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mardi, 03 novembre 2015

La servitude est volontaire

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La servitude est volontaire

Vivien Hoch
Doctorant en philosophe, consultant en communication

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

La « pensée correcte » ou le conformisme, autrement dit « bienpensance », est l’un des fruits de la normalisation, c’est-à-dire du pouvoir des normes invisibles et non juridiques. Nul ne rédige une norme : elle s’impose à travers un réseau de pouvoirs et d’oppressions psychologiques où s’exerce moins le pouvoir d’un seul que la servitude de tous. La norme asservit les intelligences, et leur est tellement présente qu’elle est les bornes immanentes de la créativité, de la raison et de la lucidité. Toute cette oppression ne sert qu’à une chose : rendre volontaire la servitude.

Boetie_1.jpgComment cette tyrannie diffuse opère-t-elle, et nous coupe de toute possibilité d’exercer une quelconque liberté ? Etienne de la Boétie, dans De la servitude volontaire, montre que la liberté est très simple à obtenir : le tyran et ses amis ne pèsent rien face au peuple tout entier. Seulement, pour désirer quelque chose, il faut l’avoir connu. C’est pourquoi le tyran et ses amis tentent par-dessus tout de supprimer la mémoire de la liberté pour asseoir sa tyrannie. Pour cela, pas besoin de prendre la peine de supprimer la mémoire de la masse : l’abrutir suffit largement. Du pain et des jeux, disaient déjà les romains : nous avons les séries télévisuelles de masse, qui servent à saturer l’intelligence avec le non sens et l’affect primaire. Ce qui permet, par exemple, de faire passer tranquillement l'acceptation d'une arithmétique électorale étrange, comme en Suisse récemment.   Une tyrannie bien entretenue s’enracine dans l’ignorance et se perpétue par l’oubli de la liberté.

Un autre thème obsédant du discours sur la servitude d’Étienne de la Boétie, c’est celui des masques derrière lesquels se cachent le tyran et ses amis afin de tromper le peuple. Quel est le masque de nos tyrans ? C’est celui de la révolte. Nos tyrans mettent en exergue les cas-limites (insistance sur les différentes indignations dialectiques, mise en avant du monde LGBT, accueil de la « différence » étrangère et le financement des officines d’extrême-gauche mobilisées contre les « oppressions » « patriarcales », « colonialistes », « raciales », ect.), pour asseoir leur domination idéologique. La normalisation de la « révolte » ne cache en fait qu’un horrible conformisme à une pensée unique, qui vise à rendre invisibles les libertés. « L’époque qui ose se dire la plus révoltée n’offre à choisir que des conformismes. », écrivait Albert Camus.

Peu de périodes ont eu aussi peur de la liberté. Tâchons de ne pas l’oublier.

Vivien Hoch, 23 octobre 2015

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F.T. Marinetti - Caffeina d'Europa

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F.T. Marinetti

Caffeina d'Europa

Tentare di definire Filippo Tommaso Marinetti a più di 70 anni dalla morte è un esperimento difficile. Possiamo definirlo un “rivoluzionario”, un “cortocircuito” della storia culturale europea, ma soprattutto, un profetico anticipatore, ai limiti dell'incredibile. Dalla propaganda allo scandalo all'editoria, Marinetti è stato il protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite; nei suoi scritti compaiono descrizioni fantascientifiche di nuove tecnologie e abitudini, pienamente rintracciabili oggi in computer e social networks.
 
Ex: http://www.linttelletualedissidente.it 

Scuotere l’Italia “a suon di schiaffi e dinamite”, scrive Giordano Bruno Guerri nella biografia dedicata a Marinetti, era la missione del padre del Futurismo e di tutte le sue declinazioni. Lo schiaffo, la dinamite: la rinascita artistica che comincia da una particella elementare, il suono, una rifondazione che parte dal segno, dalla radice, per sconvolgere le fondamenta di un’intera cultura.

