ensembles, McEvedy retient, peu ou prou, l’ancienne distinction  entre le groupe “Satem” (oriental: balto-slave, aryen-iranien-avestique, aryen-sanskrit-védique) et le groupe “Centum” (occidental: italique, celtique, germanique), selon le vocable désignant le chiffre “100” dans ces groupes de langues. Pour McEvedy, à cette même époque (-2750), un bloc hittite commence à investir l’Asie Mineure et l’Anatolie; le groupe tokharien, dont la langue est “indo-européenne occidentale”, s’installe en amont du fleuve Syr-Daria, en direction de la “Steppe de la Faim” et à proximité des bassins du Sari-Sou et du Tchou. Récemment, l’archéologie a exhumé des momies appartenant aux ressortissants de ce peuple indo-européen d’Asie centrale et les a baptisées “Momies du Tarim”. A cette époque, les peuples indo-européens orientaux occupent toute l’Ukraine, tout l’espace entre Don et Volga, de même que la “Steppe des Kirghiz”, au nord de la Caspienne et de la Mer d’Aral. De là, ils s’élanceront vers 2250 av. J. C. au delà de l’Aral, tandis que les Tokhariens entrent dans l’actuel Sinkiang chinois et dans le bassin du Tarim, à l’époque assez fertile. La “Terre du Milieu” de John Halford Mackinder a donc été d’abord indo-européenne avant de devenir altaïque et/ou turco-mongole. A partir de 1800 av. J. C., ils font mouvement vers le Sud et pénètrent en Iran, servant d’aristocratie guerrière, cavalière et chariste, à des peuples sémitiques ou élamo-dravidiens. Vers 1575 av. J. C., ils encadrent les Hourrites caucasiens lors de leurs conquêtes au Proche-Orient et en Mésopotamie, pénètrent dans le bassin de l’Indus et dans le Sinkiang et le Gansou.

 

Ces peuples domineront les steppes centre-asiatiques, des Carpathes à la Chine jusqu’à l’arrivée des Huns d’Attila, au IV° siècle de l’ère chrétienne. Cependant, les empires sédentaires et urbanisés du “rimland”, pour reprendre l’expression consacrée, forgée en 1904 par Mackinder, absorberont très tôt le trop plein démographique de ces cavaliers de la steppe: ce seront surtout les Perses, Parthes et Sassanides qui les utiliseront, de même que les Grecs qui auront des mercenaires thraces et scythes et, plus tard, les Romains qui aligneront des cavaliers iazyges, roxolans et sarmates. Cette réserve militaire et aristocratique s’épuisera progressivement; pour Jacques Bertin, l’expansion vers l’Océan Pacifique de ces peuples cavaliers sera contrecarrée  par des bouleversements climatiques et un assèchement graduel de la steppe, ne permettant finalement plus aucune forme, même saisonnière, de sédentarité. A l’Est, le premier noyau mongol apparaît entre 800 et 600 av. J. C., notamment sous la forme de la culture dite “des tombes à dalles”.

 

Le reflux vers l’ouest

 

Les peuples cavaliers refluent alors principalement vers l’Ouest, même si les Yuezhi (on ne connaît plus que leur nom chinois) se heurtent encore aux Mongols et à la Chine des Qin. La pression démographique des Finno-Ougriens (Issédons) et des Arimaspes de l’Altaï et la détérioration générale des conditions climatiques obligent les Scythes à bousculer les Cimmériens d’Ukraine. Quelques éléments, après s’être heurtés aux Zhou chinois, se seraient retrouvés en Indochine, à la suite de ce que les archéologues nomment la “migration pontique”. De 600 à 200 av. J.C., la culture mongole-hunnique des “tombes à dalles” va accroître, graduellement et de manière non spectaculaire, son “ager” initial. Vers –210, les tribus mongoles-hunniques forment une première confédération, celle des Xiongnu, qui font pression sur la Chine mais bloquent définitivement l’expansion des cavaliers indo-européens (Saces). C’est là que commence véritablement l’histoire de l’Asie mongole-hunnique. Vers 175 av. J.C., les Xiongnu dirigés par Mao-Touen, véritables prédécesseurs des Huns, s’emparent, de tout le Gansu, chassent les Yuezhi indo-européens et occupent la Dzoungarie. La vaste région steppique entourant le Lac Balkach cesse d’être dominée par des peuples indo-européens. La Chine intervient et bat la Confédération des Xiongnu, donnant aux empires romain et parthe un répit de quelques centaines d’années.

 

Le potentiel démographique indo-européen des steppes se fonde dans les empires périphériques, ceux du “rimland”: les Sarmates de l’Ouest, connus sous les noms de Roxolans et de Iazyges s’installent en Pannonie et, après un premier choc avec les Légions de l’Urbs, deviendront des “foederati” et introduiront les techniques de la cavalerie dans l’armée romaine et, partant, dans toutes les régions de l’Empire où ils seront casernés. L’épopée arthurienne découlerait ainsi d’une matrice sarmate. Les Alains, ancêtres des Ossètes, entrent en Arménie. Les Yuezhi envahissent l’Inde et y fondent l’Empire Kusana/Kouchan. De l’an 1 à l’an 100, trois blocs  impériaux de matrice indo-européenne se juxtaposent sur le rimland eurasien, face aux peuples hunniques désorganisés par les coups que lui ont porté les armées chinoises de Ban Chao, qui poussent jusqu’en Transoxiane. Nous avons l’Empire romain qui inclut dans ses armées les “foederati” sarmates. Ensuite, l’Empire perse qui absorbe une partie des peuples indo-européens de la steppe centre-asiatique, dont les Scythes, qu’il fixera dans la province du Sistan. Enfin l’Empire kouchan, sous l’impulsion des tribus yuezhi réorganisées, englobe toutes les terres de l’Aral au cours moyen du Gange, l’Afghanistan et le Pakistan actuels et une vaste portion de l’actuel Kazakhstan.

 

Les Huns arrivent dans l’Oural et dans le bassin de la Volga

 

Au cours du II° siècle de l’ère chrétienne, les Xianbei, issus des forêts, deviennent le peuple dominant au nord de la Mandchourie, provoquant, par la pression qu’ils exercent sur leur périphérie occidentale, une bousculade de peuples, disloquant les restes des Xiongnu qui, d’une part, entrent en Chine, et d’autre part, se fixent en Altaï, patrie des futurs peuples turcs (les “Tujue” des chroniques chinoises). Les Huns arrivent dans l’Oural, approchent du bassin de la Volga et entrent ainsi dans les faubourgs immédiats du foyer territorial originel des peuples indo-européens que l’archéologue allemand Lothar Kilian situe du Jutland au Don, les peuples préhistoriques et proto-historiques se mouvant sur de vastes territoires, nomadisme oblige. Thèse qu’adopte également Colin McEvedy.

 

En 285, les derniers Tokhariens font allégeance aux empereurs de Chine. Sassanides zoroastriens et Kouchans bouddhistes s’affrontent, ce qui conduit au morcellement de l’ensemble kouchan et, ipso facto, à la fragilisation de la barrière des Empires contre les irruptions hunniques venues de la steppe. Chahpour II, Empereur perse, affronte les Romains et les restes des Kouchans. L’Empereur Julien meurt en Mésopotamie en 373 face aux armées sassanides. Dans la patrie originelle des peuples hunniques-mongols, les Ruan Ruan bousculent les Xianbei qui refluent vers l’ouest, bousculant les Turcs, ce qui oblige les Huns à franchir la steppe sud-ouralienne et à se heurter en 375 aux Alains et aux Goths. Le glas de l’Empire romain va sonner. Les Huns ne seront arrêtés qu’en Champagne en 451 (Bataille des Champs Catalauniques). Les Kouchans, désormais vassaux des Sassanides, doivent céder du terrain aux Hephtalites hunniques. Les Tokhariens se soumettent aux Gupta d’Inde.

 

D’Urbain II à l’échec de la huitième Croisade

 

La chute de l’Empire romain, les débuts chaotiques de l’ère médiévale signalent un ressac de l’Europe, précisément parce qu’elle a perdu l’Asie centrale, le contact avec la Perse et la Chine. L’émergence de l’islam va accentuer le problème en donnant vie et virulence à la matrice arabique des peuples sémitiques. L’invasion de l’Anatolie byzantine par les Seldjouks au XI° siècle va provoquer une première réaction et enclencher une guerre de près de 900 ans, brièvement interrompue entre la dernière guerre de libération balkanique en 1913 et l’ère de la décolonisation. Le pape Urbain II, dans son discours de Clermont-Ferrand (1095) destiné à galvaniser la noblesse franque pour qu’elle parte en croisade, évoque nettement “l’irruption d’une race étrangère dans la Romania”, prouvant que l’on raisonnait encore en terme de “Romania”, c’est-à-dire d’impérialité romaine, cinq ou six cents ans après la chute de l’Empire romain d’Occident. En 1125, Guillaume de Malmesbury, dans sa “Gesta Regum”, déplore que la “chrétienté”, donc l’Europe, ait été chassée d’Asie et d’Afrique et que, petite en ses dimensions, elle est constamment harcelée par les Sarazins et les Turcs, qui veulent l’avaler toute entière. Les propos de Guillaume de Malmesbury expriment fort bien le sentiment d’encerclement que ressentaient les Européens de son époque, un sentiment qui devrait réémerger aujourd’hui, où les peuples de la périphérie ne cachent pas leur désir de grignoter notre territoire et/ou de l’occuper de l’intérieur par vagues migratoires ininterrompues, en imaginant que notre ressac démographique est définitif et inéluctable.

 

L’épopée des Croisades ne s’achève pas par l’échec total de la huitième croisade, prêchée par Urbain IV en 1263 et où meurt Saint Louis (1270). La chute d’Acre en 1291 met fin aux Etats latins d’Orient: seul ultime sursaut, la prise de Rhodes en 1310, confiée ensuite aux Hospitaliers. Détail intéressant: en 1274, Grégoire X, successeur d’Urbain IV, tentera en vain d’unir les empires du rimland en un front unique: les Mongols de Perse, les Byzantins et les Européens catholiques (3). Les guerres contre les Ottomans à partir du XIV° siècle et le fiasco de Nicopolis en 1396, à la suite de la défaite serbe du Champs des Merles en 1389, sont des guerres assimilables à des croisades. Le XV° siècle ne connaît pas de répit, avec la défaite européenne de Varna en 1444, prélude immédiat de la chute de Constantinople en 1453. Les XVI° et XVII° siècles verront l’affrontement entre l’Espagne d’abord, l’Autriche-Hongrie ensuite, et les Ottomans. La défaite des Turcs devant Vienne en 1683, puis la Paix de Karlowitz en 1699, scellent la fin de l’aventure ottomane et le début de l’expansion européenne. Ou, plus exactement, le début d’une riposte européenne, enfin victorieuse depuis les premiers revers des Saces.

 

Les Portugais contournent l’Afrique et arrivent dans l’Océan Indien

 

Deux réactions ont cependant été déterminantes: d’abord, l’avancée des Russes sur terre, séparant les Tatars de Crimée du gros de la Horde d’Or et du Khanat de Sibir par la conquête du cours de la Volga jusqu’à la Caspienne. Le réveil de la Russie indique le retour d’un peuple indo-européen dans l’espace steppique au sud de l’Oural et un reflux des peuples hunniques et mongols. La Russie poursuivra la conquête jusqu’au Pacifique en deux siècles. Puis reprendra toute l’Asie centrale. Nous avons affaire là au même eurasisme que celui des Proto-Iraniens à l’aurore de notre histoire. Ensuite, deuxième réaction, la conquête portugaise des eaux de l’Atlantique sud et de l’Océan Indien. Elle commence par une maîtrise et une neutralisation du Maroc, d’où disparaissent les Mérinides, remplacés par les Wattasides qui n’ont pas eu les moyens d’empêcher les Portugais de contrôler le littoral marocain. A partir de cette côte, les Portugais exploreront tout le littoral atlantique de l’Afrique avec Cabral et franchiront le Cap de Bonne Espérance avec Vasco de Gama (1498). Les Européens reviennent dans l’Océan Indien et battent la flotte des Mamelouks d’Egypte au large du Goujarat indien. La  dialectique géopolitique de l’époque consiste, peut-on dire, en une alliance de l’eurasisme européanisant des Russes et de l’indisme thalassocratique des Portugais qui prennent un Empire musulman du rimland en tenaille, une empire à cheval sur trois continents: l’Europe, l’Asie et l’Afrique. Le tandem Ottomans-Mamelouks disposait effectivement de fenêtres sur l’Océan Indien, via la Mer Rouge et le Golfe Persique et était en quelque sorte “hybride”, à la fois tellurique, avec ses armées de janissaires dans les Balkans, et thalassocratique par son alliance avec les pirates barbaresques de la côte septentrionale de l’Afrique et avec les flottes arabe et mamelouk de la Mer Rouge. Les Portugais ont donc réussi, à partir de Vasco de Gama à parfaire une manoeuvre d’encerclement maritime du bloc islamique ottoman et mamelouk, puisque les entreprises terrestres que furent les croisades et les expéditions malheureuses de Nicopolis et de Varna avaient échoué face à l’excellence de l’organisation militaire ottomane. Les héritiers d’Henri le Navigateur, génial précurseur du retour des Européens sur les mers du monde, ont réduit à néant, par leur audace, le sentiment d’angoisse des Européens devant l’encerclement dont ils étaient les victimes depuis l’irruption des Seldjouks dans cette partie de la Romania, qui était alors byzantine.

 

L’indisme thalassocratique et l’eurasisme tellurique/continental sont alors alliés, en dépit du fait que les Portugais sont catholiques et honorent le Pape de Rome et que les Russes se proclament les héritiers de Byzance, en tant que “Troisième Rome”, depuis la chute de Constantinople en 1453. Après les succès flamboyants d’Albuquerque entre 1503 et 1515 et la pénétration du Pacifique, les Portugais s’épuiseront, ne bénéficieront plus de l’apport de marins hollandais après le passage des Provinces-Unies des Pays-Bas au calvinisme ou au luthérisme; les Hollandais feront brillamment cavaliers seuls avec leur “Compagnie des Indes Orientales” fondée en 1602, s’empareront de l’Insulinde, deviendront pendant les deux tiers du XVII° une puissance à la fois “indiste” et atlantiste, et même partiellement pacifique vu leurs comptoirs au Japon, mais ne disposant que d’une base métropolitaine bien trop exigüe, ils cèderont graduellement le gros de leurs prérogatives aux Anglais dans l’Océan Indien et autour de l’Australie.

 

Le premier “atlantisme” ibérique: un auxiliaire du dessein “alexandrin”

 

L’atlantisme naît évidemment de la découverte des Amériques par Christophe Colomb en 1492. Mais l’objectif premier des puissances européennes, surtout ibériques, sera d’exploiter les richesses du Nouveau Monde pour parfaire un grand dessein romain et “alexandrin”, revenir en Méditerranée orientale, reprendre pied en Afrique du Nord, libérer Constantinople et ramener l’Anatolie actuelle dans le giron de la “Romania”. Le premier atlantisme ibérique n’est donc que l’auxiliaire d’un eurasisme “croisé” ibérique et catholique, allié à la première offensive de l’eurasisme russe, et portée par un dessein “alexandrin”, qui espère une alliance euro-perse. Une telle alliance aurait reconstitué le barrage des empires contre la steppe turco-hunnique, alors que les empires antérieurs, ceux de l’antiquité, se nourrissaient de l’énergie des cavaliers de la steppe quand ceux-ci étaient indo-européens.

 

L’atlantisme proprement dit, détaché dans un premier temps de tout projet continentaliste eurasien, nait avec l’avènement de la Reine Elisabeth I d’Angleterre. Elle était la fille d’Anne Boleyn, deuxième épouse d’Henri VIII et pion du parti prostestant qui avait réussi  à évincer la Reine Catherine, catholique et espagnole. Après la décollation d’Anne Boleyn, la jeune Elisabeth ne devait pas monter directement sur le trône à la mort de son père: son demi-frère Edouard VI succède à Henri VIII, puis, à la mort prématurée du jeune roi, sa demi-soeur Marie Tudor, fille de Catherine d’Espagne, qui déclenche une virulente réaction catholique, ramenant l’Angleterre, pendant cinq ans dans le giron catholique et l’alliance espagnole (1553-1558). Le décès prématuré de Marie Tudor amène Elisabeth I sur le trône en 1558; elle y restera jusqu’en 1603: motivée partiellement par l’ardent désir de venger sa mère, la nouvelle reine enclenche une réaction anti-catholique extrêmement violente, entraînant une cassure avec le continent qui ne peut être compensée que par une orientation nouvelle, anglicane et protestante, et par une maîtrise de l’Atlantique-Nord, avec la colonisation progressive de la côte atlantique, prenant appui sur la réhabilitation de la piraterie anglaise, hissée au rang de nouvelle noblesse après la disparition de l’ancienne aristocratie et chevalerie anglo-normandes suite à la Guerre des Deux Roses, à la fin du XV° siècle (4).

