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vendredi, 22 mars 2013

UMBERTO GALIMBERTI

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UMBERTO GALIMBERTI

A cura di Simone Tunesi

Ex: http://www.filosofico.net/

Nato a Monza nel 1942, Umberto Galimberti è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all’università Ca’ Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia.

Nelle sue opere più importanti come Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli equivoci dell’anima (1987) e Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica (1999), Galimberti indaga il rapporto che effettivamente sussiste tra l’uomo e la società della tecnica.

Memore della lezione di Emanuele Severino (di cui è stato allievo) e di Heidegger, Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale.

Al centro del discorso filosofico di Galimberti c’è la tecnica, che secondo il filosofo è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione.

Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta.

Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha guidato nella storia (sensazioni, percezioni, sentimenti) risulta inadeguato nel nuovo scenario. Come "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell'organizzazione tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi intellettuali per comprendere la nostra posizione nel cosmo, per questo motivo ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle comodità che la tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di compensare la nostra attuale inadeguatezza.

Inadeguato non è solo il nostro modo di pensare, inadeguata è anche l’etica tradizionale (cristiana e kantiana in particolare): le diverse etiche classiche, infatti, ponevano l’uomo al centro dell’azione, per cui  Kant dice di non trattare l’uomo come mezzo ma sempre come fine. Ma oggi questo è smentito dai fatti dell’apparato, infatti l’uomo (per usare un’espressione di Heidegger) è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per funzionare. La scienza , da quando  è al servizio della tecnica e del suo procedere, non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come gli esponenti della Scola di Francoforte andavano segnalando sin dagli anni '50, ma come materia prima. L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica, perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? E l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. Infatti, finora abbiamo elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i rapporti tra gli uomini. Queste etiche, religiose o laiche che fossero, controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere effetti catastrofici. Anche l’etica della responsabilità che affiancò l’etica dell’intenzione (Kant) ha, oggi i suoi limiti. A formularla fu Max Weber (poi la riprese Jonas nel suo celebre teso Il principio di responsabilità) che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono prevedibili". Sennonché è proprio della scienza e della tecnica produrre effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della responsabilità è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro scopo che non sia il proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure.

Per Galimberti viviamo in una società al servizio dell’apparato tecnologico e non abbiamo i mezzi per contrastarlo, soprattutto perché abbiamo la stessa etica di cent’anni fa: cioè un’etica che regola il comportamento dell’uomo tra gli uomini. Tuttavia quello che oggi serve è una morale che tenga conto anche della natura, dell’aria, dell’acqua, degli animali e di tutto ciò che è natura.

Riprendendo importanti autori come Marx, Heidegger, Jaspers, Marcuse, Freud, Severino e Anders e coinvolgendo discipline quali l’antropologia filosofica e la psicologia , Galimberti sostiene che oggi l’uomo occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come sosteneva già Freud, e questa dipendenza non sembra potersi spezzare. Tutto rientra nel sistema tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha bisogno del sostegno di questo apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti se l’uomo vuole salvare se steso e il pineta dalle conseguenze del predominio della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo con l’aiuto della tecnica: progettando depuratori per le fabbriche, cibi confezionati, grattacieli antiaerei e così via. Il circolo è vizioso e uscirne, se non impossibile, sembra improbabile, visto soprattutto la tendenza delle società occidentali. Una speranza sarebbe quella di riuscire a mantenere le differenze tra scienza e tecnica; se riusciamo a salvaguardare una differenza tra il pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della tecnica. La tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone un limite. Perché la scienza ha un´attenzione umanistica. Promuove un agire in vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare prodotti.

Il valore più profondo del pensiero di Galimberti consiste, appunto, nel tentativo di fondare una nuova filosofia dell'azione che ci consenta, se non di dominare la tecnica, almeno di evitare di essere da questa dominati.

00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, umberto galimberti, sciences, technique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 17 mars 2013

Videojuegos, una realidad virtual para una esclavitud real

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Videojuegos, una realidad virtual para una esclavitud real
 

Por Fernando Trujillo
 
Ex: http://imaginacionalpoder.blogspot.com/

Nuestra generación fue testigo del nacimiento y auge de los videojuegos, nuestra infancia estuvo marcada por los juegos de atari, Nintendo, por Super Mario Bros y las peleas de Street Fighter.
Eran principios de los noventa cuando tuve mi primer Nintendo, al igual que muchos niños pasaba mis tardes jugando Super Mario, gastaba mis centavos en las maquinas de videojuegos jugando a Street Fighter y tratando de hacer un “fatality” de Mortal Kombat, al igual que muchos de ustedes lectores. Los videojuegos marcaron nuestra vida y continúan marcando nuestras vidas, del Nintendo pasamos al Super Nintendo, al Nintendo 64, el Game Boy, el Virtual Boy.
Conocimos el Playstation y sus sucesivas entregas, el fallido Dreamcast, el Xbox y el Nintendo Wii. Sagas interminable como Resident Evil, Tomb Raider, Final Fantasy o King of Fighters que cada año lanzan una nueva entrega para millones de fanáticos que se hacen llamar a si mismos “gamers”.
Para muchos los videojuegos es una forma de entretenimiento, para asociaciones moralistas y cristianos son una forma de fomentar la violencia en los niños y adolescentes, los videojuegos en sus aspectos positivos o negativos—como veremos en mas adelante estos aspectos son más numerosos—son parte importante de una cultura cada vez mas mecanizada.
No obstante un tema que no se toca es la manipulación que existe dentro de la industria de los videojuegos, al igual que la industria del cine y la música que sirven como maquinas de propaganda del Sistema, es a través de los videojuegos que este lanza mensajes subliminales a los millones de gamers en todo el mundo.
Rápidamente los videojuegos se han convertido en un arma para mantener a los jóvenes esclavizados en una realidad virtual. Detrás de exitosas franquicias, de todas las empresas y de toda esa cultura de los videojuegos se encuentra la mejor arma de este sistema orwelliano: el entretenimiento.
Los videojuegos nos introducen a una realidad virtual en la que somos guerreros, héroes, hombres de acción mientras que sin saberlo vivimos en una esclavitud real.

Se dice que en el verano de 1981en la ciudad de Portland en el estado de Oregon, una camioneta Traffic negra dejaba algunas cabinas de un juego llamado Polybius (se estima que fueron seis o siete), la camioneta desapareció misteriosamente.
Durante todo ese día –algunos aseguran que era el 11 de julio—el enigmático juego llamo la atención de algunos curiosos comienzan a jugarlo.
En la tarde de dicho día los relatos de quienes lo habían jugado, cada uno hablaba de su experiencia y de lo que le habia producido física y mentalmente.
Las historias hacían referencia a combinaciones de luces, gráficos destellantes con mensajes subliminales ocultos.
Esto les generaba efectos en el subconsciente y en algunas personas fue de gravedad, muchos se sentían mal después de jugar.
Después de haber sido sacado del mercado vinieron argumentos que hablaban de una gran adicción hasta efectos demoledores tales como convulsiones, vómitos y pérdida de memoria, incluyendo algunos más inquietantes.
Algunos testimonios de quienes lo jugaron hablaban de que el juego provocaba graves efectos en el cerebro, alucinaciones auditivas y ópticas, ataques epilépticos y pesadillas.
Aseguraban ver caras fantasmales por el rabillo del ojo recorriendo la pantalla del juego a una velocidad casi imperceptible, así como mensajes que instaban al suicidio o al asesinato, tales como "Kill Yourself" (mátate), "No Imagination" (sin imaginación) "No Thought" (no pienses), "Conform" (confórmate) "Honor apathy" (honra la apatía) "Do not question authority" (no cuestiones a la autoridad) o "Surrender" (ríndete) entre otros. Muchos afirman haber oído voces y lamentos entremezclados con el fortísimo y confuso sonido electrónico del videojuego.
La compañía Sinneslöschen (en alemán "pérdida de los sentidos"); que creó el juego era una subdivisión de Atari, creando un proyecto secreto para la CIA, al menos eso es lo que dicen algunas teorías de conspiración.
Quienes hayan jugado ese videojuego fueron sin saberlo parte de una operación MK Ultra de la CIA, controlar la mente de las personas a base de las consolas de videojuego, recordemos que eran los primeros años de este nuevo sistema de entretenimiento.
La historia de Polybius ha quedado como una leyenda urbana sin embargo las teorías acerca de MK Ultra parecen ser más reales de lo que a muchos les gustaría creer.
Real o no lo cierto es que los videojuegos están diseñados para manipular la mente de quien los juega a un nivel subliminal.
A últimas fechas han salido al mercado juegos en el que el protagonista es un tirador en tercera persona. Juegos como Halo, Resident Evil, Call of Duty, Medal of Honor y Bioshock por mencionar solo a los más exitosos.
El objetivo es ir matando enemigo tras enemigo, el jugador va manejado al personaje principal disparando contra los objetivos y estos son objetivos son zombies, alienígenas, nazis, en resumen los enemigos de la humanidad, de la libertad y del Sistema.
Encontramos todo eso en la exitosa franquicia Call of Duty, en donde el protagonista comete torturas y homicidios en nombre del honor y de su país.
Es bien sabido que los reclutas americanos juegan Call of Duty como una forma de entrenamiento, el juego en si ha sido creado para reclutar jóvenes en el ejercito.
La mayoría de los jugadores de Call of Duty son niños entre los trece y los dieciséis años a los cuales se les enseña lo fácil que es matar pero matar sin responsabilidad, en un videojuego a los tipos que matan no son nadie, no tienen familia ni sentimientos, no pasa nada al fin que el jugador es el héroe. El proyecto MK Ultra está detrás de todas estas franquicias, la mayoría de los gamers son niños y adolescentes que son introducidos en esta realidad virtual donde se les enseña a odiar y a matar a los enemigos del Sistema anglo-sionista.
Por poner un ejemplo en la franquicia Halo los enemigos son una civilización alienígena gobernada por una jerarquía religiosa. ¿Irán? ¿Palestinos? De esta manera los enemigos ficticios son relacionados con un objetivo real.
La serie Medal of Honor diseñada por el jefe de propaganda anglo-sionista Steven Spielberg traslada al jugador a la Segunda Guerra en donde podrá matar alemanes en nombre de la democracia.
Setenta años después y la propaganda anti germánica continua esta vez dentro de los videojuegos. Los enemigos son los alemanes, los europeos, ellos representan todo lo malo, lo opuesto al ideal de democracia y deben ser asesinados, torturados, aplastados por el jugador.
Medal of Honor tiene una secuela ubicada en Afganistán, un ambiente mas moderno pero en donde el jugador continuara con su misión de destruir a los enemigos del Sistema.
La mente de los jugadores son condicionadas en estos juegos, matar y odiar, sus mentes están siendo manipuladas cada vez que pasan a un nivel y en muchos casos estos jóvenes se enlistan en el ejercito creyendo que se trata de un videojuego.
Son maquinas de matar, sus cerebros están diseñados para matar, están listos para ser enviados a Medio Oriente a combatir y matar.
Con estos antecedentes no es nada raro que los marines torturen, violen o asesinen civiles sin misericordia. Han sido entrenados desde casa para ello.

La manipulación MK Ultra no se encuentra solo en los videojuegos de guerra si no también en los videojuegos de contenido sexual. Los videojuegos eróticos son cada vez más frecuentes en el mercado y el mejor ejemplo de esto es Catherine.
Este videojuego que combina el terror con el erotismo el jugador maneja a Vincent un hombre común y corriente el cual engaña a su novia Katherine con un súcubo de nombre Catherine, una mujer atractiva que seduce al protagonista…..y al jugador.
Durante el juego debes responder a las preguntas personales, estas preguntas son emparejadas con las respuestas de otros jugadores para formar parte de algunas estadísticas en línea de muestra.
Hay seis posibles finales, todos determinados por la sinceridad de las respuestas del jugador. ¿Estadísticas en línea? ¿Preguntas personales? Manipulación MK Ultra, usando a una mujer seductora se acceden a los deseos, pensamientos y sueños de los jugadores haciendo más sutil y fácil poder dominar sus mentes.
Otro juego que vale la pena mencionar es la franquicia “Dead Or Alive” un juego de peleas bastante mediocre pero que sin embargo sobresale por una edición especial en el que los personajes femeninos juegan voleibol en bikini.
Los personajes virtuales resaltan por su sensualidad, sus curvas bien delineadas y el libido que despiertan en el jugador.
Las mujeres diseñadas virtualmente van poco a poco desplazando a las mujeres reales, las chicas de DOA son objeto de fetiche para los videojugadores quienes pasan horas y horas frente a la televisión jugando con las chicas.
La mayoría de los gamers son incapaces de entablar una relación sexual sana y muchos sufren de timidez con las mujeres. Es entonces que ellos encuentran en DOA o Catherine a las mujeres de sus fantasías.
Las chicas de los videojuegos actuales además de poseer cuerpos sensuales están diseñadas para coquetear con el jugador, haciéndole creer que es amado y deseado para compensar sus fantasías sexuales frustradas.
En muchos videojuegos de tipo hentai—pornografia japonesa—los jugadores toman el rol de un violador o de un pervertido que secuestra colegialas y las desviste, en estos juegos la mujer (niñas o adolescentes en su mayoría) se encuentran atadas, llorando y sumisas para un jugador que sacia sus frustraciones y fantasías en una realidad virtual diseñada para él.
Es mas fácil desnudar a una colegiala japonesa, tener sexo con Cahterine o jugar con las chicas de DOA que entablar contacto con una mujer real.
Manipulación psicológica en la que el jugador vive en su habitación teniendo sexo virtual con un personaje virtual diseñado de acuerdo a las fantasías masculinas.

La generación gamer es en su mayoría una generación apática de gente que vive encerrada en sus habitaciones, viviendo en un mundo virtual sin saber que viven en una esclavitud real.
Gordos, comiendo nachos o papas fritas mientras están simulando ser héroes, soldados o guerreros. El Sistema ha creado una generación apática, temerosa de salir a la calle, temerosa de vivir y que les ha dado mundos de fantasía donde vivir en la que son seductores, valientes, gente audaz y sin miedo pero encerrados en una falsa realidad.
El abuso de los videojuegos en los niños resulta nocivo y más si es desde temprana edad, un niño debe salir a divertirse, correr en un parque, pelearse con otros niños, jugar con otros niños no estar encerrado en una habitación jugando Call of Duty o matando zombies en Resident Evil sin embargo muchos padres prefieren que sus hijos se queden en casa jugando que en la calle donde se pueden lastimar de verdad al jugar o correr.
Consecuencias pueden ser tendencias violentas descontroladas, desarrollar timidez, sobrepeso o una conducta inestable, generar una adicción hasta desarrollar epilepsia.
Estas consecuencias son reales y muchos padres aun las desconocen. No obstante la tendencia a sobreproteger a los niños los aísla de la acción real que requiere que se lastimen jugando o resolviendo sus problemas en la vida cotidiana, que ellos vivan y desarrollen sus instintos en parques y en la calle es mal visto, lo mejor es que estén en una burbuja mirando televisión.
Vivimos en una época de padres sobreprotectores que les administran dosis de medicamentos a sus hijos mientras los mantienen encerrados en casa frente a la televisión o una consola de videojuegos. Generaciones de jóvenes holgazanes que ya no salen a la calle, ya no andan en bicicleta, ya no leen libros si no que se la pasan horas y horas jugando videojuegos, atrapados en una realidad virtual. Estos jóvenes no lucharan, no vivirán, sus instintos morirán mientras sus cuerpos se hacen más obesos y sus neuronas se van muriendo pero ellos creerán que son héroes de grandes proezas.
Sin saberlo mientras ellos viven en su mundo virtual, ellos son esclavos, su esclavitud es la usura, la política destructiva de los bancos, las leyes que restringen la libertad, la represión militar cada vez más fuerte del Sistema que cada vez más se acerca al Nuevo Orden Mundial.
Su mismo entretenimiento es su esclavitud.
Una esclavitud real solo que esta vez las cadenas han sido sustituidas por el playstation, el Xbox y una realidad virtual que nos aleja de los problemas del mundo.

samedi, 16 mars 2013

Finanzkapitalistische Raumrevolution

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Finanzkapitalistische 

Raumrevolution

Bernd RABEHL
 
Ex: https://rabehl.wordpress.com/

Ein Anfall

Im Haushaltsausschuss des Bundestages verlor Finanzminister Schäuble in den letzten Novembertagen 2012 jeden Anstand. In Brüssel und in Paris hatte er sich darauf eingelassen, dass die Bundesrepublik erneut Milliardenbeträge nach Griechenland pumpen würde, um dort den Staatsbankrott zu vermeiden. Das überschuldete Griechenland, ein Mafiastaat, der jede moderne Verwaltung und Aufsicht vermissen liess, eine Gesellschaft, unterentwickelt, ohne produktive Industrie und Landwirtschaft, strategischer Militärstützpunkt der NATO, heruntergekommerner Tourismusort, unterschied sich vom technologisch und industriell hochgerüsteten Zentraleuropa grundsätzlich. Hinzu kam, dass die vergangenen Militärdiktaturen und eine von der Mafia gesteuerte „Demokratisierung“ vermieden, den Sozial- und Militärstaat mit einer modernen Steuergesetzgebung und rationalen Bürokratie zu verbinden. Die Kontrollen durch das Parlament blieben mangelhaft. Selbst die europäischen Auflagen und Rechtsdirektiven wurden missachtet. Ein aufgeblasener Apparat diente als Selbstbedienungsladen der Staatsangestellten, der Spekulanten und des organisierten Verbrechens. Der Parasitismus der unterschiedlichen sozialen Schichten wurde sogar noch gefördert und die EU Zuschüsse grosszügig verteilt. Gewinne und Profite wurden nicht registriert und versteuert und eine masslose Verschuldung eingeleitet. Sie wurden über landeseigene und internationale Privat- und Kreditbanken, Hedgfonds und über die europäische Umverteilungen finanziert. Alle lebten in Saus und Braus.
In Griechenland wurden zu hohe Renten und Löhne gezahlt und zugleich riesige Gewinne realisiert. Sie wurden nicht erwirtschaftet, sondern über Kredite und Schulden aufgebracht. Nach den Gesichtpunkten der industriellen Durchschnittsproduktivität und nach dem Zustand von Staat und Recht, lag Griechenland irgendwo in Nordafrika. Dieser Kontinent hatte, bezogen auf Technologie, Arbeitsteilung, Produktion, Verkehr, Recht, Verwaltung, Lug und Trug den Balkan, Süditalien, Südspanien und Portugal erreicht. Der Überbau von Staat und Politik als ein Gebilde aus Korruption, Parasitismus, Vetternwirtschaft, Plünderung hatte mit Zentraleuropa nichts gemeinsam. Riesensummen wurden aus diesen Industriestaaten in das europäische „Afrika“ transferiert. Von dort wurden sie als billige Beute von den reichen und einflussreichen Familien in die Schweiz auf Geheimkonten gebracht oder an die nordamerikanischen Spekulanten weitergereicht. Sie hatten den griechischen Staat mit Krediten ausgeholfen. Die griechischen Regierungen verfälschten in der Vergangenheit die Bilanzen und den Stand der Verschuldung, um in das „Paradies“ der Europäische Union zu gelangen. Die deutschen Steuerzahler finanzierten dadurch die griechischen Betrüger und Absahner oder die nordamerikanischen Kredithaie. Ein grosser Rest wurden an die überbezahlten Staatsangestellten und Rentner bezahlt, um sie ruhig zu stellen und dem System eine demokratische Legitimation zu geben. Kein Wunder, dass in einem derartigen Milieu der Spiritualismus gedieh. Die faschistische „Morgenröte“ pendelte sich zu einer starken Partei auf. Die deutschen Steuerzahler leistete sich den Luxus, einen kranken und maroden Staat zu unterstützen, der unbedingt zu Europa gehören sollte. Diese Entscheidung wurde jedoch in USA gefällt.

Geostrategisch bildete Griechenland für diese Militärmacht einen Flugzeugträger, einen Militärstützpunkt und hielt die Meerenge der Dardanellen nach Russland unter Aufsicht. Griechenland stellte die Verbindung zur Türkei her und bildete die Brücke in den Nahen Osten. Es konnte mit dem albanischen Kosovo und Kroatien verbunden werden, die durch die amerikanischen Bombardements Serbien entrissen wurden. Es hielt die Verbindung nach Bulgarien und Rumänien, die unter nordamerikanischen Einfluss gestellt werden sollten. Griechenland schuf die Garantien für ein europäisches Mittelmeer. Es bildete eine Voraussetzung für ein „Grossisrael“, das sich gegen die arabischen Anreinerstaaten behaupten musste. Nordafrika oder die Nahoststaaten sollten militärisch und politisch dem Einfluss des islamischen Fundamentalismus entwunden werden. Sie sollten wie der Irak und Syrien einer Neuordnung unterliegen. Der zukünftige Krieg gegen den Iran benötigte die geostrategische Position Griechenlands und die finanzielle Unterstützung Deutschlands. Dieser deutsche Staat wurde von den USA angewiesen, das südeuropäische „Afrika“ und Israel zu stabilisieren. Es wurde zugleich darauf vorbereitet, in der Zukunft den Bestand der Mafiastaaten Bulgarien und Rumäniens zu gewährleisten. Frankreich entzog sich der Verpflichtung und geriet selbst in eine Finanzkrise. Deutschland sollte den geldpolitischen Hintergrund für ein „nordamerikanisches Europa“ bilden, das sich gegen Russland, gegen China und den Iran in Front brachte. Die Hauptabsatzmärkte der deutschen Wirtschaft lagen in diesen „feindlichen Regionen“ und im Gegensatz zu dem Aufmarsch wäre eine friedliche Koexistenz mit diesen Ländern notwendig. Deutschland als Wirtschaftsmacht und Griechenland als machtpolitischer Dominostein bildeten eine erzwungene Einheit. Den Deutschen wurde ein neues „Versailles“ aufgedrängt, an dem es kaputt gehen konnte. Das konnte Schäubele alles wissen. Er konnte sich den Auflagen und Befehlen der NATO und der USA schwer entwinden. Er fühlte sich inzwischen als Vertrauensmann dieser Mächte. Er hatte Schwierigkeiten, sich diesen Manipulationen zu entziehen. Die Frage stand im Raum, wie lange er diese Rolle aufrechterhalten wollte?

Der Finanzminister war innerlich erregt, denn er konnte nicht begründen, warum er der deutschen Republik derartige Zahlungen zumutete. Ihm fehlte jedes plausible Argument. Also schrie und pöbelte er. Jetzt im Ausschuss, Ende November, kommentiert durch FAZ, FR und FTD, fühlte er sich von der Linksabgeordneten Pau angegriffen und er wehrte sich gegen den SPD – Hinterbänkler aus Hamburg, der nicht einmal wusste, worum es ging, sondern für Würde und Anstand sorgen wollte. Schäubele brüllte über zehn Minuten in den Saal hinein und gab zu erkennen, dass er die Übersicht verloren hatte.  Er ahnte wohl, dass die europäische Krise wie in Argentinien 2001 in einem Staatsbankrott enden konnte. Er wusste, dass er deutsche Interessen kaum noch wahrnahm. Er konnte auch die Tatsache nicht verdrängen, dass er die Ziele der NATO, der EU und der USA bediente und dadurch die staatliche Souveränität Deutschlands unterminierte. Seit Ende der achtziger Jahre hatte er sich in der Regierung Kohl als ein Mann der „Kompromisse“ bewährt. Jetzt steuerte er die Finanzpolitik der Regierung von Angela Merkel und würde den Wohlstand der Mittelklassen in Deutschland riskieren und die Armut der millionenfachen Habenichtse in dieser Gesellschaft vergrössern. Die Zahlungen an Griechenland würden die Inflation und die Steuern steigern. Er wusste, dass Europa sich auf einen Krieg zubewegte. Sehr bald musste die Bundesregierung den Einsatz deutscher Soldaten in der Türkei, in Syrien, Ägypten und im Iran rechtfertigen. Schräuble schrie seine masslose Wut heraus, denn sein unbedachtes Spiel wurde offenkundig.

Planspiele

Listen wir die einzelnen Massnahmen auf. An die wirtschaftliche Konsolidierung der südeuropäischen Staaten durch eine gezielte Entwicklungspolitik wurde in Brüssel und Berlin nie gedacht. Statt die Riesensummen für die Spekulanten, die Absahner und die Mafia zu vergeuden, wäre es durchaus sinnvoll gewesen, den Ausbau der Infrastruktur dieser Länder zu finanzieren, um eine industrielle Grundlage zu schaffen. Allerdings hätten die EU – Institutionen die Kontrolle der Investitionen übernehmen müssen, um den korrupten Poltikern der Zugriff zu entziehen. Statt Israel mit Atom- U – booten auszurüsten und Militärausgaben zu übernehmen, hätte Deutschland die israelische Wirtschaft stabilisieren können, um einen Friedensprozess des Ausgleichs gegen die Kriegspropheten in diesem Land einzuleiten. Derartig Visionen durften nicht einmal erwähnt werden. Jede rationale Politik wurde von EU und NATO verworfen. Stattdessen einigten sich der griechische Staat und die Europäische Zentralbank darauf, die finanziellen Griechenlandhilfen, von denen Deutschland den Anteil von etwa 70% aufbrachte, zu einem „Schuldenschnitt“ zu nutzen. Die Schuldenagentur in Athen legte Rückkaufwerte für die ausstehenden Staatsanleihen für „private Investoren“ fest. Sie erreichten einen höheren „Preis“, als von den griechischen und nordamerikanischen Investoren erwartet worden war. Der „Internationale Währungsfonds“ (IWF) sollte ruhig gestellt werden. Zugleich wurde es wichtig, die Verluste der Anleihen zu begrenzen und die Inhaber zu veranlassen, die Papiere zu einem nicht erwarteten Wert zurückzugeben. Der „Umtausch“ bzw. der „Rückkauf“ der Staatsanleihen durch die staatliche Agentur wurde mit Hilfe des europäischen und deutschen Hilfsgeldes attraktiv gestaltet, um die Gläubiger zu veranlassen, die fälligen Staatsschulden abzugeben. Der griechische Staat sollte dadurch einen Anfang gestalten, die riesigen Schulden zu tilgen.

Der internationale Anleihenmarkt reagierte mit einem Kurssprung der griechischen Staatspapiere. Sie stiegen von 4.31 Punkten auf 40.06 Zählern. Sogar der Euro konnte im Kurs gegenüber dem Dollar zulegen und stabilisierte seinen Kurswert, weil die Griechen zu einem nicht erwarteten Teilpreis die „Privatschulden“ bezahlten. Die Regierung in Athen verfolgt den Plan, mit Mitteln des Euro – Rettungsfonds (ESFS) die von Privatinvestoren oder Fondsgesellschaften gehaltenen Anleihen im Umfang von 10 Milliarden Euro zurückzukaufen. Es handelt sich um Papiere, die Griechenland im Frühjahr 2012 im Verfahren einer Umschuldung aufgelegt hatte. Der Rückkauf soll die Schulden, da der Preis  zum Ursprungswert halbiert wurde, um rund 20 Milliarden Euro senken. Etwa Eindrittel der von Privatbanken gehaltenen Schulden wären durch diesen Rückkauf beglichen. Den Grossteil der griechischen Schulden, ein paar 100 Milliarden Euro, halten die Europäische Zentralbank, der Internationale Währungsfonds (IWF) und einzelne europäische Staaten. Die genaue Höhe dieser Werte fand bisher keine „öffentliche Zahl“. Gehen die Privatbanken auf dieses angebotene Geschäft des Rückkaufes ein, gibt es einen Wegweiser für die Freigabe der seit Juni „eingefrorenen“ Hilfsgelder. Die Entschuldung Griechenlands könnte langfristig über einen geregelten Rückkauf, über Staatsverträge und über den notwendigen Umbau des Sozial- und Steuerstaates angegangen werden.

Der vorsichtige Anleihenrückkauf verfolgt das Ziel, bis 2020 die Verschuldung auf 124% des Bruttoinlandsprodukts zu senken. Ohne derartige Massnahmen würden die Schulden Griechenlands „explodieren“ und den Staat in den Bankrott treiben. Ein derartiger Staatspleite würde das Land unregierbar machen, denn Teile der Betriebe der Dienstleistung, der Verwaltung, der Kommunen, der Staatswirtschaft würden schliessen müssen und zugleich die anderen „Südstaaten“ der EU in den Strudel der Staatspleiten reissen. Massenstreiks und soziale Unruhen waren zu erwarten. 2014 hätten die Schulden fast 200% des skizzierten Inlandsprodukts erreicht. Der Schuldenrückkauf musste deshalb sicherstellen, dass die Privatinvestoren auf das Geschäft eingehen und sich verpflichten, die angebotene Teilsumme zu akzeptieren. Die Staats- und staatlichen EU – Bankschulden wurden über Staatsverträge geregelt, an die sich die privaten „Spekulanten“ nicht halten mussten. Sie konnten internationale Gerichtshöfe anrufen, ihr Geld einklagen und den Schuldnerstaat in die Pleite jagen. Das passierte 2001 in Argentinien. 2012 wurde der Staatsbankrott des südamerikanischen Staates nicht abgewendet, denn die einzelnen Privatfonds bestanden auf der Zahlung des „gesamten Preises“ der Schulden. Die Konstruktion des Schuldenrückkauf war auch für Griechenland schwierig und der Staat musste eine „wacklige Normalität“ organisieren. Das komplizierte „Kartenhaus“ konnte schnell zusammenstürzen.

Die Entschuldung Griechenlands kannte drei Phasen. Zuerst mussten die Privatkunden, privaten Banken und Spekulanten in die Massnahmen eingebunden werden. Danach regelten Staatsverträge und Abmachungen den Rückkauf der Schulden von den Staatsbanken und Einzelstaaten. Unter Umständen wurde die Summe der Schulden Griechenland erlassen, falls nicht die anderen Schuldnerstaaten wie Spanien, Portugal, Italien, Irland u. a. die gleichen Bedingungen „einklagen“ würden. Der Schuldenrückkauf lief deshalb in der Form einer „Auktion“, um die Stimmungen und Interessen auf dem „Schuldenmarkt“ zu testen. Die Investoren und Gläubiger mussten ihre Preisvorstellungen offenlegen. Danach wurde von der Staatsagentur das Kaufangebot unterbreitet. Griechenland bot seinen Gläubigern je nach Laufzeit der Anleihe zwischen 30,2% und 38,1% des Nennwerts der jeweiligen Staatsanleihe. Den Zuschlag erhalten die Höchstgebote, die zwischen 32% und 40% liegen konnten. Auf dem freien Markt war lediglich mit einer Offerte zwischen 20% und 30% zu rechnen. Für einen begrenzten Zeitraum konnten die Spekulanten mit einem Zuschlag von etwa 10% rechnen.  Sie hatten oft die Papiere auf dem niedrigen Stand von ca. 8% des Kurswerts gekauft und verdienten so nebenbei ein paar hundert Millionen Euro, denn Deutschland hatte nun zugesagt, weiterhin für die Schulden Griechenlands aufzukommen. Stimmten sie zu und schalteten nicht die internationalen Gerichtshöfe ein, konnte die zweite und dritte Phase eingeleitet werden. Nicht nur der deutsche Finanzminister zeigte sich nervös. Alles hing an einem „seidenen Faden“.

In Argentinien war 2001 eine derartige Planung gescheitert, die nordamerikanischen Spekulanten und die unterschiedlichen Staatsbanken unter einen „Hut“ zu bringen. Der Staatsbankrott zerstörten den argentinischen Mittelstand, der in Bezug auf Bildung, Dienstleistung, Sicherheit, Gesundheit, Fürsorge, Erziehung usw. vom Staat anhängig war und auf die Strasse gesetzt wurde. Dieser Mittelstand hatte die Elektro-, Mode-, Computer-, Nahrungsmittel-, Bau- und Autoindustrie „gefüttert“ und diese Branchen durch die Arbeitslosigkeit und Pleiten in den Ruin getrieben. Die Immoblienpreise zerfielen. Die Hedgefonds hatten sich am Spiel der „Entschuldung“ nicht beteiligt. Bis heute wird das ausländische Kapital angeklagt, Argentinien in den Abgrund zu treiben. Der Populismus von Cristina Kirchner bekam Auftrieb und aktualisierte den antiimperialistischen Kampf. Vor allem der Hedgefonds Eliot Capital und Aurelius Capital und der Internationale Währungsfonds (IWF) verklagten den argentinischen Staat auf die Zahlung von 1,5 Milliarden Dollar. Sie erhielten 2012 vor dem amerikanischen Gerichtshof Recht. Bereits Ende 2005 beglich Argentinien die Schulden beim IWF, bevor die anderen Gläubiger abgefunden wurden. Der IWF hatte 2001 einen Kredit zurückgehalten und den Staatsbankrott ausgelöst. Argentinien pocht heute auf Souveränität und ist bemüht, den Einfluss des internationalen Finanzkapitals zurückzudrängen, um so etwas wie „Souveränität“ zu erlangen. Die genannten Hedgefonds beteiligten sich nicht am „Schuldenschnitt“. Sie klagten vor dem US – Gericht auf Gleichbehandlung. Die Klage wurde in der ersten Instanz anerkannt. Muss Argentinien zahlen, wäre ein zweiter Staatsbankrott angesagt. Dieses Beispiel beweist, dass der Prozess und die Phasen der Entschuldung eine weitere Komplikation enthalten, ziehen die Spekulanten nicht mit. Sie verfolgen andere Ziele als die Staaten und sind primär an hohen Gewinnen und an der Sicherung der Rohstoffe, Ländereien und Immobilien interessiert. Sie setzen wie in Südeuropa auf Krieg, um die „Landmächte“ Iran, Russland und China zu entmachten. Die „Logik“ ihrer Spekulation ist schwer zu durchschauen. In Nordamerika und in Europa begründeten sie eine Doppelmacht zum Präsidenten oder zu den Staaten der EU, da eine Bankkontrolle fehlte bzw. zu Beginn der neunziger Jahre abgeschafft wurde. Die neuen Rohstoffe, Industrien und Immobilien in Osteuropa, Russland und Afrika sollten gesichert werden.

Die griechische Staatsanwaltschaft demonstrierte der europäischen Öffentlichkeit nach der letzten Zahlung der Hilfsgelder, was die griechischen Spekulanten mit dem leicht verdienten Geld aus der EU anfingen. Die Staatsanwaltschaft untersuchte Vorwürfe gegen knapp 2000 Griechen, die Bankkonten bei der Genfer Filiale der britischen Grossbank HSBC eingerichtet hatten. Ihnen wird Steuerhinterziehung, Geldwäsche und Finanzbetrug vorgeworfen. Illustre Namen aus Politik, Bankgeschäft und Mafia sind auf der Liste der Betrüger zu finden. Sie belegen Verbindungen, die vorher nicht einmal vermutet wurden. Mit dem Namen von Magret Papandreou tauchten Hinweise auf die Spitzen der politischen Elite auf. Sie lenkten auf raffinierte Weise Zahlungen aus der EU auf ihre Konten, überwiesen die Summen auf Schweizer, britische oder nordamerikanische Banken und kauften mit diesem Geld etwa in Berlin, München oder Frankfurt/ Main Immobilien, Mietshäuser, Grundstücke und landwirtschaftliche Nutzflächen. Die einzelnen Wohnungen wurden mit „Eigenbedarf“ belegt, verkauft und die Mieter vertrieben. Das Geld kam also nach Deutschland zurück und wurde in „sichere Anlagen“ investiert, weil Zentraleuropa für die Spekulanten eine gute Adresse war. Zugleich wurden die deutschen Steuerzahler, die die Zahlungen nach Griechenland aufbrachten und soweit die Wohnhäuser von den neuen griechischen Hausbesitzern „besetzt“ wurden, aus ihren Wohnungen gejagt.

Die griechische Staatsanwaltschaft deckte diese Machenschaften auf, um den Gremien der EU und Deutschlands die europäische Normalität des Rechtsstaates in Griechenland zu signalisieren, falls weiterhin die Unterstützungsgelder flossen. Sie brachten „Bauernopfer“, ohne den Kreislauf oder den Geldtransfer kaschieren zu wollen. Das europäische Geld wurde teilweise in Griechenland abgezweigt und landete auf den Konten  in der Schweiz. Von dort wurde das Geld zum Immobilien- und Landkauf in Europa eingesetzt oder wurde genutzt, Ländereien oder Wälder  in West- oder Ostafrika zu erwerben. Das „Holz“ wurde geschlagen und die Wälder gerodet. Anschliessend wurden riesige Soya-, Mais- oder Zuckerrohrfarmen errichtet, um aus diesen genmanipulierten Naturrohstoffen Biogas oder Bioöl herzustellen, das in Europa teuer zu Weltmarktpreisen verkauft wurde. Die afrikanischen Bauern wurden vertrieben und schlugen sich nicht selten als Flüchtlinge nach Europa durch. Allein an diesem Beispiel lässt sich die „negative Funktion“ der Finanzspekulation und des Finanzkapitals aufzeigen. Die Zerstörung aller „Produktivkräfte“ enthielt keinerlei Schaffenskraft oder eine Zielsetzung, die Weltgesellschaften zu stabilisieren. Falls die Regierungen der Zerstörungswut und der Raffgier dieses Kapitals keinen Einhalt boten, würde es über den Weltmarkt Not und Elend tragen. Die enge Kooperation der Spekulanten mit den Ganoven der Mafia und der politischen Eliten, die die griechische Staatsanwaltschaft aufgedeckt hatte, entwarf ein erstes „Gesicht“ dieses Kapitals, das keinerlei Moral oder Verantwortungsethik kannte. Erstaunt waren die Berichterstatter der Zeitungen, dass die Parteien des Bundestages, etwa die Grüne Partei und die CDU zu fast 100% der Griechenlandhilfe zustimmten. War die Erwartung einer zukünftigen „Koalition“ so gross, dass diese Parteien die aktuelle „Raumrevolution“ des Finanzkapitals nicht zur Kenntnis nahmen und sich diesen Manipulationen auslieferten? Würde ein Verteidigungsminister Trittin, deutsche Soldaten in die Türkei und in den Iran schicken? Gab es keinen „Karl Liebknecht“ bei den grünen Aufsteigern? Wurde die ganze Biographie dieser Poitiker für einen Staatsjob riskiert?

Fragen des Weltmarktes

Wieso konnte Afrika in Gestalt der Misswirtschaft, der niedrigen Arbeitsproduktivität, der Arbeitslosigkeit, der Überbevölkerung, der Verschuldung nach Südeuropa hineinragen? Warum wurde Russland „asiatisiert“? Wie konnte es passieren, das Afrika, Asien und Lateinamerika sich in den nordamerikanischen Kontinent eingruben? Die Kriterien sollen entschlüsselt werden in der je spezifischen Form des Kapitalismus der einzelnen Gesellschaften und Regionen. Die Übersetzung der technologischen Revolutionen in die Produktivität der Industrie und in den rationalen Aufbau von Staat, Recht und Verwaltung bestimmen ein weiteres Thema.  Berücksichtigt werden soll das Ausmass der Konzentration und Zentralisation der Produktion, der Banken und des Handels. Die Machtpolitik der Kapitalfraktionen, vor allem des Finanz- und Medienkapitals und der politischen Klasse, bildet einen anderen Gesichtspunkt. Die Kriegs- und Rüstungswirtschaft, gekoppelt mit den unterschiedlichen Ansätzen von Diktatur, mit der Neudefinition der Klassen und Völker und mit den politischen Bündnissen der einzelnen Eliten, umreissen einen weiteren Masstab der kapitalistischen Durchdringung der einzelnen Kulturen und Erdteile. Wichtig bleibt in diesem Zusammenhang von Machtpolitik und Imperialismus die Disposition der Ideologie und die Umsetzung in Propaganda, Reklame und politische Religion. Der Okkultismus der herrschenden Cliquen gewinnt an Bedeutung, denn sie reagieren auf eine wachsende Rationalität von Organisation und Planung, auf die Unregierbarkeit von „Massen“, die durch Automation und Denkmaschinen aus Arbeit und „Brot“ gedrängt werden. Die herrschenden Machteliten  verbergen über rassische, religiöse oder völkische Mythologien die Potentialitäten der sozialen Frage und der „Freiheit“. Sie begründen über Verschwörungen und parapsychologische Phantasmen den Führungsanspruch. Im Angesicht einer technisch begründeten Produktionsordnung radikalisieren die Spekulanten und Ideologen den Irrationalismus und zerren die Neuzeit zurück in das dunkle Mittelalter. Wie lassen sich nun derartige Differenzen und die Formen von Machtpolitik skizzieren?

1.    Differente Akkumulationsbedingungen des Kapitals im Weltmaßstab: Entscheidend für die potentielle Einheit und für den hierarchischen Aufbau des Weltmarktes sind und waren die unterschiedlichen Akkumulationsbedingungen des Kapitals. Marx und Engels skizzierten bereits die unterschiedlichen Formen einer ursprünglichen Akkumulation des Kapitals in England, Frankreich, Preussen, Russland und Nordamerika. England wies die klassische Form des Kolonialismus, der Vertreibung, des Handels, des Manufakturkapitals, der „industriellen Revolution“ und der Proletarisierung der eigentumslosen Bauern und Städter auf. Frankreich und USA kannten neben dem Staat die Unterstützung des Finanzkapitals, das jeweils die Kredite für die industrielle Akkumulation zur Verfügung stellte. Die Rüstungswirtschaft und der Aufbau einer modernen Armee und Flotte wurden Motor einer technologischen „Revolution“, die sich an den neusten Waffensystemen orientierte. Die staatlichen Investitionen wurden durch Kredite unterstützt, die das Finanzkapital zur Verfügung stellte. Es favorisierte die Herausbildung der Monopole, der Trust und Syndikate, um die organisatorische und wertmässige  Konzentration der Produktion durch eine Zentralisation der „Produktivkräfte“ zu steigern, die eine bessere Arbeitsteilung und eine enge Kooperation der Betriebe und Regionen ermöglichten. Preussen bereits übersetzte über Staat und Armee die technologischen und industriellen Errungenschaften des „Westens“ in Reformen und in eine staatskapitalistische Kriegswirtschaft, die auf der Privatwirtschaft fusste, zugleich jedoch die Erfindungen und Entdeckungen, die Forschung materiell und produktiv in der Rüstung umsetzte. Die Mischformen staatlicher und privater Initiativen wurden bedeutsam. Diese wiederum beeinflusste die zivile Produktion. Über eine weitgefächerte Bildung der Berufs- und Ingenieursschulen und über das System der Forschungsstätten, der Naturwissenschaften und technischen Universitäten wurde ein Mittelstand geschaffen, der als Unternehmer, Forschungsintelligenz, Management, Verwaltungsspezialist, Offizier die Effiziens und die Breite der industriellen Produktion in Gross- und Kleinbetrieben förderte. Über diese technologische und bildungspolitische Kooperation manifestierten sich politische Bündnisse zwischen den Facharbeitern und Ingenieuren, Gewerkschaften und Unternehmern, Parteien und Armee. Die Kriegswirtschaft als staatskapitalistisches Unternehmen bewährte sich nach 1945 als eine enge Zusammenarbeit der gesellschaftlichen Kräfte. So „gewann“ das westliche Deutschland in den fünfziger Jahren durch ein „Wirtschaftswunder“ nachträglich den II. Weltkrieg.

2.    Staatskapitalistische Erweiterung der kapitalistischen Industrialisierung: In Russland und USA wurde dieses „preussische Modell“ (Stolypin nach 1905, New Deal nach 1934) übernommen, wirkte jedoch unterschiedlich. Russland wollte den preussischen Reform- und Militärstaat übertragen, scheiterte jedoch an der Schwäche der Staatseliten und des russischen Industriekapitals. Die Arbeiterklasse als legale Gewerkschaft konnte sich nicht formieren. Die bolschewistische Diktatur errichtete nach 1917 einen Kriegskommunismus, der primär über Terror und Zwang die industrielle Akkumulation umsetzte. Zugleich wurden die Klassen und Völker über die Staatsdespotie und die Zwangsarbeit umdefiniert in „werktätige Massen“. Die Rüstung stand im Mittelpunkt, erlangte jedoch nie die Produktivität des westlichen Kapitalismus und konnte nur bedingt auf die zivile Produktion übertragen werden. Trotz einer Bildungsreform fehlten in einer Mangelwirtschaft die produktiven Facharbeiter und Ingenieure. In einem Zwangssystem verpasste die Propaganda und die politische Ideologie die Erziehung selbstbewusster und produktiver Arbeitskräfte. Bis 1989 konnte die Diktatur über Polizei- und Militärgewalt das russische Imperium bewahren, das danach unter den Schlägen des westlichen Kapitalismus sehr schnell zusammenbrach. Die  russische Macht, eingeklemmt in den Methoden von Staatskapitalismus, Planwirtschaft, despotischer Präsidialmacht und Privatkapital, hatte Probleme die innere Konsistenz gegen die vielen Völker und nationalen Märkte zu behaupten. Der Präsident Putin nahm deshalb die Ziele der bolschewistischen Expansion erneut auf, um sich gegen das US – Finanzkapital behaupten zu können, das an den Rohstoffen  und an den Zerfall Russlands in Einzelrepubliken interessiert ist.

3.    Finanzkapitalistische Formen der Konzentration und Zentralisation des Kapitals: In USA sorgte das Finanzkapital für die wirtschaftpolitische Besonderung und „Funktion“ der Monopole und Syndikate, die durch Armee und Flotte unterstützt und durch die Präsidialmacht finanziert und kontrolliert wurden. Schon deshalb erlangte hier das Finanzkapital den Zuschnitt einer Doppelmacht, die Einfluss nahm auf die „Politik“ und die Medien und ausserhalb der Verfassung innen- und aussenpolitische Ziele verfolgte. Es sicherte sich den Zugriff auf die Weltrohstoffen und forderte die Unterstützung von Armee und Flotte. Es konkurierte mit dem europäischen  und asiatischen Imperialismus und übernahm sehr bald die Erbschaft des spanischen, portugiesischen, französischen und englischen Imperialismus. Der dreissigjährige Krieg mit Deutschland und Japan nach 1914 liess sich nicht vermeiden. Der Sieg über Japan und Deutschland machten Russland und China zu den Hauptgegnern. Nicht der amerikanische Präsident propagierte den Mythos von „Feindschaft“ und „Okkupation“, sondern das Finanzkapital folgte hier der Logik von Profit, Macht, Markt und Rohstoffsicherung, kaschierte jedoch diese Ansprüche unter den Handels-, Freiheits- und Menschenrechten. Es sorgte dafür, dass über internationale Verträge und Militärstützpunkte die mediale „Inszenierung“ und Gestaltung der Demokratie und die Herrschaft der Machteliten auf die Einflusszonen übertragen wurden. Neben den russischen und chinesischen „Reichen“ und „Kontinenten“ wurde nach 1918 und vor allem nach 1945 und 1989 ein nordamerikanisches „Imperium“ gefestigt und ausgedehnt.

4.    Der chinesische Weg der Industrialisierung: China kombinierte die russische Erfahrung von Staatskapitalismus und Planung mit einer Öffnung zum Weltmarkt und zum westlichen Finanzkapital. Es sicherte vielfach das chinesische Reich über staatliche Grossbetriebe, Zwangsarbeit, Kleinwirtschaft, „Kommunen“, das Primat der “Partei“, Militarisierung der Gesellschaft und Polizeiwillkür. Die Gefahr der Verselbständigung einer „Despotie“ sollte durch die materiellen Anreize eines mittelständischen Privatkapitalismus und der „Konkurrenz“ der staatlichen Grossbetriebe auf dem Weltmarkt aufgebrochen werden. Jedoch nicht die kapitalistischen Investoren oder das private Kapital sollte die Oberhand gewinnen und dem westlichen Finanzkapital Einfluss und Herrschaft gewähren. Der chinesische Staatskapitalismus improvisierte als Staatshandel und Staatsbank die westlichen Methoden der Spekulation und der Kreditvergabe und koppelte diese „Kapitalisierung“ mit einer ökonomischen Politik des privaten Handels, des Mittelstands und der Bauernwirtschaft. Zugleich produzierten die Staatsbetriebe vorerst Ramschprodukte für den Weltmarkt, stellten sich jedoch auf eine Qualitätsarbeit im Auto- und Maschinenbau ein. Ob dieser Kriegskommunismus als Friedenswirtschaft Erfolg haben wird, wird sich zeigen. Eine Rüstungswirtschaft, moderne Armee und Flotte belegen die Ziele eines chinesischen Imperialismus, der seinen Einfluss in Asien und Afrika ausbaut. Hatte Russland Mühe, sich als europäische und asiatische Macht zu konsolidieren, stemmte sich die Volksrepublik China gegen die us-amerikanischen Ansprüche von Weltmacht und Einflusszonen.

5.    Mischformen der Industrialisierung: Der asiatische Kontinent weist neben dem japanischen und chinesischen Weg zum Kapitalismus Wirtschaftsexperimente auf, die sich an Europa, die USA, Russland oder das britische Empire orientieren. Die wachsende „Überbevölkerung“ kann durch eine mässig wachsende Wirtschaft nicht absorbiert werden. Sie wandert ab, gefördert durch den Weltmarkt oder durch ein EU – Recht oder illegal, nach Europa, Russland oder Nordamerika. Dadurch entstehen in diesen Gesellschaft „kulturelle Zonen“, die die ursprüngliche, nationale Kultur zersetzen oder zu einem neuen, anderen Zusammenhalt kombinieren.

6.    Die Teilmärkte unter dem Druck des Weltmarktes: Der Weltmarkt teilt sich auf in die unterschiedliche Teilmärkte, die zwar der industriellen Produktivität „Rechnung“ tragen und sich den Durchschnittpreisen, Gewinnen und Profiten annähern, trotzdem die Politik und den Staat als Regulator benötigen. Dieser Staatseingriff wird durch das nordamerikanische Finanzkapital in Lateinamerika, Europa, Afrika, Australien, Asien, Russland und China aufgebrochen. Die Sicherung der Weltrohstoffe wird als Ursache der Intervention genannt. Es geht jedoch darum, jede Souveränität und Unabhängigkeit auszulöschen, um über einen Weltmarkt die eigene Ordnung zu sichern, die eine Konkurrenz der kulturellen Werte, der politischen Mächte oder gar des Fremdkapitals nicht dulden kann. Die Sicherung der Macht des Finanzkapitals benötigt den Staat und die Legitimation über eine „parlamentarische Demokratie“, die allerdings den Interessen der Lobbygruppen des Kapitals folgen muss. Diese „Legitimation“ durch die „Massen“ benötigt die mediale Inszenierung von Politik und Wohlbefinden und sie ist auf die Einfluss- und Machtlosigkeit der „Bürger“ und „Wähler“ angewiesen. Schon deshalb werden die Partei- und Staatseliten kontrolliert, „bezahlt“ und „verwaltet“. Derartige Herrschaftsmethoden und Feindbilder gegen Russland, China, den Iran, den Islamismus erfordern die politische, wirtschaftliche und kulturelle Einheit des Imperiums.