«Col preannunzio sciroccale del Hamsin e dei suoi 50 giorni taglienti di sanguigne scottature desertiche nacqui il 22 dicembre 1876 in una casa sul mare ad Alessandria d’Egitto». Secondogenito di una giovane coppia milanese, F.T. nasce in terra africana per volere del padre Enrico, avvocato, convinto al trasferimento dalle buone prospettive di lavoro offerte dall’apertura del Canale di Suez. Insieme al fratello Leone viene educato al Collegio Internazionale San Francesco Saverio, un istituto gesuitico dove incontrerà un altro illustre innovatore della poesia italiana del Novecento, Giuseppe Ungaretti. Grazie alle ingenti somme guadagnate dagli affari del padre, perfeziona gli studi con un baccalaureato a Parigi nel 1894. Dopo il soggiorno parigino, eccolo in territorio italiano, a Pavia, dove raggiunge il fratello per studiare legge, facoltà che abbandonerà presto a causa della morte di Leone. Conclude gli studi universitari a Genova e vince nel frattempo il concorso parigino Samedis populaires con il poemetto Les vieux marins. Il componimento è il taglio del nastro agli ambienti intellettuali francesi: in breve tempo viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, La Conquete des Étoiles, la carriera giuridica definitivamente accantonata. Continua a comporre versi in stile liberty e simbolista, guardando a Mallarmé e D’Annunzio – stimato rivale quest’ultimo, amato e odiato, lui stesso si definì “figlio di una turbina e di D’Annunzio, da cui sarà definito “cretino fosforescente”. Nel 1905 fonda la rivista Poesia, la nuova palestra del verso parolibero firmato F.T. Nel 1908 eccolo tirato fuori da un fossato a Milano, nella sua automobile, uscito fuori strada per evitare due ciclisti; l’episodio si farà aneddoto – come poi molti altri – e diventerà per Marinetti la chiave di lettura della rivoluzione culturale programmata per il prossimo anno: l’uomo estratto dall’automobile è l’uomo nuovo futurista che dopo aver vinto l’inferno della tradizione ed aver accantonato lo stile liberty e decadentista rappresentato dai due «noiosi» ciclisti, può volgersi all’istituzione di un’arte nuova, rivoluzionaria.