 

L’expansion anglaise en Amérique du Nord

 

C’est donc une vendetta familiale, un schisme religieux et une réhabilitation de la piraterie qui créeront l’atlantisme, assorti d’une volonté de créer une culture ésotérique différente de l’humanisme continental et catholique. Elle influence toujours, dans la continuité, les linéaments ésotériques de la pensée des élites anglo-saxonnes (5), notamment ceux qui, en sus du puritanisme proprement dit, sous-tendent la théologie politique américaine. Sous le successeur faible d’Elisabeth commence la colonisation de l’Amérique du Nord, par la fondation d’un premier établissement en 1607 à Jamestown. Elle sera complétée par l’annexion des comptoirs hollandais en 1664, dont “Nieuw Amsterdam” qui deviendra New York. L’inclusion du Delaware et des deux Carolines permet l’occupation de tout le littoral atlantique des futurs Etats-Unis. En 1670, l’Angleterre patronne la fondation de l’Hudson  Bay Company qui lui permet de coincer la “Nouvelle-France”, qui s’étend autour de Montréal, entre les Treize colonies et cette portion importante de l’hinterland du futur territoire canadien. Les liens avec l’Angleterre et l’immigration homogène et massive de Nord-Européens font de l’Atlantique-Nord un lac britannique et le socle d’une future puissance pleinement atlantique.

 

L’Angleterre en s’emparant de la totalité du Canada par le Traité de Paris en 1763 consolide sa puissance atlantique. Mais les jeux ne sont pas encore faits: lors de la révolte des “Treize colonies” en 1776, les flottes alliées de la France, de l’Espagne et de la Hollande volent au secours des insurgés américains et délogent les Anglais qui, dans les décennies suivantes, redeviendront une puissance principalement indienne, c’est-à-dire axée sur la maîtrise de l’Océan Indien. A partir du développement de la flotte russe sous Catherine la Grande, la Russie devient une menace pour l’Inde et surtout pour la route maritime qui y mène. Quand le Tsar Paul I propose à Napoléon Bonaparte de marcher de conserve, à travers la steppe, vers l’Inde, source de la puissance anglaise, en bousculant la Perse, Londres focalise toute son attention sur le maintien de son hégémonie sur le sous-continent indien et met en sourdine son ancienne vocation atlantique. C’est le “Grand Jeu”, le “Great Game” disent les historiens anglo-saxons, qui oppose, d’une part, une thalassocratie maîtresse de l’Océan Indien et de la Méditerranée, avec un appendice atlantique, comprenant le Canada comme réserve de matières premières et quelques comptoirs africains sur la route des Indes avant le creusement du Canal de Suez, et, d’autre part, une puissance continentale, tellurique, qui avance lentement vers le Sud et reconquiert la steppe d’Asie centrale sur les peuples turcs qui l’avaient enlevée aux Yuezhi, Saces, Tokhariens et Sarmates. Du coup, la Russie des Tsars devient l’héritière et la vengeresse de ces grands peuples laminés par les invasions hunniques, turques et mongoles. La Russie des Tsars développe donc un eurasisme indo-européanisant et se heurte à une thalassocratie qui a hérité de la stratégie de contournement des Portugais de la fin du XV° et du début du XVI° siècle. Mais cette stratégie de contournement est nouvelle, n’a pas de précédent dans l’histoire, ne s’identifie ni à l’Europe continentale ni à une Romania, disparue mais hissée au rang d’idéal indépassable, ni à un catholicisme qui en exprimerait l’identité sous des oripeaux chrétiens (comme dans le discours d’Urbain II ou le texte de Guillaume de Malmesbury). Le choc de cette thalassocratie et du continentalisme russe va freiner, enrayer et empêcher le parachèvement plein et entier d’un eurasisme indo-européanisant.

 

L’affrontement entre l’Empire continental des Tsars et l’Empire maritime des Britanniques

 

L’affrontement entre la thalassocratie anglaise et le continentalisme russe débute dès les premières conquêtes de Nicolas I, qui règna de 1825 à 1855 et consolida les conquêtes d’Alexandre I dans le Caucase, tout en avançant profondément dans les steppes du Kazakhstan, entre 1846 et 1853. Nicolas I désenclave également la Mer Noire, en fait un lac russe: alarmée, l’Angleterre fait signer une convention internationale en 1841, interdisant le franchissement des détroits pour tout navire de guerre non turc. Elle avait soutenu le Sultan contre le Pacha d’Egypte, Mehmet Ali, appuyé par la France. En 1838, elle s’installe à Aden, position stratégique clef dans l’Océan Indien et à la sortie de la Mer Rouge. C’est le début d’une série de conquêtes territoriales, en réponse aux avancées russes dans le Kazakhstan actuel: sont ainsi absorbés dans l’Empire thalassocratique anglais, le Baloutchistan en 1876 et la Birmanie intérieure en 1886. Pour contrer les Russes au nord de l’Himalaya, une expédition est même lancée en direction du Tibet en 1903.

 

Dans ce contexte, la Guerre de Crimée (1853-1855), suivie du Traité de Paris (1856), revêt une importance toute particulière. L’Angleterre entraîne la France de Napoléon III et le Piémont-Sardaigne dans une guerre en Mer Noire pour soutenir l’Empire ottoman moribond que la Russie s’apprête à absorber. Les intellectuels russes, à la suite de cette guerre perdue, vont cultiver systématiquement une méfiance à l’égard de l’Occident, posé comme libéral, “dégénéré” et “sénescent”, sans pour autant abandonner, dans les cinq dernières décennies du XIX° leur eurasisme indo-européanisant: l’obsession du danger “mongol”, qualifié de “panmongoliste”, demeure intacte (6). L’Orient de ces intellectuels orthodoxes et slavophiles est russe et byzantin, les référents demeurent donc de matrice grecque-chrétienne et européenne. Dans ce contexte, Vladimir Soloviev prophétise une future nouvelle invasion “mongole” en 1894, à laquelle la Russie devra faire face sans pouvoir compter sur un Occident décadent, prêt à trahir son européanité. Neuf ans plus tard, la défaite russe de Tchouchima laisse entrevoir que cette prophétie était juste, du moins partiellement.

 

La thématique du “péril panmongol” dans la littérature russe

 

Gogol, dans deux récits fantastiques, “Le portrait” et “Une terrible vengeance”, aligne des personnages de traîtres, dont l’anti-héros Petromihali, qui infusent dans l’âme russe des  perversités asiatiques et les préparent ainsi à la soumission. Dostoïevski, dans “La légende de l’Antéchrist”, faire dire à son “Grand Inquisiteur” que le Christ, auquel la Russie doit s’identifier jusqu’à accepter le martyre, a eu tort de refuser une “monarchie universelle” à la Gengis Khan ou à la Tamerlan. Satan l’a proposée au Christ, et le “Grand Inquisiteur” qui est une incarnation du Malin sous le déguisement d’un dignitaire de l’Eglise du Fils de Dieu, reproche au Christ, revenu sur Terre et qu’il va juger, d’avoir refusé ce pouvoir absolu, séculier et non spirituel. La Russie doit donc refuser un pouvoir de type asiatique, rester fidèle à ses racines européennes et chrétiennes, c’est-à-dire à une liberté de l’âme, à une liberté intérieure qui se passe de l’Etat ou, du moins, ne le hisse pas au rang d’idole absolue car, sinon, l’humanité entière connaîtra le sort peu enviable de la “fourmilière rassassiée”. La liberté scythe et cosaque, en lutte contre les ténèbres asiatiques, doit prévaloir, se maintenir envers et contre tout, même si elle n’est plus qu’une petite flamme ténue. Plus tard, le “totalitarisme” communiste et les dangers impitoyables du “panmongolisme”, annoncés par Soloviev, fusionneront dans l’esprit de la dissidence, jusqu’à l’oeuvre de Soljénitsyne. Dimitri Merejkovski ira même plus loin: le monde “s’enchinoisera”, l’Europe sombrera dans la veulerie et la léthargie et le monde entier basculera dans un bourbier insondable de médiocrité. “L’enchinoisement”, craint par Merejkovski, peut certes s’interpéréter de multiples manières mais une chose est certaine: il implique un oubli dramatique de l’identité même de l’homme de qualité, en l’occurrence de l’homme russe et européen, oubli qui condamne l’humanité entière à une sortie hors de l’histoire et donc à une plongée dans l’insignifiance et la répétition stérile de modes de comportement figés et stéréotypés. En ce sens, la figure du “Chinois” est métaphorique, tout aussi métaphorique qu’elle le sera chez un Louis-Ferdinand Céline après 1945.

 

Jusqu’à la révolution bolchevique, l’eurasisme russe demeure indo-européanisant: il reste dans la logique de la reconquête de l’espace scythique-sarmate, “proto-iranien” dirait-on de nos jours. La Russie est revenue dans les immensités sibériennes et centre-asiatiques: ce n’est pas pour en être délogée comme en furent délogés les peuples cavaliers, à partir du déploiement de la puissance de la Confédération des Xiongnu. Toutefois cet anti-asiatisme, réel ou métaphorique, et cette volonté d’être européen sur un mode non plus repu, comme les Occidentaux, mais sur un mode énergique et héroïque, ne touche pas l’ensemble de la pensée stratégique russe: au lendemain de la Guerre de Crimée, où le Tsar Nicolas I avait délibérément voulu passer sur le corps de l’Empire Ottoman pour obtenir une “fenêtre” sur la Méditerranée, Konstantin Leontiev suggère une autre stratégie. Il vise une alliance anti-moderne des chrétiens orthodoxes et des musulmans contre le libéralisme et le démocratisme modernes, diffusés par les puissances occidentales. On ne déboulera pas sur les rives de  l’Egée par la violence, en allant soutenir des nationalismes balkaniques ou helléniques  entachés de modernisme occidental, mais en soutenant plutôt la Sublime Porte contre les subversions intérieures qui la minent, de façon à apaiser toutes les tensions  qui  pourraient survenir dans le vaste espace musulman et turcophone fraîchement conquis en Asie centrale et à obtenir des concessions portuaires et navales en Egée et en Méditerranée orientale, tout en annulant les contraintes des traîtés fomentés par l’Angleterre pour bloquer le passage des Détroits. Leontiev suggère dès lors une alliance entre Russes et Ottomans, qui constituerait un bloc de Tradition contre le modernisme occidental. Cette idée, conservatrice, est reprise aujourd’hui par les néo-eurasistes russes.

 

L’idée de Leontiev peut bien sûr se conjuguer à certaines visions de l’anti-mongolisme littéraire, surtout si elle vise, comme ennemi premier, le libéralisme et le positivisme occidentaux, pendants néo-kantiens de l’immobilisme “jaune”, qui engourdissent les âmes. Avec la révolution bolchevique et la rupture avec l’Occident qui s’ensuivit, l’anti-asiatisme va s’estomper et, comme la nouvelle URSS est de facto une synthèse d’Europe et d’Asie, on élaborera, dans un premier temps, “l’idée scythe”. Les “Scythes”, dans cette optique, sont les “Barbares de l’Ouest” dans l’espace russo-sibérien, tandis que les “Barbares de l’Est” sont les cavaliers turco-mongols. On ne spécule plus sur les différences raciales, posées comme fondamentales dans l’eurasisme indo-européanisant, mais sur les points communs de cette civilisation non urbanisée et non bourgeoise, qui abhorre la quiétude et portera l’incendie révolutionnaire dans le monde entier, en balayant toutes les sociétés vermoulues. Du “scythisme”, dont le référent est encore un peuple indo-européen, on passe rapidement à un idéal fusionniste slavo-turc voire slavo-mongol, qui unit dans une même idéologie fantasmagorique tous les peuples de l’URSS, qu’ils soient slaves-scythes ou turco-mongols.

 

Du scythisme des années 20 au néo-eurasisme actuel

 

Jusqu’à l’effondrement de l’Union Soviétique, l’élément slave et scythe reste implicitement dominant. Quand les républiques musulmanes centre-asiatiques de l’éphémère CEI obtiennent une indépendance pleine et entière, la Russie perd tous les glacis conquis par les Tsars de Catherine la Grande à Nicolas II. Le néo-eurasisme est une réaction face à la dislocation d’un bloc qui fut puissant: il cherche à rallier tous ceux qui en ont fait partie au nom d’une nouvelle idéologie partagée et à constituer ainsi un ersatz à l’internationalisme communiste défunt.

 

D’un point de vue eurasiste indo-européanisant, cette position peut se comprendre et s’accepter. Le néo-eurasisme refuse de voir se reconstituer, dans les steppes centre-asiatiques, un môle anti-russe, porté par un nouveau panmongolisme, un pantouranisme, un panislamisme ou une idéologie occidentaliste. L’eurasisme indo-européanisant, le “scythisme” des premières années du bolchevisme et le néo-eurasisme actuel, dont la version propagée par Alexandre Douguine (7) ont pour point commun essentiel de vouloir garder en une seule unité stratégique l’aire maximale d’expansion des peuples indo-européens, en dépit du fait qu’une portion majeure, stratégiquement primordiale, de cette aire soit occupée désormais par des peuples turcophones islamisés, dont le foyer originel se trouve sur le territoire de l’ancienne culture dite des “tombes à dalles” ou dans l’Altaï et dont la direction migratoire traditionnelle, et donc la cible de leurs attaques, porte dans l’autre sens, non plus d’ouest en est, mais d’est en ouest.

 

L’idéologie néo-eurasienne, avec sa volonté de consolider un bloc russo-asiatique, s’exprime essentiellement dans les stratégies élaborées par le Groupe de Changhaï et dans les réponses que celui-ci apporte aux actions américaines sur la masse continentale eurasienne.

 

L’expansion “bi-océanique” des Etats-Unis au XIX° siècle

 

Face à cet eurasisme, qui se conjugue en trois modes (indo-européanisant, scythique et russo-turco-mongol), qu’en est-il exactement de l’atlantisme, posé comme son adversaire essentiel sinon métaphysique? A l’aube du XIX° siècle, les “Treize colonies” américaines, qui ont fraîchement acquis leur indépendance face à l’Angleterre, ne possèdent pas encore un poids suffisant pour s’opposer  aux puissances européennes. Leur premier accroissement territorial vient de l’acquisition de la Louisiane, qui leur donne une plus grande profondeur territoriale sur le continent nord-américain. En Europe, l’effondrement du système napoléonien fait éclore, avec le Traité de Vienne de 1815, qui ménage la France redevenue royale, une “Sainte-Alliance” ou une “Pentarchie” qui est, ipso facto, eurasienne. La “Pentarchie”  s’étend, de fait, de l’Atlantique au Pacifique, puisque la Russie du Tsar Alexandre I en fait partie, en constitue même la masse territoriale la plus importante. On oublie trop souvent que l’Europe a été eurasienne et que l’eurasisme n’est pas une lubie nouvelle, imaginée par des intellectuels en mal d’innovation à la suite de la chute du Mur de Berlin et de la disparition du système soviétique. La Pentarchie, système unifiant l’Europe, n’a pas duré longtemps mais elle a existé et rendu notre sous-continent et la Russie-Sibérie inviolables et invincibles. Elle est par conséquent un modèle à imiter, une situation idéale à restaurer.

 

Face à ce bloc euro-pentarchique, en apparence inexpugnable, les Etats-Unis se sentent minorisés, craignent pour leur subsistance et, par une audace inouïe, leur Président, James Monroe proclame sa célèbre Doctrine en 1823 en imaginant, dans un premier temps, que le monde sera divisé en un “ancien monde” et un “nouveau monde”, dont il s’agira d’interdire l’accès à toutes les puissances de la Pentarchie et à l’Espagne, où elle était intervenue pour rétablir l’ordre (8). La proclamation de la Doctrine de Monroe est un premier grand défi au bloc pentarchique eurasiatique, avant même que les Etats-Unis ne soient devenus une puissance bi-océanique, à la fois atlantique et pacifique. Ils ne possèdent pas encore, en 1823, le Texas, le Nouveau-Mexique, la Californie et l’Alaska. En 1848, suite à la défaite du Mexique, ils deviennent bi-océaniques, ce qui revient à dire qu’ils ne sont pas exclusivement “atlantistes” mais constituent aussi une puissance intervenante dans les immensités du plus grand océan de la planète. Déjà, certains sénateurs envisagent de réorganiser la Chine pour qu’elle devienne le premier débouché des Etats-Unis et de leur industrie naissante. Le Commodore Matthew C. Perry, dès 1853-54, force, sous la menace, le Japon à s’ouvrir au commerce américain: première manifestation musclée d’une volonté claire et nette de dominer le Pacifique, contre les pays riverains du littoral asiatique de ce grand océan. Il faudra attendre la guerre hispano-américaine de 1898 pour que les Etats-Unis s’emparent d’un territoire insulaire face à l’Asie, en l’occurrence les Philippines, pour donner du poids à leurs revendications. Sous la présidence de Théodore (Teddy) Roosevelt, les Etats-Unis jettent les bases, non d’un atlantisme, mais d’un mondialisme offensif. L’instrument de cette politique mondialiste sera la flotte que l’Amiral Alfred Thayer Mahan appelle à constituer pour que les Etats-Unis puissent faire face, avec succès, au reste du monde. En 1912, Homer Lea, officier américain formé à Westpoint mais démis de ses fonctions pour raisons de santé, théorisera, immédiatement après John Halford Mackinder, les règles de l’endiguement de l’Allemagne et de la Russie, avant même que l’alliance anglo-américaine ne soit devenue une réalité.

 

Une thalassocratie pluri-océanique

 

Avec Teddy Roosevelt et avec Mackinder, nous avons affaire, dans la première décennie du XX° siècle à un mondialisme thalassocratique américain, maître depuis 1898 des Caraïbes et de la “Méditerranée américaine”, mais sans aucune présence dans l’Océan Indien, et à une thalassocratie britannique, présente dans l’Atlantique Nord, dans l’Atlantique Sud (où l’Argentine est un de ses débouchés), dans l’Océan Indien et dans le Pacifique Sud. La puissance découle des capacités des marines de guerre et des fameux “dreadnoughts”, mais elle est toujours au moins bi-océanique, sinon pluri-océanique. Les Centraux en 1918 et l’Axe en 1945 perdent la guerre parce qu’ils ne maîtrisent aucune mer, même pas la Méditerranée, la Mer du Nord et les zones chevauchant l’Atlantique Nord et l’Océan Glacial Arctique, puisque Malte, Gibraltar, Chypre et l’Egypte (avec Suez) resteront toujours aux mains des Britanniques et que le trafic maritime des “liberty ships”, en dépit des pertes infligées par les sous-marins allemands, ne sera jamais interrompu entre l’Amérique du Nord et le port soviétique de Mourmansk. La seconde guerre mondiale est une lutte entre, d’une part, les thalassocraties anglo-saxonnes maîtresses des océans et alliées à la puissance eurasiatique soviétique, et, d’autre part, une péninsule européenne riche mais dépourvue d’une réelle puissance navale, alliée à un archipel du Pacifique, surpeuplé et dépourvu de matières premières.

