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mercredi, 03 mars 2010

Le nouveau site d'Ayméric Chauprade

chauprade_geopolitique.jpg

 

La géopolitique exposée par Aymeric Chauprade

Un nouveau site:

 http://realpolitik.tv/

 

Aymeric Chauprade, dont Polémia a largement développé les mesures de disgrâce qu’ils l’ont frappé voilà un an, annonce le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus et audiovisuels. Déjà à la pointe de l’actualité internationale, on y trouve dès maintenant une excellente analyse Nouvelle doctrine de défence russe, sous la plume de Xavier Moreau, qui, en contrepoint des articles généralement destructeurs de la grande presse sur tout ce qui concerne la Russie, permet de comprendre mieux ce qui a amené la Russie à adopter sa nouvelle doctrine de défense en désignant comme ennemis principaux et immédiats les Etats-Unis et l’OTAN.

Polémia ne peut que conseiller à ses lecteurs, intéressés par la géopolitique, de mettre ce nouveau site dans la liste de leurs favoris et de le visiter régulièrement. Ils y trouveront des informations et des explications pertinentes aux grands événements mondiaux.

Polémia

 

J’ai le plaisir de vous annoncer le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus écrits et audiovisuels.

Les intervenants sont tous des spécialistes de géopolitique d’une aire géographique (Europe, États-Unis, Chine, Russie, Amérique Latine, Afrique…) ou d’un thème (questions maritimes, énergétiques…). Issus d’horizons variés, ils s’attachent à développer une pensée indépendante et attentive aux réalités des peuples et des civilisations. Le choix du terme realpolitik signifiant simplement que nous tentons de comprendre et d’expliquer le monde tel qu’il, non tel qu’on voudrait qu’il soit.

Le site n’est pas payant, et n’a pas vocation à le devenir. Il débute son activité, il est donc loin d’avoir atteint son plein régime et vous aurez bien conscience, lors de votre première consultation, que le contenu va s’enrichir de nombreux articles et de nombreuses vidéos. Vous pouvez nous adresser vos critiques et suggestions en nous écrivant directement à l’adresse contact@realpolitik.tv.

Je vous en remercie par avance. Bienvenue dans le monde des réalités identitaires !

Aymeric Chauprade, directeur du site

 

Correspondance Polémia

25/02/2010

Polémia

A chi giova la bancarotta della Grecia?

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A chi giova la bancarotta della Grecia?

Di fronte al disastro monetario greco, Bruxelles confida nella Germania

Ugo Gaudenzi

La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).
Vediamo di chiarire quanto accade. In tre mesi, da qui al 15 maggio, l’Ue dei “Sedici” dovrà mettere in esecuzione un piano di sostegno alla Grecia perché possa evitare la bancarotta. In questo trimestre Atene è chiamata a operare un prelievo forzoso dalle tasche dei suoi cittadini e a programmare una consistente riduzione dell’indebitamento. Bruxelles, come deciso dai ministri ecofin ed esplicitato dal commissario Olli Rehn, cercherà per parte sua di delineare un piano di aiuti finanziari per sostenere la Grecia. In quanto a cifre i dati sono più che conosciuti: nel 2010 il rapporto pil-indebitamento sarà per la Grecia pari al 121 per cento, con un deficit ulteriore di oltre 300 miliardi di euro.
Di fronte al disastro monetario greco, a Bruxelles si sta premendo sulla “locomotiva tedesca” perché guidi la “squadra di soccorso”. Ma per Berlino non è affatto un onore, questo, ma un onere difficilmente accettabile.
Sia perché è escluso dagli stessi elementi fondativi dell’unione monetaria europea (e dai dettati dei due trattati fondanti, Maastricht e Lisbona) che un Paese membro si faccia carico della stabilità dell’eurozona con accordi di sostegno a chi è in crisi. E sia perché la lenta ripresa tedesca difficilmente potrebbe sopportare nuovi carichi e zavorre esterne. D’altra parte, proprio per evitare tali ripercussioni, i padri fondatori di quel mostro che è l’Unione europea – un’eurocrazia non eletta, priva di sovranità, priva di unità politica - avevano delegato ad un ente terzo – la Bce - la politica monetaria dell’Europa dell’euro, per lavarsi le mani da ogni obbligo di direttiva economica.
E non è certo tutto. La possibilità di una reazione a catena che destabilizzi totalmente l’eurozona è appena dietro l’angolo.
Il Fondo monetario internazionale – che di usura monetaria se ne intende – di recente ha stilato la sua consueta pagella sui “Paesi cattivi del mondo” in quanto a stabilità monetaria ed ha indicato le varie necessità di “inasprimento fiscale”, nazione per nazione, al solo fine di mantenere lo status quo governando l’indebitamento. E’ interessante notare che in cima alle classifiche si ergano Gran Bretagna e Giappone, per i quali il Fmi propone inasprimenti fiscali, nel 2010, pari al 13% del pil. Seguono a ruota Irlanda, Spagna e Grecia (9%) e quindi gli Usa (8,8%). Per l’Italia si parla della “necessità di alzare le tasse” di un altro 8 per cento…
Già. Gli Usa. Gli “spendaccioni del mondo”, quelli che hanno riempito di carta-straccia (banconote), le casseforti cinesi e che veleggiano impavidi sull’onda di un deficit di 1500 miliardi di dollari che, con la cura Obama, accumula ulteriori 300 miliardi di interessi annuali da pagare. Con un surplus di emissioni statali in scadenza per un trilione di dollari all’anno (mille miliardi di dollari), difficilmente assestabili con un risparmio dei cittadini caduto dal 2008 a livelli infimi.
Gli Usa, quelli che da tempo immemore – la Grande Depressione – usano a loro piacimento i cambi del dollaro per abbassare i costi delle importazioni di materie prime o, al contrario, per far crescere la redditività delle proprie esportazioni di brevetti, royalties, beni e servizi…
Quelli che stanno lucrando in queste settimane appunto, sulla crisi dell’eurozona, attirando investitori e risparmi oltreoceano, grazie alla totale mancanza di sovranità nazionale ed economica europea. Il tallone di Achille, voluto, costruito a tavolino a Maastricht e quindi a Lisbona, per assoggettare “l’area di libero scambio” che qualcuno si affanna a definire “Europa” ai desiderata del momento degli Stati Uniti d’America,
Una bancarotta greca val bene la sopravvivenza dei Padri Fondatori.
 


19 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=783

G. Faye: Simulierte Heterogenität

Simulierte Heterogenität

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
guillaume-faye.jpgNicht zuletzt den provokanten Büchern Guillaume Fayes verdanken wir, dass die Verwirrung um den uns so vertrauten Gegensatz von Konservatismus und Fortschritt zunimmt. Bereits in seinem furiosen Einstandswerk "Le Système a tuer les peuples" (Paris: Copernic, 1981) erwies sich Faye als dynamischer Denker der neuen Kultur, der gegen den totalitären Merkantilismus in humanitaristischem Gewande kämpft und für die Rechte der Völker - aller Völker! - eintritt. Er plädierte für Selbstbestimmung, kulturelle Identität und ein Recht auf Anderssein. Damals zeigte er den vollzogenen Übergang unserer Gesellschaften von der Zivilisation zum "System": Unser Dasein - so Faye - ist geprägt von der morbiden, systembedingten Amerikanosphäre, einem Zustand sozialer Entropie.

Auch in seinem Buch über die Neue Konsumgesellschaft - für Faye kurz "La NSC" - setzt sich der Autor mit Rationalismus und Egalitarismus auseinander. Zwar erfährt der Leser wenig über eine pragmatische Zielorientierung, mit der die Krise der Gegenwart überwunden werden soll. Jedoch wird der Widerspruch, den seine Ausführungen auslösen können, ein Indikator dafür sein, wann unsere Krise zu Ende gedacht und gelebt wird.

Faye beherrscht die a-moralische Sichtweise; daher die Präzision seiner Beobachtungen. Er erkennt Hedonismus und Konsummanie als kardinale Werte der Neuen Konsumgesellschaft und liefert anschauliche Beispiele dafür, dass der Beginn des Zeitalter des homo consummans (gefülltes Portefeuille kombiniert mit kleinbürgerlichem Geist) hinter uns liegt. Ihm gelingt es, den Begriff der Lebensqualität und das Dogma des ökonomischen Wohlstands einer luziden Kritik zu unterziehen. Lebensintensität wird von der Neuen Rechten zur Tugend zukünftigen Menschseins erkoren.

Fayes Kernausse, durchaus ein Ansatz zu einer kritischen Theorie, lautet: Wo früher vertikale (regionale, nationale) Differenzen vorherrschten, dominiert heute - Folge des Egalitarismus - eine horizontale, nur simulierte Heterogenität. Diese löste eine soziologisch heterogene und kulturell gemeinsame Gesellschaftsstruktur ab. Unsere Zivilisation, das System, ist hingegen soziologisch homogen und gerade kulturell atomisiert. Faye sieht die Neue Konsumgesellschaft als gigantisches Theater; Konflikten drohe die Unbegrenzbarkeit.

Was tun? Ohne Eskalaton werde es keine historische Erneuerung geben. Möglich, dass Faye sich als positiver Nihilist einer postmodernen Neuen Rechten verstanden wissen will. Seine symbolträchtige Anlehnung an den Gott Dionysos - dionysische Freuden sind Fayes Programm für die Posthistoire - will nachvollzogen sein: Denn der fernen Rückkehr des Apoll gilt es zu harren. Für Autor und Leser keine ungefährle Aporie; nicht alle Triebhaftigkeiten des Gehirns bewahren die Maske einer Errungenschaft des Geistes.

Aufmerksamkeit ruft Fayes Rezeption der unorthodoxen Soziologen Jean Budrillard und Michel Maffesoli hervor. Im westlichen Nachbarland verlieren Links-Rechts-Schemata ihre Argumentationswirkung. Die Mühe lohnt, über subtile Grenzüberschreitungen nachzudenken. Erste Reflexionen ergeben ein faszinierendes Relief.

Guillaume Faye, La NSC - La Nouvelle Société de Consommation. Le Labyrinthe, Paris 1984. Buchbesprechung in: DESG-inform, 3/85.

Les Etats-Unis comme contre-modèle

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Les Etats-Unis comme contre-modèle

Ex: http://unitepopulaire.org/

« De même qu’en Europe, en 1919, avec leur stupide Traité de Versailles, les généraux Foch et Clémenceau ont réduit à l’esclavage l’Allemagne perdante jusqu’à ce qu’elle finisse par se donner, jambes écartées, au premier führer venu ; de même, aux USA, les présidents démocrates ou républicains (n’importe !) ont poussé le manque de magnanimité jusqu’à ôter au peuple irakien la force et la volonté de se débarrasser de son dictateur. C’est ainsi qu’on exacerbe la rancœur arabe. Pas autrement. Et c’est trop tard pour s’en plaindre.

La caractéristique des Américains est que tous les clichés qu’on colporte sur leur compte sont justes. Les Yankees civilisés préfèrent l’American way of life à ce qu’ils appellent la Diarrhea way of life… Le reste de la terre est une Bougnoulie où on attrape la turista ! Les Américains vivent dans le plus petit pays qui soit : mon ghetto, ma maison, ma voiture, ma télé, mon chien et mon frigo (le chien dans le frigo ?). Tout est réduit à sa plus simple expression. Un grand vide habite ce vaste espace. Et ce vide, il faut le cacher ! Drôle de démocratie que les Etats-Unis où l’abstention est reine et où on finit par élire celui qui obtient le moins de voix… En l’an 2000, le démocrain Bush et le républicrate Gore ont dû tirer leur élection à la courte paille !

Ces protestants sont très vifs à cacher la mort : voilà pourquoi on ne verra pas plus de morceaux carbonisés du puzzle WTC qu’on ne vit de bombardés chirurgicalement à Bagdad… Les coach potatoes ont deux cent chaînes de télé sattelisées pour surtout ne rien savoir du monde ! Pas besoin d’être un islamiste pour constater que la télévision est une source de perversion. Les Talibans déchiquettent les bandes vidéo et font flotter au vent des étendards de bandes magnétiques… »

 

Marc-Edouard Nabe, Une Lueur d’Espoir, Editions du Rocher, 2001, p.70-71

L'idée de Mitteleuropa

mitteleuropa0003_copia.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

L'idée de "Mitteleuropa": elle refait surface

 

 

par Karlheinz Weissmann

 

 

Lors du dernier Congrès de la SPD, le parti social-démocrate allemand, qui s'est tenu cette année à Nuremberg, Peter Glotz profita d'un forum sur le thème "Europe occidentale - Europe centrale - Europe totale" pour ranimer l'idée de "Mitteleuropa" (Europe centrale). Si cette initiative fut rejetée par la plupart des participants, un détail, cependant, mérite attention: parmi les quelques rares personnalités qui approuvèrent Peter Glotz, se trouvait Zdenek Mlynar, haut fonctionnaire du PC tchèque pendant l'ère Dubcek. Cela n'a rien d'étonnant: le débat "néogauchiste" sur la Mitteleuropa fut lancé et animé essentiellement par des intellectuels socialistes dissidents des pays d'Europe centrale et orientale. En septembre 1985 déjà, la revue Kursbuch,  organe toujours influent de la gauche libertaire, la fameuse "undogmatische Linke" de RFA, avait publié dans ses colonnes la proposition du Hongrois György Dalos qui souhaitait une "Confédération centreuropéenne" et plusieurs autres publications théoriques s'ouvrirent à des débats sur ce thème. Le rejet de la proposition de Glotz illustre de façon typique l'attitude de la classe politique allemande à l'égard de thèses tendant à surmonter le statu quo des blocs; mais il s'explique surtout par le fait que Glotz avait aussi mis en avant l'idée de Reich, d'Empire, comme puissance tutélaire traditionnelle en Europe centrale et avait même évoqué, dans la foulée, les conceptions de Friedrich Naumann.

 

l'héritage de Naumann

 

Ceux qui s'intéressent à l'histoire savent que le nom de Friedrich Naumann est intimement lié à l'idée de Mitteleuropa. En 1915, Naumann publia un livre intitutlé précisément  Mittteleuropa,  où l'on trouve la formulation sans doute la plus prégnante de cette notion politique. Ses réflexions se ressentaient essentiellement de la situation créée par la Première Guerre mondiale, en particulier par l'économie de guerre. Naumann présageait l'avènement d'une époque où seuls les grands espaces autarciques pourraient économiquement, et donc politiquement, survivre. Son but était la fusion de l'Allemagne et de la monarchie danubienne, futur "noyau cristallisateur" d'une Europe centrale qui serait plus tard étendue à la France (1) ainsi qu'aux territoires limitrophes du Reich, à l'Est comme à l'Ouest. En cette "période historique d'avènement des groupements d'Etats et des Etats-masse", le nouvel espace ainsi créé serait capable de soutenir la concurrence des empires britanniques, nord-américain et russe. Bien que d'origine libérale, Naumann avait la conviction que la structure interne de ces grandes puissances serait toujours marquée par l'Etat organisateur mais que, dans une Europe centrale sous direction allemande, cette structure porterait le sceau du "socialisme d'Etat" ou du "socialisme national".

 

Pour étayer son argumentaire, Naumann se réfère volontiers à la politique de Bismarck et à sa Duplice (Zweibund). D'abord, parce que la figure du fondateur du Reich garde une force émotionnelle, et donc légitimante, considérable; ensuite, parce que cette évocation répondait sans doute aux convictions intimes de Naumann. Pourtant, celui-ci est victime d'une erreur de jugement historique: certes, Bismarck accordait une grande importance à une alliance avec l'Autriche-Hongrie, mais il n'excluait pas, si l'urgence de la situation politique l'exigeait, une entente avec la Russie aux dépens des Habsbourg! Plutôt que chez Bismarck, c'est dans les projets "grossdeutsch" du Parlement de Francfort, dans la vision d'un "Empire de 70 millions d'âmes", chère à Schwarzenberg et à Bruck, qu'il faut rechercher les précurseurs de la "Mitteleuropa". Quant à ses prophètes, il vaut mieux les chercher du côté des critiques de l'Etat national "petit-allemand", chez un Constantin Frantz ou un Paul de Lagarde par exemple.

 

le contexte de la première guerre mondiale

 

Toujours est-il que l'idée acquit une certaine faveur à la veille de la Première Guerre mondiale. Mais il faudra le conflit armé pour qu'elle acquière des chances réelles de réalisation: très tôt, la perte des colonies montra aux responsables politiques allemands que l'Allemagne devait rechercher ailleurs l'assise d'une grande puissance. Après les premières victoires des Empires centraux, l'Allemagne, l'Autriche-Hongrie et la Bulgarie signèrent le 6 septembre 1915 une convention militaire à laquelle l'Empire Ottoman adhéra peu après. Sur la base de cette alliance, Falkenhayn, chef d'Etat-Major allemand, adresse au chancelier Bethmann-Hollweg (peu avant la parution de l'ouvrage de Naumann) un mémoire sur la "fondation d'une confédératon d'Etats du centre de l'Europe", un Mitteleuropäischer Staatenbund.  Ce projet, comme tant d'autres, échoua devant la résistance de l'Autriche-Hongrie. Si la notion de "Mitteleuropa" est restée, dans les esprits, synonyme d'"agressions" et de "conquêtes territoriales" par l'Allemagne, cela tient à ce que les thèses bellicistes de l'extrême-droite allemande ont été débattues sous ce nom-là et que cette extrême-droite, surtout après la paix de Brest-Litovsk, envisageait d'étendre démesurément la sphère d'influence allemande en Europe centrale et orientale.

 

L'effondrement du Reich et de la monarchie des Habsbourg réduisit tous ces projets à néant. Les petits Etats-nations nouvellement créés entre l'Allemagne et l'Union Soviétique étaient étroitement contrôlés par la France. Le concept de "Mitteleuropa" n'avait pas disparu pour autant, tout au moins au niveau du débat politique. L'idée fut relancée à des titres divers. Ainsi, Giselher Wirsing, issu de la mouvance de la revue Die Tat  lança l'idée de Zwischeneuropa,  Europe médiane ou Europe d'entre-deux, dans laquelle l'Allemagne, si elle se redressait, aurait un rôle à jouer. Le "front anti-impérialiste des peuples jeunes" y instaurerait un espace d'autarcie économique. On reconnait là une parenté avec les thèses de Naumann mais on note un glissement dans la désignation de l'adversaire: non plus Londres et Saint-Petersbourg, mais Paris et Moscou. L'analyse sociologique, souvent très aride, de Wirsing concernant les présupposés politico-économiques, contraste étrangement avec les idéaux, souvent très romantiques, de "reconstruction du Reich" auxquels adhéraient nombre de théoriciens jungkonservativ  de l'époque de Weimar. En toile de fond de leur analyse, il y avait la situation des populations d'ethnie allemande, dont il s'agissait de tirer les leçons. Le Reich  réaliserait en Europe centrale un ordre fédérateur reposant non sur une conception centraliste de la nation, legs de la Révolution française, mais sur le principe de l'égalité des droits entre tous les peuples. Jung écrit à ce sujet: "C'est l'idée d'un Reich structuré, accordant à chacune de ses composantes un degré de liberté capable d'extirper à jamais de l'âme européenne les idées poussiéreuses d'annexion, d'exploitation et de génocide". Cette conception associait volontiers à la signification proprement politique du terme "Mitteleuropa" l'idée d'une "position médiane de l'esprit", une geistige Mittellage  qui était au coeur de la pensée nationale traditionnelle et que, dès 1818, Arndt formulait ainsi: "Dieu nous a placés au centre de l'Europe; nous sommes le coeur de notre partie du monde". Quoi qu'il en soit, cette idée de Reich  fut l'un des ferments intellectuels les plus féconds de la période de Weimar. Or, si l'on songe que la République de Weimar avait une liberté d'action plutôt limitée en politique étrangère, il n'est guère étonnant qu'aucune idée politique plus ambitieuse n'ait eu une chance quelconque de se réaliser: la propositon Briand-Stresemann sur l'unification européenne resta lettre morte tout comme cette fameuse union douanière austro-allemande dans le cadre d'une politique "centre-européenne", plutôt traditionnelle celle-là, pour laquelle militait le chancelier Brüning et dont l'échec (en 1931) inspira largement à Wirsing le sujet de son livre.

 

du nazisme au deuxième après-guerre

 

Le débat sur la "Mitteleuropa" se poursuivit sous les nationaux-socialistes. Il semble même, au cours des années 30, que ce débat épousait les contours de la stratégie hitlérienne en politique extérieure. Jusqu'à la conclusion de l'accord commercial germano-roumain, en effet, on pouvait encore affirmer que le Troisième Reich reprenait à son compte l'héritage de la monarchie habsbourgeoise dans l'espace mitteleuropäisch.  Parmi ceux qui eurent tendance à confondre les intentions du régime national-socialiste avec leurs convictions personnelles, il faut citer l'interprétation de l'idéologie nazie par Heinrich von Srbik. Celui-ci persistait à croire que l'enjeu de la guerre mondiale était "un nouvel ordre plus viable en Europe centrale et sur notre continent". Or, les nationaux-socialistes ont toujours perçu l'idée de "Mitteleuropa" comme étrangère à leur mentalité, ne fut-ce qu'en raison de l'autonomie relative que cette idée accordait aux "petits peuples". Dans leur logique à eux, l'idée de "grand espace" était dictée par des impératifs tout à fait différents.

 

La deuxième guerre mondiale et ses prolongements firent litière des conditions fondamentales qui avaient sous-tendu les réflexions de naguère sur la Mitteleuropa. L'extermination des Juifs, l'expulsion des Allemands des territoires orientaux du Reich et de la plupart des pays d'Europe centrale et orientale, détruisirent une structure ethnique multiséculaire. L'Allemagne, puissance tutélaire potentielle de l'Europe centrale, disparut de la scène comme acteur politique, et ce pour une durée indéterminée. L'émiettement géographique en Etats se doubla d'une partition de l'Europe selon les lois du nouvel antagonisme mondial. Ce n'est qu'à la fin des années 40 que l'on vit apparaître, en République fédérale et dans les zones d'occupation occidentales, une amorce de réflexion allant à l'encontre d'une allégeance occidentale sans faille de la RFA et susceptible de trouver quelque résonance. La SBZ (Sowjetische Besatzungszone, future RDA), puis la RDA, n'avaient aucune liberté d'action et tous les projets fédéralistes développés en Europe centrale et orientale se heurtèrent invariablement au niet  de l'Union Soviétique, peu encline à tolérer le moindre mouvement dans son glacis. C'est pourquoi les projets d'un Gerhard Schröder, par exemple, qui voulait établir des contacts directs avec ce groupe d'Etats, sans en référer à l'URSS, étaient voués à l'échec.

 

l'idée de "Mitteleuropa" renaît dans les années 80

 

Le nouveau débat sur la Mitteleuropa prend sa source dans les années 80. Cette source est en fait plurielle. En République Fédérale, le regain des argumentaires "géopolitiques" avait préparé le terrain. Aux Etats-Unis, la distinction entre géopolitique "vraie" et "fausse" n'avait jamais été abandonnée et ce type de réflexion alla jusqu'à influencer la stratégie américaine en politique étrangère. Henry Kissinger lui-même, qui orienta longtemps cette stratégie, avait eu recours, dans ses travaux historiques, à des facteurs géopolitiques pour analyser et expliquer l'histoire allemande. Il n'est guère surprenant, dès lors, que ce soit un autre Américain, David P. Calleo, qui ait interprété toute l'évolution de l'Etat national allemand sous l'angle de sa "situation centrale". Calleo conclut son livre The German Problem Reconsidered,  paru en 1978, par ces lignes remarquables: "La géographie et l'histoire s'étaient jointes pour permettre à l'Allemagne une ascension tardive; mais rapide, contestable et contestée. Le reste du monde a réagi en écrasant le parvenu". Plus prudents, les historiens ouest-allemands sont néanmoins d'accord sur le fond: Michael Stürmer diagnostique un "traumatisme de puissance médiane menacée" et évoque les "contraintes d'une position centrale". Dans son Die gescheiterte Großmacht. Eine Skizze des deutschen Reiches 1871-1945   (paru en 1980), Andreas Hillgruber, dont les travaux antérieurs faisaient déjà appel à des considérations géopolitiques, fait de la "situation géostratégique centrale" un élément d'explication majeur. Et il ne faut pas oublier à quel point les déclarations de Richard von Weizsäcker sur les conséquences de "notre situation géopolitique" ont pu contribuer à légitimer et à vulgariser ces thèses. Tout cela annonce une "valse des paradigmes" dans l'historiographie officielle de la RFA, comme l'atteste l'émoi avec lequel certains représentants de l'opinion (jusqu'alors) dominante  -qui ne voient dans l'histoire allemande que la sanction d'erreurs intrinsèques à l'Allemagne (le fameux Sonderweg!)-   ont réagi devant ce qu'ils appellent "l'absurdité des constantes géostratégiques".

 

En marge de ces constructions historiques, la politique renoua spontanément, à la fin des années 70, avec la notion de Mitteleuropa. A Trieste, l'ancien port méditerranéen de la monarchie danubienne, germa la nostalgie d'une "Civiltà Mitteleuropa" (Viktor Meier). Il faut dire que les frustrations nées de la crise économique endémique qui secoue l'Italie n'étaient pas étrangères à cet état d'esprit. On ne peut pas dire, cependant, que cette étincelle se soit propagée à d'autres territoires anciennement austro-hongrois.

 

la "Mitteleuropa" correspond à la zone dénucléarisée envisagée par Olof Palme

 

Le concept de "Mitteleuropa" refit surface dans le sillage du débat sur la paix. Parmi les dissidents, notamment hongrois et tchécoslovaques, se développa l'idée d'une association des satellites ci-devant soviétiques en une confédération d'Etats indépendants, plus conforme aux traditions culturelles et politiques de ces peuples. Parallèlement, des contacts étaient noués entre la SED est-allemande et les sociaux-démocrates d'Allemagne occidentale en vue de la constitution d'une "zone soustraite aux armes chimiques", à rapprocher du projet, lancé par Olof Palme, d'une "zone dénucléarisée" en Europe.

 

La boucle est bouclée: le Congrès de Nuremberg de la SPD ouest-allemande a repris dans son programme la création d'un "corridor dénucléarisé". Certes, la sociale-démocratie ne conteste pas l'intégration de la RFA dans l'OTAN, mais il y a là un indice qui, à la suite d'autres, traduit la volonté de se démarquer toujours davantage de l'Alliance atlantique. Du coup, le conflit Est-Ouest, jusque là considéré comme une évidence naturelle, s'émousse au contact du débat sur la paix. Et cette érosion est devenue irrémédiable.

 

Il était inévitable, compte tenu de sa domination intellectuelle, que la gauche fût la première à produire un discours tendant à désamorcer les antagonismes en Europe. Et si les idées sur la neutralisation de la RFA, de l'Allemagne ou de l'Europe divergent encore quant à la stratégie, elles convergent en fin de compte vers un consensus quant aux objectifs fondamentaux.

 

Glotz, social-démocrate, reste dans le vague

 

Le projet proposé par Glotz pour la Mitteleuropa se singularise par un souci de transcender l'idée, plutôt prosaïque, d'une zone dénucléarisée sur 150 km de part et d'autre du Rideau de fer par une vision plus ambitieuse à laquelle Glotz prête apparemment quelque pouvoir mobilisateur. Malheureusement, on décèle chez lui un certain essoufflement des idées: Glotz semble être sans cesse demandeur d'idées nouvelles mais ses propres projets ne parviennent pas à le captiver très longtemps (par exemple, son dernier "Manifeste" pour des idées novatrices dans la politique européenne de la gauche). Cela peut, certes, s'expliquer par la grande mobilité intellectuelle du personnage mais on peut y voir aussi un signe de perplexité, et il n'est pas sûr que sa tentativce de renouer avec les idées de Mitteleuropa et de "Reich" soit d'un grand secours. Outre qu'il manque totalement de réalisme devant le fait de la puissance, il reste que les idées politiques ne sont pas des recettes de cuisine. Traditionnellement, la gauche allemande a toujours opposé le front du refus aux idées de "Mitteleuropa" et de "Reich" alors que les idées nationalistes ont pu, organiquement, faire bon ménage avec le socialisme ou la social-démocratie. Quoi qu'il en soit, le "Reich" est impensable sans référents résolument conservateurs; le contraire n'est pas concevable. Le fait que la gauche se cherche aujourd'hui des attaches de ce côté-là a valeur de symptôme mais de symptôme seulement: symptôme de son exaspération, ce qui semble donner raison à D.P. Calleo qui écrivait: "Après la deuxième Guerre mondiale, les Allemands ont en quelque sorte pris en congé de leurs problèmes traditionnels (...). Gageons que le conte allemand n'est pas encore fini...".

 

Aucun mouvement politique ne peut percer sans une dimenson visionnaire, un mouvement conservateur, ou national, moins que tout autre. Croire que le cynisme de la puissance géopolitique brute suffise à produire ses effets mobilisateurs, ou que l'idée "européenne" (en réalité ouest-européenne!) soit encore une idée d'avenir, est une erreur. En allemand, le mot "Reich" a gardé une résonnance particulière. Il pourrait donner une nouvelle impulsion à la question nationale et l'histoire de tous les peuples d'Europe centrale pourrait être unifiée, même si cette unité reste lourde (donc riche) de tensions Certes, la voie est ingrate et ne promet rien dans l'immédiat. Mais le jeu en vaut la chandelle et l'effort intellectuel, lui, ne décevra point.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(texte tiré de Criticón n°97, septembre-octobre 1986; traduction française de Jean-Louis Pesteil)

 

N.B. Il est bien évident qu'entre cette idéologie et les solutions offertes par Naumann et Renner au problème de la Mitteleuropa , il n'y a aucun point commun. D'ailleurs les auteurs nationaux-socialistes n'avaient pas ménagé leurs critiques à l'encontre des idées naumaniennes, qualifiées de "pseudo-socialisme", marquées d'esprit judaïque. La plupart des collaborateurs et des amis de Naumann, l'ensemble des rédacteurs de la Hilfe   se sont exilés ou ont subi la persécution nazie; seul P. Rohrbach, qui se trouvait en 1939 à la tête de la Deutsche Akademie  de Munich avait accepté de subir la loi du régime, sans toutefois capituler devant toutes ses exigences. Le national-socialisme ne doit rien à Naumann et à son école.

mardi, 02 mars 2010

Bibliographie de Jean-Claude Valla

Jean-Claude Valla et Pierre Vial lors d'un séminaire de "Terre & Peuple"

Bibliographie de Jean-Claude Valla

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Bibliographie :

  • La Civilisation des Incas, Famot, 1976.
  • Les Seigneurs de la guerre (avec Dominique Venner, André Brissaud, Jean Mabire, etc.), Famot, 1978.
  • Les Grandes découvertes archéologiques du XXe siècle, présentées par Jean Dumont ; Tome 2 : La redécouverte des Celtes – Nouvelles lumières sur les mondes – Les mystères Incas et Mayas : enquêtes et textes de Olivier Launay, Jacques Pons, Jean-Claude Valla, Famot, 1979.
  • Affaire Touvier : la contre-enquête, Éd. du Camelot, Paris, 1996.
  • La Cagoule : 1936-1937, Éd. de la Librairie Nationale, 2000.
  • La France sous les bombes américaines : 1942-1945, Éd. de la Librairie nationale, 2001.
  • L’Extrême droite dans la Résistance, 2 vol., Éd. de la Librairie nationale, 2000.
  • La Gauche pétainiste, Éd. de la Librairie nationale, 2001.
  • Le Pacte germano-sioniste , 7 août 1933, Éd. de la Librairie nationale, 2001.
  • Ces Juifs de France qui ont collaboré, Éd. de la Librairie nationale, 2002.
  • La Milice : Lyon, 1943-1944, Éd. de la Librairie nationale, 2002.
  • Ledesma Ramos et la Phalange espagnole : 1931-1936, Éd. de la Librairie nationale, 2002.
  • Georges Valois : de l’anarcho-syndicalisme au fascisme, Éd. de la Librairie nationale, 2003.
  • La Nostalgie de l’Empire : une relecture de l’histoire napoléonienne, Éd. de la Librairie nationale, 2004.
  • Les Socialistes dans la Collaboration : de Jaurès à Hitler, Éd. de la Librairie nationale, 2006.
  • Doriot, Pardès (coll. « Qui suis-je ? »), 2008

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In Memoriam Jean-Claude Valla (1944-2010)

In Memoriam

Jean-Claude Valla

(16/5/1944 – 25/2/2010)

Soube hoje, por um amigo francês, da morte de Jean-Claude Valla, jornalista, editor, historiador homem de cultura. Co-fundador do GRECE e seu secretário-geral nos anos 70, foi um dos intelectuais de relevo do que se convencionou chamar a "Nouvelle Droite". Colaborou em numerosas publicações e dirigiu várias revistas, incluindo tanto a «Éléments» como o «Figaro Magazine». Deixa uma extensa obra historiográfica, dedicada especialmente ao período contemporâneo, na qual se destacam os fascismos e a colaboração. Participou em diversas revistas de História, tendo actualmente presença habitual na «NRH». Conheci-o na XIII Table Ronde, em 2008, onde foi um dos oradores, e tive oportunidade de trocar com ele algumas palavras. Já não está entre nós. Descanse em paz.
Ex: http://penaeespada.blogspot.com/

Six milliards d'euros pour la Turquie!

6 milliards d’euros pour la Turquie

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Subventions à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion” à l’Union européenne. Un coût de 6 milliards pour les contribuables européens.

Le logo ci-contre est celui du Secrétariat général pour les Affaires européennes (organisme du gouvernement turc chargé des négociations d’adhésion). La couronne d’étoiles européenne s’y transforme en croissant sous l’influence de la Turquie : tout un programme.

Le 13 janvier 2009, la Cour des comptes européenne (ECA) a rendu public un rapport, intitulé “La gestion, par la communauté européenne, de l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie”.

Dans ce rapport, un chiffre explosif : la Commission européenne a versé 6 milliards d’euros à la Turquie dans le cadre de sa “préadhésion”.

La première période d’aide à la préadhésion (2002-2007) a vu l’Europe verser à la Turquie 1,249 milliard d’euros ; la seconde (2008 – 2013) prévoit le versement de 4,873 milliards d’euros.

Si la Commission  européenne est responsable de la gestion des fonds , l’argent est confié à l’IAP,”Instrument d’aide de préadhésion” en grande partie géré par les autorités turques. Depuis 2002, l’aide de préadhésion en faveur de la Turquie permet de financer la mise en oeuvre de projets destinés à soutenir les efforts déployés par ce pays afin de remplir les conditions requises pour adhérer à l’Union européenne.

Les « documents stratégiques » fournis à la Cour par les autorités responsables démontrent que les aides de l’UE n’ont pas été affectées de manière cohérente « en fonction d’un ensemble d’objectifs réalisables ». La Cour déplore l’opacité – pour ne pas dire le gaspillage, voire la corruption pure et simple, selon Minute– des projets financés.

D’après le rapport de la Cour, « des projets bénéficient de subventions alors que la partenariat pour l’adhésion n’en mentionnait nullement l’utilité et, dans le même temps, plus de 100 autres priorités n’étaient au centre d’aucun des projets sélectionnés. Les objectifs et la portée de 4 autres projets audités ne concernaient pas directement les priorités figurant dans le partenariat pour l’adhésion”.

Observatoire des subventions

"Blackwater" muss den Irak verlassen

blackwater.jpg

Privater Sicherheitsdienstleister »Blackwater« muss den Irak verlassen

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Die irakische Regierung hat entschieden, dass die berühmt-berüchtigte private US-Sicherheitsdienstleistungsfirma »Blackwater« (die nach zahlreichen Skandalen mittlerweile in »Xe« umbenannt worden ist) des Landes verwiesen wird. Der Grund für die Ausweisung ist die Reaktion der US-Justiz auf die Tötung unschuldiger Zivilisten im Irak.

Die Entscheidung der irakischen Regierung fiel nur Stunden nachdem US-Bundesrichter Ricardo Urbino ein Verfahren gegen die amerikanische Söldnerfirma Blackwater und fünf ihrer Angestellten eingestellt hatte. Das Unternehmen und seine Mitarbeiter waren angeklagt, 2007 auf einer belebten Straße in Bagdad 17 unbewaffnete Zivilisten getötet zu haben. Nach Ansicht des Richters wies die Anklageschrift der US-Regierung erhebliche juristische Mängel auf.