7.    Die Theorie des staasmonopolistischen Kapitalismus und die Fragen der „Raumrevolution“: Nikolai Bucharin und Eugen Varga begründeten eine Theorie des „Staasmonopolistischen Kapitalismus“ (Stamokap), die von einer doppelten Negation der finanzkapitalistischen Intervention auf Wirtschaft und Staat ausging. Die Existenz der „Sowjetunion“ und der kommunistischen Arbeiterbewegung zwang nach diesem theoretischen Kalkül das Finanzkapital, einen Sozialstaat anzuerkennen und zu fördern und zugleich gegen die kommunistische Herausforderung faschistische oder konterrevolutionäre Parteien oder Formationen zu formieren. Mit Hilfe dieser „konterrevolutionären Kräfte“ wurden Kriege vorbereitet, konnte Georgij Dimitroff auf dem VII. Weltkongress der Kommunistischen Internationale berichten. Ein ausserökonomischer Faktor verlangte neben den Verfassungsrechten die Anerkennung sozialer Rechte im Staatsaufbau. Zugleich fand der „Faschismus“ Unterstützung, um die kommunistischen Ansprüche einzugrenzen und zu überwinden. Wir folgen dagegen der Einschätzung von Karl Marx, Rudolf Hilferding, W. I. Lenin, Rosa Luxemburg, Max Horkheimer und Herbert Marcuse. Die Arbeiten der konservativen Denker um Max Weber, Carl Schmitt und Ernst Forsthoff über die Herrschaftsformen und über den Status von Recht und Verfassung geben weitere Einblicke.

8.    Zur Theorie der Doppelmacht: Das Finanzkapital formierte neben dem nationalen Staat eine internationale Doppelmacht. Die Staatsinterventionen bzw. die Methoden des Staatskapitalismus wurden genutzt, eigene Interessen umzusetzen. Die „Inszenierung“ der Demokratie als Parteienherrschaft und als Medienmacht sollte sicherstellen, die politischen Eliten in Abhängigkeit zu bringen und die sozialen Klassen und Interessengruppen zur Anerkennung bestehender Herrschaft zu zwingen. Die Umdefinition der Klassen in Publikum, Konsument, Zuschauer usw. sicherte neben der Subsumtion der politischen Eliten unter die kapitalistischen Interessen die Macht des Finanzkapitals, ohne Widerstand oder Widerworte zu riskieren. Die „Paralyse“ und die „Chaotisierung“ der Gesellschaft, ihre Pauperisierung und Verwahrlosung garantierten die finanzkapitalistische Macht als demokratisch inszenierte Diktatur. Diese Macht wirkte expansiv und empfand jeden Widerspruch als politische Herausforderung, so dass neben dem Sicherheitsstaat der Sozialstaat die Ausmasse eines totalen Staates gewann, ohne allerdings eine offensive „Militarisierung“ und „polizeistaatliche Kontrolle“ der Gesellschaft zu eröffnen. Die Sicherung der Weltrohstoffe und die massive Aufrüstung trugen die Potenzen neuer Kriege. Neue Regionen und Kontinente sollten vom Imperium besetzt werden.

9.    Finanzkapitalistische Machtprinzipien und die Zerstörung der kontinentalen Ordnung: das Beispiel Russland. Der Zusammenbruch des russischen Kriegskommunismus Ende der achtziger Jahre hatte viele Ursachen. Die Planwirtschaft verlor die Übersicht über die industriellen und materiellen Ressourcen. Die Hierarchie der politischen und wirtschaftlichen Entscheidungsträger potenzierte einen Bürokratismus, der auf die produktiven und technologischen Veränderungen der industriellen Produktion nicht mehr reagieren konnte. Die Mangelwirtschaft schuf Unzufriedenheit im Volk. Die Arbeitsethik wurde zerstört. Schlamperei, Diebstahl, Gleichgültigkeit und Sabotage gehörten zum Arbeitstag der Ingenieue und Arbeitskräfte. Die ideologische Propaganda verlor jede Resonanz. Die Mangel- und Planwirtschaft gab den russischen Werktätigen „überschüssiges Geld“, das sie nicht ausgeben konnten, weil es nichts zu kaufen gab. Die Korruption zerfrass eine geplante „Reproduktion“ der Wirtschaft. Ein „geheimer Kapitalismus“ breitete sich über den Schwarzmarkt und über die organisierte Kriminalität in der Wirtschaft und in den „Staatsorganen“ aus. Den Rüstungswettstreit zwischen USA und UdSSR musste die russische Diktatur verloren geben. Die Rüstungswirtschaft befruchtete nicht die Konsumindustrie. Sie kostete Riesensummen Rubel. Forschung und Spionage waren schlecht mit der Wirtschaft koordiniert. Armee und Geheimpolizei konnten die Gesellschaft nicht länger „militarisieren“ oder kontrollieren. Im wachsenden Chaos konnte sich das finanzkapitalistische Prinzip von Macht und Geschäft ausbreiten, wie Michail Chodorkowski in „Mein Weg, ein politisches Bekenntsnis“ beschreibt. Erste Reformen legalisierten zum Ende der achtziger Jahre den „grauen“ und den „schwarzen“ Markt. Ein eigenständiges „Wirtschaften“ sollte die Kooperation zwischen den Staatsunternehmen und den Universitäten erleichtern. Die Kosten sollten für die staatlichen Grossbetriebe gesenkt werden. „Private Kooperative“ sollten die Möglichkeiten schaffen, mehr Konsumgüter herzustellen.  Chodorkowski organisierte in Moskau an der Universität und an der Akademie der Wissenschaften junge Forschungsspezialisten, die neue technische Produkte entwarfen und für den Konsummarkt aufbereiteten. Vor allem die Computertechnik, die Produktion künstlicher Diamanten oder Kunststoffe, Farben wurden für russische Verhältnisse übersetzt, verändert und für die Massenproduktion vorbereitet. „Leistungsverträge“ zwischen den einzelnen Abteilungen der Universität und den Staatsbetrieben wurde geschlossen, um an „Material“ oder Rohstoffe heranzukomen. Ein staatliches Komitee für Preise behinderte weiterhin die Flexibilität der Kooperativen und sorgte für langwierige und bürokratische Verfahren. Das „übeschüssige Geld“ der Betriebe und der Konsumenten verlangte nach einem „freien Handel“, der schliesslich von der staatlichen Preisaufsicht gewährt wurde. Die Planwirtschaft zerbrach. Jetzt liefen sogar die Geheimpolizisten zu den neuen Unternehmern über und lieferten Informationen. Chodorkowski erlangte dadurch von der Staatsbank die Erlaubnis, eine „Geschäftsbank“ zu gründen und mit Devisen und ausländischen Waren, etwa mit amerikanischen Computern, „russifiziert“ im Sprachprogramm und in der „Logistik“, zu handeln. Als erfolgreicher Unternehmer unterstützte er Jelzin bei der Präsidentenwahl Mitte der neunziger Jahre. Es gelang ihm, Erdölquellen und Rohstoffelder zu erwerben und gründete im neuen Jahrtausend den Yukos – Konzern. Er kooperierte eng mit den nordamerikanischen Chevron – Konzern und wollte eine Pipeline nach China und nach Murmansk errichten. Von Chevron übernahm er unterschiedliche Technologien, die das nordamerikanische Patent trugen, die als „Privileg“ die Dieselproduktion aus Erdgas „revolutioniert“ hätten. Chodorkowski  finanzierte die russischen Parteien Jabloko, Einheitliches Russland, sogar eine Kommunistische Partei. Zugleich wollte er Fernsehsender aufkaufen, Universitäten und Forschungsakademien einrichten und sich als Präsidentschaftskandidat gegen Putin aufstellen lassen. Er verkörperte ohne Zweifel die amerikanische „Freiheit“ in Russland, trotzden stand die „Struktur“ von Politik und Öffentlichkeit, Technik und Patentrecht, Finanzkapital und Rohstoffverarbeitung, Wissenschaft und Forschung nicht in der „russischen Tradition“. Der Schutz des Volkes, der Rohstoffe und der Wirtschaft liess sich mit dieser „Kapitalisierung“ nicht vereinbaren. Nicht aus dem „russischen Kontinent“ wurden neue Formen der Demokratie, des Rechts und des Marktes aus dem „Kriegskommunismus“  ertrotzt, sondern das Prinzip des westlichen Finanzkapitalismus wurde „aufgeproft“. Das mag der Grund sein, warum der Präsident Putin Michail Chodorkowski verhaften liess.

10.    Die vier Säulen der nordamerikanischen Zivilisation: In Strategiepapieren des Center for a New American Security (CNAS) und des German Marshall Fund of the United States (GMFUS) werden die vier Säulen der nordamerikanischen Weltordnung herausgestellt. Sie umfassen Frieden, Wohlstand, Demokratie und Menschenrechte. Sie werden gesichert und ausgebaut über die Welthandelsordnung (WTO), Weltfinanzordnung (IWF), Seefahrtfreiheit (UNCLOS), die Nichtverbreitung von Atomwaffen und die Menschen- und Freiheitsrechte. In Russland und vor allem in China werden diese Säulen des nordamerikanischen Imperiums nicht anerkannt. Die chinesische Volksrepublik unterläuft durch Staatsunternehmen, durch die Staatsbank und durch die Kopie der finanzkapitalistischen Methoden in Handel und Kreditmarkt die Welthandelsordnung. China untergräbt durch eigene Kreditvergaben den internationalen Währungsfonds und wickelt den Welthandel nicht über den Dollar, sondern über den chinesischen Yuan ab und vergibt eigenständig Kredite an afrikanische und lateinamerikanische Staaten. Diese Grossmacht benutzt den Dollar zur „Gegenspekulation“, um die manipulierte Staatsverschuldung und Währungspolitik des nordamerikanischen Finanzkapitals in den Staatsbankrott der USA zu überführen. China verstösst gegen das internationale Seerecht, denn es beansprucht Inseln im südchinesischen Meer. Es will die Rohstoffe und Erdöllager für die chinesische Volkswirtschaft sichern. Der Bau der Atomwaffe wird durch China in Nordkorea und im Iran unterstützt. Es akzeptiert nicht die westlichen Handels-, Menschen- und Freiheitsrechte und unterstützt eine politische Ordnung, die sich grundsätzlich von der nordamerikanischen Demokratie unterscheidet. Dadurch gibt primär China sich als „Feind“ der USA und Westeuropas zu erkennen. Cuba, Venezuela, Iran, Russland wären machtunfähig, würde China nicht für die Souveränität dieser Staaten einstehen.

11.    Die USA und die „Swingstaaten“: Um China zu isolieren, orientieren die USA sich auf die „Übergangs- und Swingstaaten“, die eine eigenständige Industrialisierung durchführen und zugleich Teilmärkte des Welthandels bilden. Es handelt sich um Brasilien, Indien Indonesien und die Türkei. Diese Staaten sollen überzeugt werden, die chinesische Wirtschaftsexpansion zu stoppen. Im Rahmen der WTO sollen Schutzzölle gegen chinesische Importe erhoben werden. Mit den einzelnen Unternehmerverbänden sollen Verhandlungen aufgenommen werden, die chinesische Konkurrenz einzudämmen und zu vermeiden, chinesische Kredite anzunehmen. Freihandelszonen mit den USA sollen gegründet werden, um die eigene Wirtschaft zu fördern und den Einfluss des IWF zu gewährleisten. Aus diesem Währungsfonds sollen die Nationalbanken und Staaten Kredite aufnehmen. Eine Kooperation mit Brasilien sollen die USA befähigen, in Afrika eine neue Entwicklungspolitik aufzunehmen, die sich nicht primär um die Rohstofflager kümmert, sondern die wirtschaftlichen Grundlagen der einzelnen Staaten fördert. Die chinesischen Erfolge in Afrika beunruhigen die USA, die Brasilien einsetzen müssen, um auf die afrikanische Kultur und Sozialstruktur eingehen zu können, ohne die korrupten Eliten zu unterstützen. Die Militärmacht der Türkei wird angesprochen, die arabischen Armeen in Saudiarabien zu trainieren und die Verbindungen zur NATO und zur Bundeswehr zu verstärken. Das türkische Militär soll zur politischen Stabilisierung der Region beitragen, falls ein interner Bürgerkrieg die staatliche Struktur Syriens und des Iraks zerstört. Die türkische Armee soll die Intervention der USA oder Israels „übernehmen“ und zugleich den Nahen Osten im Sinne der nordamerikanischen Ordnung befrieden. Der Türkei wird zugestanden, dass kein kurdischer Staat gegründet werden kann. Ausserdem soll die Türkei Teil der EU werden, um diesen Staatenbund und die NATO in den potentiellen Krieg gegen den Iran und gegen Russland einzubinden. Diese Swingstaaten sollen angeregt werden, Parteien und politische Eliten im nordamerikanischen Sinn aufzubauen. Ausserdem sollen Nichtregierungsorganisationen (NGO) den chinesischen Einfluss in Indonesien und in den arabischen Staaten zurückdrängen.

12.    Die Weltüberbevölkerung und die sozialen Völkerwanderungen: Die Produktivität der kapitalistischen Industriezweige und das Wachsen der Weltbevölkerung „produzieren“ eine Überbevölkerung, die von den bestehenden Arbeitsmärkten der einzelnen Staaten nicht aufgenommen werden kann. Eine grosse Masse, junge und alte Arbeitskräfte, Flüchtlingen, Vertriebene, Verelendete, Arme, Emigranten werden durch Sozialhilfen und Hilfsgelder ernährt. Sie erlauben primär in Zentraleuropa, in Deutschland und in einzelnen Städten und Staaten der USA den Betroffenen ein „Überleben“, das lediglich den Bruchteil des Wohlstands des Mittelstands erreicht. Fast Eindrittel der europäischen Bevölkerung geriet in den Status der Hilfsbedürftigen. Sie „geniesst“ einen Lebensstandard, der zwar im Masstab des Landes „erbärmlich“ bleibt, trotzdem gegenüber Afrika, Asien und Lateinamerika eine „Verheissung“ vorstellt. Dort darben fast Zweidrittel der Völker ohne Land, ohne Auskommen und Arbeit in den Slumgrosstädten. Eine industrielle Entwicklung scheint unmöglich zu sein, weil die imperialistischen Mächte an Rohstoffen, Urwald und Land interessiert sind und die korrupten Eliten diese Interessen bedienen. Vor allem die Jugend kennt deshalb nur ein Ziel, nach Europa oder Nordamerika zu kommen, um hier zu überleben. Dieser Sozialstaat und dieses Flüchtlingslager in Europa müssen polizeiliche Methoden der Kontrolle einsetzen, um diese Massenbevölkerung der Paupers unter Aufsicht zu halten. Nicht allein der Ausnahmestaat, Rüstung und Militär bedrohen den Rechtsstaat, er wird zugleich durch den Sozialstaat untergraben, der die Hilfsgelder verteilen muss. Neben dem Ausbau des Sicherheits-, Militär- und Polizeistaates übernimmt der Sozialstaat Polizeiaufgaben, denn Einkommen, Bankkonten, Geschäfte, Krankheit, Geburt, Gesundheit der einzelnen Bürger werden durch diesen Staat registriert und verwaltet. Die kleine Schicht der Millionäre und Milliardäre aus dem Sektor der Finanzspekulation wird allerdings von diesen Massnahmen ausgenommen.

13.    Jugendarbeitslosigkeit: Nach Berechnungen der Internationalen Arbeitsorganisation (ILO) hat die aktuelle Krise fatale Auswirkungen auf die Sockel- und Jugendarbeislosigkeit. Die produktive Industrie, Wirtschaft und Verwaltung können in Europa die Masse der Arbeitslosen nicht mehr aufnehmen und beschäftigen. Selbst wenn die Konjunktur irgendwann wieder anspringen würde, wäre diese Massenarbeitslosigkeit nicht überwindbar. In Spanien etwa lag die strukturelle Arbeitslosigkeit Ende 2011 bei 12,6% der arbeitsfähigen Bevölkerung. Diese Arbeitslosen würden zu keinem Zeitpunkt mehr einen Arbeitsvertrag erhalten. Griechenlands „bereinigte“ Erwerbslosenrate wies die Ziffer von 12,8% auf. Vor allem die Südländer der EU gewannen für Investoren keinerlei Attraktivität. Sie errichteten die neuen Autofabriken oder Zuliefererfirmen in China, Indien oder in USA. Die miserable Schul- und Berufsausbildung, die schlechte Arbeitsmoral und die Kosten schreckten die Finanziers ab. Dadurch stieg die „Trendarbeitslosigkeit“ in Südeuropa noch weiter. Vor allem junge Menschen sind von dieser Arbeitslosigkeit betroffen. Ihre Biographie wird kaum eine Beschäftigungskarriere aufweisen, falls sie nicht nach Nordeuropa auswandern. Bei den jungen Menschen unter 25 Jahren ist in Europa fast jeder vierte ohne Arbeitsplatz, Die Arbeitslosigkeit erreicht in dieser Gruppe oder „Generation“ der Erwerbslosen über 25%. Eine wachsende Verwahrlosung der Jugend ist zu erwarten. Soziale Unruhen und Radikalismus finden in dieser hoffnungslosen Jugend ein Echo. Zwar sollen staatliche Massnahmen eine „Bildungspolitik“ ergänzen, die die Jugend bisher an die Universitäten, Schulen und Fachhochschulen versetzt hatte, ohne ihr gesellschaftlich notwendige Berufe oder Fachwissen zu vermitteln. Derartige Bildungsmassnahmen sind kaum finanzierbar, werden jedoch von der EU erweitert und auf die Unterschichtsjugend ausgedehnt, ohne zu wissen, welche Ziele diese „Beschäftigungstherapie“ verfolgt. Sie in die Armeen zu stecken, die Gesellschaften zu militarisieren, würde die Gewaltbereitschaft und die Kriegsgefahr erweitern. Den Zynismus der Politiker kann sich niemand vorstellen, die Jugenderwerbslosigkeit und die Massenarbeitslosigkeit über Kriege regeln zu wollen.

14.    Die Neugeburt des nordamerikanischen Kontinents: Eine neue Lage auf dem Weltmarkt entstand, als sich herausstellte, dass in den USA riesige Erdöl- und Erdgaslager gefunden wurden. Die Preise für Energie mussten nicht ausschliesslich über die Sicherung der Weltrohstoffe gewährleistet werden. Das US – Finanzkapital verfügte über Rohstoffreserven, die für eine Reindustrialisierung Nordamerikas eingesetzt werden konnten. Die industrielle Infrastruktur wurde bisher durch den europäischen Maschinenbau, die Auto-, Chemie- und Pharmaindustrie gefährdet. In USA war ausserdem die Bildungskapazität der Facharbeiter, der Ingenieure und des mittleren Managements unterentwickelt. Neben der Spitzenforschung und neben den Spezialisten und Forschern in der Rüstungsindustrie fehlte der Unterbau einer grundlegenden Fach- und Berufsausbildung. Durch die billigen Energiepreise für Kohle, Diesel, Bezin und Elektrizität verlangten die Hilfs- und Massenarbeiter keine hohen Löhne, denn die Sozial-, Renten- und Gesundheitsabgaben waren gering. So kann passieren, dass der deutsche Maschinenbau, die Autoindustrie und die anderen produktiven Industriezweige in Nordamerika neue Betriebe aufbauen und die Gesellschaft bildungs- und berufsmässig „kultivieren“. Der Schaden, den die Finanzoperationen und Spekulationen in Nordamerika angerichtet hatten, wird plötzlich durch die nordeuropäischen Kulturleistungen relativiert und zurückgenommen. Es ist jedoch anzunehmen, dass das US – Kapital aus den alten Fehlern nichts lernen wird. Erneut wird das Prinzip des „Catch is catch can“ alle Aufbauleistungen zerfetzen. Ein „europäischer“ Reform- und Bildungsstaat wird nicht existieren.

15.    Über den Okkultismus als Herrschaftsprinzip: Die Marx’sche Religionskritik und die konservative Feindanalyse stimmen in einzelnen Punkten überein. Für Marx stand in der Kritik am Christentum fest, dass der Geldfetisch, das Finanzgebaren, die Spekulation, die Gesinnungsethik des Geldgeschäfts alle Religionen erfassten, die wie die jüdischen, katholischen, protestantischen und islamischen Religionen von einem einzigen „Menschengott“ sprachen, der im Leben der Menschen und zugleich in der Geschäfts- und Arbeitsethik „verkörpert“ wurde. Nicht nur dass die Menschen in diesen Religionen sich als Menschheits- und Sozialprinzip selbst anbeteten, sie übertrugen nach Marx die Geldakkumulation und die Mühen der notwendigen Arbeit auf die Religion als Schuld und Verheissung. Dadurch verloren die religiösen Menschen das Bewusstsein von Freiheit und Gerechtigkeit. Sie leiteten die Freiheits- und Menschenrechte aus den frühen und entstehenden Kapitalismus ab. Ein „Geld- und Warenfetisch“ wurde nach Marx auf den Liberalismus und auf die unterschiedlichen Utopien und „politischen Religionen“ übertragen. Durch diese Übermacht der religiösen Mysterien im menschlichen Denken wurden die die nachfolgenden Ideologien als „politische Religionen“ einem wachsenden Irrationalismus ausgesetzt. Je technisch rationaler die Gesellschaft durch den modernen Kapitalismus gestaltet wurde, desto irrationaler wurde der Glauben bzw. die ideologische Weltsicht.  Völkerhass, Rassismus, Astrologie, Weltuntergang, Wunderglauben und Mystik steigerten den irrationalen „Verstand“ in einer durchrationalisierten und technologisch vollkommenen „Gesellschaftsmaschine“. Dieser religiöse Okkultismus war deshalb nach Marx Mittel, die Aufklärungsphilosophie zu verfälschen und die soziale Angst und Entwurzelung zu politisieren. Die Herrschaft der wenigen Geldmagnaten und Mächtigen konnte nur gelingen, wenn die Klassen, Völker und Nationen jeden Gedanken an die eigene Stärke und Tradition verloren und sich in einem Kampf der Religionen und Kulturen verschleissen liessen. Marx sprach diese Religionskritik wiederholt als Form der „Entfremdung“ und der „reellen Subsumtion“ der Arbeitskräfte unter die Kapitalbedingungen von Markt, Geld, Lohn, Profit, Preis und Produktion an. Dem atheistischen Materialisten interessierten nicht die moralischen, ethischen und kulturellen Aufgaben der „Menschengottreligionen“, um so ewas zu garantieren wie „Gottvertrauen“, Moral und Verantwortungsethik. Die Religion gewann bei den Konservativen einen anderen Stellenwert. Die konservativen Kritiker des Liberalismus und der modernen Ideologien setzten eine Feindanalyse an den Anfang der Staats- und Demokratiekritik. Der Feind und Gegner der eigenen Kultur, der die Lebens- und Arbeitsbedingungen bedrohte oder sogar zerstörte, sollte analytisch bestimmt werden, um einen fatalen „Funktionalismus“ bzw. eine Rechtfertigung der kapitalistischen Produktion oder des Bankgeschäfts zu vermeiden. Katholizismus oder Protestantismus bezeichneten den Ausgangspunkt der Feindsicht. Der wachsende Irrationalismus, die Dekadenz, die Zerstörungswut, die „Fäulnis“ des Feindes sollte benannt werden, um sich der eigenen Kraft und Gesellschaftlichkeit zu vergewissern. Die christliche Religion bildete die Voraussetzung der Feindanalyse. Sie gab Grundwerte und Tradition. Diese Vorgehendweise lässt sich in der Philosophie von Martin Heidegger, in der Soziologie von Hans Freyer, in den Arbeiten von Ernst Jünger und in der Staatstheorie von Carl Schmitt aufspüren.

Skizzen einer „Raumrevolution“ in Europa

Die USA übertrugen nach dem II. Weltkrieg ihre Herrschaftsmethoden und die Prinzipien der Macht auf Westeuropa und Japan. Nach 1989 wurden Versuche gestartet, Osteuropa, Russland, die Türkei und sogar den Nahen Osten nach diesen Ordnungsfaktoren zu gestalten. Die USA betätigten sich in diesen Gesellschaften nicht offen als Kolonialmacht, Diktatur und Unterdrücker, obwohl der militärische Sieg und die Besetzung der genannten Länder erst die Garantie bot, die eigenen Interessen umzusetzen. Formal wurden die Freiheits- und Demokratierechte eingeführt und sogar Wirtschaftskonjunkturen angestossen, die dazu beitrugen, das Elend und die Folgen der Kriege und Diktatur zu überwinden. Die Werte und Formen einer instrumentalisierten „Demokratie“ wurden aus USA übersetzt und verbunden mit einem kapitalistischen Lebensstil, Medienkult und Konsumideologie. Die Vereinzelung und Zersplitterung aller sozialen Klassen, Schichten, Bürger und Interessen durch derartige Methoden sicherte den kleinen Gruppen in Wirtschaft und Staat die Macht. In den zwei, drei Grossparteien verwalteten und gestalteten ausgesuchte und überprüfte Eliten, Cliquen und Gruppen eine parlamentarische Demokratie, die den Widerspruch und die Konkurrenz der unterschiedlichen Demokratieformen nicht kannte. Die Wähler wurden zu den „Konsumenten“ und Zuschauern von Ereignissen, Debatten und politischen Szenen, ohne selbst entscheiden zu können. Eine „Einheitspartei“ inszenierte Demokratie als Spektakel.

Westdeutschland gewann ab Mitte der fünfziger Jahre über den Marshall – Plan durch eine „Wohlstandsgesellschaft“ sogar nachträglich gegenüber einzelnen West- und Oststaaten den II. Weltkrieg. Ohne die Unterstützung der USA wäre die Wiedervereinigung der zwei Deutschlands nach 1989 unmöglich gewesen. Umgekehrt half  das geeinte Deutschland den USA, in Osteuropa, in Asien und Nordafrika Einflüsse zu gewinnen, um die Rohstoff- und Absatzmärkte zu sichern. Die enge Kooperation der deutschen und nordamerikanischen Wirtschaft war Ausdruck der Präsenz und der direkten Eingriffe der USA. Umgekehrt profitierten die deutschen Märkte von der Dynamik und der Politik Nordamerikas. Allerdings vermieden die deutschen Regierungen, sich in die Interventionskriege dieser Grossmacht hineinziehen zu lassen. Weder in Korea, in Vietnam, im Irak, in Syrien kämpften deutsche Truppen oder Legionäre. Der Krieg in Afghanistan dokumentierte eine ersten „Waffenbrüderschaft“ und es ist zu vermuten, dass ein Angriff auf den Iran eine deutsche, militärische Teilhabe verzeichnen würde. Die Bundesrepublik stabilisierte im Sinne der USA Westeuropa und erleichterte den Zusammenbruch des „Kriegskommunismus“ in Osteuropa. Trotzdem wiesen beide Mächte eine eigene und andere Tradition von Wirtschaft und Politik auf. In der Gegenwart scheint die zerstörerische Kraft des Finanzkapitals dieses „Bündnis“ und die Stabilität der gemeinsamen Ziele zu untergraben.

Der erste Kanzler der Bundesrepublik Deutschland, Konrad Adenauer, setzte auf eine enge Zusammenarbeit mit den USA, um einen neuen, deutschen Teilstaat aus den Resten bzw. Trümmern der NS – Diktatur und der preussischen Tradition zu begründen. Ihm war zugleich wichtig, die westdeutsche Wirtschaft technologisch zu erneuern und über eine Wirtschaftskonjunktur, die „Eingliederung“ der vielen Flüchtlinge, Ausgebombten und „Heimkehrer“ zu gewährleisten. Aus dem Schutt der NSdAP zwei Grossparteien zu errichten und zu zwei politischen, fast „identischen“ Lagern zu fügen, ohne der NS – Ideologie einen Auftrieb zu geben, konnte ohne die USA nicht gelingen. Diese Grossmacht verzichtete auf eine „antifaschistische Neuordnung“, die in Potsdam zwischen der UdSSR und den Westalliierten ausgehandelt wurde und stützte sich auf deutsche Kämpfer und „Partisanen“ aus den Wehrmachtverbänden, der GESTAPO und der SS, um einen russischen Angriff abwehren zu können. Präsident Harry Truman und sein Geheimdienstchef Allan Dulles waren überzeugt, dass die russische Gegenmacht die revolutionären Unruhen in China, Indien, Persien, Griechenland, Westeuropa und Afrika ausnutzen würde, um mit den kampferprobten Panzerverbänden bis zum Atlantik vorzustossen. Die deutschen Kämpfer sollten einen Partisanenkrieg eröffnen und die Rote Armee aufhalten, bis die nordamerikanischen Bomberverbände den Vormarsch zusammemschiessen würden. Eine Geheimarmee, Gladio,  von ein paar zehntausend Mann, wurde mit amerikanischen Waffen und Offizieren ausgerüstet. Die USA als Siegermacht schienen mit dem Anspruch der Freiheits- und Menschenrechte die Anschauungen eines „Führerstaates“ und die Utopien der kommunistischen Ideologie endgültig zu widerlegen und durch den materiellen Realismus einer Konsumgesellschaft, des Wohlstands und der wehrhaften Demokratie zu begründen. Endlich „kämpfte“ das westliche Restdeutschland auf der richtigen Seite.
Im Sog dieser geheimen Militarisierung des entstehenden „Kalten Krieges“ entdeckte der ersten Bundeskanzler der deutschen Westrepublik die Chance, aus den unverbrauchten „Resten“ des deutschen Volkes und aus den produktiven Beständen von  Wirtschaftsfachleuten, Managern, Militär und Sicherheitsdiensten einen neuen Staat aufzubauen. Die katholische Bourgeoisie des Rheinlandes, Schwabens und Bayerns sollte das soziale Fundament des neuen Staates abgeben. Die katholische und christliche Arbeiterbewegung, alles tapfere Soldaten und Facharbeiter, sollten die bürgerlichen Ansprüche ergänzen und zu einer Bündnis- und Volkspartei vereinen. Der Antipreusse Adenauer nahm die Reform- und Bündnispolitik des preussischen Staates auf, internationalisierte sie jedoch durch den europäischen Katholizismus, der die Grundlagen des europäischen Faschismus und deutschen Nationalsozialismus pragmatisch und ideologisch überwinden sollte. Ihm war zugleich wichtig, den Staat Israel anzuerkennen und eine Politik der Wiedergutmachung an den Juden einzuleiten, um zu vermeiden, dass die zionistischen Kreise in Israel, Europa oder USA Front bezogen gegen den westdeutschen Teilstaat. Der neue Bundesstaat und die Kanzlerdemokratie waren auf die Unterstützung der USA angewiesen, um das Experiment der Neugründung mit den alten, belasteten Beamten und Funktionären zu starten und die politischen Wurzeln einer „Volkspartei“, der CDU/CSU zu stabilisieren, die gerade nicht eine Fluchtburg der Parteigenossen der NSdAP werden sollte. Dieses doppelte Experiment einer Staatsgründung und der Formierung einer Parteiendemokratie gelang, weil der Kanzler Adenauer den Auflagen des Besatzungsstatutes, der „Kanzlerakte“ und der Verträge mit den USA genügte. Er spielte den „Kanzler der Alliierten“, wie Kurt Schumacher höhnte, und erschuf aus den Trümmern der deutschen Kriegswirtschaft und des totalen Staates eine neue Ordnung und Ökonomie. Diese Politik folgte den Direktiven und Vorbehalten der USA und besass trotzdem eine deutsche Tradition. Die Bündnis- und Reformpolitik, die Verbindung von Sozial- und Sicherheitsstaat, die staatliche Konjunkturpolitik, das weitgefächerte Bildungsprogramm, der wachsende Wohlstand, die Einrichtung einer „nivellierten Mittelstandsgesellschaft“, der soziale Aufstieg eines geschundenen Volkes nahmen die Tradionen Preussens und der „deutschen Reiche“ seit 1871 auf.

Die Bundesrepublik überrundete sehr schnell Frankreich und England. Es mussten keine Koloialkriege geführt werden. Ausserdem musste kein „Kolonialreich“ finanziert werden. Es war nicht nötig, die vielen Wirtschaftsflüchtlinge aus Nordafrika und dem „Empire“ aufzunehmen. Die Bundesrepublik verfügte über das Fachwissen und den Aufbauwillen eines Restvolkes, das die Wirtschaftsräume Ostdeutschlands und Osteuropas aufgeben musste. In Westeuropa behinderten die Kolonien ein „Neubeginnen“. Stattdessen siedelte Nordafrika in Südfrankreich und Kalkutta breitete sich in London und Manchester aus. Die Kolonialkriege erreichten die „Mutterländer“ und destabilisierten Wirtschaft und Politik. England und Frankreich verloren nachträglich den II. Weltkrieg und waren auf die Wirtschaftskraft der Bundesrepublik angewiesen, um selbst ein labiles Gleichgewicht zu halten. General De Gaulle bewunderte deshalb den Kanzler Adenauer und wollte die westdeutsche Politik aufnehmen und erweitern in ein Europa der „Vaterländer“. Nach diesem Muster sollte eine „Europäische Union“ errichtet werden. Die Bundesrepublik wurde zum wirtschaftlichen und kulturellen „Drehpunkt“ des neuen Europas erklärt. Eine derartige „Integration“ lag durchaus im Interesse des nordamerikanischen Finanzkapitals. Vorerst musste deshalb eine neue Ostpolitik eingeleitet werden, um Russland und Osteuropa zu destabilisieren.

Die beiden Deutschlands, die Bundesrepublik und die DDR, wurden in den Plänen der NATO und des Warschauer Paktes als Regionen des Krieges, des Aufmarsches und des Einsatzes von Raketen gesehen. Diese beiden Deutschlands wären in eine Mondwüste bei Ausbruch des modernen und totalen Krieges verwandelt worden. Die westdeutschen Kanzler und die Staatsratsvorsitzenden der DDR wussten, welchem Zwang und welcher Verantwortung sie ausgesetzt wurden. Die USA beobachteten misstrauisch die Angebote Stalins an den Kanzler Adenauer, die deutsche Einheit und einen Friedensplan zu riskieren. Er lehnte ab, denn die USA hielten die Bundeswehr, den Bundesnachrichtendienst und die Regierung unter Kontrolle. Die Nato- und die Wirtschaftsverträge nahmen neben dem Besatzungsrecht und den Stationierungsauflagen der Bundesrepublik die Souveränität. Adnauer verhandelte mit Nikita S. Chrustchew Mitte der fünfziger Jahre über die Rückkehr der deutschen Kriegsgefangenen. Erste Handelsverträge wurden geschlossen. Ludwig Erhardt weigerte sich, die Kriegspolitik der USA in Vietnam und im Nahen Osten in den sechziger Jahren zu unterstützen. Die Studentenrevolte war ihm willkommerner Anlass, vor einem Kriegseinsatz deutscher Soldaten im Ausland zu warnen. Die Regierungen unter den Kanzlerschaften von Georg Kiesinger und Willy Brandt setzten die Adenauerpolitik fort, denn die Sozialdemokratie hatte die „List der Vernunft“ des alten Kanzlers übernommen und sie war wie die CDU daran interessiert nach 1961, nach dem Mauerbau in Berlin, die Kriegsfronten im Osten durch einen Reform- und Gullaschkommunismus aufzuweichen. Die Verwestlichung der Oststaaten und der DDR lag durchaus im Interesse der USA und im Kalkül der finanzkapitalistischen „Doppelmacht“.

Erst 1989, beim Zusammensturz des Kriegskommunismus, traten Widersprüche auf. Kanzler Helmut Kohl wurde von der US – Regierung und vom Finanzkapital auf die Chancen der „deutschen Einheit“ aufmerksam gemacht. Es wurde wichtig, die Generalität und das Offizierkorps der „Volksarmee“ und der „Sovetskaja Armija“ abzufinden und ihnen den Verteidigungswillen zu nehmen. Noch wichtiger wurde es, dem Geheimdienst, KGB, MfS und HVA, neue Aufgaben in der Wirtschaft zu übertragen, ohne eine „revolutionäre Rachejustiz“ einzuleiten. Nicht vergessen werden durfte, die Parteiführung von SED und KPdSU zu schonen und ihre Legalisierung in einer neuen Republik zu gewährleisten. Die Formel der „friedlichen Revolution“ im Osten umschrieb die Manöver, den alten Führungskadern aus Politik, Militär und Sicherheit im Osten Straffreiheit zu gewähren und sie unterzubringen im Sozialstaat und in der Wirtschaft. Voraussetzung dafür war, die entstehende „soziale Revolution“ aufzuhalten und stattdessen die Ordnung der alten Bundesrepublik als Rechtsstaat und als Parteiendemokratie in den Osten zu überführen. Gelang diese „Transformation“ der BRD in die DDR, konnte sie in Osteuropa und in Russland als Programm der „Demokratisierung“ wiederholt werden. Diese Vereinigung der beiden Deutschlands und der beiden Europas kostete mehrere hundert Milliarden DM. Weitgehend die deutsche Wirtschaft brachte diesen Betrag auf und wurde belohnt mit neuen Absatzmärkten, Immobilien und billigen Industrieinvestitionen. Als Verhandlungsführer dieser komplizierten „Übertragung“  wirkte im Auftrag von Helmut Kohl der Staatssekretär Schäubele, heute Finanzminister und Geburtshelfer eines europäischen Einheitsstaates.

Irgendwann nach 1990 entstanden Gegensätze in den politischen Perspektiven des europäischen Kontinents gegenüber der Weltmacht USA. Als finanzkapitalistische und politische Doppelmacht waren die USA an der Zerschlagung Russlands als Grosstaat, Imperium, Kultur, Rohstoffreserve, Industriegigant und asiatische Gegenmacht interessiert. Russland sollte in viele Kleinstaaten zerlegt werden. Die wichtigen Rohstoffregionen sollten durch nordamerikanische Konzerne besetzt werden. Die ehemaligen, russischen Sateliten sollten durch nordamerikanische Stützpunkte und Finanzhilfen unter die Hegemonie der USA gestellt werden. Vor allem Deutschland musste dagegen am russischen Teilmarkt interessiert sein. Wie nach 1871 waren deutsche Investitionen  und industrielle Aufbauhilfen gefragt, um den alten morbiden Planstaat, den Sicherheits- und Militärapparat zu überwinden. Die Kombination von Staatskapitalismus, kapitalistischer Grosswirtschaft und Handel, von Mittelstand- und Sozialspolitik und der Einführung einer weitgefächerten Berufsbildung boten Alternativen zum „Kriegskommunismus“, aber auch zur Negativkraft des Finanzkapitalismus, dessen Zerstörungswut in USA und Südeuropa zur Deindustrialisierung, zur Massenarmut, Arbeitslosigkeit und zur Prassucht der Superreichen verleitet hatte. Die „Negation“ der Aufbauarbeit oder das Fehlen einer „neuen Schaffenskraft“, aus den Trümmern neue Initiativen, Technologien und produktive Ansätze zu „zaubern“, wiesen auf eine tiefe Krise der finanzkapitalistischen Spekulation. Der Verlust an Möglichkeiten oder die Realität einer „negativen Aufhebung“ des Kapitalismus auf kapitalistischer Grundlage belegten den Einbruch aller Potenzen. Eroberungskriege wiesen auf einen letzten Ausweg. Selbst die neuen Rohstoff- und Erdölfunde in den USA und die Hineinnahme der europäischen und deutschen Bildungs- und Wirtschaftskraft zum Neuanfang einer Industrieproduktion demonstrierten den grundlegenden Widerspruch, dass der US – Staat die Zerstörungswut des Finanzkapitals nicht länger zügeln konnte. Oder war zu erwarten, das die lateinamerikanischen und afrikanischen Völker in USA das „Steuer“ herumrissen und einen neuen Reform- und Gesundheitsstaat schufen und der finanzkapitalistischen Spekulation Aufsicht und Regulation aufzwangen?  Der europäische Kontinent und hier Deutschland und Russland würden aus der kombinierten staats- und privatkapitalistischen Wirtschaft und vor allem aus einer „Revolution von oben“ neue Anfänge hervorbringen.

Diese Alternativen sind öffentlich kaum diskutierbar, weil die Medien, die Parteien und die Politik, die „Negativkräfte“ der fianzkapitalistischen Spekulation in Südeuropa, in Griechenland und USA nicht erörtern und darstellen. Darüber darf nicht gesprochen werden. Die Überwindung oder „Abschaffung“ der Arbeiterbewegung in Deutschland hat alle Konflikte und gegensätzliche Interessen eingeebnet. Die Forschungsinstitute der Parteien und Universitäten sind angewiesen, über den „Negativfaktor“ Finanzkapital keinerlei grundlegende Analysen zu erheben. Die Medien hüllen sich in „Schweigen“ oder in vagen Andeutungen. Es bleibt trotzdem erstaunlich, dass die Hintergründe der aktuellen Krise nicht benannt werden dürfen. Das mag an der Doppel- bzw. Parallelmacht des Finanzkapitals liegen, das über „Logen“, Geheimbünde, Absprachen, Verschwörungen Staat und Wirtschaft durchziehen und die Medien beherrschen. Die devoten Eliten in Parteien und Staat wagen es nicht, aufzubegehren, um ihren Lebensstandard und ihre Position nicht in Frage zu stellen. „Verschwörungen“ bringen letztlich keinerlei Lösung. Sie verstärken ein Chaos durch Entscheidungslosigkeit der Eliten oder durch eine „Paralyse“, die die gesamte Gesellschaft erfasst. Schon deshalb werden Ereignisse auftreten, die wie ein Befreiungsschlag wirken werden.

Mit der nordamerikanischen Doppelmacht des Finanzkapitals ist nicht etwa eine „jüdische Plutokratie“ oder eine „jüdische Weltherrschaft“ gemeint. Diese Form des Kapitalismus lässt sich nicht auf eine Ethnie festschreiben. Die antisemitische Polemik eines Joseph Goebbels diente dem Weltmachtanspruch der NS – Diktatur und entbehrte jeder wissenschaftlichen Grundlage. Dass es auch jüdische Banker und Spekulanten gibt, verleiht diesem Kapital nicht ein irgendwie „jüdisches Wesen“. Der Finanzkapitalismus folgt einer geldspezifischen und finanzpolitischen Logik, die sich aus der „Struktur“ des Geldes, der Spekulation, der Aktie, des Fonds, der Börse, des Handels usw. ergibt. Selbst der Existenzkampf des israelischen Staates hat mit den finanzkapitalistischen Operationen wenig zu tun. Allerdings liegt er in einer Region, deren Bodenschätze für die Spekulation interessant sind. Kurzschlüsse in die skizzierte Richtung zu vollziehen, lässt sich aus den anwachsenden okkultischen Strömungen im modernen Kapitalismus erklären, einen „Schuldigen“ oder das „Böse“ schlechthin zu finden.

La misantropía


Por Fernando Trujillo


Ex: http://imaginacionalpoder.blogspot.com/
 
Cuando te levantas por la mañana y enciendes la televisión ¿Qué es lo que ves? Si pones el noticiera veras casos de secuestros, violaciones, crímenes, impunidad y la ineptitud de los políticos, veras corrupción y te enteraras de los escándalos de famosos de dudosa calidad artísticas.
Si pones el canal de música veras a decadentes cantantes de pop, escucharas la degradante música de reggeton y a estrellas fugaces que en unos años terminaran siendo consumidores de cocaína.
Cuando sales de tu casa para ir al trabajo ves que en el mundo ya no hay seres humanos si no maquinas, todos se levantan a una determinada hora, se van apurados a sus respectivos trabajos mecanizados, ves la contaminación de las ciudades, grandes autobuses a toda velocidad rozando la banqueta sin importarles arrollar a alguien.
Gente a toda velocidad en sus autos pitando desesperadamente, animales atropellados en medio de la calle, todos vestidos igual, todos siguiendo los mismos patrones.
Los fines de semana al encender la televisión ves un entretenimiento vulgar y vacio pero lo suficientemente embrutecedor para que apagues tu cerebro.
El futbol que tanto le gusta al hombre moderno y lo mantiene en un sofá es una religión para este hombre promedio.
Para combatir tu aburrimiento vas a los centros comerciales viendo cosas que tu salario no te permite comprar, caminando dando vueltas por las mismas tiendas, ves el cine que es cada vez más caro y ves las mismas películas de siempre.
Comedias románticas, películas de acción, películas de animación, películas ganadoras del Oscar y todas son una porquería pero que mantienen a la gente embrutecida.
Tiempo de elecciones, votas por los mismos partidos, crees en las consignas de esta fraudulenta democracia y al final pones un papelito en una urna, felicidades ya hiciste lo que debías pero gane quien gane el país seguirá siendo una mierda, eso no importa mientras el futbol siga en la televisión. Esto es humanidad, esto es lo que se le llama progreso, tenemos democracia, televisión, cine, centros comerciales y comida rápida.
Siglos de evolución y el hombre es ahora un ser metrosexual, obeso, prepotente, enfermizo, aficionado a los medicamentos, estúpido, cruel y cada vez portador de una calidad genética más deficiente. El único sentimiento que puede inspirar el ser humano moderno es desprecio, de ahí nace la misantropía como una necesidad de poder soportar la vida.

Valentine de Saint-Point decía en su Manifiesto de la Mujer Futurista: “La humanidad es mediocre. La mayoría de las mujeres no son ni superiores ni inferiores a la mayoría de los hombres. Son iguales. Todos merecen el mismo desprecio.”
Estas palabras constituyen la definición de lo que es el pensamiento misántropo, ante el hombre-masa y ante una sociedad muerta la misantropía se convierte en la única forma de no perder la poca cordura que le queda a uno.
Esta civilización fáustica que se enorgullece de su progreso tecnológico, de su democracia y de ser la cúspide de la historia (concepto bastante risible) ha desarrollado un amor hacia la mediocridad, en esta época la mediocridad ya no es una actitud si no que es viene en el código genético del hombre. La calidad de las obras de arte ha estado deteriorada por décadas pero la gente se siente muy culta al ver botes de basura pintados de colores o un cuadro con manchas de colores chillones.
 La gente paga parte de su salario para ir al cine y ver las mismas comedias bobas, protagonizadas por los mismos comediantes sin talento.
Este arte sin trascendencia es cultura, esta música comercial y este cine vulgar son entretenimiento, los hombres y mujeres leen los periódicos para mantenerse “informados” y creen ser personas cultas. Este tiempo está definido por la “Religión del Hombre” en donde abundan los derechos humanos, el humanismo, el antropocentrismo, todas tiene en común que ponen al hombre en el centro del universo. Esto le da derecho al ser humano a destruir la naturaleza, a extinguir especies animales, a contaminar y destruir aéreas ecológicas para crear zonas residenciales para los millonarios, realmente repugnante.
El ser humano no es una criatura admirable, era admirable el guerrero vikingo, el filosofo griego, el patricio romano y el caballero medieval pero el gordo que se sienta a ver televisión con su coca jumbo y su hamburguesa de Mcdonalds no.
Mientras esta masa humana se multiplica sin control más zonas naturales van desapareciendo, mas consume y más se acaba el alimento, mas pobreza y mas criminalidad pero cada niño que llega al mundo es una “bendición”, un nuevo votante, un nuevo consumidor.
Muchas veces me he preguntado si existen campañas para esterilizar perros y gatos ¿Por qué no una para esterilizar seres humanos? En los animales se aplica para evitar la sobrepoblación, entonces por lógica se debería hacer una campaña similar para poder disminuir la enorme cantidad de vida humana. El exceso de vida nos ahoga y la cantidad supera a la cualidad pero en un mundo enfermo de humanismo la cantidad es una “bendición”.

La misantropía es una reacción contra el mundo moderno, contra la civilización decadente en la que nos ha tocado vivir. El hombre dista mucha de ser la criatura más noble e inteligente de la creación, un perro es una criatura más honorable que cualquiera de los buenos ciudadanos, un águila tiene más porte que cualquier político.
¿Qué es el hombre frente a las bestias? Un ser avaro, repugnante, enclenque, sin raza y sin espíritu y sin embargo en su afán de superioridad destruye la naturaleza para construir sus soberbias ciudades. A la destrucción de la naturaleza y extinción de especies animales se le llama progreso y es esta destrucción de la cual está orgullosa esta civilización.
Con este mismo afán de superioridad el hombre de la modernidad se siente más grande que el hombre del pasado, siente que vive en la mejor época y que vive en una sociedad que ha superado toda la historia.
Ridícula idea pero que sin embargo es compartida por la mayor parte de esta humanidad decadente, así el hombre moderno con toda su racionalidad, su materialismo, su insensibilidad ante la naturaleza, su fe en el progreso se cree un ser superior por encima del hombre del pasado.
Ante esta realidad el misántropo es una persona que ha abierto los ojos y ve al mundo como el basurero que es, ve la civilización como un craso error en la historia y ve al hombre como un ser involucionado.
El misántropo ve la reproducción humana como un fatal error y más aun lo ve como una irresponsabilidad dada a las masas.
La reproducción debe ser selectiva, solo a los mejores se les debe de dar ese derecho no a las masas ignorantes.
Ni siquiera los animales se reproducen de manera tan irresponsable como los seres humanos. No obstante un estado que tiene por principio el bienestar personal y la “felicidad” por medio del progreso la idea de una selección natural o artificial es considerada aberrante.
Para un espíritu pesimista la misantropía es una forma de defensa, un escudo y una espada para no sentirse abrumado por la decadencia a su alrededor.
Esta decadencia humana y esta inevitable caída de la civilización son vistas por el misántropo como una terrible realidad, para escapar o hacerle frente muchos escriben poesía, otros escriben ensayos, otros se encierran en sí mismos, algunos recurren al suicidio y algunos solo se ríen de la vida como una broma sin gracia.
Nunca vas a cambiar al mundo y los dogmas optimistas como el famoso “El amor cambiara al mundo” son solo fantasías románticas para espíritus débiles. Ante esto la misantropía es ver el mundo sin disfraces ni ilusiones, una vez que pierdes la esperanza solo te queda la lucha.