 

Le terme d’atlantisme apparaît lors des accords entre Churchill et Roosevelt, scellés au beau milieu de l’Océan en 1941. En 1945, l’Amérique du Nord et l’Europe occidentale forment un ensemble, qui deviendra l’OTAN, une alliance centrée sur l’Atlantique-Nord, que l’on qualifiera rapidement, dans les écrits polémiques, d’ “atlantisme”. Mais l’Atlantique, en tant qu’espace océanique, est-il si déterminant que cela dans les atouts, multiples et variés, qui confèrent aujourd’hui la puissance aux Etats-Unis? Non. Car, si la puissance de la Russie, des Tsars à la perestroïka, repose, comme l’avait constaté Mackinder en 1904, sur la possession de la “Terre du Milieu”, celle de l’Empire britannique reposait sur la maîtrise complète de l’ “Océan du  Milieu”, l’Océan Indien. En 1947, quand l’Inde accède à l’indépendance mais subit simultanément une partition dramatique, opposant une Inde nouvelle majoritairement hindoue à un Pakistan presque totalement musulman, l’Océan Indien, débarrassé de ses maîtres britanniques épuisés par deux guerres mondiales, entre dans une phase de neutralisation provisoire. Il est alors l’espace du non-alignement. L’Inde de Nehru, clef de voûte géographique de l’ancien arc de puissance britannique (du Cap à Perth), propage une logique politique détachée des blocs issus de la bipolarisation de la Guerre Froide. Dès les années 60, Mohammed Reza Pahlavi, Shah d’Iran, théorise l’idéal d’une “Grande Civilisation” dans l’Océan Indien, tout en multipliant les démarches diplomatiques pacifiantes avec ses voisins, y compris soviétiques. A Washington, on comprend rapidement que la Guerre Froide ne se gagnera pas en Europe, sur un front qui correspond au Rideau de Fer, mais qu’il faut endiguer l’URSS, en renouant avec la Chine, comme le fit le tandem Nixon-Kissinger au début des années 70; en tablant sur les peuples installés le long de la Route de la Soie et en éveillant les forces centrifuges au sein même de l’Union Soviétique, comme l’envisageait Zbigniew Brzezinski; en entraînant l’URSS dans le bourbier afghan; en tablant sur le fanatisme musulman pour lutter contre l’athéisme communiste et pour briser l’alternative locale proposée par le Shah d’Iran, car, en dépit des affrontements irano-américains largement médiatisés depuis la prise d’otages à l’ambassade américaine de Téhéran au début de l’ère khomeyniste, il ne faut pas oublier que la “révolution islamiste” d’Iran a d’abord été une création des services américains, pour briser la politique énergétique du Shah, casser les relations qu’il entretenait avec l’Europe et mettre l’Iran et ses potentialités au “frigo”, le plus longtemps possible. Ces stratégies avaient toutes pour but de revenir dans l’Océan Indien et dans le Golfe Persique. Elles ont contribué à la reconquête de l’Océan Indien et fait des Etats-Unis une puissance désormais tri-océanique.

 

La maîtrise de l’Océan Indien reste la clef de la puissance mondiale

 

La dialectique atlantisme/eurasisme, dont les néo-eurasiens russes actuels font usage dans leurs polémiques anti-américaines, oublie que l’Amérique ne tient pas sa puissance aujourd’hui de sa maîtrise de l’Atlantique, océan pacifié où ne se joue pas l’histoire qui est en train de se faire, mais de son retour offensif dans l’Océan du Milieu. L’abus du vocable “atlantiste” risque de provoquer une sorte d’illusion d’optique et de faire oublier que ce n’est pas la maîtrise des Açores, petit archipel portugais au centre de l’Atlantique, qui a provoqué la désagrégation de l’URSS, puissance eurasienne, mais la maîtrise de Diego Garcia, île au centre de l’Océan Indien, d’où partaient les forteresses volantes qui bombardaient l’Afghanistan et l’Irak. C’est au départ des forces aéronavales massées à Diego Garcia qu’adviendra peut-être le “Greater Middle East”. Si c’est le cas, l’Europe et la Russie seront condamnées à l’isolement, à n’avoir aucune fenêtre sur les espaces où s’est toujours joué, et se joue encore, le destin du monde. 

 

Certes, l’atlantisme est, pour les Européens, une idéologie engourdissante, aussi engourdissante, sinon plus, que “l’enchinoisement”, réel ou métaphorique, dénoncé par Soloviev ou Merejkovski: Danilevski, lui, parlait de l’Occident comme d’un cimetière pour les plus sublimes vertus spirituelles humaines et l’écrivain russe provocateur et contemporain, Edouard Limonov, parle, lui, d’un “Grand Hospice occidental”. Mais ce n’est pas là un problème géopolitique, c’est un problème théologique, métaphysique, philosophique et éthique. Qu’il convient d’aborder avec force et élan. Pour dégager l’humanité des torpeurs et des enlisements du consumérisme.

 

Robert STEUCKERS.

(fait à Forest-Flotzenberg, du 11 au 15 février 2009).

 

Notes:

(1)       Cf. Colin McEVEDY, “The New Penguin Atlas of Ancient History”, Penguin, London, 2nd ed., 2002.

(2)       Cf. Jacques BERTIN, “Atlas historique universel – Panorama de l’histoire du monde”, Minerva, Genève, 1997.

(3)       Robert DELORT (Éd.), “Les croisades”, Seuil, coll. “Points”, 1988.

(4)       Vicente FERNANDEZ & Dionisio A. CUETO, “Los perros de la Reina – Piratas ingleses contra España (s. XVI)”, Almena Ed., Madrid, 2003.

(5)       Frances A. YATES, “Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana”, Einaudi, Torino, 1982.

(6)       Cf. Georges NIVAT, “Vers la fin du mythe russe – Essais sur la culture russe de Gogol à nos jours”, Lausanne, L’Age d’Homme, 1988.

(7)       Cf. Mark J. SEDGWICK, “Contre le monde moderne – Le traditionalisme et l’histoire intellectuelle secrète du XX° siècle”, Ed. Dervy, Paris, 2008.

(8)       Dexter PERKINS, “Storia della Dottrina di Monroe”, Societa Editrice Il Mulino, Bologne, 1960.

 

lundi, 16 mars 2009

Mai 1995: Intervention de R. Steuckers à Milan sur la personnalité de J. Thiriart

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Intervention de Robert Steuckers à Milan sur la personnalité de Jean Thiriart (mai 1995)

 

L'éclatement de la seconde guerre mondiale survient quand Jean Thiriart à 18 ans et qu'il a derrière lui une adolescence militante à l'extrême-gauche. Il vivra la toute première phase de sa vie d'adulte pendant la grande guerre civile européenne. Comme tous les hommes de sa génération, de sa tranche d'âge, il sera, par la force des choses, marqué en profondeur par la propagande européiste de l'Axe, et, plus précisé­ment, par celle que distillait dans l'Europe occupée, la revue berlinoise Signal, éditée par le catholique eu­ropéiste Giselher Wirsing, qui fera une très grande carrière dans la presse démocrate-chrétienne con­ser­vatrice après 1945. Comment cette propagande a-t-elle pu avoir de l'effet sur un garçon venu de l'“autre bord”, du camp anti-fasciste, du camp qui avait défendu les Républicains espagnols pendant la guerre ci­vile de 36-39? Tout simplement parce que le mythe européen des nationaux-socialistes avait remplacé le mythe de l'Internationale prolétarienne, la solidarité entre Européens, prônée par Signal, ne différait pas fondamentalement, à première vue, de la solidarité entre prolétaires marxistes, car le monde extra-eu­ro­péen, à cet époque, ne comptait pas beaucoup dans l'imaginaire politique. Il faudra attendre la guerre du Vietnam, la décolonisation, la fin tragique de Che Guevara et l'idéologie de 68 pour hisser le tiers-mon­disme au rang de mythe de la jeunesse. A cette époque, l'appel à une solidarité internationale en vaut un autre, qu'il soit national-socialiste européen ou marxiste internationaliste.

 

A la différence de l'internationalisme prolétarien de l'extrême-gauche belge d'avant 1940, l'“interna­tio­na­lisme” européiste de Signal replace la solidarité entre les nations dans un cadre plus réduit, un cadre con­tinental, qui, du coup, apparaît plus rapidement réalisable, plus réaliste, plus compatible avec les im­pératifs de la Realpolitik. Plus tard, en lisant les textes de Pierre Drieu La Rochelle, ou en en­tendant force com­mentaires sur son option européiste, le jeune Thiriart acquiert la conviction que, désor­mais, plus au­cu­ne nation européenne ne peut prétendre s'isoler du continent et du monde sans sombrer dans un déclin mi­sérable. Face aux puissances détentrices de grands espaces, telles les Etats-Unis ou l'URSS de Sta­li­ne, les vieilles nations européennes, pauvres en terres, risquent très vite de devenir de véritables “na­tions prolétaires” face aux “nations riches”, clivage bien mis en exergue, dès les années 20, par Moeller van den Bruck, Karl Haushofer, et le fasciste italien Bartollotto.

 

En 1945, cette vision s'effondre avec le IIIième Reich et le partage de Yalta, qui se concrétise rapidement et culmine avec le blocus de Berlin et le coup de Prague en 1948. Thiriart connaît la prison pour collabora­tion. En 1947, il en sort et travaille dans l'entreprise d'optique de son père.

 

En 1952, la lecture d'un ouvrage du journaliste économique Anton Zischka frappe son imagination. Il s'intitule Afrique, complément de l'Europe  et propose une fusion des potentiels européens et africains pour faire pièce aux deux grands, alors que les empires coloniaux sont encore intacts. Au même moment, Adenauer, Schumann et De Gasperi jettent les pre­miers fondements de l'Europe économique en forgeant un instrument, la CECA, la Communauté Européenne du Charbon et de l'Acier. A la suite des accords “Be­ne­lux”, les premières frontières sont sup­primées entre les Pays-Bas, la Belgique et le Luxembourg. Pour les anciens fidèles de l'Axe, du moins ceux dont l'engagement était essentiellement dicté par un euro­péisme inconditionnel, ces ouvertures constituent une vengeance discrète mais réelle de leur idéologie. Mais Dien-Bien-Phu tombe en 1954, au moment où se déclenche la Guerre d'Algérie qui durera jusqu'en 1962, et avant que les premiers troubles du processus d'Indépendance du Congo n'éclatent en 1959. Cette effervescences et cette succession de tragédies jettent les européistes, toutes tendances con­fondues, dans le désarroi et surtout dans un contexte politique nouveau.

 

Thiriart croit pouvoir exploiter le mécontentement des rapatriés et des déçus de l'aventure coloniale, en se servant d'eux comme d'un levier pour mettre à bas le régime en place, accusé d'avoir été réimporté en Europe par les armées américaines et de ne pas se conformer aux intérêts réels de notre continent. Deux struc­tures seront mises sur pied pour encadrer ce mécontentement: le MAC (Mouvement d'Action Ci­vi­que) et le CADBA (Comité d'Action et de Défense des Belges d'Afrique). Après le reclassement des an­ciens colons belges dans de petits boulots en métropole, Thiriart perd une base mais conserve suffi­sam­ment d'éléments dynamiques pour lancer son mouvement «Jeune Europe», qui ne dissimule plus ses ob­jec­tifs: œuvrer sans relâche à l'avènement d'un bloc européen, débarrassé des tutelles américaine et so­vié­tique. Pour atteindre cet objectif, Jeune Europe suggère essentiellement une géopolitique et un “phy­si­que poli­tique”. Avec ces deux batteries d'instruments, l'organisation compte former une élite politique in­sen­sible aux engouements idéologiques circonstantiels, affirmatrice du politique pur.

 

Sur le plan géopolitique, Jeune Europe, surtout Thiriart lui-même, élaborera des scénarii alternatifs, visant à long terme à dégager l'Europe de ses assujettissements. C'est ainsi que l'on a vu Thiriart proposer une alliance entre l'Europe et le monde arabe, afin de chasser la 6ième Flotte américaine de la Méditerranée, à donner aux industries européennes de nouveaux débouchés et à la forteresse Europe une profondeur stratégique afro-méditerranéenne. Ensuite, Thiriart envisage une alliance entre l'Europe et la Chine, afin d'obliger l'URSS à ouvrir un second front et à lâcher du lest en Europe de l'Est. Mais cette idée d'alliance euro-chinoise sera reprise rapidement par les Etats-Unis: en 1971, Kissinger s'en va négocier à Pékin; en 1972, Richard Nixon est dans la capitale chinoise pour normaliser les rapports sino-américains et faire pression sur l'URSS. Surtout parce que les Etats-Unis cherchaient à mieux contrôler à leur profit les mines du Katanga (le Shaba actuel), même contre leurs alliés belges, Thiriart avait sans cesse dénoncé Washington comme l'ennemi principal dans le duopole de Yalta; il ne pouvait admettre le nouveau tandem sino-américain. Dès 1972, Thiriart préconise une alliance URSS/Europe, qui, malgré le duopole de Yalta, était perceptible en filigrane dans ces textes des années 60. Thiriart avait notamment critiqué la formule de Charles De Gaulle («L'Europe jusqu'à l'Oural»), estimant que l'ensemble russo-soviétique ne pouvait pas être morcelé, devait être pensé dans sa totalité, et que, finalement, dans l'histoire, le tracé des Monts Ourals n'avait jamais constitué un obstacle aux invasions hunniques, mongoles, tatars, etc. L'idée d'une «Europe jusqu'à l'Oural» était un bricolage irréaliste. Si l'Europe devait se réconcilier avec l'URSS, elle devait porter ses frontières sur le fleuve Amour, le Détroit de Béring et les rives du Pacifique.

 

Mais durant toute la décennie 70, Thiriart s'est consacré à l'optique, s'est retiré complètement de l'arène politique. Il n'a pu peaufiner sa pensée géopolitique que très lentement. En 1987, cependant, une équipe de journalistes américains de la revue et de la télévision “Plain Truth” (Californie), débarque à Bruxelles et interroge Thiriart sur sa vision de l'Europe. Il développe, au cours de cet interview, une vision très mûre et très claire de l'état géopolitique de notre planète, à la veille de la disparition du Rideau de Fer, du Mur de Berlin et de l'effondrement soviétique. Les Etats-Unis restent l'ennemi principal, mais Thiriart leur suggère un projet viable: abandon de la manie de diaboliser puérilement leurs adversaires, deal en Amérique latine, abandon de la démesure, efforts pour avoir des balances commerciales équilibrées, etc. Thiriart parle un langage très lucide, jette les bases d'une pratique diplomatique raisonnable et éclairée, mais ferme et ré­solue.

samedi, 14 mars 2009

210 jaar Boerenkrijg (1798-2008) - Casus: het Meetjesland

210 jaar Boerenkrijg (1798-2008) - Casus: het Meetjesland

boerenkrijg

 

In 1790 behoorden de Zuidelijke Nederlanden tot het Habsburgse rijk. Het toenmalige revolutionaire Frankrijk streefde naar een militaire campagne om zo in het oosten de Rijn als natuurlijke grens te kunnen bereiken. Met dit doel viel Frankrijk in 1792 de Zuidelijke Nederlanden binnen. Op 6 november 1792 versloeg de Franse generaal Dumouriez de Habsburgers in de Slag bij Jemappes. Zij keerden echter terug en versloegen de Fransen in de Slag bij Neerwinden in maart 1793. Na een Franse tegenaanval, waarbij de Habsburgers het onderspit dolven in de Slag bij Fleurus op 26 juni 1794, werd de Habsburgse keizer definitief uit de Nederlanden verdreven. Vanaf dan kende het conservatieve en katholieke Vlaanderen een revolutionair progressief bewind, dat onder het motto ‘Liberté et Egalité’[1] zou breken met de eeuwenoude maatschappelijke structuren. Het basisstreven was het bekomen van ‘volkssoevereiniteit’, wat in een grondwet vastgelegd werd. Dit moest leiden tot meer rechtsgelijkheid voor het volk (Egalité). De scheiding der machten sloot hierbij aan: in plaats van een absoluut vorst die alle staatsmacht in zich verenigde, verdeelde men die nu over een wetgevende, uitvoerende en rechterlijke macht. Daarnaast streefde men ook naar de vrijheid van het individu (Liberté). Een ander kenmerk van de Franse Revolutie was de ratio, een rationalistische manier van redeneren, waaruit echter een militant anti-klerikalisme voortkwam. Deze moderne filosofieën waren in Vlaanderen echter onbemind. Daarnaast werd Vlaanderen door de Franse bezetter bejegend als een wingewest. Dit hield zware belastingen in, evenals gijzelingen van burgers en opeisingen van trekpaarden, arbeidskrachten, voedsel, … Verder werd de administratie nog op revolutionaire leest geschoeid en het Frans kwam het Nederlands vervangen als enige taal in de administratie[2].

