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mardi, 06 avril 2010

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris

Louis-Ferdinand Céline par Ioannis Mouhasiris

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

La corrispondenza tra Julius Evola e Gottfried Benn

Autore: Gianfranco de Turris

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

benn_mikroskop_dla.jpg L’accusa più scontata che l’intellighenzia ufficiale lancia contro Julius Evola è quella di essere un “nazista”, più che di essere stato (come innumerevoli altri uomini di cultura italiani) un “fascista”. Accusa ovvia e prevedibile, ma superficiale, che si basa su alcune apparenze: il suo retroterra culturale che si rifaceva ad una certa filosofia tedesca (a partire da Nietzsche); il suo essere caratterialmente più “tedesco” che “italiano, il suo interessamento tra le due guerre per far conoscere nel nostro Paese una certa cultura di lingua tedesce (da Bachofen a Spengler a Meyrink); i suoi contatti con la Germania del Terzo Reich; il suo aver ricordato come avesse conosciuto Himmler, visitato ai castelli dell’Ordine, tenuto conferenze in ambienti diversi come l’Herrenklub da un lato e le SS dall’altro; l’aver scritto articoli sulla politica estera, interna, culturale ed economica della Germania nazionalsocialista e sulle stesse SS (articoli di cui si ricordano gli eventuali apprezzamenti ma non le innumerevoli riserve critiche); e così via. Da tutto questo sfondo gli orecchianti derivano l’etichetta appunto di “nazista”: raramente si va alle fonti e si leggono nel loro complesso, a partire almeno dal 1930, con articoli e saggi su “Vita Nova” e “Nuova Antologia”, sino agli interventi su “Il Regime Fascista”, “Lo Stato” e “La Vita Italiana” del maggio-luglio 1943.

Visione aristocratica

Julius Evola non fu né “fascista” né “antifascista” (come già scriveva polemicamente sul suo quindicinale “La Torre” all’inizio del 1930), e di conseguenza non fu poi né “nazista” né “antinazista”: fu allora un incerto, un attendista, un ipocrista, un – come si suol dire – “pesce in barile”? No: del fascismo, e quindi del nazismo, accettò quelle idee, tesi, posizioni, atteggiamenti, scelte pratiche che si accordavano con quelle di una Destra Tradizionale e, poi, di quella che è stata definita la Rivoluzione Conservatrice tedesca. Una visione all’epoca ghibellina, imperiale, aristocratica che – se pur “utopica” – lo allontanava di certo dalla Weltanschauung populista “democratica” e “plebea” del fascismo ma soprattutto del nazismo, il cui materialismo biologico gli era del tutto insopportabile. Non si tratta di giustificazioni a posteriori, come qualcuno ha malignamente pensato leggendo le pagine de Il cammino del cinabro (1963), dato che Evola non è quello che oggi si suol dire un “pentito”: non ha mai rinnegato o respinto nulla del suo passato; anche se ha rettificato e preso le distanze da alcune sue posizioni giovanili (tutti dimenticano quel che scrisse circa Imperialismo pagano del 1928: “Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto”: non “pentimento” bensì logica maturazione di un uomo di pensiero). E che non si tratti di giustificazioni, lo stanno a dimostrare i documenti che nel corso degli anni, dopo la sua morte nel 1974, vengono lentamente alla luce dagli archivi pubblici e privati italiani e tedeschi. Da essi emerge un Julius Evola tutt’altro che “organico al regime” come addirittura si è scritto, ma nemmeno tanto marginale come si credeva: un saggista, giornalista, polemista, conferenziere che proseguì tra alti e bassi e che, dopo la crisi del 1930 con la chiusura de “La Torre” e la sua emarginazione, accettò di avvicinarsi a personaggi come Giovanni Preziosi, Roberto Farinacci, Italo Balbo, cioè si potrebbe dire i fascisti più “rivoluzionari” e “intransigenti”, per poter esprimere le proprie idee critiche al riparo di quelle nicchie, agendo come una specie di “quinta colonna” tradizionalista per tentare l’utopica impresa di “rettificare” in quella direzione il Regime: e così iniziò a scrivere a partire dal marzo 1931 su “La Vita Italiana”, dal gennaio 1933 su “Il Corriere Padano” e “Il Regine Fascista”, e quindi – uscito dal “ghetto” dei caduti in disgrazia – dall’aprile 1933 su “La Rassegna Italiana”, dal febbraio 1934 su l’autorevole “Lo Stato” e sul “Roma”, dal marzo 1934 su “Bibliografia Fascista”.

Sorvegliato speciale

Nonostante ciò Evola venne costantemente sorvegliato dalla polizia politica sia in Italia che all’estero: la corrispondenza controllata, gli amici che frequentava identificati (anche le amiche), le sue affermazioni in confidenza riferite, varie volte gli venne tolto il passaporto per le cose assai poco ortodosse che andava a dire sul fascismo e nazismo nelle sue conferenze in Germania e Austria. Come risulta dai documenti ormai pubblicati dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno del Reich e da quelli provenienti dall’Ahnenerbe, era appena tollerato: non era un vero nemico, ma le sue idee non venivano apprezzate dai vertici nazionalsocialisti, dato che era considerato un “romano reazionario” che aspirava a far “sollevare l’aristocrazia” e non accettava molto il riferimento tedesco a “sangue e suolo”.

Un’adesione molto critica, dunque, quella di Julius Evola tale da non poterlo semplicisticamente definire né un “fascista”, né un “nazista” di pieno diritto. Il suo punto di riferimento era invece la Konservative Revolution ed i suoi esponenti dell’epoca. Sentiamo le sue stesse parole tratte da Il cammino del cinabro: “Già l’edizione tedesca del mio Imperialismo pagano, dove le idee di base erano state staccate dai riferimenti italiani, aveva fatto conoscere il mio nome in Germania negli ambienti ora indicati. Nel 1934 feci il mio primo viaggio nel nord, per tenere una conferenza in una università di Berlino, una seconda conferenza a Brema nel quadro di un convegno internazionale di studi nordici (il secondo Nordisches Thing, promosso da Roselius) e, cosa più importante di tutto, un discorso per un gruppo ristretto dell’Herrenklub di Berlino, il circolo della nobiltà tedesca conservatrice la cui parte di rilievo nella politica tedesca più recente è ben nota. Qui trovai il mio ambiente naturale. Da allora, si stabilì una cordiale e feconda amicizia fra me e il presidente del circolo, barone Heinrich von Gleichen. Le idee da me difese trovarono un suolo adatto per essere comprese e valutate. E quella fu anche la base per una mia attività in Germania, in seguito ad una convergenza di interessi e finalità”.

Altri contatti e collegamenti in quest’area conservatrice furono con il filosofo austriaco Othmar Spann e il principe Karl Anton Rohan, sulla cui “Europaische Revue” Evola aveva esordito sin dal 1932 e su cui continuò a pubblicare sino al 1943. Si tenga conto dell’anno. Il 1934 fu importante: dal 2 febbraio usciva il quotidiano di Cremona “Il Regime Fascista” una pagina quindicinale intitolata con stile tipicamente evoliano “Diorama Filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista”, pubblicato con varia periodicità e interruzioni sino al 18 luglio 1943.

Mancano ancora studi complessivi su una iniziativa che fu unica nel Ventennio come intenti e complessità: un vero e proprio progetto culturale con cui Julius Evola intendeva esporre costruttivamente e criticamente il punto di vista della Destra tradizionale e conservatrice rispetto al fascismo. Su quella pagina scrissero molti autorevoli esponenti della cultura europea di tale tendenza: italiani, ma anche tedeschi, austriaci, francesi, inglesi. Fra i tedeschi anche il medico e poeta Gottfried Benn, con cui Evola era in contatto epistolare a quanto pare sin dal 1930.

Nella prima metà del 1934 uscì anche l’opera principale che Julius Evola aveva scritto – incredibilmente e per l’età e per l’attività che in quel momento stava svolgendo – fra il 1930 e il 1932: Rivolta contro il mondo moderno presso Hoepli; e venne effettuato quel viaggio in Germania ricordato nell’autobiografia. Durante la tappa berlinese vi fu il primo incontro diretto con Benn: molti erano i punti in comune fra il medico-scrittore, che era di dieci anni più vecchio di Evola (era nato nel 1886 e sarebbe morto nel 1956), e quest’ultimo. Di Benn si tende og gi a mettere in risalto il suo aspetto nichilista, ateo e astratto dagli aspetti più orribili della realtà umana, e si tende a dimenticare il suo apporto alla Rivoluzione Conservatrice tedesca. Sta di fatto che il contatto fra Evola e Benn ad una certa comunanza di idee portò ad un famoso saggio-recensione alla traduzione tedesca di Rivolta che apparve sul fascicolo del marzo 1935 della rivista «Die Literatur» di Stoccarda. È una specie di “canto del cigno” in cui Benn espone le sue idee e concorda con la «visione del mondo» evoliana: infatti, quello fu “il suo ultimo testo in prosa pubblicato sotto il Terzo Reich”, perché in seguito Rosenberg e Goebbels gli vietarono di scrivere alcunché. Recensione di profonda analisi di cui Evola stesso riconosceva l’importanza e volle porre in appendice alla sua raccolta di saggi L’arco e la clava (Scheiwiller, 1968), mentre adesso sarà posta in appendice alla nuova edizione di Rivolta che uscirà entro il 1998. Egli stesso amava ricordare soprattutto una frase: “Un ‘opera, la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge, si sentirà trasformato e guarderà l’Europa con un sguardo nuovo”.

“Rivolta” in Germania

Ora a confermare e precisare i rapporti Evola-Benn vi sono tre lettere del primo al secondo che sono state rintracciate da Francesco Tedeschi, studioso soprattutto dell’Evola artista, nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv (Handschriften Abteilung) di Marbach, e che qui si pubblicano grazie alla sua fattiva collaborazione e al suo consenso: due manoscritte sono del 30 luglio e del 9 agosto 1934, una dattiloscritta del 13 settembre 1955 e se ne dà la traduzione integrale dovuta a Quirino Principe. Dai primi due scritti emergono alcuni fatti noti ed un altro assolutamente nuovo: i fatti noti sono che Benn ed Evola già si conoscevano almeno per lettera (“Ella ha ripetutamente mostrato un cordiale interesse per le mie fatiche”: 20 luglio), che sono effettivamente incontrati nel corso del viaggio evoliano in Germania (“Le sarei molto obbligato se ella mi offrisse le possibilità di punti di vista e di una più lunga conversazione tra noi due”: 9 agosto), che esisteva un reciproco apprezzamento su una medesima Weltanschauung “conservatrice” o “tradizionale” (“l’assoluta competenza che a mio giudizio Ella possiede su questi argomenti e la Sua grandissima conoscenza e intelligenza delle tradizioni cui io mi ricollego”: 20 luglio), che entrambi non si riconoscevano nel nazismo da poco salito al potere (“sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorte una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi. e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario”: 9 agosto).

Il fatto nuovo e di enorme interesse è nella richiesta avanzata da Evola il 20 luglio, e accettata da Benn nella sua risposta (che non possediamo) del 27 luglio, di “sottoporre a revisione il manoscritto della traduzione” tedesca di Rivolta effettuata da Friedrich Bauer. Il particolare era del tutto sconosciuto ed Evola non ne ha mai parlato anche se esso – la revisione linguistica da parte di un poeta noto e apprezzato come Gottfried Benn – avrebbe potuto dare lustro al suo maggior libro. Non pare ci siano dubbi che tale revisione sia stata effettivamente compiuta, non tanto per i ringraziamenti alla “gentilissima intenzione” (9 agosto), quanto per il fatto che si danno specifici riferimenti sul manoscritto della traduzione stessa presso la casa editrice tedesca e, si può dedurre, per l’ampio interesse manifestato da Benn con la recensione su “Die Literatur” (il libro aveva dunque visto la luce entro il marzo 1935): non solo, allora, adesione alla “visione del mondo” esposta nell’opera, ma anche l’averla considerato come un testo al quale – per averne rivista la traduzione – si è particolarmente vicini. Un nuovo tassello che si aggiunge a comporre il quadro (ancora incompleto) del rapporto fra Julius Evola e la cultura conservatrice tedesca fra le due guerre. Si può quindi immaginare che il contatto epistolare con il medico poeta sia continuato ma per ora non se ne hanno altre tracce.

Ci si sposta allora in avanti di vent’anni, al 1955. La lettera del 13 settembre s’inquadra nel tentativo del filosofo di riprendere i contatti proprio con quegli esponenti anticonformisti che aveva conosciuto negli anni Trenta e Quaranta: si sa che nel 1947 aveva scritto a Guénon, nel 1951 a Eliade e Schmitt, nel 1953 a Jünger, per ricollegarsi ad un discorso intellettuale interrotto dagli eventi bellici, ma anche per proporre traduzioni dei loro libri in italiano, dato che potevano essere utili per una nuova Kulturkampf. Spesso le sue aspettative andarono deluse: non tutti erano rimasti fermi su certe idee, ovvero non ritenevano opportuno il momento per ricordarle, a causa dell’ombra negativa che ancora si stendeva su di loro dopo il 1945. E proprio per i suoi “recenti successi letterari” Benn non intese forse rispondere a quello che era stato un po’ più di un conoscente, dato che non risultavano altre lettere di Evola nel Nationalmuseum: sicché, si deve pensare che gli “antichi rapporti” non vennero ripresi. Certo è che Evola non faceva mistero di essere rimasto lo stesso (“Io sono sempre rimasto sulle mie antiche posizioni, per quanto riguarda l’orientamento intellettuale e i miei interessi prevalenti”) e non è detto che tali precisazioni non siano state controproducenti …

Quel che è invece un po’ singolare è il non ricordare a dovere il tipo di rapporti intercorsi vent’anni prima: non solo l’incontro a Berlino, ma la reciproca conoscenza delle opere e la questione di Rivolta. Il mancato accenno alla revisione della traduzione, ma anche al saggio su “Die Literatur” (poi però fatto pubblicare tredici anni dopo in appendice a L’arco e la clava, come si è già ricordato) è dovuto ad una défaillance mnemonica, o magari ad un senso di opportunità, per non imbarazzare forse il medico-poeta? È anche vero che Benn sarebbe morto solo dieci mesi dopo, il 7 luglio 1956, a settant’anni, e quindi ogni illazione può essere valida. Così come resta aperta ogni ipotesi sul perché Julius Evola, sia nelle lettere private, sia nel la sua autobiografia pubblica, abbia dimenticato molti episodi e personaggi importantissimi nelle vicende della sua vita: e non certo in senso positivo, tali da accrescere l’importanza della sua opera complessiva. Forse normalissimi vuoti di memoria come possono accadere a tutti, ma forse anche quella tendenza “impersonale” a minimizzare un certo suo lavoro conferendo così poca importanza – tanto da non ritenere che certi particolari valessero la pena di essere citati – a determinati momenti della sua vita. Sta di fatto, comunque, che queste lettere a Gottfried Benn riempiono in modo significativo una delle tante lacune che ancora rimangono per ricostruire compiutamente l’intensa vita di Julius Evola.

Note

(1) Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, p.79.
(2) Heidnischer Imperialismus, Armanen Verlag, Lipsia, 1933.
(3) Cioè, da un lato gli esponenti della “tradizione prussiana” e dall’altro la corrente di quegli scrittori, come Moeller van den Bruck, Bluher,
Jünger, von Salomon e così via, che era stata definita Rivoluzione Conservatrice.
(4) Il cammino del cinabro cit., p.137.
(5)
Alain de Benoist, Presenza di Got!fried Benn, in Trasgressioni n.19, 1990, p.84.
(6) Circa la Rivolta scrive
Evola a Giuseppe Laterza in una lettera da Karthaus in Alto Adige del 16 settembre 1931: “Sono in via di ultimarlo, quindi non so precisamente circa la sua lunghezza … “ (cfr. La Biblioteca ermetica, a cura di Alessandro Barbera, Fondazione J. Evola, Roma, 1997, pp.57-58).
(7) Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano, 1982, p.280.
(8) Cito in Il cammino del cinabro cit., p.138.

* * *

Tratto da Percorsi di politica, cultura, economia (6/1998).

Tomislav Sunic répond aux identitaires

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Tomislav SUNIC répond aux Identitaires 

 

Le 30 Janvier 2004

sunicXXX.jpgRencontre avec le docteur Tomislav SUNIC, enseignant en sciences politiques aux Etats Unis et écrivain croate.

Pamphlétaire et contestataire de la droite antilibérale croate, ancien diplomate, il est l’auteur d’ouvrages traitant entre autre de la géopolitique dans les Balkans, de la démocratie et de l’utopie égalitaire. Tom Sunic dénonce inlassablement le danger de la globalisation mondialiste en train d’éclore sur les décombres du communisme dans les pays de l’Est. Tomislav Sunic est également le correspondant en Croatie de la revue Nouvelle Ecole.

 

Aujourd'hui, il milite notamment pour un véritable rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Cette guerre larvée servant, selon Tomislav SUNIC, les intérêts des ennemis de l'Europe.

 

Au début des années 90, les occidentaux voyaient s'engager le provisoire dernier acte d'une guerre civile européenne qui avait commencé presque 80 ans plus tôt. Quels étaient les ingrédients récurrents de ce conflit yougoslave encore mal compris en France ?

 

Tomislav SUNIC : Les responsables de cet acte de guerre sont à chercher chez les jacobins français, chez Clemenceau, dans le Traité de Versailles, chez Mitterrand, et bien sûr, chez les Américains qui avaient prêché, à partir de 1948 et jusqu’en 1990, “ l’unité et l’intégrité ” d’un pays artificiel, connu sous le nom de “ Yougoslavie ”.

 

Aujourd'hui, vous souhaitez un rapprochement entre les deux frères ennemis croates et serbes. Celui-ci semble encore bien précaire. Comme l'ont démontré les affrontements sérieux survenus lors de rencontres sportives, notamment au cours du match Croatie-Serbie de water-polo du dernier championnat d'Europe, les cicatrices semblent profondes. Bien sûr, les ennemis de l'Europe s'en réjouissent. Une normalisation réelle des rapports croato-serbes est-elle concevable ou encore illusoire ?

 

TS : Laissons le sport à part. Lorsque les équipes de différentes villes croates s’affrontent, il y a toujours une pagaille - comme d’ailleurs partout chez les supporters en Europe. Le problème réside dans la mythologie grande-serbe et la martyrologie grande-croate. Au cours des dernières 70 années, à savoir depuis la fondation de la Yougoslavie en 1919, les intellectuels serbes et croates, n’ont jamais jugé nécessaire de se débarrasser de leurs mythes pseudo-historiques. Le vrai délire commença en 1945 lors de la prise du pouvoir par les communistes, et lorsque l’hagiographie serbe imposa dans les écoles, et auprès du grand public occidental, sa victimologie “ anti-fasciste ” s’élevant à 600.000 Serbes prétendument tués par les fascistes croates de 1941 à 1945. Cette surenchère a eu pour cause, chez les Croates, de profondes frustrations, un romantisme politique souvent bête, et une poussée révisionniste qui aboutit en 1990 à l’éclatement du pays. Hélas, le nationalisme croate est également à la base de sa “ légitimité négative ” ; malheureusement on reste un bon Croate en fonction de son anti-serbisme, c’est-à-dire en diabolisant l’Autre. Le résultat fut la deuxième guerre entre les Serbes et les Croates en 1991.

Tant que les intellectuels serbes et croates ne se mettront pas sérieusement au travail pour examiner leurs victimologies respectives, et qui remontent à la deuxième guerre mondiale, la guerre larvée sera là, au grand plaisir des ennemis de l’Europe.

 

Croatie et Serbie semblent rivaliser d'ardeur pour livrer leurs patriotes respectifs au Tribunal Pénal International de La Haye. Quel est votre avis sur cette Cour et sa légitimité ?

 

TS : Aucun. La Cour de La Haye fonctionne d’après le principe du “ deux poids deux mesures. ” Ce qui n’est pas permis aux Serbes et aux Croates, est loisible pour les guerriers américains, israéliens, etc… Revenons à la phrase lapidaire de Carl Schmitt : “ Auctoritas non veritas facit legem ” (*). En bon français, c’est la qualité du flingue qui décide qui ira à La Haye, qui aura raison et qui aura tort, et qui va façonner par la suite le droit international. Le Tribunal de La Haye est un alibi pour l’incompétence de la classe politique en Union Européenne, qui fut d’ailleurs totalement incapable de mettre fin au conflit yougoslave dans les années 90.

 

Bien que les composants soient un peu différents – distinctions ethniques plus franches – les gouvernements des principales capitales européennes continuent leur politique de l'autruche, et semblent nier l'évidence en minimisant la possibilité d'affrontements multiculturels et/ou multiethniques graves dans les années à venir. Est-ce, selon vous, lâcheté ou volonté délibérée de refuser l'évidence ? Qu'est-ce qui pourrait faire échapper l'UE a une crise “ à la yougoslave ” ?

 

TS : “ L’Euroslavie ” actuelle ressemble étrangement à l’ex-Yougoslavie. Soyons sérieux. Le système bruxellois n’est pas conçu comme vecteur pour réunir les peuples européens dans un destin commun. L’UE est un vaste marché, un bazar dont l’avenir dépend uniquement d’un perpétuel bond économique en avant.

 

En effet, qui aurait cru que la Yougoslavie multiculturelle allait éclater en décombres ? Je crois que la même “ balkanisation ” attend l’Union européenne demain, avec des conséquences beaucoup plus graves. Tant que l’État-providence fonctionne, bon gré mal gré, tant que les allogènes reçoivent leur morceau de sucre de la part des contribuables européens, le calme est garanti. Une fois que la crise économique deviendra palpable, nous serons témoins d’une guerre civile autrement plus sauvage que dans les Balkans. Victime de ses illusions du progrès, et croyant naïvement en la théologie du marché libre, l’Union Européenne va devenir la proie de ses propres chimères. Le soi-disant bon fonctionnement de l’UE, avec son prétendu élargissement à l’Est, ressort d’un nouveau romantisme politique. Ce projet reste la plus grande imposture après la deuxième guerre mondiale.

 

Pertes des valeurs traditionnelles, plaisirs petits-bourgeois, dévirilisation, paradis artificiels, le matérialisme libéral triomphe en Europe occidentale. Quelle est votre réponse au chaos du monde moderne ?

 

TS : Lorsqu’on lit les écrivains des années trente nous nous rendons compte du même scénario en Europe. Nul doute, le libéralisme touche a sa fin. Le roi est nu ; il n’a plus de repoussoir communiste. Donc sa dégénérescence apparaît plus clairement. Tant mieux. Il faut que la situation empire davantage, pour que davantage de gens puissent déchiffrer l’ennemi principal.

 

On a dit que Rome était tombée car ses Dieux l'avaient abandonnée. Voyez-vous dans la perte totale de sens du sacré en Occident, une des causes profondes de son déclin ?

 

TS : Bien entendu. Même les grandes religions monothéistes ne sont plus capables d’insuffler le sens du sacré à leurs brebis. Hélas, dans la perspective historique, cinquante, voire une centaine d’années, ne veulent rien dire. Mais pour nous-mêmes, pour qui le temps vole si rapidement, il est peu probable que le grand retour des dieux ait lieu pendant notre parenthèse terrestre… Mais, peut-être dans une vingtaine d’années, verrons-nous la grande renaissance des dieux européens !

 

Les hommes debout au milieu des ruines - identitaires éveillés- ont coutume de dire que le soleil se lèvera à l'Est. Le salut de l'Occident peut-il venir de l'exemple des jeunes générations d'Europe de l'Est ? Et, selon vous, un rapprochement concret des forces nationales de chacun des pays de l'Ouest et de l'Est pour une renaissance européenne est-il sérieusement envisageable ?

 

TS: Le grand avantage du communisme fut sa barbarie et sa transparence vulgaire. Son grand avantage fut également qu’il sut préserver, malgré son dogme international, l’homogénéité ethnique des Européens de l’Est. La Russie, la Croatie, la Serbie, l’Estonie, etc. restent des enclaves blanches, de solides “ camps des saints ”. Espérons que la classe dirigeante en Europe orientale ne va pas tomber dans la surenchère du mimétisme pro-occidental et qu’elle ne va pas remplacer sa maladie de “ l’homo sovieticus ” par la nouvelle pathologie de “ l’homo occidentalis ”. Il y a quelques signes encourageants que cette Europe cioranienne commence à s’apercevoir de l’imposture occidentalo-libérale. Mais pour mener le travail de renaissance à son terme, il faut que ses citoyens fassent table rase de leur petit nationalisme et qu’ils abandonnent la haine de l’Autre, c’est-à-dire de leurs voisins. Les individus sages et cultivés de l’Europe occidentale pourraient y aider et cela d’une manière considérable.

 

Pour finir, un message pour les visiteurs du site “ les-identitaires.com ” ?

 

TS : Unissons nos forces identitaires et patriotiques, apprenons les langues et la culture de nos voisins européens ! Pratiquons l’identification – non seulement avec notre tribu – mais surtout avec l’Autre, à savoir nos frères voisins européens !

(*) Littéralement : “ C’est l’opinion et non la vérité qui fait la loi ”, à prendre ici au sens de “ C’est l’autorité et non la vérité qui commande à la loi ”.

 

Propos recueillis par Renaud BOIVIN

Pour en savoir plus : http://doctorsunic.netfirms.com

lundi, 05 avril 2010

Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?

Brzezinski sta per finire nella pattumiera della Storia ?

di Alessandro Lattanzio

Fonte: saigon2k [scheda fonte]



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

zbigniew_brzezinski.jpgIl 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.

Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.

Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:

“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.

Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:

“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.

Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.

In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.

Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.

Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.

Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.

Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.



Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Der Begriff des Politischen aus der Idee des Volkes bei Carl Schmitt

Ex: http://www.eiwatz.de/


cs1.jpgWintergrau liegt auf der Heimat. Eisig fegen frostige Stürme über kahle Felder, darüber ziehen Krähenschwärme hin. Am Horizont versinkt ein matter Sonnenball ins Grau das über die Welt gekommen ist mit dem Fall der letzten Blätter - von ferne kündet Trommelschlag: SCHWERTZEIT bricht an!



Die westliche Welt erwachte vor kurzem aus ihrem selbstgefällig gepflegten Konsumtraum einer befriedeten Zivilisation. Im Herzen des globalen Traumes vom weltweiten Amerika fielen symbolträchtige Bauten in Asche. Amerika kann auf diese Provokation nicht anders als mit Krieg reagieren, da seine Vormachtstellung in der Welt in Frage gestellt wurde. Es herrscht Krieg – doch wo steht der Feind? Dies ist eine Frage, die man speziell in Deutschland sich abgewöhnen wollte zu stellen. Wir sind doch alles friedliebende Menschen! Und nun sollen deutsche Soldaten in einem amerikanischen Welt-Bereinigungskrieg mitmarschieren? Warum scheint die Regierung keine andere Wahl zu haben, nach dem Nato – „Bündnisfall“? Ist Deutschland nicht souverän? Ist denn der amerikanische Feind wirklich auch unserer? Warum konnten wir den dämmernden Konflikt der Kulturen nicht früher erkennen und beherbergten und beherbergen möglicherweise immer noch Terroristen? Wer ist UNSER Feind? Wo stehen wir – in der Schwertzeit?