Opérationnalité de l’inconnaissance

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Opérationnalité de l’inconnaissance

Ex: http://www.dedefensa.org/

20 février 2013 – Il s’agit ici d’une réflexion que nous avons à l’esprit, et presque sous la plume, depuis plusieurs semaines. (Cet article, référencé pour nous au 6 février pour le début du travail, indiquant la date où l’idée a commencé à en être “opérationnalisée”, est en gestation depuis au moins ce laps de temps, notamment comme le montre l’extension dans le temps des références que nous donnons.) Nous voulons dire par cette introduction presque “technique” qu’il s’agit d’une tendance très forte et profonde de notre jugement, qui peut et doit influer sur notre travail, donc sur le contenu de ce site. “Cette introduction presque ‘technique’” implique également, dans son chef, une forme d’“avertissement” dans le sens littéraire élargi à notre propos : une “courte préface” qui est aussi un “appel à l’attention”.

Au départ de cette réflexion, il y a, très simplement, les événements eux-mêmes, sans classification nécessaire, du type “intérieur” ou “extérieur”, politique ou sociaux, etc., mais bien le rythme et l’évidente incohérence des ces événements. Cette situation, qui nous paraît chaque jour de plus en plus évidente et que nous ne manquons pas de souligner avec nos commentaires lorsque nous commentons (voir, le plus récemment, le F&C du 8 février 2013), nous conduit à deux remarques. Il nous semble que ces deux remarques ne surprendront pas nos lecteurs parce qu’elles se trouvent également au cœur de nos commentaires, sous-jacentes ou exprimées précisément.

• La première de ces remarques concerne le crédit que l’on peut accorder aux réseaux de l’information-Système. (Ces réseaux font partie de ce que nous nommons le système de la communication, sur lequel nous avons récemment encore fait un commentaire spécifique [le 14 décembre 2012], où nous mettions en évidence le caractère dual, ou type “Janus” de ce système de l’information.). Il s’agit de l’information dispensée par ce que nous nommons la presse-Système, mais aussi de l’information-Système dispensée par les déclarations officielles et les divers commentaires venus des champs divers des élites-Système, qu’elles soient de membres des directions politiques nécessairement inféodées au Système, de bureaucraties, d’observateurs également dans cette position. Non seulement ce crédit est nul, comme nous l’estimons depuis longtemps, – depuis une décennie au moins (voir aussi bien le 10 septembre 1999 que le 13 mars 2003), – mais il tend de plus en plus à être tout simplement négatif. (Et “négatif”, non dans le sens de la tromperie, de la manipulation, ce qui a un côté instructif répétons-le, mais dans le sens de la bassesse pure, de l’infécondité, de la stérilité. La presse-Système, comme tout ce qui est “-Système” dans notre langage, tend vers l’ossification et la néantisation, suivant en cela le Système et sa marche vers l’autodestructions par dissolution avant l’entropisation.)

Les exemples à cet égard abondent, de l’étalage de cette littérature qui devient presque contre-productive pour son propre parti, à la dénonciation qui en est faite avec une facilité déconcertante, – enclenchant ainsi cet effet négatif dont nous parlons. Voyez comme exemple ce 1er février 2013, ce texte dont le titre dit tout à cet égard («Shocking Numbers That Show The Media Is Lying To You About Unemployment In America») ; des textes de cette sorte pullulent littéralement sur l’Internet. (Encore faudrait-il, dans ce titre, enlever le mot “shocking”, car cette sorte d’évolution dans la négation absolue de la situation du monde n’a plus aujourd’hui rien de “choquant” pour l’esprit averti. On dirait même, tout au contraire, qu’il a valeur de confirmation, qu’il a donc un aspect indiscutable, et nullement inintéressant, de confirmation de son inexistence en tant qu’être : l’information-Système, qui nous accable de sa masse, n’est pas littéralement, – inexistence complète.)

Les enquêtes régulièrement faites à cet égard contribuent largement à alimenter notre jugement général, sans surprise ni brio d’ailleurs. On pourrait se référer notamment, comme à un récent exemple en date, à une enquête IPSOS dont les résultats ont été publiés dans Le Monde du 25 Janvier 2013. Plutôt que se référer à cette feuille-Système, on peut aussi bien lire le compte-rendu qu’en fait l’OJIM, le 29 janvier 2013. L’enquête montre une hostilité généralisée des Français au Système dans tous ses aspects, et notamment à l’information-Système et à la presse-Système… Vraiment aucune surprise.

«Cette hostilité vis-à-vis des élites touche également les médias. 72% des sondés estiment en effet que les journalistes sont “coupés des réalités et ne parlent pas des vrais problèmes des Français”, 73% pensent qu’ils ne sont pas indépendants et “ont tendance à céder aux pressions du pouvoir politique” (les électeurs du Front national et du Front de gauche étant les plus nombreux dans cette catégorie) et 58% considèrent qu’ils font mal leur travail…

»L’écart entre le discours répété en boucle par les hommes politiques, journalistes, experts, etc… et l’attente des Français est devenu proprement sidérant. Il s’agit d’un véritable déni de réalité de la part des élites qui ont fait sécession d’avec le reste du pays…»

Devant ces faits, qui sont avérés à force d’être devinés intuitivement et d’être régulièrement vérifiés, que répond l’intelligence-Système ? (Nous employons cette expression “intelligence-Système”, pour éviter absolument d’employer des mots tentants tels que “débiles”, “connards”, “salopards”, “cyniques” et ainsi de suite ; ces termes grossiers se qualifient et se disqualifient eux-mêmes, trop courts et trop brutaux pour avoir un sens intéressant, cela qui désigne le sapiens dont l’intelligence est affaiblie, déformée, faussaire par ses fréquentations et ses orientations, – bref, l’intelligence amenée près du Mal, comme l’observe Plotin, mais qui n’est évidemment pas la Mal elle-même : «Mais les autres, ceux qui participeraient de lui et s’y assimileraient, deviennent mauvais, n’étant pas mauvais en soi.”»)… L’intelligence-Système, donc, répond qu’elle est victime, et elle geint… Exemple : «Pour le journaliste Gérard Courtois qui l’analyse dans Le Monde, ces craintes et cette hostilité [les «72% des sondés estiment en effet que les journalistes sont “coupés des réalités et ne parlent pas des vrais problèmes des Français”»] ne sont que fantasme, “résultat du travail d’incendiaires” de “ceux qui attisent ces peurs”…»

Un autre cas dans ce sens, dans un autre registre encore plus exotique et grotesque, que nous voulons signaler, nous est fourni par l’actualité, et postérieur à l’entame de ce commentaire, comme s’il apportait un point d’orgue à ce que nous voulons signifier dans ce passage qui concerne le crédit de l’information dans sa branche Système. Il s’agit du Bloc-Notes de ce même jour de publication de notre texte, ce 20 février 2013, commentant une chronique de Glenn Greenwald sur l’état d’esprit de la chaîne de télévision MSNBC. Le climat de dévotion religieuse qui prévaut à Ciel ouvert lorsqu’il s’agit du président-Saint Barack Obama donne une mesure grave de la valeur qu’il importe d’accorder à l’information, ici semi-officieuse, semi-officielle, semi-Vatican. Certes, il s’agit d’un bon sujet d’étude pour un étudiant en anthropologie venu d’une civilisation évidemment développée sur une planète assez lointaine, pour enrichir sa thèse sur le cas de l’hypomanie de sacralisation des élites-Système, sur la planète-Terre. Sur le cas de la vertu d’information de la réalité en tant que sas d’accès vers une compréhension de la situation de la vérité du monde, on doit donc cultiver une réserve qui confine souvent à la dérision, ou à l’occasion d’un sarcasme saluant leur comportement pathétique, – bref, passons outre, mais gardant la leçon à l’esprit, de cette poussière de sapiens plongée dans son activité de termite du sacré...

• La seconde remarque concerne notre propre attitude, qui est d’observer que ce n’est pas parce que tout ce que dit le Système peut être pris nécessairement comme faussaire (avec parfois une façon intéressante d’utiliser le sens imprimé à cet aspect faussaire) que nous puissions savoir, par simple déduction antinomique, la réalité des choses. Au contraire, même : le seul contrepied de l’information-Système faussaire peut en général conduire, à notre sens, à une interprétation qui est le plus souvent, et même dans l’écrasante majorité des cas, elle-même fausse et donc faussaire. Il nous paraît d’ailleurs évident, comme une règle de logique implacable, qu’on ne peut extraire de la quasi-exclusive fréquentation de ce qui est néantisation par comportement faussaire, quelque chose qui contienne en soi une part, ou même une parcelle, même infime, de vérité ; on ne peut extraire quelque essence que ce soit sous forme d'“une part de vérité” de ce qui est dissolution proche de l'entropisation. (Nous ne disons certainement pas “une part de réalité” car il faut admettre explicitement que l’existence de cette néantisation de l’esprit est en soi une réalité fondamentale, à ce point qu’elle détermine pour une part essentielle cette réflexion. On observera que nous insistons de façon très affirmée sur la différenciation nécessaire à faire entre “réalité” et vérité, jusqu’à une différence de nature interdisant toute proximité. On verra cela, plus en détails, plus loin.)

L’explication de cette particularité grandissante, de notre point de vue, de l’impossibilité de demeurer dans une logique binaire réduite à deux “acteurs” entre le Système et ceux qui s’opposent à lui selon la seule dénonciation de ce que produit le Système, notamment en fait d’information, – notre explication “opérationnelle”, par conséquent, tient en ceci :

• Si ces deux “acteurs” eux-mêmes tiennent des positions différentes voire antagonistes, il reste qu’ils se trouvent exclusivement dans l’un ou l’autre “camp” selon les circonstances. Par conséquent, ils ne sortent pas du cadre du Système, puisque les deux camps sont définis exclusivement selon leurs positions par rapport au Système. (Pour ceux qui s’opposent au Système en répliquant aux seules interventions du Système, ils ressortent d’une certaine façon du phénomène de ce que nous nommons “antiSystème”, sans pour cela illustrer, et de beaucoup, la seule signification de l’antiSystème qui est beaucoup plus vaste et qui comprend des domaines réellement hors de Système. Il s’agit du cas où l’on voit des personnes, des groupes, des institutions, etc., évoluer dans des positions différentes selon au moins les circonstances, se retrouvant parfois en position antiSystème, même pour ceux qui font partie du Système.)

• Il n’y a pas que deux “acteurs”, le Système et ses adversaires, les méchant et les gentils, les 1% et les 99%, etc… On peut et on doit, pour élargir et enrichir le champ de la pensée, avancer l’hypothèse qu’il existe des forces collectives, des forces de pression constituées aussi bien à l’occasion d’événements humains que rassemblées selon les normes et la puissance de courants se situant hors du contrôle humain. (Champ de la métahistoire.) Nous parlons si souvent du Système en tant que tel qu’on doit bien comprendre, en plus des textes directs à cet égard, que notre religion, – oups, lapsus…, – est faite à ce propos. Cette remarque vaut également pour le sapiens lui-même, celui qui comprend et accepte cette situation, qui doit parvenir à trouver une position antiSystème d’un autre type que celui signalé plus haut, c’est-à-dire absolument hors du Système, – et l’inconnaissance en est l’exemple typique, et même archétypique pour le sapiens.

Ceci, qui concerne les deux constats, est certes le point le plus important : le désordre est si considérables, les lignes de force et les références si imprécises, que des circonstances essentielles échappant complètement à la raison et à la perception qui sert à la raison ; ces circonstances sont finalement quasiment invisibles à nos regards, insaisissables pour nos perceptions, ou bien elles le sont si fortement en vérité qu’elles peuvent révéler pour qui se tient hors du Système la vérité du monde, qui est pure invisibilité et insaisissabilité des choses pour la perception intra-Système. Ce qui nous est apparent et objectivement saisissable, nécessairement dans le cadre du Système, nous restitue un bouleversement de désordre, d’incertitude, d’hésitations, de velléités et de contradictions, à la fois tourbillon fou et situation figée d’impuissance… Si l’on veut un exemple “opérationnel” : après deux ans de désordre en Syrie et surtout autour de la Syrie (de la part des pays du bloc BAO), une analyse de Samer Araabi (IPS.News et Antiwar.com, le 15 février 2013) nous révèle involontairement l’état de désordre complet de la politique US, donc sa situation de complète incohérence… On y voit chacun des acteurs principaux de l’administration Obama de ces deux dernières années dire le contraire les uns des autres, et chacun pensant peut-être, sans doute, dans le secret de lui-même le contraire de ce qu'il dit, et cela étant conclu par une affirmation de l’un d’entre eux que “toutes les options sont sur la table”, – signifiant par là que tout est possible et que, par conséquent, rien n’est vraiment fait sinon dans tous les sens, que nul ne sait ce qui est vraiment fait et ce qui sera vraiment fait… (Et d’ailleurs, nul ne sait si l’expression “vraiment fait” a encore quelque signification, après tout, – car le “rien du tout n’a été fait” du point de vue d’une politique effective définit certainement le mieux l’option choisie par défaut.)

«The recent statements by Clinton and Panetta [ openly called for a more militant role], therefore, still reveal little about the actual relationship between the White House and the Syrian rebels. President Obama openly criticises the idea of armed assistance but has been silently supporting the rebels, while his administration’s liberal interventionists who have openly called for a more militant role have also expressed grave reservations about the ideology and direction of the very people they hope to arm. These varied opinions and perspectives leave the door open for any number of policies toward Syria. “No one has taken any option off the table in any conversation in which I’ve been involved,” said [JCS President, General] Dempsey…»

Il n’est pas dans notre intention de dire que cette analyse est mauvaise et sans intérêt, parce qu’elle est existe et qu’elle a quelque intérêt sans aucun doute, du point de vue de l’observation comme en laboratoire à partir de la position d’inconnaissance… Mais elle ne nous dit rien sur la situation en Syrie et elle nous dit que connaître la “réalité” de la situation en Syrie n’a en vérité aucun intérêt pour comprendre la situation du monde. Finalement, même quand nous allons au cœur du monde officiel, lorsque nous prenons les positions officielles et les confrontons aux positions réelles, voire secrètes, qui les contredisent, donc ayant fait objectivement un travail de déconstruction antiSystème, nous n’aboutissons nulle part sinon au nième constat du désordre.

L’inconnaissance et la vérité du monde

Nous travaillons depuis longtemps autour de ce thème, nos lecteurs le savent. D’une part, la profusion extraordinaire de l’information, mais aussi, et nécessairement, sa fluidité et son insaisissabilité… Plus nous savons, moins nous comprenons. D’autre part, la nécessité de rompre, de refuser certaines connaissances, y compris la connaissance du “réel”, – bref, l’inconnaissance. Récemment, nous avons publié deux textes qui avancent notre propos dans le sens, non plus de l’inconnaissance qui est maintenant un principe acquis pour nous, mais dans le sens de l’“opérationnalité de l’inconnaissance”, c’est-à-dire la mise en œuvre de l’inconnaissance dans notre travail d’information, – ce qui semblerait à première vue et apparemment, une contradiction : mise en œuvre d’une “doctrine” du refus de “tout savoir” pour faire “mieux savoir”. Mais l’on sait bien que cette apparente contradiction n’en est pas une, qu’elle est au contraire une doctrine pour déjouer les tendances irrépressibles du Système dans sa propre manipulation inconsciente du système de la communication. Le système de la communication étant malléable dans tous les sens, y compris un sens antiSystème fondamental et hors-Système, notre tâche à cet égard est évidente.

Revenons à nos deux textes récemment publiés, pour en rappeler la substance. Le premier est du 8 février 2013, sous forme d’un F&C qui se donnait pour but d’exposer ce qui nous paraît essentiel aujourd’hui, – travailler dans le sens de faire réaliser la crise et le dire («savoir la crise et dire la crise»), au nom de l’affirmation que la crise d’effondrement se déroule aujourd’hui, sous nos yeux, sous nos pieds, – donc que l’essentiel est bien une révolution psychologique qu’il faut favoriser.

«…Notre hypothèse n’est donc pas de dire “une catastrophe va arriver” mais bien que nous allons devoir admettre que la “catastrophe” (la crise générale de l’effondrement) est en cours et qu'elle est quasiment en nous, que nous la vivons littéralement “semaine après semaine, jour après jour”. Notre hypothèse est bien que l’effondrement est en cours sous la forme de la crise générale de l’impuissance des directions politiques et de toute politique en général, avec le désordre qui s’ensuit, et que le seul événement rupturiel qui puisse donner corps à cette crise est l’acceptation par la psychologie de sa réalité, de sa puissance, de son inéluctabilité, sous une forme telle que se crée un courant collectif, lui-même psychologique certes, dans ce sens de l’acceptation collective de la chose. […]

 

»Il s’agit donc de savoir la crise puis de dire la crise pour ouvrir les psychologies à la réalité. Il y a, selon nous, la probabilité quasiment inéluctable qu’un tel événement constituerait un bouleversement tel pour la conscience et pour l’esprit, que se créeraient nécessairement des conditions absolument nouvelles, qui donneraient effectivement toute sa dimension à la crise en mettant en place les conditions psychologiques non seulement pour accepter, mais pour susciter les changements que cela implique. Il s’agit donc d’une libération du Système, d’une révolte psychologique inconsciente contre le Système en voie d’autodestruction par ceux-là même qui, jusqu’ici, en acceptent la loi et la servitude...»

Dans le second texte, du 13 février 2013, nous citions deux textes venus d’horizons différents, qui pouvaient sembler par rapport aux normes du genre journalistique ou analytique, farfelus, hasardeux, insubstantivés y compris par des précisions de type antiSystème (“complotiste” éventuellement), etc. Nous n’en faisions nullement la promotion ni n’en affirmions en quelque façon que ce soit la justesse, ni quelque jugement de cette sorte, ni sur la forme ni sur le fond, – tout cela, d’aucun intérêt pour nous en vérité… Simplement, nous offrions des constats et posions des questions, – dont les réponses, bien entendu, sont pour nous évidentes…

«[…N]ous voulons prendre ces deux texte pour du comptant et ainsi apprécier combien il devient de plus en plus difficile,sinon impossible, de faire un commentaire de quelque intérêt sans utiliser des références qui dépassent largement les lignes habituelles du commentaire politique. Le fait est qu’après tout, en lisant ces deux textes, on en vient à la conclusion qu’ils ne sont pas plus stupides, pas plus incroyables, que les commentaires que nous sert la presse-Système sur le désordre formidable du monde courant en nous le présentant comme complètement ordonné, et qu’ils sont, d’un certain point de vue de plus en plus insistant, plus intéressants et éventuellement plus stimulants. Une fois écartées les réserves du conformisme et de l’alignement-Système des raisons subverties si inclinées par leur subversion à accepter ce rangement inepte du monde en cours, ces deux textes sont évidemment plus intéressants et plus stimulants que les productions écrasantes de monotonie et surréalistes de fausse raison et de raison subvertie, de la presse-Système.»

Au-delà, et sautant quelques paragraphes, nous en venions à cette conclusion qui concerne plus une méthodologie de l’“information” (ce terme a-t-il encore sa place ?) ; et, cette fois, nous ajoutons un souligné d’une partie du texte en gras, qui n’est pas dans l’original, nous en sommes sûr sans que l’auteur ne s’en offusque… : « Cette évolution de la perception, puis de l’analyse et de l’interprétation des événements, constitue un problème fondamental pour bien apprécier l’évolution du Système. Mais surtout, elle répond à une nécessité, qui est justement l’évolution du Système, et aussi l’évolution de la situation générale, – évolution du Système et évolution des forces antiSystème qui se manifestent indépendamment de l’organisation humane. Il s’agit d’un défi considérable à relever, si l’on entend poursuivre la démarche générale de tenter d’appréhender la véritable signification de l’évolution de la situation du monde. Dans ce cas, – cette tentative de relever le défi, – il s’agit d’un énorme effort d’adaptation, à la fois des commentateurs, à la fois de ceux qui les lisent, avec certainement la réduction accélérée, dans certains cas la disparition des références qu’on avait coutume d’utiliser pour cette sorte de démarche

Nous nous trouvons dans des temps, – «une époque», dirions-nous également, – où il est extrêmement difficile de distinguer la réalité même quand on dispose de tous les éléments constitutifs de cette réalité. En fait, lorsque nous disposons de tous ces éléments constitutifs de cette réalité, nous en avons en réalité (!) bien plus et il faut alors déterminer lesquels sont appropriés. Nous dirions qu’il s’agit là d’une question de choix (de notre part), mais un choix extraordinairement difficile à faire parce qu’il doit se placer au-dessus des pressions qui s’exercent dans tous les sens, tout en tenant compte de ces pressions. Ce choix est nécessairement restrictif, éliminatoire, impitoyable, et il ne peut être justifié que par le but poursuivi, qui doit être le fondement qui structurera notre jugement général de la situation. Ce choix doit être justifié par l’exploitation, la mise à nu d’une perspective d’un événement traité d’une façon spécifique, en fonction d’une vision, qui est aussi le fondement de la pensée qui juge.

Ce fondement est connu pour notre cas, il s’exprime bien entendu par l’affirmation péremptoire que notre Système est en train de s’effondrer, “sous nos yeux et sous nos pieds”, et même, et surtout peut-être, que cette crise est en nous... «…Notre hypothèse n’est donc pas de dire “une catastrophe va arriver” mais bien que nous allons devoir admettre que la “catastrophe” (la crise générale de l’effondrement) est en cours et qu'elle est quasiment en nous, que nous la vivons littéralement “semaine après semaine, jour après jour”…».

Pour suivre cette ligne, il faut en arriver au point où le fait d’espérer, de prévoir, de croire, d’attendre que le Système va s’effondrer, se transmue dans le fait indiscutable de savoir que le Système va s’effondrer et s’effondre en vérité dans le temps présent où nous écrivons. Il est évident qu’il y a dans cette sorte d’injonction une dimension qui échappe au circuit habituel de la raison (lequel circuit est aujourd’hui percé de multitudes de trous, à l’image du degré de perversion de la raison par le Système, à l’image de conduites pourries, bouffées par les termites). Pour autant, et pour montrer l’intérêt de la référence historique bien choisie, il y a aussi des expériences historiques qui se rapprochent de cette situation, comme nous le rappelions dans le même texte F&C du 8 février 2013, qu’il est utile de citer pour y trouver quelques outils de compréhension pour le temps présent… «Au reste, c’est en revenir à une autre sorte de “modèle russe”, dans sa version gorbatchévienne, ou “modèle Gorbatchev” : le fait pour le dirigeant soviétique des années 1980 de “savoir la crise” le conduisit à “dire la crise” (la glasnost). On connaît la suite, la substantivation de la crise, son accélération phénoménale par rapport à ce qu’on en pouvait attendre, si rapide que l’effet produit fut une implosion plus qu’une explosion…»

Ce que nous voulons ajouter à cette rapide description, c’est la perception et l’information de ce processus. Nous avons vécu (notamment) ces six années de 1985 à 1991 et ne cessons de rappeler chaque fois que l’occasion nous en est donnée que, malgré l’empilement d’événements extraordinaires à partir de mai 1985 (deux mois après la nomination de Gorbatchev à la fonction de Premier Secrétaire du PC de l’URSS), personne de sérieux et de responsable n’avait prévu l’événement fondamental de la fin du communisme lié expressément à l’“expérience Gorbatchev” spécifiquement considérée, avec sa glasnost, – aussi bien publiquement que d’une façon non officielle, que sous la forme d’une confidence chuchotée. Nous rappelons souvent qu’à la fin septembre 1989, à quarante jours de la chute du Mur de Berlin et alors que les Allemands de l’Est se précipitaient en Hongrie où un régime libéral était déjà installé, que la Pologne avait connu ses premières élections démocratiques avec l’arrivée au pouvoir des gens de Solidarnosc, que le régime est-allemand s’effondrait dans le désordre, que Gorbatchev conseillait à tous les “satellites” (les ex-“satellites”) de laisser faire (les foules et le désordre, accessoirement les projets de “réformes”), pas un seul dirigeant occidental ou autre, ou communiste, ne prévoyait la chute du communisme “dans un futur prévisible” ou pas, – simplement, cette question constituait une hypothèse absurde ; et tous les dirigeants occidentaux et autres ne commençaient à envisager la possibilité d’une réunification allemande, sujet devenu d’actualité avec la rapide désintégration de la RDA, que “pour au-delà de 2000” (un seul d’entre eux, l’ambassadeur US à Bonn, et colonel Vernon Walters, envisageait, ce même mois de septembre 1989, la réunification allemande “pour dans très peu d’années, d’ici deux à quatre ans”). Dieu sait pourtant que les dirigeants d’alors étaient d’un autre calibre que ceux que nous avons aujourd’hui, mais non, ils ne voyaient rien… Dieu sait que les conditions et les événements étaient bien plus et bien mieux contrôlés qu’ils ne sont aujourd’hui, et que l’information échappait encore en partie au carcan général des narrative qui, aujourd’hui, affecte jusqu’aux esprits de ces élites-Système à la psychologie si affaiblie, – mais non, ils ne voyaient rien…

Observer et rappeler tout cela, ce n’est certainement pas critiquer ceux qui ne virent rien venir (c’est-à-dire tous, y compris Gorbatchev), car l’histoire devenue Histoire suivait sa propre pente, et à quelle vitesse, sans prendre le temps d’en informer sapiens. Observer et rappeler tout cela, c’est directement impliquer que nous tenons les événements actuels comme devant être considérés d’une façon parallèle et similaire à ceux de 1985-1991, mais dans un cadre et dans une dynamique d’une puissance infiniment plus considérables, au point que l’on peut avancer le constat que leur action transforme la nature même de l’époque et notre perception également, passant à la perception immédiate et directe de la métahistoire ; et que nous tenons les événements actuels à l’image de ceux de 1985-1991, mais également dans un cadre et dans une dynamique d’une puissance bien plus considérables, – nous allons vers une fin alors que la chute du communisme n’était qu’une étape, – accouchant d’un flux événementiel singulièrement imprévisible et exceptionnellement développé hors de toutes les normes courantes. Par conséquent et au-delà des similitudes, il s’agit d’une «époque» ouverte à toutes les embardées et à tous les effets, y compris et surtout dans le domaine de notre psychologie, dans une mesure bien plus grande jusqu’à un changement de nature qu’en 1985-1991.

Forts de ce point de vue, nous sommes conduits indirectement à annoncer, ou plutôt à confirmer une tendance déjà largement engagée et perceptible dans les textes de ce site, les commentaires. Il s’agit de tenir la “réalité” que nous offre le système de la communication, avec son flux d’information, comme une “matière” impossible à fixer d’une façon satisfaisante, parce que devenue un état désormais trop fluide et insaisissable, à la fois dans une situation de déstructuration affirmée, à la fois dans une dynamique de constante dissolution accélérée. (Chaque événement signalé et observé, apparaît dans cette situation de déstructuration et dans cette dynamique de dissolution.) Il s’agit désormais de tenir la “réalité” comme un facteur absolument relatif et ne proposant lui-même aucune assurance ; s’en tenir à lui pour tenter de comprendre les situations et d’identifier les choses, même et surtout d’une façon radicalement critique, c’est soumettre la perception à des tensions insupportables et gravement dommageables jusqu’à précipiter la psychologie dans la pathologie, – c’est aggraver encore sa situation. On doit retrouver cette démarche de rupture radicale avec leur “réalité” dans tout notre travail, notamment celui qui tente d’interpréter les événements courants, selon notre processus rigoureux de sélection, à la lumière générale que nous définissons ; on y ajoute les analyses fondamentales (le 14 février 2013, par exemple) qui permettent de placer notre pensée dans le cadre plus large de la recherche directe de la vérité du monde, hors-Système, pour en proposer des synthèses.

La critique nécessaire et destructrice du Système doit nécessairement prendre ses distances des seuls faits de la “réalité”, même s’ils ne sont pas déformés, parce que ces “faits” eux-mêmes sont imprégnés de la pathologie et de l’hystérie qui enrobe la dynamique d’autodestruction du Système. (C’est bien une des fonctions primordiales de l’inconnaissance, qui tient les “faits” à distance, en choisit quelques-uns et écartent les autres, d’abord pour conserver l’équilibre et la puissance de compréhension du sujet, en même temps que l’ouvrir d’autant mieux à l’intuition haute qui structure cet équilibre et cette puissance.)

Cette préoccupation “opérationnelle” est partout présente dans nos textes, désormais, et d’une façon explicite. Il nous semble ainsi approprié de revenir à un autre texte, mis en ligne le 18 février 2013. Voici un extrait de la conclusion de cette Note d’analyse qui nous emmenait en vrac, de l’explosion d’un météorite à un vol de Tu-95, en passant par Kerry au téléphone, Lavrov qui ne répond pas au téléphone, Jirinovski qui fulmine, Nuland qui complote, Sorcha qui met en ligne et ainsi de suite… Nous nous posâmes alors cette question, qui était plus proche d’une apostrophe insistante et furieuse : “Alors, que devient la réalité dans tout cela ?”

«La réponse à cette dernière question est bien dans un autre enchaînement, un enchaînement de questions : est-il utile de distinguer la réalité ? Y a-t-il encore une “réalité” au sens classique et courant de la chose, qui mérite qu’on cherche à la distinguer ? Ne faut-il pas s’attacher à distinguer d’autres “réalités” qui n’en sont pas vraiment selon l’entendement habituel, mais plus proches de la vérité que la “‘réalité’ au sens classique et courant de la chose” ?

»Dans une critique élogieuse de la série House of Cards, – sur laquelle, nous le répétons, nous reviendrons, – Ari Melber disserte (The Atlantic du 12 février 2013) à propos de critiques qu’on pourrait faire sur des situations et des actes prêtées aux personnages, par rapport à la situation de la direction politique du Système, à Washington. Puis il tranche, net et clair : «But that would miss the point. House of Cards is aiming for truth, not accuracy.» C’est cela : la précision des situations et des faits (accuracy) constitue la “réalité”, qui, elle, n’a rien à voir avec la vérité (truth). Cette conception résumée par l’apostrophe de Melber est plus que jamais, elle, constitutive de notre époque, à un point où la nature des concepts est transformée et que la “réalité” restituée d’une façon que les esprits courts jugeraient parfaitement précise est souvent, de plus en plus souvent jusqu’à former sa nature propre nouvelle, une tromperie faussaire de la vérité. Il faut s’accommoder de ce constat qui ne définit pas un monde nouveau mais qui caractérise un passage du monde (ou une «époque»), une crise d’effondrement où le système de la communication tient un rôle si essentiel…»

C’est exactement de cela qu’il s’agit dans ce commentaire (le texte présent) où nous entendons exposer l’évolution de notre travail à la lumière des conditions évolutives du système de la communication que nous identifions. Ce sont les conditions de l’inconnaissance développées d’une façon “opérationnelle“, où l’information devient un facteur dépendant, pour le jugement qu’on porte sur lui, à la fois de l’intuition (haute) et de l’expérience historique, à la fois d’une raison “réparée” qui s’exerce non plus selon les impulsions extérieures (les informations perçues comme des faits et qui ne sont que des “narrativede faits”) mais en traitant ces impulsions extérieures à la lumière de l’intuition et de l’expérience historique qui ont déjà largement constitué dans l’esprit et son jugement une vision générale de la situation caractérisée par le phénomène considérable et quasiment exclusif de la crise de l’effondrement du Système. Cette vision générale constitue la référence de la vérité dans notre perception, tandis que la réalité doit être impitoyablement traitée comme un facteur contingent parmi d’autres (d’autres “réalités” éventuellement), soumis à une critique intuitive de plus en plus pressante et exigeante, pour n’être utilisée qu’avec méfiance, parcimonie et prudente mesure, et traitée selon nos conceptions à nous. Cette démarche implique le constat décisif que l’action humaine (du sapiens), de laquelle dépend la “réalité” fournie par le système de la communication et les “informations” qu’il nous offre, ne constitue qu’une faible part de l’action métahistorique générale dépendant principalement de courants supérieurs et extra-humains. Ce constat qui ne cesse de s’affirmer dans notre jugement suggère désormais l’accessibilité à la vérité du monde, comme production décisive de l’inconnaissance par rapport à la relativité le plus souvent faussaire représentée par la “réalité”, cette relativité faussaire telle que le Système dans sa phase finale d’autodestruction l’a transformée, telle que nous la déterminons de plus en plus précisément.

vendredi, 15 mars 2013

What's Wrong with Democracy? From Athenian Practice to American Worship

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Reseña

 
Loren J. Samons II:
What's Wrong with Democracy?
From Athenian Practice to
American Worship.*
University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London, 2004, 307 pp.


por Erwin Robertson

Ex: http://erwinrobertson.blogspot.com/

L. J. Samons II es especialista en Grecia clásica, autor de obras como Empire of the Owl: Athenian Imperial Finance (Stuttgart, 2000) y Athenian Democracy and Imperialism (Boston, 1998). En What's Wrong with Democracy? (“¿Qué hay de malo con la democracia?”) analiza críticamente la práctica política ateniense en los ss. V y IV, con la mirada puesta en la democracia norteamericana de hoy. Uno de esos casos, pues, en que el estudio del pasado se vuelve juicio sobre el presente... y a la inversa.

Los puntos de vista del autor son heterodoxos, por decirlo suavemente: cuestiona la “fe” en la democracia, el “culto” (american worship) rendido a un sistema de gobierno cuyas virtudes se dan por aceptadas sin que medie demostración racional. LJS cree que las (buenas) cualidades que tradicionalmente se asocian con la democracia vienen de la existencia de un cuerpo ciudadano con derechos y deberes, y del gobierno de la ley, cosas que pueden ser separadas de la democracia per se. Cree más: que los valores democráticos propiamente tales (que se puede resumir en el igualitarismo y la noción de que la voluntad popular, expresada a través del voto, es moralmente buena), que han llegado a ser los principios morales y sociales fundamentales de la sociedad norteamericana, ahora amenazan la forma constitucional representativa de su gobierno.

Los Fundadores de la constitución norteamericana (James Madison, por ej.) desconfiaban de la democracia “pura”, tal como se practicó en la Atenas clásica. Sólo en el curso del s. XX los norteamericanos llegaron a identificar a su gobierno como una “democracia” –señala LJS-, a la vez que se imponía la creencia de que era el mejor régimen posible; pero ello fue justo en el momento en que la palabra perdía mucho de su significado originario. Atenas, en un tiempo un modelo, ahora suele estar bajo crítica, no porque fuera demasiado democrática (como pensaban los Fundadores), sino porque no realizó suficientemente los ideales democráticos. Así y todo, porque era (en todo o parte) democrática, Atenas antigua se beneficia del prejuicio moderno favorable a la democracia. ¿Y si los aspectos más problemáticos fuesen justamente los democráticos? Es característico el tratamiento de la muerte de Sócrates, aduce LJS; como un accidente o una anomalía que no autoriza un juicio sobre el régimen político que lo condenó: ¡casi como si Sócrates hubiera cometido suicidio!

Se trata entonces de examinar la historia ateniense, tal como fue, a fin de ver si de ella se puede extraer lecciones para la política y la sociedad modernas. Por lo tanto, un primer capítulo de la obra proporcionará información general sobre el tema; sucesivos capítulos pasarán revista a otros tantos aspectos de la demokratía ateniense. “Democracia y demagogos: Elección, votación y calificaciones para la ciudadanía” es el título del capítulo 2. Al contrario de lo que se estima en las democracias modernas, LJS recuerda que el voto no era un procedimiento definitorio de la democracia (la regla democrática era el sorteo, como advertía Aristóteles) . Sin embargo, cargos importantes, como el de strategós, eran elegidos por votación. Característicos de la democracia ateniense fueron asimismo la ausencia de calificaciones de propiedad para la ciudadanía y el hecho de que los ciudadanos más pobres recibieran, en distinta forma, pagos del tesoro público. No obstante, la noción de ciudadanía en Atenas difería de la de los modernos regímenes democráticos, donde se asocia primeramente con derechos y privilegios, más que con las calificaciones que requiere o los deberes que implica. Además, muchas de las garantías que comporta se consideran “derechos humanos” (comillas de LJS), que no dependen –se dice- o no deberían depender de la forma particular de régimen o de la distinción entre ciudadanos y extranjeros. Por el contrario, en la democracia ateniense la ciudadanía significaba serias obligaciones, incluso ciertos patrones de conducta privada, recuerda el autor.

El capítulo sobre las finanzas públicas (“the People's Purse”) subraya el carácter excepcional de Atenas entre las ciudades griegas: en primer lugar, por su riqueza en mineral de plata y por la flota de guerra que ella permitió. Con el imperio y el tributo de los “aliados”, en el s. V, pudo manejar recursos financieros sin comparación en Grecia antigua. Fue igualmente inusitado que el ateniense común, al que no se pedían requisitos de propiedad para votar en la asamblea, comenzara a decidir entonces sobre materias financieras. LJS señala el empleo abusivo de esos recursos (así lo era a ojos de todos los demás griegos) en pagos a los propios ciudadanos y en un extraordinario programa de obras públicas. Cuando se agotaron las reservas, como durante la Guerra del Peloponeso, o cuando dejaron de existir las rentas imperiales, como en el s. IV, Atenas debió gravar a sus ciudadanos ricos. Es agudísima la observación de que, con todo, a la hora de gastar, los atenienses giraban sobre sus propias reservas; la deuda pública moderna consiste en traspasar la deuda de una generación a otra.

La política exterior del s. V está tratada en dos capítulos. Evidentemente, los temas son la construcción del imperio, las circunstancias que llevaron a la gran guerra inter-helénica que fue la Guerra del Peloponeso, y las de la guerra misma. Un interesante excursus aborda el problema de la causalidad histórica, a propósito de la Guerra del Peloponeso. Para el s. IV (tema del capítulo que sigue), el problema es el de la “Defensa Nacional”, no ya el de una política imperial. De una Atenas agresiva, se pasa a una Atenas a la defensiva que terminará por sucumbir ante Filipo de Macedonia. Con todo, el triunfo de Macedonia no era inevitable, como no había sido inevitable el triunfo de los persas –con fuerzas mucho mayores- siglo y medio antes.

En “Democracia y Religión”, último capítulo, LJS recuerda que la sociedad ateniense era una integral society, sin la separación entre las esferas política, religiosa y económica, propia de las sociedades modernas. En Atenas, lo puramente “político”, en el sentido limitado moderno –lo relativo al gobierno, a las elecciones y a las opiniones al respecto- era sólo una pequeña parte del conjunto social. Sin duda, las actividades militares y religiosas disfrutaban de una participación pública mucho más elevada que la votación en las asambleas. Más que de demokratía o de los ideales de “libertad e igualdad” –comillas de LJS-, los principios unificantes del cuerpo ciudadano ateniense provenían de las creencias comunes acerca de los dioses, de un sentimiento de superioridad nacional y de la conciencia de la importancia de cumplir los deberes hacia los dioses, la familia y la polis.

Ahora bien, la tesis central de LJS es que, mientras que los logros por los que se admira a Atenas –el arte, la tragedia, la filosofía- no tenían que ver con la democracia, fue el carácter democrático del régimen lo que estimuló los aspectos más negativos. Si el pueblo decidía sobre la distribución de fondos públicos a sí mismo, eso tenía que alentar el desarrollo de los demagogos: era fácil para un político asegurar la propia elección o el éxito de las propias iniciativas mediante la proposición de repartir más dinero público a una porción suficientemente amplia de los ciudadanos. Es cierto que Pericles (como muestra Tucídides) fue capaz de “conducir al pueblo más que ser conducido por él”, y de persuadirlo a tomar decisiones impopulares, pero correctas desde el punto de vista del dirigente (que era el de la grandeza imperial de Atenas). Capaz también de enfrentar a ese pueblo, corriendo el riesgo de destitución, multas, ostracismo y hasta de la pena capital; muy a la inversa del “timid modern statesman, afraid even to suggest that 'the American people' might be misguided”. LJS penetra en el mecanismo psicológico del voto y cree poder establecer que el ciudadano medio, en el momento de elegir, no preferirá a los candidatos que se vean muy superiores a él o que le digan lo que no quiere escuchar. Es lo que parece haber ocurrido después de la muerte de Pericles. En el s. IV, Demóstenes se verá en apuros para convencer a los atenienses a destinar los recursos (entonces escasos) a las necesidades de la defensa antes que al subsidio del teatro. El autor repara también en la perversión que, a su juicio, constituye la reverencia por el acto mismo de votar, antes que por el sentido de la decisión –el “proceso” es más importante que el “producto”-, con la conclusión práctica: “any immoral or unwise act –whether it is executing a great philosopher or killing civilians while making undeclared war on Serbia or Iraq- can be defended on the grounds that it reflects the results of the democratic process”.

Tempranamente (s. VI), Atenas mostró ambiciones imperiales; y si suele hacerse una lectura humanista y liberal del Discurso Fúnebre de Pericles, el autor muestra que su tono es “militaristic, collectivist..., nationalistic". La democracia sólo exacerbó esta política. Los atenienses fueron plenamente conscientes de que la guerra y del imperio generaban ingresos que los beneficiaban directamente, lo que estimuló los aspectos más agresivos e imperialistas de la política exterior. Es claro que el pueblo aprobó todas las empresas que implicaban someter, expulsar de su territorio o exterminar a otros griegos. Si la democracia no fue la causa de la Guerra del Peloponeso, lo menos que se puede decir –en opinión de LJS- es que no hizo nada por poner fin a la guerra. Con todo, los atenienses en el s. V por lo menos arriesgaban sus vidas, en el ejército y en la flota. Mas en el s. IV estaban menos dispuestos a sacrificios para fortalecer y proteger el Estado y llegaron a pensar que tenían derecho a recibir pagos, existiera el imperio que proveía de rentas o no, y estuvieran o no cubiertas las necesidades de la seguridad nacional. El dêmos desalentaba a los individuos ricos y capaces de entrar al servicio del Estado; es shocking la frecuencia con que los generales eran juzgados y multados o condenados a muerte. Cuando llegó la hora de enfrentar el creciente poder de Filipo de Macedonia, los atenienses nunca quisieron sacrificar la paga por la asistencia a la asamblea y el subsidio del teatro para sufragar los gastos militares necesarios. Prefirieron escuchar a los oradores que les tranquilizaban con la perspectiva de la paz, antes de decidirse a una política exterior que protegiera a sus aliados –mientras los tuvieron.

Llegados a este punto, puede uno preguntarse que puede inferirse del funcionamiento de la democracia ateniense para la democracia moderna. LJS se detiene en un aspecto. A diferencia de la democracia antigua, que reposaba sobre un conjunto de sólidos valores comunes, independientes de la misma democracia, la moderna (en particular, la norteamericana, para el autor) ha debilitado esos valores, o prescindido de ellos. La democracia ha sido elevada al nivel de creencia religiosa (the American religion). Los nuevos valores moralmente aceptados e indiscutibles son freedom (para cualquier cosa que uno desee), choice (respecto de lo que sea) y diversity (en cualquier plano). Estas palabras resuenan en los corazones de los ciudadanos del modo como antes resonaban “God, family, and country”. Mientras parece perfectamente aceptable en algunos círculos reprender a alguien por sostener opiniones políticamente “incorrectas”, el hecho de hacer ver a otra persona que sus actos son moralmente equivocados y socialmente inaceptables, es en sí mismo considerado grosero, si no inmoral. Pero ninguna sociedad con valores reales (es decir, no los valores vacíos de libertad, elección y diversidad, advierte LJS) puede subsistir bajo reglas que impiden la reafirmación de esos valores mediante la desaprobación pública y privada de los individuos que los violan.

Como conclusión, el autor compara las figuras de Pericles y Sócrates. No enteramente homologables, desde luego: Pericles era principalmente político (“statist”, dice LJS) y ponía el servicio del ciudadano al Estado por sobre otras cualidades; su declarado objetivo era la grandeza de su patria. Sócrates, principalmente “moral”: para él, no era el poder del Estado el fin que debía perseguir el individuo, sino el mejoramiento de la propia alma. Mas tanto el uno como el otro arriesgaron sus propias vidas al servicio de su patria, su piedad religiosa (demostrada en el culto público) estaba conforme a lo que pensaban sus conciudadanos, subordinaron la ganancia personal a sus ideas sobre justicia o servicio público y fueron, cada uno a su modo, líderes dispuestos a correr grandes riegos por decir lo que juzgaban era necesario decir. No fueron totalmente exitosos: “Both might have been surprised to learn that we have taken the Athenian political system, stripped away its historical and social context, and raised it from a simple form of government to the one remaining Form of virtue”.

Las tesis de What's Wrong with Democracy resuenan inusuales y hasta provocativas, no sólo en Estados Unidos. Aquí nos interesan particularmente en lo que tienen que ver con la historia griega antigua. En este sentido, la obra de LJS es un completo y muy documentado resumen sobre la historia política de la época clásica, recogiendo la discusión historiográfica relevante del último tiempo. Algunas observaciones podemos permitirnos a este respecto. Ciertamente, la democracia ateniense no era nada pacifista, ni humanitaria ni especialmente tolerante; pero tampoco lo era Esparta, cuyo régimen político es habitualmente considerado oligárquico (podemos aceptar que los espartanos, por razones que ellos bien sabían, no estaban tan dispuestos a ir a la guerra como los atenienses). Los “crímenes de guerra” –para emplear la terminología moderna- abundaron por lado y lado durante la Guerra del Peloponeso –como en toda guerra, sin duda. La democracia ateniense, no por confiar el gobierno a una muchedumbre no calificada, fue particularmente ineficiente; por el contrario, manejaron sus finanzas bastante bien (aunque seguramente la Guerra del Peloponeso tuvo un costo mayor del previsto por Pericles) y su política exterior no dejó mucho que desear, al menos en el s. V (Tucídides contrasta la eficacia ateniense con la lentitud espartana). La paga por las funciones públicas, vista como una forma de corrupción por algunas de nuestras fuentes –y LJS parece compartir la opinión-, era necesaria, si se quería que el régimen fuera efectivamente democrático (Aristóteles señalaba las condiciones para ello) y, además, imperial (la flota era maniobrada en gran parte por los propios ciudadanos). El autor, por fin, adopta el punto de vista habitual en gran parte de la historiografía de los ss. XIX y XX sobre la decadencia de Atenas en el s. IV, un punto de vista que ya ha sido contrastado (nosotros mismos nos hemos referido al tópico en “La decadencia de la Polis en el siglo IV AC: ¿'mito' o realidad?”, Revista de Humanidades, U. Andrés Bello, Santiago, vol. 13, 2006, pp. 135-149).

Como quiera que juzguemos las opiniones políticas del autor, las cuestiones que plantea no son irrelevantes. Sin duda se puede sacar lecciones prácticas del funcionamiento del sistema político ateniense; de fondo, empero, es la pregunta de si ha existido una sociedad que no se funde en un mínimo de valores estables compartidos –no sólo “procedimentales”. Atenas puede ofrecer respuestas a estas preguntas. Como siempre, el mundo clásico tiene algo que decir a las inquietudes del hombre contemporáneo.
 
 

*Publicado en revista Limes N° 21, Santiago, 2009, pp. 174-178.

jeudi, 14 mars 2013

O Retorno do Mito

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O Retorno do Mito

por Boris Nad

Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/

Os processos contraditórios de desmitologização e remitologização não são desconhecidos para as civilizações antigas, nas quais os velhos mitos são às vezes destruídos (desmitologização) e substituídos com novos mitos (remitologização). Em outras palavras, aqui os processos de desmitologização e remitologização são processos mutuamente causados e interdependentes. Eles não colocam em questão a própria base da comunidade mítica tradicional; ademais, eles a mantém atual e viva.

O mito, nomeadamente - exceto em casos especiais de degradação extrema e secularização da tradição e cultura - para nós, não é uma ficção de povos primitivos, uma superstição ou uma incompreensão, mas uma expressão assaz concisa das verdades e princípios sagrados mais elevados, que são "traduzidos" a uma linguagem específica da realidade terrena, na medida em que seja praticamente possível. O mito é verdade sacral descrita por linguagem popular. Onde as presunções para sua compreensão estão desaparecendo, o conteúdo mítico deve ser descartado para que se coloque em seu lugar um novo.

As Intuições Perigosas

O mito é, nas culturas tradicionais, também uma grande antítese, onde, como demonstrado na obra capital de J.J. Bachofen Direito Materno: Uma Investigação sobre o Caráter Religioso e Jurídico do Matriarcado no Mundo Antigo, os dois princípios maiores e irreconciliáveis são confrontados: o urânico e o ctônico, patriarcal e matriarcal, e isso é projetado para todas as modalidades secundárias do estado e da ordem social através das artes e da cultura.

Com o advento do indo-europeu, invasores patriarcais no solo da velha Europa matriarcal começou o conflito dos dois princípios opostos que é trabalhado no estudo de Bachofen. No caso em questão, os velhos cultos e mitos matriarcais se tornam patriarcais, através dos processos paralelos e alternados de desmitologização e remitologização, e traços desse conflito também são encontrados em alguns temas míticos, que podem ser compreendidos como uma história político-religiosa bastante breve, como Robert Graves os interpretou, em seu livro Os Mitos Gre

Em contraste, na Grécia, um processo de desmitologização que alcança seu ápice após Xenófanes (565-470) é completo e radical. Isso não é seguido por qualquer processo de remitologização, é uma consequência de um processo total de dessacralização e profanação da cultura, que resulta na extinção do mítico e no despertar de uma consciência história, quando o homem deixa de ser ver como mítico e começa a se compreender como um ser histórico. Este é um fenômeno que possui analogias com dois momentos na história: primeiro, com um processo de desmitologização causado pelo Cristianismo primitivo. Para os primeiros teólogos cristãos, o mito era o oposto do Evangelho, e Jesus era uma figura histórica, cuja historicidade os Pais da Igreja provavam e defendiam para os descrentes. Como contraste há o processo de remitologização da Idade Média, com toda uma série de exemplos de revitalização do antigo conteúdo mítico, muitas vezes conflituoso e irreconciliável, dos mitos do Graal e de Frederico II aos mitos escatológicos na época das Cruzadas e vários mitos milenaristas. É, sem dúvida, uma reatualização bastante antiga de conteúdo mítico e sua "intuição perigosa", que ultrapassa suas causas e serve como uma evidência da presença de forças míticas do mundo histórico, que processo algum de desmitologização é capaz de destruir ou extinguir.