Bij de eerste Franse inval van 1792 wilde de bezetter de Zuid-Nederlandse maatschappij zo weinig mogelijk verstoren en liet er zelfs een zeker zelfbestuur gedijen. Een jaar na de tweede Franse bezetting in 1794 werden de Zuidelijke Nederlanden echter geannexeerd bij de Franse republiek[3]. De Zuidelijke Nederlanden werden ingedeeld in negen departementen, voornamelijk genoemd naar rivieren die er doorheen stroomden. Ieder departement werd opgedeeld in kleinere bestuurseenheden, arrondissementen genaamd. In het Scheldedepartement[4] waren er vier: Gent, Dendermonde, Oudenaarde en Sas-van-Gent[5]. Het Meetjesland, dat wij hier als casus hanteren, behoorde tot dit laatste arrondissement. De bewindvoerders op departementaal en arrondissementeel niveau waren voornamelijk republikeinse Fransen, die geen binding hadden met de lokale bevolking. In 1803 verving Eeklo Sas-van-Gent als hoofdplaats van het noordelijkste arrondissement van het Scheldedepartement. Dit arrondissement omvatte 8 rechterlijke kantons, waaronder 56 municipaliteiten ressorteerden[6].

De arrondissementen werden onderverdeeld in kantons en municipaliteiten. Om als zelfstandige municipaliteit te kunnen fungeren, moest een gemeente minstens 5000 inwoners tellen. Deze laagste bestuurlijke eenheid werd bestuurd door een ‘agent municipal’ en zijn ‘adjoint’. Gemeenten met minder dan 5000 inwoners werden samengevoegd tot kantons. Zo werd bijvoorbeeld Bassevelde samen met Oosteeklo, Lembeke, Sint-Jan-in-Eremo, Sint-Margriete, Kaprijke, Waterland-Oudeman en Watervliet samengevoegd tot het kanton Kaprijke. In iedere municipaliteit werden de ‘agent municipal’ en de ‘adjoint’ jaarlijks verkozen. Eerstgenoemde fungeerde als ambtenaar van de Burgerlijke Stand en lokaal politiecommissaris. De ‘adjoint’ assisteerde hem en verving hem bij afwezigheid. Beiden vertegenwoordigden hun gemeente ook op de kantonnale vergaderingen. De Fransen installeerden ook een regeringscommissaris, die er op moest toezien dat de republikeinse wetten uitgevoerd werden door de kantons. Deze kantoncommissarissen waren meestal uit de streek afkomstig[7]. De oude Ambachten werden dus afgeschaft en de oude parochies werden omgevormd tot gemeenten, die op hun beurt tot kantons samengevoegd werden. In 1800 werd de kantonindeling weer opgedoekt en werden de gemeenten zelfstandig.

Het Meetjesland ligt in het uiterste noordwesten van Oost-Vlaanderen en omvat het gebied van Maldegem in het westen tot Wachtebeke in het oosten, met Eeklo als centrale plaats. Tijdens de Franse belegering van Sluis in 1794 waren er Franse soldaten ingekwartierd in de Meetjeslandse dorpen. Vooral de parochiegeestelijken werden afgeperst door de invallers[8].

De annexatie bij Frankrijk op 1 oktober 1795 bracht een radicale breuk met de instellingen en gebruiken van het Ancien Régime mee. Zo werd de Gregoriaanse kalender vervangen door de Republikeinse kalender met een gans andere tijdsindeling. Een maand bestond voortaan uit drie weken van tien dagen. Tevens werden religieuze feestdagen afgeschaft. Verder was de oplegging van het Frans als officiële taal (die enkel begrepen werd door de toplaag van de bevolking) een doorn in het oog. Ook de godsdienstuitoefening, die het dagelijkse leven sterk bepaalde, werd aan banden gelegd[9]. In 1798 was er de invoering van de conscriptie, waardoor alle mannen tussen 20 en 25 jaar door loting voor 5 jaar ingelijfd konden worden in het Franse leger. In heel het noorden van het Scheldedepartement heerste een anti-republikeinse sfeer[10]. De sluimerende ongenoegens onder de bevolking zouden tot een conservatief-katholieke opstand leiden.

Op 22 oktober 1798 barstte de opstand in het Meetjesland los. De revolte startte om middernacht in het sterk anti-republikeinse Kluizen en verspreidde zich vandaar als een lopend vuurtje naar de omliggende gemeenten in deze volgorde: Ertvelde, Sleidinge, Waarschoot en Eeklo. In al deze plaatsen werd de vrijheidsboom omgehakt, de klokken geluid, alle gemeentelijke en kantonnale documenten verbrand en werden de Franse gezagsdragers verdreven. Met het vernietigen van administratieve dossiers en in het bijzonder de bevolkingsregisters beoogden de brigands vooral dat de Fransen niet meer zouden kunnen nagaan wie er voor de conscriptie in aanmerking kwam. In heel Vlaanderen en ook in het Meetjesland gebruikten de brigands een witte vlag met rood kruis als symbool. Om de strijdlust aan te scherpen was een trommel dan weer onmisbaar. Met hun strijdkreet ‘Voor outer en heerd’ gaven de rebellen aan terug te willen naar de oude, kerkelijke maatschappij van voordien. In Eeklo verdeelde de sterk aangegroeide groep brigands zich in kleinere eenheden om de dorpen in het noorden van het Meetjesland aan te doen. Daarna deed men Oosteeklo aan en arriveerde men om 15 u. te Assenede, alwaar men afgesproken had zich te hergroeperen. Kantoncommissaris Antoine De Neve van Assenede, een overtuigd republikein, wou niet buigen voor de brigands en werd aan de vrijheidsboom op de markt vermoord door de opstandelingen. Daarnaast werd de inboedel van zijn woning kort en klein geslagen. Vanuit Assenede trok een groep naar Philippine - waar onder andere een douanekantoor vernietigd werd - en een andere naar Sas-van-Gent en Axel. Andere groepen hadden vanuit Eeklo ook Ijzendijke en Watervliet ‘bezocht’. In Sint-Laureins deed zich ook een opstootje voor, maar dit was zeer beperkt in vergelijking met de andere gemeenten[11].

De opstand doofde echter even snel als hij was opgelaaid, vanwege het kordate optreden van de Franse overheid. Op 23 oktober 1798 rukten 600 Franse soldaten op richting Waasland - waar ook een opstand gaande was - en Meetjesland om de rebellen te bevechten. Op 25 oktober arriveerden reeds Franse soldaten te Assenede. Vanuit het Leiedepartement[12] en de Bataafse Republiek[13] stroomden eveneens troepen naar het Scheldedepartement in de volgende dagen. Op 3 november 1798 was de opstand in dat departement bedwongen. De Fransen arresteerden gedurende de opstand honderden Meetjeslandse ‘verdachten’. Zij werden opgesloten in Gent. Een burgerlijke commissie moest nagaan wie van hen iets met de opstand te maken had. 442 gearresteerden werden weer vrijgelaten. 42 anderen, die de leeftijd van 20-25 jaar hadden, werden rechtstreeks doorgestuurd naar het inschrijvingsbureau voor de conscrits van het Scheldedepartement. De overblijvende 15 ‘echte’ brigands kwamen voor een militaire rechtbank, die reeds op 8 november 1798 vonniste. Twee Meetjeslandse brigands werden gefusilleerd in het Gravensteen[14].

Onderzoek toonde aan dat vooral in streken met veel huisnijverheid (die op dat moment in een zware crisis zat) veel brigands actief waren. De beroepentellingen kunnen ons nog heel wat leren over de sociale herkomst van de brigands. Men dient hierbij echter rekening te houden met onzorgvuldigheid bij het noteren van deze beroepen. Vaak oefende men immers meerdere beroepen uit in de strijd om het overleven en gaf men er bij een dergelijke telling lukraak een op. Ook gebeurde het dat de bevoegde ambtenaar boudweg een van de beroepen noteerde om er van af te zijn. Aldus is dit een verklaring voor het feit dat men van sommige personen voor dichtbij elkaar liggende jaren vaak diverse beroepen terugvindt. Er kan ook sprake zijn van fouten, zoals bijvoorbeeld een brouwersgast die genoteerd wordt als brouwer, wat geen klein verschil is.

Een probleem met betrekking tot de geschiedschrijving van de Boerenkrijg is de vermenging van feiten en fictie. Er werden de voorbije 200 jaar diverse, ideologisch geladen beeldvormingen over de Boerenkrijg tot stand gebracht. Er waren bijvoorbeeld pogingen dit in te lassen in de geschiedenis van de Vlaamse Beweging. De auteur Hendrik Conscience zorgde zo in het midden van de 19de eeuw met zijn bekende werk De Boerenkrijg voor de foutieve benaming ‘Boerenkrijg’. Het ging immers niet alleen om boeren, maar vooral om dagloners, ambachtslieden, onderwijzers, middenstanders, … In deze eeuw van romantisch nationalisme werden oude historische gebeurtenissen immers vaak opgeklopt tot ware heldenepossen. Naast de katholieke boerenstrijd die Conscience er van maakte, werd dit gebeuren door de herdenkingen van 1898 volledig gemonopoliseerd door de katholieke beweging. Hierin speelde het Davidsfonds een bijzonder belangrijke rol. De katholieken profileerden zich middels deze anti-Franse strijd tegenover de liberalen en de socialisten, die de Franse Revolutie verheerlijkten. Er waren in de 19de eeuw ook nog pogingen om van de Boerenkrijg een Belgisch-nationalistisch gebeuren te maken. In de jaren 1930 raakte de Boerenkrijg dan weer in Vlaams-nationalistisch vaarwater. Het Verdinaso koppelde dit aan zijn Groot-Nederlandse ideaal, terwijl ook het VNV startte met Boerenkrijgherdenkingen. Tijdens de Tweede Wereldoorlog werd de revolte dan weer voorgesteld als een soort nationaal-socialistische strijd avant-la-lettre. Het nationaal-socialisme noemde de Boerenkrijg zelfs een Germaans fenomeen, waarbij deze revolte zich in Vlaanderen gans anders zou voorgedaan hebben dan in Wallonië. Het spreekt vanzelf dat de Boerenkrijg hierdoor na de oorlog zwaar verbrand was[15]. Uiteraard hebben deze verschillende beschouwingen ook hun repercussies voor de populatie in kwestie. Immers, in plaats van de oorspronkelijke, reële doelgroep van conservatieve volksmensen varieerde deze naargelang de ideologie van katholieke boerenhelden over een Belgische volksopstand tot koene strijders voor het vaderland (waarmee afhankelijk van de interpretatie Vlaanderen of Groot-Nederland kon bedoeld worden).

Epiloog.

Op 10 november 1799 verving Napoleon Bonaparte door een staatsgreep het Directoire door de dictatuur van het Consulaat, dat in 1803 overging in het keizerschap[16]. Een concordaat met de paus in 1801 voerde opnieuw de openbare godsdienstbeleving in, waardoor de ondergedoken parochiepriesters hun schuilplaatsen konden verlaten. Dit akkoord tussen Kerk en staat hield echter ook de afschaffing van de vasten, de advent en de kerkelijke feestdagen in[17]. Tevens zouden ook de grenzen der provincies samenvallen met die van de bisdommen en de eed van trouw aan het concordaat tussen de Heilige Stoel en de Franse Republiek werd voortaan door de prefect van het departement afgenomen van de geestelijken[18]. Na de Vrede van Amiens in 1801, die de jarenlange spanningen tussen Frankrijk en Engeland regelde, ontstond in 1802 opnieuw oorlog tussen beide staten. Hiervoor moesten de Meetjeslandse gemeenten opnieuw dienstplichtigen leveren. Daarnaast beroerde vooral de nabijheid van het front de bevolking. Troepen werden aan de Oost-Vlaamse en Zeeuwse kustgebieden van de Westerschelde gestationeerd, o.m. in Oostburg, Oosteeklo, Ertvelde en Bassevelde. In de zomer van 1809 veroverden de Engelsen het eiland Walcheren, wat de spanning alleen maar verhoogde[19].

Na 1810, met de eerste industriële crisis, begon de neergang van het Franse regime. Handel en nijverheid stagneerden en in Spanje dienden de eerste militaire nederlagen zich aan. Soldatenbrieven meldden de publieke opinie de moeilijkheden waar het leger mee te maken had. Na de Franse nederlagen in Rusland en te Leipzig in 1812-1813 verzwakte het regime snel. In de Zuidelijke Nederlanden verloren de Fransen hun greep op het bestuur, de conscriptie en de belastinginning. In februari 1814 bevrijdden de geallieerden onze streken. Na een overgangsperiode tot september 1815 met Willem van Oranje als gouverneur-generaal der Zuidelijke Nederlanden werd het Verenigd Koninkrijk der Nederlanden gesticht. Dit nieuwe bewind zorgde opnieuw voor heel wat onzekerheid: de staatskas was immers leeg, er ontstonden wrijvingen tussen katholieken en protestanten enzovoort. Pas tegen 1820-1821 stabiliseerde het land zich[20].

Vbr. lic. hist. et rer. oec. Filip Martens


[1] ‘Fraternité’ werd pas later toegevoegd.

 

[2] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[3] FRANCOIS (Luc), Politieke geschiedenis van de Franse Tijd en van de periode van het Verenigd Koninkrijk.

[4] Het huidige Oost-Vlaanderen.

[5] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[6] KRAKER (A.M.J., de), ROYEN (H., Van), SMET (M., De), Over den Vier Ambachten 750 jaar Keure. 500 jaar Graaf Jansdijk, Kloosterzande, Duerinck, 1993, pp. 1060.

[7] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[8] DE POTTER (Frans) en BROECKAERT (Jan), De geschiedenis van de gemeenten der provincie Oost-Vlaanderen, 2e r.: Arrondissement Eekloo. 1. Adegem, Assenede, Bassevelde, Boekhoute, Ertvelde, Sint-Jan-In-Eremo, Gent, Annoot-Braeckman, 1870-1872, deel I, pp. 36.

[9] Alle parochiepriesters moesten de ‘eed van haat’ afleggen. Deze luidde als volgt: ‘Ik zweire haet aen het koningsdom aen de regeringsloosheijd, getrouwigheijd aen de republicque en aen de constitutie van het jaer drij‘.

[10] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[11] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[12] Het huidige West-Vlaanderen.

[13] De Franse benaming voor hun satellietstaat Nederland.

[14] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[15] FRANCOIS (Luc) e.a., De Boerenkrijg. Twee eeuwen feiten en fictie, Leuven, Davidsfonds, 1998.

[16] FRANCOIS (Luc), Politieke geschiedenis van de Franse Tijd en van de periode van het Verenigd Koninkrijk.

[17] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[18] KRAKER (A.M.J., de), ROYEN (H., Van), SMET (M., De), Over den Vier Ambachten 750  jaar Keure. 500 jaar Graaf Jansdijk, Kloosterzande, Duerinck, 1993, pp. 1060.

[19] DE VLEESSCHAUWER (Marc), De Boerenkrijg, in: De Twee Ambachten, VI, 1998, 2, pp. 1-89.

[20] FRANCOIS (Luc), Politieke geschiedenis van de Franse Tijd en van de periode van het Verenigd Koninkrijk.

Gentile, un filosofo per l'Italia

Giovanni Gentile (Castelvetrano, 30 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944)

Tratto da CentroStudiLaRuna:

Le prime due lettere, solo le prime due lettere del cognome sono uguali. Ge-ntile e Ge-lmini. Il primo (Giovanni) è un gigante della filosofia e della pedagogia italiana ed è stato un grande ministro della Pubblica Istruzione (1922-24), la seconda (Mariastella) è una giovane ministro che da qualche mese a questa parte sta cercando di metter mano alla riforma della scuola.

Nato in una Sicilia di fine ‘800 che salvo alcune eccezioni poco aveva da aggiungere al mondo (e della quale il filosofo fu critico in un noto volume del ‘18), Gentile divenne collaboratore dell’altro grande neo-idealista Benedetto Croce, dal quale però lo separava una diversa concezione della dialettica e una divergenza fra attività teorica e pratica. Dal 1903 i due lavoreranno insieme a La Critica, nota rivista antipositivistica, e saranno in contatto epistolare per almeno vent’anni. Ad allontanarli definitivamente sarà (soprattutto) il fascismo che, salvo l’interesse suscitato in talune eccellenze, causerà la messa al bando di Gentile per almeno dieci lustri dalla sua morte.

Cosa possono avere in comune un filosofo trapanese del 1875 e un avvocato del profondo Nord di un secolo più giovane se non le iniziali del cognome ed il fatto (certo casuale) di aver occupato lo stesso dicastero peraltro in tempi diversissimi? Sorvoliamo sulla risposta anche se fra i due (non dimentichiamolo) passa un’eternità di storia dell’immagine. Gentile è uno studioso di eccellente qualità, un pilastro del nostro Novecento, Gelmini (per ora) è solo un ministro ad effetto mediatico, uno dei tanti; anni fa venne il turno di Letizia Moratti, molto tempo prima quello di Gui, adesso è arrivato quello di Mariastella da Brescia.

Sarà gloria per un neo-ministro che pare possa contare sul decisionismo del governo Berlusconi? Chi vivrà vedrà anche se i presupposti per un happy end non sono dei migliori. Di Gentile possiamo dire invece che la gloria l’ha avuta eccome, e con essa purtroppo una fine orribile. Il suo è un curriculum sterminato compilato dal giorno in cui discusse la laurea su Rosmini e Gioberti con l’hegeliano Donato Jaja (1897), fino alla morte avvenuta nel pomeriggio del 15 aprile del ’44 (fu tra l’altro presidente della Commissione dei Diciotto per la riforma costituzionale e presidente e socio di cento altri istituti ed associazioni…). Com’è noto il filosofo fu barbaramente ucciso a Firenze, sotto casa, da un gruppetto di gappisti spacciatisi per studenti “colpevole” di essere un fascista fra i più influenti e dunque un nemico. In realtà però di quello Stato di cui sarà servitore fedele il nostro accetterà molto (a volte la sua sarà quasi una debole acquiescenza), ma non tutto. Non il “Concordato” del ’29 e non le leggi razziali di un decennio dopo.