Der Irak hatte verlangt, den Prozess gegen die Männer in Bagdad nach irakischen Recht zu führen. Die US-Regierung hingegen bestand darauf, sie vor ein US-Gericht zu stellen. Viele Iraker betrachten die Art und Weise, wie die US-Staatsanwälte die Anklagen formulieren, als tendenziös. Blackwater gilt als eng verbunden mit der CIA und dem Pentagon, die zulassen, dass offiziell Söldner angeheuert werden, die weder den Bestimmungen der Genfer Konvention noch sonstigen Einschränkungen unterliegen. Wie sich im Irak und anderswo erweist, bedeutet das auch die Lizenz zum Töten unschuldiger Zivilisten.

Blackwater erlangte während der Regierung Bush traurige Berühmtheit als private Söldnerfirma für »Mietkiller«. Ihre Angestellten rekrutieren sich aus den Reihen ehemaliger Mitglieder der Greet Berets, der US Special Forces und der CIA. Firmengründer Erik Prince ist Erbe des Milliardärs Edgar Prince, einem Sponsor christlicher Fundamentalisten. Prince, der bis heute Chef von Blackwater (jetzt Xe) ist, gilt als Freund von George W. Bush.

Unabhängig von dem jetzt eingestellten Verfahren beschuldigen zwei ehemalige Angestellte von Blackwater Worldwide den Sicherheitsdienstleister, die Regierung jahrelang mit gefälschten Rechnungen betrogen zu haben. So wurde unter anderem die Bezahlung für eine Prostituierte, für Alkohol oder den Besuch in Wellness-Zentren abgerechnet. Die beiden haben ausgesagt, »systematischen« Betrug bei Sicherheitsverträgen des Unternehmens mit dem State Department im Irak und Afghanistan sowie mit dem Ministerium für Heimatschutz beobachtet zu haben. Das gleiche gelte für Verträge mit der Notstandsbehörde Federal Emergency Management Angency (FEMA) in Louisiana nach dem verheerenden Hurrikan Katrina. Die beiden ehemaligen Angestellten Brad und Melan Davis, die jetzt gegen Blackwater klagen, machen von einer Sonderregelung Gebrauch, wonach jeder, der einen Verstoß anzeigt, eine Belohnung in Höhe des Betrags erhält, den die staatlichen Behörden aufgrund dieser Informationen zurückfordern können. Bezeichnenderweise hat das Obama-Justizministerium entschieden, sich der Zivilklage der beiden nicht anzuschließen. Deshalb wurden die Anschuldigungen des Ehepaars Davis in diesem Monat vor einem Bundesgericht in Virginia verhandelt.

Die beiden geben an, Vertreter von Blackwater hätten bei einem Vertrag mit dem US-Außenministerium in Afghanistan eine philippinische Prostituierte auf die Gehaltsliste gesetzt und sie für ihre Dienste für Blackwater-Angestellte in Kabul bezahlt. Die Bezahlung der Prostituierten wurde ihrer Aussage nach über das Erholungs- und Entspannungsprogramm der Blackwater-Truppe, im  O-Ton »Morale Welfare Recreation«, abgerechnet.

Blackwater ist der größte private Sicherheitsdienstleister im Dienst des US State Departments und hat im Laufe der Jahre Milliarden Dollar für den Schutz von diplomatischem Personal im Irak und Afghanistan und bei Missionen anderer Behörden kassiert. Das Unternehmen ist die Ursache der weit verbreiteten antiamerikanischen Stimmung im Irak, weil seine Wachleute immer wieder in Schießereien mit tödlichem Ausgang verwickelt waren.

 

Mittwoch, 24.02.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik, Terrorismus

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Les rebelles sunnites d'Iran ne pouvaient agir seuls

Les rebelles sunnites d'Iran ne pouvaient agir seuls
<http://blog.lefigaro.fr/malbrunot/2010/02/les-rebelles-su...>

Par Georges Malbrunot  le 23 février 2010  

Spécialiste de la minorité sunnite d'Iran, le chercheur français Stéphane Dudoignon nous livre son analyse, après l'arrestation par Téhéran du chef des rebelles sunnites du Jundallah, qui ont multiplié les attentats contre le pouvoir iranien ces douze derniers mois. 

Quelle est la signification politique de l’arrestation du chef des rebelles sunnites du Jundallah (l’Armée de Dieu) ?

Stéphane Dudoignon : Abdomalek Righi représente le héros national baloush d’Iran. Il est la tête du réseau des rebelles sunnites qui luttent contre le régime. C’est une très belle prise pour le pouvoir iranien. Après la création de leur formation en 2002, les insurgés sunnites avaient lancé des attaques ciblées ou enlevé des soldats iraniens, mais toutes les portes n’étaient pas fermées avec le pouvoir iranien. Ce qui n’est plus le cas, depuis le printemps 2009. En effet, Jundallah a alors opéré un tournant stratégique en commettant un attentat de grande ampleur de type Al Qaida contre une mosquée à Zahedan, qui avait tué 28 personnes en mai. En octobre, les rebelles s’en étaient pris ensuite à un centre des Gardiens de la révolution, liquidant 42 personnes, dont plusieurs officiers. Cette violence tous azimuts est nouvelle en Iran, elle ne correspond à aucune tradition iranienne.

Faut-il en conclure que Jundallah avait reçu des ordres ou un soutien logistique de l’extérieur, comme Téhéran l’en accuse ?

Je n’ai pas de preuves pour dire que le Pakistan ou les Américains sont derrière Jundallah. Cela étant, il est impensable que Righi, sa femme et plusieurs centaines de ses partisans, aient pu trouver refuge au Pakistan, sans qu’à un moment ou à un autre, ils aient été en contact avec la sécurité locale. Après son virage du printemps 2009, Righi se sentait-il plus fort ? Etait-il appuyé par l’extérieur ? Je pose la question. Je constate que ses deux derniers attentats ont visé les Gardiens de la révolution, l’unité d’élite, dont la mission est de protéger le régime iranien contre toute tentative de déstabilisation. Ces opérations manifestaient clairement de la part de Jundallah une volonté de rupture avec la République islamique. Les blogs du mouvement proféraient depuis six mois des injures contre le Guide, Ali Khameneï. C’était nouveau.
Quelles conséquences cette mise hors d’état de nuire va-t-elle avoir dans les relations de l’Iran avec son voisin pakistanais ?

Elle devrait permettre une amélioration de ces relations. Righi était devenu une pomme de discorde entre Téhéran et Islamabad. Par ailleurs, au plan interne, cette capture élimine un des principaux obstacles sur le chemin de négociations entre le pouvoir iranien et les leaders religieux baloush. Depuis 2009, ceux-ci s’étaient désolidarisés de Righi et du Jundallah. Une chose est sûre : Righi va passer un mauvais quart d’heure, comme son frère Abdel Hamid qui est dans le couloir de la mort, après avoir été, lui aussi, appréhendé par la sécurité iranienne. Le témoignage d’Abdolmalek Righi est certainement redouté par ses commanditaires. On peut faire confiance aux services de sécurité iraniens pour instrumentaliser ses aveux.



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Le fondamentalisme islamiste en Iran: négation de l'identité iranienne et création anglo-américaine

Robert STEUCKERS :

Le fondamentalisme islamiste en Iran : négation de l’identité iranienne et création anglo-américaine

 

Extrait d’une conférence prononcée par Robert Steuckers à la tribune de la « Gesellschaft für freie Publizistik » (Bayreuth, avril 2006), de l’association « Terre & Peuple / Flandre-Hainaut-Artois » (région lilloise, mars 2009), du « Cercle Proudhon (Genève, avril 2009)

 

khomeini_432.jpgCeux qui écoutent et ingurgitent, béats, sans émettre la moindre critique, les discours médiatiques, généralement fabriqués de toutes pièces outre-Atlantique, imagineront sans doute que l’identité iranienne correspond au fondamentalisme islamique qui y règne depuis 1979. Rien n’est plus faux. L’identité iranienne est une identité impériale, indo-européenne et perse. En effet, tous les historiens de l’Iran s’accordent à dire que, dès les dynasties bouyides et samanides (du 9ème au 11ème siècle), l’islamisation a dû composer avec de multiples recours au passé impérial irano-perse. L’identité iranienne se situe entièrement dans l’œuvre du poète Ferdowsi et du philosophe mystique Sohrawardi. Il faudra la catastrophe des invasions mongoles d’un Tamerlan pour réduire cette merveilleuse synthèse civilisationnelle à néant, pour précipiter l’Iran dans le déclin, du moins jusqu’à l’avènement des Séfévides. Les iranologues contemporains se divisent quant à savoir si la reprise en main de l’impérialité perse par les Séfévides a été ou non un bienfait pour l’Iran : les uns affirment que cet avènement dégage l’Iran de la cangue islamique sunnite, de la double emprise arabe et ottomane ; les autres disent qu’en privilégiant le chiisme, en en faisant une religion d’Etat, les Séfévides ont réduit à la marginalité le zoroastrisme, expression identitaire iranienne plurimillénaire qui avait survécu vaille que vaille sous l’islam pré-séfévide. Trancher dans cette querelle d’historiens n’est pas notre propos ici, mais d’examiner comment le fondamentalisme de l’Ayatollah Khomeiny s’est imposé dans un Etat impérial qui entendait s’inscrire dans d’autres traditions, dans des traditions de plus grande profondeur temporelle.

 

Evaluation positive du rôle des Séfévides en Europe

 

L’avènement des Séfévides est généralement vu d’un bon œil  dans l’historiographie traditionnelle européenne, pour plusieurs  raisons :

◊ L’empereur séfévide avait épousé une princesse byzantine de Trébizonde et va dès lors tenter de venger Byzance contre les Ottomans sunnites, qui reprennent à leur compte le vaste territoire où s’était préalablement exercée la souveraineté romaine/byzantine. De cette manière, le conflit séculaire entre la Romania orientale et les empires perses reprenait mais sous d’autres signes.

◊ L’empereur séfévide se pose ainsi comme le principal ennemi à l’est de l’empire ottoman qui assiège l’Europe sur le Danube et en Méditerranée. Il est ainsi l’allié de revers de Charles Quint. L’œuvre politique des Séfévides et leur action militaire ont donc contribué à alléger la pression ottomane en Europe. En 1529, le Sultan doit lever le siège de Vienne parce que les Perses attaquent à l’est. Cette guerre se soldera par une défaite perse et par l’émergence d’une frontière qui existe toujours aujourd’hui : en effet, la frontière entre l’Irak (à l’époque conquête récente de Soliman le Magnifique) et l’Iran, d’une part, entre la Turquie et l’Iran, d’autre part, demeure quasiment celle qui a résulté de cette guerre perso-ottomane du 16ème siècle. Elle sanctionne également la division des peuples kurde, azéri et arménien, partagés entre les deux empires.

 

Les empereurs séfévides vont donc privilégier le chiisme, en faire l’islam de leur empire, contre les sunnites, accusés de collusion avec les Ottomans, et contre les zoroastriens, dont le nombre se réduira au minimum dans l’empire perse. Une bonne partie d’entre ceux-ci va émigrer vers l’Inde, où ils constituent toujours la minorité des Parsi. Les Séfévides s’opposeront aussi aux fraternités soufies. En ce sens, les Séfévides commettent une série d’entorses à l’identité iranienne, car les synthèses lumineuses qui voyaient le jour dans l’Iran d’avant Tamerlan et s’y succédaient par transition plus ou moins douce étaient bien plus fécondes que le sera le futur chiisme d’Etat des Séfévides. Les historiens critiques à l’endroit du chiisme d’Etat, imposé par les Séfévides, accusent ceux-ci d’avoir utilisé deux instruments non iraniens pour faire triompher leur cause : les Qizilbakh turkmènes et les théologiens chiites arabes, deux forces religieuses qui ne puisaient pas dans le vieux fond iranien/persan. Le chiisme restera religion d’Etat jusqu’aux Pahlevi. Khomeiny s’inscrit dans cette tradition tout en rompant aussi avec elle, comme nous allons le voir.

 

Les mollahs, clergé chiite

 

La principale caractéristique du chiisme perse est la présence d’un clergé, celui des mollahs. Le jargon médiatique a parlé, depuis l’avènement de Khomeiny, de « mollahcratie ». La présence de ce clergé chiite fait de l’empire perse séfévide et post-séfévide un Etat fort différent de l’empire ottoman sunnite, qui est, lui, dépourvu de clergé organisé. En ce sens, on a parfois qualifié l’empire séfévide de « césaropapiste ». Le système est en tout cas dual, comme à Byzance et en Occident au temps des Othoniens dans le Saint Empire, avant la querelle des investitures. L’empire perse séfévide présente donc deux sphères autonomes, celle du « politique », apanage du Shah, et celle de la religion, apanage du clergé chiite. La sphère de la religion reçoit tour à tour deux interprétations :

◊ celle des Akhbaris, mystiques, qui fondent la légitimité religieuse sur le charisme du mollah ou de l’Imam ;

◊ celle des Ouzoulis, interprètes plus rationnels du droit qui demandent simplement de se soumettre au jugement de l’homme cultivé, du clerc, sans déployer d’incantations qualifiables de « mystiques ».

 

Le chiisme d’Etat encourage également les pèlerinages, non pas vers La Mecque, comme dans la tradition sunnite arabe et ottomane, mais vers le tombeau des Imams, des grands hommes ou des poètes, tradition qui s’est perpétuée jusqu’à nos jours. Les wahhabites saoudiens perçoivent dans cette pratique chiite et persane des pèlerinages une hérésie, une déviance inacceptable.

 

Le chiisme d’Etat repose sur un messianisme particulier : celui qui attend le Mahdi, le retour de l’Imam caché. Cette attente messianique postule, pour le croyant, d’agir toujours pour cet Imam caché. Dans l’histoire perse, depuis l’avènement des Séfévides, le messianisme a adopté une attitude essentiellement quiétiste : le croyant devait attendre la fin des temps pour agir réellement, dans la concrétude mondaine, sous la direction mystique et avisée du Mahdi. Khomeiny va bousculer cette tradition quiétiste : il va vouloir combattre tout de suite pour créer un Etat chiite-islamique pur pour pouvoir saluer l’avènement du Mahdi, pour être présent et en armes lors de son arrivée.

 

Avant Khomeiny : le quiétisme

 

Quelle fut l’attitude face au Shah avant Khomeiny ? Le quiétisme religieux de l’ère séfévide percevait le Shah comme une personne sacrée, comme l’ombre de Dieu sur la Terre. Seul prélude à l’attitude hostile d’un souverain iranien au clergé des mollahs, attitude qui caractérisera ultérieurement le règne des deux Shahs Pahlevi : le puissant Nadir Shah, au 18ème siècle, s’opposera à la hiérocratie chiite en lui coupant les vivres. Avec les Shahs de la nouvelle dynastie Qadjar, on assiste à une réconciliation avec le clergé mais sous l’influence accentuée des Ouzoulis. Shahs Qadjar et Ouzoulis jettent les bases d’un nouveau partage du pouvoir. Les Ouzoulis récupèrent les dotations au clergé, auparavant ôtées par Nadir Shah, et raffermissent du même coup leurs positions dans les domaines de la justice et de la conciliation juridique. Les effets de cette nouvelle donne politico-religieuse font que le Shah se voit petit à petit dépouillé de ses attributs « divins ». La position du Shah est désacralisée mais non pour autant délégitimée. Le Shah et le clergé chiite demeurent donc tous deux des représentants de l’Imam caché. Le Shah doit assurer dans la concrétude politique et quotidienne l’ordre réclamé par la religion, notamment doit garantir dans le pays le règne de la justice (sociale). Les clercs, dans ce partage des tâches, détiennent le savoir religieux et le leadership spirituel, posé comme intangible et incontestable. Les clercs disent la justice et deviennent les protecteurs du peuple contre les abus des propriétaires terriens, des gendarmes et de l’Etat. On percevra en Europe catholique des attitudes similaires : en Irlande contre le pouvoir britannique, en Flandre contre les institutions de l’Etat belge (notamment dans les rangs du bas clergé rural), en Croatie contre le pouvoir royal serbe, en France rurale contre les inventaires de la première décennie du 20ème siècle, etc.

 

Deux événements vont bouleverser les équilibres de la société iranienne à la fin du 19ème siècle : la régie des tabacs, entreprise lucrative, devient un monopole anglais et prive du coup l’Etat perse d’une formidable source de revenu. De plus, cette disposition installe une forme de semi-colonialisme dans la plus ancienne aire impériale de l’histoire des peuples de souche indo-européenne. Second événement : l’établissement d’une constitution, calquée sur la loi fondamentale belge, en 1906-1907. En 1906, les clercs refusent cette constitution parce qu’elle est un élément étranger et ne correspond en rien aux traditions chiites. En 1907, le clergé fait volte-face et l’accepte parce que cette constitution, finalement, contient bon nombre de clauses qui les favorisent. Malgré cette acceptation initiale, les réactions ne tardent pas : le Shaykh Fazlullah Nouri proclame que la constitution et le parlementarisme sont contraires à l’esprit de l’islam et réduisent finalement le pouvoir du clergé chiite organisé (on peut tracer un parallèle avec les réactions diverses des catholiques belges : depuis les ultramontains, engagés socialement, jusqu’aux daensistes soucieux de la condition ouvrière, aux étudiants louvanistes de l’ACJB, à bon nombre d’éléments du mouvement flamand catholique et aux rexistes d’avant-guerre, ils auront, face à cette constitution et au parlementarisme, des réactions similaires).

 

Critique de la Constitution à la belge, proposée par les Britanniques et leurs alliés

 

Quels arguments avance le Shaykh Fazlullah Nouri ? Le Parlement, qui est légiférant, implique, dit-il, un système où c’est la majorité qui décide en fin de compte. Or une telle majorité met tout le monde sur pied d’égalité (chrétiens, arméniens, juifs, zoroastriens, forces para-maçonniques, etc.), y compris, au-delà de tous clivages religieux, les « ignorants ». De telles majorités, composées d’éléments disparates et inégaux, bat en brèche les prérogatives du clergé, représentant de l’Imam caché. Le Shaykh Fazlullah Nouri reproche aussi au constitutionalisme de mouture belge, que les Anglais imposent indirectement à la Perse des derniers Qadjar, de fixer d’avance et pour l’éternité des « droits » et des « devoirs », sans qu’il ne soit plus possible de les adapter au gré des circonstances réelles de la société ou des conjonctures politiques (on retrouve ce reproche chez Max Weber et Carl Schmitt, critique particulièrement pertinent de la « nomocratie », vecteur d’immobilisme ou d’intransigeance abstraite). Dans le contexte d’un Iran devenu monarchie constitutionnelle à la belge, le clergé devient une institution parmi d’autres, ruinant du même coup la dualité traditionnelle héritée des empereurs séfévides et reposant sur la personne du Shah et sur le clergé. L’avènement de la constitution et du parlementarisme entraine l’émergence d’une administration moderne, qui empiète automatiquement sur les prérogatives traditionnelles du clergé. Les critiques du Shaykh Fazlullah Nouri ressemblent, mutatis mutandis, à celle d’un Max Weber : si les fonctionnaires sont bons, intègres, formés à bonne école et recrutés par examens, ils constitueront un bienfait pour l’Etat. Au contraire, si les fonctionnaires sont nommés au pro rata des voix accordées à des pochards, des politiciens de café de commerce, des corrompus véreux, des prostituées recyclées, des déments narcissiques ou des imbéciles finis, le fonctionnariat, devenu ainsi pléthorique, deviendra rapidement une calamité, comme on le constate dans bon nombre de pays européens, Belgique en tête.

 

Le système constitutionnaliste perse survivra à peine à la première guerre mondiale. Reza Khan, devenu Reza Shah en 1926, s’opposera tant aux corrompus du parlementarisme qu’au clergé ; dans son opposition à la religion islamique, on peut voir une imitation de son homologue turc Mustafa Kemal Atatürk. L’attitude que les deux Shahs Pahlevi imposent au clergé est celle du quiétisme. Son fils, qui monte sur le trône en 1941, organise, avec l’Ayatollah Boruyerdi, la conférence de Qom en 1949, où le clergé promet de ne pas s’immiscer dans les affaires politiques de l’empire. Tout clerc qui désobéirait à l’esprit de la conférence de Qom se verrait immédiatement exclu de la classe des clercs.

 

L’Iran pendant la seconde guerre mondiale et l’option pro-américaine

 

Comment, dans un tel contexte, va naître le fondamentalisme chiite de Khomeiny ? D’abord un rappel historique : Britanniques et Soviétiques violent la neutralité iranienne en 1941. Le pays est occupé, divisé en deux zones, avec les Soviétiques au nord et les Britanniques au sud. Reza Shah est éliminé, envoyé en exil aux Seychelles puis en Afrique du Sud, où on le laisse mourir d’un cancer qu’on ne soigne pas. Son fils Mohammed Reza Pahlavi est intronisé empereur à la place de son père. Les Américains envoient des équipes d’ingénieurs civils pour réorganiser les chemins de fer iraniens et parfaire une logistique qui mène du Golfe Persique à la Caspienne et de la Caspienne à la Volga pour alimenter en matériels américains l’armée soviétique aux abois depuis les coups de butoir qu’elle a pris en 1941 et pendant l’été 1942. La logistique transiranienne, organisée par les Américains, permettra de bloquer l’avance allemande en direction du Caucase méridional et des puits de pétrole azerbaïdjanais et en direction de Stalingrad, Astrakhan et la Caspienne. Mohammed Reza Shah va parier sur les Américains. Pourquoi ? Quel est son raisonnement en 1944-45 ? Les Américains ne sont pas des occupants militaires, contrairement aux Soviétiques et aux Britanniques. Ils n’ont pas de frontières communes avec l’Iran. Le jeune Shah craint surtout une annexion des provinces azerbaïdjanaises de l’Iran à l’Azerbaïdjan soviétique. Il craint aussi que les troupes soviétiques refuseront d’évacuer les rives caspiennes de l’Iran. Ensuite, il a peur de voir les Britanniques absorber le Baloutchistan iranien, le joindre à la province du même nom dans le Pakistan actuel, qui faisait partie, à l’époque, des possessions indiennes de la Couronne britannique.

 

L’Iran, en dépit de son occupation, connaît un boom économique pendant la seconde guerre mondiale, assorti d’un exode important de ruraux vers les villes. En 1942, Téhéran est secoué par des émeutes de la faim. Après la guerre, et avec la chute des productions militaires destinées aux Soviétiques et aux Alliés occidentaux, l’Iran doit affronter les problèmes posés par le trop-plein démographique urbain. Il le règle en distribuant à ces foules des grandes villes les dividendes du pétrole. En 1953, le Dr. Mossadegh, un nationaliste laïque, entend nationaliser les pétroles, toujours sous contrôle anglais, et rejeter l’inféodation de l’Iran aux Etats-Unis. Le Shah craint une alliance entre nationalistes et communistes, qui serait appuyée par l’URSS. Mais le clergé et les bazaris, les commerçants du Bazar de Téhéran, ne soutiennent pas le Dr. Mossadegh. Celui-ci est renversé par un putsch, soutenu par Washington et Londres. Toutefois, les questions soulevées par le Dr. Mossadegh en 1953, surtout la nécessité de nationaliser les pétroles et d’acquérir une autonomie énergétique, demeurent depuis lors les questions cruciales de la politique iranienne : elles seront au centre de la polémique contre le Shah ; elles sont au centre de la polémique entre l’américanosphère et Ahmadinedjad aujourd’hui.

 

La réforme agraire

 

Après le départ de Mossadegh, le Shah prend conscience de la nécessité d’une révolution sociale en Iran, une révolution qu’il voudra « blanche », c’est-à-dire téléguidée d’en haut, depuis l’empyrée du pouvoir impérial. Elle vise trois réformes essentielles : l’organisation d’un système éducatif moderne et performant (y compris pour les filles), détaché du clergé ; le droit de vote pour les femmes ; la réforme agraire. C’est la réforme agraire qui freinera le succès de la « révolution blanche ». La difficulté d’organiser une réforme agraire dans un pays comme l’Iran relève d’une donnée géographique incontournable : seulement 11% du sol iranien est cultivable ; or 22% de la population active (encore aujourd’hui) l’est dans l’agriculture. Avant la révolution blanche, lancée par le Shah, le système était latifundiste, constitué de grandes propriétés terriennes. Chacun, sur son lopin, produit pour sa famille, avec, éventuellement, un petit surplus. Ce système s’avère insuffisant pour nourrir correctement les masses urbaines : il faut importer des céréales américaines donc consentir à la dépendance alimentaire. Avec la réforme agraire, chaque paysan reçoit son lopin en pleine propriété. Les grands propriétaires sont dédommagés. Mais, à chacun de ces paysans devenu propriétaire, se pose un problème crucial : comment va-t-il financer l’achat de machines pour mettre en valeur ses nouvelles terres ? Pour beaucoup, c’est impossible. Un grand nombre de ces nouveaux petits propriétaires sont contraints à l’exode vers les villes, après avoir abandonné leur lopin. Une partie de cette masse est absorbée par l’industrie. Une autre partie reste sur le carreau. Les masses urbaines sont gonflées par ce nouvel afflux de population. Du coup, les dividendes pétroliers ne suffisent plus pour les nourrir.  Le Shah aurait pu sortir de cette impasse en 1973, quand l’OPEP décida d’augmenter le prix du brut pour assurer le financement d’infrastructures dans les pays exportateurs de pétrole. C’est la raison pour laquelle il apporta son soutien à l’OPEP, majoritairement arabe, en dépit de la solidarité inflexible qu’il manifestait à l’égard des Etats-Unis. Cette option de l’empereur pour une solidarité entre pays producteurs de pétrole va définitivement lui aliéner Washington. Les relations n’étaient déjà plus au beau fixe depuis Kennedy, qui se méfiait des développements de l’armée iranienne, capable de devenir l’instrument d’une puissance régionale indélogeable et incontournable, surtout à proximité des puits de la péninsule arabique et à hauteur du Détroit d’Ormuz.

 

L’Axe énergétique Paris/Bonn/Téhéran

 

Pour le spécialiste suédois de la géopolitique pétrolière, William Engdahl, la colère américaine contre le Shah vient de la volonté du monarque 1) de doter son pays d’un programme nucléaire destiné non pas à l’Iran seul mais à tout l’espace circum-iranien, 2) de diversifier la dépendance iranienne vis-à-vis du pétrole et 3) de coopérer avec la France (l’uranium de Tricastin) et avec l’Allemagne (la compagnie KWU est appelée à construire deux réacteurs, avec, en sus, un financement complémentaire de 19 milliards de DM, consenti en 1977 pour la construction d’autres infrastructures). Cette coopération euro-iranienne n’allait pas en sens unique : les Iraniens investissaient en Allemagne (25% du capital de Krupp) et en France dans les entreprises gérant les technologies du nucléaire. Une Axe énergétique Paris-Bonn-Téhéran se mettait en place : voilà pourquoi il fallait éliminer le Shah, après avoir éliminé, par l’intermédiaire de la Bande à Baader, le président de la Dresdner Bank, Jürgen Ponto (assassiné le 31 juillet 1977), et le patron des patrons allemand, Hanns-Martin Schleyer, tous deux avocats d’une modification complète du système économique international, après que Nixon ait déclaré la non convertibilité du dollar en or. Ce double assassinat en Allemagne, faut-il le préciser, suit celui du Roi Fayçal d’Arabie, perpétré le 25 mars 1975 ; le monarque saoudien avait tenté de réorganiser l’OPEP, de concert avec le Shah, prouvant par là même que le système que préconisaient les deux hommes n’était pas belligène en dépit de l’hostilité ancestrale entre Arabes sunnites/wahhabites et Perses chiites. Washington, affolé face à la redistribution des cartes qui s’opérait sur la scène internationale, applique, via Kissinger, une politique intransigeante à l’endroit de ses alliés officiels, quasi une politique de collision frontale, prouvant que les « bonnes intentions » affichées par les Américains depuis la fin des années quarante n’étaient que des leurres propagandistes ; les alliés, qu’ils fussent d’anciens alliés ou d’anciens vaincus, demeuraient, dans le fond, des concurrents des Etats-Unis, donc des ennemis à abattre au moment opportun et non des alliés qu’une bienveillance américaine perpétuelle était toujours prompte à protéger, au nom de principes désintéressés.

 

La CIA parie sur Khomeiny

 

Pour recréer, au moins artificiellement, la confiance perdue dans les opinions publiques « alliées », pour retoucher ce tableau pessimiste, tissé de conflictualités réelles et résurgentes, en dépit des alliances officielles, il fallait inventer une nouvelle idéologie édulcorante : ce sera l’idéologie des « droits de l’homme », portée par le nouveau président des Etats-Unis, promu dans les médias en 1975 et intronisé en 1976 : Jimmy Carter, ancien cultivateur de cacahuètes en Géorgie. La diplomatie américaine évolue très rapidement dans les années 60 et 70 : elle est marquée par le passage de la diplomatie classique de Kissinger au temps de Nixon, à une diplomatie modifiée et axée sur la confrontation directe ou indirecte avec les alliés officiels de Washington puis à la diplomatie cartérienne des « droits de l’homme ». Dans ce contexte bouillonnant et tourbillonnant, la CIA est appelée à agir rapidement, avant que les alliés ne comprennent réellement ce qui arrive et se mettent au diapason. Elle va parier sur les mollahs iraniens parce qu’ils ne suggèrent aucun projet « moderniste », contrairement au Shah (ou au Roi Fayçal, en dépit des blocages potentiels de l’idéologie wahhabite). Le calcul des services américains est le suivant : si les mollahs n’ont pas de grands projets de modernisation, les dividendes pétroliers suffiront pour apaiser le pays et ses masses déclassées à la suite de l’échec (relatif) de la réforme agraire. Il n’y aura pas de programme nucléaire, donc aucune coopération future de réelle importance avec les puissances économiques européennes, qui demeureront dès lors inféodées aux Etats-Unis, sans risquer de faire cavaliers seuls. La CIA va donc créer le personnage de Khomeiny, le choisir comme figure privilégiée du bouleversement appelé à neutraliser l’Iran, à le plonger dans un marasme de longue durée, l’empêchant ainsi de devenir une puissance régionale qui compte.

 

Le programme de la « Révolution Blanche »

 

Qui est Khomeiny ? Avant toutes choses, il est un contestataire du quiétisme traditionnel adopté par les chiites depuis l’avènement des Qadjar et depuis la Conférence de Qom de 1949. Ce quiétisme va perdurer sans heurts jusqu’à la mort de l’Ayatollah Boruyerdi en 1961. Le quiétisme a été une période faste pour le clergé chiite : son autonomie était garantie par le principe de dualité et ses écoles, comme du reste tout le système scolaire iranien, vont se redresser dans les années 50. En 1959, quand le Shah annonce qu’il va introduire le vote des femmes et amorcer la réforme agraire, le clergé n’appelle nullement à manifester, alors que les thèmes étaient sensibles, susceptibles de provoquer une vigoureuse contestation de nature religieuse. En 1961, une fois l’Ayatollah Boruyerdi disparu, le Shah annonce le programme entier de sa « révolution blanche », que le peuple pourra accepter après référendum, prévu pour le 26 janvier 1963. Ce programme comprenait :

◊ La réforme agraire ;

◊ La nationalisation des forêts ;

◊ La privatisation des entreprises nationales ;

◊ La participation et l’intéressement des travailleurs (projet calqué sur les projets gaulliens) ;

◊ La réforme électorale ;

◊ La création d’un « corps d’alphabétisation ».

Mais simultanément à l’annonce de cet ambitieux programme de modernisation de l’Iran, le Shah traite les clercs de « parasites », de « réactionnaires noirs » et d’ « animaux impurs ». En substance, il déclare : « Nous en avons assez des parasites sociaux et politiques ; j’abhorre la ‘réaction noire’ encore plus que la ‘destruction rouge’ ». Ces paroles fortes sanctionnent la rupture entre le pouvoir royal/impérial et le clergé.

 

L’engrenage

 

En 1962, Khomeiny avait déjà tenu quelques discours incendiaires contre le droit de vote des femmes. En janvier 1963, à la veille du référendum qui doit légitimer le programme de la « révolution blanche », il déclare s’opposer à la réforme agraire, alors que le clergé ne l’avait jamais rejetée auparavant. Pourquoi cette nouvelle hostilité ? Parce que Khomeiny estime que cette réforme touche aussi les terres détenues par les fondations religieuses. En mars 1963, les étudiants en théologie manifestent à Qom, à l’instigation de Khomeiny. La répression est dure. Le 3 juin 1963, c’est le jour de l’Achura dans la tradition chiite. C’est une fête de première importance chez les chiites duodécimains ; elle consiste en une procession en souvenir de l’assassinat du troisième Imam Hussain sur ordre du Calife sunnite Yazid, en 680 à Kerbala (Irak actuel). Pour expliquer de manière succincte l’importance à la fois religieuse et politique de l’Achura, disons que chaque croyant doit promettre, ce jour-là, de « prendre la place d’Hussain, de voler à son secours », contre l’injustice commise par Yazid. Sont des « Yazids » tous ceux qui enfreignent les lois de l’islam et commettent l’injustice. Dans un tel contexte religieux, le Shah était devenu un « Yazid ». Le 3 juin 1963, donc, jour de l’Achura, Khomeiny tonne un discours incendiaire qui conduit immédiatement à son arrestation. Celle-ci déclenche des manifestations dans toutes les villes d’Iran, orchestrées par les « bazaris », les commerçants des bazars. Troubles et répression s’ensuivent, contraignant Khomeiny à prendre le chemin de l’exil en 1964. Ce chemin le conduira d’abord en Turquie, puis en Irak, où il s’installera à Najaf, près du tombeau d’Ali. Enfin, à Neauphle-le-Château en France, quand le pouvoir baathiste irakien, laïque et républicain, l’expulse par crainte d’une contagion en Irak même, au sein de la forte minorité chiite du Sud.

 

La « renaissance théologique » de Khomeiny

 

Khomeiny2-1d1e1.jpgA Najaf, la pensée de Khomeiny va prendre les contours précis que nous lui connaissons depuis 1978. On parle à son propos d’une « renaissance théologique ». L’Ayatollah en exil va briser d’abord la dualité Shah/clergé qui avait caractérisé l’Iran chiite depuis les Séfévides. Il déclare en effet que la monarchie est incompatible avec l’islam ; cela implique que tant que l’Iman ou le Mahdi restent cachés, seuls les clercs ont droit au pouvoir (« velayet-e faqih »). Il réhabilite le culte du martyr, refoulé par le quiétisme dominant avant sa « renaissance théologique » : si l’on meurt en combattant le Shah, désormais totalement délégitimé et ramené à la figure négative d’un « Yazid », on acquiert automatiquement le statut de martyr. Les théologiens parlent à ce propos  d’ « Entwerdung in Gott », de quitter volontairement le monde du devenir, d’abandonner son devenir individuel pour s’évanouir en Dieu, selon la notion soufie de « fana ». En résumé, c’est un appel aux suicidaires, dont on va faire des kamikazes dans les champs de mines ou des preneurs de tranchées (pendant la longue guerre Iran/Irak de 1980-88). Sur le plan plus strictement politique, Khomeiny avance pendant son exil irakien deux leitmotive : 1) il faut en finir avec l’immunité dont jouissent tous les citoyens américains actifs sur le territoire iranien (immunité dont ils jouissaient aussi par ailleurs en Grande-Bretagne depuis 1942 et en Allemagne depuis l’occupation de 1945) ; 2) il fustige l’endettement de l’Iran, argument plus concret que le Shah retiendra comme valable, dans la mesure où tous ses propres efforts pour conduire à l’autarcie énergétique de l’Iran, notamment sur le plan nucléaire, furent simultanément des efforts pour le dégager de l’endettement. Pendant son exil, Khomeiny soulèvera d’autres polémiques, comme, en 1967, contre le train de lois sur la protection de la famille ou, en 1971, contre les dépenses entrainées par les fêtes de Persépolis, destinées à donner un lustre inégalé au principe monarchique achéménide, revendiqué par les deux Shahs de la dynastie Pahlevi. En 1976, Khomeiny s’insurge contre l’introduction du calendrier achéménide, perçue comme une atteinte directe à l’islam, à la liturgie duquel il oppose une autre liturgie, se référant à un passé préislamique, donc relevant de la « jalilliyah », aux yeux des islamistes.