Alle diese Fragen haben wir uns in den vergangenen Wochen sicher oft gestellt und sind dabei zu unterschiedlichen Antworten gekommen. Der folgende Text möchte dieser Antwortsuche nachgehen und gleichzeitig den Weg Carl Schmitts (1888 – 1985) aufzeigen. Er war ein konservativer Staatsrechtler - befreundet mit Ernst Jünger, bekannt mit Julius Evola und doch wie viele konservative Revolutionäre – der Versuchung der Macht im Nationalsozialismus erlegen. Ebenso wie andere (Jünger, Benn) ging Schmitt nachdem er im nationalsozialistischen Staat seine Ideale nicht ausreichend verwirklicht sah in die innere Emigration. Im folgenden soll sein Hauptwerk „Der Begriff des Politischen“ vorgestellt werden. In diesem 1932 geschriebenen Buch zeigt sich seine klare Sicht auf die Dinge, an der wir unsere heutige Lage: die Lage unserer Heimat im Kulturkampf zwischen Amerikanismus, Islam und europäischer Selbstbehauptung messen müssen.



Die Herleitung von Bedeutung und Wirkungsweise des Begriffes des Politischen bei Carl Schmitt soll mit einem Zeitzeugnis – nämlich der Rezeption einer früheren Version des Aufsatzes durch Ernst Jünger eingeleitet werden.



„Der Rang eines Geistes wird heute durch sein Verhältnis zur Rüstung bestimmt. Ihnen ist eine besondere kriegstechnische Erfindung gelungen: eine Mine, die lautlos explodiert. Man sieht wie durch Zauberei die Trümmer zusammensinken; und die Zerstörung ist bereits geschehen, ehe sie ruchbar wird.“ (1)



Welcher Art ist diese „lautlose Mine“ die Schmitt erfunden hat und was sinkt dadurch in Trümmer? Eine kurze historische Einordnung des Aufsatzes scheint für ein besseres Verständnis erforderlich zu sein. Der „Begriff des Politischen“ entsteht unter den Nachwehen eines verlorenen Krieges und dem so empfundenen Diktat des Versailler Vertrages. Der Parlamentarismus der Weimarer Republik konnte keine dauerhafte Stabilisierung der innen- und außenpolitischen Lage Deutschlands vermitteln. Wechselnde demokratische Regierungen haben bürgerkriegsähnliche Zustände im Reich (Feldherrenhalle, Kapp-Putsch u.ä.) mit Mühe niederhalten können und die Außenpolitik Deutschlands reibt sich, zwischen der innenpolitischen Forderungen nach dem Ende der Reparationsleistungen an die Siegermächte und dem staatlichen Bestreben nach Rückkehr in die Gemeinschaft westlicher Demokratien (Völkerbund), auf. Die Weltwirtschaftskrise schließlich verstärkt die subjektive Unerträglichkeit der politischen Lage für Deutschland zusätzlich. In diesem Klima gedeiht die Konservative Revolution – eine Denkströmung zu der sowohl Ernst Jünger als auch Carl Schmitt gerechnet werden. Als gemeinsamer Nenner jener Strömung kann ihr Charakter als Antithese zu den Ideen von 1789 konstatiert werden.(2) In plakativ - antipodischen Begriffspaaren zusammengestellt liest sich eine solche konservative „Weltanschauung“ ungefähr so: Verpflichtung des Einzelnen vor der Freiheit; Hierarchie vor Gleichheit; Volkstreue vor (internationaler) Brüderlichkeit. Schmitt´s lautlose Mine ist seine klare Formulierung der Forderung „zurück zum starken Staat“ und ihrer Begründung, die eine krisengeschüttelte pazifistisch - liberalistische Gedankenwelt zum Einsturz bringt.

Welche Argumente die konservative Revolution gegen Liberalismus und Demokratie ins Feld führt und aus welchen Quellen sich diese Argumente speisen soll im Folgenden aus Schmitt´s Begriff des Politischen herausgearbeitet werden.



Wichtigstes Grundwerkzeug zur Problemanalyse ist für Schmitt die klare, dichotome Begriffsverwendung in Gegensatzpaaren. Besonders prägnant wird dies bei der weiter unten vorzustellenden Freund-Feind Unterscheidung, jedoch ist dieses Vorgehen durch das gesamte Werk erkennbar. Im Vorwort von 1963 leitet Schmitt seinen Politikbegriff vom griechischen polis, der Regierung eines Stadtstaates - her. Dabei handelte es sich um eine Schutz und Sicherungsfunktion nach innen für die Polis – also gewissermaßen um eine Polizeifunktion. Darüber hinaus kam noch eine weitere Aufgabe der Politik zu, nämlich zur Außenpolitik gewendet, Entscheidungsträger über Krieg und Frieden mit anderen (Stadt-)Staaten zu sein.

Für Carl Schmitt stellt somit ein nach innen geschlossener und befriedeter – nach außen souveräner Staat das klassische Staatsziel dar. Souverän ist dabei wer, im Ernstfall – d.h. dem Fall einer Kriegserklärung – entscheidet.



Was aber konstituiert einen Staat? Nach Carl Schmitt setzt der Begriff des Staates den Begriff des Politischen voraus.(3) Eine Definition des Staatsbegriffes läßt sich nur durch eine solche des Politischen erreichen. Beschreiben läßt sich „Staat“ allenfalls als „besonders gearteter Zustand eines Volkes“(4) – nämlich der im Ernstfall entscheidende. Dies führt zurück zum Souveränitätsbegriff, es kann also formuliert werden: Ein Volk befindet sich dann im Zustand (Status) des Staates wenn es souverän, im Ernstfall (Kriegseintritt!), entscheiden kann.



Es deutet sich hier bereits die hohe Bedeutung des Ernstfall - Begriffes für Schmitt an. Der Staat ist Inhaber des legalen Machtmonopols – er kann als alleinige Institution von seinen Bürgern verlangen entgegen ihrem individuellen Selbsterhaltungstrieb für seinen Erhalt ihr Leben zu geben. Als Gegenleistung zu diesem ihm zugebilligten Gewaltmonopol schützt der Staat durch Recht und Polizei die Sicherheit und Ordnung im Innern. Das Paradigma von Schutz und Gehorsam gilt also für die Beziehung zwischen Staat und Bürger als Binnenverhältnis.



Wie aber konstituiert sich das Politische? Wichtig erscheint es festzustellen, daß Schmitt anstatt „Politik“ den etwas umständlicheren Begriff des „Politischen“ gebraucht. Es ist zu unterstellen, daß er seinen Begriff dadurch zum einen gegen den moralisch diskreditierten Politikbegriff seiner Zeit abzugrenzen sucht, aber auch etwas der Politik vorgelagertes, nämlich das Feld des Politischen als Entscheidungsspielraum für (Partei)politik, beschreiben möchte.



Schmitt kritisiert die allgemein unklare Definitionslage für den Begriff des Politischen. Häufig wird er über den staatlichen Machtbegriff hergeleitet was in so fern nicht zulässig ist, als sich Staat und Macht nach Schmitt erst aus dem Vorhandensein des Politischen ergeben.(5)



Ein Begriff des Politischen ist nach Schmitt nur aus einer klaren Definition des Feldes der Politik, wie er es im Gebiet der Erkennung von Freund und Feind sieht, herzuleiten.

Wie das Feld der Moral durch eine dualistische Einteilung in gut und böse letztlich den Moralbegriff definiert (die Unterscheidung dessen was gut und was böse ist = Moral), so wie die Ästhetik sich als Unterscheidung von schön und häßlich definieren läßt, so ist Politik auf das Erkennen von Freund und Feind zurückzuführen und dadurch definiert.



Schmitt verwahrt sich gegen eine zwingende Gleichsetzung der Freund - Feindunterscheidung mit den zur Illustration zitierten anders gelagerten Gebieten (Ästhetik, Moral). Der Feind ist immer bloß politischer Feind – also nicht zugleich „das Häßliche“ und „das Böse“ an sich.

Hinter der Frage: Wie erkennt man den Feind? Verbirgt sich streng genommen die Frage: Wer kann den Fein erkennen? Für Schmitt ist letztlich das V o l k Träger der Feinderkennung. Ein Feind ist hierbei das fremde Subjekt mit einem Konfliktpotential das nicht durch Verträge zu regeln ist. Die am Konflikt Beteiligten (Völker) erkennen, wann das jeweils Fremde ihre eigene Seinsweise bedroht und der Kriegsfall eintritt. Damit ist das Politische als Erkennung von Freund und Feind durch das Volk umschrieben und definiert. Weiterhin läßt sich der Krieg als Fortsetzung der Politik unter Beihilfe anderer Mittel – die sich aus dem Gewaltmonopol des Staates ergeben – verstehen. Hierin folgt Schmitt dem deutschen General Clausewitz, dessen Werk „Vom Kriege“ er auch in anderen eigenen Schriften als Grundlegung seines Begriffshorizontes im Zusammenhang mit zwischenstaatlichen Auseinandersetzungen zitiert.



Wenn auch der Staat als Träger eines Volkswillens legitimiert ist, bleiben dennoch offene Fragen: Wie definiert sich in diesem Zusammenhang das „Volk“? Was kann die Seinsweise eines Volkes bedrohen? Gibt es auch „innere Feinde“ des Volkes?



Die Problematik des Volksbegriffes wird von Schmitt im „Begriff des Politischen“ nicht diskutiert sondern das Volk als monolithisches Willensträgergebilde als vorausgesetzt angenommen. Da Volkszugehörigkeit in Deutschland über Blutsverwandtschaft konstituiert ist könnte also eine Bedrohung der Seinsweise des deutschen Volkes nur über Genozidabsichten oder Aufweichung der Blutsverwandtschaft von „innen her“ geschehen.



Wie manifestiert sich das Politische nun im Staat und in welchen Relationen stehen beide Begriffe zueinander? Prinzipiell erkennt Schmitt zwei unterschiedliche Zuordnungsweisen von Staat und Politischem.

Der Staat ist dann mit dem Politischen identisch, wenn er gegenüber nichtpolitischen Gruppen (Assoziationen der Gesellschaft) das Monopol am Politischen, also der Freund –Feinddefinition, hat. Der Staat ist dann nicht mehr mit dem Politischen identisch, wenn Staat und Gesellschaft sich durchdringen und nicht - staatliche Kräfte sich das Politische aneignen. In der Demokratie sieht Schmitt diese Differenz zwischen Staat und Politischem unter anderem dadurch gegeben, daß an sich politisch „neutrale“ Gebiete wie Religion, Wirtschaft und Bildung zunehmend politisiert werden – und daher Gegenstand einer eigenen Kirchenpolitik, Wirtschafts- und Bildungspolitik werden müssen. Dieser Prozess wurde dadurch in Gang gesetzt, daß gesellschaftliche Gruppen dem Staat gegenüber Definitionsmacht über das nach Schmitt „feindliche“ erhielten, indem sie selbst für den Bestand des nach innen befriedeten Staates problematisch wurden. Eine Sozialpolitik war so zum Beispiel für den Staat nicht notwendig, solange die Sozialen Problemlagen nicht in Interessengemeinschaften massiv für die innere Sicherheit bedrohlich wurden. In Folge dieser Entwicklungen (beispielsweise der Reaktionen des Kaiserreiches unter Bismarck auf die Sozialisten mit „Zuckerbrot und Peitsche“ die den Aufbau von Gewerkschaft und Arbeiterparteien doch nicht verhinderten) kam es zu einer zunehmenden Vermischung der Aufgabenverteilung zwischen Staat und Gesellschaft. Die Zunehmende Emanzipation der gesellschaftlichen Gruppen und die Verteilung von Staatsaufgaben und Entscheidungsmacht von oben nach unten entpolitisierten den Staat. Die Freund - Feinderkennung war nicht mehr ohne weiteres möglich. Das beruht zum einen darauf, daß der Feind nicht mehr als solcher bezeichnet werden darf, was Schmitt dem Liberalismus zuschreibt der Feinde zu „Diskussionsgegnern“ verharmlost – zum anderen ist dies sicher auch auf eine Wandlung des Volkes zurückzuführen, dessen postulierte monolithische Beschaffenheit und Fähigkeit zur Feinderkenntnis durch vielfältige Binnendifferenzierung in Interessengemeinschaften verloren geht. Das Politische verliert damit seine Manifestationsmöglichkeit (den klar definierten Staat), sein Subjekt (das Volk) und seinen Gegenstand (den Feind).



Als Ursache für diese Entwicklung gibt Schmitt wie oben erwähnt den Liberalismus als Ergebnis der 1789er französischen Revolution an, womit übrigens ein Brückenschlag zur konservativen Revolution in Deutschland gelungen ist.



Welche Folgen aber hat nach Carl Schmitt die Aufweichung des Politischen in der liberalen Demokratie?

Im wesentlichen führt ein Weniger an Staat und ein Mehr an Demokratie zum Verlust von Weitsicht auf das Tatsächliche.



Wenn innenpolitische Gegensätze das Staatsganze mehr definieren als außenpolitische Gemeinsamkeiten der Bürger so ist ein Bürgerkrieg wahrscheinlicher als ein Völkerkrieg. Diese Lähmung des Staates macht ihn gewissermaßen blind für eine Bedrohung von außen. Dabei verliert der Staat zusätzlich an Souveränität. Wir erinnern uns, dass Souverän ist, wer im Ernstfall entscheidet. Wenn Gewerkschaften zum Beispiel so erstarken, daß sie durch Generalstreik den Kriegseintritt eines Staates verhindern könnten, dann wäre nicht mehr der Staat souverän sondern jene Gewerkschaften. Die Entwicklung zum Pluralismus degradiert den Staat zu einer Assoziation der Gesellschaft unter vielen anderen. Als aktuelles Beispiel sei an den Konflikt im „Wohlfahrtsstaat“ BRD erinnert, der zwar einerseits die soziale Mindestabsicherung aller Bürger garantieren soll, aber andererseits keinen Kriegsdienst für alle fordern kann. Dadurch wird aber nicht nur seine politische Entscheidungsfähigkeit verringert, sondern das Politische „pluralistisch“ auf viele untereinander wiederstreitende Interessenträger verteilt. Das Ganze, der Staat als Status eines Volkes in einem Territorium, wird dadurch geschwächt und angreifbar. Das Volk verzichtet nach Schmitt in einer solchen Situation auf seine politische Existenz: es kann und will keinen Feind mehr erkennen.



Wo sieht Schmitt einen Lösungsansatz?

Es ist dies bereits aus dem Eingangszitat von Ernst Jünger angesprochen worden: Der Rang des Geistes wird (in jener Zeit, in diesen Kreisen) aus seiner Einstellung zur Rüstung ermittelt. Rüstung zum Kriege als formende Kraft für das Politische. Man kann mit Schmitt die Hypothese aufstellen: Wenn das Volk einen Feind erkennen würde der seine Seinsweise bedroht erwüchse daraus das Politische, welches den Staat aus allen demokratischen und liberalen Aufweichungen seiner Macht erstarken läßt. Tatsächliche Phänomene der Kriegsbegeisterung 1914 (Kaiser Wilhelm: „Ich kenne keine Parteien mehr, ich kenne nur noch Deutsche“) sind manifest.

Was Schmitt als Ausweg aus der Gefährdung von Staat und damit Volk sieht, ist der Krieg nicht aus rein moralischen, religiösen oder ökonomischen Gründen, sondern ein Krieg gegen den „echten“ Feind des Volkes.(6)



Ein Blick auf die größere Bühne: In welchem geistesgeschichtlichen Horizont stehen die Schmitt´schen Begriffe von Staat und Politik?

Der Staat ist in seinem Denken dem Individuum ganz deutlich vorgeordnet. Erst im Staat wird ein Volk souverän, erst durch den Staat ist der Einzelne in Sicherheit und Ordnung aufgehoben. Nur der Staat kann vom Einzelnen alles verlagen – nämlich seinen Tod. Diese Staatsidee verdient es aber vom Einzelnen nur dann verteidigt zu werden, wenn er sich sicher sein kann, daß ein geschlossener Volkswille sie trägt. Dann erst handelt der Einzelne auch in seinem eigenen Interesse, wenn er dem Volke dient.



Woher nimmt aber der Staat die Legitimation seiner Macht? Oft findet man bei Schmitt die Idee eines streng hierarchisch gegliederten Herrschaftsmodells. Vorbilder finden sich dafür im Katholizismus und dem mittelalterlichen traditionalen Kaiserreich. Man kann übrigens noch weiter zurückgehen und darin Elemente der traditionalen Ausrichtung der Menschen auf einen Pol hin (Schmitt kritisiert die pluralistische Staatstheorie dafür, daß sie kein „Zentrum“ habe) erkennen. Die Idee einer allgemeinen solaren- bzw. polaren Urreligion die Regierungsform und Ordnung der indoeuropäischen Völker gestiftet und bestimmt hätte findet sich u.a. bei Julius Evola, einem italienischen „Religionsphilosophen“ und Grenzwissenschaftler, mit dem Carl Schmitt zwar erst 1937 persönlichen Kontakt hatte(7), der aber bereits vor seinem 1934 erschienenen Buch „Rivolta Contro Il Mondo Moderno“(Revolte gegen die moderne Welt) ähnliche Argumentationslinien verfolgt und im Katholizismus nur noch einen schwachen Wiederhall älterer hyperboreisch - atlantischer Geist - Königtümer erkennt. Im Rahmen dieses Essays kann auf diese Hintergründe jedoch nicht im erforderlichen Umfang eingegangen werden.



Abschließend sei nochmals auf die Rolle des Volksbegriffes bei Schmitt hingewiesen sowie die Bedrohung der „Seinsweise“ eines Volkes. Beide sind einem organisch - mythischen Verständnis verpflichtet. Das deutsche Volk als organische Einheit ist heute aber nicht mehr ohne weiteres erkennbar. Die Tatsache, daß über Krieg und Frieden heute in einer Weise abgestimmt wird, die nicht mit der wirklichen Mehrheitsmeinung (Volkswillen!) übereinstimmt, zeigt wie wenig souverän (unabhängig) der deutsche Staat heute ist. Warum ist das so?



Der faktische Partikularismus der Einzel- und Gruppeninteressen, letztlich die moderne Parteiverdrossenheit und zunehmende Verlagerung innergesellschaftlicher Konflikte von Auseinandersetzungen zwischen Interessengruppen zu Verhandlungen Einzelner vor den Gerichten entsolidarisiert das Volk: keiner vertraut mehr dem anderen. Der zunehmende Neoliberalismus marginalisiert den Staat tatsächlich im Sinne Schmitts zum Fürsorger der sozial Schwachen, zum Dienstleister, zum Handlanger wirtschaftlicher Verbände und demontiert damit seine Macht und sein Ansehen bei jenen, die von seinen Leistungen noch profitieren. Seine Eingebundenheit in vielfältige internationale Verpflichtungen und Organisationen (NATO, EU, WTO usw.) nehmen ihm Souveränität. Damit wandelt sich der starke Staat im Zeitalter der Globalisierung unter Abgabe von Entscheidungsmacht zu einem durch Rechtsnormen steuernden Akteur auf einer zunehmend unübersichtlicheren Bühne des Dramas der Gesellschaft. Die Souveränität verteilt sich heute auf mehr und auf andere Schultern als dies Schmitt vor Augen hatten. Dennoch verschwinden weder sie noch das Politische aus der Welt. Die Proteste der Anti - Globalisierungsbewegung und die Anschläge des islamistischen Terrors deuten an, wohin sich die Grenzen der Erkenntnis von Freund und Feind heute verschoben haben.



Zusammenfassend lässt sich feststellen, daß ohne eine ideelle Wiedergeburt des Volkes aus seinen besten Kräften keine Souveränität und damit kein echter Staat mehr möglich sein wird. Wir scheinen unserem Schicksal, das von fragwürdigen Akteuren auf einer unübersichtlichen Bühne internationaler Verbindungen inszeniert wird, solange ausgeliefert zu sein, wie wir nicht jenen Volksgedanken in uns zum Volkswillen nach außen wenden. In der aktuellen Lage können wir uns ins Glied einreihen und Amerika im Ausland verteidigen – wir können aber auch das Schwert für die Existenz unseres Volkes aufnehmen und standhaft bleiben – in der Schwertzeit.


:RG:




Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

__________

(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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Evola e la "notte dei lunghi coltelli"

Evola e la ”notte dei lunghi coltelli”

     

di: Luigi Carlo Schiavone

Ex: http://www.rinascita.eu/

evola.jpgIn un articolo del marzo 1935 dal titolo “Il nazismo sulla via di Mosca?” apparso sul quotidiano “Lo Stato”, Julius Evola, allora umile pensatore ai margini del fascismo italiano, prendendo spunto dalle vicende occorse il 30 giugno del 1934 in Germania storicamente note come “Notte dei lunghi coltelli” e cioè la decapitazione sanguinosa, da parte della “destra” hitleriana, delle S.A., le Squadre di Assalto di Roehm e di Strasser che volevano – conquistato il potere – che la rivoluzione nazionalsocialista mettesse in opera il programma sociale, la cosiddetta “seconda rivoluzione” - muove una profonda critica alle posizioni espresse da Carl Dryssen nella sua opera “Fascismo nazionalsocialismo, prussianesimo”, considerato da Evola come il testo guida delle volontà dei rivoluzionari delle SA, facenti capo ad Ernst Röhm, nel quale si rintracciava la linea che essi volevano imporre al movimento nazionalsocialista.
Dryssen, partendo da considerazioni di carattere prettamente politico- economico, delinea due mondi contrapposti, l’Oriente e l’Occidente, che, oltre a risultar divisi da un punto di vista ideologico, trovano in Dryssen anche una frontiera naturale rappresentata dalla linea del Reno.
Il mondo dell’ “Occidente”, in cui Dryssen inquadrava gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, è identificato come la patria del liberalismo, della democrazia, dell’internazionalismo e del capitalismo, fondamenta del libero commercio e dell’imperialismo finanziario. Un mondo in cui, secondo Dryssen, vigevano due principi: quello dell’individualismo che ne regolava i rapporti in ambito interno e quello dell’imperialismo su cui venivano fondati i rapporti verso l’esterno a servizio di un liberalismo “ipocrita”, generatore di un’azione egemonica o distruttrice a danno di altri popoli.
Radicalmente opposti risultavano essere, nella visione del Dryssen, i tratti caratterizzanti il mondo orientale. Nell’ “Oriente”, identificato territorialmente nella Germania, vigeva un diverso tipo di Stato caratterizzato da un ampio spirito sociale ed essenzialmente agrario sorretto da un’economia di consumo fondata, principalmente, sulla relazione del “Blut und Boden” (sangue e suolo); un’impostazione, questa, totalmente diversa dall’economia imperialistica ed internazionalistica tipica dello Stato Occidentale.
È in forza di suddette considerazioni che Dryssen fornisce una versione della prima guerra mondiale vista, dall’autore, come un’aggressione dell’Occidente ai danni dell’Oriente dettata da una volontà individualista-capitalistica di piegare l’unica parte d’Europa che ancora le resisteva. Dal caos ideologico scaturito nel dopoguerra, inoltre, Dryssen vede il sorgere di due visioni contrapposte che identifica nella corrente riformistica-romana, incarnatasi nel fascismo, e nella corrente germanico-rivoluzionaria, propria del movimento nazionalsocialista.
Secondo Dryssen, infatti, il movimento fascista, sebbene caratterizzato da originari tratti rivoluzionari e socialistici, non avrebbe avuto la forza di travolgere l’antico sistema di marca romana, base del sistema occidentale, ma vi avrebbe apportato solo delle modeste correzioni identificabili nell’instaurazione di un “capitalismo autoritario” sottoposto al controllo dello Stato, evitando così la rivoluzione. Un’altra motivazione, caratterizzante la volontà del movimento fascista di non rivoluzionare ma solo di riformare l’antico sistema, è da trovarsi, secondo l’autore tedesco, nel mantenimento dell’imperialismo. Questa nuova Roma, quindi, considerata da Dryssen come “salvatrice del capitalismo occidentale” viene avvertita come un nuovo ostacolo per la tradizione anticapitalista e socialistica tedesca; compito del nazionalsocialismo, quindi, era quello di dar vita ad una rivoluzione “social prussiana” che, rifacendosi al motto di luterana memoria, Los von Rom! (via da Roma!) avrebbe tutelato la tradizione germanica dalla minaccia occidentale e capitalistica e da Roma, ultimo baluardo di un mondo ormai agonizzante. Ad Adolf Hitler, innalzato da Dryssen a novello Vidukind, (il duce sassone che si oppose a Carlo Magno) il compito di orientare la Germania verso il socialismo nazionale e improntarla su una visione “eroica” e non prettamente economica dell’esistenza. […]
In merito al fascismo, invece, sono altri gli elementi che Evola cita per smantellare l’impostazione di Dryssen: dall’ “educazione guerriera” impartita alle nuove generazioni, ai processi di agrarizzazione e alla lotta contro l’urbanizzazione oltre alla concezione del diritto di proprietà del fascismo, che trasforma il detto, di proudhoniana memoria, “la proprietà è un furto” in la “proprietà è un dovere”.
La proprietà in Evola assume, quindi, una caratterizzazione differente rispetto alla considerazione che se ne ha nella visione “occidentale” data da Dryssen; considerata come una delle condizioni materiali imprescindibili per la dignità e l’autonomia della persona è opportunamente ridimensionata in un sistema, come quello fascista, non asservito al capitalismo e che mira a capovolgere la dipendenza della politica all’economia subordinando nuovamente quest’ultima alla prima in forza di un’idea superiore rappresentata in un primo momento dalla Nazione e successivamente dall’Impero.
Un ulteriore errore da parte di Dryssen, e di alcuni esponenti di spicco dello N.S.D.A.P., è da rintracciarsi, secondo Julius Evola, nell’errata considerazione del binomio individualismo-personalità. Se è lecito, secondo Evola, opporsi all’individualismo, concezione maturata in seno al liberalismo, non alla stessa stregua deve essere considerata la personalità, elemento essenziale per il recupero di buona parte dei valori indoeuropei. Se il socialismo e l’individualismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia in quanto figlie di un’unica decadenza materialistica, antiqualitativa e livellatrice, infatti, diversi sono i tratti tipici del pensiero indoeuropeo miranti alla realizzazione di realtà organiche e gerarchiche che, caratterizzate proprio dall’ideale di personalità libere, virili e differenziate, mirino, ciascuna nel proprio ambito, ad assegnare ad ogni cittadino una propria funzione e una propria dignità. Un ideale, questo, che Evola considera superiore sia al liberalismo che al socialismo, che si è protratto nel tempo approdando dalla comune matrice indoeuropea alla tradizione classica prima e alla tradizione classico-germanica poi, per consolidarsi, infine, nella tradizione romano-germanica medioevale.
Per quel che concerne l’antiromanità professata da Dryssen, essa è da considerarsi, secondo Evola, come diretta emanazione di quel processo di allontanamento della Germania che, come già citato, ebbe inizio con Lutero e che in quel determinato periodo storico favoriva esclusivamente un riposizionamento della stessa a favore della Russia, che a detta dello stesso Dryssen, era l’unica grande potenza ad essersi elevata contro l’Occidente e contro Roma oltre che al capitalismo. L’assenza di reali frontiere spirituali fra l’Elba e gli Urali avrebbe favorito, inoltre, una maggior unione fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo. La fusione dell’antico sistema tedesco dell’Almende e del Mir slavo avrebbe finito, secondo Dryssen, per patrocinare una nuova forma di collettivismo che, in Russia come in Germania, sarebbe stato tutelato da uno Stato agrario socializzato ed armato. Nella visione di Dryssen, inoltre, Evola rintraccia un ulteriore parallelismo tra l’ateismo sovietico e la riforma luterana.
L’ateismo sovietico, infatti, mutuerebbe dalla riforma luterana la volontà di battersi contro una religiosità ufficiale, mondanizzata, legata alle ricchezze e romanizzata; solo dalla rivolta, pertanto, sarebbero potute nascere nuove religioni interiori e a favore del popolo al pari degli effetti che Lutero anelava dalla sua riforma.
A favore di suddetta visione, che porterebbe la Germania all’accordo con la Russia, Dryssen evoca più volte, secondo Evola, lo spauracchio dell’imperialismo italiano quasi come se esso fosse una tendenza esclusivamente romana e non riscontrabile presso altri popoli. Dimenticando, quindi, il primo verso dell’inno tedesco (Deutschland Deutschland über alles, über alles in der Welt) e ponendosi negativamente contro l’universalità romana Dryssen, secondo Evola, accettava implicitamente l’internazionalismo bolscevico all’interno del quale, ricorda il filosofo tradizionalista, scarso posto trovavano i concetti di Patria e di Nazione e ancor meno quello di tradizione nel senso più ampio del termine, tutti e tre più volte ripresi dallo stesso Dryssen. […]
Antiromanità, antiaristocrazia, antitradizione, sono gli elementi che si trovano alla base della visione di quanti, secondo Evola, volevano che il Reich volgesse lo sguardo verso la Russia e concludendo il suo articolo auspicava invece che l’Italia fascista tracciasse una propria strada che si trovasse ad egual distanza dall’Occidente delineato da Dryssen che dalla Russia bolscevica.
Che ci si ritrovi maggiormente nelle posizioni di Carl Dryssen o in quelle espresse da Julius Evola, è indubbio lo stupore di fronte a simili analisi volte ad individuare, tramite profonde riflessioni e ricerche, le soluzioni migliori per l’attuazione di piani politici volti a cesellare, come si trattasse di statue antiche, i tratti ed i caratteri di interi popoli. Uno stupore che si fa ancora più grave se si pensa che tali analisi vennero svolte in quell’epoca che tutti additano come la più oscura d’Europa mentre oggi, nell’epoca delle libertà, si è costretti ad assistere ad ignominiosi spettacoli nei quali, oltre ad essere ripetuti costantemente i medesimi mantra salvifici, l’individuo, sempre più asservito alla tecnocrazia di jungeriana memoria, non è più essere da formare ma tifoso da consolidare.