Nel ’43 aderirà anche a Salò ma certo non con uno spirito di rivalsa bensì con quello di chi voleva la concordia e l’unità nazionale (un motivo conduttore peraltro proposto da buon parte della destra italiana anche dopo la fine della guerra).

Gentile, il cui pensiero era maturato prima del fascismo, poteva essere accostato ad un uomo della Destra-storica. Era però un pensatore aperto al futuro ed il teorico di uno Stato corporativo e indiviso. Ed era un uomo che avrebbe dedicato buona parte della sua vita alla cultura; si ricordi dal ’25 al ’43 l’iniziativa dell’Enciclopedia italiana.

I suoi studi di carattere pedagogico (ufficializzatisi a partire dal 1900) tendevano ad esaltare la figura del maestro a scapito del “metodo”. La sua riforma della scuola (scuola elementare obbligatoria per tutti e poi ginnasio-liceo più altri quattro indirizzi diversi), fa percepita dalle opposizioni come conservatrice, selettiva, elitaria e classista, era però una riforma tutt’altro che punitiva per i bambini portatori di deficit sensoriali. A una cosa doveva servire a formare l’italiano del suo tempo, e durò sostanzialmente fino ai fatidici anni Sessanta.

L’uomo-Stato di Gentile era il nemico dell’Italia del furbo e mediocre Giolitti (questo Gentile pensava dell’uomo di Dronero), anzi ne era l’opposto perché il giolittismo con annessi e connessi aveva tradito la storia d’Italia. Gentile era avverso allo spirito di compromesso che animava una certa Italia pre-fascista e non tardò molto a rendersi conto (e ciò avvenne all’inizio degli anni Venti), che il costume parlamentare non avrebbe potuto partorire alcuna seria riforma non solo della politica ma “semplicemente” della scuola.

Il fascismo fu dunque uno strumento grazie al quale l’Italia avrebbe potuto tradurre in realtà la volontà di azione politica. E quando arrivò il suo momento, allorché Mussolini formando il suo primo gabinetto, lo volle come tecnico al dicastero della Pubblica Istruzione, Gentile mise al servizio dello Stato la sua riconosciuta competenza. Egli di formazione liberale si sarebbe iscritto al Pnf proprio nel 1923.

 

Marco Iacona

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vendredi, 13 mars 2009

Falange contra el Opus: la gran contradiccion bajo el franquismo

Falange contra el Opus: la gran contradicción bajo el franquismo

Infokrisis.-Dentro de nuestra iniciativa de recopilar escritos elaborados hace años, hemos encontrado éste, inacabado, que debería haber formado parte de un estudio más amplio sobre la historia de España en el que intentábamos realizar una aproximación a nuestro pasado desde el punto de vista de la doctrina evoliana. Para esta doctrina el elemento central es el reconocimiento de la antítesis de dos fuerzas a las que Evola llama "Luz del Norte" de tipo viril,  guerrero, masculino, solar y de otra la "Luz del Sur" de carácter femenino, telúrico, sacerdotal y lunar. Nos pareció que en el siglo XX, la antítesis desarrollada bajo el franquismo entre la Falange y el Opus Dei respondía con una precisión asombrosa a este esquema interpretativo. Ahora recuperamos el artículo escrito hace 15 años.

 

Estabilizada la España de la postguerra, resuelto el contencioso entre el nazismo y las democracias y aislados del resto del mundo, la vida siguió en nuestro numantino país. Aquella manifestación en la Plaza de Oriente que contestó el aislamiento internacional fue el desfío que lanzó la España vencedora en la guerra civil. "Si ellos tienen ONU, nosotros tenemos dos". El humor de "La Codorniz", conducido por antiguos voluntarios de la "División Azul", humoristas próximos a la Falange y cínicas gentes de derecha, junto al surrealismo cultural, hizo posible aguantar las precariedades de la postguerra.

La España vencida desapareció en el exilio, las cárceles, los silencios y las sentencias de muerte, ejecutadas o no. El maquís representó poco, numérica y efectivamente. La "invasión" del Valle de Arán, fue una gesta apreciada solo para sus protagonistas. España permaneció indiferente. A principios de los sesenta los últimos maquisards fueron cazados como conejos sin que sus muertes merecieran algo más que escuetas notas de prensa en las que inevitablemente se hablaba de "bandoleros" y atracadores. La España republicana estuvo ausente durante 40 años ("Cien años de honradez y 40 de vacaciones", fue la irónica adaptacion del lema del PSOE en la transición) y solo los comunistas, con sus rígidos criterios organizativos, su esquematismo mental y utilizando la estrategia de la hormiga laboriosa consiguieron salir del franquismo con un activo político que, luego, Carrillo se encargó de dilapidar.

Estábamos en 1946. El régimen había sufrido una evolución desde que los militares se alzaran diez años antes apoyados por grupos activistas de derecha y extrema-derecha y con la adquiescencia de un sector de la sociedad y el apoyo de los fascismos internacionales. Mientras la victoria sonrió a las tropas del Eje, Franco, gallego él, apostó sin fanatismo por la alianza germano-italiana. Colocó en el tablero a los 18.000 voluntarios de la División Azul. Y subrayo lo de voluntarios; los he conocido bien y doy fe de que fueron los que quisieron, incluso los que lo hicieron no por idealismo sino para redimir su apellido de pasadas colaboraciones republicanas. Pero Franco se reservó alguna que otra carta. No entró en la guerra. La victoria de las armas aliadas, iniciada a partir del desembarco en el Norte de Africa, hubiera resultado imposible de estar las dos orillas de Gibraltar en manos de un Eje ampliado con España asociada. A partir de ahí todo fue coser y cantar y, por lo demás, los contingentes judíos asilados por España, justificaban el que, en caso de victoria de los aliados, Franco pudiera presentar algún as en la manga.

Venció el bando aliado. Hasta ese momento, Franco había utilizado la retórica imperial de la Falange para dar empaque y tono al régimen. Probablemente él mismo se sintiera atraído por este discurso ampuloso que hundía sus raíces en una parte de nuestra historia. Nadie cuestionaba -solo algunos falangistas- que el partido fundado por José Antonio Primo de Rivera, Ramiro Ledesma y Onésimo Redondo, era el "fascismo español". Si vencía el Eje, la carta de Franco era tener un partido único de características similares al fascismo y al nazismo. Al resultar derrotado, hubo que buscar una ideología de sustitución. Esa fue el nacional-catolicismo; con él la "Luz del Sur" prendió de nuevo en nuestro país.

Las críticas e ironías a las que se ha hecho acredor el franquismo proceden en buena medida de este giro ideológico. "El florido Pensil", el catecismo de Ripalda y los rosarios del Padre Peyton, la censura en manos eclesiales y la mojigatería, eran propias del nacional-catolicismo, no de la Falange. Un somero estudio sobre la Sección Femenina o sobre el carácter de los intelectuales falangistas, los hace muy distantes del espíritu sacerdotal y pacato de sus colegas nacional-católicos. Estos, surgidos del adaptacionismo de la derecha liberal (la CEDA) que, con los años, tras percibir que lo del franquismo iba para largo, se convirtieron en la cuarta fuerza del régimen (tras al falange, el carlismo y el ejército), con pretensiones hegemónicas. Los falangistas fueron recluidos en algunos ministerios arquetípicos y en consonancia con sus ideales sociales. Girón de Velasco instituyó la Seguridad Social y el grueso de la legislación laboral franquista; por más que antiliberales, tales leyes podrían ser hoy reivindicadas por las organizaciones obreras situadas más a la izquierda, en caso de que supieran algo de la historia social de éste país. En cuanto al carlismo, se le encasilló en el Ministerio de Justicia y poco más, a la espera de que se fuera desleyendo como un azucarillo, como así ocurrió. El ejército ya había tenido una guerra (la civil), algunos militares tuvieron dos (la civil y el frente del Este junto con la Wermatch) y los más veteranos, incluso tres (la civil, la División Azul y las anteriores campañas de Africa). Los hubo con cuatro (a las anteriores hubo que añadir la miniguerra del Ifni). Todos ellos querían tranquilidad y disfrutar los galones y condecoraciones ganadas. Los "propagandistas" católicos subieron enteros en el gobierno.

Y así llegamos a los años cincuenta cuando aparecen elementos nuevos. España tenía que salir, no solo del subdesarrollo, sino del hambre secular. Había restricciones eléctricas, racionamiento y carestía, estraperlo; miseria, en definitiva.

Cuando Franco e Eisenhower firman los acuerdos de cooperación, España entra en la recta del desarrollismo y, oh maravilla de maravillas, ni los carlistas, ni la falange, ni los propagandistas, ni mucho menos el ejército, estaban en condiciones de liderar la nueva etapa y facilitar una clase política tecnocrática. Un oscuro grupo, en cambio, sí: el Opus Dei. A partir de ese momento se instaló una contradiccion fundamental en el interior del régimen, entre los sectores de la Falange (no específicamente conservadores, sino dotados de ideales patrióticos y sociales) y el Opus Dei (no necesariamente progresista, sino simplemente tecnócratico). Todos ellos, como los carlistas, propagandistas y militares, eran "franquistas" en el sentido de que el adaptacionismo de Franco, permitió que en unos momentos del régimen se jugara con una alineación y en otros con otra; o incluso que en el mismo tiempo unos peones fueran puestos a trabajar en unas posiciones y otros en otras. Y la cosa duró hasta el último aliento del eufemísticamente llamado "anterior jefe del Estado".

Pero todas estas vivas muestras de pragmatismo, oportunismo de escasos principios, realpolitik y adaptacionismo, no pueden eludir el hecho fundamental, a saber, que entre la Falange y el Opus Dei existió una contradicción metafísica que hacía de ambos, quintaesencias de dos principios opuestos desde la fundación de nuestro país: el elemento guerrero y el sacerdotal, lo solar y lo lunar, lo guerrero y lo sacerdotal, lo viril y lo telúrico, la "Luz del Norte" y la "Luz del Sur", se manifestaron nuevamente e imprimieron carácter a esos años.

Influyente, primero, en la Corte del "anterior jefe de Estado", residual en el decenio de la rosa, el Opus Dei, en el momento de escribir estas líneas, cabalga de nuevo a lomos del centro-derecha [recordar que este artículo se escribió durante la primera legislatura del "aznarato"]. Por lo demás, Juan Pablo I, al buscar apoyos sobre los que reconstruir la Iglesia, tras la desbandada postconciliar, buscó y obtuvo sostén en "Comunión y Liberación" y el "Opus Dei". Agradecido, el polaco, tuvo a bien hacer aquello que iba mucho más allá del surrealismo religioso: intentar llevar a Escribá de Balaguer a los altares. Y uno se pregunta, si los santos de hoy son como son -y en el caso de Escribá, sabemos cómo son- ¿qué podremos pensar de los santos de ayer que, a lo peor, les concedieron tal título por cualquier componenda de baja estofa?.

No vemos gran cosa de santo en el Opus, como no sea la candidez de sus más abnegados miembros. Lo que vemos en el Opus es la quintaesencia acrisolada del Espíritu del Sur, oscuro, sufriente y lunar, telúrico y ginecocrático (a pesar de su misoginia), en la que se entremezclan lo peor del modus operandi masónico, la piedad más beata y, finalmente, los trucos de ilusionismo propios de cualquier espectáculo de "music hall".

Se diría que, con el Opus Dei estamos ante un tipo de espiritualidad femenina químicamente puro, enemigo jurado e irreconciliable de cualquier otra posición y que, a la postre, explica la conflictualidad con la Falange, e incluso con los jesuitas (los "soldados del papa") y otras órdenes religiosas de distinta inspiración. Difícilmente el Opus Dei podría entenderse con los Jesuitas. El hijo de comerciantes que era Escribá estaba espiritual y anímicamente alejado del espíritu militar de los hijos de Ignacio de Loyola y en cuanto a las órdenes mendicantes, Escribá no podía sino despreciarlas. Dios debía ser adorado con pompa, boato y ostentación.

Casi a modo de caricatura, el Opus Dei remite a los aspectos más problemáticos de la "Luz del Sur". Luz lunar, el Opus prefiere el secreto y la clandestinidad a los espacios abiertos y a las claridades solares. Para justificar tal opción gusta hablar de discrección y silencio. La máxima 970 del "Camino" dice: "Es verdad que he llamado a tu apostolado discreto "silenciosa y operativa misión" y no tengo nada que rectificar" y "que pase inadvertida vuestra condición como pasó la de Jesús durante treinta años". Hay otras muchas referencias más en el librito caótico, y en ocasiones delirante, escrito por Escribá; el mismo tema del secreto vuelve a repetirse en las Constituciones de la Obra: "Con el objeto de alcanzar su fin con eficacia, el Instituto como tal quiere vivir oculto"; más adelante especifican "Los miembros numerarios y supernumerarios deben estar convencidos de la necesidad de guardar un prudente silencio acerca del nombre de otros miembros y no revelar a nadie su propia filiación a la obra". En cuanto a las propias Constituciones "no han de divulgarse, ni siquiera han de traducirse a lenguas vulgares".

Junto al secreto, el desprecio por la naturaleza humana que se considera fuente de pecado en sí misma, remite igualmente a la temática propia de la "Luz del Sur", del ser caído, incapaz de superar por sí solo su miseria existencia y al que sólo la Gracia de Dios puede redimir. La Gracia es administrada por el sacerdote que opera en el Opus en forma de director espiritual y al que se le debe sumisión total. Las desafortunadas comparaciones entre el hombre y el borrico (una canción cantada a menudo en centros del Opus dice así "Vas a ser burro de noria, borrico siempre serás") que ya hiciera Lutero cuatro siglos antes ("El alma del hombre es como un asno que puede ser cabalgado por Dios o por el diablo"), el cerco de censuras y prohibiciones al que está sometido el miembro de la Obra (las revistas de información general están prohibidas), la falta de autonomía personal de los miembros que deben consultar cualquier pequeña decisión de sus vidas a su director espiritual al que le deben, no fidelidad, sino sumisión absoluta ("Ocultar algo personal a los directores era tener un pacto con el diablo" decía una ex-miembro del Opus), su consideración enfermiza de la sexualidad en la que los llamamientos a la castidad son todavía más desagradables que en lo más desagradable de la concepción evangélica, y, finalmente, la consideración mesiánica de que solo hay salvación posible en el interior de la institución y, fuera de ella, aguarda una irremisible condenación eterna ("El que se va de la Obra traiciona y vende a Jesús", "Nadie que se ha ido de la Obra ha sido feliz"), y finalmente, el papel atribuido a la Virgen en la fundación de la Obra (las biografías "oficiales" sostienen que la Virgen se apareció a Escribá con una rosa en la mano pidiéndole la fundación del Opus), todo ello definen un tipo de espiritualidad enfermiza idéntica a la que ha dado origen a otras manifestaciones de la "Luz del Sur".

En cuanto a la vida y a la personalidad del fundador, existe en él una apetencia de lujo y ampulosidad propias de una espiritualidad telúrica y lunar. No se recató de utilizar estrategias subrepticias y ladinas, callar, esconder, permanecer en la sombra, ocultos, estudiar cómo alcanzar más influencia y peso (tema titánico de la búsqueda de poder). Escribá dijo en cierta ocasión a un colaborador, "cuando tengamos las cátedras, todos tendrán sus carreras, sus doctorados, muchos títulos, porque eso atrae mucho a la gente (...) Nuestro fin es acaparar todas las carreras para que así podamos dar a los nuestros sus carreras hasta sin examinarse, muchos títulos y condecoraciones". Nosotros mismos nos hemos sorprendido de leer estas líneas y confirmar, por nuestros conocimientos directos, que efectivamente algunos miembros del Opus Dei están modelados en esta óptica. Hemos conocido incluso a uno que ha llegado a falsificar burdamente el título de periodista y a llenar las paredes de su despacho con decenas de títulos de dudosa catadura. Seguramente eso es lo que Escribá alababa en su "Camino" llamándolo "santa desvergüenza".

Junto a todo este cúmulo de despropósitos, la personalidad de Escribá se muestra pobre, justo en aquel punto en donde debería de aquilatar más riqueza el fundador de una Orden religiosa: en su espíritu. Ególatra despiadado, orgulloso y engreído, caprichoso, altivo, despreciativo incluso para con la figura del Papa y de la jerarquía ("He conocido siete papas, cientos de cardenales, miles de obispos. Pero fundadores del Opus solo hay uno"), altamente inmaduro (en una discusión intrascendente durante una comida, al verse sin argumentos contra su oponente, Escribá fue acalorándose y en un momento dado sacó la lengua a su oponente), esclavo de la gula (en una ocasión pidió la séptima tortilla porque las seis anteriores no estaban a su gusto) y de la avaricia (ya desde pequeño confiesa que le gustaba tocar las monedas que entraban en el comercio paterno), proclive a los accesos de ira (bastaba con que alguien no lo tratara como creía que merecía ser tratado o que ocurriera un error de protocolo para que se enfureciera. Ruiz Jiménez, entonces Ministro de Educación, al encontrárselo en Roma se dirigió a él diciéndole "¿Qué tal padre Escribá?". Escribá se volvió enfurecido y sin recoger la mano que Ruiz Jiménez le tendía. En efecto, quería que se le llamara Padre o Monseñor, pero no "Padre Escribá" como a cualquier otro sacerdote. Otros han dicho de él que sus maneras eran "bruscas y violentas", a la más mínima contrariedad perdía los estribos y empezaba a gritar), en cuanto a la envidia no podía evitar sentirla hacia los jesuitas (el padre Arrupe, General de la Compañía de Jesús hubo de llamarlo tres veces y por tres veces recibió la respuesta de que "el Padre no se encontraba en casa". Escribá jamás devolvió la llamada)... Escribá no ahorraba en demasía ninguno de los siete pecados capitales.