 

Dans les années 70, les clercs réussissent à organiser les masses issues de l’exode rural et concentrées dans les grandes villes iraniennes. Dans les années 50 et 60, cela n’avait pas été possible parce que l’industrie, en phase de croissance rapide, absorbait aisément cette frange de la population. A la veille du premier choc pétrolier, consécutif à la guerre du Yom Kippour de 1973, cette absorption du boom démographique iranien n’est plus possible et le rente pétrolière, aussi fabuleuse soit-elle, ne parvient pas à satisfaire les besoins des déclassés. Les parties couraient à la confrontation directe, malgré le quiétisme encore en vigueur sous l’Ayatollah Shariat Madari. A partir de 1975, la tension monte dans le pays. Il ne faut plus qu’une étincelle pour mettre le feu aux poudres. Il faudra attendre deux ans environ pour que le pays explose véritablement : le 3 novembre 1977, le fils de Khomeiny meurt dans des circonstances mystérieuses. Aussitôt, des manifestations violentes de grande ampleur éclatent à Téhéran, juste avant la période de l’Achura. Or la tradition chiite veut que s’il y a un mort par violence pendant le temps sacré de l’Achura, on doit le commémorer par des processions quarante jours après. Ce sera l’enchaînement fatal qui aura raison du pouvoir impérial : les processions ont lieu, elles tournent à la manifestation ou à l’émeute ; les forces de l’ordre réagissent : il y a des morts. Qu’il faut commémorer quarante jours plus tard, par d’autres processions/manifestations qui seront réprimées tout aussi durement par la police, avec mort d’hommes. Le scénario s’est répété inlassablement.

 

La presse vitupère contre Khomeiny, les étudiants en théologie manifestent à Qom

 

En janvier 1978, la presse officielle publie un article virulent et caustique contre Khomeiny où le dignitaire religieux est campé comme la tête des « réactionnaires noirs alliés aux communistes » ; on l’accuse d’être un étranger, un Pakistanais et non un Iranien de souche, dont les ancêtres s’appelaient Hindi, c’est-à-dire les « Indiens » ou « ceux venus d’Inde ». Ils ont changé de nom en s’établissant dans la petite de ville de Khomein, où ils étaient « épiciers ». L’article accuse encore Khomeiny d’être un « espion britannique », de mener une vie dispendieuse, de luxe et de luxure, et d’être un « érotomane pathologique » (sous prétexte qu’il avait commenté certains poèmes soufis à connotations érotiques). A la suite de cet article, de nouvelles émeutes éclatent à Qom, menées, une fois de plus, par les étudiants en théologie. Ils réclament le retour de Khomeiny, le rétablissement de la constitution de 1906-1907. Ils ne réclament pas encore l’avènement d’une république islamique. Omission qui laisse subodorer en filigrane, derrière le discours islamiste véhément et apparemment anti-occidental, une volonté américaine, puisque l’idée d’une constitution de type belge, importation britannique, avait déjà suscité le scepticisme de tous les partis perses de l’époque, sauf ceux qui cherchaient délibérément la protection britannique. Les émeutes déclenchées à Qom par les étudiants en théologie enclenchent un nouvel engrenage fatidique.

 

L’opposition est encore composite au début de l’année 1978. L’Ayatollah Shariat Madari veut simplement la constitution sans abolir la monarchie. Le théoricien Ali Shariati se revendique d’un chiisme socialiste, séduisant pour tous les sociaux révolutionnaires du pays qui se disent religieux mais anti-cléricaux. Il y a ensuite les partisans de Khomeiny qui veulent un retour aux principes purs de l’islam, à la façon des hanbalistes dans le monde sunnite mais en conservant l’idée d’un clergé dominant, propre au chiisme et conforme aux principes de sa propre « renaissance théologique », élaborée lors de son exil irakien. Il y a ensuite la masse des contestataires laïques du pouvoir impérial : les anciens du « Front National » du Dr. Mossadegh et les communistes du « Tudeh », flanqués de leurs milices, les « Mudjahiddins du Peuple » (qui deviendront ultérieurement, après leur éviction par les khomeinystes, le noyau dur de la Garde Républicaine de Saddam Hussein, y compris lors de la guerre Iran/Irak). Khomeiny, qui sortira vainqueur du lot, radicalise donc un mouvement, né dans les années 60 et demeuré jusqu’alors fort modeste, qui poursuivait quatre objectifs principaux :

◊ Rejeter définitivement le quiétisme conventionnel des dignitaires du clergé chiite iranien depuis les Shahs de la dynastie Qadjar et depuis la Conférence de Qom (1949), sanctionnée par l’Ayatollah Boruyerdi, décédé en 1961. L’abolition de l’attitude quiétiste implique une re-politisation de l’islam, de renouer avec des principes d’action.

◊ Réorganiser le clergé, en faire une instance combattante dans l’arène politique iranienne.

◊ Rationaliser et centraliser les finances du clergé, afin de le doter d’une autonomie permanente au sein de la société iranienne.

◊ Améliorer la formation du clergé.

Au départ, la volonté de traduire ces quatre objectifs ne s’oppose pas nécessairement à la personne du Shah ni à la modernisation de la société.

 

Le chiisme socialiste d’Ali Shariati

 

AliShariati.jpgAli Shariati, théoricien d’une « révolution socialiste chiite », formule une idéologie contestatrice plus « moderne », que l’on peut classer parmi les « messianismes du tiers-monde », comme on les désignait à l’époque où la décolonisation venait de se dérouler à grande échelle sur le globe. Il appelle 1) à rejeter le quiétisme, à l’instar des religieux adeptes de Khomeiny ; 2) il réclame le droit à la parole pour les intellectuels non cléricaux qui s’inscrivent dans le cadre du chiisme (il élargit ainsi la notion de « clercs » et flanque ipso facto le clergé d’une caste militante d’intellectuels et d’écrivains chiites non affectés par le quiétisme et animés par la volonté de faire triompher la justice sur la Terre) ; 3) il opère une distinction entre le « chiisme des Séfévides » (et des Pahlevi), qu’il campe comme « corrompu » et le « chiisme d’Ali », chiisme pur des origines, impliquant tout à la fois un retour au prophète et à l’Imam Ali, tout en réclamant l’avènement permanent de la justice sociale, à l’instar des messies zoroastriens, manichéens ou mazdéens de l’histoire iranienne préislamique. Cette distinction postule une imitation active d’Ali, dans le quotidien politique, dans l’effervescence mondaine. La femme a un rôle primordial à jouer dans ce contexte : elle doit se montrer active sur le plan politique et religieux ; l’idéal qu’elle doit incarner rejette tout à la fois le modèle occidental de la femme émancipée et le modèle de la femme musulmane recluse. Ali Shariati développe là une idéologie contestatrice typiquement chiite et iranienne. Son anti-occidentalisme rejoint sur quelques points celui de Khomeiny ou d’autres militants islamistes (y compris sunnites). Ses sources d’inspiration sont : 1) l’écrivain Jalal Al-e Ahmad (1923-1969) qui avait théorisé la notion de « pays infecté » (« Gharb-zadegi »), infecté par l’Occident s’entend. Via les cercles de Shariati, l’idée d’un « empoisonnement occidental » ou d’une « infection occidentale » se répand dans les esprits ; 2) Shariati s’inspire de Franz Fanon, poète du tiers-monde, très en vogue dans les milieux contestataires de la planète dans les années 60. Fanon déclare qu’il est licite de « tuer les vecteurs de l’infection ». De là, l’idée d’une « violence désinfectante ». Ali Shariati s’inscrit dans le cadre de la gauche planétaire de son époque, dans la mesure où il véhicule une anthropologie optimiste de type rousseauiste : l’ « infection » ne vient pas de l’homme lui-même, comme le diraient les tenants de l’anthropologie pessimiste (Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt), elle vient de l’extérieur. L’homme est donc bon ; par la grâce de cette bonté, il peut commettre toutes les « violences désinfectantes » imaginables, y compris celles qui pourraient être clairement interprétées comme des crimes purs et simples, et peut donc tuer les « vecteurs d’infection » qu’il juge tels, indépendamment du fait que la personne ainsi visée soit « infectante » ou non, soit un ennemi conscient ou un quidam sans intention de nuire. Toute anthropologie optimiste peut ainsi conduire au carnage universel.

 

En 1979, après le départ du Shah pour un exil dont il ne reviendra jamais, ces forces composites arrivent toutes au pouvoir mais, au cours de l’année, les partisans de Khomeiny, regroupés autour des Pasdarans de la révolution islamiste, prennent tout le pouvoir pour eux, contraignent bon nombre d’opposants laïques à prendre la fuite à l’étranger ou les assassinent. Les Américains sont désillusionnés : la disparition d’une masse de manœuvre politique composite les laisse dans le désarroi, masse que des fondations, instituts ou autres instances, issues du « soft power », auraient pu manipuler à loisir car toute pluralité composite ne sert pas le peuple qu’elle est censée gouverner mais sert l’étranger hégémonique qui peut la manœuvrer à son gré, en favorisant tantôt l’une faction tantôt l’autre et en fomentant crises et troubles civils. La prise du pouvoir par les Pasdarans de Khomeiny va induire les Américains à parier sur Saddam Hussein, à en faire l’instrument d’une guerre d’usure contre l’Iran (et simultanément contre l’Irak lui-même), qui durera huit longues années, où les Etats-Unis fourniront directement ou indirectement des armes aux deux belligérants. Cette guerre éliminera le « Youth Bulge » (le trop-plein de jeunes mâles de quinze à trente ans), qui constituait un potentiel révolutionnaire dans les zones urbaines et péri-urbaines d’Iran, ôtant du même coup aux Américains cet instrument dont ils s’étaient servi pour abattre le Shah. Le « Youth Bulge » ne pourra pas s’utiliser contre Khomeiny et ses successeurs. D’où l’hostilité permanente contre l’Iran.  

 

Robert STEUCKERS.

(rédaction finale : mai 2009)

 

(à suivre – « Le fondamentalisme islamique en Afghanistan et au Pakistan »)

 

Bibliographie :

- Voir notre chapitre précédent, « Définir le fondamentalisme islamique dans le monde arabe » (sur http://euro-synergies.hautetfort.com/)  et notre longue étude «L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du « Grand Moyen Orient » (sur : http://vouloir.hautetfort.com/ et sur http://euro-synergies.hautetfort.com/ ).

 

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Les Cosaques de la liberté: l'expérience de l'anarchisme de Nestor Makhno en Ukraine

makhno_seul.jpgArchives de SYNERGIES EUROPENNES - 1987

Les Cosaques de la liberté : l'expérience de l'anarchisme de Nestor Makhno en Ukraine

par Ange Sampieru

 

Présenter en 475 pages la vie et l'action de Nestor lvanovitch Makhno (1889/1934), inspirateur et réalisateur de la seule expérience de communisme libertaire pendant la période de la révolution russe (entre 1917 et 1921) est un pari réussi par A. Skirda. Spécialiste de la Russie Soviétique, l'auteur exprime sans aucun doute sa sympathie politique pour l'anarchisme makhnoviste au travers d'une étude aussi complète que variée.

 

Un travail d'apologie

 

En dépit de tout l'intérêt des analyses  historiques de l'expérience originale accomplie par Makhno et ses partisans, le plan choisi par Skirda nous apparaît peu significatif. Après avoir étudié  son sujet d'un point de vue chronologique et événementiel (de l'enfance de Makhno à sa mort en exil à Paris en 1934), il revient sur une recherche plus psycho-historique dans un second temps, achevant son ouvrage par une revue très critique des livres consacrés à l'anarchisme ukrainien et à son fondateur. On suit alors assez péniblement ces mouvements assez "anarchiques". Au fond, on lit ici trois ouvrages différents : l'un est un livre d'histoire, fort brillant au demeurant, consacré à l'histoire de l'expérience anarchiste en Ukraine dans ses rapports avec le phénomène global de la Révolution russe. Le second est une monographie de N. Makhno, fondateur et "Batko" ("petit père" en quelque sorte) de ce mouvement de "communisme libertaire". Le troisième enfin est une recension critique des textes (brochures, articles de presse, romans, etc.), ayant pour thème principal ou quelquefois secondaire l'expérience makhnoviste. C'est cet "éclatement" qui. sans remettre en cause la richesse et le sérieux de ce travail historique, rend peut-être mal à l'aise le lecteur que je suis. Un dernier point de forme enfin : la sympathie presque "religieuse" de l'auteur pour son héros et ses idées l'amènent, dans tous les cas,  à une défense quasi militante de ses décisions et de ses choix politiques et militaires. Ainsi l'exécution, aussi barbare qu'inutile, d'émissaires des "gardes blancs" de Dénikine lui proposant une alliance face aux divisions de l'armée rouge n'appelle de sa part aucun commentaire. Commentaires qui, tout au contraire, abondent quand il s'agit d'actes de trahison commis par les responsables politiques ou militaires léninistes. Où fut alors la grandeur d'âme du héros qui fit pendre, le long d'un chemin, des porteurs de missives protégés par leur statut d'émissaires. Par ailleurs, dans ce que nous avons convenu de nommer le "second livre" il n'y a, chez Skirda, aucun aspect critique dans son analyse du personnage de Makhno. Nous regrettons cette vision toute théorique, l'auteur réservant ses critiques, souvent fondées, aux adversaires de Makhno et à ceux de ses partisans ou amis qui ont eu le malheur de ne pas le suivre en tous points dans son existence mouvementée.

 

 

Les deux visages du makhnovisme : identitaire ukrainien et anarchiste

intellectuel

 

Ceci étant, il nous apparaît que le mouvement anarchiste, fondé en Ukraine par Nestor Makhno, connait deux visages. L'un est celui du discours anarchiste, que nous comprenons comme idéologie cohérente, inscrit dans une filiation intellectuelle proprement occidentale. L'anarchie est ici une forme assez radicale de contestation du pouvoir d'État et, au-delà même, de toute structure politique et administrative centrale de direction. L'État confisquant à son profit le pouvoir politique, il confisque aussi la démocratie comprise comme forme autonome et locale de représentation et de gestion. On trouve ces critiques tant dans le mutualisme proudhonien, inquiet des empiétements grandissants de l'État post-révolutionnaire en France, que dans l'anarcho-syndicalisme sorélien, partisan d'une révolution spontanée prolétarienne contre la conception républicaine et bourgeoise du pouvoir politique. Dans tous les cas, on assiste à une renaissance de l'idéologie ancienne et traditionnelle des "libertés communautaires" qui structurent la démocratie européenne. Chez Makhno, l'anarchie inscrit ses références dans une même problématique. Une problématique nationale et sociale, puisque apparaissent en filigrane la revendication "nationale" ukrainienne, face au pouvoir central moscovite russe, et la revendication sociale paysanne, face à l'administration politique urbaine. L'anarchie répond alors à cette double revendication. Réponse "voilée" puisqu'aussi bien dominée par les "grands thèmes" occidentaux de l'idéologie moderne. Ainsi ni la revendication nationale (comprise comme désir explicite d identité culturelle et linguistique traduit en termes de pouvoir politique) ni la revendication paysanne (l'autonomie maximale face à la philosophie occidentale de la ville) ne sont reconnues à part entière. Ce  refus résulte d'une présence souveraine des valeurs de l'anarchie comprise comme idéologie sociale occidentale.

Plus proche encore d'une revendication ethno-culturelle, l'auteur souligne la présence majoritaire au sein des troupes makhnovistes des descendants des cosaques zaporogues. Il est indubitable, à la lecture de ce livre, que le mouvement anarchiste dans les steppes de l'Ukraine résulte beaucoup plus d'un sentiment culturel, plus ou moins enfoui dans sa mémoire des paysans cosaques, que dans l'adhésion aux valeurs globales de la révolution anarchiste, au sens des intellectuels de l'anarchie formés à l'école citadine et théorique de Bakounine et Kropotkine.

Et les explications de Skirda sur cette adhésion toute théorique aux réflexions et aux valeurs de l'Anarchie (avec un grand A) sont non seulement peu convaincantes mais aussi et surtout constamment démenties par les descriptions du premier livre. Les paysans et les quelques ouvriers qui suivirent Makhno sont-ils des militants anarchistes ou plus simplement des Ukrainiens opposés non seulement à la restauration de l'ancien régime social des grands propriétaires (régime fondé sur un mélange détonnant de féodalisme et de valeurs socio-économiques bourgeoises) mais aussi à la perpétuation du pouvoir moscovite, que celui-ci se présente sous une couleur blanche ou rouge. L'Anarchie serait alors une "béquille théorique", une superstructure dans le langage marxiste, qui serait bien loin du concret historique. Le véritable ressort résiderait dans la volonté consciente, chez la masse paysanne de descendance zaporogue ou non (bien que les premiers aient été les inspirateurs et les vrais décideurs du mouvement), de restaurer une communauté sociale et politique en accord avec leur propre vue du monde. Skirda, militant anarchiste formé à l'école occidentale, refuse de souligner cette présence. C'est une erreur et elle révèle un point de vue très théorique que l'on regrettera.

 

Les raisons de l'hostilité des makhnovistes à l'égard des bolchéviques

 

makh.jpgA contrario, nous découvrons avec beaucoup d'intérêt, chez Skirda, les rapports conflictuels  entretenus par cette armée libertaire et paysanne avec les autorités léninistes-bolchéviques. Lénine et Trotsky, intellectuels et citadins, n'avaient que mépris et incompréhension, quelquefois mués en haine, à l'égard des masses paysannes. D'autant plus si ces dernières étaient opposées à leur autorité et non-russes ! La politique de répression, la NEP, la lutte contre les moyens propriétaires (les fameux Koulaks), bref la guerre civile à outrance menée contre les ruraux non russes et russes, résulte de ces sentiments développés et théorisés dans l'idéologie prolétarienne ouvrière des émules de Marx (bourgeois finalement conservateur et citadin). La misère des sociétés industrielles de l'Ouest fut élevée au rang de péché suprême que la Révolution devait effacer. Dans ce cadre, le paysannat était aussi, même si des nuances étaient introduites, complice et soutien du système bourgeois. Ce qui était un raccourci fulgurant dans la pensée et l'analyse chez Marx, devenait un dogme idéologique d'État chez Lénine. Dans ce schéma, l'anarchisme makhnovien, appuyé sur la multiplication des "soviets libres" en Ukraine, pouvait structurer les réactions spontanées d'autodéfense des paysans locaux.

 

Le prélèvement autoritaire et violent de la production paysanne au profit des villes, la substitution  du marché d'État à l'ancien marché des propriétaires féodaux, enfin le statisme des lieux (Moscou reste le centre du pouvoir) et des méthodes de pouvoir (utilisation normale de la force policière et militaire dans les opérations de prélèvement) confirmait les sentiments latents des producteurs locaux. En fait, il y eut politique de pillage des productions rurales ­au profit des centres urbains, politique justifiée par un discours révolutionnaire et appliquée par des forces répressives similaires aux forces de l'ancien régime tsariste (Tchéka au lieu de l'Okhrana). Les anarchistes eurent alors beau jeu d'identifier la politique autoritaire de Lénine avec l'ancienne pratique tsariste. Après la première révolution (renversement du tsarisme et création d'un État constitutionnel de type occidental) et la seconde révolution (coup d'État bolchévique), la "troisième révolution" consistait à établir un communisme social égalitaire sans autorité d'en haut. C'était du moins le programme de militants anarchistes. Le spontanéisme plus ou moins dirigé des révoltes populaires en Ukraine face à la politique de l'autorité moscovite-bolchévique se brise pourtant contre la puissance de l'armée rouge et des méthodes de répression de masse utilisées. Cet échec constitue une leçon historique. L'État bolchévique, en dépit de sa rhétorique communiste (atteindre l'utopie vivante de la société sans état et sans classes), appliqua les règles strictes du pouvoir moderne, issues de l'expérience révolutionnaire française (notamment en Vendée).

 

Un modèle applicable au monde entier

 

La seule issue aurait peut-être été de réaliser la synthèse entre les deux forces motrices de toute l'histoire : celle qui unit la force de la volonté d'existence identitaire (qui est une force nationale mais non nationaliste) et la construction d'une communauté démocratique et sociale, basée sur les valeurs de justice et d'égalité civique. C'est cette fusion, modifiée par les circonstances locales, qui assura la puissance révolutionnaire dans diverses régions du monde : révolution nassérienne, idéologie de la nation arabe chez le chef de l'État libyen, révolution populaire vietnamienne, sandinisme nicaraguayen, révolution du capitaine Sankara au Burkina-Faso. etc. Mais il eut fallu pour cela que l'anarchie ne fut pas une des nombreuses facettes de l'idéologie dominante moderne, mais l'expression réelle et locale de la volonté d'indépendance d'un peuple. À ce titre, l'auteur reste dans un schéma idéologique bien éloigné de la véritable voie de l'indépendance, qui pourrait tout aussi bien se nommer "anarchie" que trouver une autre étiquette.

 

 

Ange SAMPIERU.

Alexandre SKIRDA, Les Cosaques de la liberté, Jean-Claude Lattès, Paris, 1986, 475 p.

lundi, 01 mars 2010

On relance la candidature turque en pleine crise institutionnelle!

On relance la candidature de la Turquie
en pleine crise institutionnelle

par Jean-Gilles MALLIARAKIS / http://www.insolent.fr/

islatroie.jpgChef du gouvernement de Madrid, M. José-Luis Zapatero se croit autorisé à parler au nom de l'Espagne, et même de l'Europe. Les naïfs croyaient la présidence tournante de l'Union abolie par le traité de Lisbonne. Pour lui être agréable, on a accepté de maintenir cette fiction en sa faveur. De la sorte, il a proclamé, recevant son homologue turc, Recep Tayyip Erdogan le 22 février (1), une nouvelle avancée des négociations d'adhésion de la Turquie, ouvrant le "plus grand nombre de chapitres" thématiques de discussions en vue de son intégration.

"L'Espagne est fermement partisane de l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne. Nous avons toujours maintenu fermement cette position. C'est le cas aujourd'hui et ce le sera demain".
Voilà donc relancée, de manière fort inquiétante et de mauvaise foi, un dossier essentiel pour notre identité, et auquel votre serviteur vient de consacrer un petit livre documenté. Dans cette présentation, l'auteur s'efforce d'expliquer au public francophone un certain nombre de contradictions de ce pays, candidat extra-communautaire malheureux depuis 1987.

Il se trouve aussi que celles-ci s'accroissent, se gonflent, de semaine en semaine, au point de paraître désormais explosives, à l'intérieur.

Ainsi ce 23 février, au lendemain même des embrassades de Séville, malencontreusement perturbées par un très méchant Kurde, très mal élevé (2) on procédait à Ankara, à Istanbul, à Bursa et à Izmir, à l'arrestation d’une cinquantaine d’officiers, dont 11 importants généraux à la retraite. Ceux-ci ont été gardés à vue et interrogés dans le cadre d'un nouveau dossier d'accusation de complot. Intitulé "Bayloz", les enquêteurs l'ont rattaché à l'interminable feuilleton judiciaire "Ergenekon". Le chef d'État major Illker Basbug, désormais sur la sellette, et dont certains demandent publiquement la destitution, doit annuler un déplacement officiel à l'étranger.

On ne peut pas tout de même pas tenir de tels développements pour d'anodines péripéties !

Parallèlement et paradoxalement l'environnement international accorde de plus en plus de créance au gouvernement des fameux "islamistes modérés" de l'AKP actuellement au pouvoir.

Les médiats de notre Hexagone pointent certes, de loin en loin, un certain nombre de problèmes. Ceux-ci nous sont même devenus presque familiers.

Ainsi la lancinante question des communautés d'origine et de langue kurdes a produit des milliers de morts dans l'affrontement du dernier quart de siècle. Assagie en partie seulement, depuis l'arrestation de son chef terroriste Ocalan en 1999, la révolte sanglante du PKK s'était transposée sur le plan légal. D'inspiration et de discours marxiste-léniniste, elle a généré un parti de gauche, le DTP, représenté à la Grande Assemblée nationale d'Ankara en dépit des filtres constitutionnels. Récemment dissous, il s'est aussitôt reconstitué, sous un autre nom.

Dans un autre ordre d'idées, la tension non résolue avec l'Arménie, comprenant la terrible question de la négation du génocide de 1915, se complique de l'imbroglio des relations avec l'Azerbaïdjan. On a donc communiqué à l'automne 2009, et Mme Clinton a cru triompher, sur un accord "réconciliateur" qui ne permettait même pas d'ouvrir les frontières entre les deux États.

D'autres exemples pourraient être donnés, que la presse parisienne laisse courageusement de côté. Ceux-là semblent suffire à édifier le lecteur quant aux difficultés générales que rencontre la ligne diplomatique annoncée par le ministre des Affaires étrangères apparu récemment M. Ahmet Davutoglou.

Sa formule a été énoncée en anglais de cuisine : "no problem with our neighbours". Or, cela peut se traduire en bon français par plusieurs formulations. Et, selon que l'on entendra "il n'existe aucun litige", ou au contraire "nous refusons de prendre en considération le moindre contentieux", ou enfin "qu'on cesse de nous enquiquiner avec les jérémiades de nos voisins", il ne s'agit plus de simples nuances dans l'interprétation.

Globalement une telle politique extérieure illustre l'adage "qui trop embrasse mal étreint".

Dans le sud-est européen, par exemple, Ankara prétend à la fois marquer en souplesse sa présence, affirmée comme traditionnelle, et souffler sur les braises des revendications de minorités islamiques, généralement slaves ou pomaques. Une idée nouvelle vient de germer – combien de temps durera-t-elle ? – celle de prendre appui sur la Serbie, vecteur improbable de la pénétration d'Ankara. Mais, quelques semaines auparavant, et plus naturellement, la Bosnie-Herzégovyne faisait l'objet de toutes les attentions, puis l'Albanie. Avec la Bulgarie et avec la Grèce on agite les droits des petites minorités musulmanes, etc. tout en prétendant, simultanément, aplanir la rugueuse relation turco-hellénique, "résoudre" le problème de Chypre, etc. Par ailleurs on laisse la presse gouvernementale comme elle le fait depuis plusieurs mois, révéler les manœuvres occultes de l'État-Major kémaliste. Et on les retrouve derrière toutes les provocations anti-grecques depuis 1955 jusqu'à celles des dernières années en Mer Égée, en passant par diverses affaires d'assassinats, comme celui du journaliste arménien Hrant Dink en janvier 2007, et d'attentats inexpliqués.

Car un aspect décisif de cette situation politique oppose deux tendances apparemment irréconciliables, au sein de la république post-kémaliste. Il ne s'agit pas seulement de deux secteurs de l'opinion, la gauche laïque et la droite islamisante, ou plus exactement confrérique. On doit constater aussi le conflit de plus en plus ouvert entre centres de pouvoirs institutionnels. Ils se combattent au nom de légitimités juridiques concurrentes. La constitution en vigueur depuis le référendum de 1982 a validé un rapport de force correspondant au coup d'État militaire dirigé par le général Evren en 1980. Plusieurs fois réformée depuis, elle a prévu en faveur de l'armée un certain nombre de prérogatives et de verrous. Au sein du pouvoir judiciaire, également, les forces laïques disposent de situations stratégiques, destinées à bloquer le retour en force de l'élément religieux. Chaque jour, de nouveaux épisodes, parfois tragiques, parfois savoureux, attisent les oppositions.

Or en même temps, la politique extérieure d'Ankara avance de plus en plus. Elle paraît prendre en main les revendications du Proche orient arabe. Elle tend à évincer progressivement l'influence du pays rival, l'Égypte.

Cela conduit cette diplomatie à s'exposer à des risques peut-être inconsidérés.

Lors de la dernière réunion, ce 29 janvier à Istanbul, des sociétés de pensées des 56 pays membres de l'Organisation de la Conférence islamique, s'est ainsi produit un événement bien significatif. L'assistance s'est levée, lors de l'intervention de Rachid Benaïssa (3), pour ovationner debout l’action pro-palestinienne du "nouvel empire ottoman" (4).

Cette popularité régionale de l'actuel gouvernement d'Ankara a pris son essor avec l'incident spectaculaire du 9 janvier 2009 à Davos entre le premier ministre turc Erdogan et Shimon Peres. Elle s'est vue confirmée par les nombreux déplacements des 3 principaux dirigeants dans divers pays arabes ces 12 derniers mois.

Inutile de dire qu'en contrepartie, la relation traditionnelle avec l'État d'Israël s'est dégradée d'autant. Avec les États-Unis, le refroidissement est devenu manifeste. Les choses vont beaucoup moins bien avec les alliés.

On peut certes se poser beaucoup de questions à propos de ce concept "néo-ottoman" dont les contours souffrent d'une absence de définition.

Il fait cependant son chemin. S'il s'agissait de reprendre la voie des réformes libérales de l'époque dite "Tanzimat", interrompues sous le règne d'Abdül Hamid, et plus encore par la seconde révolution jeune turque de 1909 (5), on pourrait se réjouïr.

En revanche il existe une différence de taille entre l'Histoire de cet Empire séculaire et le gouvernement de M. Erdogan apparu en 2003.

Historiquement, en effet, ni l'expansion de l'islam aux VIIe et VIIIe siècles, ni la pénétration seldjoucide en Asie mineure au XIe siècle, ni encore moins l'avènement de la maison d'Osman à partir du XIVe siècle ne se sont opérés contre l'élément militaire. Au contraire.

Tous les dirigeants politiques de ces différentes époques se sont affirmés comme chefs d'armées. Ils s'appuyaient, tous, sur une élite de cavaliers, dont ils ont fait des seigneurs territoriaux (6).

Imaginer un gouvernement islamique modéré, susceptible de changer de paradigme pour complaire à l'Europe des petits cochons roses, pour satisfaire au président universel Obama, et pour répondre aux rêves d'un monde sans conflit (7), peuplé de gentils bizounours et de schtroumpfs bleus, paraît donc un tant soit peu prématuré.
JG Malliarakis


Apostilles

 

  1. cf. Le Monde en ligne et AFP 22 février 2010 à 18h08
  2. Sur notre petite photo, on peut voir la remise du prix Nodo au premier ministre turc. Mais "Le passage du Premier ministre turc à Séville a été plus mouvementé que prévu. Recep Tayyip Erdogan était venu recevoir le prix Nodo, remis par la Fondation Séville aux personnalités qui œuvrent pour le dialogue entre les civilisations et les cultures. Une cérémonie feutrée dont le quotidien ABC raconte le déroulement... Mais, à la sortie de la mairie andalouse où se tenait cette soirée, il a été pris à partie par un manifestant qui lui a lancé une chaussure. Son geste s'est accompagné d'un slogan: "Vive les Kurdes, vive le Kurdistan!", lancé en espagnol, comme le montrent ces images de CNN." cf.le site de la Vigilance arménienne
  3. sur ce personnage franco-algérien qui fut fonctionnaire de l'UNESCO, on peut lire, avec les réserves d'usage la fiche wikipedia qu'il a peut-être rédigé lui-même
  4. cf. Think Tanks Of The Islamic Countries Come Together In Istanbul
  5. celle qui porte la responsabilité du génocide de 1915
  6. recourir au concept occidental de féodalité relève du contresens.
  7. annoncé par un faux prophète dans une conférence célèbre à Moscou en 1991.

Les présidentielles ukrainiennes signalent le recul de l'hégémonie américaine

K. Gajendra SINGH :

Les présidentielles ukrainiennes signalent le recul de l’hégémonie américaine

 

Le 13 février dernier, l’ambassadeur e. r. K. Gajendra Singh, correspondant de la revue italienne « Eurasia », a publié son commentaire sur le résultat des dernières présidentielles en Ukraine. Le texte qui suit en est une synthèse, due à la plume d’Andrea Bogi.

 

Ukraine_federation_svg.pngLes résultats du second tour des présidentielles ukrainiennes ont sanctionné la victoire du candidat pro-russe Viktor Yanoukovitch, avec 48,95% des voix, contre Ioulia Timochenko, avec 45,47%. Environ 70% des citoyens inscrits ont exercé leur droit de vote lors de ces élections qui revêtaient une importance capitale dans la lutte stratégique qui oppose, en Ukraine, le camp occidental au « camp oriental ».

 

Le déroulement régulier de cette élection a été confirmé par plus d’un organisme international et par tous les observateurs, tant russes qu’américains, malgré les protestations de Mme Timochenko, que le vainqueur des élections a accusé, dans un entretien accordé à CNN, de trahir ses propres principes, avancés lors de la fameuse « révolution orange » de 2004 (financée et téléguidée par les Etats-Unis et par les organisations, fondations et marionnettes qu’ils manipulent partout en Eurasie).

 

Dans les commentaires que publiait le New York Times, on pouvait lire : « Timochenko a œuvré à diffuser la révolution orange qui a apporté, pour la première fois, la démocratie de type occidental en Ukraine. Sa défaite pourrait suggérer un reflux des principes de cette révolution orange, mais le fait que le pays a réussi à assumer des élections présidentielles controversées, qu’on considère désormais comme parfaitement régulières, nous fait au contraire croire que l’héritage de la révolution orange a survécu ».

 

Cet avis est partagé par le Professeur Olexej Haran, qui enseigne la politique comparée à l’Université Mohyla de Kiev : il souligne que la démocratie a obtenu un grand succès parmi les Ukrainiens, qui ont été fortement déçus de l’échec des réformes sociales et économiques qu’on leur avait pourtant promises.

 

Le Président américain Barack Obama a félicité à son tour Yanoukovitch, en lui adressant le commentaire suivant : « Le pas en avant en direction du renforcement de la démocratie en Ukraine est un pas positif », ce qui, pour Obama, constitue simultanément l’affirmation de la nécessité de continuer la coopération réciproque dans le but «d’étendre la démocratie et la prospérité, de protéger la sécurité et l’intégrité territoriale, de renforcer la légalité, de promouvoir la non prolifération et de soutenir les réformes économiques et énergétiques en Ukraine ».

 

Yanoukovitch a pourtant déclaré qu’il ne prendrait pas en considération l’adhésion de l’Ukraine à l’OTAN : « L’Ukraine s’intéresse aujourd’hui au développement d’un projet visant la création d’un système collectif de sécurité européenne. Nous sommes prêts à en faire partie et à soutenir l’initiative du Président russe Dimitri Medvedev ». C’est là une indication des plus claires : Yanoukovitch veut restaurer les liens avec la Russie, rompus à partir de 2004 à cause des politiques pro-occidentales de Youchtchenko.

 

Suite à la défaite de Yanoukovitch, il y a cinq ans, Youchtchenko avait opté pour une politique d’opposition à Moscou pour plaire à ses « mécènes », c’est-à-dire, aux Etats-Unis, au Royaume-Uni et aux autres, ce qui a causé de profonds dommages et pertes pour le pays. La situation qui en a résulté fut une querelle permanente avec Moscou pour fixer le prix du transit gazier vers l’Europe centrale et occidentale, querelle où les Ukrainiens n’ont vraiment pas gagner grand chose. Cette dispute a en outre permis aux organes de propagande occidentaux, comme la BBC et CNN, d’inventer force arguments pour médire de la Russie parce que celle-ci avait manifesté l’intention de fournir son gaz au prix du marché à l’Ukraine qui, en réaction, subtilisait ce gaz ou jugulait sa livraison aux pays d’Europe centrale et occidentale.

 

L’Allemagne entendait garder des relations économiques stables et fructueuses avec la Russie pour échapper à l’emprise de l’arrogance américaine. Berlin a garanti pour un milliard d’euro le coût du projet North Stream, qui veut faire passer un gazoduc sous la Baltique pour éviter tout transit par le territoire ukrainien ou par d’autres pays jugés peu sûrs ; l’ancien Chancelier Gerhard Schroeder a ainsi accepté d’être nommé par Gazprom au poste de chef du conseil d’administration. Le changement à Kiev est de bon augure pour les Ukrainiens, qui n’étaient plus que de simples pions sur l’échiquier Est/Ouest.

 

Immédiatement après la victoire de Youchtchenko, il y a cinq ans, les marines américains faisaient leur apparition dans la région pontique pour un exercice naval en Crimée, un territoire russe qui a été donné à l’Ukraine par le leader soviétique Nikita Khrouchtchev, d’origine ukrainienne et où stationne encore la flotte russe. La population russophone avait protesté et chassé les Yankees, les obligeant à quitter rapidement le terrain.

 

(K. G. Singh a été ambassadeur de la République Indienne en Turquie, en Azerbaïdjan, en Jordanie, en Roumanie et au Sénégal. Aujourd’hui, il préside la « Foundation for Indo-Turkic Studies »).

(Ce texte est tiré du site de la revue italienne « Eurasia », http://www.eurasia-rivista.org/ ).