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

Erich KÖRNER-LAKATOS :

Quand le Togo et le Cameroun étaient des protectorats allemands

 

Deutschen_Schutzgebiete.gifPendant longtemps le Grand Electeur Frédéric-Guillaume de Prusse n’a connu aucun succès dans ses ambitions d’outre-mer. L’entreprise, qui a consisté à mettre sur pied une société à l’image de la Compagnie néerlandaise des Indes orientales, a échoué face aux réticences anglaises.

 

En 1682, Frédéric-Guillaume fonde dans le port maritime d’Emden la « Compagnie commerciale brandebourgeoise et africaine » (= « Brandeburgisch-afrikanische Handelskompagnie »). Une fort modeste expédition prend alors la mer, composée de deux navires avec, à leurs bords, à peine une centaine de matelots, quelques scientifiques et trois douzaines de fantassins.

 

Le jour du Nouvel An de 1683, les Prussiens débarquent au Cap des Trois Pointes sur la Côte d’Or de l’Afrique occidentale, dans le Ghana actuel. Von der Gröben hisse alors le drapeau frappé de l’aigle rouge sur fond blanc, pose la première pierre de la toute première colonie du Prince Electeur, qui est baptisée Gross-Friedrichsburg. Un traité de protection est signé, le « Tractat zwischen Seiner Churfürstlichen Durchlaut von Brandenburg Afrikanischer Compagnie und den Cabusiers von Capo tris Puntas », soit le « Traité entre la Compagnie africaine de son Excellence le Prince Electeur de Brandebourg et les Cabusiers du Cap des Trois Pointes ». Il règle les rapports entre les représentants du Prince Electeur et les chefs indigènes. Le commerce des esclaves, de l’or et de l’ivoire s’avère tout de suite florissant.

 

Mais des pirates français et des expéditions anglaises, venues de l’intérieur du pays, harcèlent les Prussiens qui, de surcroît, sont minés par les fièvres propres au climat des lieux et par la maladie du sommeil, transmise par la mouche tsétsé.

 

En 1708, le fortin n’est plus occupé que par sept Européens et quelques indigènes. Berlin en a assez des tracas que lui procure sa base africaine et le Roi Frédéric I (la Prusse est devenue un royaume en 1701) négocie pendant plusieurs années avec les Hollandais. En 1720, tout est réglé : ceux-ci reprennent à leur compte, pour la modique somme de 7200 ducats et pour quelques douzaines d’esclaves, les misérables reliquats de la première possession prussienne d’outre-mer.

 

Il faudra attendre plus d’un siècle et demi pour que quelques maisons de commerce allemandes se fixent à nouveau dans la région, sur la côte de la Guinée. Les Hanséatiques, qui cultivent l’honneur commercial et entendent baser leurs activités sur le principe de la parole donnée, sont confrontés à une concurrence anglaise, qui ne cesse d’évoquer le libre-échange et la « fairness » mais tisse des intrigues et brandit sans cesse la menace. En 1884, les marchands allemands demandent la protection de leur nouvel Empire et le Chancelier Bismarck envoie en Afrique le Consul Gustav Nachtigal, avec le titre de plénipotentionnaire, à bord du SMS Möve.

 

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Drapeau du Togo à l'époque du protectorat allemand

Lorsque Nachtigal aborde les côtes du Togo, le roi local Mlapa demande un accord de protection au Reich, en songeant bien entendu à se protéger contre ses rivaux de l’arrière-pays. Aussitôt dit, aussitôt fait. A partir du 5 juillet 1884, le Togo est un protectorat allemand et, à Lomé (aujourd’hui capitale du pays), on hisse le drapeau du nouveau Reich en ponctuant la cérémonie de salves d’honneur. Une semaine plus tard, Nachtigal jette l’ancre devant les côtes du Cameroun et signe un traité de protection au cours de la deuxième semaine de juillet avec les chefs King Bell et King Aqua. C’est une malchance pour les envoyés de Londres qui n’arrivent que quelques jours après la conclusion de cet accord et ne peuvent donc plus revendiquer la région pour l’Empire britannique.

 

Dans les décennies qui précédèrent la première guerre mondiale, ce sera surtout le Togo qui deviendra la colonie modèle de l’Allemagne wilhelminienne. Ses principales denrées d’exportation sont le cacao, le coton, les oléagineux, les cacahuètes et le mais. La présence allemande se limite à quelques factoreries et missions sur le littoral togolais ; en 1913, seuls trois cents Allemands vivent au Togo, dont quatre-vingt fonctionnaires coloniaux et cela pour un pays de la taille de l’Autriche actuelle. Les communications avec le Reich sont assurées par la grande station de radio de Kamina, construite en 1914.

 

Pendant l’été 1914, le Togo sera le théâtre d’une lutte brève mais acharnée. 560 soldats de la police indigène et deux cents volontaires européens tenteront de défendre le Togo allemand coincé entre les Anglais qui avancent à partir de l’Ouest, c’est-à-dire à partir du Ghana actuel, et les Français qui progressent en venant de l’Est, du Dahomey, c’est-à-dire du Bénin d’aujourd’hui. Sur la rivière Chra, les soldats de la police indigène togolaise se lancent contre une colonne franco-anglaise et contraignent les attaquants à se replier : les pertes sont lourdes toutefois dans les deux camps. Le sacrifice des Togolais a été inutile : l’ennemi est très supérieur en nombre. Les Allemands font sauter la station radio de Kamina et le gouverneur, le Duc Adolf Friedrich de Mecklembourg, capitule le 26 août. Anglais et Français se partagent le pays.

 

La situation est différente au Cameroun, dix fois plus vaste. Au Nord, le Cameroun est une savane herbeuse et, au Sud, une forêt vierge impénétrable. Les denrées d’exportation sont la banane, le cacao, le tabac, le caoutchouc et les métaux précieux. En 1913, le pays compte quatre millions d’indigènes et seulement 2000 Allemands. L’administration est assurée par quatre cents fonctionnaires. Le nombre de femmes et d’enfants européens est insignifiant, vu le climat très difficile à supporter pour les Blancs, si bien qu’il n’y avait pas une seule école pour les enfants d’Européens.

 

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Drapeau du Cameroun à l'époque du protectorat allemand

Dans ce Cameroun alors fort inhospitalier, les Alliés occidentaux auront de grosses difficultés à maîtriser la situation. La troupe de protection de la colonie comprend 43 compagnies, avec 1460 Allemands et 6550 indigènes. Les puissances de l’Entente leur opposaient, au début de la première guerre mondiale, un millier de soldats blancs et 15.000 colorés, parmi lesquels un régiment disciplinaire indien. Les défenseurs de la colonie allemande durent lutter sur trois fronts : au Sud, les Français entendent gagner du terrain au départ du Gabon, au Nord, les Britanniques pénètrent au Cameroun en partant de leur colonie du Nigéria. Plus tard, les Belges enverront une force de trois mille hommes, venus du Congo à l’Est.

Askaris%20zum%20Appell+.jpgLa troupe de protection allemande fut rapidement coupée de toute voie d’approvisionnement et, devant des forces ennemies supérieures en nombre, est obligée de se replier progressivement sur les hauts plateaux du pays, autour de l’actuelle capitale Yaoundé. Les combats acharnés durent jusqu’au début de l’année 1916. A ce moment-là, Allemands et Camerounais n’ont plus de munitions. Les Askaris de l’Empereur Guillaume II engagent le combat contre l’ennemi uniquement avec leurs baïonnettes. A la mi-février, le gros de la troupe de protection gagne un territoire neutre, la colonie espagnole de Rio Muni au Sud du Cameroun. Des dizaines de milliers d’indigènes, fidèles au Reich allemand, les suivent dans cet exil. Dans le Nord du protectorat du Cameroun, à proximité du Lac Tchad, la forteresse de montagne de Maroua tient sans fléchir sous les ordres du capitaine von Raben, grièvement blessé. 

 

Il ne rendra les armes  —mais ses soldats n’ont plus une seule cartouche !—  que lorsqu’il apprendra que le gros de la troupe de protection, invaincue, était en sécurité sur territoire espagnol. La dernière citadelle allemande du Cameroun était tombée. La présence allemande dans ce pays africain appartenait désormais au passé.

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°50/2005 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

The Germanization of Early Medieval Christianity

OS_namen_klein.jpgEUROPEAN SYNERGIES – MANAGERS’ SCHOOL / BRUSSELS/LIEGE –
OCTOBER 2004 – BIBLIOGRAPHICAL INFORMATION

The Germanization of Early Medieval Christianity: A Sociohistorical Approach to Religious Transformation

by James C. Russell

Price: US
$25.00
Product Details

*    Paperback: 272 pages ; Dimensions (in inches): 0.72 x 9.16 x 6.08
*    Publisher: Oxford University Press; Reprint edition (June 1, 1996)
*    ISBN: 0195104668

 

Editorial Reviews

Synopsis
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, this work argues for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. This treatment of the subject follows an interdisciplinary approach, applying to the early medieval period a sociohistorical method similar to that which has already proven fruitful in explicating the history of Early Christianity and Late Antiquity. The encounter of the Germanic peoples with Christianity is studied from within the larger context of the encounter of a predominantly "world-accepting" Indo-European folk-religiosity with predominantly "world-rejecting" religious movements. While the first part of the book develops a general model of religious transformation for such encounters, the second part applies this model to the Germano-Christian scenario. Russell shows how a Christian missionary policy of temporary accommodation inadvertently contributed to a reciprocal Germanization of Christianity.

Ingram
While historians of Christianity have generally acknowledged some degree of Germanic influence in the development of early medieval Christianity, Russell goes further, arguing for a fundamental Germanic reinterpretation of Christianity. He utilizes recent developments in sociobiology, anthropology, and psychology to help explain this pivotal transformation of the West. This book will interest all who wish to further their understanding of Christianity and Western civilization.


Reviewer: Elliot Bougis "coxson" (Taichung, Taiwan)  
I stumbled upon this book while researching for a study of the conjoined paganization/Christianization of Medieval literature. What a find! As the reviewer above mentioned, Russell's strength lies in the amazing range of his scholarship. This intellectual breadth, however, does not detract from Russell's more focused, balanced, and lucid examination of key points (e.g., anomie as a factor in social religious conversion, fundamental worldview clashes between Christianity and Germanic converts, etc.). Russell covers a lot of ground in a mere 200+ pages. Moreover, his final assertions are modest enough to be credible, and yet daring enough to remain highly interesting. Plus, from a research perspective, the bibliography alone is worth a handful of other books. This book has been normative in my decisions about the contours of any future scholarship I pursue. Alas, I was left hungering for a continuation of many of the themes, to which Russell often just alludes (e.g, the imbibed Germanic ethos as the animus for the "Christian" Crusades, the contemporary implications of urban anomie for our globalizing world, etc.). Of course, such stellar scholarship cannot be rushed. Surely Russell's next inquiry is worth the wait!


Brilliant and innovative study of Germanic religiosity
, September 2, 1999
Reviewer:
A reader
Scholar James Russell has given us an important work with this detailed study. Subtitled "A sociohistorical approach to religious transformation," it is an exceedingly well-researched and documented analysis of the conversion of the Germanic tribes to the imported and fundamentally alien religion of Christianity during the period of 376-754 of the Common Era. Russell's work is all the more dynamic as he does not limit his inquiry simply to one field of study, but rather utilizes insights from sources as varied as modern sociobiological understanding of kinship behaviors, theological models on the nature of religious conversion, and comparative Indo-European religious research. Dexterously culling relevant evidence from such disparate disciplines, he then interprets a vast array of documentary material from the period of European history in question. The end result is a convincing book that offers a wealth of food for thought-not just in regards to historical conceptions of the past, but with far-reaching implications which relate directly to the tide of spiritual malaise currently at a high water mark in the collective European psyche. The first half of Russell's work provides an in-depth examination of various aspects of conversion, Christianization and Germanization, allowing him to arrive at a functional definition of religious transformation which he then applies to the more straightforward historical research material in the latter sections of the book. Along the way he presents a lucid exploration of ancient Germanic religiosity and social structure, placed appropriately in the wider context of a much older Indo-European religious tradition. Russell completes the study by tracing the parallel events of Germanization and Christianization in the central European tribal territories. He marshals a convincing array of historical, linguistic and other evidence to demonstrate his major thesis, asserting that during the process of the large European conversions Christianity was significantly "Germanicized" as a consequence of its adoption by the tribal peoples, while at the same time the latter were often "Christianized" only in a quite perfunctory and tenuous sense. Contrary to simplistic models put forth by some past historians, this book illustrates that conversion was not any sort of linear "one-way street"; a testament to the fundamental power of indigenous Indo-European and Germanic religiosity lies in the evidence that it was never fully or substantially eradicated by the faith which succeeded it. As Russell shows, a more accurate scenario was that of native spirituality and folk-tradition sublimated into a Christian framework, which in this altered form then became the predominant spiritual system for Europe. Russell's Germanization of Early Medieval Christianity is wide-ranging yet commanding in its contentions, and academia could do well with encouraging more scholars of this calibre and fortitude who are able to avoid the pitfall of over-specialization and produce works of great scope and lasting relevance. Make no doubt about it, this is a demanding and complex book, but for those willing to invest the effort, the benefits of understanding its content will be amply rewarding, and of imperative relevance for anyone who wishes to apprehend the past, present and future of genuine European religiosity.

samedi, 03 avril 2010

Geheim CIA-rapport laat manipulatie West-Europese publieke opinie zien

Ex: http://www.sargasso.nl/archief/2010/03/30/geheim-cia-rapport-laat-manipulatie-west-europese-publieke-opinie-zien

Geheim CIA-rapport laat manipulatie West-Europese publieke opinie zien

Sargasso biedt regelmatig ruimte voor gastbijdragen. Dit maal een bijdrage van lsdimension met daarin een analyse van recent gelekte documenten van de CIA.


cia_cia_db[1].jpgVan Glenn Greenwald, een geheim CIA-rapport (pdf) dat eerder deze maand opgesteld werd, en gelekt is via de klokkenluiderswebsite WikiLeaks. Wat erin staat is fascinerend. Het is opgesteld door de ‘Red Cell’ (een soort afdeling binnen de CIA die ‘onconventionele’ oplossingen verzint), en laat zien hoe de Verenigde Staten na de val van de Nederlandse regering de publieke opinie in Duitsland en Frankrijk kunnen manipuleren teneinde steun voor de oorlog in Afghanistan te doen toenemen.
Dit is niet alleen één van de meest cynische stukken die ik ooit gelezen heb; het plaatst de controverse in Nederland over verlenging van de missie in Afghanistan ook in een heel ander perspectief.
Het CIA-rapport analyseert eerst hoe de Duitse en Franse regeringen hebben gesteund op de “publieke apathie” (letterlijk) teneinde “kiezers te negeren” (ook letterlijk) en geleidelijk aan troepenaantallen in Afghanistan te verhogen:

Public Apathy Enables Leaders to Ignore Voters
The Afghanistans mission’s low public salience has allowed French and German leaders to disregard popular opposition and steadily increase their troop contributions to the International Security Assistance Force (ISAF).


Als nieuwe gevechten aanstaande lente en zomer meer militaire en burgerlijke slachtoffers zullen eisen, en als een “Nederlands debat” overspringt naar deze landen, zou de publieke opinie zich echter tegen de oorlog kunnen keren. Dit zou Duitse en Franse politici kunnen doen terugdeinzen. Daarom is het belangrijk, aldus het rapport, dat de Duitse en Franse kiezers “duidelijke overeenkomsten tussen resultaten in Afghanistan en hun eigen prioriteiten zien”.
En wat zijn deze prioriteiten? Volgens de CIA zijn de Fransen vooral gefocust op “burgers en vluchtelingen”, en de Duitsers op de “kosten en redenen” van de oorlog. Op deze zorgen zou men zich daarom moeten richten, door middel van het aanpassen van de boodschap. Zo moeten de gevolgen voor de Afghaanse bevolking “gedramatiseerd” worden om bij de Europeanen “schuldgevoelens” teweeg te brengen.
Focusing on a message that ISAF benefits Afghan civilians and citing examples of concrete gains could limit and perhaps even reverse opposition to the mission. Such tailored messages could tap into acute French concern for civilians and refugees.
(…)
Conversely, messaging that dramatizes the potential adverse consequences of an ISAF defeat for Afghan civilians could leverage French (and other European) guilt for abandoning them.
(…)
Some German opposition to ISAF might be muted by proof of progress on the ground, warnings about the potential consequences for Germany of defeat, and reassurances that Germany is a valued partner in a necessary NATO-led mission.
Omdat Europeanen verliefd zijn op Obama adviseert het rapport ook dat deze persoonlijk hun belang voor de NAVO-inspanningen in Afghanistan benadrukt. En mochten ze zich terugtrekken, dan zou Obama expliciet zijn teleurstelling moeten aangeven.
The confidence of the French and German publics in President Obama’s ability to handle foreign affairs in general and Afghanistan in particular suggest that they would be receptive to his direct affirmation of their importance to the ISAF mission – and sensitive to direct expressions of disappointment in allies who do not help.
En nu komt wellicht het beste stuk. Volgens het rapport zijn de vrouwen van Afghanistan de beste boodschappers om een menselijk gezicht op de missie te plakken. Niet alleen omdat vrouwen in het algemeen persoonlijker kunnen spreken, maar ook omdat ze gebruikt kunnen worden om specifiek op Duitse, Franse en andere West-Europese vrouwen te mikken. De CIA heeft ook suggesties voor publiciteitsacties en een media-offensief.
Afghan women could serve as ideal messengers in humanizing the ISAF role in combating the Taliban because of women’s ability to speak personally and credibly about their experiences under the Taliban, their aspirations for the future, and their fears of a Taliban victory. Outreach initiatives that create media opportunities for Afghan women to share their stories with French, German, and other European women could help to overcome pervasive skepticism among women in Western Europe toward the ISAF mission.
(…)
Media events that feature testimonials by Afghan women should probably be most effective if broadcast on programs that have large and disproportionately female audiences.
De website die dit CIA-rapport online heeft gezet,
WikiLeaks, is briljant. De laatste paar jaar hebben ze een keur aan geheime documenten, die activiteiten van regeringen en bedrijven aan het licht brengen, te pakken weten te krijgen en gepubliceerd. Zo hebben ze bijvoorbeeld de gevoelige Standard Operating Manual for Guantánamo Bay online gezet, documenten die laten zien hoe aan de economische ineenstorting van IJsland corrupte offshore loans vooraf gingen, de beruchte e-mailuitwisselingen tussen klimaatwetenschappers, documenten die laten zien dat er giftige afvalstoffen geloosd worden voor de Afrikaanse kust, enzovoort. Ze zijn nu bezig om een controversiële video uit te brengen met beelden van een Amerikaanse luchtaanval in Afghanistan afgelopen mei, waarbij 97 burgers omkwamen.
Dit alles heeft ze echter een gehaat doelwit gemaakt van overheden en economische elites overal ter wereld. Het Pentagon heeft zelfs een rapport opgesteld, dat eveneens door de site werd ondervangen en gepubliceerd, hoe WikiLeaks aangepakt kan worden. De mogelijkheid wordt hierbij geopperd dat zelfs het surfen naar de site als een misdaad gezien kan worden.
Greenwald:
As The New York Times put it last week: “To the list of the enemies threatening the security of the United States, the Pentagon has added WikiLeaks.org, a tiny online source of information and documents that governments and corporations around the world would prefer to keep secret.” In 2008, the U.S. Army Counterintelligence Center prepared a secret report — obtained and posted by WikiLeaks — devoted to this website and detailing, in a section entitled “Is it Free Speech or Illegal Speech?”, ways it would seek to destroy the organization. It discusses the possibility that, for some governments, not merely contributing to WikiLeaks, but “even accessing the website itself is a crime,” and outlines its proposal for WikiLeaks’ destruction as follows: click
Greenwald heeft op zijn site een interview met Julian Assange, de Australische hoofdredacteur van WikiLeaks, die vertelt dat vrijwilligers van WikiLeaks in toenemende mate worden belaagd door de Amerikaanse en andere autoriteiten. Zo is een van hen vorige week
nog gearresteerd en ondervraagd op IJsland. Van hun site:

Over the last few years, WikiLeaks has been the subject of hostile acts by security organizations. In the developing world, these range from the appalling assassination of two related human rights lawyers in Nairobi last March (an armed attack on my compound there in 2007 is still unattributed) to an unsuccessful mass attack by Chinese computers on our servers in Stockholm, after we published photos of murders in Tibet. In the West this has ranged from the overt, the head of Germany’s foreign intelligence service, the BND, threatening to prosecute us unless we removed a report on CIA activity in Kosovo, to the covert, to an ambush by a “James Bond” character in a Luxembourg car park, an event that ended with a mere “we think it would be in your interest to…”.

De reden dat de redacteuren van WikiLeaks zich op IJsland bevinden is dat het IJslandse parlement, na de publicatie van een reeks documenten die laten zien hoe aan de economische ineenstorting van het land verschillende malafide praktijken voorafgingen, wetgeving overweegt die aan klokkenluiders de beste bescherming ter wereld zou moeten geven. Dit zou van IJsland een vrijhaven voor journalisten maken.
Om af te sluiten: dit alles draait om open government, geheimhouding, internetvrijheid en uiteindelijk om de mogelijkheid voor burgers om, eenmaal geïnformeerd, inzicht te krijgen in de werking van regeringen en bedrijven, en te proberen ze te hervormen. Het soort informatiemanipulatie waar de CIA zich blijkens bovenstaand rapport aan schuldig maakt zou voor iedereen openbaar moeten zijn, zodat burgers een oordeel kunnen vormen over politieke vraagstukken, en over de regeringen die vorm geven aan deze vraagstukken. Je kunt hier aan
WikiLeaks doneren, ze helpen, of een veilige inzending doen.

Afghanistan: comment la CIA souhaite manipuler l'opinion publique française

cia.jpgAfghanistan : comment la CIA souhaite manipuler l’opinion publique française

WASHINGTON (NOVOpress) – Dans une note préparée par sa « cellule rouge », chargée des propositions et analyses novatrices, l’agence de renseignement américaine propose de manipuler l’opinion publique française afin de la rendre plus favorable à l’intervention en Afghanistan, et ainsi faciliter l’envoi de renforts français sur le théâtre d’opérations.

Selon ce document, en France et en Allemagne, « l’apathie de l’opinion publique permet aux dirigeants de ne pas se soucier de leurs mandants ». En effet, bien que 80% des Français et des Allemands soient opposés à la guerre, « le peu d’intérêt suscité par la question a permis aux responsables de ne pas tenir compte de cette opposition et d’envoyer des renforts ».

Mais l’agence rappelle le précédent des Pays Bas où la coalition au pouvoir a éclaté sur la question afghane, et s’inquiète d’un possible revirement de l’opinion si les prochains combats sur place sont meurtriers.

Pour les rédacteurs, il convient donc de préparer les opinions publiques à accepter des pertes, notamment en cherchant à établir un lien entre l’expédition afghane et les préoccupations internes.

Pour obtenir ce résultat, plusieurs axes sont proposés par les agents américains :

- La question des réfugiés. L’importance accordée en France à la question des réfugiés, soulignée par la vague de protestation qui a accompagné la récente expulsion de douze afghans, offrant un premier axe de propagande consistant à persuader les Français que l’OTAN vient en aide aux civils.

- Le féminisme et la condition des femmes. Le document propose ainsi d’insister sur les progrès réalisés dans l’éducation des femmes, qui seraient compromis par un retour des talibans. La CIA recommande d’ailleurs de faire délivrer les messages favorables à l’intervention occidentale par des femmes afghanes.

- L’Obamania. Le crédit dont jouit le président Obama en Europe pourrait également être mis à profit, son implication plus directe permettant sans doute de renforcer le soutien à l’intervention.


[cc [1]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info [2]]


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Intervista a Gabriele Adinolfi

Intervista a Gabriele Adinolfi

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


Gabriele Adinolfi è nato a Roma nel 1954. Tra i fondatori di Terza Posizione, è analista politico e scrittore. Ha collaborato a numerose iniziative culturali, tra cui «Orion», gestisce il sito di informazione «Noreporter» e ha istituito il Centro Studi Polaris.


Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?