Desgraciadamente para el Opus Dei, la figura de Escribá de Balaguer está demasiado próxima a nuestro presente como para que podamos mitificarla y hacer de él un santo. Falta materia prima y sobran medios de comunicación. La característica de nuestro tiempo es la inmediatez en la transmisión de la información y esto va en detrimento de que nos podamos tomar en serio el proceso de beatificación y su presumible resultado final.

Las biografías oficialistas cuentan que la Virgen se apareció al joven Escribá de Balaguer, cuando aún no se llamaba así, y le pidió la fundación del Opus Dei, organización que, ya desde el principio, se sitúa bajo el signo de la Madre. Para colmo, en cierta correspondencia Escribá firma como
"Mariano" detalle, ya de por sí, suficientemente significativo de su fe en la "Mediadora".

Es suficientemente conocido que nuestro hombre nació en Barbastro, pero mucho menos que fue bautizado con el nombre de José María Escriba Albás. Y decimos bien, Escriba y no Escribá. La sutileza del acento o no acento en la "a", marca la diferencia. Por algún motivo que se nos escapa, el "Padre", tal como gustan referirse al fundador del Opus sus miembros, desfiguró hasta tal punto su nombre que, con el paso de los años, este inicial se transformó en Josemaría Escribá de Balaguer. El segundo apellido, Albás, fue relegado al olvido; un "de Balaguer" que parecía otorgarle prosapia y patente de nobleza, vino de Dios sabe dónde y el José María se hizo uno, transformándose en Josemaría sin que se sepan los motivos exactos que justificaron la transformación.

Su juventud no fue ni edificante edificante ni aplicado. Estudiante más que irrelevante, vocación tardía, Jesús Ynfante llega a decir de él que fue "oscuro, introvertido, y con notable falta de agudeza, un hombre -concluye- de pocas luces". Hubo en 1920 una expulsión del seminario de Logroño por motivos no suficientemente aclarados. Algunos se imaginan lo peor que, por respeto a los muertos, preferimos silenciar. En el seminario de Zaragoza destacó, no por arriba, sino por abajo; Salvador Bernal lo califica de "inconstante y altivo".

La mitología del Opus explica que el 2 de octubre de 1928, en el momento de la consagración de la Hostia y el Cáliz, el curita tiene una visión: ve lo que Dios espera de él. Es el pistoletazo de salida del Opus Dei. Pero nadie se entera, ni siquiera sus amigos más íntimos de la época, para los que el único proyecto fundacional era una asociación universitaria que debería de haberse llamado "Caballeros Blancos". Ninguna crónica registra nada mas de tales caballeros. El nombre, en cualquier caso, sugiera que el gusto por los títulos y los nombres altisonantes le venía ya de lejos.

Pocos años después se sabe que Escribá utilizaba un látigo de nueve colas y cadena con púas para flagelarse. Las paredes del cuarto de baño estaban frecuentemente bañadas con su propia sangre que salpicaba las paredes. Cuando uno se azota es, fundamentalmente, por tres motivos: por perversión, porque le provoca placer o por trastorno psíquico. Los místicos pertenecen al segundo grupo; sinceramente, no sabemos en cuál de los tres situar a Escribá. Esta y otras costumbres y rumores que circulaban en aquellos años sobre su persona, nos dan de él un cuadro particularmente sombrío. Y desde luego, poco sano. A esto hay que añadir la misoginia. Escribá y su Opus opinan que el estado natural de la mujer de la Obra debe ser el embarazo y el padre Urteaga, uno de los mejores comunicadores de la Obra allá por los años sesenta, sostenía que "las mujeres se salvan teniendo hijos".

Esta misoginia, demasiado evidente, por lo demás, parece en contradicción el espíritu telúrico del Opus al cual ya hemos aludido. No es así. El telurismo está presente en toda la obra a y en todo el espíritu de Escribá. La "Luz del Sur" no exige fidelidad sino sumisión (Escribá aborrecía que le besaran solo el anillo pastoral, exigía que le besaran la mano de rodillas). La "Luz del Sur" se caracteriza en su arte por una frondosidad exuberante y desenfrenada, bien presente en los oratorios de la Obra y el de Escribá en particular, "opulento e inaccesible". Nada que ver con la austeridad olímpica de la "Luz del Norte". Escribá viajó siempre, a partir de sus años de gloria, acompañado de un séquito encargado de servirle. Una ex-miembro del Opus declaró que había tenido que dar por inservivle un colchón recién comprado por que no alcanzaba por 3 cm. las dimensiones establecidas. Cuando se desplazaba a América se hacía enviar los melones por avión. Comía siempre con platos de la mejor porcelana, cubiertos de plata. En Roma, durante el Concilio, un obispo invitado por Escribá se sintió sumamente incómodo comiendo con cubiertos chapados en oro. Todo eso que hoy se llama "imagen", que no es realidad sino reflejo de la realidad, pertenece a la concepción sudista del mundo, hoy en marcha triunfal hacia el precipicio. Escribá, para eso de la imagen, era único. Amaba los títulos universitarios y de nobleza, convencido de que podían atraer dinero e influencia. Tras la "Luz del Sur" y tras el Opus, en definitiva, lo que se percibe es un amor al dinero, no en tanto que tal, sino como vehículo de poder. Es el dominio de la naturaleza, una vez más, lo que interesa, incluso con un cierto desprecio sobre sí mismo. Escribá, por cierto, decía que "para fundador bueno, el que viene embotellado", refiriéndose a la conocida marca de coñac. A partir de 1968, cultivando su imagen, recibe -mejor, compra- el título de Marqués de Peralta. Ese gusto por la imagen alcanzó más allá de la muerte. Su proceso de beatificación hay que considerarlo como el maquillaje final de su imagen.

¿Dónde radica la fuerza del Opus Dei? ¿por qué sus afiliados están tan comprometidos con la asociación y tienen tanta fe en la obra del "Padre"? No basta con decir que se trata de un grupo de presión y que, por tanto, sus miembros extraen beneficios e influencia social. Esto equivaldría a dar la razón a quienes han comparado al Opus con una "masonería blanca". No es así, conozco bien a ambos bandos y puedo decir que mientras el compromiso masónico es extremadamente débil (un ágape, una tenida a la semana y poco más), el miembro del Opus Dei lo es desde que ingresa en la Obra hasta que muere, lo que se le exige es de tal calibre que nadie que no haya sufrido un lavado previo de cerebro, puede aceptar. Si a un masón se le pidiera que utilizara el cilicio y el flagelo veríamos donde quedaba su "compromiso con la humanidad". La masonería y el Opus, fuera de alguna coincidencia formal, son estructuras radicalmente diferentes y que, en absoluto, responden a una misma mentalidad. La fuerza del Opus radica en algo muy distinto que la convicción de que en sus filas se va a obtener promoción social. En cuanto a las similitudes formales, es cierto que los miembros del Opus se reconocen entre sí mediante palabras secretas ("Pax" dice uno para reconocer si hay algún miembro de la Obra; "in aeternum", se le responde), como también es cierto que en las reuniones de cúpula se llamen por un número y no por su nombre. En un momento dado hubo incluso un código secreto para la correspondencia en el que cada numeral o combinación de numeral con vocales tenía un significado. "El código se guardaba en un libro llamado de San Girolano", recuerda una ex-miembro de la Obra.

La lectura de algunas obras de místicos y sus biografías dan la sensación de que les ha sonado la flauta por casualidad. En el Siglo de Oro, ya hemos visto, hubo muchos de estos casos. Se trató de místicos autodidactas que sufrieron una experiencia paranormal trescientos años antes de que Aldoux Huxley escribiera "Las puertas de la percepción". En la historia y en las vivencias de algunos miembros del Opus se divisan los mismos elementos tratados por Huxley. ¿Espiritualidad? Más bien habría que hablar de trucos, meros trucos generados a partir de una alteración en la química de la sangre que producen visiones beatíficas. El sujeto interpreta tales visiones y las dramatiza en forma de experiencias místicas, pero en realidad se trata de fenómenos suficientemente conocidos y explicados, sobre los que no hay duda. Caso diferente de las auténticas experiencias místicas de, por ejemplo, San Juan de la Cruz o en nuestro siglo de Teresa Neumann que, efectivamente, se sitúan en un terreno más próximo a la experiencia trascendente.

Javier Ropero en su libro "Hijos del Opus Dei" profundiza brillantemente en este terreno y a él remito. Con todo, hay otros testimonios y rumores que corren por la "Obra" que abundan en la dirección interpretativa de Ropero.

España en los años 20 y 30 es un hervidero de espiritismo, mesmerismo, teosofía y doctrinas ocultistas. Incluso los medios anarquistas fueron un receptáculo de estas corrientes. Al leer "Camino", da la sensación de que Escribá de Balaguer estaba familiarizado con esta temática y, por lo demás, no hay que olvidar que las 999 sentencias de su libro han sido colocadas deliberadamente. El era consciente e ironizaba al respecto que 999 es el número de la Bestia, 666, invertido. Se decía, igualmente, que en el primer oratorio del Opus, Escribá, mediante un hábil juego de luces y espejos, daba la sensación de que levitaba. Más elementos, confirman que Escribá conocía algunos "trucos" que facilitaban el acceso a engañosas experiencias seudo-místicas. 

Cito a Huxley: "Una mezcla -completamente no tóxica- se siete partes de oxígeno y tres de anhídriho carbónico produce en quienes la inhalan ciertos cambios físicos y psicológicos que han sido descritos minuciosamente. Entre estos cambio el más impotante, es un notable incremento en nuestra capacidad para "ver cosas" cuando los ojos están cerrados (...) Estas largas suspensiones de respiración llevan a una alta concentración de anhidrido carbónico en los pulmones y en la sangre y este aumento de la concentración de CO2 disminuye la eficiencia del cerebro como válvula reductora y permite la entrada a la conciencia de experiencias visionarias o místicas del más allá". Ropero, recuerda que los oratorios del Opus Dei son reducidos, cerrados, con escasa ventilación, hay en ellos velas, flores y se consume incienso, suelen utilizarse para sesiones de oración comunitaria, se entonan cánticos religiosos y oraciones decenas de veces repetidas. Es fácil intuir lo que sucede: la atmósfera del lugar se empobrece de oxígeno, mientras la proporción de CO2 crece. De manera monocorde se recitan jaculatorias que inhiben la consciencia. Tras un cuarto de hora de recitar una jaculatoria (frase breve), permaneciendo en silencio y con los ojos cerrados, con la química de la sangre alterada, se accede a un estadio diferente al de la conciencia ordinaria y, por tanto, se tiene tendencia a creer que se ha vivido una experiencia mística. Tal experiencia está además facilitada por las mortificaciones (el cilicio, las flagelaciones, el dormir poco cambiando incluso la almohada por una guía telefónica y el colchón por una tabla). Huxley escribe: "si se analizan los efectos de la autoflagelación resulta muy claro que provocaban experiencias visionarias. Para empezar, liberaban gran cantidad de adrenalina y gran cantidad de histamina, y ambas tienen efectos muy extraños sobre la mente. En el Medievo, cuando no se conocía el jabón ni los antisépticos, cualquier herida que pudiese infectarse lo hacía y los productos proteínicos de emergencia entraban en la sangre. También sabemos que estas cosas tienen efectos psicológicos muy interesantes y extraños. El cura de Ars, a quien un obispo prohibió las flagelaciones escribió nostálgicamente: "Cuando se me permitía hacer lo que quería con mi cuerpo, Dios no me negaba nada"".

La falta de alimento, los ayunos prolongados, unido a todo lo anterior, contribuyen a aumentar la facilidad para tener experiencias seudo-místicas que no son sino respuestas fisiológicas del cuerpo ante situaciones distintas de las habituales pero que nada tienen que ver con la verdadera espiritualidad. La "Luz del Sur" está plagada de estos casos en los que los coribantes, los sacerdotes de Atis, los flagelantes medievales, se azotaban hasta la saciedad o se castraban simplemente para alabar a la Diosa y obtener de ella visiones beatíficas. Stanley Krippner recuerda que "... algunas sectas judías también utilizaban los vapuleos rituales para obtener experiencias de éxtasis; tal era una de las grandes ceremonias del Día del Perdón. La flagelación voluntaria tuvo lugar como devoción extática o exaltada en casi todas las religiones. Los egipcios se azotaban a sí mismos durante los festivales anuales en honor de su diosa Isis; en Esparta, los niños eran flagelados ante el altar de Artemisa Ortia hasta hacerlos sangrar. En Alea, en el Peloponeso, se azotaba a las mujeres en el templo de Dionisos; y en el festival romano de las lupercalias se azotaba a las mujeres en una ceremonia purificadora"... Cultos femeninos (Artemisa, Isis) o telúricos (Dionisos, las lupercalias, el hebraismo), henos aquí en las antípodas de la serenidad olímpica que busca la experiencia trascendente en la serenidad y en la quietud, no por la vía del martirio del cuerpo, sino por el distanciamiento consciente y voluntario del mundo de los sentidos. La misma iglesia católica -y más en concreto la Regla de San Benito y el propio San Francisco- condenó la búsqueda de la experiencia mística si era, a la postre, una búsqueda del placer.

Habría que añadir que la abundancia de oro o de irisaciones doradas en las salas del Opus reservadas al culto, con sus reflejos, facilita el engaño de los sentidos. A partir de todo esto puede entenderse que los crucifijos -ricamente labrados en oro y piedras- vistos por gentes que han pasado por las pruebas descritas antes (cilicio, látigo, ayunos, jaculatorias, respirando atmósfera rica en CO2), crean ver que Cristo se mueve en su cruz, les habla o flota en el aire... Se trata de un simple "truco" del que Escribá no fue el único en beneficiarse. Hoy, buena parte de las sectas destructivas -entre las que el Opus figura para muchos- obtienen el control de sus miembros generando visiones de esta forma. Tal es la fuerza de atracción del Opus. En un mundo en el que la verdadera espiritualidad está ausente, cualquier "emoción fuerte" neoespiritualista, puede cautivar al más escéptico.

Junto a esto, hay algo en el Opus que no está complementamente clarificado. No me voy a referir a sus inextricables orígenes, a la imposibilidad histórica de confirmar la historia ideal del Opus dictada por Escribá, sino a las influencias que sufrió. No creo que tomara un modelo en la masonería, más bien creo que lo encontró en "El Abetal" (La Sapiniere, organización clandestina y secreta católica de finales del sgilo pasado y principios de este) de Monseñor Benigni y en los jesuitas. ¿Eso es todo?

Hay algo más que se escapa al analista pero que planea en los primeros años de la Obra. Hay algunos elementos tomados de la mística masónica ("sobre este aparente desorden cada uno tiene que construir su propio orden" escribía el opusdeista Salvador Bernal parafraseando el "Ordo ab Chao" masónico). Miguel Fisac, uno de los primeros afiliados al Opus, cuenta que cuando fue por primera vez al primer oratorio de calle Ferraz, 50, se alarmó. El confesor de Escribá, el padre Valentín Sánchez, vislumbró también aroma de herejía en el Opus y rompió con Escribá. Algún testimonio remite a la residencia de la calle Jenner de Madrid, donde existía un oratorio "adornado con signos cabalísticos y masónicos". Un profesor de Derecho Internacional afirmó que la palabra "SOCOIN" (Sociedad de Cooperación Intelectual, sigla con la que el Opus dió sus primeros pasos) corresponde a una secta hebraica. En 1941, tras crearse el Tribunal para la Represión de la Masonería y el Comunismo, Escribá debió compadecer al sospecharse que "bajo el nombre de Opus Dei se escondía una rama judaíca de la masonería"... Exajeraciones, quizás, pero todas van en la misma dirección y, por lo demás, me parece excepcionalmente sólida la opinión de quienes hacen de Escribá de Balaguer un judío converso, cuya psicología responde a la del "marrano" tal como ha sido acotada y definida por Julio Caro Baroja.

Ya hemos visto la portentosa historia de los criptojudíos españoles, veamos ahora las pistas que nos da la biografía de Escribá. Su propio nombre, aquel con el que fue bautizado, Escriba, delata su origen. Un escriba es un "doctor e intérprete de la ley judía". Caro Baroja, bromeando, decía que este apellido no era el mejor para pasar camuflado. El acento cambia poco, apenas transforma un apellido grave en agudo. Su padre, comerciante en paños, tenía la misma profesión que los judíos altoaragoneses. Barbastro, por lo demás, fue en el siglo XV una de las más prósperas juderías del reino. En el siglo XI, durante el reinado de Pedro I, ya se registraron falsas conversiones de Judíos en Huesca. El propio Escribá parecía querer delatar este origen: "somos el resto del pueblo de Israel" decía frecuentemente. Las sucesivas modificaciones del nombre de Escriba corresponde a la traducción judía. Mendizábal, el factotum de al desarmotización, era un judío converso de apellidos Alvárez Méndez. La costumbre judía de evitar que los muertos judíos o "marranos" reposaran en cementerios consagrados, fue seguida por Escribá al enterrar a sus progenitores en la cripta de la casa del Opus en la madrileña calle de Diego de León.