America - A country of serfs ruled by oligarchs

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Ex: VDARE.COM -

http://vdare.com/roberts/100215_america.htm

February 15, 2010

America—A Country of Serfs Ruled By Oligarchs

By Paul Craig Roberts 

The media has headlined good economic news: fourth quarter GDP growth of 5.7 percent ("the recession is over"), Jan. retail sales up, productivity up in 4th quarter, the dollar is gaining strength. Is any of it true? What does it mean?

The 5.7 percent growth figure is a guesstimate made in advance of the release of the U.S. trade deficit statistic. It assumed that the U.S. trade deficit would show an improvement. When the trade deficit was released a few days later, it showed a deterioration, knocking the 5.7 percent growth figure down to 4.6 percent. Much of the remaining GDP growth consists of inventory accumulation.

More than a fourth of the reported gain in Jan. retail sales is due to higher gasoline and food prices. Questionable seasonal adjustments account for the rest.

Productivity was up, because labor costs fell 4.4 percent in the fourth quarter, the fourth successive decline. Initial claims for jobless benefits rose. Productivity increases that do not translate into wage gains cannot drive the consumer economy.

Housing is still under pressure, and commercial real estate is about to become a big problem.

The dollar’s gains are not due to inherent strengths. The dollar is gaining because government deficits in Greece and other EU countries are causing the dollar carry trade to unwind. America’s low interest rates made it profitable for investors and speculators to borrow dollars and use them to buy overseas bonds paying higher interest, such as Greek, Spanish and Portuguese bonds denominated in euros. The deficit troubles in these countries have caused investors and speculators to sell the bonds and convert the euros back into dollars in order to pay off their dollar loans. This unwinding temporarily raises the demand for dollars and boosts the dollar’s exchange value.

The problems of the American economy are too great to be reached by traditional policies. Large numbers of middle class American jobs have been moved offshore: manufacturing, industrial and professional service jobs. When the jobs are moved offshore, consumer incomes and U.S. GDP go with them. So many jobs have been moved abroad that there has been no growth in U.S. real incomes in the 21st century, except for the incomes of the super rich who collect multi-million dollar bonuses for moving U.S. jobs offshore.

Without growth in consumer incomes, the economy can go nowhere. Washington policymakers substituted debt growth for income growth. Instead of growing richer, consumers grew more indebted. Federal Reserve chairman Alan Greenspan accomplished this with his low interest rate policy, which drove up housing prices, producing home equity that consumers could tap and spend by refinancing their homes.

Unable to maintain their accustomed living standards with income alone, Americans spent their equity in their homes and ran up credit card debts, maxing out credit cards in anticipation that rising asset prices would cover the debts. When the bubble burst, the debts strangled consumer demand, and the economy died.

As I write about the economic hardships created for Americans by Wall Street and corporate greed and by indifferent and bribed political representatives, I get many letters from former middle class families who are being driven into penury. Here is one recently arrived:

"Thank you for your continued truthful commentary on the 'New Economy.' My husband and I could be its poster children. Nine years ago when we married, we were both working good paying, secure jobs in the semiconductor manufacturing sector. Our combined income topped $100,000 a year. We were living the dream. Then the nightmare began. I lost my job in the great tech bubble of 2003, and decided to leave the labor force to care for our infant son. Fine, we tightened the belt. Then we started getting squeezed. Expenses rose, we downsized, yet my husband's job stagnated. After several years of no pay raises, he finally lost his job a year and a half ago. But he didn't just lose a job, he lost a career. The semiconductor industry is virtually gone here in Arizona. Three months later, my husband, with a technical degree and 20-plus years of solid work experience, received one job offer for an entry level corrections officer. He had to take it, at an almost 40 percent reduction in pay. Bankruptcy followed when our savings were depleted. We lost our house, a car, and any assets we had left. His salary last year, less than $40,000, to support a family of four. A year and a half later, we are still struggling to get by. I can't find a job that would cover the cost of daycare. We are stuck. Every jump in gas and food prices hits us hard. Without help from my family, we wouldn't have made it. So, I could tell you just how that 'New Economy' has worked for us, but I'd really rather not use that kind of language."

Policymakers who are banking on stimulus programs are thinking in terms of an economy that no longer exists. Post-war U.S. recessions and recoveries followed Federal Reserve policy. When the economy heated up and inflation became a problem, the Federal Reserve would raise interest rates and reduce the growth of money and credit. Sales would fall. Inventories would build up. Companies would lay off workers.

Inflation cooled, and unemployment became the problem. Then the Federal Reserve would reverse course. Interest rates would fall, and money and credit would expand. As the jobs were still there, the work force would be called back, and the process would continue.

It is a different situation today. Layoffs result from the jobs being moved offshore and from corporations replacing their domestic work forces with foreigners brought in on H-1B, L-1 and other work visas. The U.S. labor force is being separated from the incomes associated with the goods and services that it consumes. With the rise of offshoring, layoffs are not only due to restrictive monetary policy and inventory buildup. They are also the result of the substitution of cheaper foreign labor for U.S. labor by American corporations. Americans cannot be called back to work to jobs that have been moved abroad. In the New Economy, layoffs can continue despite low interest rates and government stimulus programs.

To the extent that monetary and fiscal policy can stimulate U.S. consumer demand, much of the demand flows to the goods and services that are produced offshore for U.S. markets. China, for example, benefits from the stimulation of U.S. consumer demand. The rise in China’s GDP is financed by a rise in the U.S. public debt burden.

Another barrier to the success of stimulus programs is the high debt levels of Americans. The banks are being criticized for a failure to lend, but much of the problem is that there are no consumers to whom to lend. Most Americans already have more debt than they can handle.

Hapless Americans, unrepresented and betrayed, are in store for a greater crisis to come. President Bush’s war deficits were financed by America’s trade deficit. China, Japan, and OPEC, with whom the U.S. runs trade deficits, used their trade surpluses to purchase U.S. Treasury debt, thus financing the U.S. government budget deficit.

The problem now is that the U.S. budget deficits have suddenly grown immensely from wars, bankster bailouts, jobs stimulus programs, and lower tax revenues as a result of the serious recession. Budget deficits are now three times the size of the trade deficit. Thus, the surpluses of China, Japan, and OPEC are insufficient to take the newly issued U.S. government debt off the market.

If the Treasury’s bonds can’t be sold to investors, pension funds, banks, and foreign governments, the Federal Reserve will have to purchase them by creating new money. When the rest of the world realizes the inflationary implications, the US dollar will lose its reserve currency role. When that happens Americans will experience a large economic shock as their living standards take another big hit.

America is on its way to becoming a country of serfs ruled by oligarchs.

Paul Craig Roberts [email him] was Assistant Secretary of the Treasury during President Reagan’s first term.  He was Associate Editor of the Wall Street Journal.  He has held numerous academic appointments, including the William E. Simon Chair, Center for Strategic and International Studies, Georgetown University, and Senior Research Fellow, Hoover Institution, Stanford University. He was awarded the Legion of Honor by French President Francois Mitterrand. He is the author of Supply-Side Revolution : An Insider's Account of Policymaking in Washington;  Alienation and the Soviet Economy and Meltdown: Inside the Soviet Economy, and is the co-author with Lawrence M. Stratton of The Tyranny of Good Intentions : How Prosecutors and Bureaucrats Are Trampling the Constitution in the Name of Justice. Click here for Peter Brimelow’s Forbes Magazine interview with Roberts about the epidemic of prosecutorial misconduct. His latest book, How The Economy Was Lost, has just been published by CounterPunch/AK Press.

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Eva Herman : http://info.kopp-verlag.de/

Aktuelle Untersuchungen zeigen: Nie zuvor fühlten sich Kinder und Jugendliche derartig gestresst und besorgt wie heute. Die Ergebnisse legen den Rückschluss nahe: Kinder werden zu früh in Gruppen abgegeben, ihre Eltern verlieren zunehmend Einfluss und können ihren Kindern, bedingt durch berufliche Abwesenheit, in kleinen und großen Notsituationen häufig nicht helfen.

pourquoi-lire-des-histoires-aux-jeunes-enfants-3549492ezome_1350.jpgKinder und Jugendliche sind unsicher und ängstlich wie nie: Alle Umfragen und Studien der zurückliegenden Jahre signalisieren: Kinder und Jugendliche fürchten sich vor der Zukunft!

Alle aktuellen Untersuchungen zur Schulsituation in Deutschland bestätigen: Nie zuvor gab es größere Probleme zwischen Lehrern und Schülern!

Alle derzeitigen Aussagen von Berufsausbildern Jugendlicher laufen auf die eine Aussage hinaus: Zu keinem Zeitpunkt waren die jungen Leute unqualifizierter für das Berufsleben als heute!

Der Alltag der Jugendlichen ist zunehmend geprägt durch »Gefühle der Ohnmacht und des Alleinseins, der Sinnleere und Perspektivlosigkeit«, heißt es schon in der Studie Jugend 2007 – zwischen Versorgungsparadies und Zukunftsängsten, die das Rheingold-Institut für qualitative Markt- und Medienanalysen im Auftrag von Axel-Springer-Mediahouse durchgeführt hat. Mobbing, Gewalt und die immer mächtiger werdende Angst vor dem Abgleiten in ein Hartz-IV-Dasein steigerten das Gefühl der Verunsicherung und der Orientierungslosigkeit. »Selbst die Jugendlichen, die sich noch materiell abgesichert fühlen, erleben die Zukunft als ein schwarzes Loch. Sie wissen nicht, wofür sie gebraucht werden, wofür sie kämpfen und wogegen sie rebellieren können«, so die Rheingold-Untersuchung.

Die neueste und aktuellste Studie des Instituts für Psychologie und des Zentrums für angewandte Gesundheitswissenschaften (ZAG) der Leuphana-Universität Lüneburg für die Deutsche Angestellten Krankenkasse (DAK) schlägt erneut Alarm: 33 Prozent aller Schüler in Deutschland sind gestresst!

Folgende Stress-Symptome wurden festgestellt:

– Einschlafprobleme (22 Prozent)

– Gereiztheit (21 Prozent)

– Kopfschmerzen und Rückenschmerzen (16 Prozent)

– Niedergeschlagenheit (14 Prozent)

– Nervosität (11 Prozent)

– Schwindelgefühle (9 Prozent)

– Bauchschmerzen (8 Prozent)

Das Portal für Bildungsinformationen bildungsklick.de hat die DAK-Studie ausgewertet, aus der hervorgeht, dass mehr als 50 Prozent der Betroffenen ihre Gefühle in der Schule mit »verzweifelt, hoffnungslos, ausweglos« beschrieben. »Insgesamt geben mehr als zwei Drittel der Schüler mit häufigen Beschwerden an, dass sie in der Schule regelmäßig negative Gefühle erleben. … Schweigen und Verdrängen macht alles noch schwieriger.«

Kinder und Jugendliche von heute haben enorme Zukunftsängste.

Die letzte Shell-Jugendstudie hatte schon Vergleichbares als Ergebnis: Sie zeigt, dass Jugendliche deutlich stärker besorgt sind, ihren Arbeitsplatz verlieren beziehungsweise keine adäquate Beschäftigung finden zu können. Waren es im Jahr 2002 noch 55 Prozent, die hier beunruhigt waren, stieg die Zahl 2006 bereits auf 69 Prozent an. Auch die Angst vor der schlechten wirtschaftlichen Lage und vor steigender Armut nahm in den Jahren zwischen 2002 und 2006 von 62 Prozent auf 66 Prozent zu.

Die Bewältigungsstrategien, die Jugendliche entwickeln, um mit ihren Schwierigkeiten fertig zu werden, sind laut der Rheingold-Untersuchung sehr verschieden. Die einen betreiben Dauerkonsum, andere schotten sich ab und flüchten in die künstlichen Paradiese von Internet und Playstation-Welten. Von der einstigen Spaßgesellschaft, in der alles »ganz easy« lief, sind lediglich vereinzelte Bruchstücke übrig geblieben.  

Zahlreiche Kinder und Jugendliche in Deutschland stehen heute unter einem enormen Druck, der insbesondere von den Gleichaltrigen in den sogenannten Peer Groups ausgeübt wird. Die Orientierung an Gruppenstandards wird in diesem Zusammenhang jedoch oft ignoriert oder bewusst heruntergespielt. Nach Aussagen des kanadischen Psychologen Gordon Neufeld ist die zunehmende Gleichaltrigenorientierung in unserer Gesellschaft von einem alarmierenden und dramatischen Anstieg der Selbstmordrate unter 10- bis 14-Jährigen begleitet, seit 1950 hätte sie sich in dieser Altergruppe in Nordamerika vervierfacht. Ist man bisher davon ausgegangen, dass bei Selbsttötungen junger Menschen die Gründe meist in der Ablehnung der Eltern zu finden sind, ist das nach Ansicht Neufelds inzwischen lange nicht mehr so. Langjährige Beobachtungen und Untersuchungen des Psychologen lassen den Schluss zu, dass der wichtigste Auslöser für den jugendlichen Suizid in der Behandlung durch die Gleichaltrigen zu sehen ist. Je öfter und regelmäßiger Kinder und Jugendliche ihre Zeit mit Personen gleichen Alters teilen, und je wichtiger sie in dieser Gruppe füreinander werden, umso verheerender kann sich ihr unsensibles Verhalten auf jene Kinder auswirken, die es nicht schaffen, dazuzugehören und die sich abgelehnt oder ausgeschlossen fühlen.

Auch in anderen Ländern ist das Phänomen bekannt: Die amerikanische Zeitschrift für Kultur, Politik und Literatur, Harper’s Magazine, druckte vor einiger Zeit eine Sammlung von Abschiedsbriefen japanischer Kinder ab, die Selbstmord verübt hatten: Die meisten von ihnen litten unter der unerträglichen Tyrannisierung durch Gleichaltrige und gaben dies als Grund  an für ihren Entschluss, aus dem Leben zu gehen.

Gruppendruck kann große Ängste verursachen, aber auch Hass auslösen. Der Student Cho Seung-Hui fühlte sich in »die Ecke gedrängt« – das gab er wenigstens als Grund an, nachdem er im April 2007 auf dem Campus von Blacksburg im amerikanischen Bundesstaat Virginia 32 Menschen getötet hatte. Die Wut und das Bedürfnis nach Vergeltung können über Jahre wachsen, Jahre, in denen Rachepläne geschmiedet und Vorbereitungen getroffen werden können. Schließlich kommt der Punkt, an dem die Wut zu groß wird: Alle sollen endlich erfahren, was sie dem Betroffenen angetan haben. Ähnlich der Amoklauf von 2001 in Erfurt, bei dem der 19-jährige Robert Steinhäuser am Gutenberg-Gymnasium 16 Personen und dann sich selbst tötete. Er war von der Schule verwiesen worden.

Schon zu Beginn der 1960er-Jahre warnte der amerikanische Soziologe  James Coleman davor, dass die Eltern als wichtigste Quelle für Werte und als Hauptbezugsperson für ihre Kinder und deren Verhalten verdrängt würden – und zwar durch gleichaltrige Bezugspersonen. Doch damals war das noch kein Thema, beginnende Fehlentwicklungen bei Jugendlichen wurden – insbesondere in Deutschland – mit dem Dilemma der Eltern erklärt, die sich nicht mit den Folgen des zurückliegenden Krieges auseinandergesetzt hätten.  

enfants-2696052kjcby_1350.jpgDer kanadische Psychologe Gordon Neufeld geht davon aus, dass eine starke Gruppensozialisation bei Kindern und Jugendlichen auch Auswirkungen auf das spätere Verhalten im Erwachsenenalter hat: Wer sehr jung die Gruppe als Lebensrealität empfunden und kennen gelernt hat, und wem die Erfahrungen des Alleinseins, aber auch die einer Familie und dem damit verbundenen Zusammenhalt fehlen, der verlässt sich später auch nicht auf sich allein. Extreme Erscheinungsformen der Gleichaltrigenorientierung  sind nach seiner Meinung tyrannisierendes Verhalten mit Gewaltanwendung, Selbstmorde und Morde unter Kindern und Jugendlichen. Auch die inzwischen allseits  bekannten Massenpartys mit Höhepunkten wie Koma-Sauf-Wettbewerbe oder Gang-Bangs, also Massenvergewaltigungen, bei denen die Mädchen vorher zustimmen, können zu diesen Folgen zählen.

Heutige Jugendliche stehen oft als Krawallmacher, Schläger oder Kleinkriminelle in der Zeitung oder sie scheinen langweilig, angepasst und konturlos zu sein. Die Schere geht auseinander zwischen extrem gewaltbereiten Jugendlichen und kleinen Spießern. Wo sind die jungen Leute mit Idealismus, mit festen Zielen vor den Augen, mit Ecken und Kanten, mit »Flausen im Kopf«? Keine Frage: Jede Elterngeneration hat den Kopf geschüttelt über die Jugendlichen ihrer Zeit. Doch das Phänomen, dass die einen viel zu wenig rebellieren und die anderen erschreckend über das Ziel hinausschießen, ist neu. Die Jugendlichen von heute scheinen zum einen emotionslos, gelangweilt und unterkühlt zu sein, die anderen verroht und gewaltbereit.

Immer mehr Jugendliche haben Angst davor, ihren Platz im Leben nicht zu finden, nicht gebraucht zu werden. Sie isolieren sich, statt sich abzunabeln – aus Angst, dem Leben nicht die Stirn bieten zu können. Das haben sie nie gelernt. Die einen wurden sich selbst überlassen, den anderen wurde jedes Problem abgenommen, jeder Wunsch erfüllt.

Doch alle genannten Phänomene, die unsere Gesellschaft nachhaltig verändern, sind Hilfeschreie der Kinder. Sie brauchen von Anfang an entscheidend mehr Zeit mit ihren Eltern, mehr Zuwendung und mehr Liebe! Wenn sie erst einmal daran gewöhnt sind, dass ihre Eltern keine Zeit für sie haben, dann ist der Zug häufig schon abgefahren. Alle derzeitigen Regierungsprogramme jedoch glorifizieren nach wie vor die Erwerbstätigkeit der Mütter. Solange das nicht zugunsten der Kinder geändert wird, und solange keine nachhaltigen Bemühungen daran gesetzt werden, Kindern die Anwesenheit ihrer Eltern, speziell der Mutter, zu ermöglichen, wird diese Gesellschaft weiter auseinanderfallen und die genannten Zahlen und Probleme werden weiter steigen.

 

Freitag, 12.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

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La participation: une idée neuve?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

La participation : une idée neuve ?

par Ange Sampieru

 

Dans un ouvrage paru en 1977 et intitulé : Demain, la participation, au-delà du capitalisme et du marxisme, Michel Desvignes, à l'époque vice- président national de l'Union des Jeunes pour le Progrès, proposait un plaidoyer brillant en faveur d'un vaste projet de réconciliation des Français dans le cadre d'une nouvelle démocratie sociale. Cet ouvrage est d'abord une analyse rigoureuse qui servira d'instrument de réflexion pour tous ceux qui refusent les idéologies de la haine des classes et de l'exploitation capitaliste-libérale.

index.jpgLa participation n'est pas une simple technique sociale de réglementation des rapports salariés dans l'entreprise. Pour son inspirateur, le Géné­ral De Gaulle, c'est une vision de l'homme qui refuse la dépendance à l'égard de la machine. L'objectif qui est poursuivi est clair : « ...que chaque homme retrouve dans la société moderne sa place, sa part et sa dignité » (Charles de Gaulle, discours prononcé le 1er mai 1950). Il faut en effet aller au-delà des textes législatifs et réglementaires qui constituent la traduction juridique de l'idée. Il s'agit surtout des ordonnances du 7 janvier 1959, tendant à favoriser l'association ou l'intérêt des travailleurs à l'entreprise, de la loi du 27 décembre 1973, qui est relative à la souscription ou à l'acquisition d'actions de sociétés par leurs salariés. Le cœur du projet réside dans les ordonnances du 17 août 1967, relatives à la participation des salariés à l'expansion de l'entreprise (modifiant et complétant la loi de 1966 sur les sociétés commerciales) et relatives aux Plans d'Épargne d'entreprise.

 

I – L'idéologie de la participation : les sources...

 

Pour l'écrivain Philippe de Saint-Robert, le général de Gaulle a « inventé » la participation, comme il a « réinventé » la légitimité (les guillemets sont de nous). Soucieux de consolider l'unité nationale, et désireux de ne pas laisser aux syndicats marxistes le soin de contrôler l'idéologie prolétarienne, le gaullisme s'attache très vite à la question sociale. Et c'est en ce sens que Michel Jobert a pu écrire dans ses Mémoires d'avenir que la participation était un moyen d'assurer l'indépendance de la Nation. Pour construire cette France indépendante, et, plus largement, donner à l'Europe l'idée de son unité face à l'adversité extérieure symbolisée par la po­litique de Yalta et le système des blocs (cf. à ce sujet : Yalta et la naissance des blocs de Jean-­Gilles Malliarakis, éditions Albatros, Paris, 1982). Pour mieux cerner la genèse de cette idée, une méthode nous apparaît privilégiée : analyser les influences intellectuelles qui ont présidé à l'éducation et à la conception politique du chef de l'État français de 1958 à 1969. On peut alors comprendre les raisons profondes qui déterminèrent le fondateur du gaullisme à se préoccuper des questions sociales. Remarquons que, dans l'introduction à l'ouvrage, Philippe de Saint-Ro­bert rappelle dans cette genèse le rôle de René de la Tour du Pin (un représentant éminent du « catholicisme social » qui, dans les années 1890, en France, regroupait des courants différents, tous préoccupés des problèmes sociaux. Le courant de le Tour du Pin (dit du « légitimisme social »), traditionnaliste et contre-révolutionnaire,   avait développé une idéologie sociale qui s'inspirait des idées de l'Église. Il s'appuyait sur les travaux d'hommes comme Albert de Mun (1841-1914), Armand de Melun, Alban de Ville­neuve-Bargement, qui dénonçaient avec passion les conséquences désastreuses du libéralisme triomphant. À côté de ce légitimisme social co­existaient d'autres cercles exprimant des idées voisines : le socialisme chrétien de Buchez (1769/1865), fondateur, avec Bazard, de la Charbonnerie de France. Le catholicisme libéral, synthèse de la doctrine libérale et du catholicisme et, enfin, le catholicisme social proprement dit, pensé par Lamennais, dont les écrits soulignent les valeurs anti-libérales (sur le catholicisme social, lire : Les débuts du catholicisme social en France (1822/1870), de J.B. Duroselle, PUF, 1° éd., 1951).

L'influence de La Tour du Pin sur de Gaulle résultait de ce que ce penseur du social avait compris que le système de propriété privée des moyens de production, que la société capitaliste bourgeoise avait développé, risquait de dégénérer en une quasi-souveraineté qui déposséderait l'État de son rôle arbitral. En d'autres termes, le capitalisme tendait à confisquer le politique au profit de l'économico-financier. Le résultat de ce processus dégénératif fut cette IIIème République conservatrice, dont l'arriération sur le plan social fut effrayante. On pourra retirer de cette première analyse une constatation liminaire : la participation est une idée anti-libérale par excellence !

 

 

Capitalisme et « contrat »

 

 

La société moderne capitaliste (c'est-à-dire née de la révolution industrielle et scientifique du XIXème siècle) donne l'image d'un champs conflictuel permanent. Ce conflit social, où "capital" et "travail" s'affrontent, résulte d'un mode de relations juridiques de nature contractuelle et économique : le contrat de louage de services. Ce contrat, qui n'est pas un mode de justice mais de rentabilité, induit un procès inégalitaire entre les travailleurs et les "capitalistes-entrepreneurs". Devant l'impuissance des travailleurs-contractuels, trois solutions se sont jusqu'à présent présentées :

 

◊ Le maintien du statu quo instauré : le libéra­lisme propose cette solution accompagnée de palliatifs réformistes.

◊ Le transfert des moyens de production entre les mains de l'État, qui transpose par là même l'aliénation du travailleur sans pour autant la supprimer. C'est la solution préconisée par le socialisme étatique marxiste et social-démocrate.

◊ Enfin, la troisième voie de l'association capital­-travail aux trois niveaux de la propriété, des résultats et des décisions. Étudions les racines de l'idéologie fondatrice de cette troisième voie.

 

L'idée essentielle se trouve dans les préoccupations du fondateur de la Vème République : l'objectif final n'était pas seulement une « façon pratique de déterminer le changement, non pas (le) niveau de vie, mais bien la condition ouvrière » (cf. Lettre du 11 avril 1966 du Général De Gaulle à Marcel Loichot). L'ampleur de ce changement proposé dépasse de ce fait la pure et simple aliénation économique, mais recherche toutes les causes d'aliénation économique et po­litique des travailleurs. Pour reprendre les termes de l'économiste François Perroux : « ce n'est pas le seul capitalisme qui aliène, c'est l'industrie et les pouvoirs politiques de l'âge industriel » (Aliénation et Société industrielle,F. Perroux, Gallimard, Coll. "Idées", 1970, p.75). Une conception du monde totale soutient donc l'idée de la participation, qui s'oppose à l'idéologie so­cial-libérale et ses avatars. Quels sont alors les sources de cette conception ?

 

Proudhon et Lamennais

 

Une révolution a déterminé les idéologues à rénover la pensée sociale : c'est la révolution industrielle et ses conséquences sociales. On peut dire que deux penseurs français ont, au cours du XIXème siècle, renouvelé cette pensée. Il s'agit de Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) et de Lamennais (1782-1854).

 

a) Pour Proudhon, auteur en 1840 d'un ouvrage intitulé Qu'est-ce que la propriété ?, la réponse est claire : « la propriété, c'est un vol ». Proposition volontairement provocante qui a pour objet d'amorcer le débat réel, celui des relations entre le « droit naturel de propriété » et l'« occupation », le travail et l'égalité. Quelques mots d'introduction sur cet auteur nous apparaissent nécessaires. D'origine paysanne, Proudhon est un des auteurs les plus féconds de la pensée sociale du XIXème siècle. Son œuvre est éminemment politique, puisqu'elle tend à une contestation radicale de l'idéologie de la propriété bourgeoise. La propriété n'est pas une valeur neutre. Elle peut à la fois constituer un système d'exploitation et un vol légal et devenir une force révolutionnaire formidable. Car la propriété est un « produit spontané de l'être collectif », ce qui implique qu'elle s'insère étroitement dans l'idéologie collective du peuple. De cela nous pouvons donc déduire un couple antagoniste : d'une part, idéologie bourgeoise, où la propriété tend à établir la domination d'une minorité possédante sur une majorité impuissante, ou, d'autre part, idéologie du peuple (le socialisme fédéraliste) qui investit la propriété d'une fonction communautaire et orga­nique. Par « idéologie du peuple », nous entendons, chez Proudhon, deux valeurs politiques essentielles : le fédéralisme qui innerve l'État, formé de groupes destinés « chacun pour l'exercice d'une fonction spéciale et la création d'un objet particulier, puis ralliés sous une loi commune et dans un intérêt identique » (De la Justice, 4ème étude). Ensuite, le mutuellisme, concrétisé par une « Banque du peuple », et qui, pour Proudhon, est « une formule, jusqu'alors négligée, de la justice ». De la synthèse des deux concepts, on peut alors déboucher sur une nou­velle organisation de la société, qui est avant tout le contraire de « toute solution moyenne », enten­dez de toute voie réformiste. Et Proudhon d'opposer le juste milieu matériel qui est le socia­lisme, au juste milieu théorique des pseudo-so­cialistes. Car le socialisme proudhonien n'est pas un socialisme libéral ou égalitaire. Dans Les confessions d'un révolutionnaire (1849), il peut écrire avec fougue : « Je suis noble, moi ! Mes ancêtres de père et de mère furent tous laboureurs francs, exempts de corvée et de main-morte de­puis un temps immémorial ». Et contre les partisans du nombre, contre les intellectuels rous­seauistes, ces « parasites révolutionnaires », Proudhon propose un nouvel ordre social qui conteste la loi de la majorité et que nous retrouvons exposé dans L'idée générale de la Révolution (1851). Ce principe aristocratique et populaire de l'idéologie proudhonienne est unique en son genre. Il ne veut rien avoir à faire avec le « fouriérisme » utopique, qu'il traitera de « plus grande mystification » de son époque. Charles Fourier (1772-1837) est le fondateur du Phalanstère, que l'on considère souvent à l'origine du mouvement coopératif.

 

 

Proudhon contre les Saint-Simoniens

 

Le socialisme de Proudhon ne veut rien retirer du saint-simonisme, qu'il accuse de relations étroites avec la haute finance internationale. Henri de Saint-Simon (1760-1825) qui, pendant la Terreur, s'enrichit par de coupables spéculations sur les biens nationaux, engendra une idéologie « industrialiste », qui contient une apologie sans réserve de l'entrepreneur capitaliste. Pour Saint­-Simon, les industriels sont les véritables chefs du peuple. Comme première classe de la société, la nouvelle organisation les mettra à la direction des affaires temporelles. Parmi les industriels, Saint­-Simon cherchait à souligner le rôle plus positif des banquiers ! On conçoit l'hostilité de Proudhon à cette apologie de l'affairisme cosmopolite et du capitalisme international. Face à ces déviations utopiques, anti-socialistes ou « terroristes » (la révolution française contient en germe et en action ces tendances terroristes, pense alors Proudhon), notre penseur propose une Révolution de l'anarchie. Il est bien entendu que cette "anarchie" n'a que peu de rapports avec les idées bourgeoises d'une anarchie de la licence et de l'absence de morale. C'est une anarchie organisée que propose Proudhon, antidémocratique et antilibérale, contestant l'idéologie rousseauiste et ses succédanés. Et la révolution ? Elle doit détruire le plus possible et le plus vite possible. Tout détruire ? Non, car, écrit Proudhon, « ne résistera dans les institutions que ce qui est fondamentalement bon ». Le socialisme proudhonien apparaît ainsi comme un vaste discours contestataire qui veut rétablir les libertés naturelles des hommes. Ces libertés qui soutiennent les valeurs populaires de liberté et de dignité. Une société féodale, a pu écrire Jean Rouvier (in Les grandes idées politiques, Bordas, 1973), que Proudhon exprime « génétiquement » (J. Rouvier, op.cit., T. II, p.187), qui veut restaurer cette « honnête li­berté française » invoquée par les vignerons d'Auxerre et de Sens entre 1383 et 1393. Il écrira, dans son Carnet du 5 Décembre :« Démocratie est un mot fictif qui signifie amour du peuple, mais non du gouvernement du peuple ». Ces idées en feront aussi un opposant farouche aux idées de Marx et du marxisme proclamé infaillible. Il est évident qu'entre le "franc laboureur" attaché aux libertés communautaires qu'est Proudhon et ce "sous-officier de la sub­version" que fut Marx, il y a peu de choses en commun. L'amour que portait Proudhon, de par ses racines, aux peuples de France, ne pouvait se satisfaire des attaques grossières de K. Marx contre les ouvriers parisiens (qu'il traita, le 20 juillet 1870, d'ordures ...). Si, pour Marx, Proudhon fut le « ténia du socialisme », le marxisme fut a contrario pour Proudhon une « absurdité anté-diluvienne ».

Face au libéralisme qui nie dans les faits la dignité des travailleurs, tout en voulant reconnaître fictivement leurs "droits fondamentaux", face aux discours pseudo-socialistes des Saint-Simon et Fourier qui veulent détourner les revendications sociales et politiques du peuple, face enfin au marxisme qui constitue un avatar préhistorique du terrorisme d'État, Proudhon pose en principe un idéal de justice qui se veut enraciné dans les libertés traditionnelles des peuples de France. Sa révolution est une révolte aristocratique, qui ennoblit et ne se traduit pas comme un mouvement « de brutes devenues folles sous la conduite de sots devenus fous » (H. Taine, La Révolution française, T. I,L. 3).

 

Lamennais : croyant et ruraliste

 

b) Tout comme Proudhon, Lamennais ne propose pas un corps de doctrine. Une analyse superficielle de son œuvre fait paraître sa pensée comme contradictoire. Dans un premier temps, Lamen­nais est un théocrate intransigeant (Essai sur l'indifférence en matière de religion, 1817/1824), puis un démocrate (L'avenir, 1830/1831 ; Les paroles d'un croyant, 1834 ; Livre du peuple, 1837). Entre la dénonciation extrême des valeurs issues du rationalisme révolutionnaire, et son attachement à défendre le "socialisme", qu'il oppose au communisme d'État et à l'égalitarisme terroriste, il est sans aucun doute difficile de trouver un référent universel explicatif. Certains historiens ont voulu comparer les œuvres de Pé­guy et de Bernanos à celles de Lamennais. La­mennais est un romantique en politique. Sa pas­sion politique est un dérivé de son amour de la nature. Quand il écrit avec nostalgie : « Je n'aime point les villes », il nous fait indirectement saisir les fondements de sa personnalité. Ceux d'un homme rempli de passion, « prêtre malgré lui », et qui défendra dans la seconde partie de son existence le peuple avec autant d'engagement qu'il avait mis à défendre la foi dans la première partie. Le projet démocratique de Lamennais n'est pas en rupture avec sa foi catholique. Pour lui, la démocratie est un régime étranger à l'idéologie libérale et au discours marxiste.

c) Chez l'un et l'autre de nos penseurs, un point commun : l'opposition absolue aux valeurs qui soutiennent la révolution industrielle. Un souci profond et sincère de protéger les libertés fondamentales des peuples et, par-delà ce souci tempo­rel, de préserver l'âme collective. Ces valeurs, qui constituent la matrice unique du libéralisme et du communisme, ont assuré le pouvoir des entrepreneurs sur les ouvriers. Ce pouvoir que ne détruit pas le communisme, puisqu'il engendre un système où la pluralité formelle des patrons capitalistes est remplacée par l'unité de direction du patron absolu qu'est l'État. Pour Lamennais, « le communisme substitue aux maîtres particuliers, l'État comme seul maître ». Ce maître com­muniste est plus abstrait, plus inflexible, plus insensible, sans relation directe avec l'esclave. En une phrase, l'État représente la coalition universelle et absolue des maîtres. Moralité : ici point d'affranchissement possible. Solution : « armer la propriété contre le communisme » (Proudhon, 1848).

 

 

Travailler pour soi

 

Proudhon, comme Lamennais, s'oppose à l'étatisme communiste. C'est une parenté d'esprit profonde qui les sépare de K. Marx. Leur dénonciation de l'ordre économique est aussi virulente que leur refus des constructions dogmatiques. Diffuser la propriété, qui n'est pas la conservation bourgeoise du statu quo. Tra­duisons : pour Lamennais, la propriété est le résultat d'une répartition équitable des produits du travail, et cela, par deux moyens : l'abolition des lois de privilège et de monopole ; la diffusion des capitaux et des instruments de travail. On trouve dans un programme un pré-capitalisme populaire. La combinaison de ces deux moyens, combinée avec un troisième facteur, qui est l’ASSOCIATION, aboutirait à une justice plus large. Dans son ouvrage intitulé : La Question du travail (Édition du Milieu du Monde, Genève), Lamennais écrit : « Ainsi le problème du travail, dans son expression la plus générale, consiste à fournir aux travailleurs, les moyens d'accumuler à leur profit une portion du produit de leur tra­vail » (p. 567). Travailler pour soi et non pour au­trui (le patron, le maître, l'entrepreneur, le capitaliste, l'État-maître) est une exigence de jus­tice et une revendication sociale prioritaire. Mais cette répartition n'est pas seulement une question matérielle, c'est aussi une question intellectuelle (acquérir l'instruction) et spirituelle. Mettre le crédit à portée de tous est un aspect de la révolution sociale, ce n'est pas le seul. Les associations de travailleurs que propose Lamennais, en supprimant le travail forcé au service d'une minorité de possédants, sont aussi des cercles où peuvent s'éveiller de nouvelles forces morales (On retrouve chez G. Sorel la même idée, sous la forme d'une culture prolétarienne). Proudhon dénonce lui aussi les multiples abus de la propriété bourgeoise. Ainsi, la propriété foncière, la propriété sur les capitaux mobiliers et, plus largement, celle qu'exerce « le propriétaire absentéiste ». Et Proudhon de combattre les idéologies de la propriété privée, qui sont précisément des idéologies libérales. Face aux abus de la propriété, Proud­hon construit le discours de la propriété sociale.