Silla, Cesare, Augusto, Giuliano, gli Ottoni, Barbarossa, Carlo V, Napoleone e i grandi dell’Asse.
Poi, sul piano degli scrittori, Friedrich Nietzsche, in cui è essenziale lo sforzo poetico dello spirito guerriero, il coraggio di guardare la nudità senza arrossire; Pierre Drieu La Rochelle, la sobria e cosciente concezione di vivere la tragedia; Julius Evola, il nume che ti presenta direttamente la tua verità ancestrale e quella divina; Benito Mussolini, il pensiero lineare e lirico in geometrie perfette; Luigi Pirandello, come dice lui stesso, «le maschere nude», quindi l’ironia divina nell’introspezione della commedia umana; Jean Mabire, la capacità di disegnare paesaggi e personaggi eroici propri ad un romanziere, che è stato ufficiale di commando e che resta legato ad un immaginario pagano; infine Alexandre Dumas, l’espressione delle gerarchie valoriali che si rivelano nel pieno delle passioni umane. Ma penso si debbano aggiungere anche Emilio Salgari che con i suoi capolavori di avventura ha creato un immaginario impareggiabile invitandoci a vivere sul serio, ed Edmondo De Amicis che con il libro Cuore ha insegnato e formato tantissimo le generazioni che vanno da quella cresciuta immediatamente prima del fascismo alla mia.


Soppressione delle libertà politiche, leggi razziali, imperialismo coloniale, alleanza con Hitler. Queste sono le classiche accuse rivolte al Fascismo dalla vulgata corrente. Che cosa rispondi a chi presenta tutto ciò come la definitiva condanna in sede storiografica e politica del Ventennio?

Che chi lo pensa è ignorante, male informato o prevenuto.
Il Fascismo e l’Asse hanno rappresentato l’espressione piena e vitale della libertà e della dignità dei popoli e lo hanno fatto da ogni punto di vista: esistenziale, politico, culturale, finanziario, economico, energetico e sociale.
Chi ha conculcato le libertà, oltre ad aver eliminato centinaia di milioni di uomini, chi ha imposto il sistema criminale e mafioso in cui versa oggi un pianeta allo sbando, preda dello sfruttamento integrale di popoli, individui e risorse, della speculazione intensiva ed estensiva che si estende al sistematico utilizzo del narcotraffico e alle miliardarie e delinquenziali operazioni farmaceutiche che apportano epidemie e impediscono qualsiasi cura di successo, è proprio chi alla Germania dichiarò guerra nel 1939 e poi combatté contro di noi ed il Giappone. Si tratta di quegli stessi che, dopo aver commesso il genocidio completo dei nativi americani, hanno compiuto i massacri al fosforo, al napalm e con le bombe atomiche.
Non possono così che suonare grottesche le accuse mosse all’Asse; in particolare quella che va ultimamente alla moda di prendersela con il Fascismo per le leggi razziali, stilate peraltro al varo dell’Impero, «dimenticando» che tra i «buoni» le leggi razziste erano attive, dall’arrivo dei «progressisti» al potere, come in Francia dove furono introdotte da un premier israelita o negli Usa dove rimasero attive fino al 1964. Pretendere che queste fossero un motivo di differenziazione e di scontro è ridicolo come lo è la distrazione odierna, visto che nessuno si scandalizza per quelle tuttora in vigore in Liberia e in Israele.
Che i padrini della mafia americana e cosmopolita o i lacchè dello stalinismo possano aver presentato, a posteriori, il Fascismo e l’Asse in questo modo falso e fittizio ci sta pure: hanno vinto e possono fare quello che vogliono, anche imporre leggi contro la ricerca storica. Poiché poi la menzogna è tipica della loro cultura, è normalissimo che la propaghino ovunque a mascheratura della loro sozzura.
Quello che non si può invece avallare è il tentativo pietoso di coloro che, avendo frequentato ambienti diversi dai dominanti, ambienti in cui proprio la conoscenza storica è la prima attività politica, si affannino a dire bestialità di questo tipo nel vile e servile conato di essere accettati. Non si sa bene da chi vogliano esserlo né come sperino di riuscirci perché chi striscia non piace neppure a colui verso cui si prosterna. Ma mi chiedo anche perché mai costoro dovrebbero fare carriera.
Cos’hanno, infatti, da farci la Nazione, il popolo, la stessa umanità, di gente così?
Infine ci sono quelli a cui, come si dice a Roma «non regge la pompa»: quelli che hanno paura di essere giudicati e cercano di farsi strada a gomitate «prendendo le distanze» da questo o da quell’aspetto, in modo da non sentirsi scomunicati. La scala di valori tra costoro varia: molti sono semplicemente dei deboli, altri sono degli influenzati, comunque scarsamente combattivi, parecchi invece sono dei banali miserabili.
Non hanno la forza e il coraggio di andare in fondo nella ricerca della giustizia e della verità e preferiscono evitare di pagare dazio, gettando al mare la memoria dei vinti perché tanto non costa nulla. Infatti perdono solo la dirittura e la dignità.


Uno sguardo all’attualità. Come giudichi sinteticamente Berlusconi e la sua politica estera?

Berlusconi è un po’ Craxi, un po’ Pacciardi e un po’ Cossiga. Ovviamente è soprattutto craxiano, anche se il ruolo dell’Italia è cambiato sulla questione palestinese; infatti, a differenza di Craxi, Berlusconi è filo-israeliano. Ma non dimentichiamoci che non c’è più Arafat dalla parte dei palestinesi, e quindi mancano le parti con cui dialogare.


Oltre a un’innegabile componente craxiana, in Berlusconi rivedi confluite anche altre tradizioni politiche, per esempio di un Giolitti?

Sicuramente Berlusconi ha una componente giolittiana. Nondimeno il presidente più simile a Giolitti è stato Andreotti.


Che ne pensi della politica economica dell’attuale governo?

L’Italia, dal punto di vista capitalista, diplomatico ed energetico, sta seguendo le linee di politica estera già abbozzate e poi delineate da Mussolini verso est e sud. Ribadisco che tuttavia il modello politico, sociale e culturale non è sicuramente mussoliniano.


Sul caso Alitalia, come giudichi il comportamento dell’esecutivo?

In Italia il capitalismo funziona sul consociativismo e sul co-interesse. Ossia: più do da mangiare ad un nemico e meno lo ho contro.


Quale reputi che sia l’influenza della massoneria oggi?

Nei precedenti governi, compresi quelli Berlusconi, ci furono certamente uomini con una forte connotazione massonica e con un passato di quel marchio, ma oggi i poteri forti sono altra cosa: a livello nevralgico c’è una compenetrazione di interessi vaticani, laici, protestanti, israeliti che convivono tramite strutture miste. L’«Ancien Régime» vuole questo consociativismo con le comunità islamiche, e questo modello è dettato da Usa e Francia.


Come giudichi la caduta dell’ultimo Governo Prodi?

Vista la situazione internazionale, con il Trattato di Lisbona, è interesse dei centri di potere che vengano fatte determinate riforme. I poteri forti volevano Prodi, ma è impossibile governare ricorrendo ogni volta al voto determinante dei senatori a vita. Quindi, dopo aver concepito l’irrimediabilità della bancarotta per il governo Prodi, i centri di potere hanno permesso nuovamente a Berlusconi di gestire la situazione. Tuttavia Murdoch, i magistrati e la CEI sono in conflitto con il Cavaliere, che però è supportato dal Vaticano. Le oligarchie comunque non sono di certo filo-berlusconiane.


La Mafia è, secondo te, un potere forte?

Non totalmente. Lo Stato non la può abbattere e non ha i mezzi per farlo. Ma, qualora acquisisse tutto questo, lo potrebbe fare sicuramente.


Perché Berlusconi è entrato in politica?

Entra in politica per salvare le tv. Poi, dopo averci preso gusto, ha deciso di rimanerci ed ampliare il suo impero, entrando in collisione con i magistrati.


Che cosa ne pensi delle affermazioni di Gelli su Berlusconi? Secondo te chi ha fatto entrare il Cavaliere in politica?

A proposito di Gelli, non è affatto vero che la P2 voleva bloccare l’avanzata comunista al governo. Inoltre va detto che ricevere complimenti da Gelli non è affatto positivo; magari Gelli li ha fatti perché, avendo perso la leadership, è geloso di Berlusconi. Resta comunque una persona poco credibile e, quel che è certo, non è stato lui a far entrare il Cavaliere in politica, ma piuttosto Bettino Craxi e Francesco Cossiga.


Capitolo «Gianfranco Fini»: con le sue ultime scelte, dove vuole arrivare?

Innanzitutto voglio precisare che ritengo che Fini sia mosso dall’invidia nei confronti di Berlusconi. Ad ogni modo, il suo sogno è fare il Presidente della Repubblica, ma forse ha fatto calcoli inesatti, perché nel suo giochino «scandalistico» ottiene consenso a sinistra, che tuttavia è effimero: la sinistra infatti non lo sosterrebbe mai a discapito di un suo esponente. Un altro suo possibile errore è l’eccessiva convinzione che sembra nutrire di essere tutelato e garantito da centri di potere esteri, che, a parte Londra, non hanno motivi per appoggiarlo.


Ultimamente si sono accese roventi polemiche sul ruolo effettivo di Di Pietro in Tangentopoli. Tu come la vedi?

Americani e comunisti, sapendo che non avrebbe mai potuto affossare il Pci, hanno fatto fare a Di Pietro una manovra politico-giudiziaria che ha spazzato via tutti i partiti politici del tempo, escludendo solo il Pci. Non a caso, per darsi una collocazione politica, si è fatto aiutare da Occhetto che, comunque, resta per me il vero regista della manovra di Tangentopoli.


Passiamo velocemente alla storia. Riguardo alla Guerra Fredda, che cos’è che non ci ha raccontato la storiografia ufficiale?

La Guerra Fredda si è combattuta realmente in Asia, non in Europa. Kennedy e Krusciov, che passano per moderati, sono stati coloro che hanno alzato maggiormente il tiro e rischiato seriamente di arrivare ad uno scontro armato. Da questa situazione chi ne ha tratto vantaggio è stata la Cina, perché è stata utilizzata dagli USA in funzione anti-sovietica.


Non furono in pochi coloro che, dopo la disfatta bellica, traslocarono dal Pfr al Pci, come ad es. Stanis Ruinas. Come giudichi questa scelta? Fu un tradimento o un percorso rivoluzionario alternativo?

A mio giudizio è dura passare il solco tra Fascismo e Pci, in particolare dopo le stragi ignobili commesse dai partigiani; anche se il Msi è lontano anni luce dal Fascismo, non bisogna dimenticare che il Movimento Sociale non aveva spazi e perciò, invece che scomparire, ha dovuto fare delle scelte. Il problema di quel partito, secondo me, è comportamentale, perché questo al suo interno aveva personaggi rivoluzionari, ma aveva una gestione para-statale. Comunque in politica non esiste il «giusto» o «sbagliato»: ciò che conta è l’uomo e nel Msi purtroppo vi fu molto l’inversione delle gerarchie con tutto quello che ne è conseguito.


Torniamo alla politica attuale. Quali prospettive per CasaPound?

Innanzitutto dipenderà dal ritmo che CasaPound avrà, anche se a mio parere gli allargamenti numerici sono stati negli ultimi tempi un po’ eccessivi e la obbligano a un forte impegno per rispondere al suo clamoroso successo. Ma dal punto di vista della creazione artistica e delle capacità dialettiche e mediatiche, CasaPound sta bruciando qualsiasi record. Proprio per questo ci vuole tenuta. Ad oggi è difficile capire quali siano i limiti che possa incontrare e quali gli obiettivi che le possano essere preclusi, se riesce a mantenere una corsa cadenzata.


Come giudichi le accuse di entrismo, giunte sia da destra che da sinistra, rivolte a CasaPound?

CasaPound ha abbandonato l’infantilismo destro-terminale e lo ha fatto senza sottostare alle logiche dell’entrismo. Questo fa letteralmente impazzire i duri e puri della «masturb-azione» che vedono ogni giorno la fotografia dell’essere radicali, idealisti e concreti e non hanno alibi per motivare la loro mancanza di azione.


Parliamo di Polaris. Come nasce questo centro studi, e perché?

Nel sistema moderno ed oligarchico, un ruolo essenziale nella formazione delle élites è dovuto ai think tank, che restano comunque un modello americano. Anche in Europa esistono, mentre in Cina e in India si stanno sviluppando. In Italia i centri studi, se hanno forza, producono programmi scientifici (come la Fondazione Ugo Spirito), oppure sono salotti correntizi dei politici che hanno tendenza alla superficialità. Il think tank fa analisi, propone soluzioni e strategie per conto di poteri forti economici privati. Polaris prova una terza via, cioè tracciare e proporre analisi e strategie per tutti gli operatori politici ed a vantaggio della nazione. Facendo un esempio, è come un’agenzia di servizi per le questioni politiche, giuridiche ed economiche; al contrario di come spesso avviene, Polaris è cresciuta gradualmente e da marzo editerà una pubblicazione trimestrale, che si pone ai livelli e nelle competenze trattate di riviste come «Limes» o «Aspenia».


Come è possibile coniugare movimentismo futur-ardito, attività culturale d’avanguardia ed elaborazioni strategiche ad ampio respiro?

Essenzialmente bisogna coniugare strutture a importanti reti relazionali.



Le Corridor 8: Où est passé le huitième corridor?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Le CORRIDOR 8 : Où est passé le huitième corridor ?

7 juin 1999

corridor8_350.gifJe vous le donne en mille : le huitième corridor passe par Skopje, en Macédoine, à quelques kilomètres du Kosovo. Pourquoi n'en n'avons-nous jamais entendu parler, puisque nous vivons en démocratie, que nous nous permettons de bombarder des télévisions et des radios, de tuer des journalistes (coupables de faire de la propagande, et nous de l'information), pourquoi n'avons-nous jamais entendu parler des corridors VIII, X, IV et "dalmatien" ? Pourquoi ces projets, qui sont au cœur des politiques de tous les pays des Balkans, qui concernent directement le développement économique de l'Europe, nous ont-ils été cachés ? Pourquoi cet élément vital, dans la décision des peuples à entrer en guerre, a-t-il été occulté ?

 

Le corridor VIII relie le port albanais de Durres à Varna (Bulgarie) via Tirana, Kaftan, Skopje, Deve Bair, Sofia, Plovdiv et Burgas. Le corridor IV joint Dresde (Allemagne) à Istanbul (Turquie) en passant par Prague, Bratislava, Gjor, Budapest, Arad, Krajova, Sofia et Plovdiv. Des embranchements relient Nuremberg, Vienne, Bucarest et Constantza au tronçon principal.

 

Le corridor X traverse Salzbourg (Autriche), Ljubljana, Zagreb, Belgrade, Nis, Skopje, Veles et Thessalonique (Grèce). Des embranchements relient Graz, Maribor, Sofia, Bitola, Florina, Igoumenitza au tronçon principal.

 

Ces trois corridors de transport pan-européen (Pan-European Transport Corridors) font partie d'un projet plus global visant au développement des anciens pays du bloc soviétique, et à leur intégration à l'économie euro­péenne. Au total, ce projet représente 18.000 kilomètres de routes, 20.000 kilomètres de lignes ferro­viaires, 38 aéroports, 13 ports maritimes, 49 ports fluviaux. Le budget estimé, d'ici l'année 2015, est de 90 milliards d'euros La seule partie concernant les Balkans est estimée à 10,5 milliards d'euros. (Il s'agit ici d'estimations basses : les projets de développement à l'est sont répartis, au niveau européen, en de nombreux chapitres, et il est difficile d'en tirer rapidement vue globale ; de plus, cela concerne uniquement la partie financée par l'Union européenne, sans compter les Américains, très impliqués, les Turcs, ainsi que divers fonds privés ; ces chiffres sont donc certainement sous-évalués de beaucoup.) Ces chiffres sont éloquents : on parle ici de travaux pharaoniques à l'échelle d'un continent. En termes politiques, sociaux, économiques, il s'agit d'un des principaux projets de développement en Europe.

 

Evoquons, de plus, le projet grec de corridor "dalmatien", reliant le port italien de Trieste à la ville d'Igou­menista (Grèce), longeant la côte via l'Albanie, la Yougoslavie, la Bosnie et la Croatie, projet proposé à la mi-98, estimé à 3 milliards de dollars.

 

Pour finir, il faut parler d'un autre projet similaire aux corridors pan-européens, cette fois dans le Caucase et en Asie centrale, le programme TRACECA, lui aussi à l'échelle d'un continent. Son intérêt repose, pour l'économie occidentale, sur la jonction entre ce projet et l'Europe ("It had been recognised that one the weak­nesses of the TRACECA route, in the context of the EU Tacis programme, was the lack of linkage between the western end and the European market", remarque formulé à Helsinky en 1997); ce lien repose donc sur les corridors IV et VIII, via le port de Varna. Ainsi les projets de développement des vingt prochaines années du continent européen reposent sur la réalisation de corridors traversant les Balkans. Sur le plan, vous remar­querez que le nœud central reliant les corridors VIII, X et IV est un triangle formé par Nis, Skopje et Sofia, dont le centre géographique se situe en plein Kosovo. Une instabilité persistante du Kosovo, de la Serbie et, de fait, de l'Albanie et de la Macédoine, serait fatale à l'un des plus importants projets humains en cours. Ah oui, j'oubliais : les débuts des travaux sont prévus pour... maintenant (les financements du corridor VIII sont quasiment bouclés, les études européennes représentent déjà des dizaines de millions d'euros, de nombreux tronçons sont en cours de réalisation).

 

Alors pourquoi avoir totalement occulté l'importance économique de ce conflit ? Les démocraties sont-elles si faibles qu'il faille un alibi purement humanitaire, l'argument du développement humain de tout un continent serait-il apparu, à nos yeux, moins légitime ? Pourquoi présenter les travaux qui commencent en ce moment en Albanie comme une "reconstruction" et un soutien pour "bons et loyaux services", alors qu'il ne s'agit que du début du corridor VIII, conçu et financé de longue date ? Pourquoi dire : "si les Serbes veulent des crédits pour leur reconstruction, ils doivent se débarrasser de Milosevic", alors qu'en réalité, "nous avons besoin, pour notre propre développement, de construire des infrastructures en Serbie et, pour en assurer la viabilité, nous devons nous débarrasser de Milosevic" (c'est le problème exactement inverse) ?

 

J'insiste : pourquoi nous a-t-on expliqué que cette région n'avait aucun intérêt économique (on nous a bien dit qu'il n'y avait pas de pétrole, preuve que nos intentions étaient plus pures qu'en Irak), pourquoi ne nous a-t-on jamais parlé du huitième corridor (que la presse albanaise qualifie de "célèbre corridor 8"), pourquoi avoir totalement occulté le projet de transport pan-européen (que tous les gouvernements de la région placent au centre de leurs décisions économiques) ? Est-ce qu'on ne nous prendrait pas un peu pour des cons ?

(Source : http://www.scarabee.com/EDITO2/index.shtml ?070699 )

 

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vendredi, 02 avril 2010

Vers une guerre commerciale entre la Chine et les Etats-Unis?

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Vers une guerre commerciale entre la Chine et les États-Unis?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

« Le ciel qui surplombe le commerce mondial est noir de nuées d’orage. Les tambours de guerre battent de plus en plus fort. Certains guettent déjà l’équivalent de l’assassinat de l’archiduc François-Ferdinand. Une étincelle suffirait à embraser la planète. » Voilà, dans le journal boursier britannique The Financial Times, l’introduction d’un article consacré aux relations commerciales sino-américaines. L’assassinat de l’archiduc avait été le prélude de la la Première Guerre mondiale. Le risque est réel de voir, le 15 avril, un rapport du trésor américain sur la monnaie chinoise provoquer le choc qui, à son tour, déclencherait la guerre commerciale entre les États-Unis et la Chine. Personne, dans le monde, n’échapperait aux retombées d’une telle guerre.

Depuis quelques mois déjà, d’agressifs sinophobes mènent tambour battant une offensive contre la monnaie chinoise, le yuan. Le sénateur de Pennsylvanie Arlen Specter disait en février : « Les Chinois raflent nos marchés et nos emplois. Entre 2001 et 2007, ils nous ont volé 2,3 millions d’emplois. Les subsides à leur industrie et la manipulation de leur monnaie sont des formes de banditisme international. »

Obama confirme que la Chine doit tolérer pour le yuan un cours de change « centré sur le marché .» Le cours bas du yuan coûte à notre pays des centaines de milliers, voire des millions d’emplois, ajoute le président. Un porte-parole de la Maison-Blanche menace : « Si la Chine ne corrige pas le cours du yuan, les États-Unis seront mis sous pression afin de prendre des mesures contre cette situation. »

Quelques jours plus tard, 130 sénateurs et membres de la Chambre des représentants adressent au président une lettre dans laquelle ils exigent que le gouvernement américain prenne des mesures au cas où les Chinois s’obstinent à ne pas relever le cours de leur monnaie. Le représentant du Maine, Michael Maud, déclare : « Si notre gouvernement n’entreprend aucune action, il met un frein à la relance économique, il entrave la possibilité pour les industriels et les petites entreprises des États-Unis d’étendre leur production et d’accroître l’emploi. »

Le raisonnement est donc le suivant : les produits chinois sont bon marché parce que le cours de la monnaie chinoise est très bas. Les marchés américains sont de ce fait inondés de produits chinois, ce qui fait que les usines américaines ne trouvent plus de débouchés. Et, ainsi, le chômage augmente. Les Chinois doivent réduire leurs importations en réévaluant le yuan. De la sorte, leurs produits aux États-Unis coûteront plus cher, les usines américaines tourneront mieux et pourront mettre plus de gens au travail.

Voilà le raisonnement. La question est celle-ci : qu’y a-t-il de vrai, dans tout cela ?

Le yuan est-il coupable ?

En 2004 déjà, nombre de membres du Parlement américain exigent que le gouvernement chinois relève le cours du yuan de quelque 25 pour cent. En juillet 2005, le gouvernement chinois décide de ne plus fixer le cours du yuan, mais de le laisser évoluer de façon limitée selon une baisse ou une hausse de son cours de tout au plus 0,3 pour cent par jour. Ce faisant, à la mi-2008, le yuan a grimpé de 21 pour cent par rapport au dollar. Durant cette période, l’afflux de marchandises chinoises aux États-Unis ne diminue pas. La réévaluation de 21 pour cent n’a pas résolu le problème. Aujourd’hui, les Américains exigent à nouveau une réévaluation du yuan.

 

La mémoire américaine aurait sans doute besoin de phosphore, mais pas celle des Chinois. Ceux-ci n’ont toujours pas oublié comment, dans les années 70 et 80, les Américains étaient venus insister chez leurs alliés japonais afin qu’ils réévaluent le yen et ce, pour les mêmes raisons, précisément, que celles invoquées aujourd’hui pour la réévaluation du yuan. Pour commencer, les Japonais avaient relevé leur monnaie de 20 pour cent. Et ils l’avaient fait cinq ou six fois d’affilée. En 1970, il fallait payer 350 yen pour un dollar. Aujourd’hui, 90 yen. Pour une réévaluation, c’en est une ! Mais le Japon exporte toujours beaucoup plus de produits vers les États-Unis qu’il n’en importe des mêmes États-Unis. Ceux-ci ont désormais un déficit commercial vis-à-vis du Japon qui, calculé par habitant, est même très supérieur au déficit commercial américain vis-à-vis de la Chine. Et ce, malgré l’énorme réévaluation du yen japonais.

Bon nombre d’économistes américains n’embraient pas sur cette campagne contre la Chine. Ainsi, Albert Keidel, du Georgetown Public Policy Institute, qui déclare : « Je ne suis absolument pas convaincu que les autorités chinoises manipulent le yuan et que son cours est trop bas. Comment peut-on d’ailleurs déterminer si un cours est trop bas ? Il n’existe pas de méthode concluante pour ce faire. »

Pieter Bottelier est un économiste du Carnegie Endowment for International Peace (Fondation Carnegie pour la paix mondiale). Il dit : « Prétendre que la Chine manipule le yuan est absurde. La preuve en est, d’ailleurs, qu’après la chute de Lehman Brothers, le dollar a grimpé. Le yuan a grimpé en même temps. Si les Chinois manipulaient leur monnaie, ils l’auraient bien empêché de grimper. »

Robert Pozen, économiste de la Harvard Business School, n’est pas convaincu non plus de la chose. Il déclare : « Imaginez que les Chinois réévaluent leur monnaie de 15 pour cent. Cela changerait-il quelque chose ? À peine ? »

Daniel Griswold, directeur du Center for Trade Policy Studies à l’Institut Cato de Washington, ne suit pas non plus cette croisade contre le yuan. Il estime : « Un yuan réévalué n’apporterait pas beaucoup d’oxygène à l’économie américaine, pas même s’il était réévalué de 25 pour cent. Depuis 2002, le dollar a perdu beaucoup de sa valeur par rapport au dollar canadien et à l’euro européen et, pourtant, notre déficit commercial via-à-vis du Canada et de l’Europe ne cesse de s’accroître. La réévaluation d’une autre monnaie est rarement une solution aux problèmes internes d’une économie. »

Stephen Roach, chef pour l’Asie de la banque d’affaires américaine Morgan Stanley, ne veut pas entendre parler du lauréat du prix Nobel Paul Krugman qui, dans deux pièces d’opinion publiées dans le New York Times, réclamait des taxes à l’importation sur les produits chinois afin d’augmenter de la sorte de 25 à 40 pour cent le prix de ces produits aux États-Unis. Roach explique : « Le conseil de Krugman est particulièrement mauvais et complètement déplacé. Le yuan est en réalité une bouée éclairante dans la tempête qui nous entoure. Il y a chez nous des gens qui s’époumonent contre la Chine mais qui ne voient pas que les problèmes de notre économie se situent dans notre économie même. Il est temps que Krugman soit fermement remis à sa place. »

Même le Wall Street Journal écrit : « On ne peut en croire ses oreilles. Il y a réellement des hommes politiques et des hommes d’affaires américains qui prétendent que la cause de nos problèmes réside chez les Chinois. Ils utilisent le yuan comme bouc émissaire. »

Le Fonds monétaire international ne pense pas non plus que la réévaluation du yuan puisse être très salutaire : « Une réévaluation du yuan chinois aidera un peu l’économie américaine, mais ne résoudra pas les problèmes internes. Si le yuan chinois est réévalué de 20 pour cent et s’il se passe la même chose avec la monnaie des autres marchés asiatiques en pleine croissance, l’économie américaine pourra peut-être connaître une croissance de 1 pour cent. »

Ces économistes et institutions renvoient aux problèmes internes de l’économie américaine. Examinons l’un des principaux problèmes de cette dernière

Plus de produits avec moins de main-d’œuvre

Les États-Unis, soit à peine 5 pour cent de la population mondiale, produisent presque 25 pour cent de ce qui est produit annuellement dans le monde en marchandises et services. Il y a dix ans, ils n’en étaient encore qu’à 20 pour cent. Malgré la montée de la Chine, malgré « l’envahissement du marché américain, » la part des États-Unis dans la production mondiale a augmenté, passant d’un cinquième à un quart. La production s’étend, la part américaine de la production mondiale augmente. On se poserait la question : De quoi se plaint l’establishment américain, en fait ? Mais le problème est celui-ci : Cette production de plus en plus importante est réalisée par de moins en moins de travailleurs.

 

Le ministère américain de l’Emploi dit qu’en 1979, 19,5 millions de personnes travaillaient dans le secteur industriel (manufacturier) américain. Vingt-six ans plus tard, au premier trimestre 2005, ils sont encore 14,2 millions. La production réalisée par ces 14,2 millions de travailleurs en 2005 était le double de celle des 19,5 millions de 1979. Avec 25 pour cent de travailleurs en moins, on produit deux fois plus. Au cours des 15 premières années qui ont suivi 1979, date de départ du calcul du ministère de l’Emploi, il y avait peu de produits chinois sur le marché américain et, pourtant, les emplois disparaissaient constamment en masse. Le ministère estime qu’un pour cent seulement de ces emplois liquidés sont dus à l’influence de la Chine.