También es posible establecer vínculos con una especie de neo-templarismo adulterado del que existieron pequeños núcleos en España desde 1820 como ya hemos visto. Durante mucho tiempo los supernumerarios, para acentuar su carácter de pobreza, dormían en parejas en los pisos del Opus, lo que dió lugar a que la falange les acusara repetidamente de prácticas homosexuales. Quizás fuera en imitación de la leyenda templaria que mostraba a dos caballeros sobre una sola montura. El Opus y los templarios tienen como característica común utilizar cruces sin que aparezca el cuerpo de Cristo, ni la notación INRI. Y también la extraña tendencia a utilizar patas de oca. Se sabe que monseñor Escribá solía dibujar patos, e incluso en el Molino Viejo, en la provincia de Segovia, se conserva pintado un pato dibujado por él. Los templarios y las hermandades de constructores que de ellos dependieron utilizaban el grafiti de la pata de oca como símbolo de reconocimiento y firma. Otros han querido ver en la insistencia de la cruz sin la imagen de Cristo y la reiteración de rosas en toda la iconografía del Opus, una alusión a la secta de los rosacruces. ¿Dónde empieza la exageración y dónde termina la realidad?

En los primeros tiempos, Escribá acarició la la idea de forjar una orden católica y caballeresca, los "Caballeros Blancos", y siempre tuvo presente el deseo de entroncar con la nobleza. Caro Baroja recordaba que una característica de los conversos fue "buscar entronque con linajes aristocráticos". Dado el voto de castidad y su alejamiento de la nobleza tradicional, su único camino, como hemos visto, fue la adquisición del título nobiliario a buen precio.

Lo que más llama la atención en los encontronazos entre la Falange y el Opus es que los primeros, que contaban entre sus fundadores con una buena cantidad de títulos nobiliarios (como también existieron en el Partido Fascista y el en Partido Nazi, especialmente en las SS), quisieron proletarizarse, mientras que los miembros del Opus (y, muy en especial, su fundador) buscaron recubrirse del manto de nobleza. Ya hemos expuesto las razones de la ubicación del Opus Dei en las cotas iluminadas por la "Luz del Sur". Vayamos a por su oponente.

En la Falange distinguimos dos elementos perfectamente diferenciados; de un lado aquellos que le confieren un carácter excepcionalmente vitalista y aristocrático, frecuentemente enunciados a nivel simbólico y existencial, y de otro, un grado de confusionismo ideológico que, lejos de desaparecer, fue creciendo a medida que avanzaba en su andadura política. Estos dos elementos se contrarrestaron frecuentemente; ninguno de sus miembros estuvo en condiciones de superar la contradicción y las influencias opuestas, ni siquiera el mismo Primo de Ribera y mucho menos Manuel Hedilla. Así pues, oscilando entre las altas cimas de la metafísica y las más bajas cotas de la demagogia social, entre lo más vertical y lo horizontal por definición, la Falange supuso el último intento de encarnar la "Luz del Norte", de la que lo único que nos queda es un compendio de libros y escritos, buscados por los bibliófilos y coleccionistas y que, nadie hasta ahora, ha sabido "aggiornar".

Hemos hablado de símbolos. Mal que les pese a los falangistas, su organización jamás tuvo una ideología digna de tal nombre; como máximo una concepción del mundo y en absoluto cerrada. No, la Falange fue entre 1933 y 1936, entre su fundación y el desencadenamiento de la guerra civil, un estado de espíritu, en absoluto una ideología. Antes de esa fecha no existía y después estuvo combatiendo en los frentes. Entre ambas, las necesidades de la lucha política hicieron que no pudiera elaborarse ninguna doctrina coherente. Pero existieron símbolos, allí donde las teorías callan, que nos hablan de un impulso vital en el cual se reconocen, si bien que atenuados, confusos y de forma inconsciente, los rasgos de la "Luz del Norte".

El yugo y las flechas (la Y de Ysabel y la F de Fernando, blasón de los Reyes Católicos que herederá Carlos V), el hecho de que sean cinco las flechas (número de perfección y límite de las posibilidades humanas), el cisne (emblema del Frente de Juventudes y del Sindicato Español Universitario, ave solar por excelencia junto al aguila y el león, identificada con Helias, el caballero del Sol), el rojo y el negro de la bandera (símbolos de la dualidad, de la muerte y de la vida, de la tradición y la revolución), la garra irradiante (la garra del león, otro animal solar, de la que irradia el sol), el "Cara al Sol" (título suficientemente explícito del espíritu solar que animaba a la primera Falange), el recuerdo a los muertos, "presentes" (al igual que los antiguos pueblos nórdicos germánicos que se sentían acompañados por sus ancestros), las alusiones a la "guardia de los luceros" (entendida como la compuesta por aquellos camaradas que han muerto en circunstancias heroicas), las continuas referencias a un estilo austero y duro, desprovisto de lujo y oropeles, castellano, en definitiva, la valoración de la Edad Media como quintaesencia de lo español, los llamamientos a una vocación heroica, las asimilaciones del militante como "mitad monje mitad soldado", o de la sociedad ideal con "ángeles armados en las jambas de las puertas", todo esto, si bien no conforma una ideología en el sentido estricto de la palabra, si en cambio conforma una concepción del mundo emanada directamente de la "Luz del Norte".

No queremos entrar en las polémicas sobre las implicaciones reales o supuestas de la Falange en episodios indignos y rechazables; los años en los que dió a luz fueron turbulentos y precedieron la gran catástrofe de nuestro país en el siglo XX, la guerra civil. El fusilamiento de García Lorca (refugiado en casa de falangistas sevillanos), la represión contra los militantes republicanos, las "patrullas del amanecer", son solamente episodios aislados en la historia de la Falange y, más bien, forman parte de la historia de la guerra civil. Es suficientemente conocido que los entendimientos entre anarquistas y falangistas, incluso hasta los años sesenta, habían empezado con el trasvase de militantes de la CNT y del pestañismo a filas falangistas en los años de la preguerra. A efectos del presente estudio, lo que hace que podamos valorar un movimiento histórico como Falange Española, no es su participación en tal o cual episodio concreto, afortunado o desgraciado, sino lo que puede deducirse de su espíritu. A este respecto, incluso los más acérrimos detractores reconocerán que una élite falangista  -en la que podemos situar a Dionisio Ridruejo- no solamente proclamaron unos valores y principios generales, sino que estuvieron dispuestos a vivir y a morir, inspirados en ellos. Eso les llevó a muchos de ellos a las estepas rusas enrolados como voluntarios en la División Azul y que solo recibieron una cruz de palo como recompensa; otros, prefirieron desligarse del régimen que nació de la sublevación de julio de 1936, y que, en su criterio, no se adaptaba a la imagen que se hacían de su estado ideal; muy pocos formaron organizaciones disidentes, inspiradas en Miguel Hedilla, segundo Jefe Nacional de Falange. Estos fueron los menos y, en una condiciones políticas muy favorables, no estuvieron en condiciones de completar los principios apenas enunciados por Primo de Rivera, Onésimo Redondo y Ramiro Ledesma. Falange se fue extinguiendo poco a poco.

Respecto a los tres fundadores hay en ellos diferencias no desdeñables. Están, bien es cierto, unidos por lo que podríamos llamar "sentimiento imperial", la sensación de que el mejor momento de la hispanidad fue el período iniciado con los Reyes Católicos y concluido con los últimos austrias. Las ideas de centralidad, de ímpetu político-religioso, el carácter antiburgués, el culto a la juventud, el sentido de disciplina y sacrificio, esto es, el espíritu de milicia heroica, el gusto por la aventura y, finalmente, la síntesis entre la Tradición española y la Revolución, hacen de Falange Española, lo que algunos han llamado "Vía Solar". Pero, al margen de esto, Primo de Ribera, Ledesma y Redondo, sostenían orientaciones sensiblemente diferentes. Redondo era un castellano viejo; católico, antisemita, su austeridad y entereza fueron siempre proverbiales; cuando uno se aproxima a su biografía cree estar ante aquellos castellanos que combatieron a la morisma y tiene la sensación de que las gentes de Fernán González debieron estar, más o menos, cortadas con el mismo patrón. Onésimo es el católico militante de viejo estilo que tiene muy pocos puntos en común con Ramiro Ledesma, ateo impenitente, vitriólico, activista, intelectual frío que unos días colocaba un petardo y al día siguiente publicaba un ensayo en "La Revista de Occidente". Partidario de "nacionalizar a las masas anarcosindicalistas", hubo en él rasgos de populismo y demagogia que compartió con Primo de Rivera. Este, por su parte, hijo del General del mismo nombre, pertenecía a los círculos aristocráticos madrileños y estaba relacionado con una pléyade de intelectuales y artistas de vanguardia que constituyeron el núcleo fundacional de la Falange. Formado por Rafael Sanchez Mazas, Agustín de Foxá, Alvaro Cunqueiro, Eugenio Montes, Rafael García Serrano, Luys Santa Marina, Felipe Ximenez de Sandoval, Gonzalo Torrente Ballester, Dionisio Ridruejo, Ernesto Giménez Caballero, Mourlane Michelena, Víctor de la Serna, pintores como Alfonso Ponce de León o Cossío, Samuel Ros, José María Alfaro, con el patronazgo espiritual de Eugenio d’Ors, Maeztu y Ortega, estamos ante un grupo de intelectuales, más que ante el grupo activista que hoy recordamos.

Pero Falange Español no representaba la "Luz del Norte" en estado puro sino adulterado y con la tensión metafísica rebajada. Su "vocación imperial" no tuvo posibilidad de manifestarse en una opción política concreta, simplemente se tradujo en un nacionalismo extremo, al igual que la oposición a la burguesía y al capitalismo no llevó a fórmulas de superación, sino a una admiración indecorosa y acrítica hacia los movimientos sociales de izquierda, por igualitarios y uniformizadores que fueran. Ramiro Ledesma, desde su revista "La Conquista del Estado" pudo gritar "Viva la Alemania de Hitler, viva la Italia de Musolini, viva la Rusia de Stalin", y escribir luego que más le lucía la camisa roja de Garibaldi que la negra de Mussolini, expresiones desgarradas de un deseo de revancha social e igualitarismo uniformizador, en contradicción con los ideales jerárquicos que exhibía en otros escritos.

Especialmente, en Ramiro Ledesma se percibe la falta de sensibilidad hacia lo sagrado. Viendo en la Edad Media, una edad oscura, percibe en las formas renacentistas su estilo ideal.  Alguién pudo decir con justicia que mientras Marx practicaba un materialismo económico, Ledesma profesaba un materialismo guerrero. La "idea imperial" no es tomada sino en función del poder que le atribuye para relanzar un nacionalismo español, un nacionalismo laico y de masas. Ledesma, pero también José Antonio y Onésimo Redondo, no dudan a la hora de utilizar y predicar la violencia para alcanzar los objetivos políticos. Se trata de un pragmatismo exajerado y de un activismo a ultranza derivados de su particular visión del mundo. Hubo en Falange una desviación titánica y prometeica, en ocasiones incluso fálica, única vía en la que supieron hacer desembocar la visión militar y heroica de la vida. Por lo demás, cuando José Antonio aludía a la "dialéctica de los puños y las pistolas" no hacía otra cosa más que abrir o insertarse en una espiral de violencia que terminó por anegarle a él y al propio movimiento.

Pero allí donde el espíritu de la Falange es más distante de la "Luz del Norte" es en la concepción del Estado. Ni Ramiro Ledesma, ni Primo de Rivera, consiguieron consolidar una teoría del Estado, pero las pocas frases, esparcidas aquí y allí, en sus escritos, dan pie a pensar que junto a la idealización del papel de las masas (la "nacionalización de las masas sindicales" que pedía Ramiro Ledesma), ambos perciben el Estado como un "instrumento totalitario". En sus escritos no se encuentran alusiones a la sociedad trifuncional, mucho menos a los cuerpos intermedios, tan solo vagas y preocupantes alusiones al papel de los sindicatos. Fueron los teóricos del franquismo quienes se encargaron de completar estos enunciados y dar forma a la "democracia orgánica" como alternativa a la "democracia liberal".

El elemento que permite situar a José Antonio Primo de Rivera por encima de los otros dos fundadores y ver en él al receptáculo de la "Luz del Norte" es su vocación poética. Solo José Antonio como figura central del grupo de intelectuales falangistas, supo apreciar el valor de la poesía en la formación de una visión del mundo.

Cuando faltaron los fundadores de la Falange y los elementos más representativos, poco dados a tareas de gobierno, prefirieron optar por enrolarse en la División Azul, nadie se preocupó de completar la doctrina falangista. El franquismo utilizó a la Falange como levadura de las masas; sus ideales sociales, su consigna mil veces repetida de "Patria, Pan, Justicia", podían constituir un reclamo, como de hecho así ocurrió durante veinticinco años, entre 1939 y 1964. Al cerrarse este ciclo, el Opus Dei ya despuntaba como la fuerza hegemónica en los gobiernos de Franco.

La lucha entre la Falange y el Opus Dei fue larvando durante los años 60 y estalló con el "affaire" MATESA. Por esas fechas la Falange ya estaba excepcionalmente debilitada y reducida a una mera cáscara sin vida. Los locales del Movimiento Nacional estaban vacíos, el Frente de Juventudes, la Sección Femenina, los Sindicatos, la Guardia de Franco, no eran sino estructuras burocráticas esclerotizadas que apenas podían hacer nada frente al Partido Comunista y a la extrema-izquierda.

El Opus Dei, sus bancos y ministerios, sus industriales, sus tecnócratas, no preveyeron que al trabajar por la construcción de un capitalismo tardío, estaban generando una estructura económica de tipo liberal-capitalista que entraba flagrantemente en contradicción con la estructura política del Estado, autoritaria y paternalista. Cuando, para sobrevivir, esa estructura económica precisó impulsar un cambio para promover un mayor crecimiento, sacrificó a la estructura política. Eso ocurrió a mediados de los años 70.

En el momento que Franco muere, la derecha carece de organización política, está en el poder, es el poder, pero no tiene estructura de partido y, por tanto, no estará en condiciones de afrontar una etapa democrática formal. Es el período de las Asociaciones Políticas, el "espíritu del 12 de febrero" y la Ley de Reforma Política. La derecha intenta ganar tiempo, liderar el proceso de cambio. Ahí está el Opus Dei intentando no perder el tren. Sin embargo, a partir de 1977, los mayores éxitos los consigue en el extranjero y, a partir de la entronización de Juan Pablo II, en la propia Roma.

En cuanto a la Falange, llegó a la transición en un estado de total descomposición y con un alto grado de confusionismo político. Multifraccionada, perdidos los líderes e intelectuales que le dieron vida, habiendo dado la espalda incluso a los propios orígenes, sufrió un proceso continuado de empequeñecimiento y gropuscularización en el que todavía se encuentra hoy.

Lo que tuvo de "Luz del Norte" hace sesenta años, hace ya mucho que se extinguió.

© Ernest Milà – infokrisis – infokrisis@yahoo.es – http://infokrisis.blogia.com – Se prohíbe la reproducción de este artículo sin indicar procedencia

Archives: les "Grünen", quinze ans d'existence et où reste l'écologie?

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Les Grünen: quinze ans d'existence et où reste l'écologie?

 

«Personne ne pourra plus empêcher notre succès, sauf nous-mêmes!». C'est par ces mots que le Dr. Herbert Gruhl a ouvert le congrès de fondation du parti «Die Grünen», le samedi 12 janvier 1980. Le jour de ce congrès était un jour d'effervescence, un moment de réelle euphorie, une date historique: le mou­vement écologique, semblait-il, venait de trouver son véritable instrument, un parti qui pouvait sans crainte marcher aux élections, prendre d'assaut la forteresse de la société industrielle.

 

Quinze ans plus tard, après cette fondation qui avait été fêtée dans la joie par tous les amis de l'environnement, que reste-t-il du souci central, du souci écologique? L'espoir exprimé par le Dr. Gruhl dans son discours inaugural, «que l'esprit de l'histoire souffle dans notre direction, que le grand tournant s'annonce enfin», ne s'est pas accompli. Après que les gauchistes radicaux aient bétonné le parti, im­posé leur programme et leurs cadres, lors de la diète du parti à Dortmund en juin 1980, la plupart des con­servateurs ont quitté le parti.

 

Des “conservateurs’ chez les Verts? Est-ce possible? Qui se souvient encore et sait que ce sont des forces conservatrices qui ont joué un rôle dominant dans la phase de construction du parti vert? Herbert Gruhl, qui fut pendant les années 70 le porte-paroles en matières d'environnement pour la fraction parle­mentaire CDU/CSU, était la personnalité la plus importante de cet aréopage. En 1978, il avait quitté la CDU et fondé la «Grüne Aktion Zukunft», dont le programme avait été élaboré par des esprits conservateurs comme Christa Mewes et le Prof. Bernhard Grzimek. De même, les premières «Listes Vertes», apparues en 1977 en Basse-Saxe, à Hambourg et dans le Schleswig-Holstein, avaient pour pères fondateurs des “conservateurs” plus ou moins radicaux comme Carl Beddermann et Baldur Springmann.