 

Les « structures libératrices »

 

Les valeurs libérales traditionnelles impliquent : le morcellement progressif du travail, la concurrence égoïste, la répartition arbitraire ; pour mieux répartir les produits, Proudhon prônera la solidarité des travailleurs. Car il ne s'agit pas, dans l'idée de Proudhon, d'une œuvre de bienfaisance que les maîtres accorderaient aux ouvriers, mais, écrit Proudhon, « c'est un droit naturel, inhérent au travail, nécessaire, inséparable de la qualité de producteur jusque dans le dernier des manœuvres » (Qu'est-ce que la propriété ?, p.151-152, éd. Garnier-Flammarion, Paris). En effet, pour le travailleur, le salaire n'épuise pas ses droits. Le travail est une création, et la valeur de cette création est une propriété des travailleurs eux-mêmes. Le contrat de travail n'implique pas pour le travailleur la vente de cette valeur. C'est un contrat partiel, qui permet au capitaliste d'exercer son droit sur les fournitures fournies et les subsistances procurées mais n'entraîne pas pour le partenaire qu'est l'ouvrier, une aliénation totale ; exemple : « Le fermier en améliorant le fonds, a créé une valeur nouvelle dans la pro­priété, donc il a droit à une portion de la pro­priété ». Mais ce problème de la plus-value n'est qu'une partie du problème du statut du tra­vailleur. Pour assurer définitivement son exis­tence, Proudhon est partisan du partage de la propriété. Sur un plan plus global, on a vu que Proudhon était favorable à une organisation mu­tualiste, qui engendrerait une économie contrac­tuelle : organisation coopérative des services (assurance, crédit), mutualisation de l'agriculture, constitution de propriétés d'exploitation, sociali­sation progressive de l'industrie par participation et co-gestion. Proudhon nomme ces institutions les "structures libératrices".

 

Il est difficile aujourd'hui de parler de socialisme sans évoquer et se rattacher aux idées sociale-démocrates. Pourtant cette confiscation est un leurre. Il n'y a pas de confusion entre le socialisme, qui est une conception politique issue du monde industriel du travail, et la social-démocratie qui est une branche bourgeoise du socialisme née du marxisme. (Sur le réformisme des sociaux-démocrates, lire : Carl E. Schorske, German Social Democracy, 1905/1917, Cam­bridge, Mass., 1955). Pour Lamennais, le socia­lisme se définit comme la reconnaissance du « principe d'association », fondement de l'ordre social. Définition large, qui a le mérite de refuser toute espèce de dogmatisme théorique. Proudhon quant à lui définit le socialisme comme le refus de transformer l'univers comme « une lice immense dans laquelle les prix sont disputés, non plus, il est vrai, à coups de lances et d'épée, par la force et la trahison, mais par la richesse acquise, par la science, le talent, la vertu même ». On aura reconnu une critique des discours fouriéristes et saint-simoniens. Car le socialisme de Proudhon est anti-technocratique. On se souvient que Saint-­Simon confiait le pouvoir aux chefs d'industrie, leur laissant le soin d'organiser la société. Proudhon conteste cette vision technocratique de la société future, sans pour autant rejoindre ceux que l'on a appelés les "socialistes de l'imaginaire".

d) Dans un ouvrage remarquable, le professeur François Georges Dreyfus, directeur honoraire de l'Institut d'Études Politiques de Strasbourg, et directeur de l'Institut des Hautes Études européennes de Strasbourg, tente de définir les sources intellectuelles du Gaullisme. (De Gaulle et le Gaullisme, par F.G. Dreyfus, PUF, collec­tion « politique d'aujourd'hui », Paris, 1982). Nous nous arrêterons pour quelques instants sur le chapitre II de cet ouvrage, intitulé : « Les sources de la pensée gaullienne » (p. 44/66), qui tente de nous résumer la genèse de l'idée poli­tique gaullienne.

 

II - L'IDÉOLOGIE GAULLIENNE :

la participation est un aspect d'une conception politique globale.

 

Avant d'aborder l'analyse de la participation proprement dite comme troisième voie spécifique, il nous paraît utile d'essayer de mieux repérer les sources du gaullisme comme idéologie originale. Pour F.G. Dreyfus, 1940 est l'année où se fixe définitivement la pensée du général De Gaulle. Les traits principaux de cette pensée sont au nombre de quatre : sens de la Nation (personnalisée dans l'esprit du général), volonté d'être techniquement de son temps (refus d'une attitude passéiste), profonde méfiance à l'égard des politiciens (la partitocratie), conscience de la nécessité d'une élite. Pour cela, l'analyse interdit tout rattachement exclusif à un courant idéolo­gique précis. Pour les uns, De Gaulle est un maurrassien, pour les autres, un jacobin, un chrétien nietzschéen, un nationaliste, etc. Devant l'impossibilité de rattacher cette pensée à un mouvement ou à un parti, F.G. Dreyfus retient trois éléments : l'élément religieux, le Nationa­lisme populaire, et la thématique des « non-conformistes desannées 30 ».

a) L'élément religieux : de famille catholique, élevé dans un milieu très pieux, ayant suivi enfin ses études dans un collège de jésuites, il est marqué par ses convictions religieuses. Et l'on re­trouve dans cet attachement, l'influence de ce ca­tholicisme social évoqué plus haut. L'Église est dans les années 1900, productrice de textes "engagés", portant sur les questions sociales : ce sont les Encycliques Rerum Novarum (1891), marquée par les idées de Lamennais et de Monta­lembert, Quadragesimo Anno de Pie XI (1931), et enfin Pacem in Terris de Jean XXIII et Popu­lorum Progressio de Paul VI. On trouve en germe dans les textes des groupes de catholiques sociaux du XIXème siècle, la notion de parti­cipation. Ainsi, les œuvres de la Tour du Pin, où l'on trouve une condamnation du salariat, marquera la pensée gaullienne. On se souviendra de la phrase prononcée par le général De Gaulle dans son discours du 7 juin 1968 : « Le capita­lisme empoigne et asservit les gens ». La source de cette hostilité au capital tout puissant se tient dans son éducation catholique : respect de la hié­rarchie traditionnelle (Église, Armée), dédain de l'argent (cf. les textes de Péguy), gallicanisme comme attitude d'esprit (Barrès, Bossuet).

b) Le nationalisme populaire : refusons d'abord l'affirmation un peu hasardeuse de F.G. Dreyfus selon laquelle le général De Gaulle était un homme de droite (p.45). S'il est évident que de Gaulle n'était pas un homme de gauche, et qu'il n'avait aucune sympathie pour les politiciens de la IIIème république, radicaux-socialistes ou ré­publicains de gauche. Il n'avait par ailleurs que peu de sympathie pour la droite d'affaires, cos­mopolite et réactionnaire (au sens social), et on peut se demander si le nationalisme populaire de De Gaulle n'est pas très proche sur bien des points de la « droite révolutionnaire » explorée par Sternhell (Zeev Sternhell, La droite révolution­naire 1885/1914, Seuil, Paris, 1978).


Cette « droite révolutionnaire » apparaît avant tout comme une contestation violente et radicale de l'ordre libéral. Le boulangisme constitue la première modalité idéologique et pratique de ce mouvement. C'est un mariage détonnant de na­tionalisme et de socialisme. C'est aussi et surtout un mouvement populaire qui, selon Sternhell, est « le point de suture » 1) du sens de la nation idéo­logisé et 2) d'une certaine forme de socialisme non marxiste, antimarxiste ou déjà postmarxiste (p. 35). La « droite révolutionnaire » est une syn­thèse ; on peut rappeler ces quelques réflexions du socialiste Lafargue : « Les socialistes (...) entre­voient toute l'importance du mouvement boulan­giste, qui est un véritable mouvement populaire pouvant revêtir une forme socialiste si on le laisse se développer librement » (F. Engels et L. La­fargue,
Correspondance, Éditions sociales, Pa­ris, 1956).

 

Le souvenir du boulangisme

Ce ralliement des masses ouvrières françaises au mouvement boulangiste s'accompagne aussi du ralliement des nombreux militants socialistes, et des victoires dans les quartiers populaires des candidats boulangistes (Paulin Mery dans le XIIIème arrondissement de Paris, Boudeau à Courbevoie, etc.). Le socialisme boulangiste est un socialisme national. Il n'y a pas en réalité une idéologie boulangiste, construite comme un dogme intangible et cohérent. Là encore, il y a absence totale de dogmatisme, et même refus de construire un système. C'est là un trait caractéristique des socialistes français que nous avons déjà signalé. Le boulangisme prend en considération la question sociale avec sa tradition de luttes et de revendications – la Commune est un mythe que les boulangistes introduisirent dans le débat politique au niveau d'un mythe natio­nal – tout en retenant les paramètres nationaux. Question sociale essentielle, dans une société où les difficultés économiques se développent, le chômage frappe les ouvriers, la croissance économique insatisfaisante crée un climat de malaise. Ce climat nourrit la révolte contre le libéralisme et le gouvernement centriste bourgeois au pouvoir. L'idéologie boulangiste, nationaliste, socialiste et populiste trouve un écho profond dans les milieux ouvriers. La contestation boulangiste se veut totale. Ce n'est pas seulement le monde bourgeois qui est refusé, mais la société indus­trielle ; ce que Maurice Barrès appelle « le machinisme ». L'homme moderne est un esclave « des rapports du capital et du travail », écrit Barrès (articles de La Cocarde, 8 et 14 septembre 1894 et 1890).

 

Appuyés sur une conception du monde qui est loin d'être optimiste, les socialistes boulangistes, et Barrès en tête, ont un sens aigu de la misère et de l'exploitation. Pour faire la révolution souhaitée, ils songent à regrouper tous ces exclus de la croissance industrielle : des bas-fonds des grandes villes aux « déchets » de la société. L'ennemi est alors défini et repéré au travers de cette bourgeoisie française que Barrès accuse avec virulence de n'avoir jamais, depuis 1789, considéré le peuple autrement que comme un simple moyen, un moyen commode, pour abattre l'Ancien Régime et établir sa suprématie (Sternhell, op. cit., p.66).

 

La mystique de Péguy

 

Pour le jeune De Gaulle, baignant dans une atmosphère de revanche consécutive à la défaite de la guerre de 1870, de la perte des provinces de l'est, l'Alsace-Lorraine, le nationalisme est une valeur naturelle qui, conjugué avec une certaine hostilité au régime républicain, produit chez Charles De Gaulle un attachement profond à la Nation. L'influence des grands auteurs nationalistes (Barrès, Maurras principalement) est aussi complétée par la grande figure de Péguy. Ancien élève de l'École Normale Supérieure, disciple du socialiste Lucien Herr, la pensée très riche de Pé­guy apparaît dans toute son originalité dans la revue qu'il fonde en 1910 : Les Cahiers de la Quin­zaine. Hostile à tout système universitaire, adversaire de la république parlementaire, laïque et anticléricale, Péguy est avant tout un mystique, pétri de contradictions bienfaisantes.

Si le nationalisme de De Gaulle est très proche des courants ouvertement nationaux et monarchistes de son époque, exaltant la patrie française et réclamant le retour des provinces perdues (le mythe de la revanche est une idée qui transcende toutes les oppositions traditionnelles politiciennes), la mystique d'un Péguy le sensibilise aux misères de la société industrielle bourgeoise. Le peuple est une réalité de chair et de sang et la nation doit se préoccuper de son sort. Ce souci n'est pas seulement un souci matériel, mais aussi spirituel. L'influence de Péguy joue ici à fond.

c) Les non-conformistes des années 30 (cf. Lou­bet del Bayle, Les non-conformistes des années 30, Seuil, Paris, 1969). Nos ne parlons ici ni d'un parti, ni non plus d'un mouvement.

Ces « non-conformistes » regroupent des intellec­tuels de tous milieux, de toutes tendances, qui ont été influencés par les écrits de Proudhon, Bergson, La Tour du Pin ; ce mouvement sera surtout connu par ses revues et est marqué par la pensée catholique (celle de Maurras, Maritain, Péguy). On peut citer quelques- unes de ces revues prestigieuses : Esprit, Ordre Nouveau fondé par Robert Aron et fortement constitué par des transfuges de l'Action Française. (Signalons au passage que le groupe Esprit de Strasbourg était dirigé par deux futurs collaborateurs de De Gaulle : Marcel Prelot et René Capitant. Dans tous ces milieux, on retrouve un certain nombre de thèmes communs : une volonté marquée de construire en France un système politique nouveau, hostile au parlement souverain ; ainsi Esprit réclame l'institution du référendum et proclame que « le pouvoir parlementaire doit être limité dans l'État, même du côté de l'exécutif » ; position qui, dans les années 30, constituait en soi une petite révo­lution intellectuelle. Un autre thème courant est l'exigence d'une décentralisation, et la mise en place d'un pouvoir régional (le référendum de 1969 proposait cette réforme historique).

De cette analyse des origines de la pensée gaul­lienne, nous pouvons enfin dégager quelques constantes : d'abord une volonté de restaurer la Nation comme valeur universelle. Le "nationalisme" de de Gaulle est une mystique (les premières lignes de ses mémoires sont explicites à cet égard) et une politique (renforcer la souve­raineté nationale face aux impérialismes modernes, et organiser le pays selon un système politique stable et fort). Ensuite, aborder la question sociale de front. La pensée gaullienne, marquée par les écrits des socialistes du début du siècle, rejette l'attitude lâche et peureuse de la bourgeoisie sur les problèmes essentiels que sont la condition ouvrière et la paix sociale. D'autre part, la présence en France d'un parti communiste puissant et organisé incite le pouvoir gaullien à ne pas laisser les syndicats inféodés au PC occuper seuls le terrain des entreprises. Pour ne pas laisser le prolétariat se détacher de la Nation, il faut lui donner les moyens d'apprécier et de réfléchir sur sa communauté. La Nation bourgeoise est une image fausse que l'ouvrier ne peut pas ne pas rejeter. À l'État, doit être dévolu le rôle de réintégrer la classe ouvrière dans la Nation. Cette volonté de modifier les rapports capital/travail débouche en dernier lieu sur une série de réformes que nous étudierons dans les paragraphes suivants.

 

III - LA PARTICIPATION :

 

À la base de la pensée gaullienne sur la question sociale, nous avons vu qu'il y avait deux phénomènes concomitants : le machinisme et la société mécanique moderne. Ces deux phénomènes constituent les fondements de la révolution industrielle du XIXème siècle. Dans un dis­cours prononcé le 25 novembre 1941 à l'université d'Oxford, le Général analyse avec intelligence les conséquences sociales de cette révolution : agrégation des masses, conformisme collectif gigantesque, destruction des libertés, uniformisation des habitudes de vie (les mêmes journaux, les mêmes films), qui induit une « mécanisation générale » qui détruit l'individu.

Cette société mécanique moderne exige un régime économique et social nouveau. Ce thème s'inscrit dans une réflexion plus vaste qui est celle de la crise de civilisation. Pour De Gaulle, la France moderne a été trahie par ses élites dirigeantes et privilégiées. D'où la pressante obligation d'un vaste renouvellement des cadres de la Nation. D'où aussi la lutte contre le capitalisme aliénant qui génère la lutte des classes et favorise les menées marxistes. Au vrai, c'est une révolution que le général De Gaulle propose, qui combat le capitalisme et résout la question sociale. La classe ouvrière est dépossédée de ses droits, au profit du capital qui confisque la propriété, la direction et les bénéfices des entreprises. La lutte des classes est la réaction spontanée de cette classe salariée. C'est, écrit De Gaulle, un fait, un « état de malaise ruineux et exaspérant » qui détruit l'unité du peuple, mais correspond en même temps à un sentiment croissant d'aliénation et de dépossession. Dès novembre 1943, De Gaulle prévoyait la fin d'un régime (le capitalisme) économique « dans lequel les grandes sources de la richesses nationale échappaient à la Nation » (Discours prononcé à Alger, 1943). En 1952, il établissait une liaison nécessaire entre le régime politique représentatif (la démocratie bourgeoise) et le régime social et économique (le capitalisme). Contre ce système, il faut associer le peuple à un mouvement révolutionnaire, puisque c'est par là même l'associer au destin national. Et il pouvait alors ajouter, touchant ainsi le nœud du problème : « Non, le capitalisme, du point de vue de l'homme, n'offre pas de solution satisfaisante ». (7 juin 1968). Et il poursuivait : « Non, du point de vue de l'homme, la solution communiste est mauvaise... ». Entre le capitalisme qui réduit le travailleur dans l'entreprise à être un simple ins­trument et le communisme, « odieuse machine totalitaire et bureaucratique », où est la solution ? Avant d'apporter une réponse à cette angoissante question, De Gaulle répond négativement : « ni le vieux libéralisme, ni le communisme écrasant » ne sont des solutions humaines. Pour résoudre le dilemme, il faut construire un régime nouveau. Ce régime sera bâti sur une question essentielle : la question sociale. Car c'est de cette question non résolue que sont issues les grands drames politiques du XXème siècle. En ce qui concerne la France, c'est la question sociale qui alimente les succès des mouvements "séparatistes" (en­tendez communistes). Ce régime nouveau doit s'appliquer à intégrer les travailleurs à la nation, en participant à son expansion économique, donc à son destin politique. Le régime économique et social doit être rénové pour que les travailleurs trouvent un intérêt direct, moral et matériel aux activités des entreprises.

 

La coopération des partenaires sociaux assure la santé de la Nation

 

Au-delà des réformes juridiques et politiques, de Gaulle veut s'attacher à définir des valeurs originales, qui seront des valeurs humaines. Comme Proudhon et Lamennais, De Gaulle est soucieux d'assurer aux travailleurs la sécurité et la dignité. À plusieurs occasions (le 15/11/1941, le 25/11/1941 à Oxford, le 18/O6/1942), il rappelle que la France veut « que soient assurées et garanties à chaque Français la liberté, la sécurité et la dignité sociale ». Il faut assurer aux Français, ouvriers, artisans, paysans, ..., la place qui leur revient dans la gestion des grands intérêts communs (20/04/1943). Cette place qui concerne tous les travailleurs français (les chefs d'entreprise, les ingénieurs compris) modifiera la "psychologie" de l'activité nationale (Discours du 31/12/1944). Il est certain que ce nouveau système ne sera pas parfait, mais l'idée de coopération des partenaires de la production est, selon de Gaulle, une idée nationale qui améliorera le régime économique et social. C'est en ce sens un principe fondamental de la révolution exigée par la France.

La réforme prioritaire est celle du salariat. De Gaulle refuse de considérer le salariat comme la base définitive de l'économie française. Pour les mêmes raisons que celles énoncées auparavant, il faut abolir le salariat. Pourquoi ? Parce que, dit De Gaulle, le salariat est une source de révolte, qui rend insupportable la condition ouvrière ac­tuelle. En modifiant le régime du salariat, il faut permettre à l'ouvrier, au travailleur, d'accéder à la propriété. Comment y parvenir? En créant une association réelle et contractuelle, qui n'aurait que peu de rapports avec les réformes accessoires des gérants du libéralisme (exemples : primes à la productivité, actionnariat ouvrier, etc.). Cette idée de l'association, précise De Gaulle, est une idée française, une de ces idées que les socialistes français ont avancée au XIXème siècle (ce socialisme qui, écrit De Gaulle, n'a rien à voir avec la SFIO... ). L'association réunit dans une relation complémentaire les possesseurs du capital et les possesseurs du travail.

Dans ce cadre, la participation met en commun ces deux forces dans l'entreprise ; les ouvriers sont des sociétaires, au même titre que la direction, le capital et la technique. Cette implication des divers partenaires entraîne un partage des bénéfices et des risques. Les diverses parties fixe-ont ensemble les modalités de rémunérations et de conditions de travail. Dans un second temps, on pourra imaginer une association plus étendue du personnel à la marche de l'entreprise. Enfin, dans une conférence de presse du 21 fé­vrier 1966, De Gaulle parle de « l'association des travailleurs aux plus-values en capital résultant de l'autofinancement ». L'entreprise apparaît de plus en plus comme une "société" (la nation étant la communauté par excellence), œuvre commune des capitaux, des dirigeants, des gestionnaires et des techniciens, enfin des travailleurs, catégorie qui englobe les ouvriers. Unis par un intérêt commun, qui est le rendement et le bon fonctionnement de cette société, les travailleurs ont un droit égal à l'information et à la représentation. Ce sont les « comités d'entreprise » en 1957, et l'« intéressement » en 1967. Quant au point de vue de l'État, la participation est une réforme « organisant les rapports humains ... dans les domaines économique, social et universitaire ». Les trois niveaux de la participation sont : la Na­tion, la région, l'entreprise.

 

Intéressement et planification

 

La participation dans l'entreprise revêt trois formes distinctes :

Pour les travailleurs, l'intéressement matériel direct aux résultats obtenus.

L'information ouverte et organisée sur la marche et les résultats de l'entreprise.

Le droit à la proposition sur les questions qui regardent la marche de l'entreprise.

En ce qui concerne le premier point, la législation se compose de l'ordonnance de 1959, de la loi de 1965 sur les droits des salariés, sur l'accroissement des valeurs de l'actif dû à l'autofinancement, et enfin l'ordonnance de 1967 instituant la participation aux bénéfices.

Pour le second, on doit se référer à l'ordonnance de 1945 (dont le rédacteur fut René Capitant, ancien membre du groupe Esprit) sur les comités d'entreprise. Quant au troisième, il concerne aussi une législation répartie dans les ordonnances de 1967. Pour appliquer ce nouveau régime, le général De Gaulle excluait tout recours à la force, que ce soit celle des pouvoirs publics ou celle de la rue. La révolution par la participation n'est pas une vulgaire "exhibition", elle ne se constitue pas de tumultes bruyants ni de scandales sanglants. L'État a néanmoins et sans aucun doute un rôle essentiel à jouer. Il faut, en toutes circonstances, qu'il tienne les leviers de commande. Tenir ces leviers, c'est prendre toutes les décisions qui favorisent la mise en place de ce nouveau régime. La nationalisation est un moyen. Ce n'est pas le seul ni le plus efficace. Ce que retient comme méthode privilégiée le Général De Gaulle, c'est la planification. Le Plan est le résultat de la coopération de plus en plus étendue des organismes qui concourent à l'activité nationale, la décision restant en dernier ressort aux pouvoirs publics. La question im­portante que pose à ce moment le Général De Gaulle est celle du régime apte à lancer ce vaste mouvement de réforme. En effet, si la question du régime politique est alors une question d'actualité, il n'est pas interdit de croire qu'elle est aussi et surtout une question permanente.

 

Le rôle des syndicats

 

Comme toute grande réforme, la participation demande beaucoup de temps et de volonté, et ces qualités sont celle, que l'État peut seul offrir. En accord avec les travailleurs eux-mêmes et certaines organisations "représentatives", l'État peut associer les partenaires sociaux aux responsabilités économiques françaises. À cette époque de l'immédiat après-guerre, De Gaulle croit encore aux vertus de ces syndicalistes qui furent aussi des cadres de la résistance. Si certains sont membres de féodalités inféodés à l'étranger (De Gaulle pense alors aux syndicalistes qui sont des militants du parti communiste), il fait en dernier lieu confiance aux vrais syndicats, attachés aux intérêts des travailleurs. Quant à ces syndicats, dont la fonction est de protéger la classe salariale, il faut que leur rôle soit transformé. Il ne faut pas que ceux-ci soient au service des partis politiques et de leurs intérêts partisans. Il ne faut pas que les communistes puissent contrôler leurs activités au sein de l'entreprise. Le syndicat doit subir une profonde rénovation spontanément et librement. Ils pourront ensuite assumer leur rôle, qui est d'éclairer leurs mandants et de participer aux contrats de société. Ils pourront aussi organiser le rendement dans l'entreprise, soutenir la formation technique, l'apprentissage et les qualifications.

De Gaulle est aussi conscient des limites de ces réformes. Elles ne doivent pas détruire les autres piliers de l'économie, que sont l'investissement des capitaux pour l'équipement des entreprises, ni l'autorité et l'initiative des dirigeants. L'objectif final sera atteint par des modalités et des procédures échelonnées dans le temps. L'étape préliminaire étant celle de l'intéressement. Le rôle des entreprises publiques est aussi essentiel ; c'est dans cette caté­gorie nouvelle des entreprises nationalisées, où sont exclues les questions de répartition des capitaux, l'État étant majoritaire, que l'on pourra appliquer cette première réforme. Cette stratégie progressive et prudente, se doublera d'autre part d'un système d'arbitrage « impartial et organisé qui assurera la justice des rapports ». Ce « régime organique d'association » connaît trois niveaux d'arbitrage : 1) Le Sénat économique et social, qui en est l'instance suprême ; le Sénat est la chambre des représentants des diverses catégo­ries d'intérêts du pays ; il peut conseiller le gouvernement dans l'ordre économique et social, à propos du Budget et du Plan. 2) Le Conseil Ré­gional, représentant les collectivités locales et les mandataires des diverses activités économiques, sociales et universitaires ; il a compétence pour ce qui touche l'équipement et le développement de la région, notamment le plan régional. Enfin dans l'entreprise, 3) l'institution des « délégués de la participation », chargés de négocier les contrats de participation. À côté de ces délégués seront institués des « comités de participation », à caractère consultatif. Les modalités de la participation sont : l'intéressement, l'actionnariat, les méthodes de gestion participatives, la cogestion et l'autogestion.

 

La nationalisation des monopoles

 

Pour permettre d'établir les meilleures conditions d'application de ces réformes, un moyen intéressant fut la méthode des nationalisations. L'objectif des nationalisations était purement politique. Il fallait interdire toute concentration excessive qui prenne la forme d'un monopole économique. L'intérêt général justifiait cette politique. On sait les méfaits des grandes puissances économiques et financières dans les nations d'Amérique centrale, où, sous la forme de multinationales aux budgets formidables, celles-ci peuvent s'opposer avec succès aux décisions des gouvernements légitimes et légaux (en fait, nous connaissons ce phénomène sur les cinq continents et les pays occidentaux soumis au système capitaliste n'y échappent pas plus que les jeunes nations du Tiers-Monde). Cette natio­nalisation des monopoles privés ne résout pas la question sociale. Elle est une condition favorable aux réformes nécessaires. C'est, écrit M. Des­vignes, « un moyen négatif ». La politique envisagée n'implique pas une volonté de détruire le secteur dit libre. Elle confirme le rôle prioritaire de l'État, qui doit assurer lui-même l'exploitation des activités nationales, à savoir dans l'immédiat après-guerre : l'énergie (charbon, électricité, pé­trole), le transport (chemins de fer, transports maritimes, aériens), les moyens de transmission (radio, plus tard télévision) ; le crédit (banques, établissement financiers). Il ne s'agit pas d'une étatisation, qui transformerait toutes ces sociétés en services publics, mais d'assurer le contrôle réel de l'État sur ces entreprises (par exemple sous la forme d'établissements publics à caractère industriel et commercial). Ainsi le Général De Gaulle précise-t-il plus tard (25/11/1951) que l'État ne doit pas être là pour financer la marche de ces entreprises. Il fixe pour cela des règles de fonctionnement et de gestion à ces entreprises nationales : respect des règles commerciales (transports par exemple), participation des usagers, fixation autonome des tarifs et des traitements, responsabilité entière du conseil d'administration et des directeurs. Il ajoute aussi que ces nationalisations sont souvent dévoyées en ce sens qu'elles se transforment en de puissantes féodalités à l'intérieur même de l'État. Il reste qu'il y a là un moyen privilégié d'assurer les réformes.

Revenons à l'analyse des modalités pratiques de la participation.

L'autogestion est un mot qui n'a jamais été prononcé par De Gaulle. Si l'autogestion est un moyen offert au personnel de participer à la direction de l'entreprise, par le biais de l'appropriation de l'autofinancement, et la constitution de minorité de blocage, de contrôle ou même d'une majorité au sein du conseil dirigeant, alors la participation est une méthode d'autogestion. Mais cette participation n'est pas l'autogestion puisqu'elle conserve au chef d'entreprise le pouvoir de décision. Car, l'écrit de Gaulle : « Délibérer, c'est le fait de plusieurs, agir c'est le fait d'un seul ». L'idée auto­gestionnaire précisée, analysons les trois systèmes de participation qui furent proposés.

Trois objectifs sont retenus : favoriser la participation du personnel aux résultats, aux responsabilités et au capital.

La participation aux responsabilités : elle fut envisagée la première. Il s'agit d'associer le personnel à ce qui est gestion, organisation et perfectionnement des entreprises (discours du 2/03/1945). Ce sont les « Comités d'entreprise  ».

 

« Casser le processus de la termitière »

 

Le 7 avril 1947, il préconise l'association aux bénéfices, qui prévoit l'intéressement des travailleurs au rendement, contrôlé par un système d'arbitrage impartial et organisé. Cet intéressement sera calculé selon une échelle hiérarchique déterminée par les textes législatifs. L'idée est la rémunération des travailleurs au delà du "minimum vital", selon une technique analogue à la rémunération des capitaux mobiliers et immobiliers, qui sont rémunérés au delà de leur conservation et de leur entretien. À l'association dans l'industrie, De Gaulle veut faire correspondre la coopération dans l'agriculture. Par la création de mutuelles (souvenons nous de ce qu'écrivait Proudhon), de coopératives, de syndicats, soit par régions et localités, soit par branches de production, on peut assurer aux agriculteurs liberté et indépendance. La méthode ayant pour finalité de casser le processus de la « termitière » typique de la société libérale industrielle.

Pour introduire dans les faits cette participation des travailleurs aux résultats dans les entreprises, il est proposé dès 1948 la création de « contrats d'association » destinés à :

Fixer la rétribution de base des ouvriers.

L'intérêt de base pour le capital qui procure les installations, les matières premières, l'outillage.

Le droit de base pour le chef d'entreprise qui a la charge de diriger.

L'idée qui soutient la création de ces contrats est la nécessaire égalité des divers partenaires de l'entreprise qui participent à ce qui est produit (travail, technique, capital, responsabilité) à la propriété et au partage de l'autofinancement. L'Association capital-travail crée un système de copropriété de l'entreprise. Les plus-values qui proviennent de l'autofinancement ne sont plus des modes exclusifs de rémunération du capital, mais doivent aussi être distribuées aux autres parties de la production.

 

L'association capital/travail

 

L'association est, dans l'idée gaullienne, une des idées-forces de l'avenir. En établissant cette association capital/travail, de Gaulle vise non pas seulement à motiver les travailleurs dans le destin économique de leur entreprise respective, mais il veut atteindre des objectifs plus ambitieux : consolider l'unité française, assurer le redressement national, donner un exemple à l'Europe.

Nous avons parlé jusqu'à présent de la participation en tant que traduction de l'idée gaullienne. Mais ainsi que celui-ci le rappelait lui-même dans une de ses allocutions, si la décision est le fait d'un seul, la délibération doit être le fait de plusieurs. Pour cela, il fut entouré d'hommes de valeur associés à sa recherche d'une résolution de la question sociale : sociologues, juristes, gestionnaires, économistes, ju­ristes, syndicalistes, philosophes, etc... Nous voudrions évoquer maintenant quelques figures marquantes qui ont soutenu cette œuvre. Trois hommes se dégagent, qui furent des figures marquantes : René Capitant, Louis Vallon et Marcel Loichot. Il faut évoquer la figure de René Capitant. Professeur de droit et homme politique, René Capitant a énoncé, dans son cours de doctorat de droit public, ce qui fut le fondement de la participation : ce principe est la liberté, qu'il définit comme une autonomie et qui « consiste non pas à n'être soumis à aucune obligation juri­dique, auxquelles on est habituellement soumis, mais qui garantit à chaque associé son autonomie personnelle ». Le contrat d'association est le garant d'une vraie participation puisqu'il est un contrat démocratique. Il écrit : « En régime capita­liste, la démocratie est... limitée aux relations qui s'établissent entre possédants et ne s'étend pas aux relations entre possédants et travail­leurs ». Le contrat démocratique sera le garant de la nouvelle démocratie sociale. Son adhésion au concept de la triple participation résulte de ce souci de « démocratie sociale ». En matière de participation, R. Capitant est partisan du « systè­me Sommer », qui lie l'augmentation des salaires non à l'accroissement de la production nationale, mais à la productivité concrète des entreprises. De la sorte, les salariés sont des copropriétaires de l'accroissement d'actifs résultant de l'autofinancement. Leurs parts sociales sont représentatives de leur part de propriété dans l'entreprise. (Il est favorable de ce fait à une révision de l'ordonnance de 1967 qui permet le remplacement des simples titres de créances au profit d'actions à part entière).

René Capitant est aussi favorable à une « responsabilité organisée de la direction devant les travailleurs ». En d'autres termes, il s'engage dans la voie d'une autogestion ouvrière. Il préconise deux types d'assemblées générales dans l'entreprise : l'Assemblée générale des actionnaires, et l'Assemblée générale des salariés. La direction serait responsable devant ces deux assemblées et on constituerait un organe permanent des salariés, le comité d'entreprise, parallèle au conseil de surveillance des actionnaires.

 

Les projets de Louis Vallon

 

On retrouve ces idées dans le célèbre amendement Capitant-Le Douarec de 1966, qui prévoyait :

Pour les sociétés anonymes, la création d'un « Directoire » assurant les pouvoirs de direction, et d'un « conseil de surveillance », chargé de contrôler le précédent. Ce conseil peut constituer, avec le comité d'entreprise, une commission paritaire mixte qui examinera toutes les questions relatives à la marche de l'entreprise. L'entreprise deviendrait une « coopérative ouvrière », mais ayant la possibilité de faire appel à des capitaux extérieurs, ce qui la rendrait compétitive face aux entreprises capitalistes. À côté de René Capitant, on trouve Louis Vallon, auteur du fameux « Amendement Vallon », modifiant la loi du 12/07/1965. L'amendement faisait obliga­tion au gouvernement de déposer un projet de loi sur la « participation des salariés à l'accroissement des valeurs d'actifs des entreprises à l'au­tofinancement ».

Pour L. Vallon, le mécanisme à mettre en place doit être un mécanisme juridique : l'octroi d'un droit aux salariés sur l'accroissement des valeurs d'actifs dû à l'autofinancement, droit qui est ga­ranti par une obligation légale faite aux entreprises. Cette participation a un autre avantage : elle favorise l'investissement et l'augmentation de la surface financière, parce qu'elle augmente les garanties fournies aux tiers par l'incorporation de réserves au capital. Enfin, il propose de compenser la moins-value des titres anciens par un système d'encouragement fiscal. En fait, ces projets se heurteront à l'hostilité des féodali­tés économiques, patronales et syndicales.

En résumé, Louis Vallon énonce quatre conditions essentielles : Les salariés doivent posséder de véritables titres de propriété, analogues à ceux des actionnaires antérieurs. La base du calcul de la participation comprend et le bénéfice fiscal et les plus-values implicites. Pour calculer avec réalisme l'accroissement des actifs, il faut une réévaluation régulière des bilans.

Il serait néfaste que soit créé un organisme cen­tral de gestion chargé de contrôler les titres de propriété des travailleurs. Il signifierait une perte d'identité des entreprises. D'où la critique ouverte de Louis Vallon contre l'ordonnance de 1967, qu'il juge trop modeste dans ses réalisations.

 

Marcel Loichot et le « pancapitalisme »

 

Enfin Marcel Loichot, polytechnicien, surnommé le « père du pancapitalisme ». Ce « pancapitalisme », il en résume ainsi les principes : L'homme, en tant que fabricant d'outils, est un capitaliste. Parce que l'outil est en soi un capital. La question est de savoir qui sera le possesseur du capital : les oligarchies économiques, l'État, les ouvriers ou les épargnants ?

Pour supprimer l'aliénation capitaliste, la dernière solution est retenue. C'est celle des « épargnants conjoints » (ouvriers, entrepreneurs, État, etc.).

Car, pour Loichot, le capitalisme néo-libéral reste un oligopartisme, tandis que le communisme est un monocapitalisme. Dans ce cadre, les biens de production sont abusivement confisqués par la classe possédante. S'il y a partage des biens de consommation, ce partage n'est qu'un trompe-l’œil, qui perpétue la « spoliation des salariés ». Pour faire cesser cette spoliation, il faut diffuser la propriété, dans le cadre d'une société dite « pancapitalisme ». Dans ce système, un projet de loi présenté devant le Parlement prévoyait, entre autres projets, que les droits d'attribution d'actions gratuites, par voie de réévaluation de l'actif, réservent au moins 50% aux travailleurs ayant au moins 10 ans de présence dans l'entreprise, proportionnellement aux salaires perçus.