Au cours des 10 années écoulées, chaque travailleur aux États-Unis a produit en moyenne 2,5 pour cent de plus chaque année. Cette hausse de la productivité n’est pas utilisée pour alléger le travail, pour augmenter les salaires, pour appliquer une diminution de la durée du temps de travail ni non plus pour créer plus d’emplois. Les entrepreneurs américains font précisément le contraire : le fruit accru du travail est utilisé pour supprimer des emplois.

Pour les hommes politiques et le monde économique des États-Unis, il est plus facile de montrer du doigt la Chine et le yuan que de vérifier où en sont les choses dans l’économie américaine et de tenter de dégager une solution à ce problème.

L’impact positif de la Chine sur l’économie américaine

Le fait de montrer la Chine du doigt est encore plus étonnant quand on examine tout ce que l’économie américaine doit à la Chine. L’an dernier, au plus fort de la crise, les exportations globales des États-Unis baissaient de 17 pour cent, mais les exportations des États-Unis vers la Chine, par contre, ne régressaient que de 0,22 pour cent. Une aubaine, pour l’économie américaine.

Quelque 50.000 entreprises américaines sont actives en Chine. L’écrasante majorité y gagne beaucoup d’argent. Pour certaines, la Chine constitue même un ange salvateur. Le Financial Times écrit : « Si la General Motors croit en Dieu, elle doit sans doute être en train de prier à genoux pour le remercier de l’existence de la Chine. L’an dernier, la vente des voitures GM en Chine a augmenté de 66 pour cent, alors qu’aux États-Unis, elle baissait de 30 pour cent. Sans la Chine, la GM n’aurait pu être sauvée. »

Les chiffres de vente élevés de la General Motors et de la plupart des autres entreprises américaines en Chine ne sont possibles que parce que l’économie et le pouvoir d’achat de la population y croissent rapidement. C’est une bonne chose, non seulement pour les entreprises américaines en Chine, mais pour toute l’économie mondiale. La Chine est devenue le principal moteur économique de la planète. Le journal du dimanche britannique The Observer écrit : « La Chine tient la barre de la relance mondiale. Elle aide le reste de l’Asie et des pays comme l’Allemagne, qui exporte beaucoup vers elle, à sortir de la récession. La Chine est l’un des principaux facteurs à avoir empêché, en 2009, que le monde ne s’enfonce encore plus dans la crise. »

The Economist écrit dans le même sens : « La Chine connaît une croissance rapide alors que les pays riches sont en récession. Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Chris Wood, un analyste du groupe financier CLSA Asia-Pacific Markets, dit que la Chine s’emploie davantage que les États-Unis à faire face à la crise. Les autorités chinoises accroissent le pouvoir d’achat des gens et c’est un puissant stimulant pour l’économie, ajoute-t-il.

Les chiffres lui donnent raison. Selon le bureau d’étude Gavekal-Dragonomics, le revenu net des ménages chinois dans la période 2004-2009 a augmenté en moyenne et par an de 7,7 pour cent à la campagne et de 9,7 pour cent dans les villes. Depuis le début de la crise, cette tendance s’amplifie encore. On peut le voir dans le tableau ci-dessous, qui reprend les divers indicateurs de l’économie chinoise pour les deux premiers mois de cette année.

Les indicateurs économiques en Chine, évolution en pour cent par rapport à la même période en 2009

jan-fév 2010
Croissance valeur industrielle ajoutée + 20,7 %
Production d’électricité + 22,1 %
Investissements (croissance réelle) + 23,0 %
Vente au détail (croissance réelle) + 15,4 %
Exportations + 31,4 %
Importations + 63,6 %
Vente de biens immobiliers + 38,2 %
Revenu autorités centrales + 32,9 %

Source : Dragonweek, Gavekal, 15 mars 2010, p. 2

Aucune économie occidentale ne peut présenter de tels chiffres. Les indicateurs économiques occidentaux n’atteignent même pas 10 pour cent des indicateurs chinois. Comme l’écrit The Economist : « Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Parcourons un peu la situation :

–les États-Unis savent que l’économie chinoise est un moteur de progrès pour toute l’économie mondiale et également, de ce fait, pour l’économie américaine ;
–ils savent que le yuan a à peine un effet négatif sur l’emploi aux États-Unis mêmes ;
–ils savent que c’est le Canada et non la Chine qui est le premier exportateur vers les États-Unis ;
–ils savent que 56 pour cent des exportations chinoises vers les États-Unis ne sont pas dues à des firmes chinoises mais viennent de multinationales américaines ;
–ils savent qu’un produit étiqueté « Made in China » aux États-Unis devrait généralement porter une étiquette « Made in China, the US, Japan, S-Korea, Taiwan, Thailand, Indonesia, Philippines, Vietnam, Singapore, Malaysia » car, pour 55 pour cent des exportations chinoises, la Chine n’est que le lieu où les diverses composantes sont assemblées, alors que ces composantes ont été produites en dehors de la Chine ;
–ils savent que, du prix de vente des produits assemblés en Chine, une petite part seulement va à la Chine et la plus grosse part va aux producteurs des composantes de ces produits ;
–ils savent que, du fait que l’assemblage est confié à la Chine, les autres pays est-asiatiques exportent beaucoup moins vers les États-Unis, mais bien plus vers la Chine et que le total des exportations est-asiatiques, chinoises y compris, vers les États-Unis, ne sont pas plus importantes, mais moins importantes, qu’il y a dix ans.

Et, pourtant, la Chine et son yuan sont les têtes de Turcs. Daniel Griswold, du Center for Trade Policy Studies, déclare : « L’attitude agressive de Washington à l’égard de Beijing est inspirée par des considérations politiques et non économiques. »

Les motivations

Les États-Unis exigent que le yuan soit réévalué mais ils exigent également, et c’est plus important, que le yuan soit libéré. Actuellement, c’est la Banque nationale chinoise, qui détermine quotidiennement le cours du yuan – depuis juillet 2008, son cours est d’entre 8,26 et 8,28 yuan pour un dollar. Le président Obama a dit : « Le cours du yuan doit être davantage centré sur le marché. » Ce qui signifierait que son cours ne serait plus déterminé par la Banque nationale, mais par le marché. Ce serait une défaite pour l’économie planifiée chinoise et une victoire pour le marché. Car, alors, l’État perdrait l’un des moyens de sa politique financière indépendante et souveraine. L’UNCTAD, l’organisation des Nations unies pour le commerce et le développement, voit où les États-Unis veulent en venir et écrit dans un rapport concernant les dangers entourant le yuan : « Le repos et le calme après la tempête financière sont tout à fait révolus. Le casino qui s’est vidé voici un an, est à nouveau rempli. Une fois de plus, on joue et on parie jusqu’à plus outre. De même, la foi inébranlable dans le fondamentalisme du marché est tout à fait revenue. Cette foi naïve estime toujours que les problèmes économiques peuvent être résolus en confiant le cours des monnaies aux marchés financiers sauvages. Ceux qui pensent que la Chine va permettre aux marchés absolument non fiables de déterminer le cours de sa monnaie ne se rendent pas compte à quel point la stabilité interne de la Chine est importante pour la région et pour le monde. »

En d’autres termes, laisser le cours du yuan au marché, c’est la même chose que de confier vos enfants à un pédophile. Mais l’offensive des États-Unis contre le « cours très bas » du yuan et contre « l’emprise de l’État chinois sur la monnaie » encourage un groupe d’économistes et d’entrepreneurs chinois à réitérer leur appel en faveur d’« une monnaie plus libre, centrée sur le marché. » Les points de vue en faveur du marché et de moins d’intervention de l’État gagnent en force dans une certaine section du monde économique et universitaire chinois et ce n’est surtout pas pour déplaire aux États-Unis.

 

La deuxième raison de l’offensive américaine contre la politique financière du gouvernement chinois est à chercher aux États-Unis mêmes. Le chômage U6 aux États-Unis est à 16,8 pour cent. U6 désigne le chômage officiel plus les chômeurs qui ne cherchent plus de travail parce qu’ils sont convaincus qu’ils ne trouveront quand même pas d’emploi, plus les travailleurs à temps partiel qui aimeraient bien travailler à temps plein mais ne parviennent pas à trouver un emploi de ce type. Le chômage effrayant de 16,8 %, la crise économico-financière la plus grave depuis 1929, l’incertitude quant à savoir si l’Amérique va sortir de la crise et si les entreprises et les familles seront encore en mesure de rembourser leurs dettes, l’incapacité du gouvernement et des entreprises à éviter toute cette misère… tout cela renforce la question : Qui a provoqué cela ? Qui doit en payer la facture ? La Chine est un coupable tout indiqué. Si l’opinion publique emprunte cette direction, les problèmes internes et les contradictions mêmes de l’économie américaine n’apparaîtront pas à la surface. Le journal Monthly Review écrit : « L’intention consiste à convaincre les travailleurs américains que la cause des problèmes ne réside pas dans le système économique même mais dans le comportement d’un gouvernement étranger. »

Tertio, la Chine est également une cible pour une partie de plus en plus importante du monde politique et du monde des affaires des États-Unis pour des raisons géostratégiques. Dans le monde entier, la Chine grignote l’influence américaine. Avant notre ère et jusqu’au milieu du 19e siècle, le centre du monde a été l’Est de l’Asie. Après cela, il s’est déplacé vers l’Europe occidentale et les États-Unis. Aujourd’hui, il retourne vers l’Est de l’Asie. Les États-Unis cherchent des moyens de contrer ce processus et de l’inverser. Ils ne tolèreront pas de ne plus occuper la première place dans le monde. La Chine est de ce fait cataloguée comme un facteur négatif, menaçant. D’où le fait qu’on voit paraître aujourd’hui, aux États-Unis, des ouvrages comme « La Chine est-elle un loup dans le monde ? », de George Walden, et dans lequel le pays est décrit comme une menace de mort pour le monde entier, pour la liberté et la démocratie. Et d’où le fait aussi qu’un film comme « Red Dawn »  (L’aube rouge) va bientôt sortir dans les salles américaines. Allez le voir et vous découvrirez avec effroi comment l’Armée populaire chinoise envahit la ville de Detroit.

Comment réagissent les autorités chinoises ?

Depuis 1991, les relations entre la Chine et les États-Unis sont plus ou moins stables. Cela parce que des dizaines de milliers d’entreprises américaines présentes en Chine gagnent à ce qu’il en soit ainsi. Cela tient également du fait que la Chine est le principal financier extérieur de la dette publique américaine. Et que l’exportation de tant de produits chinois vers les États-Unis tempère la hausse des prix à la consommation, ce qui est positif pour l’économie américaine.

Il semble toutefois que les motivations d’une bonne relation commencent à céder le pas devant les motifs d’attitude agressive envers la Chine. L’offensive des gens qui détestent la Chine fait céder les partisans américains des bonnes relations. Le journal britannique The Telegraph décrit le climat comme suit : « On est convaincu que les relations américano-chinoises sont importantes, mais on ne pense pas qu’une collision frontale entre les deux mènerait à une destruction mutuelle. Washington sortira vainqueur de la lutte. » Cette conviction fait reculer les entreprises américaines qui, ensemble, ont investi 60 milliards de dollars en Chine. Myron Brilliant, vice-président de la Chambre américaine de commerce, déclare : « Je ne pense pas que le gouvernement chinois puisse espérer que le monde américain des affaires va arrêter notre parlement. Notre Chambre de commerce reste un pont entre la Chine et les États-Unis, mais nous ne pouvons plus retenir les loups. »

 

En attendant, le gouvernement chinois résiste pied à pied. Il ne pliera en aucun cas face aux pressions américaines. En ce moment, le gouvernement examine comment les secteurs des importations et des exportations réagiront lors d’une réévaluation du yuan. Les autorités ont l’intention de réévaluer légèrement le yuan, entre 4 et 6 pour cent, pour des raisons macroéconomiques. Une réévaluation rendra les produits chinois plus chers, mais les produits importés seront meilleur marché. L’an dernier, la Chine a importé 1.000 milliards de dollars ; la réévaluation du yuan peut être salutaire à la diminution de l’important excédent commercial. La réévaluation conviendra également à la politique visant à transformer l’appareil économique en le faisant passer d’une production à bas prix à une production de valeur élevée. Et, conformément aux intentions des autorités chinoises, la réévaluation peut également déplacer certaines parties de l’appareil économique vers l’intérieur et l’Ouest du pays. Bref : si une réévaluation a bel et bien lieu, ce sera parce qu’elle cadrera avec la politique macroéconomique.

Mais une réévaluation légère du yuan sera absolument insuffisante aux yeux des gens hostiles à la Chine. Ils veulent une réévaluation d’entre 27 et 40 pour cent. La prochaine étape des « loups » (dixit Myron Brilliant, le vice-président de la Chambre américaine de commerce) sera le rapport semestriel du Trésor américain, qui sortira au plus tard le 15 avril. Il y a de fortes chances que le Trésor accuse la Chine de manipuler le yuan. Ce sera le signal, pour des membres de la Chambre des représentants, d’instaurer des taxes élevées à l’importation sur toute une série de produits chinois. Le Financial Times écrit : « Ca revient à utiliser une bombe atomique. » Car les autorités chinoises prendront des contre-mesures. La guerre commerciale sera alors un fait. La plus importante relation bilatérale dans le monde, celle qui existe entre les États-Unis et la Chine, va sombrer tout un temps dans un mutisme mutuel, avec toutes les conséquences qu’on devine pour les problèmes mondiaux qui ne pourraient être résolus que dans une approche collective.

Cet article a été écrit par Peter Franssen, rédacteur de www.infochina.be, le 26 mars 2010.

Sources
(dans l’ordre d’utilisation)
-Alan Beattie, « Skirmishes are not all-out trade war » (Les escarmouches n’ont rien d’une guerre commerciale totale), The Financial Times, 14 mars 2010.
-Gideon Rachman, « Why America and China will clash » (Pourquoi l’Amérique et la Chine vont se heurter), The Financial Times, 18 janvier 2010.
-Foster Klug, « US lawmakers attack China ahead of Nov. Elections » (Les législateurs américains attaquent la Chine bien avant les élections de novembre), Associated Press, 15 mars 2010.
-Andrew Batson, Ian Johnson et Andrew Browne, « China Talks Tough to U.S. » (Le langage musclé de la Chine à l’adresse des USA), The Wall Street Journal, 15 mars 2010.
-« US lawmakers urge action on renminbi » (Les législateurs américains veulent hâter les mesures sur le renminbi), The Financial Times, 15 mars 2010.
-Leah Girard, « US Clash w/ China of Currency Manipulation Heats Up » (Le choc entre les États-Unis et la Chine à propos de la manipulation des devises s’échauffe), Market News, 17 mars 2010.
-Xin Zhiming, Fu Jing et Chen Jialu, « Yuan not cause of US woes » (Le yuan n’est pas la cause des malheures américains), China Daily, 17 mars 2010.
-« Stronger yuan not tonic for US economy » (Un yuan plus fort n’aurait rien de tonique pour l’économie américaine), Xinhua, 18 mars 2010.
-Li Xiang, « Sharp revaluation of yuan would be ‘lose-lose’ situation » (Une forte réévaluation du yuan serait une opération perdante pour les deux pays), China Daily, 22 mars 2010.
-« The Yuan Scapegoat » (Le yuan, bouc émissaire), The Wall Street Journal, 18 mars 2010.
-« RMB is not a cure-all for US economy: IMF » (Le renminbi n’a rien d’une panacée pour l’économie américaine, prétend le FMI), Xinhua, 17 février 2010.
-Dan Newman et Frank Newman, « Hands Off the Yuan » (Ne touchez surtout pas au yuan), Foreign Policy in Focus, 16 mars 2010.
-William A. Ward, Manufacturing Productivity and the Shifting US, China and Global Job Scenes – 1990 to 2005 (La productivité manufacturière et le déplacement de la scène de l’emploi américaine, chinoise et mondiale – de 1990 à 2005), Clemson University Center for International Trade, Working Paper 052507, Clemson, 2005, p. 6.
-Daniella Markheim, « Le yuan chinois : manipulé, mal aligné ou tout simplement mal compris ?), Heritage Foundation, 11 septembre 2007.
-Brink Lindsey, Job Losses and Trade – A Reality Check (Pertes d’emplois et commerce – un contrôle de la réalité), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 19, 17 mars 2004.
-« Premier Wen Says China Will Keep Yuan Basically Stable » (La Premier ministre Wen affirme que la Chine va maintenir la stabilité fondamentale du yuan), Xinhua, 14 mars 2010.
-Patti Waldmeir, « Shanghai tie-up drives profits for GM » (Shanghai fait grimper les bénéfices de GM), The Financial Times, 21 janvier 2010.
-Ashley Seager, « China and the other Brics will rebuild a new world economic order » (La Chine et les autres pays du BRIC vont rebâtir un nouvel ordre économique mondial), The Observer, 3 janvier 2010.
-« Currency contortions » (Contorsions monétaires), The Economist, 19 décembre 2009.
-« Fear of the dragon » (La crainte du dragon), The Economist, 9 janvier 2010.
-DragonWeek, Gavekal, 8 février 2010, p. 2.
-Daniel Griswold, « Who’s Manipulating Whom ? China’s Currency and the U.S. Economy » (Qui manipule qui ? La monnaie chinoise et l’économie américaine), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 23, 11 juillet 2006.
-« China and the US Economy » (La Chine et l’économie américaine), The US-China Business Council, janvier 2009, p. 2.
-Ambrose Evans-Pritchard, « Is China’s Politburo spoiling for a showdown with America ? » (Le Politburo chinois cherche-t-il une confrontation avec l’Amérique ?), The Telegraph, 14 mars 2010.
-Martin Hart-Landsberg, « The U.S. Economy and China: Capitalism, Class, and Crisis » (L(« conomie américain et la Chine : capitalisme, classe et crise), Monthly Review, Volume 61, n° 9, février 2010.
-« Global monetary chaos: Systemic failures need bold multilateral responses » (La chaos monétaire mondial : les échecs systémiques nécessitent d’audacieuses réponses multilatérales), UNCTAD, Policy Brief n° 12, mars 2010.
-Ho-fung Hung, « The Three Transformations of Global Capitalism » (Les 3 transformations du capitalisme mondial), et Giovanni Arrighi, « China’s Market Economy in the Long Run » (L’économie de marché chinoise dans le long terme), tous deux dans : Ho-fung Hung, China and the Transformation of Global Capitalism (La Chine et la transformation du capitalisme mondial), John Hopkins University Press, Baltimore, 2009, pp. 3-9 et 23.
-Ambrose Evans-Pritchard, op. cit.
-James Politi et Patti Waldmeir, « China to lose ally against US trade hawks » (La Chine va perdre un allié contre les faucons du commerce américain), The Financial Times, 21 mars 2010.
-Keith Bradsher, « China Uses Rules on Global Trade to Its Advantage » (La Chine utilise à son propre profit les règles du commerce mondial), The New York Times, 14 mars 2010.

Bulletin célinien n°318

Le Bulletin célinien n°318 - Avril 2010

Au sommaire:
- Marc Laudelout :
Bloc-notes
- *** : Ce 1er juillet 1961…
- Kléber Haedens : Ce qui maintenant commence… [1961]
- M. L. : 1940, du désastre à l’espoir
- Bente Karild : Un ultime témoignage
- Gilles Roques : Quelques lectures de Céline au Cameroun en décembre 1916
- Claude Duneton : Céline et la langue populaire
- Frédéric Saenen : Basta cosi !
Un numéro de 24 pages, 6 € franco.
Le Bulletin célinien
B. P. 70

B 1000 Bruxelles 22
Belgique

Le Bulletin célinien n°318 - Bloc-Notes

Dans une récente chronique, l’avocat Jacques Trémolet de Villers évoque le Céline pamphlétaire : « Quand Céline blague, il le fait dans une outrance verbale, et dans un chant qui, par le style même, détruit ce qui pourrait paraître une horrible et désastreuse théorie : que le monde moderne serait gouverné, de Washington à Moscou et de Londres à Tel-Aviv, par les juifs. Céline se moque de lui-même et de son propre antisémitisme. Céline met en musique, en peinture et presque en danse la râlante gauloise et parisienne. Il la transforme en œuvre d’art, comme Goya le faisait de ses monstres. Ce qui lui importe, c’est le petit bijou que, dans ses courts chapitres, sans cesse corrigés et réécrits, il arrive à ciseler. Au bout du travail de l’artiste, la méchanceté s’est envolée. Il faut être niais comme un antiraciste primaire pour prendre au pied de la lettre le propos, qui n’a été prétexte, pour l’artiste, qu’à faire son œuvre d’art (1). »
Toute la complexité et l’ambivalence des écrits antisémites de Céline affleure dans ces commentaires. Sur le sujet – cette fameuse tradition polémique du « culte de la blague » –, Nicholas Hewitt a donné des commentaires pertinents (2). Bien avant Trémolet de Villers, Gide lui-même avait refusé une interprétation littérale du texte pour y déceler un élément ludique et satirique (3). Et l’on sait que certains, à l’instar de Maurice Bardèche, préfèrent qualifier de satires (au moins Bagatelles) ces écrits qui ne répondent pas précisément à la définition donnée par les dictionnaires du terme « pamphlet » (4).
On peut aussi penser qu’en adoptant cette forme, Céline s’est en quelque sorte piégé lui-même, ne parvenant pas toujours à se faire prendre au sérieux ni par ses adversaires, ni par ses thuriféraires. À l’un de ceux-ci, il s’en est expliqué : « J’aurais pu donner dans la science, la biologie où je suis un peu orfèvre. J’aurais pu céder à la tentation d’avoir magistralement raison. Je n’ai pas voulu. J’ai tenu à déconner un peu pour demeurer sur le plan populaire (5). » Après 1945, cette « déconnade » constituera un bouclier précieux face aux attaques. Comment prendre en considération et dès lors condamner un antisémitisme qui a les apparences de la rigolade ? De la même façon, certains, figurant dans le même camp, lui témoignèrent une condescendance amusée, jugeant l’énergumène outrancier ou frivole.
Certes, Trémolet n’a pas tort : Bagatelles se veut une œuvre littéraire. Doublement même puisque ce livre déploie un manifeste esthétique. Mais c’est aussi un écrit de combat stigmatisant ce que Céline nomme les « juifs synthétiques », c’est-à-dire les aryens sans culture, aliénés, colonisés. « L’Art n’est que race et patrie », s’écriera-t-il dans Les Beaux draps, appelant alors de ses vœux un sursaut de la part d’un peuple dont il flétrit le manque de réactivité. Vis comica à l’appui, Céline espère conjurer, convaincre et susciter avant d’être repris par un pessimisme foncier.


Marc LAUDELOUT



Notes

1. Jacques Trémolet de Villers, « Le siècle juif ? » [à propos du livre de Yuri Slezkine, Le Siècle juif, La Découverte, 2009], Présent, 10 février 2010.
2. Nicolas Hewitt, « L’antisémitisme de Céline. Historique et culte de la blague » in Études inter-ethniques, Annales du CESERE (Centre d’Études supérieures et de Recherches sur les Relations ethniques et le Racisme), n° 6, Paris, Université Paris XIII, 1983. Repris dans Le Bulletin célinien, n° 215, décembre 2000, pp. 13-21.
3. André Gide, « Les Juifs, Céline et Maritain », La Nouvelle revue française, 1er avril 1938.
4. Ce terme désignant un texte court, ce qui, hormis Mea culpa, n’est pas la caractéristique des écrits en question. (« Bagatelles était une satire, une sorte d’Île des Oiseaux, comme dans Rabelais. », dixit Maurice Bardèche, Louis-Ferdinand Céline, La Table ronde, 1986, p. 180).
5. Lettre à Henri-Robert Petit datant de 1938 in L’Année Céline 1994, Du Lérot-IMEC Éditions, 1995, p. 76.

Welkom in de geglobaliseerde wereld

Welkom in de geglobaliseerde wereld

http://yvespernet.wordpress.com/

globalisation.jpgZoals ik in een artikel schrijf dat binnenkort verschijnt, meer info volgt, zijn vreemde buitenlandse kapitaalsgroepen gevaarlijk. Men heeft de Amerikaanse hedgefunds die bedrijven vaak dwingen om per kwartaal direct grote winsten te boeken, nogmaals een reden om de publicatie van kwartaalresultaten af te schaffen. Deze publicatie is trouwens ingevoerd door Amerikaanse druk en nog maar redelijk recent.

Maar niet alleen de yankee’s proberen zich in te kopen in de Europese economie. De opmars van China is al lang bezig en zeker met hun gigantische overschatten aan buitenlandse deviezen en hun kunstmatig laag gehouden Remnibi kunnen zij zich vaak inkopen in grote bedrijven.

De Chinese autobouwer Geely neemt het Zweedse Volvo Cars definitief over van het Amerikaanse moederconcern Ford. De twee autobouwers hebben vanmiddag een bindend akkoord ondertekend in Göteborg, in Zweden [...] De overname van Volvo Cars is een mijlpaal voor de Chinese auto-industrie. Het is de grootste buitenlandse overname ooit voor een Chinese automaker. China is een van de grootste automarkten ter wereld.

Bron: http://www.deredactie.be/cm/vrtnieuws/economie/100328GeelyVolvo

Maar vooral het laatste stuk in het artikel is interessant, en het toont ook ineens dat deze Chinese aankoop zeker geen alleenstaand geval is.

Geely (Chinees Jili “geluk en voorspoed”) werd in 1986 opgericht als koelkastenproducent. Later begon het auto-onderdelen en motorfietsen te bouwen, sinds ‘98 ook auto’s. Het is nu een van de grote autoproducenten in China. Geely kocht onlangs ook een controlebelang van 51% in Manganese Bronze, de Britse bouwer van Londense taxi’s. Nu komt daar Volvo Cars bij.

Bron: http://www.deredactie.be/cm/vrtnieuws/economie/100328GeelyVolvo

Wie het beste meent voor zijn of haar volk en dus volksnationalistisch is, is duidelijk ook een antiglobalist. Dit soort socio-economische ontwikkelingen zorgen ervoor dat de volkeren de controle volledig over hun eigen economie verliezen. “Werk in eigen streek”  is een oude slogan van de Vlaamse Beweging, die uiteraard volledig terecht is. Maar wat is de waarde daarvan als men gaat werken voor een Chinees bedrijf, dat z’n energie krijgt van Franse kerncentrale’s en dat bereikbaar is via een openbaar vervoer in Franse handen…

"Acéphale": The Headless Monster of "Modern" Masculinity

Jack DONOVAN:
Acéphale
The Headless Monster of "Modern" Masculinity

acephale_gf.jpgIn 1936, while staying at the coastal village of Tossa de Mar with artist
André Masson, George Bataille envisioned the Acéphale, pictured above. The Acéphale was a headless monster who symbolized man's rejection of hierarchy and God and his escape from the boredom of civilization into a life lost to the pursuit of fascination. Bataille was determined to bring about his leaderless, communal, ecstatic age of chaos through a sacred conjuration, and to this end he formed a secret society. As the tale goes, members of the Acéphale Society performed clandestine rituals -- one notably celebrating the decapitation of Louis XVI. However, the true conjuration sacrée required a human sacrifice. To bring about a new age of the crowd, of survivors held "in the grip of a corpse," someone needed to become the Acéphale. Someone needed to lose his head.