A Mitologia do Consumidor - O Pesadelo da História

Outro exemplo de processo radical de desmitologização é a desmitologização que começa com a época do Iluminismo até seu ápice experimentado no "universo tecnológico". Ela é (como acima) expressão direta de degradação e declínio do homem moderno, que não mais é um ser mítico ou histórico, mas um mero "consumidor" dentro da "civilização consumista e tecnocrática" ou simplesmente um plugue para o universo tecnológico. O impulso heróico do homem como ser mítico e histórico foi esgotado. Forças destrutivas de desmitologização constantemente limpam e removem os ingredientes míticos da área da civilização consumista e da memória humana em geral, exterminando as "intuições perigosas" que estão contidas aí. Dentro do universo tecnológico, que é apenas uma fase final da queda do homem (moderno), o horizonte humano está finalmente se fechando, porque aqui o homem possui apenas um poder e apenas uma liberdade: o poder de gastar e a liberdade de comprar e vender. Essa liberdade e esse poder, testemunham sobre a morte do homem (conhecida pelo mito e pela história), porque dentro do universo da tecnologia e da civilização consumerista, qualquer coisa que transcende esse "animal de consumo" simplesmente não pode existir. "A Morte da Arte" sobre a qual fala a vanguarda histórica é uma simples consequência da morte do homem, primeiro como ser mítico, e finalmente como ser histórico.

É claro, o processo de desmitologização jamais pode se completar, pela simples razão de que a destruição não toca as próprias forças míticas. Elas continuam a aparecer e retornar através da história, seja sob roupagem "histórica", ou como algo que se opõe à história. Isso também é verdadeiro para o universo unidimensional de uma utopia tecnocrática. Como resultado, os verdadeiros conteúdos míticos da civilização de consumo são substituídos pelo simulacro mítico: ideologias e mitos subculturais, ou mitologia consumerista, crescendo sem controle, cujos heróis são figuras como o Super-Homem.

Mas a exaustão de longos e destrutivos processos de desmitologização não significa um retorno ao tempo mítico.

"Nós estamos na meia-noite da história, o ponteiro marcou as doze e nós olhamos adiante para as trevas onde vemos os contornos de coisas futuras. A essa visão se seguem medo e pesada premonição. Coisas que vemos ou pensamos que podemos ver ainda não tem nome, elas são inomináveis. Se as abordamos, não as afetamos com precisão e elas escapam do laço de nosso domínio. Quando falamos paz pode ser guerra. Planos de felicidade se tornam homicidas, não raro ao longo da noite".

Em resumo: "Incursões ríspidas, que em muitos lugares convertem paisagens históricas em elementais, ocultam mudanças sutis porém do tipo mais agressivo" (Ernst Jünger: No Muro do Tempo).

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Na Aurora da História

O escrito No Muro do Tempo pelo autor alemão Ernst Jünger retrata a transição do mito em história, o momento em que a consciência mítica foi substituída pela histórica. A história, é claro, não existe há tanto tempo quanto o homem: a consciência histórica rejeita como ahistóricos os vastos espaços e épocas ("pré-história"), e povos, civilizações e nações, porque "uma pessoa, um evento deve ter características muito específicas que as tornem históricas". A chave para essa transição, segundo esse autor, fornece a obra de Heródoto, através da qual o homem "passa por um país iluminado pelos raios da aurora".

"Antes dele (Heródoto) havia algo mais, a noite mítica. Aquela noite, porém, não era trevas. Era como um sonho, e ela conhecia um meio diferente de conectar pessoas e eventos de consciência histórica e suas forças seletivas. Isso lança os raios da aurora sobre a obra de Heródoto. Ele se situa no topo da montanha que separa o dia da noite: não apenas as duas épocas, mas também dois tipos de épocas, os dois tipos de luz".

Em outras palavras, é o momento da transição de um modo de existência para algo bastante diferente, que chamamos história. Este é o tempo da transição de dois ciclos, que não podemos identificar com a mudança de épocas históricas - o problema em questão é a mudança profunda na existência do homem. O sagrado na maneira das épocas anteriores recua, cultos antigos desaparecem e em seu lugar vem religiões, que logo após, por si mesmas se tornam históricas ou anti-históricas, mesmo quando iniciam eventos e enredos históricos. As guerras cruzadas, convocadas pela Igreja do Ocidente, aprofundaram divisões e cismas e eventualmente deram origem à Reforma, que começou com entusiasmo religioso e um desejo de retorno "aos primórdios bíblicos", e então findou com o movimento histórico que abre o caminho para o desenvolvimento desimpedido da indústria e da tecnologia - incontida pelas normas da tradição (cristã), e livre de esperanças e desejos humanos.

A Careta de Horror

O Mundo da História, cujos contornos já encontramos em Homero, os quais foram moldados por Tucídides, e que experimentou seu zênite em algum momento ao fim do século XIX e início do século XX, com fronteiras incertas no tempo e no espaço, mas com uma consciência clara de suas leis e regulamentos, começou a entrar em colapso; e o vasto edifício da história se torna instável, como um sinal de penetração de forças estranhas até então desconhecidas. Essas forças possuem caráter titânico, elemental, visto pela primeira vez em desastres técnicos, que afetaram centenas de milhares de vítimas e então, nos eventos cataclísmicos do século XX, nas guerras e revoluções mundiais, com milhões de mortos e aleijados. A liberação da energia nuclear, da radiação e da destruição ambiental às quais áreas enormes foram expostas, a taxa diária paga em sangue, seja sacrificado ao "progresso" em tempos de paz, seja como consequência direta de intervenções e conflitos militares, são algo que emerge da moldura estabelecida pelo mundo histórico. É claro, a história não acaba aí, como esperado, por Marx ou Fukuyama. O que é mais notável é a aceleração do tempo histórico, que concentra eventos e reduz a distância entre os pontos de virada da história. Aquilo de que estamos falando é, porém, que aqui não estão apenas operando forças que chamamos históricas, e que o papel do homem nesses eventos fundamentalmente se modificou: ele não é mais capaz de operar igualmente com os deuses, ou segui-los, resistir contra eles ou mesmo subjugá-los, como era representado pelo mito. Ele (o homem) não é mais um participante ativo na história, guiado pelas paixões ou sua própria vontade, como ocorre na época histórica madura. Ele se torna o joguete de algo desconhecido, envolvido em eventos que o ultrapassam, contra sua vontade e fora de suas idéias.

A expressão de confiança alegre está sendo gradativamente substituída por uma careta de horror. O homem, que até ontem se considerava um soberano e mestre, reconhece sua fraqueza. Os meios que eram confiados são demonstrados como fracos ou na hora de decisão se voltam contra seu criador. Sistemas tecnológicos e ordens sociais possuem seus outros lados, seus esquemas automáticos, que não restringem mas encorajam a destruição, que situam o homem na posição de aprendiz de feiticeiro, que liberou forças incontroláveis. Corrupção, crime, violência e terror são mais resultados do que causas. Respostas políticas, independentemente de cor e signo, não oferecem soluções senão ampliam a desintegração. Se ele não se encontrasse em tempo de pânico, o homem poderia adquirir pelo menos uma consciência de seu próprio declínio.

Tudo isso era impensável na era madura da história porque então, o homem ainda era governado por si mesmo, e assim era a história, e portanto a história não podia ter senso de direção além daquela dada pelo próprio homem, seus próprios feitos e pensamentos.
 
Cada conceito de "sentido da história" é o conceito dos primórdios do homem, enquanto no tempo histórico clássico o homem não é criado, mas ele existe. A questão do "sentido da história" era uma questão sem sentido, e ela de fato não é encontrada nos escritores clássicos, de Heródoto em diante. A questão do "sentido da história", que é sempre encontrado fora do homem, se torna possível apenas quando a história e o foco saem do homem, seja na esfera social, seja na esfera das relações tecnológicas.

 O homem moderno está atrasado demais para revelar sua própria fraqueza, mas sua desintegração não acusa o mito ou a história, senão precisamente a fraqueza e covardia do homem moderno. O mundo dos "valores civilizados", o mundo histórico em geral, que ele próprio havia criado, está se mostrando mais fraco do que costumávamos crer - estruturalmente fraco, espiritualmente e eticamente também. Ao primeiro sinal de alarme, ele começa a desintegrar, expondo, na verdade, a prontidão interna do homem moderno de capitular.

 Essa é uma "meia-noite da história", que logo será substituída por algo diferente, e este momento é marcado pela difusão de forças titânicas, demandando o sacrifício de sangue

Rumo à Pós-História: O Despertar do Mito

A história, nós devemos repetir novamente, não dura tanto quanto o homem na Terra. Mas a consciência sobre isso ocorre tardiamente na história, talvez apenas em seu fim, quando as fronteiras do tempo e do espaço estão mudando: por um lado, pela descoberta do passado distante do homem, com civilizações perdidas, então o passado do planeta e do universo, e por outro lado, com a exploração de espaços cósmicos, profundezas de oceanos, ou o interior da própria Terra, através das camadas arqueológicas e geológicas, quase ao modo de Verne. Novas perspectivas causam vertigem. A pré-história e a pós-história ganham em importância apenas quando a história se torna um edifício em ruínas. Mas passar o homem da história para algo que ele ainda não foi capaz de determinar ainda ou perceber claramente rememora agora o voo. 

 De uma maneira ou de outra, o universo tecnológico e a civilização do consumo chegarão ao fim, da mesma maneira que a época histórica clássica acaba com a tecnocracia e com uma ordem totalitária em sua forma completa, que não emerge nem da coragem ou da força, mas da covardia, fraqueza e medo. É impossível dizer quanto tempo isso vai durar. É irrelevante se isso vai acontecer devido a atrito interno, uma sobretensão ou um desastre, ou tudo isso junto. Mas em cada um desses casos, o colapso é apenas uma consequência da inabilidade do homem de continuar habitando no mundo histórico e governá-lo como ser supremo e soberano.

O retorno do mito, porém, não é possível em termos de um retorno à "pré-história". Forças mitológicas permanecem presentes, como eram durante todo o período histórico, mas elas não podem estabelecer um estado prévio porque carecem das pré-condições, em primeiro lugar, um "substrato" ausente, um terreno fértil. O homem moderno é fraco demais para isso, no sentido espiritual, psicológico e mesmo "fisiológico".

Junto com a história, a cultura gradativamente desaparece também, em seu sentido atual, que é basicamente apenas um instrumento de engenharia social. Em uma utopia tecnocrática (em oposição à cultura no período histórico) a cultura de massa é apenas uma das maneiras de canalizar a energia e impulsionar fantasias utópicas e desejos das massas; a cultura de elite, que constantemente vaga entre conformismo e negação, entre ceticismo e negação, entre ceticismo e ironia, e de volta ao conformismo, essencialmente permanece uma ferramente de desmitologia (ou desconstrução de mitologia) e destruição de instituições perigosas contidas no mito, que permite mais ou menos uma integração fluida no universo tecnológico, com a ilusão do livre arbítrio. O aparecimento e o despertar de intuições perigosas e arquétipos adormecidos, nas margens do mecanismo social tecnocrático, cria uma situação de conflito e leva a atrasos em seu funcionamento.

Na região fora da utopia tecnocrática, a cultura precisará assumir um papel mais tradicional do que aquele que possui na civilização do consumo. A desintegração do mundo histórico em seu estágio tardio, que nós estamos testemunhando, nos permite ver algo disso.

Por boa parte do período histórico, a cultura é uma área privilegiada de poderes sagrados e míticos. Essa é uma das maneiras nas quais forças míticas penetram de novo no mundo historicamente, se realizando na história, diferentemente do universo tecnológico, onde elas usualmente se manifestam através de elementos não-controlados de subculturas folclóricas, e muitas vezes distorcidos ao ponto de serem irreconhecíveis como simulacro do mítico, e não como sua expressão crível.

Eles mais testemunham sobre a necessidade eterna e insaciável do homem por conteúdo mítico, do que representam um signo de sua presença real.

 A cultura na era pós-tecnocrática estará relacionada bem de perto ao restabelecimento da mitologia, em termos de reconhecimento e despertar do conteúdo mítico autêntico, marcado por inovação e revitalização da forma antiga e tradicional, mais do que, como até então, seu exorcismo. O sentido e propósito do processo de desmitologia, por contraste, deve ser limitado ao que possuía nas sociedades tradicionais: a limpeza de formas míticas "folclóricas" degeneradas, de modo a abrir espaço para aquelas que representa com credibilidade a tradição.

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mercredi, 13 mars 2013

Martin Heidegger: Un philosophe des valeurs traditionnelles et révolutionnaires

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Martin Heidegger: Un philosophe des valeurs traditionnelles et révolutionnaires

par Jean Mabire

Ex: http://linformationnationaliste.hautetfort.com/

Que Martin Heidegger soit le plus grand philosophe de notre siècle, peu de monde en doute à l'approche du troisième millénaire. Que cet ancien recteur de l'université de Fribourg se signala en 1933 par un ralliement sans ambiguïté au national-socialisme alors triomphant, voilà qui, comme on dit, « pose problème » et classe l'auteur de l'essai Etre et temps dans le camp des maudits, d'autant plus impardonné qu'il n'a jamais manifesté le moindre repentir.
Le pasteur Jean-Pierre Blanchard vient de consacrer un petit ouvrage fort éclairant à la personnalité et à l'œuvre de cet Allemand du Sud très attaché à sa patrie souabe et intransigeant défenseur de l'enracinement.
Ce livre a le grand mérite d'expliquer clairement les grandes querelles idéologiques auxquelles Heidegger fut confronté : tradition et modernité, romantisme et rationalisme, individu et communauté, conservatisme et révolution, héroïsme et décadence, populisme et étatisme.
Le pasteur Blanchard démontre à quel point la pensée de cet auteur, totalement en marge de tous les courants actuels, exprime « la nostalgie de la patrie céleste, reflet sublime de ce qu'est la patrie charnelle. Celle-ci s'enracine dans des valeurs organiques, la famille, le métier, le devoir, l'honneur ».
Il fallait sans doute toute la science théologique d'un ministre de l'Eglise évangélique luthérienne pour affirmer que le grand philosophe, qui avait totalement renié le catholicisme de sa jeunesse, fait finalement retour à une métaphysique chrétienne ...

Prévenons d'emblée tous ceux qui vont acquérir ce petit essai fondamental qu'il se compose de deux parties bien distinctes.
La première, intitulée : Faut-il brûler Heidegger ? est une explication des attitudes politiques qui ont tant contribué à diaboliser le philosophe-bûcheron de la Forêt-Noire. Elle se lit sans difficulté pour qui s'intéresse aux aspects idéologiques (le pluriel s'impose) de la révolution national-socialiste.
La seconde partie, dont le titre, Une quête de retour aux racines, s'éclaire par un -sous-titre explicite : Pour une lecture chrétienne de Heidegger, exige quelques connaissances philosophiques et théologiques, d'autant que le pasteur Jean-Pierre Blanchard a voulu aller « au fond des choses » dans cet univers bien particulier qui confine à la logique comme à la croyance.
Heidegger - à l'inverse de Nietzsche - est un philosophe difficile, dont la pensée exige un véritable «décodage» par des esprits rompus à cette sorte de gymnastique intellectuelle. Mais il reste, selon l'expression, «incontournable».
Récupéré par les «existentialistes» au lendemain de la guerre, Heidegger fut longtemps, pour le grand public cultivé, une sorte de personnage mythique, auquel on se référait sans jamais l'avoir lu. Puis est venue l'offensive de la diabolisation, inévitable en notre époque de chasse aux sorcières. Un livre de Victor Farias, paru voici dix ans, devait donner le ton : Heidegger et le nazisme (Le Seuil, 1987).
Curieusement, l'auteur montrait que si Heidegger devait être finalement mis en cause par le régime national-socialiste en 1934, c'était non pas parce qu'il était jugé trop modéré, mais, au contraire, trop radical, attiré par un personnage tel que Rohm, le chef d'état-major des SA, les sections d'assaut, éliminé lors de la purge sanglante de la Nuit des Longs Couteaux.

Issu d'un milieu modeste 
C'est d'ailleurs une thèse que le pasteur Jean-Pierre Blanchard reprend à son compte, montrant un Heidegger profondément révolutionnaire et «populiste».
Mais il faut commencer par le commencement : à Messkirch, dans le pays de Bade, où le futur philosophe naît le 26 septembre 1889 (ce qui en fait le strict contemporain, à quelques mois près, d'Adolf Hitler). Sa famille est profondément catholique et son père est même sacristain.
Issu d'un milieu modeste d'artisans et de paysans, le jeune Martin est élevé de 1903 à 1906 au lycée de Constance, où il est pensionnaire au foyer Saint-Konrad, créé au siècle précédent par l'archevêque de Fribourg, ville dans laquelle il poursuivra ses études jusqu'en 1909. Il décide alors d'entrer au noviciat jésuite de Tisis à Feldkirch (où il ne restera qu'une quinzaine de jours) puis de rejoindre l'internat de théologie de Fribourg, où il étudiera jusqu'en 1911.
Ce jeune Souabe se place alors dans l'orbite du mouvement social-chrétien, issu du romantisme catholique, qui combat le rationalisme de la philosophie des Lumières. Renonçant à la prêtrise, Heidegger se lance ensuite avec succès dans des études de mathématiques et de philosophie.
De faible santé, il est mobilisé dans les services auxiliaires durant la Grande Guerre, se marie en 1917 avec une jeune fille d'origine protestante, fille d'un officier de la Reichswehr, devient professeur et publie, en 1927, son livre essentiel : Etre et temps. On peut dire qu'il y oppose une existence authentique à une existence inauthentique ; déracinée, incapable de trouver accès à la véritable vie communautaire, organique, celle qui nous met en relation avec les autres humains : « Sa pensée semble viser à dépasser, de manière positive, ce qui est de l'ordre d'un système fondé sur l'individualisme, lequel génère et ne peut que générer la décadence des peuples et des cultures. Il est le chantre d'un communautarisme qui se veut en même temps traditionnel et révolutionnaire. » Cette idée de communauté n'empêche pas un certain élitisme : « Seule une élite a le droit de diriger la société et l'Etat. »

L'école, creuset de l'élite
Au sein de cette élite, le personnage essentiel est le héros - comme le fut l'étudiant Albert Léo Schlageter, fusillé par les occupants français à Düsseldorf en 1923 : « Ceux qui ont su mourir nous apprennent à vivre. »
Le grand souci du professeur Heidegger reste une rénovation totale de l'enseignement : « C'est au sein de l'école que doivent naître ceux qui seront chargés d'être les guides de la communauté du peuple [ ... ] permettant au peuple allemand de prendre en charge sa propre situation. »
C'est là rechercher une sorte d'ascèse, à la fois politique et spirituelle, quasi monastique. Heidegger se veut, bien plus qu'un homme de cabinet, un « éveilleur de conscience », tout en souhaitant que se créent de véritables liens institutionnels entre les étudiants et les travailleurs. C'est là une position révolutionnaire, qui va provoquer une tension de plus en plus vive entre lui et le ministère, entre ce penseur libre et les philosophes officiels du régime comme Alfred Rosenberg. Car le recteur de l'université de Fribourg n'apprécie-guère le côté biologique et simplificateur ; il préfère « le retour au génie spirituel du peuple allemand » à « la glorification d'une race supérieure, la race aryenne ».
Sa pensée se déplace de plus en plus vers sa patrie locale, la Forêt-Noire. Il voit une véritable relation entre le travail paysan et le travail philosophique. Tout, selon lui, doit partir de sa terre alémanique et souabe, ce qui implique une grande méfiance envers les forces urbaines, conservatrices et bureaucratiques.
Dans cette « petite patrie », il choisit comme une sorte d'intercesseur magique, le père Hôlderlin, auquel il va consacrer un essai capital.
Très rapidement réduit à une sorte d'exil intérieur dans son chalet de Todtnauberg, près de sa ville natale de Messkirch, il n'en sera pas moins épuré après la guerre et interdit d'enseignement en 1947.
Il représente jusqu'à sa mort, le 26 mai 1976, à Fribourg-en-Brisgau, un double courant de l'âme germanique : celui du Saint Empire, qui fait de l'Allemagne le cœur de l'Europe, et celui de la « patrie charnelle », le Heimat, qui marque son enracinement dans un terroir séculaire.

Jean MABIRE National hebdo du 23 au 29 octobre 1997

Pasteur Jean-Pierre Blanchard : Martin Heidegger, philosophe incorrect, 192 pages, L'AEncre.

mardi, 12 mars 2013

Méridiens Zéro: l'homme programmé

Dimanche soir, Méridien zéro...

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Méridien zéro RBN cliquez ici

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dimanche, 10 mars 2013

Raymond Abellio: a modern Cathar?

Raymond Abellio: a modern Cathar?

The French politician and author Raymond Abellio could be one of modern history’s most enigmatic characters… if his career and reputation were known outside of France, where he is largely an unknown entity.

Philip Coppens

Ex: http://www.philipcoppens.com/



Raymond Abellio

The French Cathar expert Déodat Roche may not be the only modern Cathar. Another candidate put forward for such a distinction is “Raymond Abellio”. Raymond Abellio is the pseudonym of French writer and political activist Georges Soulès. Already, in his choice of nom de plum, there is a direct reference to the solar deity of the Pyrenees, often linked with Apollo – and Lucifer. It was, in fact, Otto Rahn himself who made the link between Lucifer and Abellio.
Abellio was a deity of Soulès’ homeland, especially the Garonne Valley in Gallia Aquitania. His existence is known through a number of inscriptions that were discovered at Comminges. He may have been a god of apple trees. Equally, though Raymond is a name of Germanic origin, composed of the elements ragin (“counsellor”) and mund (“protector”), the name was, at the time of Catharism, specifically linked with the counts of Toulouse. The choice of protector and counsellor of the deity of light is an apt choice to describe what Soulès envisioned to be his mission in life.

Soulès was born November 11, 1907 in Toulouse, and died August 26, 1986 in Nice. His parents came from Ax-les-Thermes, in the Ariège valley, only 16km from the ancient Cathar castle at Montségur. Soulès was a brilliant student, and during his engineering studies, discovered an interest in politics and became a staunch supporter of Marxism. He joined the Étudiants Socialist of the XIV arrondissement of Paris, affiliated to the French Socialist party (SFIO). Here he befriended the celebrated political philosopher, Claude Lévi-Strausse. Amongst his tutors was Marcel Deat, the politician and philosopher who formed his own party, the Parti Socialiste de France, under the motto “Order, Authority and Nation”.


In 1931, at the age of 24, he joined the Centre Polytechnicien d’Études Économiques, popularly known as X-Crise. The aim of the group was to study the political and economic consequences of the 1929 Wall Street crash. One of the results of this study was his adoption of “Planisme”, a political philosophy that embraced centralised control of the economy and key services, such as power and transport, which today remain pillars of most socialist governments.


According to Guy Patton, author of “Masters of Deception”: “It appears that the Planist approach offered the best route to a French national renewal and a change in France’s economic fortune. He wanted to replace the famous Republican slogan, ‘Liberty, Equality, Fraternity’, with ‘Prayer, War, Work’, to represent a new society built on an absolute hierarchy led by a king-priest.” It is therefore apparent that Abellio did not want to stop with bringing socialism to power, but had a much greater vision for France.

Abellio was also on the board of the Atlantis magazine, founded, in 1926, by Paul Le Cour. Le Cour was to be an inspiration for Pierre Plantard’s political and esoteric philosophy – the illustrious Priory of Sion. Le Cour himself was the heir of the Hiéron du Val d’Or movement, which campaigned for the return of a priest-king to rule France. All of these organisations, however diversified they might appear to be, had one common denominator: the return of a New or Golden Age, and it is here that they link up with Abellio’s vision for France.
In 1947, Abellio’s “Vers un prophetisme nouveau” specifically called for the formation of “a grand order consisting of a community of initiates under the direction of a man with a sense of mission”. The question, of course, is: initiates of what?

Abellio wrote two books in the Gnostic genre, entitled “Manifeste de la nouvelle gnose” (Manifestation of the New Gnosis) and “Approches de la nouvelle gnose” (Approaches of the New Gnosis). He was also interested in the possibility of a secret numerical code in the Bible, a subject that he developed in “La Bible, document chiffré” (which could best be translated as “The Bible Code”!) in 1950, and later in “Introduction à une théorie des nombres bibliques” (Introduction to a theory of biblical numbers), in 1984. He proposed in particular that the number of the Beast –i.e. the Devil – 666, was the key number of life, a manifestation of the holy trinity on all possible levels, material, animist and spiritual.


Abellio’s writings all underline his ideology, which is that there is an ongoing process whose final term he called the “assumption” of the world’s multiplicity into the “inner Man”. Man was supposed to be able to achieve the complete unification of that multiplicity, a unification that would end up providing the subject with a “gnostic consciousness”, also called “secondary memory”, by the same token leading to the “transfiguration of the world”.

So far, there is little evidence that Abellio might have been a Cathar. Whenever his ideology is explained, there are references to the influence of Pierre de Combas on his thinking, as well as his interest in Oriental philosophy, the Vedas, and eschatology. Indeed, it is only in Jean Parvulesco’s “Le Soleil Rouge de Raymond Abellio” (The Red Sun of Raymond Abellio) – and then even in a somewhat secretive manner – that the notion that Abellio likely had Cathar allegiances rises to the surface.


Parvulesco was a writer and French journalist, who argued that he was heir of the “Traditional thinking”, in line with other esoteric authors like René Guénon and Julius Evola. He knew Abellio personally, and was thus a person who could penetrate into his inner world – see his “true self”, which was an important part of Abellio’s philosophy.

It is in the chapter “The Final Secret of Raymond Abellio” that we find – unexpectedly – two direct references to Catharism. But before doing so, Parvulesco opens the chapter by underlining that Abellio died in an “immense solitude”. He then writes how “Raymond Abellio never stopped to be, secretly, and whether he himself knew or not nevertheless is important, the ecstatic and suicidal ecstatic of Montségur, whom carried inside himself the mission for this life and for all lives to come.” He continues: “And, on the other part, he, so long amongst us as the confidential agent of the other world, is going to try to be, now, our confidential agent in the other world.”


The first paragraph is a rather awkward method of writing and it is almost as if Parvulesco is about to fall over his own words, trying to express something that is very intense. Parvulesco nevertheless makes it clear that Abellio had a mission, which he links with Montségur, and though some might argue that Parvulesco used the castle’s name because it was near to where Abellio’s family originated from, that actually doesn’t work within the context, with references to suicide – noting that suicide was specifically linked with the Cathars besieged at that castle during the Siege of Montségur. Even more specific: Parvulesco implies Abellio’s mission is specifically linked with Montségur – known for one thing only: the symbolic demise of Catharism.


Two pages later, and totally out of sorts with the tone of the book and chapter, Parvulesco introduces the consolamentum. Parvulesco is at odds to explain the end of Abellio’s life, why he died in total isolation, and is unable to come up with a logical answer – except one: “the only answer that I can support is not the least: […] it is in the mystery of this sacrament instituted by the consolamentum of the very perfect that it is where we need to search the reasons of his mystic complicity with the arrest of death that concerned him, and about which he did not ignore the promises of deliverance, the suspension of the movement of the penitential wheel of the blind lives. But let us not talk about that which is so savagely prohibited to be spoken off.”

Jean Parvulesco

Few have read this sole paragraph for what it truly states. Not only does it refer directly to the fact that Parvulesco knew what Catharism meant – the end of the series of incarnations, accomplished through the consolamentum –, not only does he reveal that such things should not be spoken off, but he specifically does note that it is in this framework and especially in the sacrament of the consolamentum that one should search the reason why Abellio died in the manner that he did. In short, Parvulesco states that Abellio died in total solitude, as he died after receiving the consolamentum; the total isolation being nothing else but his endura.

These two paragraphs are powerful evidence, by a person who knew him, that Abellio was indeed a Cathar. In two paragraphs, Parvulesco sums up the life of his friend as that of a man who was born with “the mission of Montségur” and who died conform to the Cathar rituals.


These paragraphs also put another episode in Abellio’s life in context: a theatre play entitled “Montségur”, which was about the Cathar Crusade. In the play, he set off the conflict between knowledge and power on the one hand, as well as an awakening and the part it played in a particular mindset. Was it his awakening and his mindset?

As such, all of his interests in the Bible, as well as Oriental philosophy, should be seen for what they were: the interests of a Cathar, who realised that the Bible and these philosophies contained ideas that were similar to his own – those of Catharism. These interests should not be seen – as most interpret them – as those of a social activist who went in search of a larger religious framework. It was a confirmation of his belief, rather than exploration of beliefs, to eventually pick one that suited him best.


Equally, as Parvulesco underlined, perhaps we should see his social activism and his strife for a New Europe as his “mission” – to once again quote Parvulesco – a mission that equally was part and parcel of the Cathar social agenda of medieval Europe. Though Abellio has often been labelled a synarchist (i.e. a man who proposed that the world was ruled by a secret elite – his “initiates”), it may be that he realised that after the fate that Catharism befell in the 13th century, rule by secrecy might have been the only method through which his – if not their – social reform could ever be accomplished. Hence, we need to ask whether his strife – and that of those like him – as another Cathar revival.

 

vendredi, 08 mars 2013

Les mécanismes psycho-sociaux de l’aliénation néolibérale

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Les mécanismes psycho-sociaux de l’aliénation néolibérale

par Olivier Labouret

Ex: http://mecanoblog.wordpress.com/

Comment penser et affronter les bouleversements impensables qui nous affectent aujourd’hui ?

On va chercher à comprendre comment le néolibéralisme nous aliène tous collectivement, certes, mais surtout chacun d’entre nous, individuellement. Pas seulement les couches populaires, les Français moyens, les « beaufs », les lecteurs de Gala, les spectateurs de TF1 ou les électeurs qui marinent, mais vous, moi, nous tous… Tant qu’on nie cette évidence que chacun d’entre nous est étroitement, inconsciemment aurait dit Freud, conditionné par les valeurs égoïstes de la compétition marchande, tant qu’on n’a pas compris que les bouleversements qui nous affectent ne sont pas seulement de nature économique et sociale, mais de nature psychologique et individuelle, c’est à dire s’immiscent en nous jusqu’à influencer notre pensée elle-même, comment peut-on prétendre faire de l’éducation populaire, concrètement, comment accomplir une quelconque transition ? En réalité, la guerre économique est aussi une guerre psychologique. Et si l’on veut penser autrement, sortir du déni de réalité dominant, guérir du « capitalisme cognitif » qui doit faire de nous les meilleurs sur le marché de l’emploi, du savoir et de la renommée, ici sur le campus du Mirail comme ailleurs, il faut connaître parfaitement l’ennemi, même et surtout quand il est tellement sournois qu’il s’est tapi à l’intérieur de soi, dans les recoins de son psychisme, ou ce qu’on nomme aujourd’hui communément tel.

Au fond, la question est de comprendre comment la loi du marché a finalement fait pour rentrer subrepticement, mais au sens propre, à l’intérieur du cerveau, de nos cerveaux… Car ce n’est pas un vain mot, quand on sait qu’une discipline nouvelle a vu le jour et a été adoptée par les plus hauts conseillers des gouvernements occidentaux : la neuro-économie. Ces économistes au pouvoir ont intégré la technique comportementale et les neurosciences à leurs travaux. Un rapport du Centre d’analyse stratégique de 2010, officine d’experts patentés aux ordres du Premier ministre français, mais rapport co-dirigé par un conseiller du président Obama, Richard Thaler, se targue ainsi de pouvoir littéralement « rentrer dans le cerveau du consommateur », grâce en particulier à l’imagerie cérébrale, pour orienter, influencer ses choix économiques… Cela ne fait que confirmer redoutablement l’essentiel de mon propos : l’idéologie comportementale et cognitive, qui considère que l’individu, réduit à un instrument de traitement de l’information, peut être conditionné dans ses choix par un ensemble de sanctions et de récompenses, la bonne vieille méthode de la carotte et du bâton, est devenue une idéologie d’État pour les gouvernements néolibéraux : à travers un ensemble de techniques de propagande, il leur est possible aujourd’hui non seulement de conformer le comportement de chacun aux normes du marché, mais surtout de favoriser leur intégration cognitive, pour en faire une loi naturelle, incontestable… Quiconque y déroge, dorénavant, peut être ainsi déclaré objectivement, scientifiquement, souffrant sinon malade, et relever d’un traitement psychologique, et médical.

Parler de ma place de psychiatre, praticien hospitalier de service public, pour décrire ces phénomènes est une position privilégiée, car l’évolution de la psychiatrie témoigne en première ligne de cette évolution de la doctrine néolibérale : la psychiatrie constitue un miroir grossissant de ce que le système de domination économique dans lequel nous vivons est en train de faire de la subjectivité de chacun d’entre nous. La psychiatrie n’a plus en effet pour rôle de soigner des maladies mentales, strictement définies par un ensemble de symptômes, mais s’occupe désormais officiellement de programmer la santé mentale des populations, santé mentale définie négativement, par l’absence de toute déviance comportementale vis à vis de la norme socio-économique. Un autre rapport, quasi-simultané, du Centre d’analyse stratégique gouvernemental, dirigé cette fois par une professeure d’épidémiologie formée à l’école comportementaliste et scientiste canadienne, Viviane Kovess, définit en effet la santé mentale, qui est « l’affaire de tous », comme « la capacité à s’adapter à une situation à laquelle on ne peut rien changer, (ou encore) l’aptitude à jouir de la vie ». Il s’agit là ni plus ni moins de la définition de l’individu libéral héritée d’Adam Smith, voire du marquis de Sade : la recherche égoïste et concurrentielle de l’intérêt individuel fait la richesse des nations et le bonheur collectif. Viviane Kovess est l’une des promotrices d’un programme européen de santé mentale visant à conditionner celle-ci par des logiciels d’apprentissage dès l’enfance. On voit que la psychiatrie est bel et bien devenue l’instrument d’une politique européenne et mondiale de santé, ou plutôt de conformité mentale, faisant d’ailleurs l’objet en France de plans quinquennaux, soutenus par la fondation d’État FondaMental. Cette dernière a pour mission de dépister tout trouble, toute défaillance individuelle le plus précocement possible, et de les corriger par la « psycho-éducation », car ils nuisent à la compétition économique, ainsi que l’affirmait son ancienne présidente, parlementaire UMP… La psychiatrie est donc aujourd’hui vraiment une affaire d’État : elle est instrumentalisée par le pouvoir néolibéral pour lui servir de caution scientiste à sa politique gestionnaire et répressive qui ne cesse de se durcir (comme le laisse à penser la continuité de la politique d’expulsion des étrangers en situation irrégulière depuis le changement présidentiel). Elle est devenue l’arme principale du contrôle socio-économique des comportements déviants, délinquants et même simplement défaillants. Comment diable en est on arrivés là ?

Survol de l’évolution historique de la psychiatrie

La psychiatrie est née avec les lumières et a grandi avec le scientisme positiviste : dès son origine, elle a constitué un système symbolique essentiel pour la civilisation occidentale (donnant une représentation acceptable de la folie et de la finitude, par le déplacement symbolique de la souffrance, de la violence sociale vers le psychisme individuel et la science médicale). Mais ce qui se passe aujourd’hui, c’est que ce système symbolique est devenu un système de propagande au service de l’ordre néolibéral : la métaphore psychologique et médicale permet de nier la violence que celui-ci exerce, de naturaliser la norme économique dans la subjectivité, de faire rentrer la loi du marché à l’intérieur de nos neurones sinon jusque dans nos gènes… La pression normative écrasante qui s’exerce aujourd’hui sur chacun d’entre nous et dans le monde entier est ainsi niée symboliquement, par psychiatrie interposée. Comment une telle mutation s’est-elle opérée, en deux siècles d’histoire ?

Passons rapidement sur les deux guerres mondiales : à leur décours, avec Freud puis Parsons, le système symbolique médico-psychologique se prend de plus en plus pour la réalité, l’adaptation psychologique devient la norme individuelle du progrès civilisationnel. Mais c’est surtout avec la chute du mur de Berlin que ce système de croyances acquiert la force d’une conviction absolue. Avec l’effondrement du bloc communiste vient le triomphe du néolibéralisme, et le début de la troisième guerre mondiale : le seul ennemi devient l’individu, à embrigader dans la guerre économique. Ce tournant se traduit par la mondialisation de l’idéologie comportementale : tout trouble est désormais une maladie mentale. Apparaissent en effet en cascade les classifications mondiales des troubles du comportement, et en France la loi sur l’hospitalisation d’office des troubles à l’ordre public, ainsi que la circulaire instaurant la politique de santé mentale. C’est aussi le début du contrôle informatique effréné des activités humaines.

Dix ans plus tard, surviennent les attentats du World Trade Center, simple incident de parcours dans cette fuite en avant hégémonique du système néolibéral : le terroriste se cache parmi nous, l’ennemi est intérieur. On assiste alors à une avalanche de lois sécuritaires (plus de trente en dix ans). Encore presque dix ans plus tard, 2008, voici la crise ultime des SubPrimes. La bulle n’est pas seulement spéculative mais psychologique, la dépression est tout autant nerveuse qu’économique : c’est la baudruche consumériste qui éclate, l’illusion de la possession matérielle pour tous qui s’effondre. Pour sauver le capitalisme, au moins temporairement, il n’y aura pas d’autre solution que de « changer les comportements et les mentalités », projet que le président Sarkozy annoncera à plusieurs reprises. Son discours de Toulon sera très rapidement suivi du discours d’Antony instrumentalisant un fait divers, le meurtre commis par un schizophrène malencontreusement échappé d’un hôpital psychiatrique, pour annoncer le grand tournant sécuritaire de la psychiatrie : celle-ci devra dorénavant garantir le risque zéro. Vous voyez qu’il existe un rapport dialectique étroit entre science psychiatrique et crise économique…

Tout malade est un criminel en puissance, et tout individu est un malade qui s’ignore, pour peu qu’il trouve à redire à l’ordre en place : moins de 3 ans plus tard, cette dérive sécuritaire se concrétise dans la loi du 5 juillet 2011, instaurant les « soins sans consentement ». On peut, on doit désormais surveiller et traiter de force tout trouble du comportement, par des « programmes de soins » à domicile. Voici comment la psychiatrie est devenue sans coup férir une arme de dissuasion massive de tout remise en cause individuelle dérangeante du système de domination néolibéral, permettant un déni symbolique de toute contrainte, de toute violence socio-économique.

État des lieux actuel de la psychiatrie : une triple dérive qui s’accélère

Dérive scientiste : c’est donc le triomphe de l’idéologie comportementale, qui diffuse la bonne santé mentale dans l’ensemble de la société, du sommet de l’État à la dernière des classes maternelles en passant par le monde de l’entreprise, à travers les procédures d’évaluation et échelles de comportement. Cette idéologie au pouvoir est renforcée par un véritable délire scientiste : la norme comportementale a une origine biologique, tout trouble doit avoir forcément une cause médicale, organique. C’est le sens des recherches faramineuses en neurosciences et sur la vulnérabilité génétique : tous les troubles, toutes les déviances sont concernés (hyperactivité, troubles des conduites, addictions, conduites suicidaires, troubles bipolaires et labiles…). Des intérêts colossaux sont en jeu, à la fois scientistes (congrès et publications de la psychiatrie universitaire, instituts de recherche privés comme FondaMental et publics avec l’Inserm), politiques (prises de positions gouvernementales, rapports du Centre d’analyse stratégique) et industriels (poids du lobbying pharmaceutique). On a parlé des recherches en neuro-économie, il faut citer également la classification internationale DSM-5 dont la parution est imminente, et qui décrit des troubles prédictifs : désormais, il faut dépister le trouble le plus précocement possible voire avant même qu’il arrive pour le tuer dans l’oeuf !

Dérive marchande : comme dans tous les services publics, ou ce qu’il en reste, c’est le triomphe de l’idéologie managériale cognitivo-comportementaliste de la rentabilité, de l’évaluation, de la qualité, réalisant une course incessante à la performance (sélection des meilleurs soignants au mérite, et culpabilisation, mise à l’écart des incapables), parallèlement à une pénurie croissante des moyens et à un contrôle administratif renforcé, et aboutissant à une perte de toute indépendance et de toute éthique professionnelle.

Dérive sécuritaire enfin, cachant une violence institutionnelle qui s’accroît : cinq lois et deux circulaires en cinq ans, psychiatrisant toujours plus la déviance et la délinquance, et accompagnant des pratiques « soignantes » de plus en plus coercitives. La mission de la psychiatrie devient l’expertise prédictive omnipotente de la dangerosité, parallèlement à la mise en place d’un fichage généralisé des populations à problèmes, qui coûtent trop cher, pour les trier voire les éliminer en douceur. Surtout, la loi du 5 juillet 2011 instaure une société de contrôle d’un genre nouveau, à travers les soins sans consentement à domicile, autrement dit le déni psychiatrique de toute contrainte extérieure pesant sur l’individu. On assiste là à l’abolition de tout libre-arbitre, de la possibilité de penser différemment, et finalement de la vie privée, par une loi qui dicte à toute la population le bon comportement individuel. Dorénavant, chacun devra se conformer de lui-même à des normes posées comme une réalité absolue, même si il n’y consent pas. C’est l’avènement d’un État policier où la psychiatrie exerce la police des comportements, le ministère de l’intérieur psychique, conditionnant une normopathie de masse, au sens de Hannah Arendt. L’implosion psychologique remplace toute possibilité d’explosion sociale, chacun est tenu d’être surveillé et traité médicalement chez soi et en soi pour être heureux… C’est l’avènement de l’hygiénisme du bonheur obligatoire, du repli programmé dans le confort de son cocon personnel, mais aseptisé, vidé de toute distance critique, de toute altérité.

La psychiatrie resituée dans l’évolution socio-économique : la propagande néolibérale

C’est la stratégie du choc psycho-économique dont parle Naomi Klein, autrement dit l’application systématique par le pouvoir des méthodes cognitivo-comportementales de soumission (on parlera de renforcement positif et négatif, ou en plus imagé de la carotte et du bâton).

La « carotte », c’est la propagande spectaculaire et marchande du divertissement, de la consommation, et la propagande techno-scientiste (mythe du progrès, de la croissance, de l’amélioration des performances…). Elle est portée par le marketing publicitaire, les industries culturelles, la télévision, les technologies de l’information et de la communication (TIC), les jeux vidéo : tous ces moyens reposent sur le culte de l’argent roi et le star système, la promesse du bonheur et de la possession ; ils agissent par hypnose, tendant un miroir narcissique dans lequel se reflète et se leurre toute la société. Ainsi se réalise une auto-excitation vers toujours plus, une fuite en avant incessante, un emballement, comme un tourbillon qui nous emporte irrésistiblement…

Le « bâton », c’est la politique de la peur de l’ennemi intérieur, du bouc émissaire : une police de plus en plus répressive (gardes à vue, délits d’outrage, manifestations piégées, affaire de Tarnac, politique migratoire, armes non létales…) ; une justice de plus en plus intrusive et prédictive (loi LOPPSI II, loi Estrosi, fichier Hortefeux PASP, FNAEG, délinquance routière = exemple de psychologisation cognitivo-comportementale généralisée, et redoutablement efficace, de la répression…) ; un dressage éducatif de plus en plus sévère (casse de l’école par la RGPP provoquant une sélection de plus en plus élitiste, politique de prévention de la délinquance, réforme de la justice des mineurs, fichage informatique des compétences…) ; une destruction sociale accélérée (précarisation généralisée, management par l’évaluation = modèle clef décidément de la psychologisation cognitivo-comportementale universelle de la soumission néolibérale, idéologie de la lutte contre la fraude, rôle de contrôle social et technologique des travailleurs médico-sociaux eux-mêmes menacés de sanctions automatiques) ; dissuasion psychiatrique visant comme on l’a vu à renforcer le moral des troupes ou du troupeau (psychiatrisation de toute défaillance étiquetée « dépression »). Tout cela a généré en quelques années seulement d’ordre néolibéral absolu incarné par la présidence sarkozienne, une société de suspicion et de surveillance généralisée (dans laquelle les TIC jouent un rôle majeur : fichiers de police, mouchardage électronique, vidéosurveillance, géolocalisation, biométrie, fichier centralisé des Cartes nationales d’identité…) et même d’auto-surveillance où la vie privée devient transparente (TIC encore avec les réseaux sociaux, plan vigipirate, voisins vigilants, matraquage permanent, à tous les coins de rue, du message « pour votre sécurité » = emblématique de l’intériorisation psychologique de toute contrainte, de toute violence socio-économique)…

Les conséquences de cette pression normative écrasante qui se dénie comme telle : la destruction de la subjectivité

C’est le conditionnement d’un conformisme, d’une normopathie de masse marquée par la duplicité. Il s’agit pour chacun d’entre nous, de faire semblant d’adhérer à des normes de plus en plus injustes et absurdes : l’alternative se pose dans l’ensemble du champ social entre se soumettre, se démettre, tomber malade, ou résister. Illustrations : Arendt (banalité du mal), psychosociologie (Asch), Foucault (nouvelle gouvernementalité biopolitique post-disciplinaire), critiques du management par l’évaluation, telle que celle de Dejours (peur de la précarisation : oeillères volontaires, cynisme viril). Mis à part déserter ou résister, on peut donc au choix :

  • Tomber malade : c’est la dépression du burn out, qui touche les plus vulnérables, autrement dit les gens sincères et engagés. En témoignent également les épidémies récentes de suicides professionnels et de crimes de masse (Norvège, Toulouse, Denver = Batman en avant-première au cinéma : acte « fou » ? Pas tant que ça, car riche de sens en brisant le miroir spéculaire insupportable de la violence générée par « The American Way of Life »). Ainsi que les pathologies de la consommation (addictions) et de l’accélération (hyperactivité, labilité émotionnelle, troubles bipolaires…)
  • Se soumettre : la perversion narcissique est aujourd’hui la personnalité culturelle, la néo-subjectivité malade du néolibéralisme (Lasch, Dejours, Dufour, Brown, Dardot et Laval…). C’est le conditionnement généralisé d’un narcissisme conformiste et consumériste de masse voué à la jouissance immédiate. Il traduit une fuite auto-excitatrice, comme une ivresse, dans la concurrence et le profit immédiat, c’est à dire un déni de la dépression, de la vulnérabilité, et sa projection dans un bouc émissaire. Cette instrumentalisation, cette chosification d’autrui est entièrement commandée par les nouveaux modes de contrôle social (politique de santé mentale opportuniste, idéologie comportementale conquérante, course à la performance, fichage informatique omniscient…). Passons sur les analyses sociologiques du sadisme inconscient : Habermas, Bourdieu, De Gauléjac, Prigent, Méheust (politique de l’oxymore = injonctions paradoxales, euphémisation de la violence) ; et sur les conséquences historiques redoutables de cette évolution : retour de l’eugénisme (trans-humanisme), accélération insensée du temps vers ce que Hartmut Rosa décrit comme « immobilité fulgurante ».

« Remèdes » : quelques pistes pour une alterpsychiatrie

Retrouver un mode de pouvoir non abusif, réellement démocratique : l’autorité est légitime quand elle est capable de se critiquer, quand elle est reconnue comme telle car non niée symboliquement (par psychiatrie, TIC, etc.). Le rétro-contrôle individuel doit être rendu possible dans le système sociopolitique (tirage au sort, référendum d’initiative populaire, justice indépendante, etc.).

Restaurer des limites épistémologiques strictes à la psychiatrie et au travail socio-éducatif, qui ne doivent plus s’occuper du contrôle techno-scientiste de toute déviance sociale. En particulier, promouvoir une alterpsychiatrie soucieuse de la subjectivité, des droits et des libertés individuels (la véritable santé se définit comme liberté, création de ses propres valeurs – cf. Campguilhem). Une véritable psychiatrie devrait se constituer comme médiation symbolique, capable de résister sans concession à la triple dérive actuelle, scientiste, marchande et sécuritaire.

Enfin respecter les limites éthiques de l’existence, ce qui demande un « travail » personnel et relationnel (« thérapie psycho-politique ») : accepter sa vulnérabilité, avec humilité (auto-limitation, castration symbolique, etc.), prôner la décélération voire la décroissance, revendiquer la franchise, condition de la confiance. Concrètement, il va falloir se résoudre à sortir vraiment du mythe de l’enrichissement et de la performance pour accéder à l’austérité conviviale (Ivan Illich) : c’est d’abord cela, la transition.

Sur un mode comparable, une autre politique éducative est possible…

Olivier Labouret

Source : Blogs d’Attac

mardi, 05 mars 2013

Sur la notion de patrie charnelle

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Robert STEUCKERS:

Causerie à bâtons rompus sur la notion de patrie charnelle

 

Conférence prononcée à Nancy, à la tribune de “Terre & Peuple” (Lorraine), le 10 mars 2012

 

La notion de patrie charnelle nous vient de l’écrivain et militant politique Marc Augier, dit “Saint-Loup”, dont le monde de l’édition —en particulier les “Presses de la Cité”— a surtout retenu les récits de son aventure militaire sur le Front de l’Est pendant la seconde guerre mondiale. Mais l’oeuvre de Saint-Loup ne se résume pas à cette seule aventure militaire, ses récits de fiction, son évocation des “Cathares de Montségur” ou de la Terre de Feu argentine le hissent au niveau d’un très grand écrivain, ce qu’il serait devenu indubitablement pour la postérité s’il n’avait traîné une réputation de “réprouvé” donc de “pestiféré”. Dans les écrits de ce Français très original, il y a beaucoup plus à glaner que ces seules péripéties militaires dans un conflit mondial du passé qui ne cesse de hanter les esprits, comme le prouve l’existence de belles revues sur papier glacé, comme “39-45” ou “Ligne de front”, par exemple. Il faut se rappeler, entre bien d’autres choses, qu’il a été l’initiateur des auberges de jeunesse sous le “Front Populaire”, lorsqu’il était un militant socialiste, incarnant un socialisme fort différent de celui des avocats aigris, “maçonneux”, encravatés et radoteurs-rationalistes: le socialisme du camarade Marc Augier (qui n’est pas encore Saint-Loup) est joyeux et juvénile, c’est un socialisme de l’action, du grand “oui” à la Vie. Saint-Loup, que je n’ai rencontré que deux fois, en 1975, était effectivement un homme affable et doux mais amoureux de l’action, de toute action amenant des résultats durables, hostile aux chichis et aux airs pincés des psycho-rigides qui ont incarné les établissements successifs dont la France a été affligée.