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Il febbraio 1909 è arrivato. Tutto è pronto per il lancio della bomba. F.T. ha sedotto Rose Fatine, 20 anni, figlia di Mohamed el Rachi Pascià, un vecchio egiziano, ricco azionista de LeFigaro. Grazie alla buona intesa dei giovani amanti, l’uomo asseconda la bizzarra richiesta dell’italiano, ignaro del privilegio di partecipare ad un evento storico mondiale: pubblicare sul giornale il suo Manifesto. Il 20 febbraio 1909 sul quotidiano nazionale francese viene lanciata la bomba: esce il Manifesto del Futurismo, undici punti, con appendice. Il Futurismo è fondato. Sintetizzerà Marinetti: «E’ un movimento anticulturale, antifilosofico, di idee, di intuiti, di istinti, di schiaffi, pugni purificatori e velocizzatori. I futuristi combattono la prudenza diplomatica, il tradizionalismo, il neutralismo, i musei, il culto del libro.» La parola d’ordine è “Velocità”. Come dinamismo, come simultaneità, come meccanicismo e libertà. Marinetti stravolge ogni dogma della poesia e delle arti e ne ritaglia un vestito nuovo, “moderno”, diremmo oggi, come il secolo XX. Protagonista di quest’ultimo, annuncia F.T., sarà la Macchina, metafora dell’impeto prometeico dell’uomo nuovo. Per evitare una volta per tutte l’associazioni del poeta Marinetti e del futurismo all’idea infantile e brutale dell’adorazione della macchina e della modernolatria, ecco un passo del discorso che F.T. stesso tenne nel 1924 alla Sorbona:« Io intendo per macchina tutto ciò ch’essa significa come ritmo e come avvenire; la macchina dà lezioni di ordine, disciplina, di forza, di precisione, d’ottimismo e di continuità. […] Per macchina, io intendo uscire da tutto ciò che è languore, chiaroscuro, fumoso, indeciso, mal riuscito, trascuratezza, triste, malinconico per rientrare nell’ordine, nella precisione, la volontà, lo stretto necessario, l’essenziale, la sintesi». Il Manifesto è discusso in tutta Europa, i giornali lo chiamano “Caffeina d’Europa”. Intanto Marinetti continua a scrivere poesie, romanzi e testi teatrali, tra cui si ricordano “ Gl’Indomabili”, il censuratissimo “Mafarka il futurista” e la sceneggiatura “ Re Baldoria”. La fama di Marinetti si diffonde per tutto il Vecchio Continente, legata soprattutto alle esuberanze e ai modi “futuristi” di F.T. & Co. In particolar modo diventano celebri le serate-futuriste: spettacoli teatrali in cui vengono fuse performance di vario genere, dalla declamazione alla piéce teatrale, durante cui il futurismo fa da protagonista e le bagarre e gli scontri con il pubblico sono la norma, e ne alimentano la curiosità. Il 1911 inaugura la stagione dei viaggi del poeta e della maggiore sperimentazioni linguista e letteraria. Scoppiata la guerra con la Libia, parte al fronte come reporter per un quotidiano d’oltralpe. Poi è a Mosca e San Pietroburgo, invitato dai futuristi russi a fare propaganda. Nel frattempo in Lacerba, la rivista fiorentina diretta da Papini e Soffici, il futurismo trova il miglior canale di diffusione in Italia parallelamente alla pubblicazione di Zang Tumb Tumb, un reportage bellico scritto in parole in libertà. La prima guerra mondiale fa esplodere il cuore di Marinetti, che, in seguito all’attentato di Sarajevo, si arruola volontario: è a Caporetto ma anche a Vittorio Veneto. Tornato dal conflitto si interessa alla politica cui lo spirito rivoluzionario affascina Mussolini che si avvarrà di molti futuristi nel giorno della proclamazione dei fasci di combattimento, nel 1919 al San Sepolcro. Giudicate passatiste e reazionarie le idee di Mussolini, se ne allontanerà, pur sempre rimanendo rispettato e considerato dal Duce. Si lega nel frattempo a Benedetta Cappa, pittrice e poetessa che accompagnerà Marinetti fino alla fine dei suoi giorni, sua «eguale, non discepola». Nel ’35 parte volontario in Africa Orientale, nel ’42 si arruola per la campagna di Russia. Marinetti viene rimpatriato con l’arrivo dell’autunno, spossato e in precario stato fisico. La morte lo coglie il 2 dicembre 1944, a Bellagio sul Lago di Como, all’alba dopo una notte di lavoro poetico consacrato al Quarto d’ora di poesia della X mas, complice il cuore.

Tentare di definire Filippo Tommaso Marinetti a più di 70 anni dalla morte è un esperimento difficile, che richiede capacità di sintesi ben collaudate; sicuramente possiamo definirlo un “rivoluzionario”, nonostante le ideologie e i numerosi detrattori che F.T. ha avuto. Sicuramente possiamo definirlo un “cortocircuito” della storia culturale europea, ma fu soprattutto un profetico anticipatore, ai limiti dell’incredibile. Dalla propaganda allo scandalo all’editoria, Marinetti è stato il protoideatore dei fenomeni di comunicazione di massa che oggi caratterizzano le nostre vite; nei suoi scritti compaiono descrizioni fantascientifiche di nuove tecnologie e abitudini, pienamente rintracciabili oggi in computer e social networks. Nonostante le ortodosse e insipide categorizzazioni a cui è stato sottoposto, Marinetti resta nella sua natura contraddittoria un personaggio tanto affascinante quanto enigmatico. Intellettuale rivoluzionario, dissidente, fervente agitatore aderì al fascismo cui si allontanò disprezzando leggi marziali e reazionarismo; libertino, don Giovanni, promotore del libero amore e del tradimento e fautore dell’emancipazione totale e disinibita delle donne, fu padre modello di tre figlie e marito presente; anticlericale al fulmicotone, accesissimo nemico della Chiesa, si sposò cristianamente, fece battezzare e cresimare le figlie, e non si privò né dell’estrema unzione né dei funerali religiosi.