It never happened.

But it may as well have, because modern man has truly lost his head.

Modern man has the body of a Man. He has manly strength, sinew, reflexes and appetites. But he lacks direction, purpose, an ideal. He lacks virtus -- manly virtue. Modern man, like any freshly beheaded corpse, twitches and thrashes about destructively without his head to guide him. I cannot help but see this, and in observing this gruesome, sloppy spectacle I stand aghast alongside feminists and other "modernizers" of masculinity. However, I know that while headless, modern man is a monster -- a beast -- it is idealized, fully embodied and focused that Man is most fearsome and awe inspiring. Modern man flails about because he is ultimately impotent. Traditional Man is terrifyingly potent.

Masculinity has always changed. Men have been writing and speaking and arguing about what makes a man throughout history. As the particulars of a society change, the prevailing model of masculinity becomes more nuanced or more brutal according to need.

When men helmed Western civilization, they maintained a smooth continuity through changing times because they knew themselves. They knew what men were, they knew what men could -- and could not -- become. They knew what stirred their own souls, they knew how to speak to each other and reach common ground. They knew the kinds of ideas that would take their own hearts and move them into battle with swords or muskets, in animal skins or sharp uniforms. They knew that in peacetime men could not be ruled by fear alone, that masculine ideals and codes of honor would reveal both the stronger and the nobler aspects of a man even when he was not being watched. Men were able to carve a hard jaw, a stern brow and a proud, noble chin for mankind because they knew themselves. They knew how to shape a head that fit the body of a Man. Embodied Man had a rich and sustaining bloodline; he lived and thrived in the context of history and Tradition.

"Modern," headless man has no life-sustaining bloodline. Women and men with counter-masculine, alien, anti-Western agendas have successfully severed him from his history of heroes, ideals and the world of masculine Tradition. Traditional Man is their fearsome enemy, the agent of their supposed oppression and the Man to blame for all violence and what they call injustice. Their project is one of ressentiment --to cast the heroic Traditional man as the ultimate villain, and to ennoble their own set of "virtues" as the ideal.

(T)he problem with the other origin of the "good," of the good man, as the person of ressentiment has thought it out for himself, demands some conclusion. It is not surprising that the lambs should bear a grudge against the great birds of prey, but that is no reason for blaming the great birds of prey for taking the little lambs. And when the lambs say among themselves, "These birds of prey are evil, and he who least resembles a bird of prey, who is rather its opposite, a lamb,-should he not be good?" then there is nothing to carp with in this ideal's establishment, though the birds of prey may regard it a little mockingly, and maybe say to themselves, "We bear no grudge against them, these good lambs, we even love them: nothing is tastier than a tender lamb."

-- Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morality


The wealth and luxury of the modern world have made possible an age of the lamb, and oh how the eagle is cursed!

Women, the
weakest men, men with an exploited sense of chivalry and misguided advocates for men are struggling to fashion a sheep's head for the eagle. But that project, too, is an unnatural, bloodless monstrosity. Frankenstein's work. The head doesn't fit. The body of Man rejects it, shrugs it off and remains headless. The enemies of Men toil under the assumption that the age of the sheep will last forever, and that the eagle must don a sheep's head if he is to survive at all.

Forever is a very long time.

The project for Traditional Man is first an archeological one. He venture out onto the lake of ice and recovers the frozen remains of Man's severed head. What follows is an anthropological project. He must study
paleo-masculinity; he must reverse engineer the head and understand the mechanics of masculinity as it functioned before Man's beheading. He must understand what came before, and repair his connection with his bloodline.

The sheep are crafting a world and a "modern" masculinity meant only for sheep. Eagles have no place in it.

But the age of sheep can't last forever. It is artificially ordered, unbalanced, unsustainable. The meek have inherited the earth, but by the very nature of their meekness they will be unable to keep it.

Traditional Man must find and keep his head, his manhood's redoubt. It is difficult to find and walk a path of honor in a world that is hateful to honor. It's a lonely path. But ultimately, every man is alone with his Honor.


Ennio Morricone is playing.


Eventually, an Interphase will come.

And another Age of Eagles.
Jack Donovan

Jack Donovan

Jack Donovan is a poor, blue-collar man made out of muscle and blood who moonlights as an advocate for the resurgence of patriarchal, paleo-masculine values among the Men of the West. He is a contributor to The Spearhead, as well as the author of Androphilia and co-author of Blood Brotherhood and Other Rites of Male Alliance. Mr. Donovan lives and works in Portland, Oregon.

La nouvelle doctrine de l'OTAN: l'immixtion globale

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

La nouvelle doctrine de l’OTAN : l’immixtion globale

 

Que l’on ne se fasse pas d’illusions : la guerre dans les Balkans n’est qu’un début. Les « interven­tions huma­ni­tai­res », comme celle qui vient d’avoir lieu en Yougoslavie seront monnaie courante dans l’avenir. Ces inter­ven­tions tous azimuts constituent vraisemblablement la nouvelle doctrine de l’OTAN, qui fête ainsi son cin­quan­tième anniversaire. Pourtant, il y a un demi siècle, l’Alliance At­lan­tique se voulait exclusivement un pacte de défense, fondé pour contrer la menace communiste. Aujourd’hui ce principe de défense est caduc, faute de com­munisme. Les nuées de chars d’assaut de l’Est, prompts, disait-on, à foncer vers l’Atlantique en 48 heures, n’exis­tent plus. Que fait l’OTAN, devant cette nouvelle donne ? Elle se mue en gendarme du monde !

 

Le glas sonne pour l’ONU

 

Le principe de défense n’est plus qu’une référence marginale dans la nouvelle doctrine de l’OTAN. Les stratè­ges de Bruxelles et du Pentagone pensent désormais en de nouvelles catégories et élaborent de nouveaux scé­na­rii. Pour l’avenir, il suffira de constater des « actes de terreur », des « sabotages », une « interruption dans le trafic de ressources vitales » ou des « mouvements in­con­trôlés de grands nombres de personnes, surtout s’ils sont la conséquence de conflits armés », pour mobiliser l’Alliance. Dans le futur, l’OTAN entend entrer en ac­tion pour « éviter » et « apaiser » des situations de crise. Mieux : la simple « stabilisation et la sécurité de l’es­pa­ce euro-atlantique » suf­fisent comme motifs d’intervention. C’est un blanc-seing pour intervenir dans tous les coins du glo­be. Rien de plus, rien de moins.

 

Jusqu’ici, il fallait, du moins formellement, un mandat des Nations-Unies pour autoriser l’interven­tion de l’Al­lian­ce. Cette restriction est désormais également caduque. Dans le texte fondant la nouvelle stratégie de l’OTAN, présenté à Washington en avril, les interventions de l’Alliance doivent simplement se référer aux prin­ci­pes de bases de la Charte de l’ONU et être en accord avec ceux-ci. Mais cette stipulation n’est pas con­trai­gnante. L’ONU ou l’OSCE ne doivent plus servir que comme « baldaquin » à des opérations communes, selon les cas qui se présentent. L’important, c’est que tous les pays membres de l’OTAN marquent leur accord. En con­sé­quence de quoi, l’Alliance, en pratique, peut frapper à tout moment n’importe quel pays-cible. A juste titre, l’iré­nologue de Hambourg, Hans J. Giessmann, écrit dans le quotidien berlinois taz, que « le glas a sonné pour l’ONU » et avertit ses lecteurs : «Ceux qui affaiblissent le baldaquin juridique qu’est l’ONU, sont co-respon­sables des conséquences. L’OTAN (…) pourra certainement empêcher certains Etat de faire ce qu’elle se réser­ve, elle, le droit de faire. Si la naissance de la nouvelle OTAN signifie l’enterrement de l’ONU, la conséquence, pour le monde, c’est qu’il n’y aura pas davantage de sécurité au niveau global, mais moins ».

 

On peut en conclure que l’objectif actuel de l’OTAN n’est pas d’augmenter la sécurité sur la surface de la pla­nè­te. Partout où l’OTAN est intervenue ces dix dernières années sous l’impulsion dé­ter­mi­nan­te des Etats-Unis, nous n’avons pas un bonus en matière de sécurité, mais un malus ; la stabilité est en recul, l’insécurité en crois­sance. Quant aux « droits de l’homme », prétextes de la guerre en Yougoslavie, il vaut mieux ne pas en par­ler.

 

Terreur contre les populations civiles

 

Prenons l’exemple de l’Irak : ce pays était l’un des plus progressistes du monde arabe ; il possédait un excellent système d’enseignement et une bonne organisation de la santé ; le régime baathiste était laïc et le régime de Saddam Hussein accordait davantage de libertés citoyennes que les autres pays arabes. Depuis que le pays est sous curatelle de l’ONU et est bombardé chaque semaine par l’aviation américaine (sans que l’opinion publique mondiale y prête encore attention), rien de ces acquis positifs n’a subsisté. Cette ancienne puissance régionale est tombée au niveau d’un pays en voie de développement, où règnent le marché noir, la corruption et l’état d’exception. Vous avez dit « droits de l’homme » ? Vous avez dit « stabilité » ?

 

Prenons l’exemple de la Yougoslavie : lors de son intervention dans ce pays, l’OTAN, appliquant sans retard sa nouvelle doctrine, a renoncé dès le départ à tout mandat de l’ONU et a bombardé pendant des mois un pays européen souverain, faisant ainsi reculer son niveau de développement de plusieurs décennies. Ici aussi apparaît l’ectoplasme des « droits de l’homme », que l’on défend soi-disant. On nous transmet des images de ponts détruits, de fabriques, de chemins de fer, de stations de radio et d’innombrables bâtiments civils bom­bardés, pulvérisés par les bombes ou les missiles de l’OTAN. Même CNN n’est plus en mesure de « retoucher » les photos ou les films. Début mai 98, à l’aide de nouvelles bombes au graphite, les pylônes de haute tension et les usines d’électricité de Belgrade et des environs ont été détruits, coupant l’électricité et l’eau à de larges portions du territoire serbe. A Bruxelles, les porte-paroles de l’Alliance annonçaient avec un effroyable cynisme que l’OTAN était en mesure d’allumer et d’éteindre la lumière en Yougoslavie. On peut se de­man­der quels ont été les objectifs militaires poursuivis par l’Alliance dans ces coupures d’électricité ? Les porte-paroles de l’OTAN ne répondent à cette question que par le silence. L’armée yougoslave, elle, dispose de ses propres générateurs qui, à l’instar des carburants militaires, sont profondément enterrés dans le sol, comme en Suisse. Seule la population civile subit des dommages.

 

Jamais plus la Yougoslavie ne sera la même après la guerre du Kosovo. Son appareil militaire sera affaibli (ce qui réjouira sans nul doute deux pays voisins : la Croatie et la Hongrie), mais aussi son économie et ses infra­struc­tures. On évalue d’ores et déjà que la Yougoslavie a été ramenée au ni­veau qu’elle avait immédia­tement après la seconde guerre mondiale. Les planificateurs de l’OTAN songent déjà à haute voix à détacher le Kosovo de la Serbie et à occuper cette province, à installer là-bas un pro­tec­torat avec la présence d’une armée inter­nationale. Or la République fédérative de You­­go­slavie est un Etat souverain…

 

L’enjeu réel de l’intervention dans les Balkans

 

Dans les Balkans, après l’intervention de l’OTAN, la paix ne reviendra pas et la stabilité politique sera pro­fon­dé­ment ébranlée. Répétons-le : il ne nous semble pas que la stabilité et la paix soient dans l’intérêt des stra­tè­ges de l’OTAN. Quel est alors l’enjeu réel ?

 

On aperçoit les premiers contours de l’ordre politique qui devra régner dans les Balkans sous la férule de l’OTAN. Parallèlement à l’élimination de la puissance régionale qu’était la Serbie, les Etats-Unis reviennent en Europe par le Sud-Est. Cette démarche est impérative pour les Etats-Unis, car sur la côte pacifique du bloc con­tinental eurasien, les Américains reculent. Des penseurs stra­tégiques comme Henry Kissinger et Pat Bu­chanan ont constaté que la Chine, renforcée, sera le futur concurrent de Washington dans cette région. Les per­tes en Asie doivent dès lors être compensées par une avancée stratégique en Europe.

 

Ensuite : les nouveaux partenaires junior des Etats-Unis sont (outre les satrapies européennes ha­bi­tuel­les, dont l’Allemagne), les Turcs. Un contingent turc est présent au sein de la force inter­na­tio­na­le de « paix » au Kosovo. En ayant mis hors jeu la puissance orthodoxe serbe, l’Islam se voit ren­forcé dans le Sud-Est de l’Europe. Wa­shington joue à ce niveau un jeu clair : si l’Europe réussi son in­tégration, si l’espace économique européen s’a­vè­re viable, elle acquerra, bon gré mal gré, une puis­sance géostratégique qui portera ombrage aux Etats-Unis. Si­tuation inacceptable pour le Pen­ta­go­ne. Dans les tréfonds du subconscient européen, la menace islamique-ot­to­mane dans le Sud-Est du continent n’est pas vraiment oubliée. Délibérément, les Américains la réinstallent en Europe pour déstabiliser le processus d’unification européen : ironie et cynisme de l’histoire.

 

L’élargissement de l’OTAN a une odeur de poudre

 

La carte turque est un atout majeur des stratèges américains, également dans le domaine des ap­provision­nements énergétiques. Dans la partie de poker qui se joue en Asie centrale, l’enjeu est le pétrole, entre autres matières premières. Les futures zones d’exploitation se situent sur les rives de la Mer Caspienne et dans les ex-républiques soviétiques de l’Asie centrale musulmane et turco­phone. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas que l’OTAN, depuis quelques années, s’intéresse à toute coopération militaire et économique avec les Etats de la CEI dans le Sud de l’ex-URSS. L’an dernier, les troupes de l’OTAN ont participé pour la première fois à des manœuvres au Tadjikistan. Ce n’est plus qu’une question de temps, mais, si le processus actuel se poursuit, les anciennes ré­pu­bli­ques musulmanes et turcophones du « ventre mou » de l’ex-URSS appartiendront en bloc à la sphè­re d’influence atlantiste, tout comme les anciens pays du Pacte de Varsovie et l’Ukraine.

 

On le voit clairement : l’Alliance atlantique s’est fixé de nouveaux objectifs planétaires. L’ancienne doctrine pu­rement défensive (en théorie…) est un boulet au pied de l’Alliance actuelle. En consé­quen­ce, l’Alliance se trans­forme en un système interventionniste global.

 

Quoi qu’il en soit : la sécurité ne sera pas de la partie au début du XXIième siècle. Les prochains conflits sont dé­jà programmés : avec la Chine, avec la Russie (complètement désavouée), avec tou­te une série de « méchants Etats » régionaux, que la propagande américaine dénoncera quand cela s’a­vèrera opportun et oubliera tout aussi vite. Hier, c’était l’Afghanistan et le Soudan, aujour­d’hui, c’est la Yougoslavie. Et demain ?

 

D’autres cibles possibles en Europe

 

Peut-être sera-ce le Sud de la France ou les nouveaux Länder de l’Est de l’Allemagne. Je ne blague pas. Com­me l’écrivait l’hebdomadaire d’information américain Time, il y a quelques mois, dans un numéro spécial, les stra­tèges de l’OTAN se soucient déjà de futurs « foyers de crise » en Europe. L’ancienne RDA et quelques villes du Sud de la France sont des cibles potentielles, car elles sont soupçonnées d’être d’ « extrême-droite ». Au Ko­sovo, l’OTAN bombarde parce que les « droits de l’homme » y seraient bafoués. Mais en Turquie, en Israël, à Ti­mor-est, en Indonésie, les droits de l’hom­me sont bafoués depuis des décennies, sans que l’Alliance n’in­ter­vient. Qui décide où tom­be­ront les prochaines bombes ?

 

La réponse est simple. Pendant cinquante ans, l’Alliance a été un instrument destiné à sécuriser les intérêts stratégiques des Etats-Unis. Rien ne changera dans l’avenir. En revanche, ce qui est nou­veau, c’est que le Grand Frère d’Outre-Atlantique définit ses intérêts au niveau global sans ver­go­gne depuis la disparition de l’en­nemi soviétique. Cela continuera tant que le monde acceptera ses ma­nières de cow-boy.

 

Organiser la résistance à l’hégémonisme US

 

Pourtant la résistance à la nouvelle doctrine de l’OTAN s’organise. Le Président de l’Académie russe des scien­ces militaires, le Professeur Machmoud Gareïev exprime ses réserves de manière succincte et concise : « Un nouvel ordre mondial apparaît : une petite communauté d’Etats occidentaux sous l’égide américaine entend dominer et dicter le cours des événements. Le message que cette com­mu­nauté nous lance est clair : ne dérangez pas notre cercle ». Le député socialiste allemand (SPD), Hermann Scheer, manifeste son scepticisme face aux ambitions globales de l’Alliance oc­cidentale. Il écrit à propos des zones de conflit qui se dessinent en Asie : « Les Etats-Unis tentent de contrôler politiquement cette région riche en ressources ; l’Alliance doit dès lors devenir l’escorte militaire des consortiums pétroliers et gaziers (…). L’élargissement de l’OTAN en Asie a une odeur de poudre. Nous devrions ne pas nous en mêler ».

 

Conclusion : la force des uns repose toujours sur la faiblesse des autres. L’hégémonie mondiale que concocte l’OTAN est possible parce que le reste du monde ne s’en est pas soucié. Pour cette raison, il nous apparaît urgent de forger des alternatives à la domination américaine et de leur donner une assise politique. Avec les élites établies, infectées par les virus de la banque et de l’idéologie mon­dialiste, un tel projet ne sera pas possible. En revanche, si des hommes et des femmes à la pen­sée claire, capables de tirer les conclusions qui s’imposent, agissant de Madrid à Vladivostok, l’al­ter­native sera parfaitement possible. L’Internationale des peuples libres : voilà le projet qu’il fau­dra élaborer pour le XXIième siècle.

 

Karl RICHTER.

(Nation-Europa, 6/1999).

jeudi, 01 avril 2010

Bill Gates talks about "vaccines to reduce population"

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Bill Gates talks about
‘vaccines to reduce population’


By F. William Engdahl

Ex: http://www.engdahl.oilgeopolitics.net/

 

Microsoft founder and one of the world’s wealthiest men, Bill Gates, projects an image of a benign philanthropist using his billions via his (tax exempt) Bill & Melinda Gates Foundation, to tackle diseases, solve food shortages in Africa and alleviate poverty. In a recent conference in California, Gates reveals a less public agenda of his philanthropy―population reduction, otherwise known as eugenics.

Gates made his remarks to the invitation-only Long Beach, California TED2010 Conference, in a speech titled, “Innovating to Zero!.” Along with the scientifically absurd proposition of reducing manmade CO2 emissions worldwide to zero by 2050, approximately four and a half minutes into the talk, Gates declares, "First we got population. The world today has 6.8 billion people. That's headed up to about 9 billion. Now if we do a really great job on new vaccines, health care, reproductive health services, we lower that by perhaps 10 or 15 percent."1 (author’s emphasis).

In plain English, one of the most powerful men in the world states clearly that he expects vaccines to be used to reduce population growth. When Bill Gates speaks about vaccines, he speaks with authority. In January 2010 at the elite Davos World Economic Forum, Gates announced his foundation would give $10 billion (circa €7.5 billion) over the next decade to develop and deliver new vaccines to children in the developing world.

The primary focus of his multi-billion dollar Gates Foundation is vaccinations, especially in Africa and other underdeveloped countries. Bill and Melinda Gates Foundation is a founding member of the GAVI Alliance (Global Alliance for Vaccinations and Immunization) in partnership with the World Bank, WHO and the vaccine industry. The goal of GAVI is to vaccinate every newborn child in the developing world.2

Now that sounds like noble philanthropic work. The problem is that the vaccine industry has been repeatedly caught dumping dangerous―meaning unsafe because untested or proven harmful―vaccines onto unwitting Third World populations when they cannot get rid of the vaccines in the West.3 Some organizations have suggested that the true aim of the vaccinations is to make people sicker and even more susceptible to disease and premature death.4

Dumping toxins on the Third World

In the aftermath of the most recent unnecessary Pandemic declaration of a global H1N1 swine flu emergency, industrial countries were left sitting on hundreds of millions of doses of untested vaccines. They decided to get rid of the embarrassing leftover drugs by handing them over to the WHO which in turn plans to dump them for free on select poor countries. France has given 91 million of the 94 million doses the Sarkozy government bought from the pharma giants; Britain gave 55 million of its 60 million doses. The story for Germany and Norway is similar.5

As Dr. Thomas Jefferson, an epidemiologist with the Cochrane Research Center in Rome noted, “Why do they give the vaccines to the developing countries at all? The pandemic has been called off in most parts of the world. The greatest threat in poor countries right now is heart and circulatory diseases while the virus figures at the bottom of the list. What is the medical reason for donating 180 million doses?”6 As well, flu is a minor problem in countries with abundant sunshine, and it turned out that the feared H1N1 Pandemic “new great plague” was the mildest flu on record.

The pharmaceutical vaccine makers do not speak about the enormous health damage from infant vaccination including autism and numerous neuro-muscular deformities that have been traced back to the toxic adjuvants and preservatives used in most vaccines. Many vaccines, especially multi-dose vaccines that are made more cheaply for sale to the Third World, contain something called Thimerosal (Thiomersol in the EU), a compound (sodium ethylmercurithiosalicylate), containing some 50% mercury, used as a preservative.

In July 1999 the US’ National Vaccine Information Center declared in a press release that, "The cumulative effects of ingesting mercury can cause brain damage." The same month, the American Academy of Pediatrics (AAP) and the Centers for Disease Control and Prevention (CDC) alerted the public about the possible health effects associated with thimerosal-containing vaccines. They strongly recommended that thimerosal be removed from vaccines as soon as possible. Under the directive of the FDA Modernization Act of 1997, the Food and Drug Administration also determined that infants who received several thimerosal-containing vaccines may be receiving mercury exposure over and above the recommended federal guidelines.7

A new form of eugenics?

Gates’ interest in inducing population reduction among black and other minority populations is not new unfortunately. As I document in my book, Seeds of Destruction8, since the 1920’s the Rockefeller Foundation had funded the eugenics research in Germany through the Kaiser-Wilhelm Institutes in Berlin and Munich, including well into the Third Reich. They praised the forced sterilization of people by Hirtler Germany, and the Nazi ideas on race “purity.” It was John D. Rockefeller III, a life-long advocate of eugenics, who used his “tax free” foundation money to initiate the population reduction neo-Malthusian movement through his private Population Council in New York beginning in the 1950’s.

The idea of using vaccines to covertly reduce births in the Third World is also not new. Bill Gates’ good friend, David Rockefeller and his Rockefeller Foundation were involved as early as 1972 in a major project together with WHO and others to perfect another “new vaccine.”

The results of the WHO-Rockefeller project were put into mass application on human guinea pigs in the early 1990's. The WHO oversaw massive vaccination campaigns against tetanus in Nicaragua, Mexico and the Philippines. Comite Pro Vida de Mexico, a Roman Catholic lay organization, became suspicious of the motives behind the WHO program and decided to test numerous vials of the vaccine and found them to contain human Chorionic Gonadotrophin, or hCG. That was a curious component for a vaccine designed to protect people against lock-jaw arising from infection with rusty nail wounds or other contact with certain bacteria found in soil. The tetanus disease was indeed, also rather rare. It was also curious because hCG was a natural hormone needed to maintain a pregnancy. However, when combined with a tetanus toxoid carrier, it stimulated formation of antibodies against hCG, rendering a woman incapable of maintaining a pregnancy, a form of concealed abortion. Similar reports of vaccines laced with hCG hormones came from the Philippines and Nicaragua.9

Gates’ ‘Gene Revolution in Africa’

The Bill and Melinda Gates Foundation, along with David Rockefeller’s Rockefeller Foundation, the creators of the GMO biotechnology, are also financing a project called The Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA) headed by former UN chief, Kofi Annan. Accepting the role as AGRA head in June 2007 Annan expressed his “gratitude to the Rockefeller Foundation, the Bill & Melinda Gates Foundation, and all others who support our African campaign.” The AGRA board is dominated by people from both the Gates’ and Rockefeller foundations.10

Monsanto, DuPont, Dow, Syngenta and other major GMO agribusiness giants are reported at the heart of AGRA, using it as a back-door to spread their patented GMO seeds across Africa under the deceptive label, ‘bio-technology,’ a euphemism for genetically engineered patented seeds. The person from the Gates Foundation responsible for its work with AGRA is Dr. Robert Horsch, a 25-year Monsanto GMO veteran who was on the team that developed Monsanto’s RoundUp Ready GMO technologies.  His job is reportedly to use Gates’ money to introduce GMO into Africa.11

To date South Africa is the only African country permitting legal planting of GMO crops. In 2003 Burkina Faso authorized GMO trials. In 2005 Kofi Annan’s Ghana drafted bio-safety legislation and key officials expressed their intentions to pursue research into GMO crops. AGRA is being used to create networks of “agro-dealers” across Africa, at first with no mention of GMO seeds or herbicides, in order to have the infrastructure in place to massively introduce GMO.12

GMO, glyphosate and population reduction

GMO crops have never been proven safe for human or animal consumption. Moreover, they are inherently genetically ‘unstable’ as they are an unnatural product of introducing a foreign bacteria such as Bacillus Thuringiensis (Bt) or other material into the DNA of a given seed to change its traits. Perhaps equally dangerous are the ‘paired’ chemical herbicides sold as a mandatory part of a GMO contract, such as Monsanto’s Roundup, the most widely used such herbicide in the world. It contains highly toxic glyphosate compounds that have been independently tested and proven to exist in toxic concentrations in GMO applications far above that safe for humans or animals. Tests show that tiny amounts of glyphosate compounds would do damage to a human umbilical, embryonic and placental cells in a pregnant woman drinking the ground water near a GMO field.13

One long-standing project of the US Government has been to perfect a genetically-modified variety of corn, the diet staple in Mexico and many other Latin American countries. The corn has been field tested in tests financed by the US Department of Agriculture along with a small California bio-tech company named Epicyte. Announcing his success at a 2001 press conference, the president of Epicyte, Mitch Hein, pointing to his GMO corn plants, announced, “We have a hothouse filled with corn plants that make anti-sperm antibodies.”14

Hein explained that they had taken antibodies from women with a rare condition known as immune infertility, isolated the genes that regulated the manufacture of those infertility antibodies, and, using genetic engineering techniques, had inserted the genes into ordinary corn seeds used to produce corn plants. In this manner, in reality they produced a concealed contraceptive embedded in corn meant for human consumption. “Essentially, the antibodies are attracted to surface receptors on the sperm,” said Hein. “They latch on and make each sperm so heavy it cannot move forward. It just shakes about as if it was doing the lambada.”15 Hein claimed it was a possible solution to world “over-population.” The moral and ethical issues of feeding it to humans in Third World poor countries without their knowing it countries he left out of his remarks.

Spermicides hidden in GMO corn provided to starving Third World populations through the generosity of the Gates’ foundation, Rockefeller Foundation and Kofi Annan’s AGRA or vaccines that contain undisclosed sterilization agents are just two documented cases of using vaccines or GMO seeds to “reduce population.”