 

Un monde qui devrait être tissé de fraternité

 

augier-dit-saint-loup.jpgLe terme “action”, en politique, dans l’espace linguistique francophone, possède une genèse particulière. Maurras utilise le mot dans le nom de son mouvement, l’Action Française, sans nécessairement se référer à la philosophie du catholique Maurice Blondel, auteur d’un solide traité philosophique intitulé “L’Action”, pour qui l’engagement pour la foi devait être permanent et inscrit dans des “oeuvres”, créées pour le “Bien commun” et qu’il fallait perpétuer en offrant ses efforts, sans tenter de les monnayer, sans espérer une sinécure comme récompense. En Belgique, le Cardinal Mercier, correspondant de Blondel, donnera une connotation politisée, sans nul doute teintée de maurrassisme, à des initiatives comme l’Action Catholique de la Jeunesse Belge (ACJB), dont émergeront deux phénomènes marquants de l’histoire et de l’art belges du 20ème siècle: 1) le rexisme de Degrelle en tant que dissidence contestatrice fugace et éphémère du “Parti Catholique”, et, 2) dans un registre non politicien et plus durable, la figure de Tintin, qui agit dans ses aventures pour que le Bien platonicien ou la justice (divine?) triomphe, sans jamais faire état de ses croyances, de ses aspirations religieuses, sans jamais montrer bondieuseries ou affects pharisiens. Cette dimension aventurière, Saint-Loup l’a très certainement incarnée, comme Tintin, même si son idiosyncrasie personnelle ne le rapprochait nullement du catholicisme français de son époque, amoureux des productions graphiques d’Hergé via la revue “Coeurs Vaillants”; en effet, Saint-Loup est né dans une famille protestante, hostile à l’Eglise en tant qu’appareil trop rigide. Ce protestantisme se muera en un laïcisme militant, exercé dans un cadre politique socialiste, se voulant détaché de tout appareil clérical, au nom du laïcisme révolutionnaire. Saint-Loup crée en effet ses auberges de jeunesse dans le cadre d’une association nommée “Centre laïque des Auberges de Jeunesse”. Dans cette optique, qui est la sienne avant-guerre, le monde idéal, s’il advenait, devrait être tissé de fraternité, ce qui exclut tout bigotisme et tout alignement sur les manies des bien-pensants (et là il rejoint un catholique haut en couleurs, Georges Bernanos...).

 

Contre la “double désincarnation”

 

Les linéaments idiosyncratiques de la pensée émergente du jeune Marc Augier conduisent bien entendu à une rupture bien nette avec l’ordre établi, parce que l’ordre est désormais désincarné et qu’il faut le réincarner. Comment? En recréant de la fraternité, notamment par le biais des auberges de jeunesse. Aussi en revenant aux sources de toutes les religions, c’est-à-dire au paganisme (option également partagée par Robert Dun). Sur le plan politique, les options de Saint-Loup sont anti-étatistes, l’Etat étant une rigidité, comme l’Eglise, qui empêche toute véritable fraternité de se déployer dans la société. Saint-Loup ne sera donc jamais l’adepte d’un nationalisme étatique, partageant cette option avec le Breton Olier Mordrel, qui fut, lui, condamné à mort par l’Etat français en 1940: le militant de la Bretagne libre va alors condamner à mort en esprit l’instance (de pure fabrication) qui l’a condamné à mort, lui, le Breton de chair et de sang. Chez Saint-Loup, ces notions de fraternité, de paganisme, d’anti-étatisme postulent en bout de course 1) une vision de l’espace français comme tissu pluriel, dont il ne faut jamais gommer la diversité, et 2) une option européenne. Mais l’Europe, telle qu’elle était, telle qu’elle est aujourd’hui, aux mains des bien-pensants, n’était et n’est plus elle-même; elle est coupée de ses racines par un christianisme étranger à ses terres et par la modernité qui est un avatar laïcisé de ce christianisme éradicateur. Constater que l’Europe est malade et décadente revient donc à constater une “double désincarnation”.

 

Les deux axiomes de la pensée charnelle

 

060807_100457_PEEL_RY9d9G.jpgCette perception de l’Europe, de nos sociétés européennes, se révèle dans le roman “La peau de l’aurochs”, géographiquement situé dans une vallée valdotaine. Les Valdotains de “La peau de l’aurochs” se rebiffent contre l’industrialisation qui détruit les traditions populaires (ce n’est pas toujours vrai, à mon sens, car dans des régions industrielles comme la Lorraine, la Ruhr ou la Wallonie du sillon Sambre-Meuse sont nées des cultures ouvrières et populaires riches, d’où les sculpteurs Constantin Meunier et Georges Wasterlain ont tiré leurs créations époustouflantes de beauté classique). Et les Valdotains du roman de Saint-Loup veulent aussi préserver les cultes ancestraux, ce qui est toujours plus aisé dans les régions montagneuses que dans les plaines, notamment en Suisse, où les dialectes des vallées se maintiennent encore, ainsi que dans tout l’arc alpin, notamment en Italie du Nord où une revue comme “Terra Insubre” défend et illustre les résidus encore bien vivants de la culture populaire lombarde et cisalpine. “La peau de l’aurochs” est un roman qui nous permet de déduire un premier axiome dans le cadre de la défense de toutes les identités charnelles: la PRESERVATION DE NOTRE IDENTITE = la GARANTIE DE NOTRE ETERNITE. Cet axiome pourrait justifier une sorte de quiétisme, d’abandon de toute revendication politique, un désintérêt pour le monde. Ce pourrait être le cas si on se contentait de ne plus faire que du “muséisme”, de ne recenser que des faits de folklore, en répétant seulement des traditions anciennes. Mais Saint-Loup, comme plus tard Jean Mabire, ajoute à cette volonté de préservation un sens de l’aventure. Nos deux auteurs s’interdisent de sombrer dans toute forme de rigidité conceptuelle et privilégient, comme Olier Mordrel, le vécu. Le Breton était très explicite sur ce recours permanent au “vécu” dans les colonnes de sa revue “Stur” avant la seconde guerre mondiale. De ce recours à l’aventure et au vécu, nous pouvons déduire un second axiome: les RACINES SONT DANS LES EXPERIENCES INTENSES. Ce deuxième axiome doit nous rendre attentifs aux oppositions suivantes: enracinement/déracinement, désinstallation/installation. Avec Saint-Loup et Mabire, il convient donc de prôner l’avènement d’une humanité enracinée et désinstallée (aventureuse) et de fustiger toute humanité déclinante qui serait déracinée et installée.

 

On ne peut juger avec exactitude l’impact de la lecture de Nietzsche sur la génération de Saint-Loup en France. Mais il est certain que la notion, non théorisée à l’époque, de “désinstallation”, est une notion cardinale de la “révolution conservatrice” allemande, relayée par Ernst Jünger à l’époque de son militantisme national-révolutionnaire puis, après 1945, par Armin Mohler et, à sa suite, par la “nouvelle droite”, via les thèses “nominalistes” qu’il avait exposées dans les colonnes de la revue munichoise “Criticon”, en 1978-79. La personnalité volontariste et désinstallée, en retrait (“withdrawal”, disait Toynbee) par rapport aux établissements installés, est celle qui, si la chance lui sourit, impulse aux cycles historiques de nouveaux infléchissements, lors de son retour (“return” chez Toynbee) sur la scène historico-politique. Cette idée, exposée dans la présentation que faisait Mohler de la “révolution conservatrice” dans sa célèbre thèse de doctorat, a été importée dans le corpus de la “nouvelle droite” française par Giorgio Locchi, qui a recensé cet ouvrage fondamental pour la revue “Nouvelle école”.

 

Saint-Loup, Tournier: la fascination pour l’Allemagne

 

le-roi-des-aulnes.jpgLe socialiste Marc Augier, actif dans le cadre du “Front populaire” français de 1936, découvrira l’Allemagne et tombera sous son charme. Pourquoi l’Allemagne? Dans les années 30, elle exerçait une véritable fascination, une fascination qui est d’abord esthétique, avec les “cathédrales de lumière” de Nuremberg, qui s’explique ensuite par le culte de la jeunesse en vigueur au cours de ces années. Les auberges et les camps allemands sont plus convaincants, aux yeux de Marc Augier, que les initiatives, somme toute bancales, du “Front populaire”. Il ne sera pas le seul à partager ce point de vue: Michel Tournier, dans “Le Roi des Aulnes”, partage cette opinion, qui s’exprime encore avec davantage de brio dans le film du même titre, réalisé par Volker Schlöndorff. Le célèbre créateur de bandes dessinées “Dimitri”, lui aussi, critique les formes anciennes d’éducation, rigides et répressives, dans sa magnifique histoire d’un pauvre gamin orphelin, devenu valet de ferme puis condamné à la maison de correction pour avoir tué le boucher venu occire son veau favori, confident de ses chagrins, et qui, extrait de cette prison pour aller servir la patrie aux armées, meurt à la bataille de Gallipoli. Le héros naïf Abel dans “le Roi des Aulnes” de Schlöndorff, un Abel, homme naïf, naturel et intact, jugé “idiot” par ses contemporains est incarné par l’acteur John Malkovich: il parle aux animaux (le grand élan, la lionne de Goering, les pigeons de l’armée française...) et communique facilement avec les enfants, trouve que la convivialité et la fraternité sont réellement présentes dans les camps allemands de la jeunesse alors qu’elles étaient totalement absentes, en tant que vertus, dans son école française, le collège Saint-Christophe. Certes Schlöndorff montre, dans son film, que cette convivialité bon enfant tourne à l’aigreur, la crispation et la fureur au moment de l’ultime défaite: le visage du gamin qui frappe Abel d’un coup de crosse, lui brise les lunettes, est l’expression la plus terrifiante de cette rage devenue suicidaire.Tournier narre d’ailleurs ce qui le rapproche de l’Allemagne dans un petit essai largement autobiographique, “Le bonheur en Allemagne?” (Folio, n°4366).

 

Une vision “sphérique” de l’histoire

 

Toutes ces tendances, perceptibles dans la France sainement contestatrice des années 30, sont tributaires d’une lecture de Nietzsche, philosophe qui avait brisé à coups de marteau les icônes conventionnelles d’une société qui risquait bien, à la fin du “stupide 19ème siècle”, de se figer définitivement, comme le craignaient tous les esprits non conformes et aventureux. Le nietzschéisme, via les mouvements d’avant-gardes ou via des séismographes comme Arthur Moeller van den Bruck, va compénétrer tout le mouvement dit de la “révolution conservatrice” puis passer dans le corpus national-révolutionnaire avec Ernst Jünger, tributaire, lui aussi, du nietzschéisme ambiant des cercles “jungkonservativ” mais tributaire également, dans les traits tout personnels de son style et dans ses options intimes, de Barrès et de Bloy. Quand Armin Mohler, secrétaire d’Ernst Jünger après la seconde guerre mondiale, voudra réactiver ce corpus qu’il qualifiera de “conservateur” (ce qu’il n’était pas aux sens français et britannique du terme) ou de “nominaliste” (pour lancer dans le débat une étiquette nouvelle et non “grillée”), il transmettra en quelque sorte le flambeau à la “nouvelle droite”, grâce notamment aux recensions de Giorgio Locchi, qui résumera en quelques lignes, mais sans grand lendemain dans ces milieux, la conception “sphérique” de l’histoire. Pour les tenants de cette conception “sphérique” de l’histoire, celle-ci n’est forcément pas “linéaire”, ne s’inscrit pas sur une ligne posée comme “ascendante” et laissant derrière elle tout le passé, considéré sans la moindre nuance comme un ballast devenu inutile. L’histoire n’est pas davantage “cyclique”, reproduisant un “même” à intervalles réguliers, comme pourrait le faire suggérer la succession des saisons dans le temps naturel sous nos latitudes européennes. Elle est sphérique car des volontés bien tranchées, des personnalités hors normes, lui impulsent une direction nouvelle sur la surface de la “sphère”, quand elles rejettent énergiquement un ronron répétitif menaçant de faire périr d’ennui et de sclérose un “vivre-en-commun”, auparavant innervé par les forces vives de la tradition. S’amorce alors un cycle nouveau qui n’a pas nécessairement, sur la sphère, la même trajectoire circulaire et rotative que son prédécesseur.

 

Le nietzschéisme diffus, présent dans la France des années 20 et 30, mais atténué par rapport à la Belle Epoque, où des germanistes français comme Charles Andler l’avaient introduit, ensuite l’idéal de la jeunesse vagabondante, randonneuse et proche de la nature, inauguré par les mouvements dits du “Wandervogel”, vont induire un engouement pour les choses allemandes, en dépit de la germanophobie ambiante, du poids des formes mortes qu’étaient le laïcardisme de la IIIème République ou le nationalisme maurassien (contesté par les “non-conformistes” des années 30 ou par de plus jeunes éléments comme ceux qui animaient la rédaction de “Je suis partout”).

 

BHL: exécuteur testamentaire de Mister Yahvé

 

Le_testament_de_Dieu.jpgJe répète la question: pourquoi l’Allemagne? Malgré la pression due à la propagande revancharde d’avant 1914 et l’hostilité d’après 1918, la nouvelle Allemagne exerce,comme je viens de le dire, une fascination sur les esprits: cette fascination est esthétique (les “cathédrales de lumière”); elle est due aussi au culte de la jeunesse, présent en marge du régime arrivé au pouvoir en janvier 1933. L’organisation des auberges et des camps de vacances apparait plus convaincante aux yeux de Saint-Loup que les initiatives du Front Populaire, auquel il a pourtant adhéré avec enthousiasme. La fascination exercée par la “modernité nationale-socialiste” (à laquelle s’opposera une décennie plus tard la “modernité nord-américaine” victorieuse du conflit) va bien au-delà du régime politique en tant que tel qui ne fait que jouer sur un filon ancien de la tradition philosophique allemande qui trouve ses racines dans la pensée de Johann Gottfried Herder (1744-1803), comme il jouera d’ailleurs sur d’autres filons, secrétant de la sorte diverses opportunités politiques, exploitables par une propagande bien huilée qui joue en permanence sur plusieurs tableaux. Herder, ce personnage-clef dans l’histoire de la pensée allemande appartient à une tradition qu’il faut bien appeler les “autres Lumières”. Quand on évoque la philosophie des “Lumières” aujourd’hui, on songe immédiatement à la soupe que veulent nous servir les grands pontes du “politiquement correct” qui sévissent aujourd’hui, en France avec Bernard-Henri Lévy et en Allemagne avec Jürgen Habermas, qui nous intiment tous deux l’ordre de penser uniquement selon leur mode, sous peine de damnation, et orchestent ou font orchestrer par leurs larbins frénétiques des campagnes de haine contre tous les contrevenants. On sait aussi que pour Lévy, les “Lumières” (auxquelles il faut adhérer!) représentent une sorte de pot-pourri où l’on retrouve les idées de la révolution française, la tambouille droit-de-l’hommiste cuite dans les marmites médiatiques des services secrets américains du temps de la présidence de Jimmy Carter (un Quaker cultivateur de cacahouètes) et un hypothétique “Testament de Dieu”, yahvique dans sa définition toute bricolée, et dont ce Lévy serait bien entendu l’unique exécuteur testamentaire. Tous ceux qui osent ne pas croire que cette formule apportera la parousie ou la fin de l’histoire, tous les déviants, qu’ils soient maurassiens, communistes, socialistes au sens des non-conformistes français des années 30, néo-droitistes, gaullistes, économistes hétérodoxes et j’en passe, sont houspillés dans une géhenne, celle dite de l’ “idéologie française”, sorte de cloaque nauséabond, selon Lévy, où marineraient des haines cuites et recuites, où les spermatozoïdes et les ovaires de la “bête immonde” risqueraient encore de procréer suite à des coïts monstrueux, comme celui des “rouges-bruns” putatifs du printemps et de l’été 1993. Il est donc illicite d’aller remuer dans ce chaudron de sorcières, dans l’espoir de faire naître du nouveau.

 

Habermas, théoricien de la “raison palabrante”

 

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Pour Habermas —dont, paraît-il, le papa était Kreisleiter de la NSDAP dans la région de Francfort (ce qui doit nous laisser supposer qu’il a dû porter un beau petit uniforme de membre du Jungvolk et qu’on a dû lui confier une superbe trompette ou un joli petit tambour)— le fondement du politique n’est pas un peuple précis, un peuple de familles plus ou moins soudées par d’innombrables liens de cousinage soit, en bref, une grande famille concrète; il n’est pas davantage une communauté politique et/ou militaire partageant une histoire ou une épopée commune ni une population qui a, au fil de l’histoire, généré un ensemble d’institutions spécifiques (difficilement exportables parce que liées à un site précis et à une temporalité particulière, difficilement solubles aussi dans une panade à la BHL ou à la Habermas). Pour Jürgen Habermas, le fiston du Kreisleiter qui ne cesse de faire son Oedipe, le fondement du politique ne peut être qu’un système abstrait (abstrait par rapport à toutes les réalités concrètes et charnelles), donc une construction rationnelle (Habermas étant bien entendu, et selon lui-même, la seule incarnation de la raison dans une Allemagne qui doit sans cesse être rappelée à l’ordre parce qu’elle aurait une tendance irrépressible à basculer dans ses irrationalités), c’est-à-dire une constitution basée sur les principes des Lumières, que Habermas se charge de redéfinir à sa façon, deux siècles après leur émergence dans la pensée européenne. Dans cette perspective, même la constitution démocratique adoptée par la République Fédérale allemande en 1949 est suspecte: en effet, elle dit s’adresser à un peuple précis, le peuple allemand, et évoque une vieille vertu germanique, la “Würde”, qu’il s’agit de respecter en la personne de chaque citoyen. En ce sens, elle n’est pas universaliste, comme l’est la version des “Lumières” redéfinie par Habermas, et fait appel à un sentiment qui ne se laisse pas enfermer dans un corset conceptuel de facture rationnelle.

 

Dans la sphère du politique, l’émergence des principes des Lumières, revus suite aux cogitations de Jürgen Habermas, s’effectue par le “débat”, par la perpétuelle remise en question de tout et du contraire de tout. Ce débat porte le nom pompeux d’ “agir communicationnel”, que le philosophe Gerd Bergfleth avait qualifié, dans un solide petit pamphlet bien ficelé, de “Palavernde Vernunft”, de “raison palabrante”, soit de perpétuel bavardage, critique pertinente qui a valu à son auteur, le pauvre Bergfleth, d’être vilipendé et ostracisé. Notons que Habermas a fabriqué sa propre petite géhenne, qu’il appelle la “pensée néo-irrationnelle” où sont jetés, pêle-mêle, les tenants les plus en vue de la philosophie française contemporaine comme Derrida (!), Foucault, Deleuze, Guattari, Bataille, etc. ainsi que leur maître allemand, le bon philosophe souabe Martin Heidegger. Si l’on additionne les auteurs jetés dans la géhenne de l’ “idéologie française” par Lévy à ceux que fustige Habermas, il ne reste plus grand chose à lire... Il n’y a plus beaucoup de combinatoires possibles, et tenter encore et toujours de “combiner” les ingrédients (“mauvais” selon Lévy et Habermas) pour faire du neuf, pour faire éclore d’autres possibles, serait, pour nos deux inquisiteurs, se placer dans une posture condamnable que l’on adopterait que sous peine de devenir immanquablement, irrémédiablement, inexorablement, un “irrationaliste”, donc un “facho”, d’office exclu de tous débats...

 

Jean-François Lyotard, critique des “universaux” de Habermas

 

lyotard1.jpgAvec un entêtement qui devient tout-à-fait navrant au fil du temps, Habermas veut conserver dans sa philosophie et sa sociologie, dans sa vision du fonctionnement optimal de la politique quotidienne au sein des Etats occidentaux, posés comme modèles pour le reste du monde, une forme procédurière à la manière de Kant, gage d’appartenance aux Lumières et de “correction politique”, une forme procédurière qui deviendrait le fondement intangible des mécanismes politiques, un fondement privé désormais de toute la transcendance qui les chapeautait encore dans la pensée kantienne. Ce sont ces procédures, véritables épures du réel, qui doivent unir les citoyens dans un consensus minimal, obtenu par un “parler” ininterrompu, par un usage “adéquat” de la parole, conditionné par des universaux linguistiques que Habermas pose comme inamovibles (“Kommunikativa”, “Konstativa”, “Repräsentativa/Expressiva”, “Regulativa”). Bref, le Dieu piétiste kantien remplacé par le blabla des baba-cools ou des députés moisis ou des avocaillons militants, voir le “moteur immobile” d’Aristote remplacé par la fébrilité logorrhique des nouvelles “clasas discutidoras”... Le philosophe français Jean-François Lyotard démontre que de tels universaux soi-disant pragmatiques n’existent pas: les jeux de langage sont toujours producteurs d’hétérogénéité, se manifestent selon des règles qui leur sont propres et qui suscitent bien entendu des inévitables conflits. Il n’existe donc pas pour Lyotard quelque chose qui équivaudrait à un “télos du consensus général”, reposant sur ce que Habermas appelle, sans rire, “les compétences interactionnelles post-conventionnelles”; au contraire, pour Lyotard, comme, en d’autres termes, pour Armin Mohler ou l’Ernst Jünger national-révolutionnaire des années 20, il faut constater qu’il y a toujours et partout “agonalité conflictuelle entre paroles diverses/divergentes”; si l’on s’obstine à vouloir enrayer les effets de cette agonalité et à effacer cette pluralité divergente, toutes deux objectives, toutes deux bien observables dans l’histoire, on fera basculer le monde entier sous la férule d’un “totalitarisme de la raison”, soit un “totalitarisme de la raison devenue folle à force d’être palabrante”, qui éliminera l’essence même de l’humanité comme kaléidoscope infini de peuples, de diversités d’expression; cette essence réside dans la pluralité ineffaçable des jeux de paroles diverses (cf. Ralf Bambach, “Jürgen Habermas”, in J. Nida-Rümelin (Hrsg.), “Philosophie der Gegenwart in Einzeldarstellungen von Adorno bis v. Wright”, Kröner, Stuttgart, 1991; Yves Cusset, “Habermas – L’espoir de la discussion”, Michalon, coll. “Bien commun”, Paris, 2001).

 

En France, les vitupérations de Lévy dans “L’idéologie française” empêchent, in fine, de retourner, au-delà des thèses de l’Action Française, aux “grandes idées incontestables” qu’entendait sauver Hauriou (et qui suscitaient l’intérêt de Carl Schmitt), ce qui met la “République”, privée d’assises solides issues de son histoire, en porte-à-faux permanent avec des pays qui, comme la Grande-Bretagne, les Etats-Unis, la Turquie ou la Chine façonnent leur agir politique sur l’échiquier international en se référant constamment à de “grandes idées incontestables”, semblables à celles évoquées par Hauriou. Ensuite, l’inquisition décrétée par ce Lévy, exécuteur testamentaire de Yahvé sur la place de Paris, interdit de (re)penser une économie différente (historique, institutionnaliste et régulationniste sur le plan de la théorie) au profit d’une population en voie de paupérisation, de déréliction et d’aliénation économique totale; une nouvelle économie correctrice ne peut que suivre les recettes issues des filons hétérodoxes de la pensée économique et donc de parachever certaines initiatives avortées du gaullisme de la fin des années 60 (idée de “participation” et d’”intéressement”, sénat des régions et des professions, etc.). Les fulminations inquisitoriales des Lévy et Habermas conduisent donc à l’impasse, à l’impossibilité, tant que leurs propagandes ne sont pas réduites à néant, de sortir des enlisements contemporains. De tous les enlisements où marinent désormais les régimes démocratiques occidentaux, aujourd’hui aux mains des baba-cools sâoulés de logorrhées habermassiennes et soixante-huitardes.

 

Habermas: contre l’idée prussienne et contre l’Etat ethnique

 

Habermas, dans le contexte allemand, combat en fait deux idées, deux visions de l’Etat et de la politique. Il combat l’idée prussienne, où l’Etat et la machine administrative, le fonctionnariat serviteur du peuple, dérivent d’un principe de “nation armée”. Notons que cette vision prussienne de l’Etat ne repose sur aucun a priori de type “ethnique” car l’armée de Frédéric II comprenait des hommes de toutes nationalités (Finnois, Slaves, Irlandais, Allemands, Hongrois, Huguenots français, Ottomans d’Europe, etc.). Notons également que Habermas, tout en se revendiquant bruyamment des “Lumières”, rejette, avec sa critique véhémente de l’idée prussienne, un pur produit des Lumières, de l’Aufklärung, qui avait rejeté bien des archaïsmes, devenus franchement inutiles, au siècle de son triomphe. Cette critique vise en fait toute forme d’Etat encadrant et durable, rétif au principe du bavardage perpétuel, pompeusement baptisé “agir communicationnel”. Simultanément, Habermas rejette les idéaux relevant des “autres Lumières”, celles de Herder, où le fondement du politique réside dans la “populité”, la “Volkheit”, soit le peuple (débarrassé d’aristocraties aux moeurs artificielles, déracinées et exotiques). Habermas, tout en se faisant passer pour l’exécuteur testamentaire des “philosophes des Lumières”, à l’instar de Bernard-Henri Lévy qui, lui, est l’exécuteur testamentaire de Yahvé en personne, jette aux orties une bonne partie de l’héritage philosophique du 18ème siècle. Avec ces deux compères, nous faisons face à la plus formidable escroquerie politico-philosophique du siècle! Ils veulent nous vendre comme seul produit autorisé l’Aufklärung mais ce qu’ils placent sur l’étal de leur boutique, c’est un Aufklärung homogénéisé, nettoyé des trois quarts de son contenu, cette tradition étant plurielle, variée, comme l’ont démontré des auteurs, non traduits, comme Peter Gay en Angleterre et Antonio Santucci en Italie (cf. Peter Gay, “The Enlightenment: An Interpretation – The Rise of Modern Paganism”, W. W. Norton & Company, New York/London, 1966-1977; Peter Gay, “The Enlightenment: An Interpretation – The Science of Freedom, Wildwood House, London, 1969-1979; Antonio Santucci (a cura di), “Interpretazioni dell’Illuminismo”, Il Mulino, Bologna, 1979; on se réfèrera aussi aux livres suivants: Léo Gershoy, “L’Europe des princes éclairés 1763-1789”, Gérard Montfort éd., Brionne, 1982; Michel Delon, “L”idée d’énergie au tournant des Lumières (1770-1820)”, PUF, Paris, 1988).

 

Deux principes kantiens chez Herder

 

Cette option de Herder, qui est “populaire” ou “ethnique”, “ethno-centrée”, est aussi corollaire de la vision fraternelle d’une future Europe libérée, qui serait basée sur le pluralisme ethnique ou l’“ethnopluralisme”, où les peuples ne devraient plus passer par des filtres étrangers ou artificiels/abstraits pour faire valoir leurs droits ou leur identité culturelle. La vision herdérienne dérive bien des “Lumières” dans la mesure où elle fait siens deux principes kantiens; premier principe de Kant: “Tu ne feras pas à autrui ce que tu ne veux pas qu’autrui te fasse”; ce premier principe induit un respect des différences entre les hommes et interdit de gommer par décret autoritaire ou par manoeuvres politiques sournoises les traditions d’un peuple donné; deuxième principe kantien: “Sapere aude!”, “Ose savoir!”, autrement dit: libère-toi des pesanteurs inutiles, débarrasse-toi du ballast accumulé et encombrant, de tous les filtres inutiles, qui t’empêchent d’être toi-même! Ce principe kantien, réclamant l’audace du sujet pensant, Herder le fusionne avec l’adage grec “Gnôthi seautôn!”, “Connais-toi toi-même”. Pour parfaire cette fusion, il procède à une enquête générale sur les racines de la littérature, et de la culture de son temps et des temps anciens, en n’omettant pas les pans entiers de nos héritages qui avaient été refoulés par le christianisme, le dolorisme chrétien, la scolastique figée, le cartésianisme abscons, le blabla des Lumières palabrantes, le classicisme répétitif et académique, etc., comme nous devrions nous aussi, sans jamais nous arrêter, procéder à ce type de travail archéologique et généalogique, cette fois contre la “pensée unique”, le “politiquement correct” et le pseudo-testament de Yahvé.

 

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Définition de la “Bildung”

 

Dans la perspective ouverte par Herder, les fondements de l’Etat sont dès lors le peuple, héritier de son propre passé, la culture et la littérature que ce peuple a produites et les valeurs éthiques que cette culture transmet et véhicule. En bref, nous aussi, nous sommes héritiers des Lumières, non pas de celles du jacobinisme ou celles que veut nous imposer le système aujourd’hui, mais de ces “autres Lumières”. Saint-Loup, en critiquant le christianisme et le modèle occidental (soit, anticipativement, les “Lumières” tronquées de BHL et d’Habermas) s’inscrit dans le filon herdérien, sans jamais retomber dans des formes sclérosantes de “tu dois!”. “Sapere aude!” est également pour lui un impératif, lié à la belle injonction grecque “Gnôthi seautôn!”. Toujours dans cette perspective herdérienne, l’humanité n’est pas une panade zoologique d’êtres humains homogénéisés par la mise en oeuvre, disciplinante et sévère, d’idées abstraites, mais un ensemble de groupes humains diversifiés, souvent vastes, qui explorent en permanence et dans la joie leurs propres racines, comme les “humanités” gréco-latines nous permettent d’explorer nos racines d’avant la chrisitanisation. Pour Herder, il faut un retour aux Grecs, mais au-delà de toutes les édulcorations “ad usum Delphini”; ce retour ne peut donc déboucher sur un culte stéréotypé de la seule antiquité classique, il faut qu’il soit flanqué d’un retour aux racines germaniques dans les pays germaniques et scandinaves, au fond celtique dans les pays de langues gaëliques, aux traditions slaves dans le monde slave. Le processus d’auto-centrage des peuples, de mise en adéquation permanente avec leur fond propre, s’effectue par le truchement de la “Bildung”. Ce terme allemand dérive du verbe “bilden”, “construire”. Je me construis moi-même, et mon peuple se construit lui-même, en cherchant en permanence l’adéquation à mes racines, à ses racines. La “Bildung” consiste à chercher dans ses racines les recettes pour arraisonner le réel et ses défis, dans un monde soumis à la loi perpétuelle du changement.

 

Pour Herder, représentant emblématique des “autres Lumières”, le peuple, c’est l’ensemble des “Bürger”, terme que l’on peut certes traduire par “bourgeois” mais qu’il faut plutôt traduire par le terme latin “civis/cives”, soit “citoyen”, “membre du corps du peuple”. Le terme “bourgeois”, au cours du 19ème siècle, ayant acquis une connotation péjorative, synonyme de “rentier déconnecté” grenouillant en marge du monde réel où l’on oeuvre et où l’on souffre. Pour Herder, le peuple est donc l’ensemble des paysans, des artisans et des lettrés. Les paysans sont les dépositaires de la tradition vernaculaire, la classe nourricière incontournable. Les artisans sont les créateurs de biens matériels utiles. Les lettrés sont, eux, les gardiens de la mémoire. Herder exclut de sa définition du “peuple” l’aristocratie, parce qu’est s’est composé un monde artificiel étranger aux racines, et les “déclassés” ou “hors classe”, qu’il appelle la “canaille” et qui est imperméable à toute transmission et à toute discipline dans quelque domaine intellectuel ou pratique que ce soit. Cette exclusion de l’aristocratie explique notamment le républicanisme ultérieur des nationalismes irlandais et flamand, qui rejettent tous deux l’aristocratie et la bourgeoisie anglicisées ou francisées. Sa définition est injuste pour les aristocraties liées aux terroirs, comme dans le Brandebourg prussien (les “Krautjunker”), la Franche-Comté (où les frontières entre la noblesse et la paysannerie sont ténues et poreuses) et les Ardennes luxembourgeoises de parlers romans.

 

Une formidable postérité intellectuelle

 

220px-Hersart_de_villemarque.jpgL’oeuvre de Herder a connu une formidable postérité intellectuelle. Pour l’essentiel, toute l’érudition historique du 19ème siècle, toutes les avancées dans les domaines de l’archéologie, de la philologie et de la linguistique, lui sont redevables. En Allemagne, la quête archéo-généalogique de Herder se poursuit avec Wilhelm Dilthey, pour qui les manifestations du vivant (et donc de l’histoire), échappent à toute définition figeante, les seules choses définissables avec précision étant les choses mortes: tant qu’un phénomène vit, il échappe à toute définition; tant qu’un peuple vit, il ne peut entrer dans un corset institutionnel posé comme définitif et toujours condamné, à un moment donné du devenir historique, à se rigidifier. Nietzsche appartient au filon ouvert par Herder dans la mesure où la Grèce qu’il entend explorer et réhabiliter est celle des tragiques et des pré-socratiques, celle qui échappe justement à une raison trop étriquée, trop répétitive, celle qui chante en communauté les hymnes à Dionysos, dans le théâtre d’Athènes, au flanc de l’Acropole, ou dans celui d’Epidaure. Les engouements folcistes (= “völkisch”), y compris ceux que l’on peut rétrospectivement qualifier d’exagérés ou de “chromomorphes”, s’inscrivent à leur tour dans la postérité de Herder. Pour le Professeur anglais Barnard, exégète minutieux de l’oeuvre de Herder, sa pensée n’a pas eu de grand impact en France; cependant, toute une érudition archéo-généalogique très peu politisée (et donc, à ce titre, oubliée), souvent axée sur l’histoire locale, mérite amplement d’être redécouverte en France, notamment à la suite d’une historienne et philologue comme Nicole Belmont (cf. “Paroles païennes – Mythe et folklore”, Imago, Paris, 1986). Théodore Hersart de la Villemarqué (1815-1895) (photo), selon une méthode préconisée par les frères Grimm, rassemble dans un recueil les chants populaires de Bretagne, sous le titre de “Barzaz Breiz” en 1836. Hippolyte Taine ou Augustin Thierry, quand ils abordent l’histoire des Francs, l’époque mérovingienne ou les origines de la France d’Ancien Régime effectuent un travail archéo-généalogique, “révolutionnaire” dans la mesure où ils lancent des pistes qui dépassent forcément les répétitions et les fixismes, les ritournelles et les rengaines des pensées scolastiques, cartésiennes ou illuministes-républicaines. Aujourd’hui, Micberth (qui fut le premier à utiliser le terme “nouvelle droite” dans un contexte tout à fait différent de celui de la “nouvelle droite” qui fit la une des médias dès l’année 1979) publie des centaines de monographies, rédigées par des érudits du 19ème et du début du 20ème, sur des villages ou de petites villes de France, où l’on retrouve des trésors oubliées et surtout d’innombrables pistes laissées en jachère. Enfin, l’exégète des oeuvres de Herder, Max Rouché, nous a légué des introductions bien charpentées à leurs éditions françaises, parus en édition bilingue chez Aubier-Montaigne.

 

Irlande, Flandre et Scandinavie

 

thomas_davis.jpgLe nationalisme irlandais est l’exemple même d’un nationalisme de matrice “herdérienne”. La figure la plus emblématique de l’ “herdérianisation” du nationalisme irlandais demeure Thomas Davis, né en 1814. Bien qu’il ait été un protestant d’origine anglo-galloise, son nationalisme irlandais propose surtout de dépasser les clivages religieux qui divisent l’Ile Verte, et d’abandonner l’utilitarisme, idéologie dominante en Angleterre au début du 19ème siècle. Le nationalisme irlandais est donc aussi une révolte contre le libéralisme utilitariste; l’effacer de l’horizon des peuples est dès lors la tâche exemplaire qui l’attend, selon Thomas Davis. Ecoutons-le: “L’anglicanisme moderne, c’est-à-dire l’utilitarisme, les idées de Russell et de Peel ainsi que celles des radicaux, que l’on peut appler ‘yankeeïsme’ ou ‘anglichisme’, se borne à mesurer la prospérité à l’aune de valeurs échangeables, à mesurer le devoir à l’aune du gain, à limiter les désirs [de l’homme] aux fringues, à la bouffe et à la [fausse] respectabilité; cette malédiction [anglichiste] s’est abattue sur l’Irlande sous le règne des Whigs mais elle est aussi la malédiction favorite des Tories à la Peel” (cité in: D. George Boyce, “Nationalism in Ireland”, Routledge, London, 1995, 3ème éd.). Comme Thomas Carlyle, Thomas Davis critique l’étranglement mental des peuples des Iles Britanniques par l’utilitarisme ou la “shop keeper mentality”; inspiré par les idées du romantisme nationaliste allemand, dérivé de Herder, il explique à ses compatriotes qu’un peuple, pour se dégager de la “néo-animalité” utilitariste, doit cesser de se penser non pas comme un “agglomérat accidentel” de personnes d’origines disparates habitant sur un territoire donné, mais comme un ensemble non fortuit d’hommes et de femmes partageant une culture héritée de longue date et s’exprimant par la littérature, par l’histoire et surtout, par la langue. Celle-ci est le véhicule de la mémoire historique d’un peuple et non pas un ensemble accidentel de mots en vrac ne servant qu’à une communication élémentaire, “utile”, comme tente de le faire croire l’enseignement dévoyé d’aujourd’hui quand il régule de manière autoritaire (sans en avoir l’air... à grand renfort de justifications pseudo-pédagogiques boiteuses...) et maladroite (en changeant d’avis à tour de bras...) l’apprentissage des langues maternelles et des langues étrangères, réduisant leur étude à des tristes répétitions de banalités quotidiennes vides de sens. Davis: “La langue qui évolue avec le peuple est conforme à ses origines; elle décrit son climat, sa constitution et ses moeurs; elle se mêle inextricablement à son histoire et à son âme...” (cité par D. G. Boyce, op. cit.).

 

PearseMain.jpgCatholique, l’Irlande profonde réagit contre la colonisation puritaine, achevée par Cromwell au 17ème siècle. Le chantre d’un “homo celticus” ou “hibernicus”, différent du puritain anglais ou de l’utilitariste du 19ème siècle, sera indubitablement Padraig Pearse (1879-1916). Son nationalisme mystique vise à faire advenir en terre d’Irlande un homme non pas “nouveau”, fabriqué dans un laboratoire expérimental qui fait du passé table rase, mais renouant avec des traditions immémoriales, celles du “Gaël”. Pearse: “Le Gaël n’est pas comme les autres hommes, la bêche et le métier à tisser, et même l’épée, ne sont pas pour lui. Mais c’est une destinée plus glorieuse encore que celle de Rome qui l’attend, plus glorieuse aussi que celle de Dame Britannia: il doit devenir le sauveur de l’idéalisme dans la vie moderne, intellectuelle et sociale” (cité in: F. S. L. Lyons, “Culture and Anarchy in Ireland 1890-1939”, Oxford University Press, 1982). Pearse, de parents anglais, se réfère à la légende du héros païen Cuchulainn, dont la devise était: “Peu me chaut de ne vivre qu’un seul jour et qu’une seule nuit pourvu que ma réputation (fama) et mes actes vivent après moi”. Cette concession d’un catholique fervent au paganisme celtique (du moins au mythe de Cuchulainn) se double d’un culte de Saint Columcille, le moine et missionnaire qui appartenait à l’ordre des “Filid” (des druides après la christianisation) et entendait sauvegarder sous un travestissement chrétien les mystères antiques et avait exigé des chefs irlandais de faire construire des établissements pour qu’on puisse y perpétuer les savoirs disponibles; à ce titre, Columcille, en imposant la construction d’abbayes-bibliothèques en dur, a sauvé une bonne partie de l’héritage antique. Pearse: “L’ancien système irlandais, qu’il ait été païen ou chrétien, possédait, à un degré exceptionnel, la chose la plus nécessaire à l’éducation: une inspiration adéquate. Columcille nous a fait entendre ce que pouvait être cette inspiration quand il a dit: ‘si je meurs, ce sera de l’excès d’amour que je porte en moi, en tant que Gaël’. Un amour et un sens du service si excessif qu’il annihile toute pensée égoïste, cette attitude, c’est reconnaître que l’on doit tout donner, que l’on doit être toujours prêt à faire le sacrifice ultime: voilà ce qui a inspiré le héros Cuchulainn et le saint Columcille; c’est l’inspiration qui a fait de l’un un héros, de l’autre, un saint” (cité par F. S. L. Lyons, op. cit.). Chez Pearse, le mysticisme pré-chrétien et la ferveur d’un catholicisme rebelle fusionnent dans un culte du sang versé. La rose noire, symbole de l’Irlande humiliée, privée de sa liberté et de son identité, deviendra rose rouge et vivante, resplendissante, par le sang des héros qui la coloreront en se sacrifiant pour elle. Cette mystique de la “rose rouge” était partagée par trois martyrs de l’insurrection des Pâques 1916: Pearse lui-même, Thomas MacDonagh et Joseph Plunkett. On peut vraiment dire que cette vision mystique et poétique a été prémonitoire.

 

En dépit de son “papisme”, l’Irlande embraye donc sur le renouveau celtique, néo-païen, né au Pays de Galles à la fin du 18ème, où les “identitaires” gallois de l’époque réaniment la tradition des fêtes populaires de l’Eisteddfod, dont les origines remontent au 12ème siècle. Plus tard, les reminiscences celtiques se retrouvent chez des poètes comme Yeats, pourtant de tradition familiale protestante, et comme Padraig Pearse (que je viens de citer et auquel Jean Mabire a consacré une monographie), fusillé après le soulèvement de Pâques 1916. En Flandre, la renaissance d’un nationalisme vernaculaire, le premier recours conscient aux racines locales et vernaculaires via une volonté de sauver la langue populaire du naufrage, s’inscrit, dès son premier balbutiement, dans la tradition des “autres Lumières”, non pas directement de Herder mais d’une approche “rousseauiste” et “leibnizienne” (elle reprend —outre l’idée rousseauiste d’émancipation réinsérée dans une histoire populaire réelle et non pas laissée dans une empyrée désincarnée— l’idée d’une appartenance oubliée à l’ensemble des peuples “japhétiques”, c’est-à-dire indo-européens, selon Leibniz): cette approche est parfaitement décelable dans le manifeste de 1788 rédigé par Jan-Baptist Verlooy avant la “révolution brabançonne” de 1789 (qui contrairement à la révolution de Paris était “intégriste catholique” et dirigée contre les Lumières des Encyclopédistes). L’érudition en pays de langues germaniques s’abreuvera à la source herdérienne, si bien, que l’on peut aussi qualifier le mouvement flamand de “herdérien”. Il tire également son inspiration du roman historique écossais (Walter Scott), expression d’une rébellion républicaine calédonienne, d’inspiration panceltique avant la lettre. En effet, Hendrik Conscience avait lu Scott, dont le style narratif et romantique lui servira de modèle pour le type de roman national flamando-belge qu’il entendait produire, juste avant d’écrire son célèbre “Lion des Flandres” (= “De Leeuw van Vlaanderen”). Les Allemands Hoffmann von Fallersleben et Oetker recueilleront des récits populaires flamands selon la méthode inaugurée par les Frères Grimm dans le Nord de la Hesse, le long d’une route féérique que l’on appelle toujours la “Märchenstrasse” (“La route des contes”). De nos jours encore, il existe toute une érudition flamande qui repose sur les mêmes principes archéo-généalogiques.

 

L’idéal de l’Odelsbonde

 

En Scandinavie, la démarche archéo-généalogique de Herder fusionne avec des traditions locales norvégiennes ou danoises (avec Grundvigt, dont l’itinéraire fascinait Jean Mabire). La tradition politique scandinave, avec sa survalorisation du paysannat (surtout en Norvège), dérive directement de postulats similaires, les armées norvégiennes, au service des monarques suédois ou danois, étant constituées de paysans libres, sans caste aristocratique distincte du peuple et en marge de lui (au sens où on l’entendait dans la France de Louis XV, par exemple, quand on ne tenait pas compte des paysannats libres locaux). L’idéal humain de la tradition politique norvégienne, jusque chez un Knut Hamsun, est celui de l’Odelsbonde, du “paysan libre” arcbouté sur son lopin ingrat, dont il tire librement sa subsistance, sous un climat d’une dureté cruelle. Les musées d’Oslo exaltent cette figure centrale, tout en diffusant un ethnopluralisme sainement compris: le même type d’érudition objective est mis au service des peuples non indo-européens de l’espace circumpolaire, comme les Sami finno-ougriens.

 

L’actualité montre que cette double tradition herdérienne et grundvigtienne en Scandinavie, flanquée de l’idéal de l’Odelsbonde demeure vivace et qu’elle peut donner des leçons de véritable démocratie (il faudrait dire: “de laocratie”, “laos” étant le véritable substantif désignant le meilleur du peuple en langue grecque) à nos démocrates auto-proclamés qui hissent les catégories les plus abjectes de la population au-dessus du peuple réel, c’est-à-dire au-dessus des strates positives de la population qui oeuvrent en cultivant le sol, en produisant de leurs mains des biens nécessaires et de bonne qualité ou en transmettant le savoir ancestral. Seules ces dernières castes sont incontournables et nécessaires au bon fonctionnement d’une société. Les autres, celles qui tiennent aujourd’hui le haut du pavé, sont parasitaires et génèrent des comportements anti-laocratiques: le peuple d’Islande l’a compris au cours de ces deux ou trois dernières années; il a flanqué ses banquiers et les politicards véreux, qui en étaient les instruments, au trou après la crise de l’automne 2008. Résultat: l’Islande se porte bien. Elle a redressé la barre et se développe. Les strates parasitaires ont été matées. Nos pays vont mal: les banquiers et leurs valets politiciens tirent leur révérence en empochant la manne de leurs “parachutes dorés”. Aucun cul de basse-fosse ne leur sert de logis bien mérité. Dès lors tout vaut tout et tout est permis (pourquoi faudrait-il désormais sanctionner l’ado qui pique un portable à l’étal d’un “Media-Markt”, si un patapouf comme Dehaene fout le camp après son interminable cortège de gaffes avec, en son escarcelle, des milliards de dédommagements non mérités?). Les principes les plus élémentaires d’éthique sont foulés aux pieds.

 

Tradition “herdérienne” dans les pays slaves

 

2196788-M.jpgDans les pays slaves, la tradition archéo-généalogique de Herder s’est maintenue tout au long du 19ème siècle et a même survécu sous les divers régimes communistes, imposés en 1917 ou en 1945-48. Chez les Tchèques, elle a sauvé la langue de l’abâtardissement mais s’est retournée paradoxalement contre l’Allemagne, patrie de Herder, et contre l’Autriche-Hongrie. Chez les Croates et les Serbes, elle a toujours manifesté sa présence, au grand dam des éradicateurs contemporains; en effet, les porteurs de l’idéal folciste sud-slave ont été vilipendés par Alain Finkelkraut lors de la crise yougoslave du début des années 90 du 20ème siècle, sous prétexte que ces érudits et historiens auraient justifié à l’avance les “épurations ethniques” du récent conflit inter-yougoslave, alors que le journaliste et slaviste israélite autrichien Wolfgang Libal considérait dans son livre “Die Serben”, publié au même moment, que ces figures, vouées aux gémonies par Finkelkraut et les autres maniaques parisiens du “politiquement correct” et du “prêt-à-penser”, étaient des érudits hors pair et des apôtres de la libération laocratique de leurs peuples, notamment face à l’arbitraire ottoman... Vous avez dit “bricolage médiatique”? En Russie, l’héritage de Herder a donné les slavophiles ou “narodniki”, dont la tradition est demeurée intacte aujourd’hui, en dépit des sept décennies de communisme. Des auteurs contemporains comme Valentin Raspoutine ou Alexandre Soljénitsyne en sont tributaires. Le travail de nos amis Ivanov, Avdeev et Toulaev également.

 

En Bretagne, le réveil celtique, après 1918, s’inscrit dans le sillage du celtisme irlandais et de toutes les tentatives de créer un mouvement panceltique pour le bien des “Six Nations” (Irlandais, Gallois, Gaëliques écossais, Manxois, Corniques et Bretons), un panceltisme dûment appuyé, dès le lendemain de la défaite allemande de 1945, par le nouvel Etat irlandais dominé par le Fianna Fail d’Eamon de Valera et par le ministre irlandais Sean MacBride, fils d’un fusillé de 1916. La tradition archéo-généalogique de Herder, d’où dérive l’idéal de “patrie charnelle” et le rejet de tous les mécanismes anti-laocratiques visant à infliger aux peuples une domination abstraite sous un masque “démocratique” ou non, est immensément riche en diversités. Sa richesse est même infinie. Tout mouvement identitaire, impliquant le retour à la terre et au peuple, aux facteurs sang et sol de la méthode historique d’Hyppolite Taine, à l’agonalité entre “paroles diverses” (Lyotard), est un avatar de cette immense planète de la pensée, toute tissée d’érudition. Si un Jean Haudry explore la tradition indo-européenne et son émergence à l’ère proto-historique, si un Pierre Vial exalte les oeuvres de Jean Giono ou d’Henri Vincenot ou si un Jean Mabire évoque une quantité impressionnante d’auteurs liés à leurs terres ou chante la geste des “éveilleurs de peuple”, ils sont des disciples de Herder et des chantres des patries charnelles. Ils ne cherchent pas les fondements du politique dans des idées figées et toutes faites ni n’inscrivent leurs démarches dans une métapolitique aggiornamenté, qui se voudrait aussi une culture du “débat”, un “autre débat” peut-être, mais qui ne sera jamais qu’une sorte d’ersatz plus ou moins “droitisé”, vaguement infléchi de quelques misérables degrés vers une droite de conviction, un ersatz à coup sûr parisianisé de ces “palabres rationnels” de Habermas qui ont tant envahi nos médias, nos hémicycles politiques, nos innombrables commissions qui ne résolvent rien.

 

Robert STEUCKERS.

Avec la nostalgie du “Grand Lothier”, Forest-Flotzenberg & Nancy, mars 2012.

lundi, 04 mars 2013

Lovecraft as Heideggerian Event

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A General Outline of the Whole”
Lovecraft as Heideggerian Event

By James J. O'Meara

weird-realism Graham Harman

Weird Realism: Lovecraft and Philosophy [2]
Winchester, UK: Zero Books, 2012

A winter storm in NYC is less the Currier and Ives experience of upstate and more like several days of cold slush, more suggestive—and we’ll see that suggestiveness will be a very key term—of Dostoyevsky than Dickens.

On a purely personal level, such weather conditions I privately associate[1] with my time—as in “doing time”—at the small Canadian college (fictionalized by fellow inmate Joyce Carol Oates as “Hilberry College”[2]) where a succession of more or less self-pitying exiles from the mainstream—from Wyndham Lewis and Marshall McLuhan to the aforementioned Oates—suffered the academic purgatory of trying to teach, or even interest, the least-achieving students in Canada in such matters as Neoplatonism and archetypal psychology.[3]

One trudged to ancient, wooden classrooms and consumed endless packs of powerful Canadian cigarettes, washed down with endless cups of rancid vending machine coffee. No Starbucks for us, and no whining about second-hand smoke. We were real he-men back then! There was one student, a co-ed of course, who did complain, and the solution imposed was to exile her—exile within exile!—to a chair in the hallway, like a Spanish nun allowed to listen in from behind a grill.