 

Les origines conservatrices (un conservatisme axiologique et non pas institutionnel, ndt) de l'écologie politique allemande n'étonnent que ceux qui avaient adopté, dans le cadre de la droite régimiste, les posi­tions de Franz-Joseph Strauss qui, trente ans auparavant, avait abandonné les positions originales et initiales de l'idéologie et de l'axiologie conservatrices et avait décidé de «marcher à la tête du progrès (technique)». Le mouvement écologique demeure, par ses origines et par les attitudes qu'il préconise, un mouvement conservateur bien tranché, dont les racines rejoignent celles des associations de protection de la nature et des terroirs, nées sous l'Allemagne de Guillaume II. Les hommes intelligents de la gauche ne l'ont pourtant pas oublié. Ainsi, Peter Glotz, théoricien de la social-démocratie, auteur de thèses perti­nentes sur la “neue Rechte” et homme de dialogue, a mille fois raison quand il dit que le camp conserva­teur s'est fait “chiper” le fleuron des bijoux  de son arsenal conceptuel en perdant l'écologie au profit de la gauche.

 

Le noyau conservateur de l'écologie ne peut effectivement être nié: le primat de “ce qui a eu une crois­san­ce organique” sur “ce qui a été fait ou fabriqué”, la propension à accepter l'ascèse et la vie mo­deste, la pensée en termes de générations, une vision sceptique de l'homme, la protection de la famille en tant que plus petite cellule naturelle parmi les communautés humaines, la critique à l'endroit des supersti­tions aveugles du progressisme et du technicisme, le souhait de décentralisation, le vœu de voir advenir des structures politico-administratives proches du peuple, la préférence pour les formes vitales alterna­tives, rurales et traditionnelles à la place de la civilisation urbaine caractérisée par la froideur des senti­ments: tout cela, ce sont des points de convergence où se rencontrent les idéologies conservatrices et écologiques. Enfin, ce complexe d'idées comprend également l'attachement à la petite patrie, attache­ment que les écologues n'interprètent pas dans un sens nationaliste, mais à la lettre, comme protection de l'environnement, du terroir.

 

En se revendiquant d'une «Europe des Régions», le mouvement vert, lors des élections européennes de 1979, reprenait à son compte l'héritage conservateur du fédéralisme. Aujourd'hui, ces conceptions régio­nalistes ont disparu du programme des Verts: à leur place, on trouve une profession de foi à l'endroit des structures multinationales. Plus personne, chez les “alternatifs de la gauche verte”, ne semble choqué que de telles allégeances permettent non seulement l'avénement d'un Eldorado pour les tenants d'une économie débridée visant l'expansion infinie, mais consacrent aussi la fin des exigences originelles du mouvement vert qui voulait, jadis, la décentralisation et la transparence du pouvoir. Lorsqu'on demande aux élus ou aux cadres verts d'aujourd'hui, ce qu'ils comptent mettre en œuvre pour sauver nos terroirs et notre environnement, on ne reçoit plus que des réponses condescendantes.

 

Examinons maintenant les raisons internes qui ont fait que les forces conservatrices du mouvement écologique aient été si rapidement évincées. C'est à cause de leur absence de discipline qu'elles ont été si vite démantelées au moment de la fondation des Verts; pour le dire en une formule plus lapidaire: les cadres expérimentés issus des divers groupes d'action communistes se sont avérés nettement supé­rieurs, dans le maniement des armes politiques que sont les compositions, rédactions et présentations des ordres du jour dans les diètes et les réunions d'un parti, aux masses de braves petits bourgeois qui partaient au combat sans règle. L'histoire des Verts est aussi l'histoire d'une tentative conservatrice avortée.

 

Aujourd'hui, les Verts sont un parti-mouvement situé dans le milieu des alternatifs de gauche. Dans les communes rurales, et même dans de nombreux conseils communaux, on trouve encore beaucoup de mili­tants environnementalistes parfaitement compétents et travailleurs, dont l'idéologie ne se situe pas né­cessairement à gauche, mais qui se retrouvent, peut-être un peu malgré eux, au service des Verts. Aux niveaux de la direction du parti, toutefois, on ne trouve plus que des activistes issus de groupes protesta­taires de l'extrême-gauche qui avaient jadis colonisé le milieu des sous-cultures urbaines dans les grandes villes. Ce sont eux qui déterminent les orientations fondamentales du parti.

 

Ce qui est tragique dans cette évolution, c'est que les Verts commencent à enregistrer des succès au ni­veau parlementaire, au moment où ils s'éloignent de leur noyau idéologique originel. Exiger par exemple une immigration illimitée est en contradiction flagrante avec l'idée écologique du départ qui critiquait et re­fusait l'occupation effrénée du pays, la sur-sollicitation du sol agraire et l'augmentation exponentielle de la consommation. Le philosophe Robert Spaemann constate avec pertinence: «L'idéal émancipateur (propre des “Lumières”, ndt) est incompatible avec l'assertion fondamentale de l'écologie. L'idéologie émancipatrice, que traînent les Verts à leurs basques, est tout simplement le modernisme, qui nous a conduit à l'actuelle situation de crise écologique: c'est en effet l'expansion illimitée des désirs humains sans égard pour les lois de la vie, auxquelles l'homme est irrémédiablement soumis, qui nous a conduit où nous sommes. Dans la mesure où les Verts tentent de poursuivre les objectifs de cette idéologie et veu­lent la radicaliser à l'extrême, l'idée écologique de l'origine s'effondre».

 

Si l'on tient compte de ce paradoxe philosophique et pratique, on ne s'étonne plus que la plupart des véri­tables écologues, des vrais amoureux de l'environnement, ne s'intéressent plus aux résultats électoraux des Verts et restent indifférents aux faits qu'ils mordent sur l'électorat libéral ou qu'ils soient en mesure de former de “nouvelles majorités”. De fait, que peuvent bien signifier ces résultats? Tout, sauf un succès des véritables idées écologiques! Robert Spaemann nous tient des propos sans enthousiasme, qui pour­raient bien déprimer plus d'un militant écologique. Mais son analyse autorise tout de même l'espoir: si les Verts poursuivent leur chemin dans le cul-de-sac du progressisme, ils créeront automatiquement un vide politique, où pourront s'engouffrer les partisans de l'«écologie pure». Les conservateurs parmi les défen­seurs de l'environnement doivent dès aujourd'hui se rendre compte qu'une chance s'offrira très bientôt à eux. Herbert Gruhl disait en 1988: «La droite et la gauche appartiennent au passé. Il s'agit désormais de lutter pour la sauvegarde et la perpétuation de la Vie sur cette Terre ou d'accepter son anéantissement rapide. La combat décisif entre les Préservateurs et les Destructeurs a commencé depuis longtemps. Pourquoi les Préservateurs ne s'appelaeraient-ils pas “conservateurs”?».

 

Heinz-Siegfried STRELOW.

(Article paru dans Criticón, n°145, janv.-mars 1995).

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jeudi, 12 mars 2009

Golfe: la Pax Americana contre l'Europe et le Japon

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Golfe: la pax americana contre l'Europe et le Japon

Entretien avec Stefano Chiarini

 

Stefano Chiarini, envoyé spécial au Moyen-Orient du journal Il Manifesto, est aussi le directeur des Editions Gamberetti qui, depuis trois ans, se sont spécialisées dans les thématiques de politique interna­tionale, en s'intéressant plus particulièrement à la problématique Nord/Sud, à la question palestinienne et aux minorités ethniques en Europe. Parmi les titres les plus significatifs parus dans leurs collections “Orienti” et “Equatori”, signalons "Amicizie pericolose" d'Andrew et Leslie Cockburn, sur les rapports entre la CIA et le Mossad, "Anno 501, la conquista continua" de Noam Chomsky et l'anthologie de récits "Strade di Belfast", dû à la plume du leader du Sinn Fein, Gerry Adams.

 

Q.: Quand sont nées les Editions Gamberetti?

 

SC: En gros, après la Guerre du Golfe. J'y avais été envoyé spécial. Revenu en Italie, j'ai participé à de nombreux débats sur la question et je me suis aperçu combien la réalité des faits avait été manipulée. Les mass media, le télévision en tête, mais aussi les quotidiens et les revues, nous ont donné une image complètement distordue de ce conflit. Nous avons donc voulu répondre à une exigence intellectuelle: ap­profondir le sujet et fournir une documentation adéquate sur ces événements en particulier et, de façon plus générale, sur tout ce qui se passe sur la scène moyen-orientale.

 

Q.: Que s'est-il passé réellement à Bagdad en 1991?

 

SC: On a surtout pu constater les premiers effets de la disparition de l'URSS. Quand l'Union Soviétique était là, et qu'elle était forte, les Américains n'auraient jamais osé entreprendre ce qu'ils ont entrepris. Autre aspect à prendre en considération: la guerre du Golfe a davantage été une guerre contre l'Europe et le Japon que contre l'Irak; cette guerre a été menée par l'Amérique pour qu'elle puisse contrôler directe­ment les sources d'approvisionnement énergétique. Les Etats-Unis n'ont plus agi par l'intermédiaire d'Israël. Leur rôle dans la région où se trouvent les principales sources de pétrole de la planète est apparu en pleine lumière. Depuis lors leur mainmise sur la région est allée en s'accélérant. Enfin, pour imposer la pax americana entre Israël et les Palestiniens, les Etats-Unis devaient nécessairement “redimensionner” l'unique pays encore en mesure de leur provoquer des problèmes dans la région, c'est-à-dire l'Irak, riche en pétrole, disposant d'une armée capable d'intimider ses adversaires potentiels, présentant une cohé­rence interne assez satsifaisante. Le pétrole doit donc rester aux mains des émirats et des cheiks, de tous les pays possédant des régimes de ce type, forts sur le plan économique mais faibles sur le plan mili­taire. L'Irak était l'unique pays arabe qui avait et de l'eau et du pétrole, une population assez nombreuse, un bon niveau technologique et une armée relativement solide. En puissance, c'était le pays le plus indé­pendant et le moins facile à faire chanter de toute la zone.

 

Q.: Et l'Iran?

 

SC: Je ne me réfère qu'aux seuls pays arabes. L'Iran avait été détruit préalablement par l'Irak, manifes­tement sur ordre des Américains eux-mêmes. Dont la duplicité comportementale est désormais évidente. La diplomatie américaine est prête dorénavant à détruire ou à aider les intégrismes au gré de ses conve­nances. N'oublions pas que l'Arabie Saoudite est nettement plus intégriste que l'Iran, tout en entretenant des rapports optimaux avec les Etats-Unis, au point d'être son meilleur allié dans la région.

 

Q.: Il me semble que les éditions Gamberetti ont évité jusqu'ici d'aborder le problème “islamique”, et se sont concentrées exclusivement sur les pays et les mouvements “laïques”...

 

SC: Nous nous sommes préoccupés par exemple de la question palestinienne qui est en quelque sorte la clef de voûte de la région. D'après moi, le problème n'est pas tant celui de l'intégrisme, car, comme on le voit, les Etats-Unis tentent de se rapprocher de l'Arabie Saoudite, mais bien plutôt celui de la distribution des ressources. Le thème des mouvements islamiques est certes un thème fort important, mais ne cons­titue nullement le nœud gordien du Moyen-Orient. Le nœud du problème est celui de l'accès aux plus im­portantes sources énergétiques de la planète et de la distribution des ressources. Les Etats-Unis sont tout prêts à s'allier avec ceux, intégristes ou laïcs, qui leur consentiront l'accès et le contrôle du pétrole; et sont prêts à annihiler militairement et politiquement ceux qui tenteraient de leur barrer la route.

 

(propos recueillis par Pietro Negri, pour le magazine romain Pagine Libere, n°2/1995).

mercredi, 11 mars 2009

Turkey is not Europe

 

TURKEY IS NOT EUROPE
by Robert Edwards

Many mainstream politicians throughout Europe hold very serious reservations concerning the Turkish application to become a member state of the European Union and so it is vital that a serious debate is stimulated now without any fear or favour to partisan thinking.
Has the EU lost all sense of the true historical meaning of being European or has it become a willing tool of a bankers’ racket tied to the globalist monoculture? We believe that in order to be a true European, it is necessary to feel as such. That is to say, our identity must be one based on an ancestral kinship, with each of us aware of being an unbroken link in the eternal chain of European history. This aspect of Europeanism is not being promoted by the bureaucrats and time-servers of the EU ... and this is where we differ profoundly and fundamentally. So all the old claptrap concerning “racism” and all sorts of imagined phobias are trotted out to prevent opposition to this proposed anomaly within the EU, that Turkey should somehow become part of Europe.
Before anyone thinks I am going to go on about a “clash of civilisations” or the “evils of Islam”, this question of the meaning of being European is not so much about what we are against or what threatens us, as is the way of some nationalistic people, but it is more a question of what we embrace, love and hold dear. Let us make that clear from the very beginning. Our political creed is a purely positive Europeanism that regards all other cultures and religious systems as equally valid in their own right. There is no place for supremacism in our political outlook.
We regard the Islamic world as the natural ally to our Europe a Nation ... more so than the United States could ever be, which has been rampaging around the world trying to recruit all and sundry into its apocalyptic mission to “democratise” the world in the interests of the prices at the petrol pumps at home.
If anything, it is the resistance to the global American culture that will assist to define a European of the future and if there is a clash of cultures it is between our Europe and the distinctly alien values of American super-capitalism with its total disregard for human values where money is concerned. As result, we are in danger of going down that same road as Europe adopts the principle that everything has its price and where nothing has any real value. As true National Europeans we stand opposed to these alien values.
To the East, stands a world of very many other values and we do not oppose them simply because they are of another world other than that of Europe. They have existed throughout the entire history of Europe, from those earliest stirrings of classic Greece to the present day.
When Islam emerged, it spread across the north of Africa and into Spain ... at the same time reaching India and China. Its impact on Spain was far from malevolent and the rest of Europe would have been the poorer if it had not benefited from the mass of science, mathematics, medicine, philosophy and much more that the Arab Empire bestowed on Europe in the Dark Ages and long after. That has to be said in order to maintain a sense of proportion. Much of classic Greek learning would have been lost without the intervention of Islam.
The world of Islam has been in a state of flux and turmoil for many centuries, always very close and near to Europe, so that each eruption and upheaval has never failed to leave its impact upon us. This relationship with Europe goes back to the time of the creation of Andalusia in Spain lasting centuries with the eternal vigilance of a Europe fearful of the further encroachment of Islam upon our continent. The Christian church had its interests to preserve, of course, and its contribution to science was occasionally one of obstruction and proscription ... Galileo springing to mind.
Turkey is one of the nearest nations to Europe with an overwhelmingly Muslim population and was one of the largest expressions of modern Islamic imperialism in the form of the Ottoman Empire. The Ottoman Empire was never regarded as European even though Hungary and Serbia were once vassal states ... European states that were eventually liberated.
In the 1930s, Kemal Ataturk attempted a Westernisation of Turkey, dragging her into the Twentieth Century, adopting the Roman script, banning the fez, adopting Western standards of dress for both men and women and constructing the secular state.
Yet, with all that, it remains Asiatic and essentially so. It never pretended to be European ... until the European Union of the bankers and the globalists suggested that Europe was nothing more than a money market and an economic orbital planet around the sphere of global capitalism.
To these capitalists, there is no Europe as an identifiable cultural entity with a people inextricably linked to history through ancestry and blood. To them, it is a trade name for a bankers’ racket that neither desires nor will permit such a thing as a national consciousness and therefore an awareness of what these parasites are doing.
Turkey is slowly being invited into our continent at the expense of our very identity and by that very act it is denying that Europe, as we know and love it, ever existed.
On the more mundane level, it leaves open the question of why Israel or even Canada should be participants in the Eurovision Song Contest ... and why no one has the guts to challenge these plainly absurd anomalies.
At least there are some voices of protest within mainstream European politics but, I fear, not enough. That is the reason the process of Turkish entry has been slowed down rather than being terminated altogether, as it should have been.
Just as Europe a Nation should be created as a federation of existing nation-states within Europe, with Britain playing a leading role, then so should Turkey be a leading player in a Central Asian federation of existing nation-states within that region. That would very easily solve the problem of the proposed current anomaly. Such federations would be allied to Europe but not submerged into it.
We in European Action have always maintained the principle that national consciousness is the first consideration in politics and that this national consciousness entails placing the greatest value on our own people regardless of class, party allegiance or religious faith.
All we ask is that the people of Europe recognise this sense of communion and embrace it in the fullest meaning of European brotherhood. Because it is only solidarity in action that can guarantee our survival, acting together in common interest.
This does not mean antagonism towards people outside Europe, as with a siege mentality ever suspicious of the movements of others. Once America is forced back within its own borders then the rest of the world can be organised on the similar lines to Europe a Nation ... large, self-sufficient economies composed of similar peoples, totally free of the caprice of free-for-all international trading and able to organise the creation and growth of wealth within its own economic sphere without outside interference. These large federations would replace the United Nations and make the World Bank and the International Monetary Fund totally redundant. The “global economy” would be a thing of the past.
Therefore, our opposition to Turkish entry into Europe is not one based on aggressive antagonism towards a different culture or even a religion. It is simply a matter of defining Europe and placing all these questions into their proper context.
Turkey does not belong here ... it belongs elsewhere. That is the essence of what it means to be European and what it means to be Turkish. Our place in the world must be determined by that very sense of kinship that connects us to history, culture and the sacred soil of our ancestors, made red with the blood of its defenders and made fertile by the creative energy of the European.
Europe is not at war with Islam. It is America that embarked on this insane “crusade” for its own selfish interests and by so doing embroiled Britain and other countries in a “war against terrorism” that positively reeks of Zionist manipulation.
It follows that Europe should be a power unto itself with all the conditions that go with a major force in the world, Such a power bloc shall determine its own foreign policy and world agenda, totally independent of the Neo-cons in Washington and the predatory manoeuvring of the World Bank, whose president was once a principal player in White House war games.
When Europe stretches out the hand of friendship to the Islamic world, it will be a gesture of mutual respect and understanding ... knowing that we have different roots to preserve and nurture but, also, to accept a responsibility to world peace.