Se è vero che ognuno è figlio del suo secolo, sarà vero in questo caso anche il contrario. Il secolo delle contraddizioni e dello stravolgimento totale che il Novecento rappresenta ha un padre illustre. Permettendoci di citare Bontempelli diremmo: le parole gridate da Marinetti sono quelle che partoriscono un nuovo secolo.

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Oskar Freysinger: Contre l'Homme nouveau

Vidéo-entretien: Oskar Freysinger Contre l'Homme nouveau

Source: http://www.bvoltaire.fr 

lundi, 02 novembre 2015

Philippe Jumel: «Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir»

Philippe Jumel: «Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir»

Conférence de Philippe Jumel du 23 mars 2015 : « Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir ».
Pour aller plus loin sur ce sujet, l'ouvrage de P. Jumel et M. El Hattab publié aux éditions Perspectives Libres est disponible sur notre site : http://cerclearistote.com/sortie-des-....

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dimanche, 01 novembre 2015

Recension du livre d’Alain Finkielkraut, La Seule Exactitude

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Recension du livre d’Alain Finkielkraut, La Seule Exactitude

par Jean-Gérard Lapacherie

Ex: http://cerclearistote.com

Alain Finkielkraut, La Seule Exactitude, Stock, 2015

alfinkk8JXCL._SX317_BO1,204,203,200_.jpgCe livre s’inscrit dans la lignée des grands livres d’Alain Finkielkraut, La Défaite de la pensée, le Mécontemporain, Nous autres Modernes, Un Cœur intelligent, L’Identité malheureuse, L’Imparfait du présent, et comme ces livres, il se lit d’un trait. Alain Finkielkraut a été et reste un brillant élève qui maîtrise à merveille l’art de la dissertation, tel qu’il était enseigné naguère (jadis ?) dans les lycées : clarté, sûreté du jugement, équilibre, précision des références, fermeté de l’expression, élégance. Il est, comme Chateaubriand, un enchanteur. Ce qu’il déploie, ce ne sont pas seulement les artifices rhétoriques du « bien dire », c’est surtout la pensée, l’intelligence, la haute culture. L’atteste l’usage qu’il fait des citations, non pas pour éblouir les pharisiens, mais pour dialoguer avec les morts, avec les grands ancêtres, avec ceux qui ont pensé avant soi ou qui ont pensé eux aussi la question que l’on traite.

La thèse d’Alain Finkielkraut peut se résumer ainsi : la gauche n’est plus la (ou à) gauche. En un mot, il ne reconnaît pas sa gauche dans les positions que prennent les hommes dits « de gauche » sur des sujets importants (école, culture, morale, France, société, histoire, connaissance, état du monde, institutions publiques, conflits). Elles n’ont plus rien en commun avec les grands principes qui ont – ou auraient – été établis par la gauche. Le présent n’est pas saisi, analysé, pensé pour ce qu’il est ; il n’est qu’un passé qui se répète, les années trente et les heures sombres de « notre » histoire. Oubliés les 40 heures et les congés payés, qui sont les conquêtes sociales des années trente ; vouées aux gémonies la France Libre et la résistance qui sont la lumière des heures « sombres ». Pour les hommes de « gauche », l’amélioration de la condition ouvrière, le respect des travailleurs, la dignité des gens de peu n’ont plus de sens et le peuple français s’est massivement prosterné devant l’occupant. Si les choses sont ce qu’ils en disent, on ne comprend pas pourquoi ils adulent des « penseurs » qui n’ont jamais éclairé les « heures sombres », Sartre, Beauvoir, Blanchot, Grass, etc., pourquoi ils ont porté au pouvoir un pilier de Vichy qui a été un ardent partisan des guerres coloniales et approuvé un ancien du PPF, pourquoi ils ont soutenu par le vote des fils et filles de collabos, Jospin, Tasca, Védrine, Rebsamen, Royal, Hollande, etc. Cette histoire qu’ils prétendent être « nôtre » est leur. La haine de leur propre passé alimente la croyance en un progrès illimité vers plus d’égalité, plus de fraternité, plus d’indifférenciation (qu’elle soit sexuelle, culturelle, religieuse, etc.), plus de métissage, plus de culturel (inter ou multi). En un mot, la gauche réelle fait « table rase » du passé pour faire advenir « les lendemains qui chantent ». Ce programme se nourrit de la détestation de tout ce qui n’est pas soi, c’est-à-dire de tout ce qui n’est ni bobo, ni multi, ni homo, ni islamique, et de l’assurance que le monde sera meilleur, si celui-ci est façonné suivant leurs plans. De ce point de vue, le « retournement » qu’Alain Finkielkraut vit dans sa propre pensée n’est pas fondamentalement différent de celui qu’ont connu avant lui Péguy, Vargas Llosa, Jean Cau, Aron, Souvarine, Soustelle, Flaubert, Soljenitsyne, Malraux, Jacques Rossi, Leroy-Ladurie, Gallo, et des millions d’autres, dont Onfray et Brighelli…