 

IV - Les textes instituant la participation

 

Nous ne présenterons pas l'ensemble de ces textes, dont l'analyse serait longue et fastidieuse. Historiquement, nous avons souligné le retard de la France en matière sociale sous la IIIème Ré­publique, retard qui fut comblé partiellement par les réformes instituées par le gouvernement du Front Populaire. En ce qui regarde la question de la participation, on peut citer quelques textes, imparfaits et sans grands résultats (Loi du 18/12/1915 sur les sociétés coopératives de production, loi du 26/04/1917 sur les sociétés anonymes à participation ouvrière et actions de tra­vail, loi 25/02/1927 sur les sociétés coopératives ouvrières de production). Il faudra ensuite attendre les ordonnances de 1945 (22 et 25/02/1945) pour voir s'instituer les premiers comités d'entreprise, et le Décret-Loi du 20/05/1955 sur l'association des salariés à l'accroissement de la productivité.

La naissance de la Vème République allait engager ce vaste mouvement législatif qui prétendait aborder la question sociale. On compte, entre l'ordonnance de 1959 et la loi de 1973 relative à la souscription ou à l'acquisition d'actions de sociétés par les salariés, pas moins de 4 ordonnances, 3 décrets et 8 lois pour organiser la participation. On retiendra le cœur de ce projet, constitué par les 3 ordonnances du 17 août 1967, relative à la participation des salariés aux fruits de l'expansion de l'entreprise (ordonnance n°1), relative aux Plans d'Épargne d'entreprise (ordonnance n°2), et relative aux modifications et compléments de la loi du 24 juillet 1966.

Quelle est la portée de ces ordonnances ? On trouve une présentation de sa portée dans la présentation du rapport au Président de la République.

Elles ont pour objet de permettre une amélioration de la condition des travailleurs, et de modifier les rapports dans les entreprises entre les travailleurs et les patrons.

Pour réaliser ces objectifs, l'ordonnance n°67.­693 institue :

* Un partage des bénéfices, sur la base du bénéfice fiscal net (on remarquera qu'est rejeté ici le projet Loichot, qui incluait, dans la base du calcul, les plus-values implicites). La rémunération forfaitaire du capital est donc déduite du bénéfice net au taux de 5% après impôt. De plus est appliqué un coefficient (rapport des charges sociales à la valeur ajoutée) qui évite aux entreprises à forte capitalisation et faible main d'œuvre que les salariés ne perçoivent une rémunération disproportionnée sur base des bénéfices. Autrement dit, le partage entre les actionnaires et le personnel est effectué après rémunération à taux élevé (10% avant impôt), et l'application d'un coefficient aux effets cumu­latifs avec ceux de la rémunération forfaitaire des capitaux.

* Elle institue aussi le caractère légal et obligatoire de l'ordonnance. Toutes les entreprises de plus de 100 salariés sont concernées. Le système de la cogestion en République Fédérale allemande concerne les entreprises de plus de 500 salariés. Le système français s'inspire en fait des expériences de cosurveillance appliquées en Suède et en Hollande.

* Elle règle ensuite la forme juridique des contrats d'association. Trois possibilités sont accordées aux entreprises françaises : le cadre de la convention collective ; l'accord passé entre le chef d'entreprise et les syndicats dits "repré­sentatifs", obligatoirement membres du personnel de l'entreprise ; l'accord passé dans le cadre du comité d'entreprise.

 

Avant de présenter quels objets licites l'ordonnance prévoit, formulons quelques remarques quant aux positions des divers syndicats à l'endroit de la participation.

 

La position des syndicats patronaux et ouvriers

 

Le Général De Gaulle avait prévu, dès le départ, le problème majeur qui risquait de supprimer les effets positifs du projet. Ce problème était celui des syndicats, ouvriers et patronaux. L'opposition de ces féodalités, que l'on a pu constater depuis lors, était un obstacle essentiel que craignait le chef de l'État. Pour les syndicats, deux catégories de réactions étaient à prévoir. Celle des syndicats affiliés au parti communiste, pour qui faction syndicale est une œuvre de division nationale, et les revendications des travailleurs un moyen de développer l'agit-prop. À leur égard, il n'y avait aucune illusion à se faire ; pour la Confédération Générale du Travail (CGT), proche du parti communiste français, il y avait une opposition absolue aux ordonnances. Cette opposition était naturelle, si on veut bien se rappeler tout l'arrière-plan idéologique que les promoteurs de la participation défendaient. Les tentatives, réussies pendant un temps, de détacher le monde ouvrier de l'influence du PCF, étaient mal vues de sa courroie syndicale. Pour Henri Krasucki, le projet Capitant était « un des innombrables systèmes qui se sont essayés à enjoliver le capitalisme et à mélanger l'eau et le feu », pour ajouter : « la notion de participation correspond à un problème réel ». Pour la CGT, la participation est un slogan qui ne brise pas les féodalités économiques et financières. Pour la Confédération Française Démocratique du Tra­vail (CFDT), proche des courants autogestion­naires, la participation dans l'entreprise n'est pas a priori mauvaise en soi. Elle demande à être élargie. Au cours d'un débat tenu le 5 juin 1972, entre Marcel Loichot et le président de la CFDT, fut posée la question essentielle : celle de la propriété des moyens de production. Les questions posées furent celles-ci : l'usine à Roth­schild ? L'usine à l'État ? Ou l'usine à ceux qui y travaillent ?

Pour le syndicat Force Ouvrière, réformiste, elle prend une position moyenne, tout à fait dans sa ligne social-démocrate.

Les syndicats patronaux, quant à eux (en tête, le Conseil National du Patronat Français), sont hostiles au projet qui, selon leurs analyses, ne répond pas à la vraie question qui est la suivante : « Qui doit commander ? ». Enfin les syndicats de cadres, en principe non hostiles à la participation, restent proches des positions du patronat.

À l'exception notable du courant autogestionnaire, très timide face à cette réforme, il y a donc une conjonction spontanée des féodalités syndicales contre la participation. Du patronat libéral à la centrale communiste, l'idée apparaît comme dangereuse, pour la simple raison qu'elle envisage une société beaucoup plus attentive à la question sociale.

Le test est révélateur ...

Mais revenons aux ordonnances de 1967. L'objet de l'accord doit ensuite être licite. Il peut également prévoir : l'attribution d'actions de l’entreprise, l'affectation des sommes de la réserve spéciale de participation à un fonds d'investissements, etc.

* Enfin elle traite de l'attribution des droits du personnel : ces droits seront malheureusement limités, puisque seront exclus en dernière instance les droits de participation au capital, et aux décisions au sens de la directive du 31 juillet 1968.

On voit que le projet "idéologique" de la participation demeura bien au-delà des réalisations législatives. La France de la croissance des années 1960/1970 est une France prospère où l'expansion constitue un manteau épais qui relègue les grandes questions au second plan. Pour les organisations syndicales, le projet politique ne constitue plus un enjeu. Les discussions se greffent plus souvent sur des questions alimentaires ou, plus largement, sur la gestion d'une société de consommation euphorique. Les grands débats sont abandonnés, à quelques exceptions près. L'idéologie bourgeoise battue en brèche par les contestataires, telle Protée, resurgie sous la forme plus subtile d'une mentalité imprégnant toutes les couches sociales. L'ouvrier rêve de devenir bourgeois, et les syndicats sont des partenaires bien éduqués, siégeant à des tables de négociations. Le projet de la participation a été digéré par ces féodalités que dénonçait le Général De Gaulle dès l'immédiat après-guerre.

CONCLUSION

La participation a voulu proposer un lieu de dépassement du capitalisme et du marxisme. L'évolution du régime économique et social, qui devait résoudre la question sociale, a abouti à un semi-échec. La société occidentale, libérale et capitaliste, la société de la "liberté" bourgeoise, ont étouffé le projet. Il n'y a pas eu confrontation directe, et De Gaulle avait pressenti le rôle dangereux parce que discret des féodalités. L'idée ambitieuse et poétique de forger l'unité nationale par la résolution de la question du salariat n'était pas supportable pour tous ceux qui ont fait profession de la politique. La ligne de clivage entre partisans et adversaires de la participation passait en effet dans l'intérieur des partis traditionnels.

La participation pouvait en réalité constituer le point de départ d'une vaste subversion des cadres conservateurs de la société bourgeoise d'après 1945. La révolution industrielle était aussi une révolution culturelle. Elle avait créé une société brisée, scindée selon des critères socio-écono­miques. D'un côté, la bourgeoisie possédante, industrielle et financière, qui bénéficie des profits du changement. C'est une bourgeoisie triomphante, propriétaire exclusive des moyens de production, qui construit une société et un régime à son image. De l'autre côté, la création d'une classe de salariés, attirée par les grandes manufactures qui donnent des emplois. Face au capital qui investit, le travail n'est pas une valeur positive. Elle n'est pas productrice de bénéfices, mais seulement de rémunérations salariales. Pourtant, de tous les côtés, des hommes se lèvent, et osent dénoncer ce système politico-économique dominé par les valeurs de la révolution dite "française". Le socialisme français de Proudhon, et de Sorel est rejoint dans sa contestation de l'ordre bourgeois libéral et républicain par les penseurs du catholicisme social. Plus tard, des mouvements plus radicaux, élèves du socialisme national, exigent une réforme plus vaste. Ils exigent la Révolution. C'est l'époque de Barrès, du premier Maurras (celui de La Revue Grise), des socialistes révolutionnaires travaillant côte à côte avec de jeunes monarchistes soréliens (le Cercle Proudhon). Tous ces groupes constituent cette "droite révolutionnaire" qui allient le sens de la Nation et celui des libertés réelles. En réalité, ce creuset n'engendre pas un parti de droite, mais quelque chose de nouveau, qui va plus loin.

Contre la république opportuniste et radicale, qui n'hésite pas à tirer sur les ouvriers en grève, il y a une conjonction historique. Il est dommage que celle-ci n'ait point abouti. Il reste que, beaucoup mieux que le bourgeois Marx, elle a dégagé dans ses écrits la question essentielle. Le salariat est le système juridique et social qui symbolise le monde bourgeois. Avec son idée d'une triple participation (aux capitaux, aux résultats, aux décisions), le Général De Gaulle se situait dans le droit fil de cette tradition socialiste française. Il a fallu la réunion de toutes les oppositions féodales pour briser le projet. Il reste un exemple à méditer. Ce peut-être le sujet de nos réflexions futures. Car il faudra bien un jour, en dépassant les vieilles idéologies capitalistes et marxistes, résoudre la question sociale.

 

Ange SAMPIERU

 

BIBLIOGRAPHIE (par ordre de consultation)

 

• I) INTRODUCTION :

 

1) M. DESVIGNES, Demain, la participation, au-delà du capitalisme et du marxisme, Plon, Paris, 1978.

2) Charles DE GAULLE, Discours et Messages, Plon, Paris, 1970.

 

• II) L'IDÉOLOGIE DE LA PARTICIPATION : Les sources... :

 

1) Michel JOBERT, Mémoires d'avenir, Le Livre de Poche, Paris.

2) Jean-Gilles MALLIARAKIS, Yalta et la naissance des blocs, Albatros, Paris, 1982.

3) Jean TOUCHARD, Histoire des idées politiques, Tome II, Du XVIIIème siècle à nos jours, Presses Universitaires de France, Paris, 1975.

4) J. IMBERT, H. MOREL, R.J. DUPUY, La pensée politique des origines à nos jours, Presses Universitaires de France, Paris, 1969.

5) Jean ROUVIER, Les grandes idées politiques, de Jean-Jacques Rousseau à nos jours, Plon, Pa­ris, 1978.

6) J.B. DUROSELLE, Les débuts du catholicisme social en France, Presses Universitaires de France, Paris, 1951.

7) François PERROUX, Aliénation et société industrielle, Gallimard, coll. "Idées", Paris, 1970.

8) Œuvres de PROUDHON : les principaux ouvrages de PROUDHON sont édités aux éditions Marcel Rivière (Diffusion Sirey) : De la justice dans la Révolution et dans l'Église (4 volumes, 1858) ; Les confessions d'un révolutionnaire (1849) ; L'idée générale de la Révolution (1851) ; Qu'est-ce que la propriété ? (1840 et 1841) ; Carnets (6 volumes dont 2 publiés par P. HAUBTMANN aux éditions Rivière, 1960/ 1961).

9) Hippolyte TAINE, La Révolution française, Tome II, Des Origines de la France contempo­raine, R. Laffont, Paris, 1972.

10) Œuvres de LAMENNAIS : les principaux ouvrages sont édités aux éditions Le Milieu du Monde, Genève : Essai sur l'indifférence en matière de religion (1817/1824) ; L'avenir (1830/1831) ; Les paroles d'un croyant (1834) ; Le livre du peuple (1837) ; La question du travail, etc.

11) Carl E. SCHORSKE, German Social Demo­cracy, Cambridge, Mass., 1955.

12) F.G. DREYFUS, De Gaulle et le Gaullisme, PUF, coll. "politique d'aujourd'hui", Paris, 1982.

 

• III) L'IDÉOLOGIE GAULLIENNE :

 

1) Zeev STERNHELL, La droite révolutionnaire, Seuil, Paris, 1978.

2) F. LAFARGUE - Friedrich ENGELS, Correspondance, éditions sociales, Paris, 1956.

3) Maurice BARRÈS, articles de La Cocarde, cités par Z. STERNHELL, n° du 8/09/1894 et du 14/09/1890.

4) J.-L. LOUBET del BAYLE, Les non-confor­mistes des années 30, Seuil, Paris, 1969.

 

• IV) LA PARTICIPATION :

 

1) René CAPITANT, La réforme pancapitaliste, Flammarion, Paris, 1971.

2) René CAPITANT, Écrits politiques, Flamma­rion, Paris, 1971.

3) René CAPITANT, Démocratie et participation politique, Bordas, Paris, 1972.

4) Sur ce sujet, consulter aussi la revue ES­POIR, éditée par l'Institut Charles de Gaulle (5, rue de Solférino, 75007 PARIS), n° 10/11, 5, 17, 28, 35.

dimanche, 28 février 2010

Giappone: desecretati i patti clandestini imposti dagli USA

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Giappone: desecretati i patti clandestini imposti dagli USA

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Per anni i responsabili giapponesi hanno fatto di tutto per nascondere i patti clandestini firmati segretamente con gli Stati Uniti negli anni della guerra fredda, aventi lo scopo di assicurare agli Usa il controllo dell’Asia orientale; tali patti obbligavano il Giappone a far stazionare presso i propri porti armi nucleari statunitensi nonché a pagare il costo dell’occupazione militare americana.

Addirittura, nel 1972, dopo aver negato voci attendibili di protagonisti e diplomatici sull’esistenza degli accordi, fu arrestato un giornalista che aveva portato alla luce prove evidenti. Ora la questione torna alla ribalta grazie alla volontà del nuovo Governo giapponese, eletto la scorsa estate dopo un cinquantennio di ininterrotto governo liberal-democratico, che a quanto pare vuole farla finita con anni di reticenze e controllo burocratico. In febbraio sono infatti attese le risposte di un gruppo di studio creato ad hoc dal Ministero degli esteri.

Il Governo guidato da Yukio Hatoyama che si sta segnalando fra l’altro per l’indipendenza con cui sta reclamando il trasferimento di una base americana a Okinawa (tanto da aver ricevuto un richiamo ufficiale dal Ministro degli esteri Usa Hilary Clinton), sta spaventando i fautori del patronato Usa in Giappone, che temono un allontanamento di Tokyo da Washington.

Se questa sopravvenuta indipendenza non produrrà nel medio periodo la temuta fine dell’alleanza fra Giappone e Usa, considerata da questi ultimi una “pietra miliare” per la sicurezza (ossia sicurezza degli interessi strategici Usa)  dell’Asia orientale, di certo produrrà degli effetti culturali e politici non indifferenti. Primo fra tutti bisognerà ripensare i concetti che impediscono il riarmo nucleare del Giappone quando sarà evidente che armi nucleari sul suolo giapponese ci sono sempre state e per di più sotto controllo americano. E si porrà la possibilità di revisione della Costituzione “pacifista” imposta dai vincitori della seconda guerra mondiale, oltre che l’eventuale richiesta di eliminazione delle basi militari Usa ancora presenti.

La possibilità di raggiungere alcuni documenti non più secretati (ma quanti ancora lo sono?) darà la possibilità di sapere qualcosa in più su quanto successe subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e aiuterà a capire in che modo fu amministrata la forza americana dipanata nel mondo.

Questo sarà interessante anche per quanto riguarda l’Italia che nel dopoguerra ebbe, con tutte le differenze del caso, un trattamento per certi versi simile a quello giapponese, con l’istallazione di numerose basi Nato/Usa sia terrestri sia marittime sul proprio territorio, data l’importanza strategica durante la guerra fredda; gli archivi militari e civili, europei ed americani ci diranno sicuramente verità in più, che in tempi di democrazia (termine più che mai abusato a quanto pare), sarebbero dovute essere di dominio pubblico già da molto tempo, ma che, per gli effetti che potrebbero avere sul sistema di sicurezza statunitense, vengono rese note con reticenza quando non negate.

 


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Salauds de populistes?

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Salauds de populistes?

Ex: http://unitepopulaire.org/

« Certains journalistes, intellectuels ou dits tels, et autres intervenants de circonstance sortent du bois pour dénoncer le populisme. Mais voilà, le peuple a pris  la tangente et n’obéit plus. Alors que fait-on ? On parle des horreurs que peut entraîner cet affreux populisme. En direct de Paris, un parlementaire suisse, invité d’urgence par  notre radio, nous avertit gravement que le populisme peut conduire au totalitarisme. Un écrivain, incendiaire de chalet, allume un autre bûcher : le populisme n’est jamais aussi dangereux que lorsqu’il touche même les intellectuels. Nous voilà avertis : c’est un devoir de dénoncer, et violemment, ce populisme. Organisons-nous en clubs de vrais Suisses, créons des cercles kreisiens  qui voient le racisme partout ! Que le tocsin sonne, réveillons cette populace qui ne mérite que haine et mépris ! […]

Le populisme n’est rien de tout cela. Il existe des travaux remarquables sur ce phénomène. Quel média en fera une série, pour essayer de comprendre plutôt que de donner libre cours à la haine du haut envers le bas ? Ce sont les problèmes sociaux graves non résolus dont souffrent les couches populaires, et non l’élite bien lovée, qui débouchent sur le populisme. Mais ces problèmes ont été tus, car gênants pour la bien-pensance jusqu’à ce qu’ils deviennent insupportables pour ceux qui les subissent quotidiennement, et depuis des décennies. Alors ils votent “subitement” par dizaines  de milliers, même à Genève, pour ceux qui prétendent régler ces problèmes en une fraction de seconde, en désespoir de cause.

Qu’ont fait personnellement ces dénonciateurs hautains pour participer à la résolution de ces problèmes ? Rien, puisqu’ils n’osaient même pas en parler. Et là ils sortent du bois, avec quel effet? Ils vont renforcer la rancœur, toujours bien au chaud.

J.-F. Revel  résumait, il y a vingt ans déjà, le problème : les politiciens et les intellectuels qualifient avec mépris de populistes les mouvements politiques qu’ils n’ont pas senti venir. J’ajoute: et pour cause. »

 

Uli Windisch, Le Nouvelliste, 11 janvier 2010

Ezra Pound: The Liberty of Subsidy

Copie_de_Ezra_Pound_1971.jpgThe liberty of subsidy

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
Liberty is defined in the declaration of the Droits de l’homme, as they are proclaimed on the Aurillac monument, as the right to do anything that ne nuit pas aux autres. That does not harm others. This is the concept of liberty that started the enthusiasms in 1776 and in 1790. I see a member of the Seldes family giving half an underdone damn whether their yawps do harm or have any other effect save that of getting themselves advertised. If you were talking about the liberty of a responsible Press that is a different kettle of onions, and is something very near to the state of the Press in Italy at the moment. The irresponsible may be in a certain sense "free" though not always free of the consequences of their own irresponsibility, whatever the theoretical government, or even if there be no government whatsoever, but their freedom is NOT the ideal liberty of eighteenth-century preachers. A defect, among others, of puritanism, or of protestantism or of Calvin the damned, and Luther and all the rest of these blighters whom we Americans have, whether we like it or not, on our shoulders, is that it and they set up rigid prohibitions which take no count whatsoever of motive. Thou shalt not this and that and the other. This is a shallowness, it is the thought of inexperienced men, it is thought in two dimensions only.

What you want to know about the actions of a friend or mistress is WHY did he or she do it? If the act was done for affection you forgive it. It is only when the doer is indifferent to us that we care most for the effect. Doc Shelling used to say that the working man (American or other) wanted his rights and all of everybody else’s.“ The party ” in Russia has simplified things too far, perhaps ? too far ?We have in our time suffered a great clamour from those who ask to be “governed,” by which they mean mostly that they want to run yammering to their papa, the state, for jam, biscuits, and persistent help in every small trouble. What do they care about rights? What is liberty, if you can have subsidy?

Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini. L´idea statale. Fascism as I have seen it.. Stanley Nott, London 1936.

Presseschau 04/Februar 2010

giornalimmmmmmm.jpgPresseschau

04 / Februar 2010

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

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Karlheinz Weißmann über die Notwendigkeit metapolitischer Arbeit und den Zustand der Unionsparteien (Auszug aus dem Antaios-Gesprächsband):

Weißmann: (...) Die amerikanischen Konservativen haben die schöne Parole aufgebracht „ideas have consequences“ – „Ideen haben Konsequenzen“. Das entspricht genau meiner Anschauung. Denjenigen, die meinen, es komme nur darauf an, Personal zu plazieren, die Wirtschaft anzukurbeln oder einen Fernsehsender in die Hand zu kriegen, sei gesagt, daß das alles nicht genügen wird, wenn man keine Begriffe und keine Vorstellungen davon hat, welche Ziele man verfolgen will. Das 21. Jahrhundert wird die Legitimitätsfragen in einem ungeahnten Ausmaß zur Geltung bringen, darauf können Sie sich verlassen, und da ist einem mit „weiter so“ nicht geholfen.

Kubitschek: Trotzdem möchte ich noch einmal auf die Parteienfrage zurückkommen.

Weißmann: Ich habe niemals einer Partei angehört, ich gehöre keiner an und ich gedenke daran nichts zu ändern. Das bedeutet umgekehrt nicht, daß ich die Bedeutung von Parteien unterschätze. Sie sind in modernen Staaten ein wesentlicher Bestandteil des politischen Lebens. Das heißt aber nicht, daß ihre Existenz gottgegeben ist. Das gilt auch und gerade im Hinblick auf die Union. Man kann sich des Eindrucks nicht erwehren, daß CDU und CSU personell weitgehend ausgezehrt sind und jenseits des Machtgewinns überhaupt keine Ziele mehr kennen. Die Rechtfertigung des dauernden Opportunismus mit dem Charakter der Volkspartei, dem Wählerwillen etc. ist lächerlich. Tatsächlich weiß in dieser Partei niemand, wofür er inhaltlich steht. Es gibt noch ein paar Üblichkeiten, ein paar Vorbehalte, aber ansonsten nur eine große weltanschauliche Leere. Das zieht neben denjenigen, die aus Familientradition zur Union gehen, nur die an, die ihrerseits weltanschaulich leer sind oder Karrieristen. Wenn sich die Gesamtlage verschärft, wird man hier kaum jemanden finden, der die Situation meistern könnte oder wollte.

(Karlheinz Weißmann: Unsere Zeit kommt. Götz Kubitschek im Gespräch mit Karlheinz Weißmann, Schnellroda 2006, S. 85 f.)

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Ausbildungseinsatz in Kriegsgebiet
Afghanistan-Mission frustriert deutsche Polizisten
Von Jörg Diehl
Raketenangriffe, Selbstmordanschläge, Feuergefechte: In Afghanistan bilden deutsche Polizisten Einheimische aus – regelmäßig geraten sie dabei in Gefahr. Die Beamten fühlen sich für den Einsatz schlecht vorbereitet und halten viele afghanische Rekruten für untauglich. Sie zweifeln am Sinn der Mission.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,676729,00.html

Ist Gebirgsjäger-Skandal wirklich ein Skandal?
Mittenwald – Schweineleber oder Gärfisch? Für die einen ekelhaft, für die anderen eine Delikatesse. Im einen Fall werden Gebirgsjäger gegeißelt, im anderen Fall Biathletinnen gefeiert.
http://www.merkur-online.de/lokales/nachrichten/gebirgsjaeger-skandal-wirklich-skandal-628799.html

Mord an Hamas-Funktionär
Mutmaßliche Killer tarnten sich als Tennisspieler
Aus Abu Dhabi berichtet Alexander Smoltczyk
Der aufsehenerregende Mord an einem Hamas-Führer in Dubai war offensichtlich perfekt geplant. Die Killer sollen in einer geheimdienstartigen Blitzaktion zugeschlagen haben – die Polizei hält eine Beteiligung des Mossad für möglich. Sie fahndet nach elf Verdächtigen, unter ihnen ein Deutscher.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,678113,00.html

2010:
Obama setzt auf Atomkraft
Seit mehr als zwei Jahrzehnten ist in den USA kein neuer Meiler mehr gebaut worden. US-Präsident Obama will das ändern: Eine neue Kommission ist eingesetzt, Kreditgarantien für die Atomindustrie sollen verdreifacht werden.
http://www.sueddeutsche.de/politik/498/501751/text/
http://www.sueddeutsche.de/politik/174/503397/text/
http://www.tagesschau.de/obamaatomplaene100.html
http://www.handelsblatt.com/newsticker/politik/atom-obama-stellt-weichen-fuer-atomenergie;2521582

So hieß es noch 2009:
Wir wissen nicht, ob Barack Obama auf Kernkraft setzt
http://www.3sat.de/dynamic/sitegen/bin/sitegen.php?tab=2&source=/nano/bstuecke/132418/index.html

Und so 2008:
McCain will Atomkraftwerke, Obama will Ökostrom
http://www.welt.de/politik/article2121664/McCain_will_Atomkraftwerke_Obama_will_Oekostrom.html
http://www.nzz.ch/nachrichten/international/mccain_setzt_auf_atomkraft__obama_auf_sonnenenergie_1.769728.html

CDU-Kritiker protestieren gegen Linkstrend
BERLIN. Mit einem „Manifest gegen den Linkstrend“ hat eine Reihe ehemaliger CDU-Politiker und Publizisten auf die Berliner Erklärung der CDU reagiert. In dem Aufruf fordern die Unterzeichner um den ehemaligen CDU-Bundesrichter Friedrich-Wilhelm Siebeke von der Parteiführung eine „grundlegende politische Kurskorrektur, eine geistige Wende“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M546359fa06e.0.html

CDU-Politiker weisen Kritik am Kurs der Partei zurück
BERLIN. Führende CDU-Politiker haben den Vorwurf eines Linkstrends ihrer Partei zurückgewiesen. CDU-Generalsekretär Hermann Gröhe sagte der Welt, der CDU zu unterstellen, sie sei nach links gerückt, sei „absurd“.
Auch der Parlamentarische Geschäftsführer der Unionsfraktion, Peter Altmaier, verwahrte sich gegen den Vorwurf. Vielmehr sei die CDU unter der Führung von Bundeskanzlerin Angela Merkel in die Mitte gerückt, sagte Altmeier im Deutschlandfunk.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M542354c6fd1.0.html

Aktion Linkstrend stoppen
Von Karlheinz Weißmann
Die Initiative „Stoppen Sie den Linkstrend“, die der ehemalige CDU-Bundesrichter Friedrich-Wilhelm Siebeke angestoßen hat, ist eine honorige Sache. Das, was die Unterzeichner, meistens ältere und ausgewiesen konservative Parteimitglieder fordern, kann man nur unterstützen: Schluß mit der Verschuldung, dem Multikulturalismus, der weichen Gesellschafts- und Schulpolitik, dem einseitigen Gedenken, massenhafter Abtreibung, schleichender Islamisierung.
Allerdings fragt sich der wohlwollende Betrachter, ob die Initiatoren im Ernst glauben, mit ihrem Manifest die „geistige Wende“ einzuleiten. Selbst wenn man annimmt, daß sie für einen Teil der schweigenden Unionsbasis sprechen: Sie repräsentieren keinen Flügel der Partei, sie haben keinen aktiven Bundes- oder Landtagsabgeordneten, der offen auf ihre Seite tritt, und Angela Merkel wird der Vorgang nicht einmal eine Stellungnahme wert sein. (...).
http://www.sezession.de/12321/aktion-linkstrend-stoppen.html#more-12321

Reconquista in der CDU
Von Dieter Stein
Wer sich an den Regierungsantritt von Helmut Kohl 1982 zurückerinnert, der weiß: Wenn CDU/CSU und FDP eine Koalition eingehen, stellt sich sofort die Frage der Integrationsfähigkeit nach rechts. Damals hatte Kohl mit seiner Forderung nach einer „geistig-moralischen Wende“ Erwartungen unter Konservativen geweckt, eine von der Union geführte Regierung werde politisch wesentliche Korrekturen vornehmen. Schon nach nur einem Jahr traten erhebliche Friktionen zutage, als klar wurde, daß Kohl nicht nur deutschland-, sondern auch gesellschaftspolitisch bruchlos an die sozial-liberale Vorgängerregierung anknüpfte.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b44c8e75e8.0.html

Private Abrüstung: Niedersachsen gibt seine Waffen ab
http://www.spiegel.de/video/video-1045023.html

Streit über Regelsätze
Hartz-IV-Forscher springen Westerwelle bei
Guido Westerwelle mag sich bei seiner Hartz-IV-Schelte im Ton vergriffen haben – in der Sache aber hat er recht, sagen Ökonomen des Kieler Instituts für Weltwirtschaft. Sie legen neue Zahlen vor, die klarmachen: Für viele Arbeitslosengeld-II-Empfänger rentiert sich ein regulärer Job schlicht nicht. Von Anne Seith und Alexander Landsberg
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,678478,00.html

Immobilienblase
US-Experten fürchten den nächsten Mega-Crash
Von Marc Pitzke, New York
Die US-Regierung verbreitet Optimismus, die Rezession sei überstanden. Doch renommierte Experten widersprechen: Sie warnen vor einem neuen, katastrophalen Crash. Diesmal auf dem Markt für Gewerbeimmobilien samt riesigen Mietwohnungskomplexen. Betroffen wäre fast jeder Amerikaner – und die Deutsche Bank.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,678126,00.html

Defizit-Kosmetik
Griechenland zahlte 300 Millionen Dollar an Goldman Sachs
Wall-Street-Banker sind an der katastrophalen Schuldenkrise Griechenlands in großem Stil beteiligt. Vor neun Jahren schon half Goldman Sachs dem maroden Land, Milliardenschulden zu verbergen – für ein stattliches Entgelt, wie die „New York Times“ berichtet.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,677750,00.html#ref=nldt


In Würde trauern
Von Thorsten Hinz
Der Trauermarsch, den eine Junge Landsmannschaft Ostdeutschland zum 65. Jahrestag des anglo-amerikanischen Bombenangriffs auf Dresden plant, steht unter dem Motto: „Gegen Krieg, Bombenterror und Vertreibung!“ Ein unanfechtbarer Appell, selbst wenn man in Rechnung stellt, daß es den Organisatoren um die politische Provokation und den schmerzenden Stachel für den offiziellen Gedenkbetrieb geht statt um die Bekundung von Trauer.
Ihre Erwartung hat sich bereits erfüllt. Seit Wochen findet eine Gegenmobilisierung statt, die einschlägige Antifa-Initiativen, Politiker, Künstler, Gewerkschafter, Kirchenführer, Medienvertreter – die sogenannte Zivilgesellschaft – umfaßt. Am 13. Februar soll eine Menschenkette durch die Dresdner Innenstadt gebildet werden. Die Teilnehmer sind aufgerufen, sich eine weiße Rose anzuheften: eine obszöne Berufung auf die 1943 hingerichteten Geschwister Scholl. Die Scholls handelten unter Lebensgefahr, gestützt allein auf ihr Gewissen und aus der konsequentesten Sezession heraus. Die Gegendemonstranten haben das staatliche und mediale Wohlwollen auf ihrer Seite und die Aussicht auf ein herzerwärmendes Kollektiverlebnis. Zum Bombenjubiläum die Widerstandsinszenierung als Wochenendspaß! Wer sich so etwas ausdenkt, hat die Trauermarschierer wirklich verdient.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5e4fabeee6f.0.html

Warum nicht jede Seite die falsche ist
Von Götz Kubitschek
Die offiziellen Zahlen reichen aus: Selbst wenn bei der Bombardierung Dresdens nur die von einer Historikerkommission im Jahre 2008 angenommenen rund 25000 Menschen umkamen (verbrannten, erstickten, erschlagen und zerfetzt wurden), hätte die Bundesregierung Jahr für Jahr in einer großen Veranstaltung einem unvergleichlichen Vernichtungsverbrechen zu gedenken.
Aber sie kommt dieser nationalen Erinnerungspflicht nicht nach, die Repräsentanz der Nation, und daß offiziell also nicht angemessen gedacht wird – auch in Hamburg oder Pforzheim oder Halberstadt oderoderoder nicht – ist geschichtspolitisch so bedeutsam, daß man vor dieser Lücke nicht unentschieden stehen kann.
http://www.sezession.de/11947/warum-nicht-jede-seite-die-falsche-ist.html#more-11947

Kundgebung in Dresden aufgelöst
DRESDEN. Die Kundgebung der Jungen Landsmannschaft Ostdeutschland (JLO) aus Anlaß der Bombardierung der Stadt Dresden vor 65 Jahren ist am Samstag um 17 Uhr vom Versammlungsleiter aufgelöst worden.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M555a9b65a6e.0.html

Ich war dabei
Von Ellen Kositza
Noch auf der Autobahn Richtung Dresden stand keineswegs fest, ob wir uns zu den Trauermärschlern der Jungen Landsmannschaft gesellen würden. Besser: inwiefern den Ankündigungen zu trauen sei, daß es sich um eine würdige Gedenkveranstaltung handeln würde. Die Jahre davor, so hatten uns Veteranen dieser Veranstaltung berichtet, sei das tatsächlich so gewesen. Das sei kein Glatzenaufmarsch, sondern ein sehr stilles, ja schweigsames „Gesichtzeigen“.
http://www.sezession.de/12126/ich-war-dabei.html#more-12126

Linke Gewalt in Dresden – Indifferenzen
Von Götz Kubitschek
Man tut gut daran, selbst vor Ort zu gehen, um hinterher zu wissen, was geschehen ist und was nicht. Auf der Rückfahrt von Dresden war mir klar, daß es über die linke Gewalt kein klares Wort in den Medien geben würde. Dabei gibt es zahlreiche Bilder und Filmausschnitte sowie Berichte über die Gewalt linker Schlägertrupps, die wahlweise rechte Trauermarschteilnehmer oder Polizisten angriffen. Ein paar Links setze ich unten.
http://www.sezession.de/12147/linke-gewalt-in-dresden-indifferenzen.html#more-12147

So wurde von den Linken mobilisiert ...
No pasaran! Antinazi-Demo Mobi-Clip Dresden 13.02.2010
http://www.youtube.com/watch?v=QE2bKXOAvzs

Gemeinsame Webseite von „Autonomen“ und Alt-Stalinisten
http://komunya.org/

Albrecht Schröter in Dresden
Von Felix Menzel
Am 29. und 30. Januar 2010 organisierte der Oberbürgermeister von Jena, Albrecht Schröter (SPD), eine Konferenz zum Thema „Kommunen gegen Rechtsextremismus“ und lud dazu Vertreter aus mitteldeutschen Städten und „zivilgesellschaftliche Initiativen“ ein. Seine Strategie im „Kampf gegen rechts“ zeigte sich nun am 13. Februar in Dresden.
Schröter sprach am Sonnabend auf einer nicht angemeldeten Demonstration des Bündnisses „Dresden Nazifrei“ auf dem Albertplatz in der Neustadt. Stern.de hat diesen Auftritt zusammengefaßt.
http://www.sezession.de/12155/albrecht-schroeter-in-dresden.html#more-12155

Ich war dabei (II)
Von Martin Lichtmesz
Ich bin im geradezu militärisch abgeriegelten Dresden-Neustadt um etwa halb neun eingetroffen, als die Polizei gerade erst begann, die feindlichen Lager auseinanderzusortieren. Mit dem bloßen Auge ist das gar nicht so einfach. Bei einer Gruppe mit schwarzen Anoraks, Palitüchern und Kapuzen, die neben mir ihr Frühstück einnahm, war es mir auch physiognomisch nicht möglich, die Glaubensrichtung zu bestimmen.
http://www.sezession.de/12148/ich-war-dabei-ii.html