Speaking of Spain, one of the damned souls making his rounds was a little, goateed Marrano from New York, via Toronto’s Pontifical Institute of Mediaeval Studies, no less, who was now attempting to explain Husserl and Heidegger, to “unpack” with his tiny hands what he once called, with an incredulous shake of the head, “that incredible language of his,” to his sullen and ungrateful students.[4]

I thought of this academic Homunculus, who played Naphta to another’s Schleppfuss[5] in my intellectual upbringing, when this book made its appearance in my e-mail box one recent, snowing—or slushy—weekend. For Harman wants to explain Husserl and Heidegger as well, or rather, his own take on them, which I gather he and a bunch of colleagues have expanded into their own field of Object Oriented Ontology (OOO) or Speculative Realism. And to do so, he has appropriated the work of H. P. Lovecraft, suggesting that Lovecraft play the same role of philosophical exemplar in his philosophy, as Hölderlin does in Heidegger’s [3].

“That incredible language of his” indeed!

Part One tries to explain this Object Oriented business, but only after he tries to justify or excuse dealing with someone still often regarded as a glorified pulp hack on the same level with the great Hölderlin. He tries to short-circuit the attacks of highbrow critics, still exemplified by Edmund Wilson’s, by denouncing their rhetorical strategy of paraphrase.

Paraphrase? What’s wrong with that? Perfectly innocent, what? Well, no. Drawing on Slavoj Žižek’s notion of the “stupidity of content”—the equal plausibility of any proverb, say, and its opposite—Harman insists that nothing can be paraphrased into something else—reality is not itself a sentence, and so it is “is too real to be translated without remainder into sentences” (p. 16, my italics). Language can only allude to reality.

What remains left over, resistant to paraphrase, is the background or context that gave the statement its meaning.[6] Paraphrase, far from harmless or obvious, is packed with metaphysical baggage—such as the assumption that reality itself is just like a sentence—that enables the skilled dialectician to reduce anything to nonsensical drivel.

Harman gives many, mostly hilarious, examples of “great” literature reduced to mere “pulp” through getting the Wilson treatment. (Perhaps too many—the book does tend to bog down from time to time as Harman indulges in his real talent for giving a half dozen or so increasing “stupid” paraphrases of passages of “great” literature.)[7]

Genre or “pulp” writing is itself the epitome of taking the background for granted and just fiddling with the content, and deserves Edmund Wilson’s famous condemnation of both its horror and mystery genres. But Lovecraft, contra Wilson, is quite conscious, and bitingly critical, of the background conditions of pulp—both in his famous essays on horror and, unmentioned by Harman, his voluminous correspondence and ghost-writing—and thus ideally equipped to manipulate it for higher, or at least more interesting, purposes.

The pulp writer takes the context for granted (the genre “conventions”) and concentrates on content—sending someone to a new planet, putting a woman in charge of a space ship, etc.[8] If Lovecraft did this, or only this, he would indeed be worthy of Wilson’s periphrastic contempt. But Lovecraft is interested in doing something else: “No other writer is so perplexed by the gap between objects and the power of language to describe them, or between objects and the qualities they possess” (p.3, my italics).

Since philosophy is the science of the background, Lovecraft himself is to this extent himself a philosopher, and useful to Harman as more than just a source of fancy illustrations: “Lovecraft, when viewed as a writer of gaps between objects and their qualities, is of great relevance for my model of object oriented ontology” (p. 4).

Back, then to Harman’s philosophy or his “ontography” as he calls it. I call it Kantianism, but I’m a simple man. The world presents us with objects, both real (Harman is no idealist) and sensuous (objects of thought, say), which bear various properties, both real (weight, for example) and sensuous (color, for example). Thus, we have real and sensuous objects, as well as the real and sensuous qualities that belong to them . . . usually.

All philosophers, Harman suggests, have been concerned with one or another of the gaps that occur when the ordinary relations between these four items fail. Some philosophers promote or delight in some gap or other, while others work to deny or explain it away. Plato introduced a gap between ordinary objects and their more real essences, while Hume delighted in denying such a gap and reducing them to agglomerations of sensual qualities.

Harman, in explicitly Kantian fashion this time, derives four possible failures (Kant would call them antinomies). Gaps can occur between a real object and its sensuous qualities, a real object and its real qualities, a sensuous object and its sensuous qualities, and a sensuous object and its real qualities. Or, for simplicity, RO/SQ, RO/RQ, SQ/SO, and SO/RQ.

Take SQ/SO. This gap, where the object’s sensuous qualities, though listed, Cubist-like, ad nauseam, fail, contra Hume, to suggest any kind of objective unity, even of a phenomenal kind—the object is withdrawn from us, as Heidegger would say. It occurs in a passage such as the description of the Antarctic city of the Elder Race:

The effect was that of a Cyclopean city of no architecture known to man or to human imagination, with vast aggregations of night-black masonry embodying monstrous perversions of geometrical laws. There were truncated cones, sometimes terraced or fluted, surmounted by tall cylindrical shafts here and there bulbously enlarged and often capped with tiers of thinnish scalloped disks; and strange beetling, table-like constructions suggesting piles of multitudinous rectangular slabs or circular plates or five-pointed stars with each one overlapping the one beneath. There were composite cones and pyramids either alone or surmounting cylinders or cubes or flatter truncated cones and pyramids, and occasional needle-like spires in curious clusters of five. All of these febrile structures seemed knit together by tubular bridges crossing from one to the other at various dizzy heights, and the implied scale of the whole was terrifying and oppressive in its sheer gigantism. (At the Mountains of Madness, my italics)

SQ/RO? This Kantian split between an object’s sensuous properties and what its essence is implied to be, occurs in the classic description of the idol of Cthulhu:

If I say that my somewhat extravagant imagination yielded simultaneous pictures of an octopus, a dragon, and a human caricature, I shall not be unfaithful to the spirit of the thing. A pulpy, tentacled head surmounted a grotesque and scaly body with rudimentary wings; but it was the general outline of the whole which made it most shockingly frightful. (“The Call of Cthulhu,” my italics)

SO/RQ? Harman admits it’s rare in Lovecraft, (and elsewhere, though he finds hints of it in Leibniz) but he finds a few examples where scientific investigation reveals new, unheard of properties in some eldritch or trans-Plutonian object.

In every quarter, however, interest was intense; for the utter alienage of the thing was a tremendous challenge to scientific curiosity. One of the small radiating arms was broken off and subjected to chemical analysis. Professor Ellery found platinum, iron and tellurium in the strange alloy; but mixed with these were at least three other apparent elements of high atomic weight which chemistry was absolutely powerless to classify. Not only did they fail to correspond with any known element, but they did not even fit the vacant places reserved for probable elements in the periodic system. (“Dreams in the Witch House”)

And RO/RQ? You don’t want to know, as Lovecraft’s protagonists usually discover too late. It’s the inconceivable object whose surface properties only hint at yet further levels of inconceivable monstrosity within. Usually, Lovecraft relies on just slapping a weird name on something and hinting at the rest, as in:

[O]utside the ordered universe [is] that amorphous blight of nethermost confusion which blasphemes and bubbles at the center of all infinity—the boundless daemon sultan Azathoth, whose name no lips dare speak aloud, and who gnaws hungrily in inconceivable, unlighted chambers beyond time and space amidst the muffled, maddening beating of vile drums and the thin monotonous whine of accursed flutes. (Dream Quest of Unknown Kaddath)

You can see, in each case, how the horrific effect, and the usability for Harman’s ontography, would entirely disappear if given a Wilsonian “paraphrase”: It was a squid with wings! The object, when analyzed, revealed new, hitherto unknown elements!

Confused yet? Bored? Don’t worry. The whole point of Harman’s book, to which he devotes the vast portion of the text, is analyzing passages from Lovecraft that provide vivid illustrations of one or more of these gaps. In this way Harman’s ontography acquires its Hölderlin, and Lovecraft is rescued from pulp purgatory.

While there is considerable interest in Heidegger on alt-Right sites such as this one,[9] I’m sure there is considerably more general interest in Lovecraft. But Harman’s whole book is clearly and engagingly written, avoiding both oracular obscurity and overly-chummy vulgarity; since Harman is admirably clear even when discussing himself or Husserl, no one should feel unqualified to take on this unique—Lovecraftian?—conglomeration of philosophy and literary criticism.

The central Part Two is almost 200 pages of close readings of exactly 100 passages from Lovecraft. As such, it exhibits a good deal of diminishing returns through repetition, and the reader may be forgiven for skipping around, perhaps to their own favorite parts. And there’s certainly no point in offering my own paraphrases!

Nevertheless, over and above the discussion of individual passages as illustrations of Speculative Realism, Harman has a number of interesting insights into Lovecraft’s work generally. It’s also here that Harman starts to reveal some of his assumptions, or biases, or shall we say, context.

“Racism”

Harman, who, word on the blogs seems to be, is a run-of-the-mill liberal rather than a po-mo freak like his fellow “European philosophers,”[10] tips his hand early by referring dismissively to criticism of Lovecraft as pulp being “merely a social judgment, no different in kind from not wanting one’s daughter to marry the chimney sweep” (“Preliminary Note”). And we know how silly that would be! So needless to say, Lovecraft’s forthright, unmitigated, non-evolutionary (as in Obama’s “My position on gay marriage has evolved”) views on race need to be disinfected if Harman is to be comfortable marrying his philosophy to Lovecraft’s writing.

His solution is clever, but too clever. Discussing the passage from “Call of Cthulhu” where the narrator—foolishly as it happens—dismisses a warning as coming from “an excitable Spaniard” Harman suggests that the racism of Lovecraft’s protagonists[11] adds an interesting layer of—of course!—irony to them. As so often, we the reader are “smarter” than the smug protagonist, who will soon be taken down a few pegs.

But this really won’t do. Lovecraft’s protagonists are not stupid or uninformed, but rather too well-informed, hence prone to self-satisfaction that leads them where more credulous laymen might balk. “They’s ghosts in there, Mister Benny!”

Unfortunately for Harman, Lovecraft was above all else a Scientist, or simply a well-educated man, and the Science of his day was firmly on the side of what today would be called Human Biodiversity or HBD.[12] Harman may, like most “liberals” find that distasteful, something not to be mentioned, like Victorians and sex—a kind of “liberal creationism” as it’s been called—but that’s his problem.

It would be more interesting to adopt a truly Lovecraftian theme and take his view, or settled belief, that Science, or too much Science, was bad for us; just as Copernicus etc. had dethroned man for the privileged center of the God’s universe, the “truth” about Cthulhu and the other Elder Gods—first, there very existence, then the implication that they are the reality behind everyday religions—has a deflationary, perhaps madness inducing, effect.

Consider this famous quotation from the opening of “The Call of Cthulhu” as quoted by Harman himself in Part Two:

The sciences, each straining in its own direction, have hitherto harmed us little; but someday the piecing together of dissociated knowledge will open up such terrifying vistas of reality, and our frightful position therein, that we shall either go mad from the revelation or flee from the deadly light into the peace and safety of a new dark age. 

Thus Harman could argue that HBD may be true but bad for us to know—something very like the actual position of such liberal Comstocks as Richard Lewontin.

Consider, to switch genres, Dr. No. Quarrel [4], the ignorant, superstitious but loyal native retainer, is afraid to land on Crab Key, due to the presence of a dragon. Bond and his American buddy Leiter mock his fear. (Leiter: “Hey Quarrel, if you see a dragon, you get in first and breathe on him. With all that rum in you, he’ll die happy.”) But of course the dragon—which turns out to be a flame-throwing armored tractor—incinerates Quarrel whilst Bond and the equally superstitious but much more toothsome Honey Ryder are taken prisoner. While in this genre we know that Bond is the heroic knight who will ultimately slay the dragon, for now he does seem to be what Dr. No calls him, “just another stupid policeman” who would have done well to listen to the native—not unlike any number of Lovecraft’s educated protagonists.[13]

This smug assumption that knowledge leaves us safe, and indeed safer, is what Lovecraft is satirizing when the narrator of “Call of Cthulhu” dismisses the warnings of the “excitable Spaniard,” not, as Harman would have it, lampooning “racism” on some meta-level.[14]

Also, Michel Houllebeq, an author Harman otherwise praises, has emphasized that Lovecraft is anything but self-assured, either as a White man, or for the White race itself.[15] If “racism” is able to play the self-debunking role Harman wants it to, this is only because of Lovecraft’s self-doubts, based on his horrific experiences in the already multi-culti New York City of the 1920s, that the White race would be able to survive the onslaught of the inferior but strong and numerous under-men. As Houellebecq says, Lovecraft learned to take “racism back to its essential and most profound core: fear.”

“Fascistic Socialism”

On a related point, Harman puts this phrase, from Lovecraft’s last major work, The Shadow out of Time (which he generally dislikes, for reasons we’ll dispute later), in italics with a question mark, and leaves it at that, as if just throwing his hands up and saying “well, I just don’t know!” Alas, this is one of Lovecraft’s most interesting ideas. Like several American men of letters, such as Ralph Adams Cram, Lovecraft concluded that Roosevelt’s New Deal was an American version of Fascism, but, unlike the Chamber of Commerce types who made the same identification, he approved of it for precisely that reason! [16]

More generally, “fascistic socialism” was essentially what Spengler and others of the Conservative Revolution movement in German advocated; for example [5]:

Hans Freyer studied the problem of the failure of radical Leftist socialist movements to overcome bourgeois society in the West, most notably in his Revolution von Rechts (“Revolution from the Right”). He observed that because of compromises on the part of capitalist governments, which introduced welfare policies to appease the workers, many revolutionary socialists had come to merely accommodate the system; that is, they no longer aimed to overcome it by revolution because it provided more or less satisfactory welfare policies. Furthermore, these same policies were basically defusing revolutionary charges among the workers. Freyer concluded that capitalist bourgeois society could only be overcome by a revolution from the Right, by Right-wing socialists whose guiding purpose would not be class warfare but the restoration of collective meaning in a strong Völkisch (“Folkish” or “ethnic”) state.

But then, Harman would have to discuss, or even acknowledge, ideas that give liberals nose-bleeds.

Weird Porn

Harman makes the important distinction that Lovecraft is a writer of gaps, who chooses to apply his talents of literary allusion to the content of horror; but gaps do not exclusively involve horror, and we can imagine writers applying the same skills to other genres, such as detective stories, mysteries, and westerns.[17] In fact,

A literary “weird porn” might be conceivable, in which the naked bodies of the characters would display bizarre anomalies subverting all human descriptive capacity, but without being so strange that the erotic dimension would collapse into a grotesque sort of eros-killing horror. (p. 4)

Harman just throws this out, but if it seem implausible, I would offer Michael Manning’s graphic novels as example of weird porn: geishas, hermaphrodites, lizards and horses—or rather, vaguely humanoid species that suggest snakes and horses, rather like Harman’s discussion of Max Black’s puzzle over the gap produced by the proposition “Men are wolves”—create a kind of steam punk/pre-Raphaelist sexual utopia.[18]

Prolixity

Speaking of Lovecraftian allusiveness not being anchored to horror or any particular genre or content, brings us to my chief interest, and chief disagreement, with Harman’s discussion of Lovecraft’s literary technique.

I knew we would have a problem when right from the start Harman adduces The Shadow out of Time as one of Lovecraft’s worst, since this is actually one of my favorites, and the one that first convinced me of his ability to create cosmic horror through the invocation of hideous eons of cosmic vistas. Harman first notes, in dealing with the preceding novella, At the Mountains of Madness, that while the first half would rank as Lovecraft’s greatest work if he had only stopped there, the second half is a huge letdown: Lovecraft seems to descend to the level of pulp content, as he has his scientists go on a long, tedious journey through the long abandoned subterranean home of the Elder Race, reading endless hieroglyphs and giving all kinds of tedious details of their “everyday” life.[19]

For Harman, “Lovecraft’s decline as a stylist becomes almost alarming here” (p. 225) and will continue—with a brief return to form with “Dreams in the Witch House,” where Harman makes the interesting observation that Lovecraft seems to be weaving in every kind of Lovecraftian technique and content into one grand synthesis— until it ruins the second half as well of Shadow.

In a series of articles here on Counter Currents—soon to be reprinted as part of my next book, The Eldritch Evola . . . & Others—I suggested that not only should Lovecraft’s infamous verbosity no more be a barrier to elite appreciation than the equally deplored but critically lauded “Late Style” of Henry James, but also, and more interestingly, that conversely, we could see James developing that same style as part of an attempt to produce the same effect as Lovecraft’s, which fans call “cosmicism [6]” but which I would rather call cosmic horror (akin to the “sublime” of Burke or Kant).[20] Or perhaps: Weird Realism.

While Harman has greatly contributed to a certain micro-analysis of Lovecraft’s style, he seems, like the critics of the Late James, to miss the big picture. Although useful for rescuing Lovecraft from pulp oblivion, he still limits Lovecraft’s significance to either mere literature, or illustrations of Harman’s ontography. I suggest this still diminishes Lovecraft’s achievement.

The work of Lovecraft, like James, has the not inconsiderable extra value, over and above any “literary” pleasure, of stilling the mind by its very longeurs, leaving us open and available to the arising of some other, deeper level of consciousness when the gaps arise.[21]

But this is not on the table here, because Harman, like all good empiricists (and we are all empiricists today, are we not?) rejects, or misconstrues, the very idea of our having access to a super-sensible grasp of reality that would leap beyond, or between, the gaps; what in the East, and the West until the rise of secularism, would be called intellectual intuition.[22]

Reality itself is weird because reality itself is incommensurable with any attempt to represent or measure it. Lovecraft is aware of this difficulty to an exemplary degree, and through his assistance we may be able to learn about how to say something without saying it—or in philosophical terms, how to love wisdom without having it. When it comes to grasping reality, illusion and innuendo are the best we can do. (p. 51, my italics)

As usual in the modern West, we are to shoulder on as best we can, in an empty, meaningless world, comforted only by patting ourselves on the back for being too grown up, too “smart,” to believe we can not only pursue wisdom, but reach it. As René Guénon put it, it is one of the peculiarities of the modern Westerner to substitute a theory of knowledge for the acquisition of knowledge.[23]

Notes

1. On such “private associations” see Hesse, The Glass Bead Game, (New York: Holt, 1969), pp. 70–71.

2. Whose biographer, Greg Johnson, is not to be confused with our own Greg Johnson here at Counter Currents—I think. For the fictionalized Hilberry see The Hungry Ghosts: Seven Allusive Comedies (Boston: Black Sparrow Press, 1974). Allusive—there’s that idea again!

3. Did they succeed? Judge for yourself: Thomas Moore: Care of the Soul: Guide for Cultivating Depth and Sacredness in Everyday Life (San Francisco: HarperCollins, 1992).

4. Eventually he would sink so low as to teach “everyday reasoning” to freshman lunkheads.

5. See Thomas Mann’s The Magic Mountain and Doktor Faustus, respectively.

6. The hero of this vindication of Rhetoric over Dialectic turns out to be . . . McLuhan! The medium is the message—don’t be hypnotized by the content, take a look at the all-important effects of the context. I’ve suggested before that my own work be seen, like McLuhan’s, less as dogmatic theses to be defended or refuted (dogmatism is for Harman the great sin of worshipping mere content) but rather as a series of probes for revealing new contexts for old ideas. See my Counter-Currents Interview in The Homo and the Negro as well as my earlier “You Mean My Whole Fallacy Is Wrong!” here [7]. Once more, we find that education at a Catholic college in the Canadian boondocks is the best preparation for grasping post-modernism, no doubt because it reproduces the background of Brentano and Heidegger. It was Canadian before it was cool!

7. The Wilson treatment is on display whenever some Judeo-con or Evangelical quotes passages from some alien religious work—usually the Koran these days—to show how stupid or bloodthirsty the natives are, while ignoring similar or identical passages in his own Holy Book. So-called “scholars” play the same game, questioning the authenticity of some newly discovered Gnostic work like the Gospel of Judas for containing, “absurdities” and “silliness” while finding nothing odd about the reanimated corpses—reminiscent of Lovecraft’s genuinely pulp hackwork Herbert West, Reaminator—of the “orthodox” writings. Indeed, some have suggested that Lovecraft’s Necronomicon is itself a parody of The Bible, its supposed Arab authorship a mere screen. This typically Semitic strategy of deliberately ignoring the allusive context of your opponent’s words while retaining your own was diagnosed by the Aryan Christ, in such well-known fulminations against the Pharisees as Matthew 23:24 : “You strain at a gnat, and swallow a camel” or Matthew 7:3: “And why beholdest thou the mote that is in thy brother’s eye, but considerest not the beam that is in thine own eye?”

8. Bad sci/fi hits rock bottom in the content-oriented department with the ubiquitous employment of the “space” prefix: space-food, space-pirates, space-justice, etc., frequently mocked on MST3K. David Bowie’s space-rock ode “Moonage Daydream” contains the cringe-worthy “Press your space face close to mine” but this is arguably a deliberate parody, while the rest of the song brilliantly exploits the Lovecraftian allusive/contextual mode of horror, moving from its straight-faced opening—“I’m an alligator”—through a series of Cthulhuian composites—“Squawking like a pink monkey bird”—ultimately veering into Harman’s weird porn mode—“I’m a momma-poppa coming for you.” Deviant sex and cut-up lyrics—another context-shredding technique—clearly points to the influence of William Burroughs, who created subversive texts based on various genres of boys’ books ranging from sci/fi (Nova Express) to detective (Cities of Red Night: “The name is Clyde Williamson Snide. I am a private asshole.”) to his alt-Western masterpiece The Western Lands trilogy.

9. Harman does a better job explaining Husserl and Heidegger than my little Marrano, but then he has had another three decades to work on it. He does, however, focus mainly on Heidegger’s tool analysis, and his own, somewhat broader formulation. For a wider focused, more objective, if you will, presentation of Heidegger, see Collin Cleary’s series of articles on this site, starting here [8].

10. Needless to say, he never notices that his liberalism is rooted in the ultimate dogma-affirming, context-ignoring movement, Luther’s “sola scriptura.” His liberalism is such as to allow him to tell a pretty amusing one-liner about Richard Rorty, but only by attributing it to “a colleague.” On the one hand, he cringes for Heidegger for daring to refer to a “Senegal Negro” (p. 59) but dismisses Emmanuel Faye’s “Heidegger is a Nazi” screed as a “work of propaganda” (p. 259). See Michael O’Meara’s review of Faye here [9].

11. “Not even Poe [another embarrassing “racist”, well what do you know?] has such indistinguishable protagonists” (p. 10).

12. Indeed, “racism” is one of those principles Baron Evola evoked in his Autodefesa [10], as being “those that before the French Revolution every well-born person considered sane and normal.”

13. Kingsley Amis has cogently argued that the key to Bond’s appeal is that he’s just like us, only a little better trained, able to read up on poker or chemin de fer, has excellent shooting instructors, etc. But if we had the chance . . . See Amis, Kingsley The James Bond Dossier (London: Jonathan Cape, 1965).

14. It might be interesting to apply Harman’s OOO to a film like Carpenter’s They Live. In my review of Lethem’s book on the movie [11], reprinted in The Homo and the Negro, I mentioned liking another point, also from Slavoj Žižek: contrary to the smug assumptions of the Left, knowledge is not necessarily something people want, or which is pleasant—hence the protagonist has to literally beat his friend into putting on the reality-revealing sunglasses. Here we have both Lovecraft’s gaps and notion that knowledge is more likely something you’ll regret: Lovecraft and Žižek, together again!

15. Michel Houellebecq [12], H. P. Lovecraft: Against the World, Against Life [13] (London: Gollancz, 2008). See more generally, and from the same period, Lothrop Stoddard, The Revolt Against Civilization: The Menace of the Under Man, ed. Alex Kurtagic, introduction by Kevin MacDonald (Shamley Green: The Palingenesis Project, 2011).

16. See my “Ralph Adams Cram: Wild Boy of American Architecture” here [14].

17. Again, just as Burroughs applied his cut-up technique to various pulp genres.

18. See my discussion of Manning in “The Hermetic Environment and Hermetic Incest: The True Androgyne and the ‘Ambiguous Wisdom of the Female’” here [15].

19. Everyday life of pre-Cambrian radiata with wings, of course.

20. My suggestion was based on some remarks of John Auchard in Penguin’s new edition of the Portable Henry James, that James’s work could be seen as part of the attempt to substitute art for religion, by using the endless accumulation of detail—James’s “prolixity” as Lovecraft himself chides him for—to “saturate” everyday experience with meaning.

21. Colin Wilson’s second Lovecraftian novel, The Philosopher’s Stone (Los Angeles: Tarcher, 1971)—originally published in 1969, republished in a mass market edition in 1971 at the request of, and with a Foreword by, Joyce Carol Oates, bringing us back to Hilberry—introduced me to the idea of length, and even boredom, as spiritual disciplines. One of the main characters “seemed to enjoy very long works for their own sake. I think he simply enjoyed the intellectual discipline of concentrating for hours at a time. If a work was long, it automatically recommended itself to him. So we have spent whole evenings listening to the complete Contest Between Harmony and Invention of Vivaldi, the complete Well Tempered Clavier, whole operas of Wagner, the last five quartets of Beethoven, symphonies of Bruckner and Mahler, the first fourteen Haydn symphonies. . . . He even had a strange preference for a sprawling, meandering symphony by Furtwängler [presumably the Second], simply because it ran on for two hours or so.” The book is available online here [16].

22. With the inconsistency typical of a Modern trying to conduct thought after cutting off the roots of thought, Harman advises us that “It takes a careful historical judge to weigh which [contextual] aspects of a given thing are assimilated by it, and which can be excluded” (p. 245). What makes a “careful” judge is, of course, intuition. Cf. my remarks on Spengler’s “physiognomic tact” and Guénon’s intellectual intuition in “The Lesson of the Monster; or, The Great, Good Thing on the Doorstep,” to appear in my forthcoming book The Eldritch Evola but also available here [17].

23. How one can transcend the limits of secular science and philosophy, without abandoning empirical experience as the Christian does with his blind “faith,” is the teaching found in Evola’s Introduction to Magic, especially the essay “The Nature of Initiatic Knowledge.” “Having long been trapped in a kind of magic circle, modern man knows nothing of such horizons. . . . Those who are called “scientists” today [as well as, even more so, “philosophers”] have hatched a real conspiracy; they have made science their monopoly, and absolutely do not want anyone to know more than they do, or in a different manner than they do.” The whole text is available online here [18].

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/02/lovecraft-as-heideggerian-event/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/02/weird-realism.jpg

[2] Weird Realism: Lovecraft and Philosophy: http://www.amazon.com/gp/product/1780992521/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=1780992521&linkCode=as2&tag=countercurren-20

[3] Hölderlin does in Heidegger’s: http://en.wikipedia.org/wiki/H%C3%B6lderlin%27s_Hymn_%22The_Ister%22#Part_three:_H.C3.B6lderlin.27s_poetising_of_the_essence_of_the_poet_as_demigod

[4] Quarrel: http://www.007james.com/characters/quarrel.php

[5] for example: http://www.counter-currents.com/2013/02/hans-freyer-the-quest-for-collective-meaning/#more-36698

[6] fans call “cosmicism: http://www.tumblr.com/tagged/cosmicism

[7] here: http://jamesjomeara.blogspot.com/2011/03/youve-misunderstood-my-whole-fallacy-i.html

[8] here: http://www.counter-currents.com/2012/06/heidegger-an-introduction-for-anti-modernists-part-1/

[9] here: http://www.counter-currents.com/2010/07/heidegger-the-nazi/

[10] Autodefesa: http://www.alternativeright.com/main/the-magazine/julius-evola-radical-traditionalism/

[11] my review of Lethem’s book on the movie: http://www.counter-currents.com/2011/09/they-live/

[12] Michel Houellebecq: http://www.goodreads.com/author/show/32878.Michel_Houellebecq

[13] H. P. Lovecraft: Against the World, Against Life: http://www.goodreads.com/work/quotes/3196799

[14] here: http://www.counter-currents.com/2012/09/ralph-adams-cram-wild-boy-of-american-architecture/

[15] here: http://jamesjomeara.blogspot.com/2010/12/hermetic-environment-and-hermetic.html

[16] here: http://lucite.org/lucite/archive/fiction_-_lovecraft/14047169-the-philosophers-stone-by-colin-wilson.pdf

[17] here: http://www.counter-currents.com/2011/02/the-lesson-of-the-monster-or-the-great-good-thing-on-the-doorstep/

[18] here: http://www.cakravartin.com/wordpress/wp-content/uploads/2006/08/Julius-Evola-Introduction-to-Magic.pdf

dimanche, 03 mars 2013

Citation de G. Lipovetsky

ere-du-vide.-.jpgL'homme cool n'est ni le décadent pessimiste de Nietzsche ni le travailleur opprimé de Marx, il ressemble davantage au téléspectateur essayant "pour voir" les uns après les autres les programmes du soir, au consommateur remplissant son caddy, au vacancier hésitant entre un séjour sur les plages espagnoles et le camping en Corse. L'aliénation analysée par Marx, résultant de la mécanisation du travail, a fait place à une apathie induite par le champ vertigineux des possibles et le libre-service généralisé ; alors commence l'indifférence pure, débarrassée de la misère et de la "perte de réalité" des débuts de l'industrialisation. 

Gilles Lipovetsky, L'ère du vide


samedi, 02 mars 2013

Roberto Michels: un socialismo verdaderamente superador de las oligarquías

Michels (1)

Roberto Michels: un socialismo verdaderamente superador de las oligarquías

Alessandro Campi

http://alternativaeuropeaasociacioncultural.wordpress.com/

 1. Roberto Michels, un hombre, una carrera

Recientemente (1), pudimos cele­brar el cincuenta aniversario de la muerte de Roberto Michels, el gran sociólogo italo-germano, principal representante, junto a Vilfredo Pareto y Gaetano Mosca, de la escuela “elitista” italiana. Michels nació en Colonia (Köln) en 1876, en el seno de una familia de ricos comerciantes de ascendencia alemana, flamenca y francesa. Tras los estudios iniciados en el Liceo francés de Berlín y pro­seguidos en Inglaterra, en Francia y en la capital de Baviera, Munich, ob­tiene su doctorado en Halle en 1900, bajo la égida de Droysen, gracias a una tesis entorno a la argumentación histórica. Desde su primera juven­tud, milita activamente en el seno del partido socialista, lo cual le granjea la hostilidad de las autoridades aca­démicas y dificulta considerable­mente su inserción en los medios uni­versitarios. En 1901, gracias al apoyo de Max Weber, obtiene su primer puesto de profesor en la Universidad de Marburgo.

Sus contactos con los medios socia­listas belgas, italianos y franceses son numerosos y estrechos. Entre 1904 y 1908, colabora en el mensual francés Le Mouvement socialiste (“El Movi­miento socialista”) y participa, en ca­lidad de delegado, en diversos con­gresos social-demócratas. Este pe­ríodo resulta decisivo para Michels, pues entra en contacto con Georges Sorel, Edouard Berth y los sindica­listas revolucionarios italianos Artu­ro Labriola y Enrico Leone. Bajo su influencia, empieza a perfilarse el proceso de revisión del marxismo teórico así como la crítica del reformismo de los dirigentes socialistas. La concepción activista, voluntarista y antiparlamentaria que Michels tie­ne del socialismo no se concilia en absoluto con la involución parlamentarista y burocrática del movimiento social-demócrata. Este hiato le lleva a abandonar gradualmente la políti­ca activa y a intensificar sus investigaciones científicas. A partir de 1905, Max Weber le invita para que colabore en la prestigiosa revista Archiv tur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. En 1907, obtiene una cá­tedra en la Universidad de Turín, en la cual entra en contacto con Mosca, con el economista Einaudi y con el antropólogo Lombroso. En este fe­cundo clima universitario, va toman­do cuerpo el proyecto de su obra fundamental, Zur Soziologie des Parteiwesens. Durante la guerra de Trípo­li, Michels toma partido a favor de los proyectos imperiales de Italia y contra el expansionismo alemán. De este modo, empieza su acercamiento hacia el movimiento nacionalista italiano; si bien, obviamente, no es de extrañar, sus relaciones con Max Weber se deterioran irremediable­mente.

• Un trabajo fecundo, durante el período italiano

Al iniciarse la Primera Guerra Mundial, en 1914, se instala en la Universidad de Basilea, Suiza. Es el período durante el cual Michels es­trecha sus lazos con Pareto y con el economista Maffeo Pantaleoni. En 1922, saluda con simpatía la victoria de Benito Mussolini y del Fascismo. Vuelve definitivamente a Italia en 1928 para asumir la cátedra de Eco­nomía General en la Facultad de Ciencias Políticas de la Universidad de Perugia. Al mismo tiempo, impar­te como enseñante en el Instituto Cesare Alfieri de Florencia. Ade­más, en aquella época, ofrece nume­rosas conferencias y cursos tanto en Italia como allende las fronteras de ésta, por toda Europa. Sus artículos aparecen en la famosa Encyclopae­dia of the Social Sciences (1931). Fi­nalmente, muere en Roma a la edad de sesenta años, el 2 de Mayo de 1936.

Hombre de una vastísima cultura, educado en un medio cosmopolita, atento observador de los diversos movimientos políticos y sociales eu­ropeos habidos a caballo entre los siglos XIX y XX, Michels fue, por otra parte, un historiador del socialismo europeo, un crítico de la democracia parlamentaria y un analista de los distintos tipos de organización so­cial, un teórico del sindicalismo re­volucionario y del nacionalismo, así como un historiador de la economía y del imperialismo italiano. Del mis­mo modo, sus inquietudes e intereses le llevaron a estudiar el Fascismo, los fenómenos de la emigración, el pen­samiento corporativista y los oríge­nes del capitalismo. A su manera, continuó en el proceso de profundización de la psicología política crea­do por Gustave Le Bon y se interesó, a este respecto, por el comporta­miento de las masas obreras politiza­das. Igualmente, abordó ciertos te­mas que, en su época, pasaban por ser más bien excéntricos o heterodo­xos, tales como el estudio de las rela­ciones entre moral sexual y clases so­ciales, de los lazos entre la actividad laboriosa y el espíritu de la raza, de la nobleza europea, del comporta­miento de los intelectuales y esbozó, asimismo, un primer cuadro del mo­vimiento feminista. Además, no olvi­demos en esta enumeración, men­cionar sus estudios estadísticos, tan­to en economía como en demografía, notablemente con respecto al con­trol de los nacimientos y otras cues­tiones interrelacionadas.

2. El redescubrimiento de una obra

Como he señalado anteriormente, su libro más importante y más cono­cido lleva por título, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie; fue publicado por pri­mera vez en 1911 y por segunda vez en 1925 (siendo esta edición la edi­ción definitiva). Se trata de un estu­dio sistemático, consagrado a las re­laciones entre la democracia y los partidos, a la selección de las clases políticas, a las relaciones entre las minorías activas y las masas y al “leadership”. La bibliografía de Michels comprende treinta libros y cerca de 700 artículos y ensayos, de los cuales muchísimos merecerían volver a ser reeditados (2). Su principal libro ha sido traducido a lo largo del tiempo al castellano, al francés, al inglés, al italiano, etc.

A pesar de la amplitud temática, la profundidad y la actualidad de un buen número de los análisis de Michels, su obra, en general, no ha go­zado del éxito que se merece. En mu­chos países europeos, se la cita mal a propósito y faltan las obras críticas válidas. Sin embargo, para compen­sar tal situación, diversos han sido los estudios serios que han aparecido en los Estados Unidos, especialmente versados entorno a las aportaciones de Michels a la teoría del partido po­lítico y a la definición del Fascismo (3). Sus simpatías por el movimiento de Mussolini son, evidentemente, uno de los (principales) motivos que han llevado a la ‘ostracización’ de su obra a lo largo de toda nuestra post­guerra. Es un destino que ha com­partido con otros intelectuales, co­mo, por ejemplo y entre otros mu­chos, Giovanni Gentile (4). Otro mo­tivo: la difusión en Europa de méto­dos sociológicos americanos, de ca­rácter empírico, descriptivo, estadís­tico o crítico/utópico y que no pres­tan demasiada atención al análisis de los conceptos y a las dimensiones his­tóricas e institucionales de los fenó­menos sociales. El estilo científico de Michels, de carácter realista/’realitario’, anti-ideológico, desmitifican­te y dinámico, ha sido injustamente considerado como desfasado, como la expresión anacrónica de una acti­tud eminentemente conservadora (5).

• Se anuncia un regreso de Mi­chels

Sin embargo, desde hace algunos años (relativamente recientemente), la situación ha empezado a cambiar, sobretodo en Italia, país que Michels consideraba como su “nueva patria”. En 1966, se publica, junto a un estu­dio preliminar de Juan Linz, una tra­ducción de Zur Soziologie des Parteiwesens (6). En 1979, aparece una selección de ensayos bajo la direc­ción del especialista americano Ja­mes Gregor (7). Asimismo, una an­tología de escritos relativos a la so­ciología aparece en 1980 (8). Dos años más tarde, la Universidad de Perugia organiza un coloquio sobre el tema “Michels entre la política y la sociología”, con la participación de los más eminentes sociólogos italianos (9). Con ocasión del cincuenta aniversario de su muerte, otras de sus publicaciones son incluidas en los programas de los editores. Las ediciones ‘UTET’ anunciaron una amplia colección de “escritos políti­cos”. La editorial ‘Giuffré’ previo, dentro de su prestigiosa colección Arcana Imperii, una antología dirigi­da por Ettore Albertoni y G. Sola, que llevaría por título Dottrine et istituzioni politiche (“Doctrina e insti­tuciones políticas”). Este mismo edi­tor tenía igualmente en mente la pu­blicación de una traducción italiana de Sozialismus und Faschismus in Italien (“Socialismo y Fascismo en Italia”), obra que apareció inicialmente en 1925.

Una contribución reciente en el re­descubrimiento de Michels puede encontrarse en el libro del profesor israelita Zeev Sternhell, consagrado a la génesis de la ideología fascista en Francia (10). Según Sternhell, Mi­chels, al igual que Sorel, Lagardelle y De Man, encarnan en sí la corrien­te “revisionista”, que, entre 1900 y 1930, aporta una decisiva contribu­ción a la demolición de los funda­mentos mecanicistas y deterministas del marxismo teórico y, a la crítica del economicismo y del reduccionismo materialista. Michels favorece de este modo la difusión de una concep­ción de la acción política fundada so­bre la idea de nación y no en la de cla­se, conectada a una ética fuerte y a una visión libre de la dinámica histó­rica y social. Según numerosos auto­res, es ahí donde residen los funda­mentos en los cuales maduró el Fas­cismo con su programa de organiza­ción corporativa, de justicia social, de encuadramiento jerárquico de las instituciones políticas y de limitación de las corrupciones debidas al parla­mentarismo y al pluralismo partitocrático.

Michels estuvo en contacto con las más eminentes personalidades polí­ticas e intelectuales de su época, ta­les como Brentano, Werner Sombart, Mussolini, Pareto, Mosca, La­gardelle, Sorel, Schmoller, Niceforo, etc. Lo que sin embargo y en consecuencia nos falta todavía, es pues, una buena biografía. A este respec­to, sería muy interesante publicar sus cartas y su diario personal; estos dos elementos contribuirían enorme­mente a iluminar un período harto significativo de la cultura europea enmarcado en estos últimos cien años.

3. La fase sindicalista

Dentro del pensamiento de Mi­chels, podemos distinguir claramen­te dos fases. La primera coincide con el abandono de la ortodoxia marxista inicial y con una aproximación al sindicalismo revolucionario y al revi­sionismo teórico. La segunda, la más fecunda desde el punto de vista cien­tífico, coincide con el descubrimien­to de la teoría de Mosca sobre la “cla­se política” y la de Pareto sobre la inevitable “circulación de las élites”. Vamos, a continuación, a examinar brevemente, aunque con toda la atención necesaria, estas dos fases.

Tras haber publicado numerosos artículos de prensa y pronunciado numerosas alocuciones durante di­versos congresos y debates políticos, los primeros estudios importantes de Michels aparecen entre 1905 y 1908 en la (excelente) revista “Archiv”, di­rigida por Max Weber. Particular­mente significativos son los artículos consagrados a “La social-democracia, sus militantes y sus estructuras” y a las “Asociaciones. Investigaciones críticas”, aparecidos en lengua ale­mana, respectivamente en 1906 y en 1907. En ellos Michels analiza la he­gemonía de la social-democracia alemana sobre los movimientos obreros internacionales y también contempla a través de ellos la posibilidad de una unificación ideológica entre los diversos componentes del socialismo europeo. Este proceder, inscribe simultáneamente las contra­dicciones teóricas y prácticas del partido obrero alemán: de un lado, la retórica revolucionaria y el reconocimiento de la huelga general como forma privilegiada de lucha y, por otro lado, la táctica parlamentaria, el legalismo, el oportunismo y la voca­ción por el compromiso. Michels cri­tica el “prudencialismo” de los jefes social-demócratas, sin por lo tanto favorecer la espontaneidad popular o las formas de autogestión obrera de la lucha sindicalista. Según Mi­chels, la acción revolucionaria debe ser dirigida y organizada y, desde es­te punto de vista, los intelectuales de­tentan una función decisiva. Pues de­cisivo es el trabajo pedagógico de unificar el partido político. El movi­miento obrero se presenta como una rica constelación de intereses econó­micos y de visiones idealistas que de­be ser sintetizada en el seno de un proyecto político común.

En su primer libro, II proletariado e la borghesia nel movimento socia­lista (“El proletariado y la burguesía en el movimiento socialista”), publi­cado en italiano en 1907, Michels percibe perfectamente los peligros de degenerescencia, de oligarquización y de burocratización, intrínse­cos a las estructuras de los partidos y de los sindicatos. En esta primera fa­se de su pensamiento, Michels con­templa una “posibilidad” [involutiva] que debe ser conjurada a través del recurso de la acción directa del sin­dicalismo. Para él, la virtual involu­ción del socialismo político no reve­la todavía su verdadero sentido que no hace sino encerrar en sí una ine­xorable fatalidad sociológica.

4. La fase sociológica

En 1911, aparece, tal y como hemos señalado, su importante “summa” en­torno al partido político (11), la obra que indica claramente su paso defi­nitivo del sindicalismo revoluciona­rio a la sociología política. La in­fluencia de Mosca sobre su método histórico y positivo fue, a decir ver­dad, determinante. A partir de un es­tudio de la social-democracia alema­na, como caso particular, Michels termina enunciando una ley social general, una regla del comporta­miento político. Michels descubrió que, en toda organización, existe ne­cesariamente una serie de jefes pre­parados para la acción y élites de profesionales competentes (tecnócratas. N.d.T.); descubrió igualmen­te la necesidad de una “minoría crea­tiva” que se impulsa por sí misma a la cabeza de la dinámica histórica; des­cubrió la dificultad que existe para conciliar, en el cuadro de la demo­cracia parlamentaria, competencia técnica y representatividad. La tesis general de Michels es la siguiente: “En toda organización de carácter instrumental (Zweckorganisation), los riesgos de oligarquización se ha­llan siempre inmanentes” (12). De­nuncia a continuación la insuficien­cia definitiva del marxismo: “Cierta­mente los marxistas poseen una gran doctrina económica y un sistema his­tórico y filosófico fascinante; pero, una vez penetramos en el terreno de la psicología, el marxismo revela ciertas lagunas conceptuales enor­mes, incluso en los niveles más ele­mentales”. Realmente, su libro es muy rico en tesis y en argumentos. Si bien, juzguémoslo sobre el propio te­rreno:

1) La lucha política democrática posee necesariamente un carácter demagógico. En apariencia, todos los partidos luchan por el bien de la humanidad, por el interés general y por la abolición definitiva de las de­sigualdades. Pero, más allá de la re­tórica sobre el bien común, sobre los derechos del hombre y sobre la justi­cia social se presiente cómo despun­ta una voluntad por conquistar el po­der y se perfila el deseo impetuoso por imponerse a la cabeza del Esta­do, en interés de la minoría organi­zada que se representa. A este res­pecto, Michels enuncia una “ley de expansión”, según la cual todo parti­do tiende a convertirse en Estado, a extenderse más allá de la esfera so­cial que le estaba inicialmente asig­nada o que había conquistado gra­cias a su programa fundamental (13).

2) Las masas son incapaces de au­to-gobernarse. Sus decisiones jamás responden a criterios racionales y es­tán influidas por sus propias emocio­nes, por toda suerte de azares de di­verso orden, por la fascinación carismática que ejerce un jefe bien deter­minante e influyente, que se destaca de la masa para asumir la dirección de una manera dictatorial. Tras la llegada de la sociedad de masas y del desarrollo de los grandes centros in­dustriales, cualquier posibilidad de re-instaurar una democracia directa pasa en lo sucesivo a extinguirse de­finitivamente. La sociedad moderna no puede funcionar sin dirigentes y sin representantes. En lo que respec­ta a estos últimos, Michels escribe: “una representación duradera signi­fica, en cualquier caso, una domina­ción de los representantes sobre los representados” (14). En la opinión de Michels, este juicio no significa precisamente el rechazo de la repre­sentación, sino más bien la necesidad de encontrar los mecanismos nece­sarios que podrán transformar las re­laciones entre las clases políticas y la sociedad civil, de la manera más or­gánica posible. Hoy, el verdadero problema de la ciencia política con­siste en escoger nuevas formas 1) de representación y 2) de transmisión de las voluntades y de los intereses políticos, que se fundamentan sobre criterios orgánicos, en un espíritu de solidaridad y de colaboración, orien­tados en un sentido pragmático y no inspirados por esos mitos de extrac­ción mecanicista, que no conducen más que al poder de los partidos y no al gobierno eficaz de la nación.

3) En la era contemporánea, la fe política ha tomado el relevo a la fe re­ligiosa. Michels escribe: “En medio de las ruinas de la cultura tradicional de masas, la estela triunfante de la necesidad de religión ha permaneci­do en pie, intacta” (15). He aquí una anticipación inteligente de la inter­pretación contemporánea del carác­ter mesiánico y religioso/secular, tan característico de la política de masas moderna, como es el caso destacado de los regímenes totalitarios.

4) “La competencia es poder”, “la especialización significa autoridad”. Estas dos expresiones recapitulan para Michels la esencia del “leadership”. En consecuencia, la tesis según la cual el poder y la autoridad se de­terminan con relación a las masas, o en el cuadro de los conflictos políti­cos con los otros partidos, es insoste­nible. Para Michels, son, en todo ca­so, las minorías preparadas, aguerri­das y poderosas las que entran en lucha para tomar la dirección de un partido y para gobernar un país.

5) Analizando dos fenómenos his­tóricos como son el Cesarismo y el Bonapartismo, Michels desvela las relaciones de parentesco entre de­mocracia y tiranía y aboga en el sen­tido del origen democrático de cier­tas formas de dictadura. “El Cesaris­mo -escribe- es todavía democracia y, al menos, puede reivindicar su nombre, puesto que obtiene su fuen­te directamente de la voluntad popu­lar” (16). Y añade: “El Bonapartismo es la teorización de la voluntad indi­vidual, surgida inicialmente de la vo­luntad colectiva, pero emancipada de ésta, con el tiempo, para conver­tirse a su vez en soberana” (17).

6) Carl Schmitt, en su ya clásico li­bro Legalität und Legitimität (“Le­galidad y Legitimidad”) (18), desa­rrolla un análisis profundo entorno a la “plusvalía política adicional” que asume aquel que detenta legalmente la palanca del poder político; se tra­ta de una especie de suplemento del poder. Michels tuvo una intuición parecida al escribir: “Los líderes, al disponer de instrumentos de poder y, en virtud de este hecho, del mismo poder en sí mismo, tienen como ven­taja la posibilidad de aparecer siem­pre al amparo de la legalidad” (19).

7) El principal libro de Michels contiene muchísimas otras observa­ciones sociológicas: sobre las dife­renciaciones de competencias; sobre los gustos y los comportamientos, los cuales, en tanto que consecuencias de la industrialización, han logrado alcanzar a los obreros y quebrado la unidad de clase; sobre las mutacio­nes sociales como el aburguesamien­to de los jefes y la aproximación en­tre los niveles de vida del proletariado y de la pequeña burguesía; sobre la posibilidad de prever y de limitar el poder de las oligarquías a través del procedimiento técnico que supo­ne el referéndum y mediante el re­curso del instrumento teórico y prác­tico del sindicalismo.

8) la sexta parte del libro es central y está dedicada explícitamente a la tendencia oligárquica de las organi­zaciones. En ella, Michels enuncia la más celebre de sus leyes sociales, la que evoca la “perversión” que sufren todas las organizaciones: con el incremento del número de las funcio­nes y de los miembros, la organiza­ción, “de medio para alcanzar un fin, se convierte en un fin en sí misma. El órgano finaliza por prevalecer sobre el organismo” (20). Es ahí donde se halla la “ley de la oligarquía” de la cual se desprende que la oligarquía es la “forma establecida de avance de la convivencia humana en el seno de las organizaciones de gran dimen­sión” (21).

9) El libro de Michels contiene, en su conclusión, una voluntad de lucha que recuerda, parcialmente, la visión histórica trágica de Max Weber y de Georg Simmel; se trata de una volun­tad por profundizar el choque inevi­table entre la vida y sus formas constituidas, entre la libertad y la cristali­zación de las instituciones sociales, las cuales caracterizan la vida mo­derna.

5. La historia

Con la publicación en lengua italia­na del libro titulado L’imperialismo italiano. Studio político e demográ­fico (“El imperialismo italiano. Estu­dio político y demográfico”) (1914), el “giro” de Michels es definitivo. Con la aparición de esta obra, se hunde un mito, el del internaciona­lismo y del universalismo humanitarista. En la obra de Michels, aparece el nacionalismo como el nuevo mo­tor ideal de la acción política, como un sentimiento capaz de movilizar a las masas y de favorecer la integra­ción de éstas en las estructuras del Estado. El análisis sociológico del sentimiento nacional será profundizado en un volumen posterior, inicialmente aparecido en alemán (1929) y, después en italiano (1933), bajo el título de Prolegomeni sul pa­triotismo (“Prolegómenos sobre el patriotismo”).