Le problème, car il y en a un, est que la gauche idéale, au nom de laquelle Alain Finkielkraut se détourne de la gauche réelle, n’a jamais existé. Il n’y a que la gauche réelle, comme les seuls communisme et socialisme sont le communisme et le socialisme réels, et non le communisme démocratique et le socialisme à visage humain, ou inversement, dont se sont gargarisés pendant un siècle les hommes de gauche, bien que ces oxymores n’aient de réalité que dans le verbiage… La gauche réelle avance masquée. Elle s’approprie tout et surtout ce qu’elle n’a pas créé : les droits de l’homme déclarés universels en août 1789, l’abolition des privilèges, la fin des trois ordres, la sécurité sociale, l’Etat-providence, le progrès social, le progrès économique, la fin des colonies, la résistance… En revanche, elle occulte soigneusement les horreurs qu’elle a commises ou incité à commettre : les massacres de septembre 1792, le populicide de l’Ouest de la France, la guerre contre tous les peuples d’Europe, puis du monde, la République impériale, les manifestations réprimées à la baïonnette et au canon (1795, 1848, 1871, Algérie de 1956 à 1958) ou par la « troupe » (Fourmies, 6 février 1934, Isly), les conquêtes coloniales, la ruée à Vichy, les guerres dans les colonies, etc. Alain Finkielkraut forge une gauche idéale à son image. Il est persuadé qu’elle est, comme lui, attachée aux humanités, à la littérature, aux grands textes, à la pensée. Rien n’est plus faux. Déjà au début du siècle dernier, les hommes de la gauche réelle, soucieux de développement industriel, ont voulu renforcer l’enseignement technique et les écoles formant ingénieurs, ouvriers qualifiés et techniciens. Pourquoi pas ? Mais ils n’ont envisagé cela qu’en remplacement des humanités, le latin étant tenu pour la langue des curés honnis et la littérature pour un divertissement de mondaines oisives. La laïcité, à laquelle Alain Finkielkraut est attaché, est, elle aussi, morte et enterrée.