Biedermänner und Brandstifter (Rückblick auf Dresden)
Von Martin Lichtmesz
Die Berichterstattung der Mainstream-Medien über die Demoblockade von Dresden geriet wie erwartet zum diffusen Feelgood-Geschunkel, gepflastert mit dem üblichen abgedroschenen Vokabular, das auf Reflexe und Emotionen, nicht aber auf Erhellung der Situation abzielt.
Eine kleine Auswahl, erstellt via Google-News-Suche:  „Ein Bollwerk gegen die Ewiggestrigen“ (Zeit online).“Dresden und die Neonazis: die anständigen Aufständischen“ (Stern).  „Dresden bietet Neonazis die Stirn“ (Focus). “Dresdner Debakel für die Neonazis stärkt die Zivilgesellschaft“ (Wiener Zeitung).“Buntes Dresden stoppt braune Einfalt“ (Neues Deutschland). „Dresden wehrt sich erfolgreich gegen Rechts“ (Welt).  „Dresden stemmt sich gegen die Geschichtsklitterer“ (Spiegel Online).
http://www.sezession.de/12272/biedermaenner-und-brandstifter-rueckblick-auf-dresden.html#more-12272

Dresdner Nachlese: Rosen von Götz Aly
Normalerweise halte ich es mit Nietzsche: Ohne Geschichtsbewußtsein sinkt man zum blöde blinzelnden, letzten Menschen herab, doch zuviel davon drückt einen ebenfalls nieder. Auch halte ich es mit dem Ausspruch: Kommt Zeit, vergeht Unrat! Andererseits fällt in unserer schnellebigen Zeit viel zu viel unter den Tisch, das es verdient hat, aufgehoben und in seiner Bedeutung erkannt zu werden. So eine Kostbarkeit stellt der am 9. Februar in der Berliner Zeitung veröffentliche Kommentar „Dresden und Auschwitz“ des Historikers und Publizisten Götz Aly dar.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5fdf5639d17.0.html

„Jetzt werde ich etwas tun“
Hitler-Gegnerin und BDM-Mädel, kühle Hochbegabte und verliebter Teenie, wilde Tänzerin und strenge Asketin: Hinter der Widerstandsikone Sophie Scholl entdeckt die bislang umfassendste Biografie des berühmtesten Mitglieds der „Weißen Rose“ eine junge Frau voller menschlicher Widersprüche. Von Katja Iken
[Viele dieser vermeintlichen „Widersprüche“ dürften sich wohl in Luft auflösen, wenn man weiß, daß sie eine deutsche Patriotin war und nicht zuletzt aus dieser Motivation heraus handelte ...]
http://einestages.spiegel.de/static/topicalbumbackground/6144/_jetzt_werde_ich_etwas_tun.html

Kinofilm: „Jud Süß – Film ohne Gewissen“
Kunstfreiheit oder Geschichtsfälschung?
http://www.br-online.de/bayerisches-fernsehen/kino-kino/oskar-roehler-jud-suess-film-ohne-gewissen-hintergrund-ID1266405396822.xml
http://derstandard.at/1266279110570/Vor-der-Premiere-Jud-Suess-Produzenten-weisen-Vorwuerfe-zurueck

Das bewältigende Klassenzimmer (Teil 1: Sichtung)
Von Claus Wolfschlag
Während der 70er und 80er Jahre geisterten regelmäßig Warnrufe von Pädagogen oder Polit-Lobbyisten durch den Blätterwald, nach denen die deutschen Schüler viel zu geringe Kenntnisse über die NS-Zeit besäßen. Wieviel Kenntnisse Jugendliche von Karl dem Großen oder Bismarck hatten, wurde dabei nie gefragt oder in Relation gesetzt.
Schon damals wirkten die Kassandra-Rufe penetrant und angestaubt. Sie kamen primär aus der Alt-68er-Ecke und somit sei einmal entlastend in Erwägung gezogen, daß das Bewußtsein jener Wissenschaftler und Meinungsforscher schlicht in ihrem Heimatkundeunterricht der 50er Jahre steckengeblieben sein mochte. Mittlerweile sind die Warnrufe aus dieser Ecke weitgehend verstummt, allzu peinlich und weltfremd wäre es heute wohl, mangelnde NS-Aufarbeitung ausgerechnet dem Schulunterricht noch anlasten zu wollen.
http://www.sezession.de/12361/das-bewaeltigende-klassenzimmer-teil-1-sichtung.html

Das bewältigende Klassenzimmer (Teil 2: Schlußfolgerung)
Von Claus Wolfschlag
Woher rührt der Drang nach solchermaßen forcierter Vergangenheitsbewältigung im Klassenzimmer, wie ich sie exemplarisch am Projektplan des Kölner Maximilian-Kolbe-Gymnasiums (mkg) veranschaulichen konnte? Welche Interessen werden da vertreten? Was reitet das pädagogische Personal?
http://www.sezession.de/12364/das-bewaeltigende-klassenzimmer-teil-2-schlussfolgerung.html#more-12364

CDU ...
Lammert will mehr Migranten einbürgern
Auch der Bundestagspräsident Dr. Norbert Lammert (CDU) wirbt jetzt fleißig bei Migranten um deren Einbürgerung: „Unser Problem in Deutschland ist nicht eine zu hohe Zuwanderung, sondern die zu geringe Einbürgerung.“
http://www.pi-news.net/2010/02/lammert-will-mehr-migranten-einbuergern/

München: Türke verlangt Wegezoll
Die multikulturelle Bereicherung ist schon weit fortgeschritten. Wegezoll verlangte jetzt in München-Ramersdorf ein Türke von einem deutschen Nachtbummler, die gebotenen zehn Euro waren ihm aber zu wenig. Er drohte mit der Tötung seines Opfers und nahm die ganze Geldbörse.
http://www.pi-news.net/2010/02/muenchen-tuerke-verlangt-wegezoll/

Hamburg
Fahndung nach Bus-Schlägern mit Video-Bildern
Wegen einer Lappalie haben zwei junge Männer einen Fahrgast in der Hamburger Linienbus halbtot geschlagen: Ein 19jähriger hatte sich über die laute Musik beschwert, woraufhin die Schläger den jungen Mann lebensgefährlich verletzten. Jetzt sucht die Polizei die Täter mit Bildern der Überwachungskamera.
http://www.welt.de/vermischtes/article6429328/Fahndung-nach-Bus-Schlaegern-mit-Video-Bildern.html

Verdächtige stellen sich nach Attacke in Hamburger Linienbus
Nach dem lebensgefährlichen Angriff von zwei jungen Männern auf einen 19jährigen in einem Hamburger Linienbus haben sich die beiden Verdächtigen der Polizei gestellt.
http://portal.gmx.net/de/themen/nachrichten/panorama/9899308-Hamburg-Angreifer-stellen-sich-der-Polizei.html#.00000002

Offenbach
Mit gezielten Schlägen und Tritten wehrte sich ein 31jähriger Mann aus Obertshausen
Opfer hatte schlagende Argumente
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/opfer-hatte-schlagende-argumente-633313.html

„Südländer“ jagen Punks
Punks fühlen sich politisch für gewöhnlich am linken Rand zuhause, sind im „Kampf gegen Rechts“ ganz vorn dabei. Und weil es gut tut, sich andere vorzustellen, die noch weiter unten sind als man selber, fühlen sie sich besonders berufen, angeblich verfolgte Südländer vor bösen Deutschen zu schützen. Pech, daß die das nicht immer zu würdigen wissen. Einige Südländer in Hildesheim betrachten die Angelegenheit offenbar wenig differenziert.
http://www.pi-news.net/2010/02/suedlaender-jagen-punks/#more-118235

Offenbach/Darmstadt
Fußballprügel-Prozeß: Landgericht bestätigt Urteil
Jugendliche 27 Monate nach der Tat bestraft
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/fussball-pruegel-prozess-jugendliche-bestraft-627167.html

Hier nochmals der Hintergrund:
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/gedaechtnisdunkel-gasse-347082.html

TV-Kritik: „Alt geworden in der Fremde“
Zufällig stieß ich am Sonntagabend auf eine Sendung von BR Alpha mit dem Titel „Alt geworden in der Fremde – Muslime in Deutschland“, dieser Titel machte mich neugierig. Schon nach wenigen Augenblicken wurde mir klar, um was es in dieser Sendung geht: Die Muslime stellen Forderungen, die von bösen Deutschen jedoch nicht erfüllt werden.
http://www.pi-news.net/2010/02/tv-kritik-alt-geworden-in-der-fremde/#more-119016

BNP öffnet sich für Einwanderer
LONDON. Die rechte British National Party hat beschlossen, künftig auch Farbige aufzunehmen. Mit diesem Beschluß eines Sonderparteitages entgeht die Partei einer Klage durch die Kommission für Gleichberechtigung und Menschenrechte (EHRC). Diese hatte die bisherige Parteisatzung als nicht vereinbar mit dem britischen Anti-Diskriminierungsgesetz bewertet.
Neben einer möglichen Haftstrafe für Parteichef Nick Griffin hätten die Prozeßkosten die Partei finanziell ruinieren können. Griffin erklärte in einem Rundschreiben, daß man sich jedoch weiterhin für die einheimischen Briten einsetze. „Wir werden uns weiterhin zum Recht der ethnischen Briten bekennen, als ein ethnisches Volk mit allen gültigen Rechten anerkannt zu werden.“
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M51131ae2714.0.html

Udo Ulfkotte
Ethnische Europäer: Menschen zweiter Klasse
http://info.kopp-verlag.de/nc/news/ethnische-europaeer-menschen-zweiter-klasse.html

Debatte um Islamkritiker
Im Zweifel für den Populisten
Aus Den Haag berichtet Henryk M. Broder
Für manche ist er ein Freiheitskämpfer, für andere ein Haßprediger: Geert Wilders steht in den Niederlanden wegen Volksverhetzung vor Gericht. Ein peinlicher Prozeß, der die zentrale Frage unbeantwortet läßt: Warum sollte eine demokratische Gesellschaft eine Meinung bestrafen?
http://www.spiegel.de/kultur/gesellschaft/0,1518,678451,00.html

Italien
Mailänder Migranten liefern sich blutige Kämpfe
In einem überwiegend von Einwanderern bewohnten Viertel von Mailand ist es zu schweren Auseinandersetzungen gekommen. Auslöser war die Ermordung eines jungen Ägypters, der offenbar von einem Lateinamerikaner niedergestochen wurde.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,677775,00.html#ref=nldt

Tod eines jungen Ägypters
Mailands Immigranten-Viertel wird zum Pulverfaß
Von Martin Zöller
Dutzende Einwanderer aus Nordafrika warfen Fensterscheiben ein und Autos um. Ausgelöst wurden die schweren Ausschreitungen in Mailand durch einen Mord an einem jungen Ägypter. Kritiker der Regierung beklagen nach den heftigen Unruhen jetzt eine verfehlte Einwanderungspolitik.
http://www.welt.de/politik/ausland/article6410433/Mailands-Immigranten-Viertel-wird-zum-Pulverfass.html

Das kann auch noch auf uns zukommmen ...
Eigene Partei
Bushido will Bürgermeister von Berlin werden
http://www.augsburger-allgemeine.de/Home/Nachrichten/Aus-aller-Welt/Artikel,-Bushido-will-Buergermeister-von-Berlin-werden-_arid,2073495_regid,2_puid,2_pageid,4293.html
http://www.gala.de/stars/ticker/BSBS95600/Bushido-plant-eigene-Partei.html

Bushido
„Du hast theoretisch einen Mord frei“
Rapper Bushido vergleicht Jugendstrafanstalten in Deutschland mit einem Jugendclub. Allgemein hätten die Strafen für Verbrechen wie Diebstahl oder Mord keine abschreckende Wirkung.
http://www.focus.de/panorama/boulevard/bushido-du-hast-theoretisch-einen-mord-frei_aid_477985.html

Mit Hegiss hat die Stadt ein Projekt geschaffen, das auch dem DFB und Mercedes gefällt
Dietzenbach erhält Integrationspreis
http://www.op-online.de/nachrichten/dietzenbach/dietzenbach-erhaelt-integrationspreis-634644.html

Tag der Muttersprache:
1.000 Gründe für die deutsche Sprache gesucht
Erlangen, 19. Februar 2010 – „1.000 Gründe für die deutsche Sprache“ will die DEUTSCHE SPRACHWELT mit vereinten Kräften zusammentragen. Anläßlich des Internationalen Tags der Muttersprache am 21. Februar stellte die Sprachzeitschrift heute ihre Aktion vor. Ziel ist es, ein Zeichen gegen die Verdrängung der deutschen Sprache zu setzen und das Bewußtsein für den Wert der Muttersprache zu fördern, erklärte Chefredakteur Thomas Paulwitz.
Die DEUTSCHE SPRACHWELT ruft deswegen alle Freunde der deutschen Sprache auf, ihre Zuneigung zur deutschen Sprache zu begründen und den Satz „Ich mag die deutsche Sprache, weil .“ zu ergänzen. Über einhundert Gründe hat die Sprachzeitung bereits mit Hilfe ihrer Leser gesammelt und ins Netz gestellt. Wer will, kann die Bekundung seiner Sympathie für Deutsch über ein Eingabeformular an die DEUTSCHE SPRACHWELT senden. Die Sprachzeitung veröffentlicht die Gründe dann auf einer eigenen Netzseite, die sie fortlaufend ergänzt.
http://deutschesprachwelt.de/berichte/pm-2010-02-19.shtml
http://www.deutsche-sprachwelt.de/forum/1000.shtml

Anglizismen
Nie wieder „Kiss & Ride“ mit der Deutschen Bahn
http://www.zeit.de/wirtschaft/unternehmen/2010-02/deutsche-bahn-anglizismen

Wieder mal Abrisse für ein Einkaufszentrum ...
Leipzig
Abbruch in der Henricistraße: Nach zehn Jahren droht Lindenau doch noch ein überdimensioniertes Einkaufs-Center
http://www.l-iz.de/Politik/Brennpunkt/2010/02/Abbruch-Henricistrasse-Lindenau-Einkaufscenter.html

Bürgerwiderstand zahlt sich manchmal doch aus ...
Velbert
Denkmalschützer entscheiden
Die Villa Herminghaus bleibt
http://www.derwesten.de/staedte/velbert/Die-Villa-Herminghaus-bleibt-id2604814.html
http://www.derwesten.de/staedte/velbert/Buergerbegehren-geht-weiter-id2610487.html

Berlin Stadtentwicklung
Bauakademie darf auferstehen
http://www.taz.de/1/berlin/artikel/1/bauakademie-darf-auferstehen/

Eisiger Dauerfrost
Jetzt kämpfen selbst Wildschweine ums Überleben
Von Katharina Wiechers
Einen solchen Winter hat es seit Jahrzehnten nicht gegeben: Seit Wochen liegen große Teile Deutschlands unter einer dichten Schneedecke – hart und kompakt durch den Wechsel von Tauwetter und Minusgraden. Als Folge sind zahlreiche Wildtiere verhungert. Landkreise haben die sogenannte Notzeit ausgerufen.
http://www.welt.de/wissenschaft/umwelt/article6333255/Jetzt-kaempfen-selbst-Wildschweine-ums-Ueberleben.html

L'itinéraire d'Ernst Niekisch

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1985

L'itinéraire d'Ernst Niekisch

par Thierry Mudry

niek.jpgErnst Niekisch n'est plus un inconnu: de nombreux ouvrages ont longuement évoqué son itinéraire et ses idées, un certain nombre lui ont été entièrement consacré (1). Le dernier en date, "Ernst Niekisch und der revolutionärer Nationalismus" d'Uwe Sauermann, ne concerne bien sûr qu'une période dans l'engagement intellectuel et politique d'Ernst Niekisch, la période nationaliste révolutionnaire (baptisée à tort "national-bolchévique") qui coïncide avec la période de parution de la revue "Widerstand" ("Résistance") que dirigeait Ernst Niekisch de 1926 à 1934). Ne sont pas concernées la période social-démocrate antérieure à 1926, évoquée dans l'ouvrage de Sauermann pour mémoire, et la période postérieure à la guerre (après 1945, Niekisch, devenu marxiste, occupera un poste d'enseignant à l'Université Humboldt de Berlin-Est).

 

Uwe Sauermann se livre à une étude minutieuse de la revue "Widerstand" (il n'hésite pas à recourir à une analyse quantitative des textes afin d'en tirer les concepts-clés) et à travers elle, il étudie l'évolution intellectuelle et la démarche politique d' Ernst Niekisch et de ses amis entre 1926 et 1934. Cette étude s'articule en quatre parties :

-la première porte sur le développement de la revue

-la deuxième sur la position de la revue face au national-socialisme

-la troisième partie sur l'idéologie spécifique de "Widerstand"

-la quatrième sur le rôle de "Widerstand" et du mouvement constitué autour de la revue dans la culture politique de la République de Weimar.

 

Ernst Niekisch : de la social-démocratie au nationalisme

 

Ernst Niekisch joue un rôle non négligeable dans la social-démocratie allemande au lendemain de la première Guerre Mondiale. Le 8 novembre 1918, Ernst Niekisch, alors jeune instituteur social-démocrate, crée le Conseil des ouvriers et soldats d'Augsburg dont il devient le président. Le 21 février 1919, il est élu président du Comité Central des Conseils de Bavière mais il refuse de participer à l'expérience de la République des Conseils de Bavière et à la République soviétique de Bavière; il est condamné à deux ans de prison pour "complicité de haute trahison". Passé à l'USPD (Parti social-démocrate indépendant, aile gau-che dissidente de la social-démocratie) au Landtag de Bavière. En 1922, en même temps que la plupart des "indépendants", Niekisch rejoint la social-démocratie. Une brillante carrière politique semble s'ouvrir à lui. Mais Niekisch quitte Munich pour Berlin où il devient secrétaire de l'organisation de jeunesse du syndicat des ouvriers du textile; il n'est plus qu'un modeste fonctionnaire syndical. A partir de l'automne 1924, Niekisch exprime dans la revue socialiste "Der Firn" ("Le Névé") dont il est le rédacteur en chef, des opinions "nationales" qui se transforment rapidement par la suite en un natio-nalisme ultra et "machiavélien". A la même époque, Niekisch entre en contact avec le "Cercle de Hofgeismar" des jeunes socialistes, de tendance nationaliste. La "politique d"exécution" du Traité de Versailles et l'occupation de la Ruhr par les troupes franco-belges ont provoqué chez Niekisch, comme chez certains jeu-nes socialistes une prise de conscience nationale. Violemment pris à partie au sein de la SPD, Niekisch quitte le Parti au début de l'année 1926 suivi par les membres du Cercle de Hofgeismar.

 

En 1926, Niekisch adhère au Parti "vieux social-démocrate" (A-SP) fondé par 23 députés socialistes du Landtag de Saxe. Niekisch devient directeur de pu-blication du quotidien de l'A-SP, le "Volkstaat". Rapidement, il passe pour le "guide spirituel" du nouveau Parti (P.44). Lors du Congrès de Dresde de l'A-SP, Niekisch appelle les travailleurs à une "conscience d'Etat et de peuple", et il in-vite la République à s'attacher "passio-nément" au relèvement de l'Allemagne (note 1, P.47). En même temps, avec d'an-ciens membres du Cercle de Hofgeismar, Niekisch fonde la revue "Widerstand" et y apporte une note personnelle.

 

Les élections législatives de mai 1928 sont un échec total pour l'A-SP. En novembre, Niekisch quitte l'A-SP après que le troisième Congrès du Parti ait rejeté son projet de programme (P.65). La revue "Widerstand" coupe alors tous les ponts avec le socialisme (traditionnel) et bascule totalement dans le camp de l'extrême-droite nationaliste. Dès 1926, alors que les jeunes socialistes quit-taient la revue, "Widerstand" avait ouvert ses colonnes à des nationalistes et  s'é-tait attaché comme collaborateurs per-manents les responsables des groupes pa-ramilitaires "Oberland" et "Wehrwolf" ainsi que l'écrivain "ancien combattant" Franz Schauwecker, un proche d'Ernst Jünger. En 1929, Friedrich-Georg et Ernst Jünger, porte-parole du "nouveau natio-nalisme" font leur entrée dans la revue.

 

Entre 1928 et 1930, Niekisch prend l'initiative d'actions unitaires dans le camp nationaliste. En octobre 1928, il réussit à réunir les chefs des groupes paramilitaires "Stahlhelm", "Jungdo", "Wehrwolf", "Oberland", etc., afin de con-stituer un "cercle de chefs" ("Führerring"). Cette entreprise unitaire (déjà tentée quelques années plus tôt par Ernst Jünger) échouera finalement. En 1929, Niekisch tente de réunir les ligues de jeunesse et les associations d'étudiants dans une "ac-tion de jeunesse" contre le Plan Young. C'est un demi succès. Par la suite, Niekisch se contentera de susciter un "mouvement de résistance" autour de la revue, à partir des "Camaraderies Ober-land" (une partie du groupe "Oberland" est en effet acquise à ses thèses). Ce mouvement entre dans la clandestinité en 1933; il sera finalement démantelé par la Gestapo en 1937 et ses responsables, dont Niekisch, emprisonnés(2).

 

En 1930, la radicalisation de "Wider-stand", la prise en main totale par Nie-kisch… et son mauvais caractère ("désa-gréable et sentencieux", il prétend "savoir toujours tout mieux que les autres"; cfr. p. 74); il est considéré comme un "Ober-lehrer", un désagréable donneur de leçons, par la nouvelle génération nationaliste) provoquent le départ de certains colla-borateurs de la revue, celui notamment d'Auguste Winnig, et entraînent la margi-nalisation de "Widerstand" au sein du camp nationaliste.

 

"Widerstand" :

Du "Nationalisme prolétarien" au "Bolchévisme prussien".

 

widerstand.jpgDe l'écheveau apparemment inextri-cable des actions menées et des thèmes développés par Niekisch et "Widerstand", Uwe Sauermann dégage un fil directeur: le nationalisme absolu, inconditionnel, (un-bedingt) professé par Niekisch dès les années 25-26.

- Niekisch pense d'abord qu'il échoit à la classe ouvrière d'incarner ce nationa-lisme et d'en réaliser le programme (un programme de politique extérieure), con-tre le Traité de Versailles, système d'op-pression (oppression politique de l'Alle-magne par les puissances occidentales, oppression sociale des travailleurs par le capitalisme international). C'est l'époque du "nationalisme prolétarien" (1925/ 1928). L'influence de Lassalle est mani-feste.

-Puis les espoirs de Niekisch se portent sur les groupes paramilitaires et les ligues de jeunesse nationalistes. En même temps, Niekisch découvre derrière le Traité de Versailles l'Occident, et particulièrement la Romanité, qui mena-cent l' "Etre allemand". Il découvre aussi la "protestation allemande" contre Rome qu'incarnait Luther, et l' "esprit de Potsdam" qui incarnait la vieille Prusse, qui fondent tous deux la non-occidentalité de l'Allemagne. C'est l'époque de la "Wi-derstandsgesinnung" (1928-1930), comme l'appelle Sauermann.

-L'idéologie de "Widerstand" se radica-lise en 1930-1931 et donne naissance au "bochévisme prussien": Niekisch pense que l'Allemagne doit se tourner vers l'Est pour échapper à l'Occident, particulièrement vers la Russie soviétique qui est l'anti-Occident et qui incarne désormais l' "esprit de Potsdam" (qui a échappé à l'Allemagne et que l'Allemagne doit re-prendre aux Russes). Niekisch place alors ses espoirs dans la paysannerie, et, pen-dant un temps aussi, dans le prolétariat révolutionnaire (c'est-à-dire le Parti Communiste allemand qu'il considère comme un "avant-poste" de la Russie so-viétique), à condition qu'il soit placé sous une direction (spirituelle) nationaliste.

-Enfin, Niekisch, impressionné par les réalisations du Plan quinquennal et de la collectivisation soviétiques (il fit un voyage en Russie en 1932) ainsi que par la lecture du "Travailleur" de Jünger, pres-sent l'apparition d'une "Troisième Figure Impériale" planétaire, dont la ratio sera technique et qui supplantera l'"éternel Romain" (dont la ratio est métaphysique) et l'"éternel Juif" (dont la ratio est éco-nomique)(3). Niekisch s'éloigne du natio-nalisme absolu qu'il professait jusqu'a-lors.

 

En 1926-27, la revue "Widerstand" prône un nationalisme prolétarien dont Niekisch affirme qu'il n'est en aucun point semblable au nationalisme "social-réac-tionnaire" de la bourgeoisie (p. 180). Ce nationalisme prolétarien, qui plonge ses origines à la fois dans l'idéologie du Cercle de Hofgeismar et dans les écrits antérieurs de Niekisch, repose sur trois idées-forces :

1. La classe ouvrière, en raison de son attitude fondamentalement collectiviste ("kollektivistische Grundhaltung"), parce qu'elle ne possède rien et échappe ainsi "aux motivations égoïstes de la propriété individuelle", peut devenir l'organe le plus pur de la raison d'Etat et la classe nationale (porteuse du nationalisme) par excellence;

2. Le capitalisme international as-servit l'Allemagne et l'Allemagne est devenue, depuis la guerre et le Traité de Versailles, une nation prolétaire;

3. La révolution sociale contre les exploiteurs occidentaux du prolétariat allemand et la révolution nationale contre le Traité de Versailles sont étroitement liées (pp. 180 à 182).

 

Après avoir idéalisé le prolétariat, Niekisch, déçu par l'expérience de l'A-SP, reporte ses espoirs sur la "minorité na-tionaliste", c'est-à-dire les groupes para-militaires et les ligues de jeunesse mais aussi sur la paysannerie révolutionnaire. En 1932, Niekisch militera pour la can-didature du leader paysan Claus Heim aux élections présidentielles. Dans ses "Gedanken über deutsche Politik" ("Pen-sées sur la politique allemande") publiées en 1929, Niekisch évoque la "minceur" de la "substance völkisch" de l'ouvrier (p. 195). Cette "substance humaine et völ-kisch" aurait été broyée, pulvérisée, écri-ra-t-il plus tard dans "Widerstand" (ar-ticle intitulé "l'espace politique de la résistance allemande", novembre 1931), dès lors le combat prolétarien ne pourrait exprimer que du "ressentiment social" (p. 284). Dans le même article, Niekisch pré-cisera que l'espace politique de la ré-sistance allemande se situe entre le prolétariat déraciné et la bourgeoisie oc-cidentale(4).

 

Niekisch découvre que l'Allemagne n'est pas seulement politiquement (et économiquement) opprimée, mais qu'elle est aussi culturellement aliénée. Le Trai-té de Versailles et le Système de Weimar permettent à l'Occident, et particuliè-rement à la Romanité, d'étouffer l'Etre al-lemand et de dominer la totalité de l'es-pace allemand. A mesure que l'idéologie de "Widerstand" se radicalise, l'aspect anti-romain se renforce et devient pré-pondérant.

 

Niekisch et "Widerstand" s'en prennent à toutes les manifestations de l'Occident et de la Romanité en Allemagne : les idées de Progrès, d'Humanité, de Paix et d'Ami-tié entre les peuples dénoncées comme autant de mythes incapacitants destinés à désarmer l'Allemagne et à tuer en elle toute volonté de résistance (pp. 199/ 200); les "idées de 1789"; la civilisation (occidentale) et les grandes villes; l'in-dividualisme; le libéralisme (p. 200); le capitalisme (p. 200); la bourgeoisie (p. 200), véritable ennemi intérieur dont Niekisch souhaite la liquidation dans une "Saint-Barthélémy" ou de nouvelles "Vê-pres siciliennes"(5); la propriété privée au sens du droit romain; mais aussi le mar-xisme, ultime conséquence du libéra-lisme; le catholicisme bien sûr; la Ré-publique de Weimar; le parlementarisme; la démocratie (ou plus exactement: le "dé-mocratisme", c'est-à-dire la recherche de l'appui des masses qui, selon Niekisch, caractérise aussi le fascisme); et le fas-cisme.

 

Niekisch écrit son premier long article sur le national-socialisme en mai 1929 ("Der deutsche Nationalsozialismus"). Il y critique l'orientation pro-italienne et pro-britannique du nazisme, c'est-à-dire son orientation pro-romaine et pro-capi-taliste/pro-impérialiste. Il dénonce aussi l'intégration du nazisme dans le Système de Weimar (pp. 95 à 97). Dans son livre "Hitler, une fatalité allemande", publié en 1931, Niekisch expose longuement les motifs de son anti-hitlérisme: après avoir reconnu les débuts positifs du mouvement nazi, Niekisch condamne la "trahison ro-maine" de Hitler qui transforme le natio-nal-socialisme en un mouvement fasciste et "catholique", donc "romain", la trahison nationale au profit de l'ordre de Ver-sailles et du Système de Weimar et la trahison sociale d'Hitler au profit du ca-pitalisme. Rapidement, dans les années 31/32, la résistance contre l'Occident et contre Rome s'identifie à la résistance contre le fascisme et l'hitlérisme dont la force croît.

 

Face à l'Occident et à la Romanité: la "protestation allemande" et "l'esprit de Potsdam". Baeumler (l'un des futurs philosophes officiels du IIIème Reich), est le premier à évoquer, en décembre 1928, dans "Widerstand", la "protestation alle-mande contre Rome" incarnée par Luther. Niekisch reprend et développe ce thème en s'inspirant fortement de Dostoïevsky(6). Dans un article d'avril 1928, Friedrich Hielscher, un ami d'Ernst Jünger, affirme que la "non-occidentalité de la nature al-lemande" repose sur une "attitude prus-sienne", un prussianisme frédéricien (p. 216). Quelques mois plus tard, Niekisch oppose l'"esprit de Potsdam" (le prus-sianisme) à l'"esprit de Weimar" occi-dental et francophile (p.217). L'"esprit de Potsdam", chassé de Prusse, se serait in-carné dans la Russie bolchévique (pp. 218/219 et p. 244): c'est l'article de base et de référence du "bolchévisme prussien" des années 1930 à 1932.

 

niek-hit.jpgL'idéologie de "Widerstand" se radica-lise encore dans les dernières années de la République de Weimar. De nouveaux thèmes apparaissent dans un article de Niekisch de septembre 1929 "Der ster-bende Osten" ("l'Est mourant") (p.229), et dans un article de mars 1930 de Werner Hennecke, pp. 231 à 233 (celui-ci, un col-laborateur du périodique "Blut und Boden", est proche du Mouvement Paysan). Ils se-ront repris et développés dans le pro-gramme politique de la résistance alle-mande en avril 1930 (pp. 234/235) (7). Niekisch et "Widerstand" préconisent alors :

- l'orientation vers l'Est (Prusse bien sûr et Russie bolchévique);

- le retour à la terre, à la "barbarie et à la primitivité paysanne", à un mode de vie paysan et soldatique (ces deux exi-gences tendent à se confondre: l'Est prus-sien et l'Est russe-bolchévique sont qua-lifiés de "barbares"; la Prusse et la Rus-sie bolchévique s'appuieraient sur un fond paysan originel, primitif, soumis à la dis-cipline d'un Etat militaire).

 

Dans "Das Gesetz von Potsdam" ("La loi de Potsdam", article d'août 1931), Nie-kisch préconise de renverser l'édifice oc-cidental construit en Allemagne par Charlemagne (le peuple allemand doit, s'il veut se retrouver lui-même, retourner à une époque pré-romaine et pré-chrétienne, p. 227). Charlemagne a établi la domination "romaine" sur les Germains au moyen de la violence militaire, d'une aliénation spirituelle-mentale et consolidé biologiquement sa création en massacrant la noblesse saxonne et en organisant en Saxe une implantation/colonisation latine. "Depuis plus de 1000 ans, l'histoire allemande s'est mue sur le "terrain biologique, politique et spirituel de la création carolingienne" (p. 240). Pour Niekisch, il faut rompre avec l'idée romaine d'Imperium, avec le christianisme et l'esprit romain, traiter le sang romain de la même façon que Charlemagne a traité le sang saxon (p. 241) et bâtir un ordre nouveau sur trois "colonnes" : l'Etat prussien; un "esprit prussien archaïque"; une "autre substance vitale", la "race prussienne" germanoslave; pp. 242/243 (sur l'opposition raciale entre la Prusse et l'Allemagne du Sud et de l'Ouest, lire note p.220).

 

Niekisch prône une alliance militaro-économique, mais aussi idéologique ("weltrevolutionär" précise Niekisch - "révolutionnaire-mondiale"), avec la Russie bolchévique. Il imagine même un Empire russo-allemand "de Vladivostock à Flessingue" (ici, Niekisch semble dépasser son nationalisme allemand absolu pour penser en termes de politique impériale).

 

Mais l'image idéalisée du bolchévisme que Niekisch projette dans "Widerstand" n'a rien à voir avec le marxisme-léninisme, y compris dans sa version stalinienne, ni avec la réalité du bolchévisme : le bolchévisme représente aux yeux de Niekisch l'Anti-Occident absolu, "barbare asiatique", il consituerait un camp (Fedlager) contre l'Occident et incarnerait l'idée de Potsdam. Uwe Sauermann soutient que le "bolchévisme prussien" de "Widerstand" ne se confond pas avec  le "national-bolchévisme" : en effet, "Widerstand" ne propose pas d'importer le bolchévisme en Allemagne et de le nationaliser, mais prétend reprendre au bolchévisme l'Idée de Potsdam d'origine prussienne; l'équipe de "Widerstand" est indifférente au marxisme et à la "construction du socialisme" : ce qui l'intéresse, ce sont les aspects prétenduement prussiens du bolchévisme(8); enfin, elle demeure méfiante et même hostile à l'égard du Parti Communiste allemand (pp. 297 à 306).

 

Finalement, le bolchévisme s'assagira (traités de non-agression russo-polonais et russo-français de 1932, entrée de l'U.R.S.S. dans la Société des Nations en 1934) et trahira ainsi les espoirs de Niekisch (pp. 264 à 266). Celmui-ci portera alors son attention sur la Figure impériale en émergence dont l'avènement mettra fin à la domonation de l'Occident et de Rome et à la civilisation occidentale elle-même.

 

Uwe SAUERMANN : "Ernst Niekisch und der revolutionäre Natinalismus" - Bibliotheksdienst Angere (München 1985), 460 S., DM 32.

 

 

Notes :

 

1. Jean-Pierre Faye décrit les idées de Niekisch dans ses "Langages totalistaires", pp. 101 à 127 (Paris, 1973) et Louis Dupeux lui consacre deux chapitres de sa thèse volumineuse sur le national bolchévisme ("Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression "national-bolchévisme", en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933)", Lille et Paris, 1976).En Allemagne, Niekisch, évoqué  dans l'ouvrage d'Otto-Ernst Schuddekopf sur les mouvements NR dans la République de Weimar ("Linke Leute von Rechts. Die national-revolutionäre Minderheiten und der  Kommunismus in der Weimarer Republik", Stuttgart 1960, rééd. en 1973), a fait l'objet de deux monographies, l'une que l'on doit à Friedrich Kabermann ("Widerstand und Entscheidung eines deutschen Revolutionärs, Leben und Denken von Ernst Niekisch", Köln 1973), l'autre à Uwe Sauermann ("Ernst Niekisch. Zwischen allen Fronten", München & Berlin 1980).

 

2. Sur les actions politiques menées par Niekisch depuis 1928 : lire la quatrième partie d'Uwe Sauermann (pp. 321 à 440).

Le livre de Joseph Drexel (l'adjoint de Niekisch) "Voyage à Mauthausen. Le Cercle de Résistance de Nuremberg" (Paris 1981), contient le texte du jugement secret du tribunal populaire du 10 janvier 1939 contre Niekisch, Drexel et Tröger. Il déclare à la fois l'attitude de "Widerstand" à l'égard du nazisme (sujet traité dans la deuxiè!me partie de l'ouvrage de Sauermann) et les activités oppositionnelles de Niekisch et de ses amis sous le IIIème Reich.

 

3. Lire à ce sujet : Sauermann, pp. 316 à 320, mais aussi l'article de Louis Dupeux "Pseudo- "Travailleurs" contre prétendu "Etat bourgeois"" dans "La Revue d'Allemagne", tome XVI, n°3, juillet-septembre 1984, pp. 434 à 449.

 

4. Louis Dupeux "Stratégie communiste et  dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression "national-bolchévisme", en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933)", Lille et Paris, 1976)pp. 415/416.