A partir de 1913, aparecen en Italia diversos estudios importantes sobre economía: Saggi economici sulle classi popolari (“Ensayos económi­cos sobre las clases populares”) (1913), La teoría di Marx sulla po­vertà crescente e le sue origini (“La teoria de Marx sobre el crecimiento de la pobreza y sus orígenes”) (1920). La aproximación que Michels inten­ta hacia la economía no es más que de naturaleza rigurosamente históri­ca. Según él, es mucho más impor­tante tener en cuenta la utilidad práctica de una teoría económica que sus correcciones especulativas puramente formales. La interpretación de Michels es pragmática y con­creta. Critica la inconsistencia del “homo oeconomicus” liberal, porque a su juicio, no existen sujetos econó­micos abstractos, sino actores con­cretos, portadores de intereses espe­cíficos. A continuación critica la interpretación del marxismo, la cual establece la existencia de un conflic­to insuperable en el seno de las so­ciedades. Michels reconoce con ello la función reguladora y equilibrante del Estado y la necesidad de una co­laboración estrecha entre las diver­sas categorías sociales. Por esta ra­zón, considera que el modelo corpo­rativo constituye una solución. Su va­loración del corporativismo se halla contenida en el opúsculo Note storiche sui sistemi sindicali corporativi (“Notas históricas entorno al sistema sindicalista corporativo”), publicado en lengua italiana en 1933.

6. El Fascismo

En esta fase de su obra, su actividad como historiador, queda consignada en diversos libros, escritos original­mente en alemán y, posteriormente traducidos al italiano: Socialismo e Fascismo in Italia (“Socialismo y Fascismo en Italia”) (2 volúmenes, 1925); Psicologia degli uomini signi­ficativi. Studi caratteriologici (“Psi­cologia de los hombres significativos. Estudio caracterológico”) (1927),

Movimenti anticapitalisti di massa (“Movimientos anticapitalistas de masa”) (1927); y después en varios escritos redactados directamente en italiano: Francia contemporánea (1926) y Storia critica del movimen­to socialista italiano (1926). Entre las personalidades “significativas” de las cuales traza su biografía, figuran Bebel, De Amicis, Lombroso, Schmoller, Weber, Pareto, Sombart y W. Müller. En 1926, Michels im­parte una serie de lecciones en la Universidad de Roma; éstas serán reunidas un año más tarde en un vo­lumen, redactado en italiano: Corso di sociologia politica (“Curso de so­ciología política”), una buena intro­ducción a esta disciplina que de­muestra ser todavía útil en la actua­lidad. En este trabajo, traza las gran­des líneas de su visión elitista de los procesos políticos, emite una teori­zación de la institución en la que se ha convertido el “Duce” y desarrolla una nueva teoría de las minorías. El “Duce”, que obtiene su poder direc­tamente del pueblo, extiende su legi­timidad al conjunto del régimen po­lítico. Esta idea constituye en sí, to­tal y verdaderamente, un paralelis­mo sociológico con la teoría elabora­da simultáneamente en Alemania por los teóricos nacional-socialistas del denominado “Führerprinzip”.

Esta relativa originalidad de Mi­chels no ha sido jamás puesta sufi­cientemente en evidencia por los crí­ticos, que se han limitado a conside­rarlo solamente como un genial con­tinuador de la obra de Mosca y de la Pareto. En 1928, en la Rivista inter­nazionale di Filosofía del Diritto (Revista internacional de Filosofía del Derecho), aparece un importan­te ensayo de Michels: Saggio di clas­sificazione dei partiti politici (“En­sayo de clasificación de los partidos políticos”). A continuación, numero­sos escritos italianos fueron reunidos en dos volúmenes: Studi sulla demo­crazia e l’autorità (“Estudios sobre la democracia y la autoridad”) (1933) y Nuovi studi sulla classe politica (“Nuevos estudios sobre la clase po­litica”) (1936).

La adhesión explícita de Michels al Fascismo quedó expresada en una obra escrita inicialmente en alemán (L’Italia oggi) en 1930, año durante el cual se afilia al P.N.F. (Partido Na­cional Fascista). En sus páginas, Mi­chels hace un elogio del régimen de Mussolini, porque ha contribuido de manera decisiva a la modernización de la nación.

7. Conclusiones

La mayor parte de las notas relati­vas a la vida de Michels se hallan contenidas en su ensayo autobiográ­fico, redactado en alemán Una corrente sindicalista sotteranea nel socialismo tedesco fra il 1903 e il 1907 (“Una corriente subterránea en el socialismo alemán entre 1903 y 1907″) y publicado en 1932; este en­sayo conserva todavía en la actuali­dad, y lo seguirá haciendo, toda la utilidad necesaria para reconstruir las diversas fases de su existencia, así como para señalar las diferentes ini­ciativas políticas y culturales que em­prendiera a lo largo de su vida; po­demos descubrir así su itinerario que va de la social-democracia alemana al Fascismo, de la ideología marxista al realismo maquiavélico a la italia­na, de las ilusiones del revolucionarismo a su credo conservador.

En resumen, se trata de una obra vasta, de gran interés. Esperamos, a modo de conclusión para esta breve introducción, que el cincuenta ani­versario de su muerte, contribuirá a redescubrir a este gran sociólogo y a revalorizar de forma equilibrada su trabajo.

Notas

(0) El presente artículo apareció originalmente en la revista florentina Diorama Letterario, siendo traduci­do al francés para la revista belga Vouloir (B.P.B. 41, B-1970 Wezem-beek-Oppem. Belgie/Belgique), en cuyo número 50/51 (Noviembre-Di­ciembre de 1988) apareció, por Robert Steuckers. Siendo la versión francesa la utilizada para traducir al castellano el artículo en cuestión.
(1) Al hablar de recientemente, de­be de entenderse como relativamente recientemente, pues ha de consi­derarse que el cincuentenario de la muerte de Roberto Michels se cum­plió el 2 de Mayo de 1986 y el artícu­lo que nos ocupa, originalmente y con respecto a este punto concreto, tuvo su máxima vigencia, evidente­mente, durante el período vigente entorno a cuatro años atrás (N.d.T.).
(2) Una bibliografía entorno a los trabajos de Michels fue publicada en 1937 por los Annali (“Anales”) de la facultad de jurisprudencia de la Uni­versidad de Perugia.
(3) Por ejemplo, D. Beetham, “From Socialism to Fascism: The Relation Between Theory and Practice in the Work of Robert Michels”, en: Political Studies, XXV, No.’s 1 & 2. Asimismo conviene citar, G. Hands, “Roberto Michels and the Study of Political Parties”, en Bri-tish Journal of Political Science, 1971, No. 2.
(4) Sobre este tema, W. Röhrich, Roberto Michels vom sozialistisch­syndikalistischen zum faschistis­chen Credo, Duncker & Humblot, Berlin, 1972. Citemos igualmente, R. Messeri, “Roberto Michels: crisi de­lla democrazia parlamentare e fas­cismo”, dentro de la obra colectiva II Fascismo nell’analisi sociologica, Il Mulino, Bologna, 1975.
(5) Destacadamente interesantes son los estudios de E. Ripepe (Gli eli­tisti italiani, Pacini, Pisa, 1974) y de P. P. Portinaro, “R. Michels e Pare­to. La formazione e la crisi della so­ciologia”, en: Annali della Fondazio­ne Luigi Einaudi, Torino, XI, 1977.
(6) Roberto Michels, Les Partis Politiques. Essai sur les tendances oligarchiques des démocraties, Flammarion, Paris, 1971. Traduc­ción de la edición alemana de 1925.
(7) A. James Gregor, Roberto Mi­chels e l’ideologia del Fascismo, Volpe, Roma, 1979. Tras una larga introducción, podremos encontrar en esta obra una amplia serie de tex­tos de Michels.
(8) Roberto Michels, Antologia di scritti sociologici, Il Mulino, Bolog­na, 1980.
(9) Las contribuciones a este colo­quio fueron reunidas por G. B. Furiozzi en el libro Roberto Michels tra politica e sociologia, ETS, Pisa, 1985.
(10) Zeev Sternhell, Ni droite ni gauche, Seuil, Paris, 1983.
(11) Con respecto a la contribución de Michels a la “stasiología”, o la ciencia que estudia los partidos polí­ticos, es conveniente consultar a G. Fernández de la Mora, La partitocracia, Instituto de Estudios Políti­cos, Madrid, 1977, páginas 31-42. Con respecto a la influencia de Mi­chels sobre Ortega y Gasset, consúl­tese a I. Sánchez-Cámara, La teoría de la minoría selecta en el pensa­miento de Ortega y Gasset, Madrid, 1986, páginas 124-128.
(12) Roberto Michels, Les partis
politiques…, op. cit.
(13) Ibidem.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Carl Schmitt, Legalität und Legitimität (“Legalidad y Legitimi­dad”), Duncker & Humblot, Leip­zig/München, 1932.
(19) Roberto Michels, op. cit.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.

La guerre d’Espagne et l’art moderne comme instrument de torture et de conditionnement social

 

Picasso_Guerre_1951.JPG

Nicolas BONNAL:

La guerre d’Espagne et l’art moderne comme instrument de torture et de conditionnement social

Ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com/

 
Car le fantastique me tourmente comme toi-même,
aussi j’aime le réalisme terrestre. Chez vous, tout
est défini, il y a des formules, de la géométrie ;
chez nous, ce n’est qu’équations indéterminées.
Le Diable (dans "les Frères Karamazov")

A mesure que le déchiffrage de l’Histoire progresse, la guerre d’Espagne apparaît, par-delà son imagerie romantique, comme le premier laboratoire orwellien de la modernité. A mesure aussi que l’humanité toute nue et entière entre dans cette modernité, elle ne peut qu’abandonner tout espoir, comme les victimes de l’enfer dantesque. Elle se déconnecte ou elle rêve, et puis elle se soumet.

L’historien espagnol José Milicua a découvert que, pour torturer et briser psychiquement des détenus politiques, l’avant-garde révolutionnaire avait utilisé l’avant-garde artistique. L’art moderne, éclaireur et compagnon de route des révolutions, se faisant ainsi le complice de leurs dérives totalitaires. C’est un ouvrage introuvable, "Por que hice las checas de Barcelona", de R.L. Chacón (Ed. Solidaridad nacional, Barcelone, 1939), qui est à l’origine de cette révélation paradoxale, les tortionnaires furent les républicains anarchistes et marxistes et leurs victimes les fascistes franquistes.

Chacón a consigné la déposition d’un anarchiste français d’origine austro-hongroise, Alphonse Laurencic, devant le Conseil de guerre. Accusé de tortures par la justice espagnole, ce geôlier amateur reconnaît en 1938 que, pour pousser à bout ses prisonniers franquistes, il a, avec deux autres tortionnaires appelés Urduena et Garrigo, inventé des checas, cellules de torture psychique. Il enfermait ses victimes dans des cellules exiguës (ce n’est pas nouveau), aussi hautes que longues (2 m) pour 1,50 m de large. Le sol est goudronné, ce qui, l’été, suscite une chaleur épouvantable (l’idée sera abandonnée parce que, du coup, ces cellules sont moins glaciales en hiver). Les bats-flancs, trop courts, sont inclinés de 20°, ce qui interdit tout sommeil prolongé.

Le prisonnier, comme l’esthète décadent d’"A rebours", de J.K. Huysmans, est accablé de stimuli esthétiques : bruits, couleurs, formes, lumières. Les murs sont couverts de damiers, cubes, cercles concentriques, spirales, grillages évoquant les graphismes nerveux et colorés de Kandinsky, les géométries floues de Klee, les prismes complémentaires d’Itten et les mécaniques glacées de Moholy Nagy. Au vasistas des cellules, une vitre dépolie dispense une lumière verdâtre. Parfois, comme Alex, le héros d’Orange mécanique, ils sont immobilisés dans un carcan et contraints de regarder en boucle des images qui évoquent un des plus célèbres scandales de l’histoire du 7e Art : l’oeil découpé par une lame de rasoir du Chien andalou, de Buñuel et Dali et dont l’historien du surréalisme, Ado Kyrou, écrit que ce fut le premier film réalisé pour que, contre toutes les règles, le spectateur moyen ne puisse pas en supporter la vision.

***

Si la loi de l’art classique fut de plaire et d’ordonner, celle de l’art moderne sera donc de choquer et de désaxer, un peu il est vrai comme aux temps baroques (voir les tyrans baroques du cinéma soviétique pour enfants). Signe supplémentaire et presque superflu des temps d’inversion. S’étonner que l’avant-garde esthétique serve d’aussi noirs desseins et que l’art moderne "rebelle et libérateur" se fasse complice de la répression serait oublier l’histoire d’un siècle d’horreur. « Ce siècle est un cauchemar dont je tente de m’éveiller », dit d’ailleurs Joyce au moment où se déclenchent en Europe les guerres des totalitarismes. Il publie, comme un exorcisme, l’incompréhensible "Finnegan’s Wake" qu’il appelle lui même « la folle oeuvre d’un fou ». Paul Klee, un des peintres utilisés par Laurencic, plaide que « Plus le monde est horrible, plus l’artiste se réfugie lui-même dans l’abstraction ».
En musique, Schoenberg rompt avec un romantisme tardif pour se lancer dans la provocation dodécaphonique, qui aujourd’hui encore reste insupportable au public moderne. Et Ravel entendant une auditrice du Boléro crier « Au fou ! » s’exclame : « Enfin une qui a compris ! »
Au cinéma, la distorsion folle des formes du Cabinet du docteur Caligari accompagne la contestation politique radicale de l’expressionnisme de l’entre-deux-guerres.
En architecture, l’art de Le Corbusier, prétendument fondé sur la dimension humaine (le modulor) révèle une obsession carcérale que la spontanéité populaire saisira d’instinct en baptisant son oeuvre « la maison du fada ». En somme, toute l’esthétique née dans la première moitié du siècle est un hurlement de dément devant les guerres qui dévastent l’Europe et les totalitarismes qui l’enserrent. Ce pourquoi, aujourd’hui encore, elle impose la mobilisation de brigades médiatiques de soutien esthétique pour s’imposer, tant elle défie le goût du commun.

Aux yeux de l’artiste contemporain, l’homme n’est plus une âme à la recherche de Dieu ni même une intelligence en quête de Raison. C’est une monade, un fou qui s’ignore dans un monde fou qui l’ignore, et pour ce fou l’art ne peut être que le miroir de son inquiétante étrangeté. Dès lors, le malentendu est complet. Une critique naïve ou complice exalte la "rébellion" des artistes quand ceux-ci, au contraire, sont avec les bourreaux pour torturer les hommes et les priver de leurs libertés.

José Milicua fait observer que plusieurs dessins géométriques des checas préfigurent l’art cinétique de Vasarely. Or ce maître des géométries variables est la clé d’un film célèbre, L’Exorciste : lorsque Regan, la jeune possédée (Linda Blair), se rend chez le psychiatre pour subir des examens très techniques (on prétend la réparer comme une machine, au lieu qu’il faudrait la sauver comme une âme en peine), elle s’assied devant une toile de Vasarely, labyrinthe qui reflète sa possession en même temps qu’elle la nourrit. Après sa crise éclate.
Ce lien entre l’art et la démence qui est une possession, est typiquement moderne. L’art, détourné de sa fonction de serviteur du Beau, du Vrai, du Bon, devient une arme de la Folie contre la Raison classique.

La torture de Laurencic préfigure Le Prisonnier, mythique série télévisée psychédélique des années soixante où des caméras omniprésentes sont là moins pour surveiller des détenus qui ne peuvent pas s’évader que pour déchiffrer leurs réactions à cet univers privé de raison. L’ambiance festive du village y agit comme un antidépresseur qui facilite le travail des cerbères. Et le but de cette torture est d’obtenir un aveu, des « renseignements ».

***

Puis on découvre que l’art moderne est mis au service du décor urbain de la modernité, lui-même instrument de torture géant soumettant les populations aux flux de circulation, au stress des news, à la consommation éternelle.

Ainsi, dans un décor moderne qui privilégie l’abstraction et l’espace mécanique, l’homme se renferme sur lui-même et fabrique son propre malheur. La "maison du fada" nourrit la dépression des cités, Brasilia provoque des accès de brasilitis, psychopathie spécifique à la ville moderne, « lieu situé dans un espace déshumanisé, abstrait et vide, un espace impersonnel, indifférent aux catégories sociales et culturelles », écrit très bien Zygmunt Bauman. Un plan de ville devient un transistor ou tableau abstrait (Vasarely, encore lui, voyait ses tableaux comme des « prototypes extensibles des cités polychromes de l’avenir »). Le dessin devient un dessein. Le plan directeur, un plan de dictateur (le totalitariste Le Corbusier projetait de raser le centre historique de Paris et dédiait « A l’Autorité ! » le plan de sa "Cité radieuse"). Le sujet isolé dans la cellule de sa banlieue est voué à « l’expérience du vide intérieur et à l’incapacité de faire des choix autonomes et responsables » (Bauman). Dès lors, le bat-flanc du prisonnier de Laurencic, si inconfortable soit-il, l’est cependant moins que l’espace extérieur, surveillé et vitrifié. Pour ne pas parler du décor immonde de son émission de TV préférée.

Dans un maître-ouvrage oublié, "Building Paranoïa", publié en 1977, le docteur Steven Flusty remarquait déjà que l’espace urbain est en proie à une frénésie d’interdits : espaces réservés (filtrage social), espaces glissants (labyrinthes détournant les gêneurs), espaces piquants (où l’on ne peut s’asseoir), espaces angoissants (constamment patrouillés ou espionnés par vidéo). C’est le décor fou de la fin des Blues Brothers.

Ce conditionnement paranoïaque est une application à l’échelle urbanistique des intuitions de Laurencic. Le dressage s’y pratique "en douceur", sans la brutalité qui risquerait de provoquer la révolte du sujet. Ainsi, sur les quais du métro, les bancs de jadis font place à des sellettes inclinées à 20° (le même angle que dans les cachots anarchistes de Barcelone !) sur lesquelles on peut poser une fesse mais en aucun cas s’attarder, ce qui dissuade le stationnement des clochards.

Laurencic a ainsi créé artisanalement l’arsenal de conditionnement et de manipulation des systèmes postmodernes, qui sont au sens strict des sociétés créées sur plan, avec des individus au comportement prévisible et, comme notre prisonnier, de la checa ou de la télé, nourris d’amertume.

Chaque écroulement d’une figure du pouvoir
totalitaire révèle la communauté illusoire qui
l’approuvait unanimement, et qui n’était
qu’un agglomérat de solitudes sans illusions.

La Société du Spectacle

mercredi, 27 février 2013

De onoprechtheid van multiculturalisten

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http://www.doorstroming.net/index.php?option=com_content&view=article&id=140:de-onoprechtheid-van-multiculturalisten&catid=1:blog&Itemid=12

De onoprechtheid van multiculturalisten

Jaak Peeters

In een grondig gedocumenteerd boek van zeldzame politieke incorrectheid heeft  de Antwerpse auteur Wim van Rooy enkele jaren geleden scherp uitgehaald naar de onoprechtheid van de predikanten van het multiculturalisme. Van Rooy begint met een ferme uithaal naar ‘ons’ academische milieu, dat hij – zonder dat zo te zeggen – van komedie beschuldigt.

Dat is verre van onterecht. Verontwaardiging, die zo kenmerkend is voor ‘het volk’, mondt volgens de geleerde dames en heren veel te makkelijk uit in wat ze meesmuilend ‘populisme’ noemen. Het volk eist immers maatregelen. Het is niet gediend van eindeloze palavers over het geslacht van de engelen. Geconfronteerd met de concrete gevolgen van een falend en hopeloos versleten beleid, wensen de mensen de problemen opgelost te zien. Men leze er de opvattingen van Stephan Rummens en co maar op na. Een gelijkaardige houding neemt Jan Blommaert aan, ‘toevallig’ ook iemand uit de extreemlinkse hoek.

Die heeft het niet begrepen op de maatregel van het Antwerpse gemeentebestuur om immigranten te laten meebetalen voor de kosten die ze veroorzaken. Erger nog vindt Blommaert dat sommige illegalen gratis medicijnen tegen aids worden geweigerd. Oh, inbreuk op het diep-menselijke recht op geneeskundige bijstand! En ja hoor, meteen wordt hij bijgesprongen door een andere rode broeder: de onvermijdelijke Jozef de Witte.

Meneer Blommaert weet natuurlijk wel beter.

Ten eerste gaat het om slechts enkele gevallen.

Ten tweede waren er in die enkele gevallen wel degelijk verontschuldigingen in hoofde van het stadsbestuur.

Niks daarvan, vindt Blommaert: voor geneeskundige verzorging bestaan er geen uitzonderingen. Geen enkele. Punt, uit. Ziedaar Blommaerts radicalisme. Men zou er haast voor in bewondering neerknielen.

Maar één ogenblik, vriend Blommaert!  Als het waar is dat het recht op geneeskundige verzorging aan elk ander recht vooraf gaat, waarom voer je dan geen actie om de overheden van het oorsprongland te dwingen dit recht na te leven? Want als mensen de andere kant van de planeet moeten opzoeken om geneeskundige verzorging te krijgen, is het dan niet omdat de regering van hun eigen land in de fout is gegaan?  Waarom die sukkelaars zover weg van huis laten gaan – of is het bedoeld? – en ze nog op extra-kosten laten jagen omdat hun eigen regering tekortschiet? Waarom moet een reserve-overheid, de Antwerpse in dit geval,  telkens weer opdraaien voor het falen van de overheid die het éérst had moeten optreden?

Je kunt daarover een hele boom opzetten. Geen Blommaertiaans woord daarover, natuurlijk.

En dan was het deze week alweer prijs. Ene Jef Verschueren, die ons in zijn onbegrensde taalkundige wijsheid – hebben die taalkundigen (Blommaert noemt zich ook taalkundige) echt niets beters te doen? -  weet te vertellen dat elk nationalisme de neiging heeft naar autoritarisme te verglijden, ook als het in den beginnen ‘braaf’ is zoals dat van Dewever. Want dat nationalisme is niets anders dan een omfloerst identiteitsdiscours. Alles wat die identiteit kan bedreigen wordt gezien als een aanval op voor de integriteit van het volk. Dat hoeft niet te leiden tot uitsluiting van wie ‘anders’ is.  En dan komt het: ‘Dat was de theorie toen. In de praktijk zien we andere dingen, zowel toen als nu.’

Het zou ons te ver leiden om de kromrederingen van iemand die zich nochtans voorstelt als taalkundige even bloot te leggen. Bijvoorbeeld: waar haalt Verschueren de suggestie vandaan dat de praktijk ook nu andere dingen laat zien? Welke dan wel? Of zoiets als historisch pars pro toto? Of waar haalt hij vandaan dat de theorie ‘toen’ – hij bedoelt natuurlijk de tijd van de nazi’s – (ook) anders was dan de toenmalige praktijk? Ze was verdorie helemààl niet anders! Men kwam open en bloot uit voor rasverbetering en tégen rasvermenging. Zelfs aan de Katholieke Universiteit van Leuven waren er hoogleraren die openlijk antisemietische opvattingen koesterden. Hoge nazi’s waren bij de Engelse landadel veelal graag geziene gasten. En Hitler heeft over zijn ware bedoelingen ooit enige twijfel laten bestaan. Theorie en vreselijke praktijk vielen in die jaren wél samen en komen, omgekeerd, van geen kanten overeen met het nationalistische discours van vandaag.

Meer zelfs.

Hannah Arendt, de joodse filosofe van het totalitarisme heeft in haar Origins of Totalitarism, in haar hoofdstuk The Decline of the Nation-state, een scherp onderscheid gemaakt tussen nationalisme en totalitarisme. Ze komt ronduit op voor een duidelijke, betekenisvolle nationale staat, waar de burger zich in kan thuis voelen. Ze sluit zich aan bij Edmund Burke - jaja: de favoriet van Dewever! -, die verklaarde dat het veel wijzer is te spreken over De Rechten van de Engelsman dan over de abstracte Rechten van de Mens. In Burkes visie valt namelijk het recht op het bezit van een concrete nationale identiteit mee in de korf van rechten. De vluchtelinge Arendt wist héél goed waarover ze sprak.

Wat bezielt figuren als Blommaert, Verschueren en Rummens e.a. toch, als ze zowat alles ondernemen om de culturele rechten van minderheidsgroepen te promoten door het afbreken of minimaliseren van het recht op nationale identiteit van ‘ontvangende’ volkeren? Waarom moet de ene identiteit ten allen prijze gepromoot worden en de bestaande, nationale identiteit zoveel mogelijk verzwakt? Wat nog erger is: David Miller wijst erop dat een samenleving niet kan bestaan zonder een gezonde dosis onderling vertrouwen onder de burgers. Hoe groter de verschillen tussen die burgers, hoe moeizamer dat vertrouwen tot stand komt. Neem nu dat dit benodigde vertrouwen onder de drempel valt. Dan laat de toekomst zich zo voorspellen: er ontstaat een strijd tussen de groepen om de macht. De zwaksten – vaak de immigranten dus – zullen het onderspit delven. Wiens rechten worden hier eigenlijk beschermd? Even herinneren aan Ruanda?

Omgekeerd is het bij herhaling bewezen dat geïntegreerde immigranten vaak beter overtuigde nationale burgers zijn dan de autochtonen, al was het maar omdat ze het verschil kennen. Maar daartoe is dan nu net het bestaan van een sterke nationale identiteit noodzakelijk.

Deze gedachten liggen zo voor de hand, dat het bijzonder lastig wordt om te geloven in de afwezigheid van kwaadaardige bedoelingen bij de schrijvers die ik hier op de korrel neem.

Het idee dat oprijst is dat de heren helemaal niet echt geïnteresseerd zijn in de rechten van wie ‘anders” is, vermits het anderszijn in onze Vlaamse samenleving nu al ten overvloede gepraktiseerd wordt: holebi, blank en zwart, religies, beroepsgroepen, maatschappelijke klassen, verschillende politieke partijen, bloembollenkwekers en wijnboeren enzovoorts. De ware bedoeling van de bedoelde multiculturalisten is het afbreken van elke relevante en dus verplichtende nationale identiteit met het oog op een algehele massificatie – het plan van het totalitarisme, léés Arendt heren!-, wat nodig is om hun utopische communistische heilstaat te vestigen.

Zolang de eerlijke multiculturalisten niet openlijk spreken, staan ze mee onder deze verdenking.

Jaak Peeters

Februari 2013

Hans Freyer: The Quest for Collective Meaning

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Hans Freyer:
The Quest for Collective Meaning

By Lucian Tudor 

Ex: http://www.counter-currents.com/

Hans Freyer was an influential German sociologist who lived during the early half of the 20th century and is associated not only with his role in the development of sociology in German academia but also with the “Far Right.” Freyer was part of the intellectual trend known in Germany during the 1920s and 30s as the Conservative Revolution, and had also worked in universities under the Third Reich government for much of its reign, although it should be clear that Freyer was never an “orthodox” National Socialist.[1] However, outside of Germany he has never been very well known, and it may be of some benefit for the Right today to be more aware of his basic philosophy, for the more aware we become of different philosophical approaches to the problems facing modern society the more prepared we are intellectually to challenge the dominant liberal-egalitarian system.

Community and Society

Classical liberal theory was individualist, holding that the individual human being was the ultimate reality, that individuals existed essentially only as individuals; that is, that they are completely independent from each other except when they choose to “rationally” associate with each other or create a “social contract.” While this notion has been increasingly criticized in more recent times from different academic positions, in much of the 19th and 20th centuries liberal theory was very influential.[2] One of the most important thinkers in early German sociology to provide a social theory which rejected individualism was Ferdinand Tönnies, who was a crucial influence on Hans Freyer.

Tönnies’s work established a fundamental distinction between Gemeinschaft (“Community”) and Gesellschaft (“Society”), a distinction which Freyer and many other German intellectuals would agree with. According to this concept, Gemeinschaft consists of the organic relations and a sense of connection and belonging which arise as a result of natural will, while Gesellschaft consists of mechanical or instrumental relations which are consciously established and thus the result of rational will. As Tönnies wrote:

The theory of Gesellschaft deals with the artificial construction of an aggregate of human beings which superficially resembles the Gemeinschaft insofar as the individuals live and dwell together peacefully. However, in Gemeinschaft they remain essentially united in spite of all separating factors, whereas in Gesellschaft they are essentially separated in spite of all uniting factors.[3]

Tönnies emphasized that in modern urban society the sense of organic solidarity or Gemeinschaft was increasingly reduced (with Gesellschaft having become the more dominant form of relationship), thus harming human social relations. However, it should also be remembered for the sake of clarity that he also clarified that these were types of relationships that are both always present in any human society; the issue was that they existed in varying degrees. Although sociological theory did not reject the importance of the individual person, it clearly revealed that individuals were never completely disconnected, as classical liberal theory so foolishly held, but rather that they always have a social relationship that goes beyond them.

Philosophy of Culture

Hans Freyer’s definition of culture included not only “high culture” (as is the case with Spengler’s work), but as the totality of institutions, beliefs, and customs of a society; that is, the term culture was utilized “in the broadest sense to indicate all the externalized creations of men.”[4] More specifically, Freyer identified culture as “objective spirit,” a concept derived from Simmel’s philosophy. This concept denotes that the creations of human beings – everything which culture comprises, including tools, concepts, institutions, etc. – were created by human minds (the “subjective domain of the psyche”) at some point in history in order to fulfill their needs or desires, and following their creation they obtained an “objective value,” became “objectified.”[5] That is, as a result of being manifested and used over time, concrete cultural creations over time obtained a fixed value independent of the original value given to them by their creator(s) and also of the situation in which they were created.[6]

In Freyer’s theory, culture and its traditions are created, first of all, to provide “stability in the face of the natural flux of life,” for if culture changed as quickly as Life then cultural forms would be constantly replaced and would therefore lose their value for providing stability.[7]  Furthermore, traditions gained value with an increase in their “depth” and “weight” (metaphorical terms used by Freyer), i.e. their permanence among the changes of life and human conditions.

Traditions gained “depth” by being re-appropriated over generations; while cultural objects gained a new meaning for each new generation of a people due to changes in life conditions, the subsequent generation still retained an awareness of the older meanings of these objects, thus giving them “weight.” Because of this historical continuity in the re-appropriation of culture, cultural forms or traditions acquire a special meaning-content for the people who bear that culture in the present.

It is also very important to recognize that Freyer asserted that the most crucial purpose of a culture and the social groups associated with it was to “convey a set of delimiting purposes to the individual” in order to provide a sense of “personal meaning,” which was “linked to collective stability, collective integration was linked to collective purpose, and collective purpose was linked to the renewal of tradition.”[8]

Culture, Race, Volk

Additionally, it should be noted that another significant aspect of Freyer’s philosophy is that he held that “the only viable cultural unity in the modern world was the Volk,”[9] which means that although culture exists on multiple levels, the only entity which is a reliable source of cultural identity and which carries relatable traditions is the Volk (a term which is oftentimes translated as “nation” or “people” but is in this sense better rendered as “ethnicity”). The Volk was the collective entity from which particular cultures emerged, which bore the imprint of a particular Volksgeist (technically, “folk spirit”) or collective spirit.

The Volk as an entity was created by an interaction between two forces which Freyer termed Blut (“Blood”) and Heimat (“Home”). Home is the landscape or environment in which the Volk formed, “that place from which we come and which we cannot abandon without becoming sick,” while “Blood is that which comprises our essence, and from which we cannot separate ourselves without degenerating,”[10] meaning the racial constitution of the people whose biological integrity must be upheld. While in order to be healthy, a Volk must have the characteristic of Bodenständigkeit (“groundedness in the soil,” as opposed to the “groundlessness” of liberal society), a key foundation of the Volkstum (“Folkdom”) is race:

It is here [at the Volkstum] that all the talk of race originates and has its truth. When one objects that this is pure biology, that after all spiritual matters cannot be derived from their natural basis, or when one objects that there are no pure races – these objections fail to grasp the concept of race that is a component of the new worldview. Race is understood not in the sense of “mere” biology but rather as the organic involvement of contemporary man in the concrete reality of his Volk, which reaches back through millennia but which is present in its millennial depth; which has deposited itself in man’s bodily and psychic existence, and which confers an intrinsic norm upon all the expressions of a culture, even the highest, most individual creations.[11]

The Loss of Meaning and Particularity

Hans Freyer was, like G. W. F. Hegel and Wilhelm Dilthey (two of his major influences), a historicist, although unlike Hegel he did not believe that history was entirely rational or that positive “progress” would be necessarily determined in history.[12] As a historicist, Freyer believed that all human cultures and values are created by historical circumstances and thus change over time, and also therefore that no Volk or culture is, objectively speaking, superior or inferior to another, and that essentially each culture and tradition is just as valid as any other. That is, “history thinks in plurals, and its teaching is that there is more than one solution for the human equation.”[13]

As result, the question of which cultural tradition would form the basis of collective meaning came into question. Freyer, in the German historicist line of thought, rejected the notion that one could scientifically or rationally choose which culture is better (due to the fact that they are all equally legitimate), and furthermore people in modern times held an awareness of the existence of the multiplicity of human cultures and their historical foundations. This awareness caused many modern people to feel an uncertainty about the full validity of their own culture, something which served as a factor in the loss of a sense of meaning in their own traditions and therefore a loss of a sense of personal meaning in their culture. That is, a loss of that sense of guidance and value in one’s own traditions which was more common in ancient and Medieval societies, where human beings tended to recognize only their own culture as valid. Freyer noted: “We have a bad conscience in regard to our age. We feel ourselves to be unconfirmed, lacking in meaning, unfulfilled, not even obligated.”[14]

However, there was also another source of the lack of a sense of collective meaning in modern societies: the development of industrial society and capitalism. The market economy, without any significant limits placed upon it, along with the emergence of advanced technology, had a universalist thrust, not recognizing national boundaries or cultural barriers. These inherently universalist tendencies in capitalism created another factor in the loss of a sense of cultural uniqueness, collective meaning, and particularity in human beings in the West.

The modern economy was the source of the formation of “secondary systems,” meaning structures which had no connection to any organic ethnic culture and which regarded both the natural world and human beings in a technical manner: as objects to be used as resources or tools to be utilized to increase production and therefore also profit. Because of this, the systems of production, consumption, and administration expanded, resulting in a structure controlled by a complex bureaucracy and in which, “instead of membership in a single community of collective purpose, the individual was associated with others who occupied a similar role in one of the secondary systems. But these associations were partial, shifting, and ‘one-dimensional,’ lacking deeper purpose of commitment… [leaving] the individual lonely and insecure.”[15]

Freyer asserted that history is divisible into three stages of development: Glaube (“Faith”), Stil (“Style”), and Staat (“State”). In the stage known as Glaube, which corresponded to the concept of ancient Gemeinschaft, human beings were “completely surrounded, encircled, and bound up in a culture that ties [them] closely to other members of [their] society.”[16] In the stage known as Stil, society would become hierarchical as a result of the domination of one group over another. While ancestry and a belief in the natural superiority of the ruling class would be valued in the resulting system, in later stages the source of social status would become wealth as a result of the rise of economic motives and capitalistic class society would form. As a result, the loss of meaning previously described occurs and history enters “critical epochs in which the objective cultural forms were unable to contain the flux of life.”[17] This would give rise to the necessity of a revolutionary transformation of the cultural reality: the third impending stage, Staat.

Revolution from the Right

Hans Freyer studied the problem of the failure of radical Leftist socialist movements to overcome bourgeois society in the West, most notably in his Revolution von Rechts (“Revolution from the Right”). He observed that because of compromises on the part of capitalist governments, which introduced welfare policies to appease the workers, many revolutionary socialists had come to merely accommodate the system; that is, they no longer aimed to overcome it by revolution because it provided more or less satisfactory welfare policies. Furthermore, these same policies were basically defusing revolutionary charges among the workers.

Freyer concluded that capitalist bourgeois society could only be overcome by a revolution from the Right, by Right-wing socialists whose guiding purpose would not be class warfare but the restoration of collective meaning in a strong Völkisch (“Folkish” or “ethnic”) state. “A new front is forming on the battlefields of bourgeois society – the revolution from the Right. With that magnetic power inherent in the battle cry of the future even before it has been sounded…”[18]  This revolutionary movement would be guided by a utopian vision, yet for Freyer the significance of belief in utopia was not the practicality of fully establishing its vision, “utopia was not a blueprint of the future but the will to actively transform the present… Utopias served to transmute critical epochs into positive ones.”[19]

The primary purpose of the new State which Freyer envisioned was to integrate human beings belonging to the Volk into “a closed totality based upon the reassertion of collective particularity.”[20] Freyer asserted that the only way to restore this sense of collective particularity and a sense of community was to create a closed society in which the state ensures that foreign cultural and ideological influences do not interfere with that of the Volk, for such interferences would harm the unity of the people. As Freyer wrote, “this self-created world should completely, utterly, and objectively enclose a particular group; should so surround it that no alien influences can penetrate its realm.”[21] Freyer’s program also carried with it a complete rejection of all multiculturalism, for the state must be composed solely of one ethnic entity in order to have cultural stability and order.

The state which Freyer anticipated would also not do away with the technological achievements of capitalism but rather make use of them while bringing the economic system under its strict control (essentially “state socialism”), eliminating the existence of the economy as a “secondary system” and reintegrating it into the organic life of the Volk. This Völkisch state also served the necessary purpose of unifying the Volk under a single political force and guidance, for, along with Machiavelli and Carl Schmitt, Freyer believed it was essential that a people is capable and ready to defend itself against the ambitions of other states. For the sake of this unity, Freyer also rejected democracy due to the fact that he believed it inherently harmed the unity of the Volk as a result of the fact that it gave rise to a multiplicity of value systems and interest groups which competed for power; the state must be politically homogeneous. “The state is… the awakening of the Volk out of timeless existence [Dasein] to power over itself and to power in time.”[22]

Freyer also believed in both the inevitability and the importance of conflict in human existence: “War is the father of all things . . . if not in the literal sense then certainly for the thing of all things, the work of all works, that structure in which the creativity of Geist [“Spirit”] reaches its earthly goal, for the hardest, most objective and all-encompassing thing that can ever be created – for the state.”[23] The act of war or the preparation for war also served to integrate the people towards a single purpose, to give meaning to the individual by his duty to a higher power, the State. War was not something to be avoided, for, in Freyer’s philosophy, it had the positive result of intensifying the sense of community and political consciousness, as Freyer himself experienced during his time as a soldier in World War I.[24] Thus, “the state as a state is constituted by war and is continuously reconstituted by the preparation for war.”[25] Of course, this did not imply that the state had to constantly engage in war but rather in the preparation for war; war should be waged when diplomacy and strategy fails to meet the state’s demands.

Freyer’s Later Transformation

Hans Freyer believed, before its rise to power, that Hitler’s National Socialist movement constituted the force which would create the state of which he had written and hoped for. However, by the late 1930s he was disappointed by the repressive and basically “totalitarian” nature of the regime, and after World War II began to advocate a drastically different approach to the problems of modern society. He essentially became a moderate and partially liberal conservative (as opposed to being a “radical conservative,” which is a descriptor for his pre-war views), a change which was probably a result of his disappointment with the Third Reich coupled with the Reich’s downfall and the ensuing political changes thereafter.

Freyer concluded that the state was itself a “secondary system” (like those created by the market economy) and if used to organize the re-appropriation of tradition it would negatively distort cultural life. His new line of thought led him to the conclusion that the state should be limited (hence his subsequent support for democracy) and that welfare-state capitalism should be practiced because “it was less likely to create the degree of concentration of power characteristic of a socialist economy.”[26] Freyer still advocated the necessity of creating a sense of value in one’s own particular culture and traditions and a sense of collective meaning, but he believed that this should be done in the private sphere of life and through “private” institutions such as the family, the church, and local communities. Likewise, he no longer advocated a complete closure of society and he also recognized that the existence of a plurality of groups in the state was unavoidable.

We may conclude by pointing out that this transformation in Freyer’s position, while undoubtedly partly influenced by the existence of a new political regime, was also certainly not unjustified, for there is much to criticize in his earlier work. For example, it is certainly not unreasonable to question whether an authoritarian regime, a constant engagement or preparation for warfare, and a society completely closed to other societies are necessary to restore a sense of community and a value in one’s own culture and ethnicity.[27] On the other hand, one does not necessarily have to agree with all of Freyer’s later conclusions, for one could argue they are also not without imperfections. However, ultimately we gain from a view of his thought and its transformation with a wider, more informed philosophical perspective.

The Relevance of Freyer’s Thought Today

There is much in Freyer’s philosophy which is relevant to the current problems our world is facing (although we make no implication that his ideas are entirely unique to him), in some cases even more relevant today than in the time they were written. While his earlier notion of a complete cultural closure of society may be too extreme, in the face of the complete opening of society experienced in the later 20th Century and early 21st Century, it is quite clear that a partial level of closure, that is some (although not absolute) barriers, are necessary to return to a healthy cultural reality.[28] Likewise, his recognition of the importance of race in the cultural and social realm, going beyond the simplistic notion of race as being merely one’s genetic makeup, is pertinent today as far too many people do not even consciously understand the full role of race in culture and society.

Moreover, in light of the fact that the majority of former radical Leftists in most Western and also some Eastern nations have shifted towards the “Center” and have become merely defenders of the political status quo, Freyer’s commentaries on the compromises made by socialists in his time correspond with the present day situation as well. One may also argue that Freyer’s recognition of the importance of a “utopian” vision to guide political movements is necessary to change societies, for without a dream for a better world to motivate people it is not likely that the status quo could be overcome.

Finally, considering the exacerbated “individualism” (which, we must stress, is not merely recognizing the value of the individual, which is perfectly normal, but rather something extreme and anomalous) common in modern Western societies, Freyer’s stress on “collective meaning,” the most crucial concept at the center of his philosophy, is probably of the greatest importance. For today it is indeed the obsession with the individual, and the placing of the individual over ethnicity and culture, which is undoubtedly one of the most significant roots of the ethnic, cultural, and racial downfall of Europe and European-derived nations. Thus, our own quest corresponds to Freyer’s, for like him we must aim to re-establish collective meaning in order to salvage our ethnic and cultural integrity.

Notes

[1] For more in-depth information on Hans Freyer’s life, see Jerry Z. Muller, The Other God That Failed: Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism (Princeton: Princeton University Press, 1988), p. 93. We should note here to our readers that Muller’s book, despite its liberal bias, constitutes the single most important and extensive work on Freyer in the English language thus far.

[2] For an explanation of classical liberal theory concerning the individual as well as a critique of it, see Michael O’Meara, New Culture, New Right: Anti-Liberalism in Postmodern Europe. (Bloomington, Ind.: 1stBooks, 2004), pp. 57 ff. On the forms of liberalism through history, see also Paul Gottfried, After Liberalism: Mass Democracy in the Managerial State (Princeton: Princeton University Press, 2001).

[3] Ferdinand Tönnies, Community and Society (London and New York: Courier Dover Publications, 2002), pp. 64–65.

[4] Muller, The Other God That Failed, p. 93.

[5] Hans Freyer, Theory of Objective Mind: An Introduction to the Philosophy of Culture (Athens: Ohio University Press, 1999), p. 79. This is the only book by Freyer to be translated into English.

[6] Note that this entire general theory was expounded by Freyer in Theory of Objective Mind.

[7] Muller, The Other God That Failed, p. 94. Note that this notion is comparable to the theory of culture and the nature of human beings provided by Arnold Gehlen, who was one of Freyer’s students. See Arnold Gehlen’s Man: His Nature and Place in the World (New York: Columbia University Press, 1988) and also his Man in the Age of Technology (New York: Columbia University Press, 1980).

[8] Muller, The Other God That Failed, pp. 93 and 96.

[9] Colin Loader and David Kettler, Karl Mannheim’s Sociology as Political Education (New Brunswick, NJ: Transaction Publishers, 2002), p. 123.

[10] Hans Freyer, Der Staat (Leipzig, 1925), p. 151. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 99.

[11] Hans Freyer, “Tradition und Revolution im Weltbild,” Europäische Revue 10 (1934) pp. 74–75. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 263.

[12] On Freyer’s concept of progress as well as some of his thoughts on economics, see Volker Kruse, Methodology of the Social Sciences, Ethics, and Economics in the Newer Historical School: From Max Weber and Rickert to Sombart and Rothacker (Hannover: Springer, 1997), pp. 196 ff.

[13] Hans Freyer, Prometheus: Ideen zur Philosophie der Kultur (Jena, 1923), p. 78. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 96.

[14] Freyer, Prometheus, p. 107. Quoted in Muller, The Other God That Failed, pp. 100–101.

[15] Muller, The Other God That Failed, p. 345.

[16] Ibid., p. 101.

[17] Loader and Kettler, Mannheim’s Sociology, p. 131.

[18] Hans Freyer, “Revolution from the Right,” in: The Weimar Republic Sourcebook, edited by Anton Kaes, Martin Jay, and Edward Dimendberg (Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1995), p. 347.

[19] Loader and Kettler, Mannheim’s Sociology, pp. 131–32.

[20] Muller, The Other God That Failed, p. 106.

[21] Freyer, Der Staat, p. 99. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 110.

[22] Hans Freyer, Revolution von Rechts (Jena: Eugen Diederich, 1931), p. 37. Quoted in Loader and Kettler, Mannheim’s Sociology, p. 126.

[23] Freyer, Der Staat, p. 143. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 113.

[24] See Muller, The Other God That Failed, p. 64.

[25] Freyer, Der Staat, p. 143. Quoted in Muller, The Other God That Failed, p. 113.

[26] Muller, The Other God That Failed, p. 348.

[27] On a “right-wing” perspective in contradistinction with Freyer’s earlier positions on the issue of democracy and social closure, see as noteworthy examples Alain de Benoist, The Problem of Democracy (London: Arktos, 2011) and Pierre Krebs, Fighting for the Essence (London: Arktos, 2012).

[28] On the concept of a balance between total closure and total openness, see also Alain de Benoist, “What is Racism?” Telos, Vol. 1999, No. 114 (Winter 1999), pp. 11–48. Available online here: http://www.alaindebenoist.com/pdf/what_is_racism.pdf [2].

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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[2] http://www.alaindebenoist.com/pdf/what_is_racism.pdf: http://www.alaindebenoist.com/pdf/what_is_racism.pdf

dimanche, 24 février 2013

Der Selbstmord des Abendlandes

Der Selbstmord des Abendlandes

von Alexander Schleyer

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Der Selbstmord des Abendlandes
 

Dem Autor von „Die kommende Revolte“, Michael Ley, ist wohlbekannt, daß diese Dystopie von Spengler über Adorno bis Sloterdijk ausreichend ausgelutscht worden ist.

Bekannt und unübertroffen sind Frank Lissons Überlegungen zum Ende des Abendlandes. Auch JF–Autor Thorsten Hinz widmete in Zurüstung zum Bürgerkrieg dem kommenden Aufstand ein nicht nur in konservativen Kreisen viel beachtetes Werk. Aber ernsthaft darüber nachzudenken, ernsthaft die Militanzfrage zu diskutieren, wie es in linken Kreisen seit Jahrzehnten üblich ist, das trauen wir uns nicht. Zu schnell fängt uns der Trott unseres bürgerlichen Lebens ein oder zu schnell geraten wir in das subjektive Dunstfeld heraufbeschworener „Terrorgruppen“. Michael Ley dagegen versucht es.

Der umtriebige Geisteswissenschaftler Ley hat im renommierten Wiener Passagen-​Verlag publiziert, ein Standardwerk zur Romantik verfaßt, vieles zu politischer Religion veröffentlicht, zu Antisemitismus und mittelalterlicher Militärgeschichte. Ley ist also wahrlich kein verbitterter Salonfaschist, sondern ein sprachgewandter Autor. Mit wissenschaftlich fundierten Analysen und stupender Kenntnis der antiken und europäischen Geistesgeschichte skizziert er ein finsteres, aber gegenwärtiges Szenario.

Das Fehlen der Väter

Die postmoderne Ideologie der One World, dem globalen Dorf, unter den Bedingungen des Kapitalismus und der modernen Gesellschaften durchschaut Michael Ley schonungslos wie sachlich. Statt dumpfem Aufbegehren glänzt er mit hochphilosophischer und tiefenpsychologischer Analyse der Jetztzeit, die er als „post-​ödipal“ betrachtet: Ley erkennt das Fehlen der Vaterfigur, über Generationen hinweg.

War der „pater familias“ anfangs noch in der Fabrik, so fiel er später millionenfach in zwei Weltkriegen. Mit ihm starb im Zuge der Säkularisierung auch die metaphysische Vaterfigur: Gott. Die tief greifenden Umwälzungen durch die 68er sind für Ley bedeutsam. Er weist den Protagonisten nicht nur ihre Perfidität und Widernatürlichkeit nach, sondern anerkennt andererseits auch ihr tiefgehendes Denken und ihren Einfluß auf die zeitgenössische Philosophie! Sie zementierten den ideologisierten Feminismus, der den Mann als herabgewürdigtes, auf seine Arbeitskraft beschränktes Formfleischwesen einstufte.

Titten und Dschungelcamp für die Masse

Das Buch Die kommende Revolte ist keine Anleitung zum Aufstand und kein hetzerisches Pamphlet eines Verlierers, sondern nichts weiter als die Beschreibung von Lebensumständen, die wir tagtäglich in unserem Alltag beobachten. Ley analysiert und interpretiert ebendiese Beobachtungen, indem er sie sowohl philosophisch als auch psychologisch, politisch und wirtschaftlich in einen leicht verständlichen Gesamtkontext einordnet.

Nicht nur Migranten, so Ley, auch die autochthonen Bevölkerungen leben mehr und mehr in Parallel– und Gegenkulturen. Noch sei die breite Masse durch Fußball, Titten und Dschungelcamp ausreichend beschäftigt, wer aber noch einen Funken kultureller Identität in sich trägt, bleibt zu Recht in dieser verhaftet. Wer noch denkt und wagt zu denken, schart um sich Gleichgesinnte und läßt das „Tittytainment“ nonchalant an sich vorbeirauschen.

Die Weltverbesserer hingegen unterliegen dem Trugschluß, sie könnten eine Welt von oben verändern. Der wahre Weltverbesserer dagegen hat erkannt, daß die Welt nicht das große Ganze ist, sondern das, was er vor seinen eigenen beschränkten Augen vorfindet. Das wagt er zu verbessern, zu verändern, im Kreise der Seinen und schließt sich damit freiwillig aus dem Laufrad der Massengesellschaft aus. Beispielhaft sind dafür die zahllosen sozialen Alternativbewegungen, die keinesfalls nur auf linker oder überhaupt politischer Seite existieren. Michael Ley analysiert die tiefe Spaltung unserer Gesellschaften und prophezeit ihren weiteren Auseinanderfall, der auch und gerade durch unser politisch-​wirtschaftliches System keinesfalls mehr aufgehalten werden kann.