And the ‘Good Club’

Gates’ TED2010 speech on zero emissions and population reduction is consistent with a report that appeared in New York City’s ethnic media, Irish.Central.com in May 2009. According to the report, a secret meeting took place on May 5, 2009 at the home of Sir Paul Nurse, President of Rockefeller University, among some of the wealthiest people in America. Investment guru Warren Buffett who in 2006 decided to pool his $30 billion Buffett Foundation into the Gates foundation to create the world’s largest private foundation with some $60 billions of tax-free dollars was present. Banker David Rockefeller was the host.

The exclusive letter of invitation was signed by Gates, Rockefeller and Buffett. They decided to call themselves the “Good Club.” Also present was media czar Ted Turner, billionaire founder of CNN who stated in a 1996 interview for the Audubon nature magazine, where he said that a 95% reduction of world population to between 225-300 million would be “ideal.” In a 2008 interview at Philadelphia’s Temple University, Turner fine-tuned the number to 2 billion, a cut of more than 70% from today’s population. Even less elegantly than Gates, Turner stated, “we have too many people. That’s why we have global warming. We need less people using less stuff (sic).”16

Others attending this first meeting of the Good Club reportedly were: Eli Broad real estate billionaire, New York’s billionaire Mayor Michael Bloomberg and Wall Street billionaire and Council on Foreign Relations former head, Peter G. Peterson.

In addition, Julian H. Robertson, Jr., hedge-fund billionaire who worked with Soros attacking the currencies of Thailand, Indonesia, South Korea and the Asian Tigen economies, precipitating the 1997-98 Asia Crisis. Also present at the first session of the Good Club was Patty Stonesifer, former chief executive of the Gates foundation, and John Morgridge of Cisco Systems. The group represented a combined fortune of more than $125 billion.17

According to reports apparently leaked by one of the attendees, the meeting was held in response to the global economic downturn and the numerous health and environmental crises that are plaguing the globe.

But the central theme and purpose of the secret Good Club meeting of the plutocrats was the priority concern posed by Bill Gates, namely, how to advance more effectively their agenda of birth control and global population reduction. In the talks a consensus reportedly emerged that they would “back a strategy in which population growth would be tackled as a potentially disastrous environmental, social and industrial threat.”18

Global Eugenics agenda

Gates and Buffett are major funders of global population reduction programs, as is Turner, whose UN Foundation was created to funnel $1 billion of his tax-free stock option earnings in AOL-Time-Warner into various birth reduction programs in the developing world.19 The programs in Africa and elsewhere are masked as philanthropy and providing health services for poor Africans. In reality they involve involuntary population sterilization via vaccination and other medicines that make women of child-bearing age infertile. The Gates Foundation, where Buffett deposited the bulk of his wealth two years ago, is also backing introduction of GMO seeds into Africa under the cloak of the Kofi Annan-led ‘Second Green Revolution’ in Africa. The introduction of GMO patented seeds in Africa to date has met with enormous indigenous resistance.

Health experts point out that were the intent of Gates really to improve the health and well-being of black Africans, the same hundreds of millions of dollars the Gates Foundation has invested in untested and unsafe vaccines could be used in providing minimal sanitary water and sewage systems. Vaccinating a child who then goes to drink feces-polluted river water is hardly healthy in any respect. But of course cleaning up the water and sewage systems of Africa would revolutionize the health conditions of the Continent.

Gates’ TED2010 comments about having new vaccines to reduce global population were obviously no off-the-cuff remark. For those who doubt, the presentation Gates made at the TED2009 annual gathering said almost exactly the same thing about reducing population to cut global warming. For the mighty and powerful of the Good Club, human beings seem to be a form of pollution equal to CO2.






1 Bill Gates, “Innovating to Zero!, speech to the TED2010 annual conference, Long Beach, California, February 18, 2010, accessed here

2 Telegraph.co.uk, Bill Gates makes $10 billion vaccine pledge, London Telegraph, January 29, 2010, accessed here

3 Louise Voller, Kristian Villesen, WHO Donates Millions of Doses of Surplus Medical Supplies to Developing countries,  Danish Information, 22 December 2009, accessed here

4 One is the Population Research Institute in Washington

5 Louise Voller et al, op. cit.

6 Ibid.

7 Noted in Vaccinations and Autism, accessed here

8 F. William Engdahl, Seeds of Destruction: The Hidden Agenda of Genetic Manipulation, Global Research, Montreal,  2007, pp. 79-84.

9 James A. Miller, Are New Vaccines Laced With Birth-Control Drugs?, HLI Reports, Human Life International, Gaithersburg, Maryland; June-July 1995.

10 Cited in F. William Engdahl, "Doomsday Seed Vault" in the Arctic: Bill Gates, Rockefeller and the GMO giants know something we don’t, Global Research, December 4, 2007, accessed here

11 Mariam Mayet, Africa’s Green Revolution rolls out the Gene Revolution, African Centre for Biosafety, ACB Briefing Paper No. 6/2009, Melville, South Africa, April 2009.

12 Ibid.

13 Nora Benachour and Gilles-Eric Seralini, Glyphosate Formulations Induce Apoptosis and Necrosis in Human Umbilical Embryonic, and Placental Cells, Chemical Research in Toxicology Journal, American Chemical Society, ,  (1), pp 97–105.

14 Robin McKie, GMO Corn Set to Stop Man Spreading His Seed, London, The Observer, 9 September 2001.

15 Ibid. McKie writes, “The pregnancy prevention plants are the handiwork of the San Diego biotechnology company Epicyte, where researchers have discovered a rare class of human antibodies that attack sperm…the company has created tiny horticultural factories that make contraceptives…Essentially, the antibodies are attracted to surface receptors on the sperm,” said Hein.  “They latch on and make each sperm so heavy it cannot move forward.  It  just shakes about as if it was doing the lambada.”

16 Ted Turner, cited along with youTube video of  Turner in Aaron Dykes, Ted Turner: World Needs a 'Voluntary' One-Child Policy for the Next Hundred Years, Jones Report.com, April 29, 2008.
Accessed here

17 John Harlow, Billionaire club in bid to curb overpopulation, London, The Sunday Times May 24, 2009. Accessed here

18 Ibid.

19 United Nations Foundation, Women and Population Program, accessed here
 

L'idéologie dominante vous indispose? Cassez vos télévisions!

8 april: "De schijnwerpers op Hongarije"

8 april: “De schijnwerpers op Hongarije”

Voor wie het zich afvraagt, de ruiter op de foto moet Árpád voorstellen. Hij is de leider van de Hongaarse stammen toen zij Europa binnentrokken. Het standbeeld staat op het Heldenplein in Budapest, samen met andere grote figuren uit de Hongaarse nationale geschiedenis. Oorspronkelijk wilden de Hongaarse communisten alle beelden hiervan slopen.

Le progrès, un espoir du passé

Le progrès, un espoir du passé

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

mythe_du_progres-page1-2.jpgLes Européens sont de plus en plus pessimistes face à l’avenir. Depuis des années, ils font face aux changements économiques et politiques que leur impose la mondialisation. Fragilisés par la crise, ils n’ont plus confiance en la capacité de leur continent à améliorer la vie.

A la fin de l’année 2009, une majorité d’Européens pensaient que le plus dur de la crise restait à venir. Même si l’Europe n’a jamais eu la réputation d’être un continent particulièrement optimiste, la crise économique actuelle a exacerbé chez ses citoyens une attitude latente de méfiance envers l’avenir.

Selon une enquête récente de la Commission européenne, la confiance en l’avenir, et principalement dans l’économie, est beaucoup plus basse. Parmi les citoyens européens, 54 % estiment que le pire de la crise reste à venir sur le plan de l’emploi, contre 38 % qui pensent que nous avons touché le fond. Cet indice de confiance, ou plutôt de méfiance, est cependant supérieur à ce que révélait la même enquête menée au printemps.

Tandis que les États-Unis “ont conscience que l’on peut construire l’avenir, l’Europe s’est toujours montrée plus pessimiste. Et elle souffre à présent du trouble provoqué par l’arrêt du processus d’intégration européenne”, estime Fernando Vallespín, ancien président du Centre de recherches sociologiques [un organisme public d’étude de la société espagnole] et professeur de sciences politiques à l’Université autonome de Madrid. “On cherche à sortir de la crise à travers les États nationaux,” ajoute-t-il.

Il y a quelques mois encore, la majorité des citoyens européens se déclaraient satisfaits ou très satisfaits de leur vie personnelle (78 %, selon une enquête Eurobaromètre publiée fin 2009). Le niveau de satisfaction personnelle des Danois, des Luxembourgeois, des Suédois, des Néerlandais, des Finlandais et des Britanniques était supérieur à 90 %, tandis que les Espagnols restaient sous la moyenne, avec 74 %, tout comme les pays de l’est du continent, où les salaires sont les plus bas. L’Italie, qui malgré sa richesse se situe traditionnellement en deçà de la moyenne européenne, fermait le peloton avec 71 %.

Si le moral des Européens avait particulièrement décliné en automne, il semble que, grâce aux légers signes de croissance que l’on commence à enregistrer dans divers pays européens, nous relevions peu à peu la tête. Néanmoins, la crise a élargi le fossé entre le niveau de vie des pays du nord et celui des pays du sud et de l’est de l’Europe.

Une même vision de l’avenir

L’impact a été très profond, et la reconstruction prendra du temps, prévient le dernier Eurobaromètre. Avant la crise, déjà, des sociologues de divers pays exprimaient leur préoccupation face au pessimisme régnant dans la société européenne. Même le Royaume-Uni est touché, affirme le chercheur britannique Roger Liddle, ancien conseiller de Tony Blair et de José Manuel Barroso. “Pour une fois, les Britanniques et les autres citoyens de l’Union ont la même vision de l’avenir de l’Europe”, ironisait-il dans une étude publiée en 2008 portant sur “Le Pessimisme social européen”. Selon Liddle, la vision de la vie des Britanniques commençait à ressembler de plus en plus à celle des Français, des Allemands et des Italiens. “Il y avait déjà des éléments de pessimisme social au Royaume-Uni avant la crise. Ce qui est surprenant, c’est qu’on les observait même lors de périodes de prospérité économique comme 2005 ou 2007, en France, en Allemagne et au Royaume-Uni”, précise ce chercheur du centre de réflexion Policy Network, à Londres. Si le niveau de satisfaction personnel était élevé, on redoutait déjà l’avenir, signale-t-il encore, notamment en raison des difficultés à s’adapter aux changements engendrés par la mondialisation, l’immigration, etc. Et Liddle de conclure : “Évidemment, lorsque l’économie chute, ces préoccupations s’accentuent.”

Fernando Vallespín souligne quant à lui la “nouvelle situation historique” que connaît l’Europe : “Elle ne croit plus en l’idée de progrès, mais lutte pour conserver ce qu’elle possède : une position privilégiée, la meilleure avec celle des États-Unis.” L’amoindrissement du rôle de l’Europe dans l’économie mondiale “était parfaitement observable avant la crise. Lorsque l’Europe enregistrait une croissance de 2 %, la Chine enchaînait les années à 8 % ou 10 % de croissance économique”, constate de son côté José Ignacio Torreblanca, directeur du bureau de Madrid du Conseil européen des relations étrangères et professeur de sciences politiques à l’UNED [université espagnole d’enseignement à distance]. “Mais en Europe comme aux États-Unis, poursuit-il, c’est aujourd’hui que l’on s’aperçoit du retard vis-à-vis des puissances émergentes. Et la crise aggrave encore les choses.”

Sortir de la crise sans remettre en cause les avantages sociaux dont bénéficient les habitants de l’UE ? Une illusion, assure l’éditorialiste polonais Marek Magierowski.

Quelque 4 millions 48 493 personnes. C’est le nombre de chômeurs enregistrés en Espagne au début du mois. Le quotidien El Mundo a publié un reportage sur leur vie quotidienne. Teresa Barbero, une opératrice téléphonique, veut émigrer en Suisse ou en Allemagne. « Depuis 18 mois je n’ai plus de travail, mon compagnon non plus. Nous devons payer un crédit très élevé. C’est dur. On a un train de vie plus que modeste, » confie cette Madrilène de 32 ans.

La situation est similaire dans d’autres pays d’Europe occidentale tout particulièrement touchés par la crise, comme la Grèce, le Portugal et le Royaume-Uni. Malheureusement les remèdes employés par les gouvernements pour guérir leurs économies sont eux aussi systématiquement les mêmes. Une intervention croissante de l’État dans l’économie, des impôts plus élevés, et des mantras répétés sur les « véritables » coupables de la crise, à savoir les banquiers cupides et les spéculateurs. Et surtout gare à ceux qui oseraient s’élever contre les privilèges de tel ou tel autre groupe social, ils vont droit à une mini guerre civile avec des grèves, une pluie de pavés, et des canons à eau. L’Europe arrivera-t-elle à rivaliser avec la Chine?

Le Vieux Continent est dans l’impasse. Depuis des années, les hommes politiques européens remportent des élections grâce à des promesses d’emplois et de salaires décents, de logements accessibles à tous, de longues vacances et d’une vie heureuse et sans risque. Dans l’une de ses premières déclarations publiques, le président du Conseil européen, Herman Van Rompuy, a affirmé que l’Union devait assurer le maintien du mode de vie européen, comme s’il ne savait pas que cela représente pour l’Europe le chemin le plus court vers une catastrophe économique.

Le mode de vie européen, c’est aussi le prélèvement de la moitié des revenus des contribuables, les 35 heures hebdomadaires de travail, une dette publique supérieure au PIB. Le mode de vie européen, c’est souvent un hymne à la paresse et le mépris du capitalisme. C’est aussi la conviction largement répandue que l’État sera toujours là pour nous prêter main forte dans des moments difficiles. C’est de cette manière que l’Europe compte rivaliser avec la Chine ? Vous voulez rire !

Source: Press Europ, Article 1, Article 2.

Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (etsurtout) leurs concurrents: le rôle d'espionnage universel d'"ECHELON"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (et surtout) leurs concurrents : le rôle d’espionnage universel d’ « ECHELON »

 

Début 1998, Steve Wright, membre d’OMEGA, une association britannique pour les droits des citoyens basée à Manchester, constate dans un rapport qu’il adresse au Parlement Européen, que tous les courriers électroniques, les conversations té­lé­pho­niques et les fax sont enregistrés par routine par le service de renseignement a­mé­ricain NSA (National Security Agency). La NSA fait suivre toutes ces données ré­col­tées en Europe à l’adresse du Quartier Général de la NSA aux Etats-Unis, à Fort Mea­de dans le Maryland. Avec raison, Wright conclut que la NSA a installé un sy­stè­me de surveillance global, dont le but est de sonder les satellites par lesquels tran­si­te la plus grande partie des communications internationales. A la différence des systèmes de surveillance électroniques, utilisés lors de la guerre froide pour sonder des organismes militaires, le système de surveillance « ECHELON » sert essen­tiel­le­ment à espionner des cibles civiles : des gouvernements, des organisations de tou­tes sortes ou des entreprises commerciales ou industrielles.

 

Quatre pays, explique Wright, se partagent, avec les Etats-Unis, les résultats de cet es­pionnage global : la Grande-Bretagne, le Canada, la Nouvelle-Zélande et l’Au­stra­lie. Les services secrets de ces quatre pays n’agissent en fait que comme four­nis­seurs subalternes de renseignements. En d’autres termes : seuls les Américains con­trôlent complètement le réseau d’espionnage ECHELON. Ensuite, dans le rap­port de Wright, on apprend également que la plus grande station d’écoute du mon­de se trouve à Menwith Hill, en Angleterre dans le Comté du Yorkshire. Cette sta­tion serait en mesure d’écouter la plupart des communications en Europe et dans les pays de l’ex-URSS.

 

Dans ce rapport de Wright, pour la première fois, on apprend officiellement dans l’UE qu’un système d’écoute global et électronique, dont le nom est ECHELON, existe ! Pendant des années, seules des informations fortuites et superficielles cir­cu­laient à propos d’ECHELON. Le premier à avoir parler du concept même d’E­CHE­LON a été le journaliste britannique, spécialisé dans les affaires d’espionnage, Dun­can Campbell. Dans un article pour le magazine New Statesman du 12 août 1988. Il y a onze ans, Campbell révélait qu’ECHELON permettait de surveiller toutes les com­munications venant et arrivant en Grande-Bretagne, à la condition que cette sur­veillance serve l’intérêt national ou favorise l’économie britannique. Récem­ment, Campbell a lui-même rédigé un rapport à la demande d’un groupe de travail de l’UE, le STOA (Scientific and Technological Options Assessments). Le titre de son rapport : Interception Capabilities 2000 (soit : Etat des techniques d’écoutes en l’an 2000). Il traitait en détail d’ECHELON.

 

Les gouvernements décident de l’utilisation du matériel récolté

 

Campbell montre notamment dans son rapport que chaque Etat, participant à E­CHE­­LON, a autorisé ses services secrets ou certains ministères, de consulter tout matériel récolté ayant une importance d’ordre économique ou de les commander. Grâce aux informations ainsi engrangées, des objectifs très divers peuvent être pour­suivis. Campbell ajoute que la décision d’exploiter ou d’utiliser ces informa­tions acquises par espionnage ne relève pas des services secrets impliqués mais des gouvernements.

 

Ce rapport ne manque pas de piquant : en effet, la Grande-Bretagne est membre de l’UE et participe à l’espionnage généralisé de tous ses partenaires. Rappelons à ce propos deux faits : le journal anglais The Independant du 11 avril 1998 constate, vu la participation de la Grande-Bretagne à ECHELON, que celle-ci participe à un con­sortium de services électroniques de renseignements, qui espionne systémati­que­ment les secrets économiques et commerciaux des Etats de l’UE. Le journal ci­tait l’avocat français Jean-Pierre Millet, spécialisé en criminalité informatique. Les partenaires de la Grande-Bretagne, disait Millet, auraient raison d’en vouloir aux Bri­tanniques, parce que ceux-ci n’ont pas abandonné leur coopération avec les A­mé­ricains. Disons aussi en passant que la France, en matière d’espionnage éco­no­mique, n’est pas un enfant de chœur. Ainsi, par exemple, l’ancien chef des ser­vi­ces secrets français, Pierre Marion, avait déclaré que la guerre faisait toujours ra­ge, y com­pris entre pays alliés, dès qu’il s’agissait d’affaires (cf. Spectator, 9 avril 1994). La grogne des Français, dans ce contexte, se justifiait non pas tant parce que la Grande-Bretagne faisait partie du cartel d’ECHELON, mais parce que la Fran­ce ne pouvait pas participer à cette gigantesque machine globale à fouiner.

 

Le nom de code ECHELON découle du terme militaire français « échelon ». ECHE­LON a été au départ conçu par les services de renseignements pour surveiller l’U­nion Soviétique. Après l’effondrement de celle-ci, ce projet, qui a coûté des mil­liards, devait servir à combattre officiellement le terrorisme international. Mais cette justification n’est qu’un rideau de fumée, destiné à dissimuler le véritable ob­jectif. D’après les informations dont on dispose, on peut désormais affirmer qu’E­CHE­LON a bel et bien été conçu prioritairement pour l’espionnage industriel et économique à grande échelle.

 

L’allié militaire officiel peut être l’ennemi économique réel

 

Dans un rapport du 29 mars de cette année, Der Spiegel évoquait que les termes-clefs, avec lesquels ECHELON fonctionne, proviennent avant tout du domaine éco­no­mique américain. Indice supplémentaire que les Américains ne se gênent nulle­ment pour combattre les concurrents étrangers de leurs entreprises par tous les mo­yens, même illicites. Cela leur est complètement égal de savoir si la firme es­pion­née appartient à un pays allié ou ennemi. Deux auteurs ont bien mis cela en exergue, Selig S. Harrison et Clyde V. Prestowitz, dans un article du périodique Fo­reign Policy (79/90) : les alliés militaires des Etats-Unis sont ses ennemis éco­no­mi­ques. Il est fort probable que les Etats-Unis nieront qu’une rivalité fondamentale les oppose aux autres puissances occidentales sur les plans des relations com­mer­cia­les internationales, ce qui les empêchera, par la même occasion, de réagir adé­quatement au niveau des règles de la concurrence.

 

L’ancien directeur du FBI, William Sessions, voit les choses de la même façon : dans un entretien, il a expliqué qu’au­jourd’hui déjà, et, a fortiori dans l’avenir, une puissance est ou sera l’alliée ou l’ennemie des Etats-Unis non seulement selon les nécessités militaires, mais aussi et surtout selon les résultats des observations que les Etats-Unis obtiendront de leurs services de renseignement dans les domaines scientifiques, techno­lo­gi­ques, politiques et éco­no­miques (cf. Washington Times, 30 avril 1992) (ndlr : autrement dit, aucune puissance européenne ou asiatique ne pourra désormais développer un programme de re­cher­ches scientifiques ou technologiques, et réussir des applications pra­tiques, sans risquer d’en­courir les foudres des Etats-Unis et d’être décrite dans les médias comme « to­ta­litaire », « dictatoriale », « communiste » ou « fasciste », ou « rou­ge-brune »).

 

L’espionnage scientifique renforce la mainmise politique

 

Philip Zelikov est encore plus clair dans son ouvrage American Intelligence and the World Economy (New York, 1996). La victoire dans la bataille pour être compétitif sur les marchés du monde est le premier point à l’ordre du jour dans l’agenda de la sécurité américaine. Même vision chez Lester Thurow, célèbre économiste amé­ri­cain du MIT (Massachusetts Institute of Technology), auteur de Head to Head : The Co­ming Battle between Japan, Europe and America (New York, 1992). Sans s’embarrasser de circonlocutions, Thurow écrit que les Etats qui dominent les plus grands marchés définissent également les règles. Il en a toujours été ainsi. Raison pour laquelle les Américains refusent même aux Etats qui participent au réseau ECHELON d’accéder à toutes les données récoltées. Ce genre de restriction est également habituel. Ainsi, par exemple, Mark Urban, dans son livre UK Eyes Alpha. The Inside Story of British Intelligence (Londres, 1996), évoque la coopération entre les services secrets britannique et américain et constate que les Américains n’ont jamais cessé de retenir des informations, de les garder pour eux seuls. Il s’agissait surtout des informations relatives aux affaires commerciales.

 

Ce détail et cette pratique de rétention expliquent les véritables motivations des Amé­ricains et de leurs partenaires dans le réseau d’écoute global ECHELON. Pour­tant il serait inexact et insuffisant d’affirmer que le seul but d’ECHELON est l’es­pion­­nage économique. Comme auparavant, l’intelligence militaire et politique oc­cu­­pe une large part des activités de ce réseau. En priorité, ECHELON sert à faire valoir ses propres intérêts de manière plus efficace.

 

Les révélations du Néo-Zélandais Nicky Hager

 

D’après les explications du Néo-Zélandais Nicky Hager, qui, avec son livre Secret Po­wer. New Zealand’s Role in the International Spy Network (1996), a permis de mieux savoir comment fonctionnait ECHELON, ce système d’espionnage n’est pas a­gen­cé de façon à contrôler et à copier chaque courrier électronique ou chaque té­lé­­copie. Le système vise plutôt à trier et à sonder de grandes quantités de commu­ni­cations électroniques. Les ordinateurs d’ECHELON filtrent au départ de mots-clefs ou de concepts-clefs, consignés dans des « dictionnaires » et, à partir de la masse d’informations récoltées, trient ce qui est intéressant pour les divers ser­vi­ces de renseignement.

 

Dans cette pratique, écrit Hager dans son article du magazine Covert Action Quar­ter­ly (56/96-97), le système de filtrage « Memex », élaboré par la firme britanni­que Memex Technology, joue un rôle primordial. Memex est en mesure de rechercher de grandes quantités de données au départ de concepts-clefs. Ces concepts-clefs englobent les noms de certaines personnalités, d’organisations, de désignations de pays ou de termes scientifiques ou spécialisés. Parmi ces concepts-clefs, on trouve les numéros de fax et les adresses électroniques de certains individus, d’organisations ou d’institutions étatiques.

 

Une chaîne mondiale d’installations d’écoute (comme, par exemple, Menwith Hill ou Bad Aibling en Bavière) a été placée tout autour du globe, pour pomper les réseaux internationaux de télécommunications. ECHELON relie entre elles toutes ces installations d’écoute, qui permettent aux Etats-Unis et à leurs alliés de surveiller une bonne part des communications qui s’effectuent sur la Terre.

 

Ce qui est substantiellement nouveau dans ECHELON n’est pas tant le fait que des ordinateurs sont utilisés pour exploiter des renseignements électroniques à l’aide de certains concepts-clefs (car c’était déjà possible dans les années 70), mais c’est surtout la capacité d’ECHELON et de la NSA de pouvoir placer en réseau tous les ordinateurs mis en œuvre et cela, à grande échelle. Cette mise en réseau permet aux diverses stations d’écoute de travailler comme autant de composantes d’un système global intégré. La NSA, le service secret néo-zélandais GCSB (Government Communications Security Bureau), le service secret britannique GCHQ (Government Communications Head Quarters), le service secret canadien CSE (Communications Security Establishment) et le service secret australien DSD (Defence Signals Directorate) sont les partenaires contractuels de l’UKUSA Signals Intelligence, un pacte entre les divers services de renseignements des puissances anglo-saxonnes. Cette alliance explique par ses origines : elle date de la coopération entre ces ser­vi­ces pendant la seconde guerre mondiale. Au départ, elle visait à faire surveiller l’URSS par les services de ren­sei­gne­ment.

 

Pomper les satellites

 

Grosso modo, ECHELON poursuit trois objectifs. D’abord contrôler les satellites per­mettant les communications internationales qu’utilisent les sociétés télépho­niques de la plupart des Etats du mon­de. Un anneau de tels satellites entoure la Terre. En règle générale, ces satellites sont posi­tion­nés à hauteur de l’Equateur. D’après ce que nous en dit Nicky Hager, cinq stations d’écoutes du ré­seau ECHELON servent à pomper ce que contiennent ces satellites.

 

Deuxième objectif : espionner les satellites qui n’appartiennent pas à Intelsat. Il s’a­­git surtout de satellites russes, mais aussi d’autres satellites régionaux de com­mu­nications. Les stations qui surveillent ces satellites-là sont, d’après Hager, Menwith Hill (Angleterre), Shoal Bay (Australie), Bad Aibling (Bavière/RFA), Misawa (Nord du Japon) et Leitrim (Canada). Cette dernière s’occupe principalement des sa­tellites latino-américains.

 

Enfin, troisième objectif d’ECHELON : coordonner les stations qui s’occupent des systèmes de communications terrestres. Celles-ci sont spécialement intéressantes car elles s’effectuent par l’intermédiaire de câbles transocéaniques et d’une tech­ni­que de haute fréquence, et véhiculent d’énormes quantités de commu­ni­cations of­ficielles, commerciales ou gouvernementales.

 

Le gouvernement allemand tolère cette surveillance tous azimuts

 

La station d’écoute très puissante de Menwith Hill dans le Nord de l’Angleterre disposerait de 22 stations satellitaires de réception. Menwith Hill sert en première instance la NSA, en tant que station terrestre des satellites-espions américains. Ceux-ci surveillent les télécommunications à ra­yon réduit comme par exemple les émetterus militaires ou les « walkie talkies ». Les stations ter­restres d’Alice Springs (Australie) et de Bad Aibling (Bavière) ont une fonction analogue.