 

5. Ibid., p. 401

 

6. Ibid., pp 391/392, mais aussi Friedrich Kabermann "Widerstand und Entscheidung eines deutschen Revolutionärs, Leben und Denken von Ernst Niekisch", Köln 1973, (extrait significatif dans "Orientations" n°4).

 

7. Reproduit in exrenso dans "Versuchung oder Chance ? Zur Geschichte des deutschen National-Bolchevismus" de Karl-Otto Paetel (Göttingen 1965), pp. 282 à 285.

 

8. Curieusement d'ailleurs, cet ancien leader social-démocrate qu'est Niekisch ne manifeste aucune préoccupation sociale : s'il est anti-capitaliste c'est parce que le capitalisme est une expresiion de la pensée occidentale, s'il est "socialiste-révolutionnaire", s'il veut liquider la bourgeoisie occidentalisée, c'est parce que la bourgeoisie est un "ennemi intérieur", un "cheval de Troie" de l'Occident en Allemagne (il ne s'agit donc pas là d'un " social-révolutionnarisme authentique"), cf. p. 200.

samedi, 27 février 2010

Maniobras militares conjuntas entre Turquia e Israel

Maniobras militares conjuntas entre Turquía e Israel

Finalmente el ministro turco de defensa, Vecdi Gonül mencionó que después de la crisis del octubre de 2009 en las relaciones de este país y el régimen sionista, el ejército de este régimen ha participado dos veces en maniobras celebradas en el territorio de Turquía. El gobierno turco el mes de octubre de 2009 anuló el programa de la celebración de entrenamientos militares conjuntos con el régimen sionista en protesta a los crímenes de este régimen en la franja de Gaza.

Pero Vecdi Gonül finalmente frente las preguntas de los diputados de diferentes partidos en el parlamento, confesó que una de estas maniobras fue celebrada de forma trilateral entre Turquía, el régimen sionista y Jordania el mes de noviembre de 2009 en Ankara y la segunda en mes de diciembre en la misma ciudad.

Esta confesión de Gonül tuvo amplios ecos en los medios noticieros turcos, de forma que el diario Vakit publicado en Turquía escribió que el ejército de este país sigue actuando de forma obstinado y no acata plenamente al gobierno de este país.


Esto significa que el ejército de Turquía al contrario que los políticos de este país, persigue sus intereses en relaciones con el régimen sionista.

Al mismo tiempo algunos analistas no rechazan la posibilidad de que teniendo en cuanta las relaciones estratégicas de Turquía y el régimen sionista, haya un acuerdo entre el ejercito y el gobierno de Turquía de forma que los mandatarios de este país tomen postura contra el régimen sionista con el fin de responder las reclamaciones de la opinión publica del país ante los crímenes de este régimen en Gaza, y por otro lado, el ejercito mantenga sus relaciones militares con el régimen sionista.

De forma que algunos medios noticieros de Turquía anunciaron la ejecución del acuerdo de varios millones de dólares de este país y el régimen sionista para la compra de aviones no tripulados Heron el mes de marzo.
Otro punto de vista es que el ejército del régimen sionista, con el fin de destruir la posición y lugar del primer ministro de Turquía, Recep Tayyip Erdogan y separar este país del mundo islámico, insiste en mantener relaciones militares con Turquía.

Después de la fuerte disputa verbal el año pasado entre Erdogan y Simon Pérez, presidente del régimen sionista al margen del foro de Davos, los políticos israelíes incluso calificaron a Erdogan de anti judío.
Mientras tanto dirigente del partido Kadima del régimen sionista, Tzipi Livni, dijo de forma explicita que Turquía debe elegir entre el mundo islámico e Israel.

Parece que el Partido Republicano del Pueblo de Turquía como mas grande partido de oposición en el parlamento, teniendo en cuenta la sensibilidad de la opinión publica de la población musulmana de Turquía a la forma de la relación de su país con este régimen, intenta llevar bajo la tela de juicio la actuación del gobierno dirigido por Erdogan y aprovechar de ello a su favor en las próximas elecciones generales.

Extraído de IRIB.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 20, 2010.

Entrevista al ex-ministro iraqui del petroleo Issam al-Chalabi

Entrevista al ex-ministro iraquí del petróleo Issam al-Chalabi

“La UE está tirando millones de euros a la basura en proyectos imaginarios”

En el informe de mayo de 2001, titulado “Cheney Energy Task Force”, el ex vicepresidente estadounidense Dick Cheney, explicó abiertamente que el objetivo de la política estadounidense en Iraq, era “[…] abrir áreas del sector energético iraquí a la inversión extranjera”. Una nueva ley del petróleo, propuesta por el gobierno estadounidense y las grandes compañías petroleras, sería el marco “legal” para la venta del petróleo iraquí.

Sin embargo, a pesar de los siete años de ocupación no han conseguido la aprobación de una nueva ley del petróleo. El régimen clientelista iraquí la aprobó, pero no el Parlamento. Pero ni al consejo de gobierno ni a las grandes compañías parece preocuparles por lo que han decidido seguir adelante con dos ventas públicas llevadas a cabo en junio y diciembre de 2009. La mayoría de las reservas confirmadas de Iraq fueron regaladas en forma de contratos de servicio a las compañías extranjeras debilitando y menospreciando de este modo el papel de la nación, que antes de 1972 se había fortalecido gracias a los decretos de nacionalización de las compañías extranjeras del petróleo.


Sigyn Meyer [P]: ¿Podría por favor, comentarnos los resultados de estos acuerdos y la naturaleza de los contratos que firmaron? La duración de los mismos parece un término excesivamente largo, de 20 a 25 años, para contratos de servicios técnicos.

Issam al-Chalabi [R]: Los contratos no se han dado a conocer ni siquiera al Parlamento iraquí, por lo que los detalles exactos se desconocen, no obstante se sabe que su duración es de 20 años, ampliable a otros cinco más. A pesar de que la denominación de los contratos es de “servicios” muchos lo dudamos. Hay un refrán que dice: “el demonio se oculta en los detalles”. Iraq, ciertamente perderá su capacidad para tomar decisiones acordes a los intereses nacionales.

[P]: ¿Qué nos puede decir sobre la legalidad y la transparencia de esos contratos? Parece que al menos el contrato de Rumaila ha sido impugnado ante los tribunales.

[R]: Desde que el actual gobierno fue incapaz de aprobar el proyecto de ley sobre petróleo y gas —debido a las diferencias con el gobierno regional del Kurdistán— decidió dar un paso más al declarar que podrían basar su política en anteriores leyes aprobadas en las décadas anteriores. Esas leyes especifican con términos muy claros que el desarrollo de las fuentes del petróleo se ha de realizar mediante la puesta en práctica de una política nacional, lo que significa que es la nación la que tiene que poner los medios y si fuera necesaria la intervención de una entidad extranjera, eso se haría estudiando caso por caso, mediante una ley que regularía específicamente cada caso. Eso está determinado por la ley 97 de 1967, en base a la cual se firmaron algunos contratos en 1968 y a principio de la década de 1970. Esta y otras leyes siguen en vigor, según el artículo 130 de la nueva constitución aprobada en 2005, la cual estipula que, a menos que se enmienden o deroguen, todas las leyes anteriores siguen en vigor. Sin embargo, el actual gobierno está saltándose el Parlamento y firmando contratos tras el acuerdo del gobierno, por lo tanto, todos esos contratos son ciertamente ilegales.

[P]: ¿Cuál es la relación entre el gobierno central y el gobierno regional del Kurdistán. Ellos afirman que les pertenece el petróleo de “su” parte de Iraq y por ello firman sus propios contratos de petróleo. Además se han producido escándalos como el de Peter Galbraith, que en Suecia ha pasado desapercibido casi por completo. ¿Puede darnos su opinión al respecto?

[R]: De acuerdo a todas las leyes en vigor, el petróleo y el gas de Iraq pertenecen a todos los iraquíes y puesto que el Parlamento central representa a los iraquíes y a falta de la nueva ley de petróleo y gas, esto significa que el Ministerio del Petróleo está autorizado para gestionar los asuntos del petróleo, por lo que las reivindicaciones y los actos del gobierno regional del Kurdistán y todos los acuerdos y contratos firmados por ellos son completamente ilegales. Por este mismo motivo, todas las compañías que firmaron acuerdos con el gobierno regional del Kurdistán, como la DNO de Noruega, son completamente responsables y tendrán que asumir las consecuencias.

Ha quedado demostrado que Peter Galbrith, ex embajador estadounidense y asesor del gobierno regional del Kurdistán, quien jugó un papel esencial en la formulación de la constitución de 2005 y más tarde en la redacción del proyecto de ley de petróleo y gas (sin aprobar todavía), recibió al menos un 5% del contrato firmado por la DNO. Actualmente el asunto está siendo investigado por los tribunales. En este asunto también han aparecido nombres de algunos altos cargos del gobierno regional kurdo.

[P]: El gobierno iraquí y las empresas hablan sobre una fabulosa producción de petróleo y que las exportaciones aumentarán en muy poco tiempo. Usted que conoce bien las infraestructuras petroleras de Iraq, ¿qué opina de estas afirmaciones?

[R]: El ministro de Petróleo habla sobre el incremento de la producción hasta alrededor de los 12 millones de barriles al día, pero admite que no se espera que Iraq exporte tanto puesto que el mercado no absorberá tales incrementos. Por tanto, para empezar, Iraq tendrá que pagar a las compañías por el coste de la capacidad adicional de seis millones de barriles al día que no se pueden utilizar y eso dando por sentado que Iraq pueda exportar los otros seis millones de barriles al día.

Muchos expertos iraquíes, entre ellos altos cargos del ministerio dudan de la capacidad de esos campos de petróleo para alcanzar los aumentos prometidos.

Voy a poner un ejemplo: Iraq actualmente produce alrededor de un millón de barriles de petróleo de los campos de petróleo del sur y del norte de Rumaila y en las ofertas y en las concesiones el Ministerio no espera que la producción supere los 1,7 millones de barriles al día como máximo de su capacidad sostenible. Las compañías adjudicatarias, la BP de Reino Unido y la CNPC de China, se comprometieron a 2,85 millones de barriles al día, cifra similar a la producción de otros campos adjudicados. Otra cuestión es que esas compañías se comprometen a incrementar la producción actual en un 10 por ciento (alrededor de 2,4 millones de barriles al día en 2009), por lo que no se espera un gran incremento de la producción hasta dentro de seis o siete años como poco. Además, Iraq es incapaz de llevar su capacidad exportadora hasta los 12 millones de barriles al día. Actualmente la cifra está en 1,5 millones de barriles exportados a través del Golfo en el Sur y en 700 millones de barriles exportados a través de Turquía.

[P]: Halliburton, KEB y otras compañías estadounidenses, conocidas por su corrupción y precios inflados, participan en la carrera por conseguir la bonanza del petróleo iraquí. Estos que se benefician de la guerra, y que ya han ganado fortunas en Iraq, ahora obtendrán nuevas fortunas con la reconstrucción. Ni siquiera parece que tengan que negociar porque obtienen subcontratas de las compañías petroleras. Se introducen subrepticiamente en ellas. ¿Qué opina sobre esto y quién va a pagar esas fabulosas sumas?

[R]: Todos los gastos en los que incurran las compañías petroleras serán pagados por Iraq, empezando por el día en el que las compañías petroleras alcancen el 10 por ciento. Sí, ciertamente las compañías petroleras insisten en contratar servicios a un precio muy superior al normal en función del tiempo y de las capacidades mencionadas, cuando Iraq lo podría hacer mucho más barato aunque la verdad es que tardaría más tiempo, pero como he dicho antes la mayoría de los [supuestos] incrementos adicionales serán nulos.

[P]: Europa también ha puesto los ojos en Iraq. “Iraq representa un nexo fundamental para la seguridad energética” ha dicho Andris Piebalgs, comisario para la energía de la Unión Europea, quien en enero firmó con Hussain al-Shahristani, actual ministro del petróleo iraquí, el memorando de entendimiento en Bagdad. Iraq, con las terceras reservas de petróleo del mundo, ya es un importante proveedor de petróleo y puede convertirse en un proveedor clave de gas para el corredor Sur, afirmó Piebalgs. David Cameron, el líder británico tory, afirmó recientemente en Chatham House que “[…] la OTAN, tiene que desarrollar, de forma ideológica y práctica, los conceptos de solidaridad y asistencia mutua en el contexto de la amenaza a la seguridad energética como parte de la operación de apuntalamiento de la seguridad [energética] colectiva en el siglo XXI”. Sin embargo, no se muestran tan entusiastas cuando se trata de condenar criminales de guerra. ¿Cómo ve usted el papel de la Unión Europea en Iraq?

[R]: Es muy poco práctico decir que el gas iraquí llegará a Europa. El último acuerdo entre la Unión Europea e Iraq no se llevará a cabo sencillamente porque no hay suficiente gas en Iraq y el que está disponible apenas es suficiente para el consumo local en Iraq. La Unión Europea está tirando a la basura millones de euros en proyectos imaginarios y empleando decenas de miles en sus agencias sin ver el beneficio real para los europeos cuyo dinero y cuyos impuestos se están despilfarrando. La Unión europea sigue las políticas estadunidenses en el mundo, lo que incluye Iraq y Afganistán.

[P]: Recientemente Irán envió soldados para ocupar el campo de petróleo de Fakka en el lado iraquí de la frontera con Irán, ¿qué opina al respecto?

[R]: Los iraníes afirman que las fronteras no están claramente definidas, lo que es absolutamente falso. Las fronteras se definieron en el Acuerdo de Argel de 1975 y según éste, las fronteras se definieron en los mapas y en el memorando de acuerdo final, que incluía especificaciones de los límites y los ministros de exteriores firmaron las coordenadas de cada uno de los límites establecidos. Fueron los iraníes quienes depositaron las copias de esos acuerdos, en inglés y en francés, en la sede de Naciones Unidas en 1976.

Los iraníes ocuparon el pozo número cuatro y tras multitudinarias manifestaciones contra los actuales dirigentes iraquíes conocidos por su lealtad a Irán, éste último retiró a los soldados del pozo pero los dejó dentro de las fronteras iraquíes. Este campo de petróleo es totalmente iraquí y está dentro de las fronteras iraquíes. Este es un ejemplo de las intenciones de Irán y de la interferencia de Irán en asuntos iraquíes.

[P]: Una gran publicación industrial sueca, “Dagens industria”, afirmó el 15 de enero que “Iraq destaca entre los países productores”. Los contratos han sido ejemplares porque predicen que puede ser posible producir mucho más petróleo de lo que puedan bajar los precios, al menos durante un par de años. “Quienes creen en una carencia de petróleo en los próximos diez años, tienen desde luego que asegurarse el suministro”.

[R]: Como he explicado antes, hay dudas legítimas sobre la posibilidad de que Iraq alcance tales niveles de producción, y eso sin tener en cuenta su capacidad para exportar. No podemos predecir correctamente los precios del petróleo mañana por lo tanto, ¡cómo hacerlo para los próximos siete años! Todas las declaraciones de las compañías internacionales de petróleo son engaños para el público y para justificar sus propios gastos y beneficios.

[P]: El mundo entero tiene puestos los ojos en el petróleo iraquí. Hay una lucha feroz en marcha, no solo Estados Unidos y las empresas occidentales compiten, sino que además algún Estado y algunas empresas privadas de países emergentes, como China, con importancia creciente importancia en el mundo de los negocios y con creciente necesidad energética. ¿Cuál es su consideración al respecto?

[R]: Lo que es importante para Estados Unidos, y para el libre comercio, es despojar a los pueblos y a las empresas nacionales petroleras el control sobre el petróleo y lo que no es tan importante es qué empresa internacional en concreto lo controla porque todas tienen los mismos objetivos. Además, parece que todo el mundo lucha por su trozo de pastel.

Sigyn Meder

Traducido por Paloma Valverde, extraído de Rebelión.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.

Die tiefe Krise der Männer

Die tiefe Krise der Männer

Eva Herman : Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Das männliche Geschlecht befindet sich auf rasanter Talfahrt: Während die Emanzipation die Frauen in den zurückliegenden Jahrzehnten allerorten in ungeahnte Machtpositionen hievte, und weltweite Gender-Mainstreaming-Maßnahmen ebenso ausschließlich die Förderung von Frauen vorsehen, kämpfen die Männer zunehmend um die Existenz ihres Geschlechtes. Schon die Feministinnen in den 1970er-Jahren predigten die Männer entweder als Weicheier oder Machos schlecht. Dazwischen gab es kaum etwas, was männlich und gleichzeitig etwa sympathisch oder normal sein konnte.

manliness-1.jpgDie verhängnisvolle Entwicklung der Männerverachtung findet für den Vertreter des männlichen Geschlechts ihren frühen Anfang heutzutage schon in Kindergarten und Schule: Ein Blick auf das derzeitige Schulsystem allein genügt, um festzustellen: Hier werden haufenweise Verlierer produziert, die Mehrheit ist männlich.

In Kinderkrippen, Kindergärten und in den Schulen fehlen überall männliche Vorbilder! Die Kinder werden vorwiegend von Frauen betreut und erzogen, diese bevorzugen in aller Regel, teils bewusst, teils unbewusst, die Mädchen.

Durch die Feminisierung in der Erziehung werden für die Kinder hier die künftig geltenden Verhaltensstandards festgelegt: Diese werden nahezu ausschließlich aus dem Verhalten der Mädchen entwickelt. Ohne Rücksicht darauf, dass Jungen naturgemäß ein völlig anderes Benehmen haben. Männliches Verhalten wie durchaus natürliche Rangeleien und hierarchiebedingte Kämpfe werden allermeist durch aus weiblichem Harmoniestreben resultierende Maßnahmen im Keime erstickt. Dadurch geraten die Jungs ins Hintertreffen, die Gefahr, dass sie ihre Geschlechteridentität nicht naturgemäß ausbilden können, schlägt sich auf die Leistungen nieder. 

Der Vorsitzende des Bayerischen Philologenverbands, Max Schmidt, betonte in einem Spiegel-Interview: »Sowohl in der Grundschule, aber auch während der Pubertät, ist es wichtig, dass Jungen und Mädchen in männlichen und weiblichen Lehrkräften positive Rollenvorbilder erleben.« Das zunehmende Verschwinden von Männern aus den Schulen erschwere gerade den Jungen die Auseinandersetzung mit der eigenen Rollenidentität.

Das sehen auch andere Experten so: Eine letztjährige Studie des Aktionsrates Bildung bestätigt, dass der Grund für die Zensurenlücke vornehmlich darin zu finden ist, dass Jungen in Kindergarten und Schule massiv benachteiligt würden. Nicht mehr die Mädchen, sondern die »Jungen sind die Verlierer im deutschen Bildungssystem«, sagt der Ratsvorsitzende und Präsident der Freien Universität Berlin, Dieter Lenzen. Statt auszugleichen, verstärke die Schule den Bildungs- und Leistungsrückstand der Jungen. Jungen haben laut Lenzen oftmals gar nicht die Chance, eine ausgereifte Geschlechtsidentität zu bilden, da sie im Kindergarten und in der Grundschule meist mit Erzieherinnen und Lehrerinnen konfrontiert seien. In keinem Bundesland liegt der Anteil männlicher Erzieher in den Kindertagesstätten bei mehr als zehn Prozent.

Auch das Bundesbildungsministerium bestätigt diese verhängnisvolle Entwicklung. Eine Untersuchung ergab: In der Grundschule sehen sich Jungen einer weiblichen Übermacht an Lehrkräften gegenüber – und werden von den Lehrerinnen häufig benachteiligt. Der Hallenser Bildungsforscher Jürgen Budde stellte in dem Bericht fest, dass Jungen in allen Fächern bei gleicher Kompetenz schlechtere Noten bekommen als ihre Mitschülerinnen. Selbst wenn sie die gleichen Noten haben wie Mädchen, empfehlen die Lehrer ihnen seltener das Gymnasium. Einfach ausgedrückt: Jungen werden bei gleicher Leistung schlechter behandelt.

Der Schulabschluss bestimmt den weiteren Lebensweg, die persönliche Arbeitsbiografie wird hier festgelegt. Dementsprechend sind junge Männer häufiger erwerbslos. Aus einem individuellen Problem erwächst inzwischen längst eine hoch gefährliche Gesellschaftskrise.

Jungs werden häufig von Anfang nicht richtig eingeschätzt und verstanden. Ihre männlichen Verhaltensweisen sollen denen der Mädchen angepasst werden, dementsprechend werden sie nicht selten unter falschen Voraussetzungen erzogen. Oft können sie ihr wahres männliches Inneres nicht leben, der Kern ihres Mannseins wird unterdrückt.

Vielen Jungen fehlt außerdem die männliche Vorbildfigur, an der sie sich orientieren könnten und dies auch dringend tun müssten. Jungen, die bei ihrer alleinerziehenden Mutter aufwachsen, sind in weitaus höherem Maße gefährdet. Schon der Psychologe Alexander Mitscherlich sprach einst von der »vaterlosen Gesellschaft« und meinte damit die Nachkriegsgeneration, deren Väter entweder im Krieg gefallen waren oder gebrochen zurückkehrten. Heute hat der Begriff wieder neue Aktualität bekommen. Väter verlassen die Familien, entziehen sich oder wollen schlicht keine starken Vorbilder mehr sein, aus Angst, sie könnten als hirnlose Machos gelten.

Auch unsere unheilvolle Geschichte hat tiefe Spuren hinterlassen. Ist ein starker Mann nicht schon ein Faschist? Ist einer, der sich zum Mannsein bekennt, nicht schon ein Soldat? Stärke wurde ein Synonym für das Böse, das unterworfen werden musste. Wer offensiv auftritt, ist einfach nicht politisch korrekt. Eroberer haben keine Chance.

Und so flüchten sich Jungen und Jugendliche häufig in Traumwelten, die sie im Fernsehen und bei den Abenteuer- und Ballerspielen auf dem Computer, der Playstation oder dem Gameboy finden. Hier, in der Fantasy-World, herrschen ausgesprochen männliche, körperlich starke, kämpfende Helden, die souverän alle Feinde besiegen und töten. Mit ihnen lässt es sich trefflich  identifizieren, wenigstens in der Fantasie. Immer mehr Jungen und junge Männer verbringen täglich viele Stunden vor interaktiven Medien, die sie zusehends von der Außenwelt, vom sozialen Miteinander abtrennen, die sie weiter in die gesellschaftliche Isolation treiben und zunehmend den Realitätsbezug verlieren lassen. Dieses Phänomen ist nicht auf die Kindheit und die Pubertät beschränkt, auch erwachsene Männer spielen lieber den omnipotenten Helden in der Fantasie, als im Leben ihren Mann zu stehen.

Was bleibt ihnen auch anders übrig?, könnte man fragen. Wenn Männer ihre Rechte einfordern wollen, stürzt sich alsbald ein Haufen wütender Frauen auf sie und verteidigt energisch das ständig größer werdende Stück Land, das sie in den letzten Jahrzehnten einnahmen. Rechte für die Männer? Die haben doch alles, was sie brauchen! So lautet das Vorurteil. Die Zeit der Alphatierchen sei vorbei, verkündete die ehemalige Bundesfamilienministerin Ursula von der Leyen, die sich stets auf die Seite erwerbstätiger Frauen schlägt, im März 2007 im Stern.

Männer sollen durch politische Maßnahmen wie ein zweimonatiges Elterngeld für Väter und eine neue öffentliche, mit aller Macht forcierte Geisteshaltung nach Hause gezwungen werden. Sie sollten mehr als »nur den Müll runterbringen«, schließlich arbeite die Frau schwerer als sie, weil sie zusätzlich noch die Kinder versorgen müsse.

Unbehagen macht sich breit. Auch wenn nur ein geringer Prozentsatz der Männer wirklich auf diese Forderungen eingeht, so plagt ihn doch das schlechte Gewissen, das man ihm einredet. Wer aber will sich auf Dauer nur noch verteidigen? Dann doch lieber die Flucht nach vorn, die Flucht in den Job, wo man auch mal jemanden anbrüllen darf, die Flucht auf den Fußballplatz, wo man sich aggressiv zu seiner Mannschaft bekennt. Oder die finale Flucht aus der Familie.

Während alle Jugendstudien die Mädchen zur »neuen Elite« küren, mehren sich die mahnenden Stimmen, die vor einer »entmännlichten Gesellschaft« warnen.

Experten fordern zu drastischen Maßnahmen auf: Der Jugendforscher Klaus Hurrelmann verlangt eine Männerquote für Lehrer und Erzieher. Der Deutsche Philologenverband will eine Leseoffensive für Jungen an Schulen einrichten.

Alle Studienergebnisse über die Leistungskrise der Jungs sprechen ihre eigene Sprache:

– Jungs bleiben doppelt so oft sitzen wie Mädchen, fliegen doppelt so häufig vom Gymnasium und landen doppelt so oft auf einer Sonderschule. An Haupt-, Sonder- und Förderschulen machen Jungen heute rund 70 Prozent der Schüler aus;

– Schätzungen zufolge leiden zwei- bis dreimal so viele Jungen unter Leseschwäche;

– 62 Prozent aller Schulabgänger ohne Abschluss sind Jungen;

– 47 Prozent aller Mädchen gehen auf ein Gymnasium, bei den Jungen sind es nur 41 Prozent;

– Ein Drittel der Mädchen macht Abitur oder Fachabitur, aber nur ein knappes Viertel der Jungen;

– Abiturnoten von Jungen sind im Schnitt eine Note schlechter, als die ihrer Mitschülerinnen;

– Junge Frauen stellen die Mehrheit der Hochschulabsolventen und brechen ihr Studium seltener ab;

– 95 (!) Prozent der verhaltensgestörten Kinder sind männlichen Geschlechts;

– Jungen stellen zwei Drittel der Klientel von Jugendpsychologen und Erziehungsberatern;

– Aggression ist ein Problem, das vor allem Jungs betrifft: Unter den Tatverdächtigen bei Körperverletzungen sind 83 Prozent Jungen;

– Unter »jugendlichen Patienten, die wegen der berüchtigten ›Aufmerksamkeitsdefizit-Hyperaktivitätsstörung‹ (ADHS) behandelt werden müssen«, sind laut Spiegel Online »überdurchschnittlich viele Jungen: Auf sechs bis neun Zappelphilippe komme, meldet das Universitätsklinikum Lübeck, lediglich eine Zappelphilippine«.  (Erziehungstrends.de)

Der Präsident der Vereinigung der Bayerischen Wirtschaft (vbw), Randolf Rodenstock, warnte im vergangenen Jahr angesichts der vielen männlichen Schulabgänger ohne Abschluss, dass man es sich nicht leisten könne, so viele junge Männer auf dem Bildungsweg zu verlieren. Deutschland steuere langfristig auf einen Arbeitskräftemangel zu, der durch die aktuelle wirtschaftliche Lage nur verzögert werde.

In Ostdeutschland sieht die Lage übrigens noch trostloser aus, hier laufen die Frauen den Männern gleich scharenweise davon. Nicht nur, weil sie im Westen bessere Berufs- und Ausbildungsmöglichkeiten bekommen, sondern weil sie dort auch Männer finden, die ihrem starken Selbstbewusstsein etwas entgegenzusetzen haben. So titelten denn auch unlängst gleich mehrere Tageszeitungen in etwa so: Frauen verlassen Osten! Männer erheblich benachteiligt! Oder: Ist der Mann im Osten bald allein?

Diesen alarmierenden Aussagen lag eine Studie des Berliner Instituts für Bevölkerung und Entwicklung zugrunde, der zufolge in den Neuen Bundesländern »eine neue, männlich dominierte Unterschicht« entstanden sei. Während vor allem gut ausgebildete Frauen zwischen 18 und 29 Jahren ihre Heimat verließen, würden viele junge Männer mit schlechter Ausbildung und ohne Job zurückbleiben. In manchen strukturschwachen Regionen fehlten bis zu 25 Prozent Frauen, diese Gebiete seien besonders anfällig für rechtsradikales Gedankengut, so die Studie. Das Frauendefizit in Ostdeutschland wurde übrigens als einmalig in Europa bezeichnet. »Selbst in Polarregionen, im Norden Schwedens und Finnlands reiche man an die ostdeutschen Werte nicht heran«, hieß es.

Abgesehen davon, dass Deutschland zunehmend der männliche Aspekt verloren geht, der jedoch unverzichtbar für eine Gesellschaft des natürlichen Ausgleichs ist, müssen Männer die Frauen immer häufiger als Konkurrentinnen sehen, weil diese, gestützt durch sämtliche, gesetzlich verankerte Gender-Mainstreaming-Maßnahmen, bevorzugt werden und somit selbstverständlich und offensiv auftreten, zudem sie auch immer besser qualifiziert sind.

Frauen erobern eine männlich geprägte berufliche Domäne nach der anderen. Schwere körperliche Arbeit, die Männer leichter bewältigen können als Frauen, wird durch die zunehmende Technisierung der Arbeitswelt nahezu überflüssig und existiert kaum noch. Frauen können in jeden beliebigen Beruf einsteigen: als Pilotin ebenso wie als Soldatin, Lkw-Fahrerin, Managerin, Ministerin, Kanzlerin.

Und während die holde Weiblichkeit alle Erfolgsgrenzen sprengt, ziehen sich die Männer zunehmend zurück. Zwar sollen sie durch Brüssels Gesetze nun vermehrt den Hausmann geben und sich der Kindererziehung widmen, damit sie den gestressten, erwerbstätigen Ehefrauen den Rücken freihalten. Doch sind diese Maßnahmen wohl kaum dazu geeignet, männliches Verhalten in seiner ursprünglichen Natur zu fördern.

Der Medienexperte Norbert Bolz macht vielmehr auf die Gefahr aufmerksam, dass Männer sich wieder an ihrer Muskelkraft orientieren würden, wenn sie sich ihrer sexuellen Rollenidentität als klassischer Vater und Versorger beraubt sehen. Das erklärt die rasante Zunahme aller möglichen sportlichen Aktivitäten, die bis ins Rauschhafte gesteigert werden können. Die Männer brauchen den Sport. »Sport als Asyl der Männlichkeit ist eine genaue Reaktionsbildung darauf, dass die Zivilisation als Zähmung der Männer durch die Frauen voranschreitet«, so Bolz. »Vormodern war die Aufgabe, ein ›richtiger‹ Mann zu sein, vor allem eine Frage der Performanz; man musste gut darin sein, ein Mann zu sein. Heute gilt das nur noch im Sport. Er bietet den Männern einen Ersatzschauplatz für die Kooperation der Jäger. Nur im Sport können Männer heute noch den Wachtraum erfolgreicher gemeinschaftlicher Aggression genießen, also die Gelegenheit, körperlich aufzutrumpfen.«

Bolz schätzt  dies als offensichtliches Kompensationsgeschäft ein, das unsere moderne Kultur den Männern anbietet: »Seid sensible, sanfte Ehemänner und fürsorgliche Väter – am Samstag dürft ihr dann auf den Fußballplatz und am Sonntag die Formel eins im Fernsehen verfolgen: heroische Männlichkeit aus zweiter Hand.«

Aber werden solche Männer tatsächlich von den Frauen begehrt? Hier sind erhebliche Zweifel wohl angebracht. Denn so erfolgreich die Frauen auch werden mögen, so wenig wollen sie als männliches Pendant den Windelwechsler und Küchenausfeger, sie wollen vielmehr einen echten Mann!

Die meisten Frauen verachten »schwache Typen« gar, spätestens, wenn es um ihre eigene Beziehung geht. So ist es ja umgekehrt auch kaum vorstellbar, dass eine Frau einen Partner vorzieht, der sich von anderen Männern dominieren lässt, der also nicht in der Lage ist, sich Respekt und Achtung zu verschaffen. Frauen wollen Männer, die erfolgreich sind. Weicheier jedoch sind weit von Erfolgs- und Überlebensstrategien entfernt. Die Evolutionsforschung ist da eindeutiger und klarer, so Norbert Bolz: »Frauen tauschen Sex gegen Ressourcen, während Männer Ressourcen gegen Sex tauschen. Das funktioniert aber nur unter Bedingungen strikter Geschlechterasymmetrie – in der modernen Gesellschaft also: nicht!«

Die Untersuchung der amerikanischen Hirnforscherin Louann Brizendine in ihrem Buch Das weibliche Gehirn weist überzeugend nach, dass männliche und weibliche Gehirne sich wesentlich unterscheiden, was eine Fülle von spezifischen Wahrnehmungs- und Verhaltensweisen nach sich zieht. So ist beispielsweise das Sprachzentrum der Frauen ungleich stärker herausgebildet, als das der Männer. Louann Brizendine formuliert dies äußerst humorvoll: Dort, wo die Sprache verarbeitet wird, existiere bei Frauen gewissermaßen ein mehrspuriger Highway, bei den Männern dagegen nur eine schmale Landstraße.

Was im naturwissenschaftlichen Zusammenhang als Tatsache hingenommen wird, gilt aber plötzlich als rückständig, wenn es um die sozialen Beziehungen geht. Eine ernsthafte Betrachtung der klassischen Geschlechterbestimmungen ist heute längst in den Hintergrund gerückt und so gut wie überhaupt nicht mehr möglich. Politisch und gesellschaftlich korrekt und gewollt ist vielmehr das Herbeiführen »modernerer Verhaltensweisen«, die Mann und Frau gleichmachen.

Es geht nicht mehr um Respekt für »das Andere« bzw. »den Anderen« oder um den Mann an sich, sondern um Gleichberechtigung für Frauen. Die Medien tragen kräftig zu dieser Sicht der Dinge bei: Sie fördern einseitig das Erfolgsmodell »berufstätige Mutter«, die Multitaskerin, die Kind, Küche und Karriere locker unter einen Hut bringt. Frauen, die Familien- und Hausarbeit leisten, werden als fantasielos, rückständig und dumm dargestellt. Die Medien verleugnen und missachten damit häufig zugleich den Erfolg berufstätiger Väter, die eine ganze Familie mit ihrer Erwerbsarbeit ernähren. Das »Allein-Ernährer-Modell« wird nur noch selten honoriert, selbst da, wo es funktioniert, stehen die Männer schnell unter dem Verdacht, typische Unterdrücker zu sein. 

Umgekehrt fordern jetzt auch immer mehr Männer, dass Frauen ihr eigenes Geld dazu verdienen sollen. So wird aus dem einstigen Emanzipationswunsch der Frauen, die ihre Berufstätigkeit als Beweis für Selbstbestimmtheit und Selbstverwirklichung betrachteten, ein Bumerang. Im Klartext: Frauen, die auch nur für wenige Jahre aus der Erwerbstätigkeit aussteigen möchten, um sich um die Familie zu kümmern, gelten nun als Drohnen.

Was diese Gesellschaft erlebt, ist eine erschreckende Mobilmachung der Ressource Frau für den Arbeitsmarkt. Um das zu rechtfertigen, müssen die Männer herhalten: »Väter sind mindestens ebenso gut für die Erziehungsarbeit der Kleinsten qualifiziert wie die Mütter und sollten diese auch unbedingt wahrnehmen«, befand die amtierende Bundesfamilienministerin. Eine Schutzbehauptung, die Frauen zur Erwerbstätigkeit motivieren soll.

Wenn die Männer als Kinderbetreuer eingesetzt werden, ist das allerdings nicht so simpel, wie die Rollentauschfantasie der Ministerin es glauben machen will.

Und die Männer? Sie schweigen. Sie wollen nicht mehr reden. Sie wollen sich vor allem nicht mehr verteidigen. Sie wollen nicht mehr die willigen Versuchskaninchen in einem gesellschaftlichen Experiment sein, dem sie ihre Wünsche und ihre Identität opfern sollen. Hinter ihnen liegt oft ein Hindernis-Parcours der Streitigkeiten und Auseinandersetzungen, die alle Liebe, alles Vertrauen, alle Selbstverständlichkeit aus den Beziehungen vertrieben haben. Achselzuckend gehen sie ihrer Wege, überzeugt, dass sie eine feste Beziehung nicht mehr ertragen können.

Die moderne Gesellschaft täte gut daran, sich endlich entschieden gegen die durch die künstliche Geschlechterwelt der durch Feminismus und Gender-Mainstreaming übergestülpten Programme zur Wehr zu setzen, um den für alle Gesellschaften natürlichen Ausgleich durch das männliche und das weibliche Prinzip zurückzuerobern und als für alle Zeiten notwendiges Überlebensprogramm festzuschreiben. Anderenfalls kann man getrost für die Spezies Mensch schwarz sehen!

 

Mittwoch, 17.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

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