Narrenschau der Zeitgeschichte

Michael Ley setzt in jedem Kapitel einen Schwerpunkt seiner Analyse, die trotz ihres unglaublichen Umfangs kurz, knapp und leicht verständlich bleibt. Vom Beginn der Aufweichung traditioneller Lebensweisen, über die Totalitarismen, bis hin zu Migration, Armutsgefährdung und dem Anspruch der Wirtschaft auf die Welt, führt Ley detailgenau einen jeden Aspekt auf. Er prophezeit: Die kommende Revolte wird zu einer asymmetrischen Revolution ausarten. Ohne eine politische Führung, ohne ein klares Konzept werden zahlreiche Konflikte ausgetragen werden, die eben nicht zu einem neuen Gesellschaftsvertrag führen. Das „Projekt Moderne“ ist somit gescheitert. Eine Zukunft versprechende Perspektive kann nur durch die Überwindung der totalitären Ideologien des Multikulturalismus, der Gottlosigkeit und der geradezu widerwärtig anmutenden Verstrickung von regionaler Politik und globaler Wirtschaft gefunden werden.

Ley ist Reaktionär, Visionär, Utopist und glasklarer Analytiker zugleich. Sein schmales Werk zu lesen gibt einen argumentativen Überblick, führt den Leser an neue Aspekte des politischen Denkens heran und wird ihn ermutigen, den Schmutz der Zeit umso heftiger von sich zu schütteln. Verstehend wird er die Gegenkultur stärken und wenn nicht eines Tags zum Pflasterstein greifen, so doch sich ernstliche Fragen stellen.

Michael Ley: Die kommende Revolte. 138 Seiten, Wilhelm Fink Verlag 2012.16,90 Euro.

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mercredi, 20 février 2013

Know Your Gnostics

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Know Your Gnostics

 

Eric Voegelin diagnosed the neoconservatives' disease

Eric Voegelin often is regarded as a major figure in 20th-century conservative thought—one of his concepts inspired what has been a popular catchphrase on the right for decades, “don’t immanentize the eschaton”—but he rejected ideological labels. In his youth, in Vienna, he attended the famous Mises Circle seminars, where he developed lasting friendships with figures who would be important in the revival of classical liberalism, such as F.A. Hayek, but he later rejected their libertarianism as yet another misguided offshoot of the Enlightenment project. Voegelin has sometimes been paired with the British political theorist Michael Oakeshott, who greatly admired his work, but he grounded his political theorizing in a spiritual vision in a way that was quite foreign to Oakeshott’s thought. Voegelin once wrote, “I have been called every conceivable name by partisans of this or that ideology… a Communist, a Fascist, a National Socialist, an old liberal, a new liberal, a Jew, a Catholic, a Protestant, a Platonist, a neo-Augustinian, a Thomist, and of course a Hegelian.”

But whatever paradoxes he embodied, Voegelin was, first and foremost, a passionate seeker for truth. He paid no attention to what party his findings might please or displease, and he was willing to abandon vast amounts of writing, material that might have enhanced his reputation as scholar, when the development of his thought led him to believe that he needed to pursue a different direction. As such, his ideas deserve the attention of anyone who sincerely seeks for the origins of political order. And they have a timely relevance given recent American ventures aimed at fixing the problems of the world through military interventions in far-flung regions.

Voegelin was born in Cologne, Germany in 1901. His family moved to Vienna when he was nine, and there he earned a Ph.D. in political science in 1922, under the dual supervision of Hans Kelsen, the author of the constitution of the new Austrian republic, and the economist Othmar Spann. He subsequently studied law in Berlin and Heidelberg and spent a summer at Oxford University mastering English. (He commented that his English was so poor when he arrived that he spent some minutes wondering why a street-corner speaker was so enthusiastic about the benefits of cheeses, before he realized the man was preaching about Jesus.) He then traveled to the United States, where he took courses at Columbia with John Dewey, Harvard with Alfred North Whitehead, and Wisconsin with John R. Commons, where he said he first discovered “the real, authentic America.”

Upon returning to Austria, he resumed attending the Mises Seminar, and he published two works critical of the then ascendant doctrine of racism. These made him a target of the Nazis and led to his dismissal from the University of Vienna after the Anschluss. As with many other Austrian intellectuals, the onslaught of Nazism made him leave Austria. (He and his wife managed to obtain their visas and flee to Switzerland on the very day the Gestapo came to seize his passport.) Voegelin eventually settled at Louisiana State University, where he taught for 16 years, before coming full circle and returning to Germany to promote American-style constitutional democracy in his native land. The hostility generated by his declaration that the blame for the rise of Nazism could not be pinned solely on the Nazi Party elite, but must be shared by the German people in general, led him to return to the United States, where he died in 1985.

During his lifelong search for the roots of social order, Voegelin came to understand politics not as an autonomous sphere of activity independent of a nation’s culture, but as the public articulation of how a society conceives the proper relationship of its members both to one another and to the rest of the cosmos. Only when a society’s political institutions are an organic product of a widely shared and existentially workable conception of mankind’s place in the universe will they successfully order social life. As a corollary of his understanding of political life, Voegelin rejected the contemporary, rationalist faith in the power of “well-designed,” written constitutions to ensure the continued existence of a healthy polity. He argued that “if a government is nothing but representative in the constitutional sense, a [truly] representational ruler will sooner or later make an end of it… When a representative does not fulfill his existential task, no constitutional legality of his position will save him.”

For Voegelin, a truly “representative” government entails, much more crucially than the relatively superficial fact that citizens have some voice in their government, first of all that a government addresses the basic needs of “securing domestic peace, the defense of the realm, the administration of justice, and taking care of the welfare of the people.” Secondly, a political order ought to represent its participants’ understanding of their place in the cosmos. It may help in grasping Voegelin’s meaning here to think of the Muslim world, where attempts to create liberal, constitutional democracies can result in Islamic theocracies instead: the first type of government is “representative” in the narrow, constitutional sense, while the second actually represents those societies’ own understanding of their place in the world.

Voegelin undertook extensive historical analysis to support his view of the representative character of healthy polities, analysis that appeared chiefly in his great, multi-volume works History of Political Ideas—which was largely unpublished during Voegelin’s life because his scholarship prompted him to change the focus of his research—and Order and History. This undertaking was more than merely illustrative of his ideas, since he understood political representation itself not as a timeless, static construct but as an ongoing historical process, so that an adequate political representation for one time and place will fail to be representative in a different time or for a different people.

The earliest type of representation Voegelin described is that characterizing the ancient “cosmological empires,” such as those of Egypt and the Near East. Their imperial governments succeeded in organizing those societies for millennia because they were grounded in cosmic mythologies that, while containing cyclical phenomena like day and night and the seasons, depicted the sequence of such cycles as eternal and unchanging. They “symbolized politically organized society as a cosmic analogue… by letting vegetative rhythms and celestial revolutions function as models for the structural and procedural order of society.”

The sensible course for members of a society with such a self-understanding was to reconcile themselves to their fixed roles in the functioning of this implacable, if awe-inspiring, universe. The emperor or pharaoh was a divine being, the representative for his society of the ruling god of the cosmic order, and as remote and unapproachable as was that god. The demise of the cosmological empires in the Mediterranean world came with Alexander the Great’s conquests. After his empire was divided among his generals following his death, the new monarchs could not plausibly claim the divine mandate that native rulers had asserted as the basis of their authority since their ascension was so clearly based on military conquest and not on some ancient act of a god seeking to provide the now-conquered peoples with a divine guide.

The basis of the Greek polis was the Hellenic pantheon. When the faith in that pantheon was undermined by the work of philosophers, the polis ceased to be a viable form of polity, as those resisting its passing recognized when they condemned Socrates to death for not believing in the civic gods. The Romans, a people not generally prone to theoretical speculation, managed to sustain their republican city-state model of politics far longer than had the Greeks but eventually the stresses produced by the spoils of possessing a vast empire and the demands of ruling it—as well as the increasing influence of Greek philosophical thought in Rome—proved fatal to that republic as well.

Mediterranean civilization then entered a period of crisis characterized by cynical, imperial rule by the Roman emperors and an urgent search for a new ordering principle for social existence among their subjects, which produced the multitude of cults and creeds that proliferated during the imperial centuries. The crisis was finally resolved when Christianity, institutionalized in the Catholic Church, triumphed as the new basis for organizing Western society, while the Orthodox Church, centered in Constantinople, played a similar role in the East.

Voegelin contends that this medieval Christian order began to fracture due to the de-spiritualization of the Church that resulted from its increasing focus on power over secular affairs. Having succeeded in restoring civil order to Western Europe during the several centuries following the fall of Rome, the Church would have done best, as Voegelin saw it, to have withdrawn voluntarily “from its material position as the greatest economic power, which could be justified earlier by the actual civilizing performance.” Furthermore, the new theories of natural philosophy produced by the emerging “independent, secular civilization… required a voluntary surrender on the part of the Church of those of its ancient civilizational elements which proved incompatible with the new Western civilization… [but] again the Church proved hesitant in adjusting adequately and in time.”

The crisis caused by the Church’s failure to adjust its situation to the new realities came to a head with the splintering of Western Christianity during the Protestant Reformation and the ascendancy of the authority the nation-state over that of the Church.

The newly dominant nation-states energetically and repeatedly attempted to create novel myths that could ground their rule over their subjects. But these were composed from what Voegelin called “hieroglyphs,” superficial invocations of a pre-existing concept that failed to embody its essence because those invoking it had not themselves experienced the reality behind the original concept. As hieroglyphs, the terms were adopted because of the perceived authority they embodied. But as they were being employed without the context from which their original validity arose, none of these efforts created a genuine basis for a stable and humane order.

The perception of the hollow core of the new social arrangements became the motivation for and the target of a series of modern utopian and revolutionary ideologies, culminating in fascism and communism. These movements evoked what had been living symbols for medieval Europe—such as “salvation,” “the end times,” and the “communion of the saints”—but as the revolutionaries had lost touch with the spiritual foundation of those symbols, they perverted them into political slogans, such as “emancipation of the proletariat,” “the communist utopia,” and “the revolutionary vanguard.”

This analysis is the source of the phrase “immanentize the eschaton”: as Voegelin understood it, these revolutionary movements had mistaken a spiritual symbol, that of the ultimate triumphant kingdom of heaven (the eschaton), for a possible goal of mundane politics, and they were attempting to create heaven on earth (the immanentizing) through revolutionary action. He sometimes described this urge to create heaven on earth by political means as “Gnostic,” especially in what remains his most popular work, The New Science of Politics. (Voegelin later came to question the historical accuracy of his choice of terminology.)

But communism and fascism were not the only options on the table when Voegelin was writing: the constitutional liberal democracies, especially those of the Anglosphere, resisted the revolutionary movements. While Voegelin was not a modern liberal, his attitude towards these regimes was considerably more sympathetic than it was towards communism or fascism. He saw certain tendencies in the Western democracies, such as the near worship of material well-being and the attempted cordoning off of religious convictions into a purely private sphere, as symptoms of the spiritual crisis unfolding in the West. On the other hand, he believed that in places like Britain and the United States there had been less destruction of the West’s classical and Christian cultural foundations, so that the liberal democracies had retained more cultural resources with which to combat the growing disorder than was present elsewhere in Europe.

As a result, he firmly supported the liberal democracies in their effort to resist communism and fascism, and his return to Germany after the war was prompted by the hope of promoting an American-inspired political system in his native land. We can best understand Voegelin’s attitude towards liberal democracy as being, “Well, this is the best we can do in the present situation.”

He saw the pendulum of order and decay as always in motion, and he was convinced that one day a new cosmology would arise that would be the basis for a new civilizational order. In the meantime, the Western democracies had at least worked out a way for people with profoundly divergent understandings of their place in the cosmos to live decently ordered lives in relative peace. Always a realist, Voegelin was not one to look down his nose at whatever order it is really possible to achieve in our actual circumstances.

But the liberal democracies are liable to fall victim to their own form of “immanentizing the eschaton” if they mistake the genuinely admirable, albeit limited, order they have been able to achieve for the universal goal of all history and all mankind. That error, I suggest, lies behind the utopian adventurism of America’s recent foreign policy, in both its neoconservative and liberal Wilsonian forms. Voegelin’s analysis of “Gnosticism” can help us to understand better the nature of that tendency in Western foreign policy. (We can still use his term “Gnostic” while acknowledging, as he did, its questionable historical connection to ancient Gnosticism.)

Voegelin was no pacifist—for instance, he was committed to the idea that the West had a responsibility to militarily resist the expansive barbarism of the Soviet Union. Yet it is unlikely that he would have had any patience for the utopian Western triumphalism often exhibited by neoconservatives and Wilsonians.

What Voegelin called “the Gnostic personality” has great difficulty accepting that the impermanence of temporal existence is inherent in its nature. Therefore, as he wrote, the Gnostic seeks to freeze “history into an everlasting final realm on this earth.” The common view that any nation not embracing some form of liberal, constitutional democracy is in need of Western re-education, by force if necessary, and the consequent fixation on installing such regimes wherever possible, displays a faith that we in the West have achieved the pinnacle of social arrangements and should “freeze history.”

One of the chief vices Voegelin ascribes to Gnosticism is the will to live in a dream world and the reluctance to allow reality to intrude upon the dream. During the many years of chaotic violence following America’s “victory” in Iraq, the difficulty of continuously evading the facts on the ground compelled some who supported the war to admit that things did not proceed as envisioned in their prewar fantasy. Even so, few of these reluctant realists are moved to concede that launching the war was a mistake. A popular dodge they engage in is to ask critics, “So, you’d prefer it if Hussein was still in power and still oppressing the Iraqi people?”

That riposte assumes that, if a goal is laudable when evaluated in a vacuum from which contraindications have been eliminated, then pursuing it is fully justified. Unfortunately, as the post-invasion years in Iraq demonstrate, it was quite possible to depose Hussein while creating greater misfortunes for Iraqis. The Western moral tradition developed primarily by the Greek philosophers and Christian theologians denied that a claim of good intentions was a sufficient defense of the morality of an action. This tradition held that anyone seeking to pursue the good was obligated to go further, giving as much prudent consideration to the likely ramifications of a choice as circumstances allowed.

But in the Gnostic dream world, the question of whether the supposed beneficiaries of one’s virtuously motivated crusade realistically can be expected to gain or lose as a result of it is dismissed as an unseemly compromise with reality. What matters to the Gnostic revolutionary is that his scheme intends a worthy outcome; that alone justifies undertaking it. Such contempt for attending to the messy and complex circumstances of the real world is exemplified in the account of George W. Bush’s foreign policy that one of his advisers provided to a puzzled journalist, Ron Suskind, who described their encounter in the New York Times Magazine:

The aide said that guys like me were ‘in what we call the reality-based community,’ which he defined as people who ‘believe that solutions emerge from your judicious study of discernible reality.’ I nodded and murmured something about enlightenment principles and empiricism. He cut me off. ‘That’s not the way the world really works anymore,’ he continued. ‘We’re an empire now, and when we act, we create our own reality. And while you’re studying that reality—judiciously, as you will—we’ll act again, creating other new realities, which you can study too, and that’s how things will sort out. We’re history’s actors… and you, all of you, will be left to just study what we do.’

As it became obvious that their Iraq adventure was not living up to its promise of rapidly and almost without cost producing a stable, democratic, and pro-Western regime in the midst of the Arab world, supporters of the war were loath to entertain the possibility that its failure was due to their unrealistic understanding of the situation. Instead, they often sought to place the blame on the shortcomings of those they nobly had attempted to rescue, namely, the people of Iraq. Voegelin had noted this Gnostic tendency several decades earlier: “The gap between intended and real effect will be imputed not to the Gnostic immorality of ignoring the structure of reality but to the immorality of some other person or society that does not behave as it should according to the dream conception of cause and effect.”

Much more could be said concerning the relevance of Voegelin’s political philosophy to our recent foreign policy, but the brief hints offered above should be enough to persuade those open to such realistic analysis to read The New Science of Politics and draw further conclusions for themselves.

 

While it is true that Voegelin resisted being assigned to any ideological pigeonhole, there are important aspects of his thought that are conservative in nature. He rejected the notion, sometimes present in romantic conservatism, that the solution to our present troubles can lie in the recreation of some past state of affairs: he was too keenly aware that history moves ever onward, and the past is irretrievably behind us, to fall prey to what we might call “nostalgic utopianism.” Nevertheless, he held that our traditions must be studied closely and adequately understood because, while it is nonsensical to try to duplicate the past, still it is only by understanding the insights achieved by our forebears that we can move forward with any hope of a happy outcome.

While historical circumstances never repeat, Voegelin understood human nature and its relation to the eternal to create a similar ground in all times and places, an insight that surely is at the core of any genuine conservatism. Thus, it is our task to recreate, in our own minds, the brilliant advances in understanding the human condition that were achieved by such figures as Plato, Aristotle, Augustine, and Aquinas. Those advances serve as the foundation for our efforts to respond adequately to the novel conditions of our time. Voegelin’s message is one that any thoughtful conservative must try heed.

Gene Callahan teaches economics at SUNY Purchase and is the author of Oakeshott on Rome and America.

samedi, 16 février 2013

Il totalitarismo della “società aperta” antitradizionale

Nico di Ferro - Centro Studi Aurhelio:

Il totalitarismo della “società aperta” antitradizionale

 
 
Tratto da: Aurhelio
 
Ha suscitato una grande indignazione, nel settembre del 2012, l’adozione della risoluzione da parte del Consiglio ONU Per i Diritti Umani che introduceva per la prima volta in materia di diritti umani il concetto di “valori tradizionali”. La risoluzione, che ha visto il voto contrario dei paesi dell’Unione europea insieme agli Stati Uniti, è stata criticata per il fatto di voler relativizzare i diritti umani alla luce delle tradizioni locali, minando la loro presupposta universalità.
 
Tale atteggiamento non deve stupire se pensiamo che negli ultimi anni in Occidente è stata scatenata una vera e propria guerra contro i residui della “società patriarcale”, contro gli “arcaismi medievali”  che secondo l’élite democratica sono la radice di ogni male. Così, è diventata una moda combattere ogni tipo di “fobia” sociale. L’eradicazione di questi “vizi” sociali è diventata la preoccupazione principale della cosiddetta “società civile” che, alla pari dei commissari politici sovietici, i politruki, vigilano attentamente con la matita in mano sulla “correttezza politica” del “popolo affaccendato”. Questi nuovi politruki democratici sono convinti che eliminando qualsiasi tipo di “stereotipo” si raggiungerà l’uguaglianza assoluta in una società, che secondo la loro visione, dovrebbe essere costituita da persone guidate esclusivamente dalla ragione (senza emozioni, senza tradizioni, senza valori, senza pregiudizi,…) cosa che porterà più felicità e libertà per tutti. Questa è la loro definizione di “società aperta”, un modello sociale utopico che ricalca le orme del dogmatismo marxista sebbene apparentemente sembra dissociarsene.
 
“Nessuno può istituire un criterio della moralità”, dicono loro, allora, ci domandiamo noi, qual è la fonte del “bene” che loro pretendono di promuovere? Se dobbiamo proprio lottare contro la tradizione e contro gli “elementi arcaici”, che rappresentano dei criteri per la delimitazione del “bene” dal “male” in qualsiasi società, allora che cosa e chi ci può dire cosa sia ammesso e cosa sia vietato? Chi stabilisce, de facto, dove finisce la mia libertà e inizia quella di un altro individuo, la libertà di una comunità o di uno Stato? La Costituzione? La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o altri documenti internazionali? Non ci dimentichiamo che questi documenti appartengono pur sempre alla dimensione temporale e che possono essere sottoposti alla revisione in qualsiasi momento, oppure, in ultima analisi, essere addirittura denunciati, senza che rappresentino un’autorità di per se. Lo stesso concetto di “diritti dell’uomo” appartiene a un dato contesto storico ristretto e non è il risultato di una “evoluzione” o di un “progresso” dell’umanità. I presupposti culturali secolarizzati che stanno alla base della Dichiarazione del 1789 possono legittimamente essere assenti in altre culture. Se per esempio la concezione dell’Universo nata dalla Rivoluzione francese mette al centro l’individuo, in altre culture è la comunità che viene privilegiata.[1]
 
Antoine de Saint-Exupery nella sua opera “Cittadella” si domanda: <<Dove inizia e dove termina la schiavitù? Dove inizia e dove termina l’universale? Dove iniziano i diritti dell’uomo? Perché io conosco i diritti del tempio che dà un significato alle pietre e i diritti dell’impero che dà un significato agli uomini e i diritti del poema che dà un significato alle parole. Ma non riconosco i diritti delle pietre ai danni del tempio né i diritti delle parole ai danni del poema né i diritti dell’uomo ai danni dell’impero>> [2]

Tutto ciò dimostra come la presupposta universalità dei diritti dell’uomo è lungi dall’essere realmente universale. Al tempo stesso però nemmeno il consenso o il contratto sociale possono essere una fonte per delimitare il “bene”, perché possono essere nella stessa misura una fonte per il “male”.

Il bene e il male hanno sempre avuto radici metafisiche, non materiali. Da qui deriva l’incapacità delle ideologie moderne, nate dal materialismo e dal razionalismo illuminista, di rispondere alle domande fondamentali dell’umanità. La ragione individuale e collettiva sono troppo limitate in esperienze per poter offrire delle risposte a delle domande così complesse. La Tradizione, invece, è stata quella che ha risposto a tutte le domande fondamentali dell’umanità.
 
Per Tradizione, si intende un’eredità  la cui origine non è umana, ma essenzialmente spirituale e che ha assunto diverse forme asseconda dei popoli. Essa è qualcosa di metastorico e, in pari tempo, di dinamico, è una forza (…) che agisce lungo le generazioni in continuità di spirito e di ispirazione, attraverso istituzioni, leggi, ordinamenti che possono anche presentare una notevole varietà e diversità.[3] È la Tradizione stessa quindi che istituisce il criterio di delimitazione tra il bene e il male. La Modernità invece è stata quella che ha trasposto la Tradizione in norme giuridiche.
 
Oggi, assistiamo nella giurisprudenza al tentativo di instaurare l’assurdo e l’inimmaginabile: la purificazione della norma giuridica da ogni tradizione e da ogni “arcaismo” in modo che la legge divenga uno strumento arbitrario, un meccanismo morto, “una dichiarazione di intenti” oppure un manifesto politico-ideologico (come ad esempio la  Legge sulle “pari opportunità”) che servirebbe come strumento di repressione contro coloro che si oppongono all’ideologia “ufficiale” ed “assoluta”.[4] Insomma non sono mai le idee a doversi adattare alla realtà, è la realtà che deve piegarsi agli schemi dell’ideologia. Senza orma di dubbio, con l’eliminazione degli “arcaismi” dalle leggi, si presuppone anche l’eliminazione dalla società degli individui che si fanno promotori di questi “arcaismi” dietro la motivazione che ostacolerebbero “l’ascensione gloriosa della società aperta”.
 
Una fobia viene sostituita da un’altra fobia, una discriminazione prende il posto di un’altra discriminazione. L’equazione non cambia, sono solo i termini dell’equazione che cambiano. Ecco perché non ci si deve stupire quando si fa ricorso alla censura, alla violenza simbolica e fisica in nome della ”liberté, egalité, fraternité”.
 
Nico di Ferro

[1] “Riflessioni sulla cultura dei diritti dell’uomo”, Luigi Arnaboldi, http://www.interculture-italia.it.
[2] Antoine de Sainte-Exupery, Cittadella, ed. Borla, Roma, 1999, pg. 195-196.
[3] Il Mondo della Tradizione, centro studi Raido, Roma, pg. 23.
[4] Octavian Racu, www.octavianracu.wordpress.com.

vendredi, 15 février 2013

Denis de Rougemont und die totalitäre Moderne

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Denis de Rougemont und die totalitäre Moderne

Felix Menzel

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Vor wenigen Tagen war der 80. Jahrestag der Machtergreifung Hitlers. Nicht deswegen, sondern aus grundsätzlichem Interesse habe ich gestern Denis de Rougemonts Journal aus Deutschland 1935-1936 gelesen. Rougement, der aus der Schweiz stammt und hauptsächlich in Frankreich gewirkt hat, kam kurz nach der Machtergreifung für ein Jahr nach Deutschland, um an der Universität Frankfurt als Lektor zu arbeiten. Er nahm dieses Angebot zum einen aus Geldnot an, zum anderen kann man ihm aber auch aufgrund seiner Germanophilie glauben, daß er den nationalsozialistischen Alltag aus der Nähe beobachten wollte.

Was sah nun Rougement, der Anfang der 30er-Jahre zu den führenden Vertretern der französischen Personalisten zählte und später der einflußreichste Vordenker eines »Europas der Regionen« werden sollte?

Rougement erkennt sehr schnell, daß Hitlers Nationalsozialismus ein »verkleideter Bolschewismus« ist. Das Bürgertum halte sich mit Widerstand jedoch aufgrund von Feigheit und der Vermutung, der braune Bolschewismus sei weniger schlimm als der rote zurück. Rougement betont zu dieser Passivität: »Es hat keine Massaker gegeben. Alles geschieht auf fortschrittliche und ordentliche Weise.«

Das Bürgertum verändere sich dennoch. Es verliere seinen Bürgersinn:

Es gibt in Europa keine Klasse, die dem politischen Leben teilnahmsloser, dem Staat passiver und den vollendeten Tatsachen – und folglich immer den von anderen vollendeten Tatsachen – feiger gegenübersteht, eine Klasse, der, um es vollends zu sagen, jeglicher Bürgersinn fehlt.

Rougement bezeichnet Hilters Dressur der Deutschen als gegen jede Tradition gerichtet, als »antideutsch« und jakobinisch. Er erkennt damit den wesentlichen Punkt: Nicht die Deutschen sind im innersten Kern schon immer heimliche Nazis gewesen, sondern die Moderne ist an sich totalitär. Seit 1789 entfaltet sie diesen Totalitarismus. Im Nationalsozialismus und Sowjetbolschewismus nimmt sie lediglich die grausamsten Züge an.

Es ist die Diktatur der Rüpel und der Dummköpfe.

An der Universität führt Rougement 1935/36 viele Gespräche mit der Intelligenz und fragt immer wieder, warum sie denn dagegen nichts unternimmt. Die Antwort klingt genauso wie auch heute noch:

»Man kann nichts tun. Und außerdem bin ich bereits zu alt.« – »Sie zu alt? Wie alt sind Sie?« – »Siebenundzwanzig. Aber der Führer hat es neulich selbst gesagt: Die Menschen, die 1933 älter als zwanzig waren, werden die neue Zeit niemals verstehen.«

Neben der Illustration der bürgerlichen Feigheit ist das Journal insbesondere aufgrund eines wiedergegebenen Dialogs über »Krieg und Kampf« lesenswert. Rougement fragt hartnäckig nach, warum die Deutschen alles in Kriegsmetaphern kleiden müssen. Bemerkenswerterweise unterstellt er ihnen nicht einmal, einen Krieg führen zu wollen. Vielmehr meint er, sie hätten sogar Angst vor einem Krieg. Warum aber müssen die Deutschen selbst »Krieg gegen die Kälte« führen?

Rougement entwickelt aus dieser Frage eine Theorie über »Vielfalt und schöpferischen Kampf«. Ich zitiere kurz die wichtigsten Passagen:

Wir Personalisten haben ein zu großes Bedürfnis nach natürlichen Unterschieden und Gegensätzen, um sie vernichten zu wollen. Wir sind Föderalisten, das heißt, wir wollen, daß sich alle Unterschiede durch ihre Gegensätzlichkeit gegenseitig begeistern und fruchtbare Spannungen schaffen. Zivilisation und Kultur entstehen durch Spannungen, leben von Spannungen dieser Art. (…)

Wir wollen einen schöpferischen Kampf, nicht einen zerstörerischen. Darin besteht die ganze Anstrengung der Zivilisation: Die notwendigen Konflikte fruchtbar zu machen. (…) Die Kämpfe müssen zu geistigen Kämpfen werden, in dem Sinne, in dem Rimbaud gesagt hat: »Der geistige Kampf ist ebenso brutal wie eine Menschenschlacht.«

Marcel de Corte : De la dissociété

Marcel de Corte : De la dissociété

Ex: http://walfroy.over-blog.com/

decorte.jpgMarcel de Corte est un auteur inconnu du grand public même cultivé et cependant, il développe une pensée philosophique exceptionnelle du point de vue de la crise actuelle de l’intelligence et de la société.

Il est né le 20 avril 1905 dans le Brabant ; à l’âge de 23 ans, il est reçu docteur en philosophie et lettres  à Bruxelles puis  professeur à l’Université de Louvain en ayant tout au long de sa carrière été honoré d’une pluie de titres, tant universitaires que civils.

Son œuvre est des plus importantes tant en livres qu’en articles de revue ( il a collaboré notamment  au Courrier de Rome, à l’Ordre français et à Itinéraires…) où il a analysé année par année la décadence croissante de l’intelligence avec ses répercussions immédiates dans l’ordre social et malheureusement dans l’Eglise.

 

Ses livres les plus connus sont l’ «Essai sur la crise d’une Civilisation », l’ « Incarnation de l’Homme » et l’ « Intelligence en péril de mort »

Le petit livre ici analysé est une suite de deux articles parus dans l’Ordre français et récemment réédité en un seul volume, et s’intitule « de la dissociété »

Dans  cet ouvrage, Marcel  de Corte nous fait une synthèse de la décadence de la société qui est passée de la société fondée sur des principes naturels réalistes à la dissociété ou le contraire d’une société qui ose revendiquer comme postulat le fait de refuser la sagesse des siècles qu’elle soit antique ou, et  a fortiori, chrétienne.

 

Deux idées : qu’est ce qu’une société et comment appeler la structure actuelle ?

A-  De la société

L’auteur décrit la société naturelle telle que la voix des siècles l’a composée c’est à  dire la tripartition sociale, elle «  répond exactement aux trois activités propres à l’intelligence humaine et irréductibles les unes aux autres en raison de la spécificité de leurs objets respectifs : contempler, agir, faire. »[1]. Ainsi, « telles sont les activités propres à l’homme en tant qu’homme : celle de l’intelligence dont l’objet est le vrai ; celle de l’intelligence et de la volonté conjuguées dont l’objet est le bien de la Cité, sans lequel aucun autre bien humain, si haut soit-il, ne peut exister ; celle de l’intelligence et de la volonté réunies, alliées à la main ou à ses prolongements mécaniques et dont l’objet est l’utile. Telle est aussi leur hiérarchie : au sommet l’activité intellectuelle qui porte sur l’universalité de l’être et du vrai ; au milieu, l’activité intelligente et volontaire dont la fin ultime qu’elle atteint réellement ici-bas, au cours de notre existence terrestre, ne peut être en plénitude que le bien du tout social qui s’impose à elle comme supérieure à n’importe quel bien particulier ; à la base, l’activité intelligente, volontaire et manuelle dont la fin est la satisfaction des besoins matériels inhérents à la vie humaine, et qui se trouvent ainsi radicalement particularisés et individualisés : l’individu en chair et en os peut seul consommer les utilités économiques nécessaires à sa substance. »[2]

Cette description de la société naturelle a été respectée dans quasiment toutes les sociétés humaines et en France par les trois Ordres : Clergé, Noblesse, Tiers-Etat jusqu’à la révolution.

Bien évidemment, une telle organisation de la structure sociale ne peut être le fait de la volonté individuelle, elle suppose et même impose la prééminence de la famille comme entité de base de la société et la présence d’un chef « régulateur » [3], le roi.

 

 De plus, au contraire des sociétés antiques où l’individu se dissolvait dans la Cité, la Chrétienté médiévale a réussi l’harmonie de la nature et de la grâce malgré, bien sûr, toutes les vicissitudes de l’histoire humaine car « le Moyen-Âge a pu connaître d’innombrables conflits entre les divers ordres de la société, il n’a jamais succombé à la Subversion. Jamais le Christianisme médiéval n’a mis en doute la nature sociale de l’homme. »[4] La nature sociale de l’homme fait que celui-ci est un être obligé : « L’obligation envers autrui qui se retrouve en toute société réelle est un fait de nature qui tisse entre les membres d’une communauté, de bas en haut, et de haut en bas, une série de devoirs réciproques. Le serf nourrit le seigneur, mais le seigneur est à son tour l’obligé du serf et lui doit aide et protection. Le serf et le seigneur doivent assurer la subsistance du curé et la splendeur du culte rendu à Dieu, mais le curé leur doit l’orthodoxie de la foi et la validité des sacrements. »[5]

 

L’homme d’aujourd’hui se demande alors ce qui peut assurer une telle stabilité de société sans crise sociale profonde, au moins en ce qui concerne les fondements de cette période ; et bien c’est, comme le dit Jules Monnerot cité par l’auteur, que « avant le XVIIIe siècle, l’idée de société dans la pensée européenne ne se distingue pas de l’idée de société acceptée. L’état normal d’une société est l’acceptation par chaque homme de la place où Dieu l’a mis. »[6]

B-Vers la Dissociété


La dissociété va trouver sa source et sa continuité dans les trois R : Renaissance, Réforme, Révolution française et paradoxalement est d’inspiration chrétienne car ne pouvant se concevoir qu’à partir d’une société chrétienne. En effet, le retour de l’Antiquité à partir de la Renaissance (ou selon  l’expression lumineuse de Chesterton, à partir de la Rechute ) n’est pas un retour à l’Antiquité mais surtout une décadence du Christianisme : « Nous n’hésitons pas pour notre part à en trouver la cause dans le christianisme, non point dans le christianisme pris en tant que vecteur surnaturel qui joint les âmes à Dieu, ni dans l’armature sociale de l’Eglise, ni dans ses dogmes, sa liturgie, ses sacrements, mais dans le christianisme désurnaturalisé, sécularisé, humanisé, privé de son foyer divin de gravitation. (…) On connaît la formule : au théocentrisme se substitue l’anthropocentrisme. Au Dieu fait homme, lentement, implacablement, fait place l’homme qui se fait Dieu, non pas par la médiation du Christ et de l’Eglise au niveau surnaturel et de l’éternité, mais par les seules forces de sa propre excellence au niveau de sa vie dans le temps. Excédé d ‘être une créature, l’homme se veut créateur. »[7]

 

L’ordre naturel de l’esprit humain va se renverser et donner la priorité, non plus à la contemplation du vrai, mais à la primauté de l’utile et de la technique telle qu’elle va se développer de façon effrayante dans les pays sous domination protestante et amener progressivement le culte de l’individu roi. Ainsi, « l’avènement de l’individualisme, c’est le commencement de la dislocation de la société et des trois ordres dont sa nature est composée. Le clergé se voit désormais concurrencé sinon éliminé, par l’avènement d’une caste nouvelle : l’intelligentzia. (…)La noblesse chargée de maintenir, de défendre et de protéger le bien commun de la société voit son rôle décliner. »[8]  « C’est la dévaluation des deux fonctions de l’intelligence, la spéculation et la pratique, c’est l’invasion de la fonction poétique, fabricatrice, ouvrière, technique, qui occupe désormais tout l’espace spirituel ainsi ravagé, et du même coup, l’absolue suprématie du privé sur le social : chacun pour soi dans sa relation à Dieu, chacun pour soi dans sa relation à la Cité. »[9]

 

Le travail et la technique devenant le propre de l’Homme, la Société se démocratise inéluctablement car tous ont le même rôle dans la société : nous arrivons assez rapidement à la termitière qui est la solution logique de la dissociété. A l’organisation sociale naturelle de la Cité se  met inexorablement en place la socialisation forcenée  de celle-ci où le Tout devient obligatoirement le nouveau dieu « Il n’est pas étonnant de constater que le collectif, sous quelque forme que ce soit : peuple, prolétariat, classe, race, humanité… dont les religions socialistes de notre temps ont hérité d’un christianisme abâtardi, soit devenu l’objet de la vénération de l’homme moderne. (…) En vertu de sa nature sociale inextirpable, l'homme ne peut être radicalement égoïste. Il doit feindre la sociabilité. Le collectif devient alors l’ersatz de la Cité, le succédané du Bien commun transcendant aux biens particuliers. »[10]

 

Nous voici donc arrivés à notre époque moderne sans Dieu, sans société digne de ce nom, sans régulateur, sans hiérarchie naturelle fondée sur la vertu, où la seule différence acceptée repose sur les capacités économiques de chaque individu qui doit se fondre dans le grand Tout social en attendant le Tout mondial. Le plus désolant est que l’Eglise qui à l’époque des Barbares assura le retour de la Civilisation chrétienne, ne souhaite plus sauvegarder les principes naturels et surnaturels  de la Vérité religieuse, morale et politique. « Comme il est trop manifeste, l’Eglise est en train de passer avec armes et bagages à la subversion. Elle a renoncé à faire sortir une vraie société des ruines de l’ancienne en se fondant sur la nature sociale de l’être humain, comme elle le fit au temps jadis de sa vigueur. Elle bascule du coté du socialisme et de l‘Etat mondial que celui-ci veut instaurer pour universaliser la maladie qu’il charrie ; (…) elle utilise les dernières forces de sa catholicité, en alliance avec un œcuménisme et un syncrétisme douteux, pour confondre son destin avec la puissance des ténèbres de sa propre caricature. »[11]

 

Que faire, face à une telle décadence de toute la nature religieuse, morale, sociale, politique de l’homme moderne ? Restaurer et préserver notre propre personne, s’il en est besoin, nos familles et si cela est possible, nos liens sociaux proches dans la véritable pensée naturelle et surnaturelle de l’homme et de l’organisation sociale ; diffuser et faire connaître la seule Vérité sociale qui ne pourra triompher que par la grâce de Dieu et par le retour de l’Eglise, gardienne des vérités éternelles, à sa Tradition. Alors, le retour du régulateur naturel de la Société restaurée sera la pierre de voûte d’un nouvel édifice social chrétien.

                                                                                   


[1] CORTE (de ) Marcel, De la dissociété, Edition Remi Perrin, 2002, page 7

[2] ibid. pp. 8 et 9

[3] Ibid p. 14

[4] Ibid p. 25

[5] ibid. pp. 26 et 28

[6] Ibid p. 25

[7] Ibid, pp.30-31

[8]  Ibid . p.38

[9]  Ibid . p.41

[10]  Ibid. pp.64 et 65

[11]  Ibid. p.73

L’IDEOLOGIA GIUSTIZIALISTA CONTRO LA VERA GIUSTIZIA

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L’IDEOLOGIA GIUSTIZIALISTA CONTRO LA VERA GIUSTIZIA

LA LEZIONE DI MARCEL DE CORTE

di Piero Vassallo

  Ex: http://www.riscossacristiana.it/

Dal gorgo oscuro, in cui Armando Plebe e i suoi ectoplasmi neodestri avevano immerso l'ingente e preziosa eredità del Novecento antimoderno, il sagace e instancabile Rodolfo Gordini ha salvato la memoria del filosofo belga Marcel de Corte (1905-1994) geniale interprete dell'aristotelismo cristiano.

 

Durante gli anni di piombo, De Corte, insieme con Ettore Paratore, Marino Gentile, Nicola Petruzzellis, Thomas Molnar, Vintila Horia, Alexandr Maximov, Maurice Bardèche, Francesco Pallottino, Ugo Spirito, Giano Accame, Giuseppe Sermonti Augusto Del Noce, Fausto Gianfranceschi, Mario Attilio Levi, Francesco Grisi, Marco Tangheroni, Roberto De Mattei, Cristina D'Ancona fu impavido protagonista degli Incontri romani della cultura refrattaria, splendidamente organizzati, da Giovanni Volpe, in un assediato e silenziato margine.

Risultato del salvataggio compiuto da Gordini è la splendida riflessione decorteiana sulla giustizia, un'opera idealmente dedicata agli orfani della cultura di destra, pubblicata da Cantagalli editore anticonformista di lungo corso in Siena.

Con scelta felice, Gordini ha affidato a un insigne filosofo del diritto, Danilo Castellano, il compito di selezionare e commentare i saggi controcorrente dell'insigne studioso belga.

Castellano, che negli anni  settanta si laureò discutendo, con Augusto Del Noce, una tesi sulla filosofia di De Corte (tesi che fu immediatamente pubblicata da Pucci Cipriani, editore controrivoluzionario in Firenze) è, infatti, l'esponente di punta della scuola di pensiero, costituita da cattolici intransigenti per la difesa e la restaurazione del diritto naturale, oggi tenuto sotto schiaffo dai testimoni cadaverici dei sogni mummificati dalla chiacchiera laica intorno alla giustizia democratica e progressiva.

Castellano rammenta, infatti, che "La polemica di De Corte è costruttiva sua perché ha per presupposto la metafisica della realtà sia perché è propriamente una denuncia delle assurdità della Modernità". E puntualmente cita i più vistosi controsensi: "La storia non ha, infatti, una direzione obbligata (la libertà dell'uomo sarebbe, in questo caso, un flatus vocis) l'evoluzionismo è una credenza ingenua (l'uomo, per esempio, continua ad essere uomo perché nato dall'uomo), la scienza non può avere per oggetto il proprio metodo anche se proposto e usato con rigore (la logica, infatti, non è fondativa ma dimostrativa) la filosofia non è un esercizio intellettuale ma apprensione di ciò che è in conformità alla sua essenza e al suo fine".

Castellano osa aggredire il feticcio della sovranità popolare, un prodotto della elucubrazione irrealistica, che capovolge le verità stabilite dal senso comune e impone leggi conformi all'assolutismo democratico: "L'elaborazione inflazionata di teorie sulla e della giustizia nel nostro tempo rappresenta la prova della riduzione della giustizia a strumento usato contro la vera giustizia. Spesso, infatti la giustizia ai nostri tempi è usata contro la giustizia, perché anziché essere cercata e individuata viene invocata ed elaborata sulla base e per l'applicazione di una teoria".

In anni avvelenati dalle ideologia a trazione soggettivistica, De Corte ha osato rivendicare i principi del realismo filosofico. Ha stabilito, infatti, che "la società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà".

Di qui la puntuale e drastica confutazione delle ideologie che fondano il diritto sulla volontà e sulle passioni dei singoli: "La giustizia istituisce tra uomo e uomo una relazione sociale caratterizzata da una realtà per se stessa indipendente dalle passioni, sempre soggettive".

Fonte della legge non è il desiderio del soggetto fantasticante ma la società naturale, la famiglia, da cui il singolo dipende: "La società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà".

Separate dal loro naturale fondamento, le società ispirate alle ideologie sono pseudo-comunità, "entità prive di esistenza reale i cui spettri dissimulano, per coloro che le immaginano, l'esistenza terribilmente reale, ma inavvertita delle loro vittime, di protesi più vive in apparenza, ma più costrittive quanto alle relazioni naturali con gli altri nelle varie società cui apparteniamo".

La società fondata dall'ideologia promuove la guerra contro la legge naturale ossia l'eversione e la dissoluzione della famiglia, onde l'imposizione di leggi infami e grottesche a vantaggio dell'infedeltà coniugale, della sterilità, della rivolta dei figli.

De Corte annuncia il destino di una società fondata da utopisti e demagoghi sul rifiuto di obbedire alla legge naturale: "la rivoluzione distruttrice di tutte le assise sociali naturali arriva rapidamente al suo apogeo, la dissocietà lascia il posto ad una ricostruzione della vita secondo lo schema ideologico; questa società nuova, privata dei suoi fondamenti di giustizia, può stare in equilibrio solo grazie a ciò che Nietzsche i ganci d'acciaio di uno Stato senza società".

Il fantasma della sovranità popolare abolisce la famiglia per istituire una società dominata da deformi controfigure dei genitori.

Generata dalla dissocietà moderna, la democrazia assoluta si rovescia in oligarchia e mette in scena i promotori dell'infelicità generale: il banchiere vampiresco, il parassita politicante, topo nel formaggio, il gabelliere sadico, il ministro sproloquiante, il pubblico ministero fustigante, il giornalista comiziante arroventato, la meretrice filosofante,  l'assistente sociale dissociante, la levatrice mortuaria, lo psichiatra sfrenante, il pederasta etico, il teologo ateo.

Il rito del suffragio universale uguale per tutti è una parentesi: "Non c'è uguaglianza tra il popolo e i suoi rappresentanti e ministri. Non c'è uguaglianza tra la maggioranza e la minoranza. La democrazia è in realtà una aristocrazia camuffata. ... Sotto il presunto regno del Numero e della Massa si nasconde il potere di un'oligarchia in cui si combinano, in misura variabile, la potenza del Denaro e quella del Sofisma, che hanno per scopo di far prendere ai cittadini imbrogliati lucciole per lanterne".

De Corte sostiene appunto che la democrazia moderna prospera su un ordine sociale alterato dalla falsa giustizia: "La rivoluzione conserva come una mummia la pseudo-società da essa generata".

In ultima analisi, si dimostra la vanità e la sterilità della politica nutrita dall'illusione di restaurare l'ordine usando gli strumenti consegnati dal potere democratico e rinunciando all'azione intesa alla bonifica del pensiero moderno.

L'ordine sociale, infatti, può essere restaurato solo dalla politica al seguito dell'azione propriamente missionaria svolta da una società di pensiero cristianamente ispirata e culturalmente attrezzata e perciò capace di contrastare efficacemente il Sofisma.

Già esistente ma divisa da infantili gelosie, tale società dovrebbe aderire alle ragioni dell'unità ed agire, per quanto oggi possibile, imitando l'esempio dei missionari che hanno convertito l'Europa pagana.

Le cocenti delusioni procurate dai reiterati e umilianti fallimenti della destra italiana dimostrano, ad ogni modo, l'illusorietà della politica pura, cioè priva del sostegno di un adeguato pensiero.

La lettura del testo decorteiani è pertanto suggerita al vasto popolo dei delusi in sosta dolente nel deserto prodotto dai discepoli politicanti di Plebe e dai successori di Gaucci. Un vuoto desolante, che solo la fedeltà al diritto naturale e alla sua fonte religiosa potrebbe finalmente colmare.

jeudi, 14 février 2013

Cioran e la dottrina Madhyamaka

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Cioran e la dottrina Madhyamaka

Giovanni PROVE

Ex: http://welanschaungblog.blogspot.it/

 
Chi era Emil Cioran?
 
Spesso quando menziono questo scrittore sono molti quelli che subito storcono il naso, considerando il rumeno un semplice filosofo depresso e nichilista.
Errato, classica osservazione di chi ha capito poco della "filosofia" frammentaria di Emil Cioran.
 
Ciò che ha rappresentato questo grandissimo scrittore non può certamente ridursi alla figura dell'uomo sfortunato che disprezzava la vita in tutte le sue forme.
Ritengo Cioran un personaggio che fu follemente innamorato della vita, e mi vengono in mente delle parole che se lette attentamente dovrebbero già essere una risposta verso coloro i quali non riescono a guardare oltre le apparenze di una copertina triste o di un' imprecazione in stati di malessere interiore.
 
"Il Buddha disse: "Che cos'è che si chiama senso primo della Coproduzione condizionata? Perché esiste quello, esiste questo ... Condizionate dall'ignoranza compaiono i coefficienti karmici; condizionata dai coefficienti compare la coscienza; condizionati dalla coscienza compaiono nome e forma; condizionati da nome e forma compaiono i sei sensi; condizionati dai sei sensi compare il contatto; condizionata dal contatto compare la sensazione; condizionata dalla sensazione compare la "brama"; condizionata dalla brama compare l'attaccamento; condizionata dall'attaccamento compare l'esistenza; condizionata dall'esistenza compare la nascita; condizionate dalla nascita compaiono vecchiaia e morte, tristezza e sofferenza. È ciò che si chiama il grande aggregato intero dei dolori. È tale ciò che si chiama il senso primo della Coproduzione condizionata"
 
Spesso Cioran affermava di vivere contro l'evidenza e sottolineava come "la lucidità completa è il nulla..."
Ma cosa intendeva esattamente con questo nulla?
Concretamente la stessa identica assenza di cui parlano i mistici, con la differenza che lui raggiunto questo tipo di consapevolezza si fece venire emicranie lancinanti che si trascinò dietro per tutta la vita.
 
Non si può non notare (e non solamente in Cioran, ma in molteplici scrittori occidentali) come il concetto di “vuoto" sia percepito spesso in maniera totalmente differente tra occidente ed oriente.
Leggendo attentamente i Quaderni personali del rumeno, ho notato come lo stesso Cioran si rese conto di ciò nel momento in cui si accostò alla dottrina dello Śūnyatā.
Egli notò che anzichè una sensazione di mancanza come lui aveva sempre percepito, essi trovavano un senso di pienezza attraverso l'assenza.
Consideravano la vacuità uno strumento di salvezza, una via, una guarigione che toglieva qualsiasi proprietà all'essere.
Ciò che sin da giovanissimo (nella scrittura di Al Culmine Della Disperazione era poco più che vent'enne) fu per lui causa di vertigine e negatività lancinante, fu invece dall'altra parte del pianeta una sorta di avvio alla liberazione.
 
Citava frequentemente la scuola tardo buddista del Madhyamaka per la liberazione della mente e del cuore e stendeva elogi per Nagarjuna che a suo dire annientava ad uno ad uno tutti i filosofi esistenti creando una sorta di luce, di illuminazione.
Egli dedicò l'intera esistenza alla frantumazione dell'Io e lo fece attraverso l'atto dello scrivere, provò a liberarsi di ogni vincolo, a distaccarsi definitivamente da tutto per trionfare sul mondo e la tematica della trascendenza attraversò per intero tutte le sue opere.
 
Tra estenuanti privazioni, tra miseria e Dio alla ricerca dell'insondabile dissolutezza umana, egli raggiunse a modo suo un' estasi al margine degli atti, senza riuscire però mai a liberarsi completamente dell'ego, rendendosi conto allo stesso tempo che egli da occidentale, tale forma di pensiero estremista, tale estasi vuota e senza contenuto, l'aveva chiamata erroneamente nichilismo.
 
Snobbato da tutti gli ambienti accademici (per fortuna), Cioran fu uno dei più grandi svisceratori occidentali dell'io umano.
 
"Non siamo realmente noi stessi, se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, neppure con la nostra singolarità".

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