 

En Allemagne, les autorités officielles ne veulent rien entendre de tout cela. Ainsi, l’ancien Se­crétaire d’Etat Eduard Lintner (CSU), en poste au ministère de l’intérieur de Bonn, a répondu le 30 a­vril 1998 à une question écrite, posée par le député socialiste Graf, portant sur les activités de la NSA, que le gouvernement fédéral allemand ne savait rien de plus que ce qu’avait dit la presse à ce su­jet !

 

En d’autres termes : le gouvernement fédéral allemand ne sait officiellement rien de cette in­cur­sion massive et de cette grave entorse à l’intégrité des Etats nationaux et des individus. Mais cette attaque vient d’ « Etats amis » de l’Allemagne. C’est tout dire…

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans Junge Freiheit, n°26/99 ; redaktion@jungefreiheit.de

Site : http://www.jungefreiheit.de

mercredi, 31 mars 2010

Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

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Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 14. Februar 2010 hatte die Wahlkommission der Ukraine Viktor Janukowytsch in der heiß umkämpften Stichwahl für das Amt des Staatspräsidenten zum Sieger erklärt. Seine unterlegene Gegnerin ist Julija Tymoschenko, die ehemalige Premierministerin und Galionsfigur der Orangenen Revolution. So sehr sich Washington jetzt auch bemüht, den Ereignissen etwas Positives abzugewinnen, sie bedeuten definitiv das Ende der einst umjubelten »Orangenen Revolution«. – Nun fragt sich, was dieses Scheitern der Orangenen Revolution in der Ukraine zum jetzigen Zeitpunkt für die Zukunft des Eurasischen Herzlandes – so bezeichnete der britische Geopolitiker Halford Mackinder einst diese Region – bedeutet. Noch wichtiger ist die Frage, was es für das Pentagon bedeutet, das seit 20 Jahren unentwegt versucht, gemäß dem gefährlichen und überehrgeizigen Plan der sogenanntenFull Spectrum Dominance Russland als Militärmacht zu schwächen, letztendlich sogar auszuschalten.

Um die langfristige Bedeutung der Wahl in der Ukraine für die globale geopolitische Balance zu verstehen, sollten wir die Orangene Revolution von 2004 noch einmal Revue passieren lassen. Damals war Viktor Juschtschenko der handverlesene Kandidat Washingtons, insbesondere der Neokonservativen im Umfeld der Bush-Regierung, die bemüht waren, die historischen und wirtschaftlichen Verbindungen der Ukraine zu Russland zu kappen und das Land gemeinsam mit dem Nachbarland Georgien in die NATO aufzunehmen.

 

Die wirtschaftliche und politische Geografie der Ukraine

Ein Blick auf die Landkarte zeigt die strategische Wichtigkeit der Ukraine, und zwar sowohl für die NATO als auch für Russland. Im Osten grenzt das Land direkt an Russland, außerdem verlaufen russische Gaspipelines nach Westeuropa über ukrainisches Gebiet. Über diese Pipelines werden rund 80 Prozent des exportierten russischen Gases transportiert, die Russland lebenswichtige Einnahmen – in Dollar – bringen.

Um eine wirksame Verteidigung gegen die wachsende Einkreisung des russischen Territoriums durch die NATO aufrechterhalten zu können, ist Russland ebenso dringend auf die Nutzungsrechte für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol angewiesen, den Heimathafen der russischen Schwarzmeerflotte. Gemäß einem russisch-ukrainischen Abkommen nutzt die Flotte außerdem noch den Hafen Odessa. Dieser wichtige bilaterale Vertrag über die Nutzungsrechte der Schwarzmeerflotte läuft, sofern er nicht verlängert wird, 2017 aus. Nach dem russisch-georgischen Konflikt im August 2008 hatte der ukrainische Präsident Juschtschenko laut über eine vorzeitige Beendigung des Vertrages nachgedacht, was Moskau seiner strategisch wichtigsten Marinebasis beraubt hätte. Die russische Marine nutzt Sevastopol, seit Russland 1783 die gesamte Region annektiert hat.

In der an Russland grenzenden Ost-Ukraine leben über 15 Millionen Russen, dieses Gebiet ist dank seiner äußerst fruchtbaren Böden noch immer buchstäblich der Brotkorb für Osteuropa. 2009 war die Ukraine nach den USA und der EU noch vor Russland und Kanada der drittgrößte Getreideexporteur der Welt. (1) Die berühmte schwarze Erde der Ukraine, Chernozem, gilt als fruchtbarster Boden der Welt, man findet sie auf zwei Dritteln der Fläche des Landes. (2) Die Region in der Umgebung der Flüsse Dnjepr und Dnjestr ist das einzige Gebiet auf der Welt, in dem die sogenannte »süße« schwarze Erde eine Breite von 500 Kilometern erreicht. Der Boden gehört zu den größten Reichtümern des Landes, weil er sehr gute Ernten garantiert. Westliche Agrobusiness-Unternehmen wie Monsanto, Cargill, AMD und Kraft Foods lecken sich angeblich angesichts der Aussichten auf ein Ende der internen politischen Pattsituation in der Ukraine in der Hoffnung auf satte Gewinne aus dieser Region bereits die Finger. (3)

Das Gebiet Donetzk im östlichen Donezbecken oder Donbass ist die politische Basis des neu gewählten Präsidenten Janukowytsch. Es ist die bevölkerungsreichste Region der Ukraine und das Zentrum der Kohle-, Stahl- und Metallindustrie, ferner gibt es Wissenschaftszentren und Universitäten. Die Kohle-, Gas- und Ölvorkommen im ukrainischen Donbass-Becken werden auf 109 Milliarden Tonnen geschätzt.

Insgesamt zählt die Ukraine zu den Gebieten mit den reichsten Rohstoffvorkommen in ganz Europa. Die großen Granit-, Graphit- und Salzvorkommen bilden eine reiche Quelle für die Metall-, Porzellan- und chemische Industrie, die Keramikwaren und Baumaterialien herstellen. (4)

Kurz: die Eroberung der Ukraine im Jahr 2004 bedeutete für Washington einen Gewinn von höchster strategischer Bedeutung auf dem Weg zur »Full Spectrum Dominance« – so die Bezeichnung des Pentagon für die Kontrolle über den gesamten Planeten: Boden, Luftraum, Ozeane und Weltraum. Schon 1919 schrieb der britische Vater der Geopolitik in seinem einflussreichen Buch Democratic Ideals and Reality (zu Deutsch: Demokratische Ideale und Wirklichkeit):

Wer Osteuropa regiert, der beherrscht das Herzland – Wer das Herzland regiert, der beherrscht die Weltinsel – Wer die Weltinsel regiert, der beherrscht die ganze Welt. (5)

Mackinder rechnete die Ukraine und Russland zum Herzland. Als Washington mit dem de facto von den USA organisierten Putsch namens Orangene Revolution die Ukraine von Russland absprengte, kam man damit dem Ziel der vollständigen Beherrschung nicht nur Russlands und des Herzlands, sondern ganz Eurasiens, einschließlich eines dadurch eingekreisten China, einen gewaltigen Schritt näher. Kein Wunder, dass die Regierung Bush-Cheney so viel Energie darauf verwendete, ihren Mann, Juschtschenko, als Präsident und De-facto-Diktator an die Macht zu bringen. Er sollte die Ukraine in die NATO führen. Was er für seine Landsleute tat, das bekümmerte die Planer von Bushs Politik herzlich wenig.

Hätte der ebenfalls handverlesene Präsident von Georgien, der per Rosen-Revolution ins Amt gekommene Michail Saakaschwili, im August 2008, also wenige Wochen vor der Abstimmung der NATO-Minister über eine Mitgliedschaft Georgiens und der Ukraine, nicht Truppen losgeschickt, um die abtrünnigen Regionen Süd-Ossetien und Abchasien Georgien wieder einzukassieren, dann hätte Juschtschenko mit den entsprechenden Plänen vielleicht sogar Erfolg gehabt. Nach der schnellen militärischen Antwort Russlands, durch die der georgische Vorstoß gestoppt und Saakaschwilis zusammengewürfelten Truppen eine vernichtende Niederlage beigebracht wurde, bestand auch keine Aussicht mehr, dass Deutschland oder andere Mitgliedsländer einer NATO-Mitgliedschaft zustimmen und sich damit dazu verpflichten würden, Georgien oder der Ukraine in einem Krieg gegen Russland beizustehen. (6)

 

Die Bedeutung der Orangenen Revolution

Die »Revolution«, die Viktor Juschtschenko auf einer Welle von amerikanischen Dollars und mit Unterstützung amerikafreundlicher »Nicht-Regierungs-Organisationen« (NGOs) ins Amt gebracht hat, war ursprünglich bei der von Washington finanzierten RAND Corporation ausgeheckt worden. RAND hat die Bewegungsmuster von Bienenschwärmen und ähnliche Phänomene studiert und die Ergebnisse auf moderne mobile Kommunikation, Textübertragung und zivile Proteste als Taktik für Regimewechsel und verdeckte Kriegsführung angewendet. (7)

Die Transformation der Ukraine von einer früheren unabhängigen Sowjetrepublik zu einem pro-amerikanischen Satellitenstaat gelang im Jahr 2004 mithilfe der sogenannten »Orangenen Revolution«. Die Aufsicht führte damals John Herbst, der im Mai 2003 zum amerikanischen Botschafter in der Ukraine ernannt worden war, nur wenige Monate vor Beginn der Unruhen. Beschönigend beschrieb das US State Department die Aktivitäten des Botschafters:

»Während seiner Amtszeit war er bemüht, die amerikanisch-ukrainischen Beziehungen zu verbessern und zum fairen Ablauf der Präsidentschaftswahl in der Ukraine beizutragen. In Kiew war er Zeuge der Orangenen Revolution. Botschafter John Herbst hatte zuvor als US-Botschafter in Usbekistan eine entscheidende Rolle dabei gespielt, einen amerikanischen Stützpunkt aufzubauen, mit dessen Hilfe die Operation Enduring Freedom in Afghanistan durchgeführt werden konnte.« (8)

Washington entschied sich dann für Viktor Juschtschenko als den richtigen Mann für den inszentierten Regimewechsel. Der damals 50-Jährige war zuvor Gouverneur der Zentralbank der Ukraine gewesen und hatte in dieser Position in den 1990er-Jahren im Rahmen der brutalen »Schocktherapie« des IWF die Deindustrialisierung des Landes betrieben. Juschtschenkos IWF-Programm hatte für seine Landsleute verheerende Folgen. Die Ukraine wurde 1994 gezwungen, die Devisenkontrollen aufzuheben und die Währung abstürzen zu lassen. Als Zentralbankchef führte Juschtschenko die Aufsicht über die geforderten Abwertungsmaßnahmen, die innerhalb weniger Tage zu einem Anstieg der Preise für Brot um 300 Prozent, für Strom um 600 Prozent und beim öffentlichen Transport um 900 Prozent führte. Bis 1998 waren die Reallöhne in der Ukraine im Vergleich zu 1991, als die Ukraine ihre Unabhängigkeit erklärte, um 75 Prozent gesunken. Ohne Zweifel war Juschtschenko der richtige Mann, um Washingtons Pläne in der Ukraine umzusetzen. (9)

Juschtschenkos in Chicago geborene Frau Kateryna, eine amerikanische Staatsbürgerin, hatte während der Regierungszeit von Reagan und H.W. Bush für die US-Regierung und das State Department gearbeitet. Sie war als Vertreterin der US-Ukraine Foundation in die Ukraine gekommen. Im Vorstand dieser Stiftung saß Grover Norquist, der zu den einflussreichsten Republikanern in Washington zählte. Norquist wurde damals allgemein »Geschäftsführer des rechten harten Kerns« genannt, er war der entscheidende Mann, der rechtsgerichtete Organisationen für die Unterstützung der Präsidentschaft George W. Bush gewann. (10)

Kernpunkt von Juschtschenkos geschickter Präsidentschaftskampagne war sein Eintreten für den Beitritt der Ukraine zur NATO und zur Europäischen Union. Bei seiner Kampagne kamen massenweise orangefarbene Fahnen, Banner, Poster, Ballons und andere Requisiten zum Einsatz, was unweigerlich zur Folge hatte, dass die Medien fortan von einer »Orangenen Revolution« sprachen. Washington finanzierte »demokratische« Jugendgruppen, die eine wichtige Rolle bei der Organisation gewaltiger Massendemonstrationen spielten. Diese Demonstrationen trugen wesentlich zu Juschtschenkos Erfolg bei der Wiederholung der angefochtenen Wahl bei.

In der Ukraine trat Juschtschenkos Bewegung mit dem Motto »Pora« (»Es ist Zeit«) an. Dabei mischten Leute mit, die aus der »Rosen-Revolution« in Georgien bekannt waren, wie beispielsweise Givi Targamadse, Vorsitzender des georgischen Parlamentsausschusses für Sicherheit und Verteidigung, ein ehemaliges Mitglied des georgischen Liberty Institute oder die Jugendgruppe Kmara. Die ukrainischen Oppositionsführer zogen die Georgier über Techniken der gewaltlosen Auseinandersetzung zu Rate. Die georgischen Rockbands Zumba, Soft Eject und Green Room, die die Rosen-Revolution unterstützt hatten, organisierten 2004 ein Solidaritätskonzert in Kiew zur Unterstützung von Juschtschenkos Kampagne. (11)

Auch die PR-Firma Rock Creek Creative aus Washington spielte eine bedeutende Rolle bei der Orangenen Revolution, sie entwickelte eine Website mit dem orangefarbenen Logo und zum sorgfältig gewählten Farbenthema. (12)

Juschtschenko unterlag 2004 bei der Wahl zunächst gegen Janukoytsch. Verschiedene Elemente trugen zu dem Eindruck bei, die Ergebnisse seien gefälscht, die Öffentlichkeit verlangte daraufhin die Wiederholung der Stichwahl. Mit der Hilfe von Pora und anderen Jugendgruppen sowie speziellen Wahlbeobachtern und in enger Koordination mit wichtigen westlichen Medien wie CNN und BBC wurde die Wahl im Januar 2005 wiederholt. Juschtschenko gewann mit knapper Mehrheit und erklärte sich zum Präsidenten. Dem Vernehmen nach hat das US State Department etwa 20 Millionen Dollar ausgegeben, um in der Ukraine ein Amerika genehmes Wahlergebnis zu gewährleisten. (13)

Dieselben von den USA unterstützten NGOs, die in Georgien aktiv gewesen waren, waren auch für das Ergebnis in der Ukraine verantwortlich: das Open Society Institute von George Soros, Freedom House (dem damals der ehemalige CIA-Direktor James Woolsey vorstand), das National Endowment for Democracy und seine Ableger, das National Republican Institute und das National Democratic Institute. Berichten aus der Ukraine zufolge waren die amerikanischen NGOs gemeinsam mit der konservativen US-Ukraine Foundation im ganzen Land aktiv, sie halfen der Protestbewegung von Pora und Znayu und schulten wichtige Wahlbeobachter. (14)

Präsident Viktor Juschtschenko, Washingtons Mann in Kiew, machte sich sofort daran, die wirtschaftlichen Verbindungen mit Russland zu kappen, unter anderem wurde die Lieferung von russischem Erdgas nach Westeuropa über ukrainische Transit-Pipelines unterbrochen. Mit diesem Schritt versuchte Washington, die EU-Länder, besonders Deutschland, davon zu überzeugen, Russland wäre ein »unzuverlässiger Partner«. Etwa 80 Prozent des russischen Erdgases wurde über Pipelines exportiert, die in der Ära der Sowjetunion gebaut worden waren, als die beiden Länder noch eine politische und wirtschaftliche Einheit bildeten. (15) Juschtschenko arbeitete auch eng Präsident Michail Saakaschwili zusammen, Washingtons Mann im Nachbarland Georgien.

Das Endergebnis der Wahl in der Ukraine Anfang 2010 zeigt, dass die Wähler Juschtschenko, den »Helden« der Orangenen Revolution, mit überwältigender Mehrheit ablehnen: er erhielt kaum fünf Prozent der abgegebenen Stimmen. Nach fünf Jahren des wirtschaftlichen und politischen Chaos wünschen sich die Menschen in der Ukraine offensichtlich zumindest etwas Stabilität. Meinungsumfragen in der Ukraine haben ergeben, dass die Mehrheit den Beitritt zur NATO ablehnt.

In westlichen Medien wird der neue ukrainische Präsident Viktor Janukowytsch als eine Art Marionette Moskaus dargestellt, doch das scheint völlig falsch. Die meisten seiner Unterstützer aus der Industrie wünschen sich harmonische Wirtschaftsbeziehungen mit der Europäischen Union und mit Russland gleichermaßen.

Janukowytsch hat bekannt gegeben, dass ihn seine erste Auslandsreise nicht nach Moskau, sondern zu Gesprächen mit führenden Vertretern der EU nach Brüssel führen wird. Danach wird er sofort nach Moskau fliegen, wo Präsident Medwedew bereits jetzt eine verbesserte Zusammenarbeit signalisiert hat, als er Russlands Botschafter in die Ukraine entsandte, dessen Ernennung nach Monaten politischer Spannungen zwischen Juschtschenko und Moskau zunächst auf Eis gelegt worden war.

Das Wichtigste ist jedoch, dass Janukowytsch entgegen den unablässigen Versuchen seines Vorgängers, die Ukraine auf Drängen Washingtons in die NATO zu bringen, angekündigt hat, er werde sich in Brüssel nicht mit NATO-Vertretern treffen. In Interviews mit ukrainischen Medien erklärte Janukowytsch unmissverständlich, er beabsichtige nicht, die Ukraine in die EU oder – was für Moskau noch wichtiger ist – in die NATO zu führen.

Janukowytsch hat versprochen, seine Aufmerksamkeit stattdessen auf die Wirtschaftskrise und die Korruption in der Ukraine zu konzentrieren. An die Adresse Moskaus gerichtet versichert er, Russland sei in einem Konsortium willkommen, das gemeinsam für die Betreuung des Gaspipeline-Netzes in der Ukraine zuständig sein soll. Damit erhält Moskau den Einfluss zurück, den Juschtschenko und dessen ehrgeizige Premierministerin Julija Tymoschenko unterbinden wollten. Ein anderes wichtiges Signal, das in NATO-Kreisen nicht gerade für Begeisterung sorgt, ist Janukowytschs Ankündigung, er werde den für Russland strategisch wichtigen Nutzungsvertrag für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol verlängern, der 2017 ausläuft. (16)

 

Russlands neues geopolitisches Kalkül

Es ist offensichtlich, dass sich Janukowytschs erbitterte Gegnerin im Wahlkampf, die Veteranin der Orangenen Revolution und ehemalige Premierministerin Julija Tymoschenko, nachdrücklich dessen Politik widersetzt, weil sie ihre eigenen politischen Ambitionen verfolgt und als schlechte Verliererin bekannt ist. Nachdem sie mit der Anfechtung des Wahlergebnisses vom Februar vor ukrainischen Gerichten gescheitert ist, erklärte sie, sie werde Janukowytsch mit ihrer Parlamentskoalition blockieren. Normalerweise hätte sie als Premierministerin zurücktreten müssen, als Janukowytschs Wahlsieg (mit einer Mehrheit von einer Million Stimmen) bestätigt wurde, was dieser nach seiner Wahl am 10. Februar auch verlangt hat. Sie weigerte sich jedoch. Als Präsidentschaftskandidatin war sie von Bundeskanzlerin Angela Merkel und anderen führenden Politikern in der EU bevorzugt worden. (17)

Der Sieg von Janukowytsch wurde von einigen der mächtigsten Unternehmer-Oligarchen des Landes unterstützt, darunter Rinak Akhmetow, der der reichste Mann der Ukraine und Fußballmilliardär ist. Wie Janukowytsch stammt er aus der Stahlregion im Osten der Ukraine. Auch Dmitry Firtash, ein Gashändler und Milliardär, der gemeinsam mit dem russischen Konzern Gazprom das Gasunternehmen RosUkrEnergo betreibt; Premierministerin Tymoschenko hatte im vergangenen Jahr seine Handelsgeschäfte untersagt.

Das Parlament der Ukraine sprach sich am 3. März bei einem Misstrauensvotum mit 243 von 450 Stimmen mehrheitlich gegen die amtierende Regierung von Premierministerin Tymoschenko aus. Für Tymoschenkos Fraktion der Orangenen Revolution von 2004 bedeutete das den Todesstoß. Jetzt bietet sich die Chance, die seit der Orangenen Revolution von 2004 bestehende politische Pattsituation unter den politischen Fraktionen der Ukraine zu durchbrechen. Janukowytsch ist am Zug. (18)

Bevor sie eine führende Rolle bei der Orangenen Revolution übernahm, war Julija Tymoschenko Anfang der 1990er-Jahre Präsidentin der ukrainischen Firma United Energy Systems gewesen, einem privaten Importeur von russischem Erdgas in die Ukraine. In Moskau warf man ihr vor, sie habe Ende der 1990er-Jahre große Mengen gestohlenen russischen Erdgases weiterverkauft und Steuern hinterzogen. Deswegen verpasste man ihr in der Ukraine den Spitznamen »Gasprinzessin«.

Darüber hinaus wurde ihr vorgeworfen, sie habe ihrem politischen Mentor, dem ehemaligen Premierminister Pavlo Lazarenko, Schmiergelder dafür gezahlt, dass ihre Firma die Gasversorgung des Landes in der Hand behielt. (19) Lazarenko wurde in Kalifornien wegen Erpressung, Geldwäsche, Betrug und Verschwörung zu einer Haftstrafe verurteilt, in der Ukraine wird ihm ein Mord zur Last gelegt. (20)

Wenn man davon ausgeht, dass Janukowytsch jetzt in der Lage ist, das Land nach der Niederlage der Regierung Tymoschenko wie angekündigt zu stabilisieren, dann bedeutet das für Moskau eine deutliche Verschiebung der tektonischen Platten des Eurasischen Herzlands, selbst bei einer strikt neutralen Ukraine.

Zunächst ist die strategische militärische Einkreisung Russlands – über die versuchte Rekrutierung Georgiens und der Ukraine in die NATO – eindeutig blockiert und damit vom Tisch. Der russische Zugang zum Schwarzen Meer über die ukrainische Krim scheint ebenfalls gesichert.

Tatsächlich bedeutet die Neutralisierung der Ukraine einen gewaltigen Rückschlag für Washingtons Strategie der völligen Einkreisung Russlands. Der Bogen von aktuellen oder künftigen NATO-Mitgliedsländern an der Peripherie Russlands und dem noch immer engen Verbündeten Belarus – von Polen bis zur Ukraine und nach Georgien – ist durchbrochen. Der weißrussische Präsident Alexander Lukaschenko hat einer Rosen-Revolution à la Ukraine erfolgreich widerstanden, indem er der Finanzierung von Lukaschenko-feindlichen NGOs durch das State Department einen Riegel vorgeschoben hat. Belarus verfolgt noch immer weitgehend eine zentrale Planwirtschaft, sehr zum Missfallen der freimarktwirtschaftlich orientierten westlichen Regierungen, ganz besonders der in Washington. Weißrussland unterhält enge wirtschaftliche Verbindungen zu Russland, die Hälfte des Außenhandels wird mit Russland abgewickelt, ein Beitritt zur NATO oder zur EU ist nicht geplant. (21)

Diese veränderte geopolitische Konfiguration in Zentraleuropa nach der Niederlage der Orangenen Revolution bedeutet einen großen Schub für Russlands langfristige Energie-strategie – eine Strategie, die man auch als »Russlands Nord-Süd-Ost-West-Strategie« bezeichnen könnte.

 

__________

(1) Press Trust of India, 2009: »Ukraine Becomes World’s Third Largest Grain Exporte«, unter http://blog.kievukraine.info/2009_12_01_archive.html.

(2) Stepan P. Poznyak, »Ukrainian Chornozem: Past, Present, Future«, Beitrag zum 18. World Congress of Soil Science, 9.–15. Juli 2006, unter http://www.ldd.go.th/18wcss/techprogram/P12419.HTM.

(3) Amerikanische Handelskammer in der Ukraine, Chamber Members, unter http://www.chamber.ua/.

(4) KosivArt, »Ukraine Natural Resources«, unter http://www.kosivart.com/eng/index.cfm/do/ukraine.natural-resources.

(5) Halford J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality, 1919, Nachdruck 1942, Henry Holz and Company, S. 150.

(6) F. William Engdahl, »Entry into NATO Put Off Indefinitely«, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11277. Deutsche Version »NATO-Beitritt Georgiens und der Ukraine auf unbestimmte Zeit vom Tisch«, 4. Dezember 2008, unter: http://info.kopp-verlag.de/redakteure/f-william-engdahl/browse/12.html.

(7) John Arquilla, David Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Santa Monica, RAND, 2000.

(8) US Department of State, John E. Herbst Biography, unter http://state.gov/r/pa/ei/biog/67065.htm.

(9) Michel Chossudovsky, »IMF Sponsored ›Democracy‹ in the Ukraine«, 28. November 2004, unter http://www.globalresearch.ca/articles/CH0411D.htm.

(10) Kateryna Yushchenko, Biographie, auf My Ukraine: Persönliche Website von Viktor Juschtschenko, 31. März 2005, unter http://www.yuschenko.com.ua/eng/Private/Family/2822/

(11) Wikipedia, Orange Revolution, unter http://en.wikipedia.org/wiki/Orange_Revolution, deutsch unter http://de.wikipedia.org/wiki/Pr%C3%A4sidentschaftswahlen_in_der_Ukraine_2004 

(12) Andrew Osborn, »We Treated Poisoned Yushchenko, Admit Americans«, The Independent, Großbritannien, 12. März 2005, unter http://www.truthout.org/article/us-played-big-role-ukraines-orange-revolution.

(13) Dmitry Sudakov, »USA Assigns $20 million for Elections in Ukraine, Moldova«, Pravda.ru, 11. März 2005.

(14) Nicolas, »Forces Behind the Orange Revolution«, Kiev Ukraine News Blog, 10. Januar 2005, unter http://blog.kievukraine.info/2005/01/forces-behind-orange-revolution.html.

(15) Jim Nichol u.a., »Russia’s Cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(16) Yuras Karmanau, »Half-empty chamber greets Ukraine’s new president«, Associated Press, 25. Februar 2010, unter http://news.yahoo.com/s/ap/20100225/ap_on_re_eu/eu_ukraine_president.

(17) Inform: Bloc of Yulia Tymoshenko Release #134, »EPP Throws Weight Behind Tymoshenko«, 16. Dezember 2009, unter http://www.ibyut.com/index_files/792.html.

(18) Stefan Wagstyl und Roman Oleachyk, »Ukraine Election Divides Oligarchs«, London, Financial Times, 15. Januar 2010.

(19) TraCCC, Pavlo Lazarenko: »Is the Former Ukrainian Prime Minister a Political Refugee or a Financial Criminal?«, Organized Crime and Corruption Watch, Bd. 2, Nr. 2, Sommer 2000, Washington, D.C., American University Transnational Crime and Corruption Center.

(20) Ian Traynor, »Ukrainian Leader Appoints Billionaire as his PM«, The Guardian, 24. Januar 2005.

(21) Botschaft der Vereinigten Staaten in Minsk, US Government Assistance FY 97 Annual Report, United States Embassy in Minsk, Weißrussland, 1998, unter: http://belarus.usembassy.gov/assistance1997.html.

 

Donnerstag, 25.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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