alfinkhL._SX304_BO1,204,203,200_.jpgAlain Finkielkraut consacre une courte réflexion à la disparition possible de la gauche, ce qu’a prédit Manuel Valls. Non, la gauche n’est pas mortelle, elle est éternelle, comme le sont les mensonges, les falsifications, les déformations, les censures, les doubles ou triples discours, les promesses, la démagogie, le cynisme, la soif de pouvoir. En décembre 1965, Mitterrand accorde un long entretien à deux journalistes du Nouvel Observateur et pas des moindres, Daniel et Galard. Il se présente comme un résistant. Vingt ans après la fin de la guerre, il ne lui est posé aucune question sur ses engagements avant 1939 et en 1942-44 à Vichy. Il se présente comme le défenseur du tiers-monde, parce qu’il critique les généraux brésiliens qui ont pris un pouvoir que des civils élus n’ont pas voulu exercer. Il ne lui est pas rappelé ses engagements contre les tiers-mondistes d’Algérie à partir du 1er novembre 1954 ; le soutien qu’il a apporté à l’intervention militaire en Egypte, pays du tiers-monde, en 1956 ; les pleins pouvoirs que le gouvernement auquel il participait a donnés à l’armée pour rétablir par la torture et les exécutions sommaires l’ordre « républicain » à Alger. Il ne lui a même pas été objecté les 61 condamnés à mort exécutés pendant 15 mois, le garde des sceaux qu’il était alors ayant refusé que soient transmises au président Coty, pour signature, des demandes de grâce. La gauche a réécrit l’histoire pour fabriquer un politicien. Les communistes ont procédé de la même manière quand ils ont falsifié la « biographie » de Marchais, leur Premier secrétaire. Que M. Valls ne s’inquiète pas sur le sort de la gauche : dans dix ou vingt ans, un nouveau leader apparaîtra qui pourra redonner le pouvoir à la gauche. Et la machine à mensonges fabriquera les mêmes fables.

Contrairement à ce que pense Alain Finkielkraut, ce n’est pas l’idéologie, de gauche ou non, qui importe. L’idéologie est plastique, malléable, fluctuante ; elle se retourne aussi facilement qu’un gant ; elle peut dire blanc à midi et noir à minuit ; oui à 12 h 47 et non dans la minute qui suit. Ce qui importe, c’est le lieu d’où « ça parle » ou le statut de la voix qui discourt. Ces lieux sont les palais du pouvoir et les forteresses de l’autorité, des privilèges et des avantages acquis. La gauche exerce le pouvoir, que ce soit celui de la politique, des idées, de l’université ou du savoir, des médias et de la communication, de Canal + ou du Monde. La gauche n’aspire qu’à étendre et accroître son emprise sur la culture, sur les idées, sur l’art et sur tout ce qui est : pensées individuelles, expression publique, émotion, langages. Ils sont les dominants, fussent-ils sociologues. Nous sommes leurs dominés. Ce qui fait l’essence de la gauche – sa « nature » en quelque sorte -, c’est la cupidité, la soif de pouvoir, les bas instincts, tout cela étant masqué par les beaux discours. Les adversaires d’Alain Finkielkraut sont fonctionnaires ou assimilés ou, s’ils ne le sont pas, ils vivent – et fort bien – de prébendes. Comme tous les fonctionnaires, ils ne rêvent que promotions, gratifications, crédits, avancements, subventions. Ils défendent donc bec et ongles les positions dont ils jouissent dans les médias, l’édition, la politique, le showbiz. L’enjeu, ce sont des milliards d’euros d’argent public. Les lieux d’où parle la gauche cachent des coffres-forts. Gomez Davila disait : « L’intelligence n’aspire pas à se libérer, mais à se soumettre ». En réalité, elle n’aspire qu’à soumettre les autres à son ordre.

alfinkL._SX302_BO1,204,.jpgSur quelques points, Alain Finkielkraut reste « de gauche », comme en témoigne la critique qu’il fait du Suicide français. A Zemmour, il prête des simulacres de thèses, le transformant sinon un négationniste, du moins un complice des négationnistes. L’antienne est banale. Zemmour étudie 40 années, de 1970 à 2010, qui ont défait la France. En 1981, l’historien américain Paxton accuse Vichy d’avoir participé à l’extermination des Juifs. Cette thèse rend caduque celle de l’historien français Aron, qui tenait Vichy pour un « bouclier », certes peu protecteur, des juifs français. C’est ce fait-là, à savoir le basculement de l’historiographie, que Zemmour analyse, le livre de Paxton mettant fin aussi à la thèse gaulliste sur les années 1940. Pour les Français libres, la France était à Londres. Paxton a replacé la France à Vichy et il l’a rendue responsable des crimes commis sur son territoire. Autre exemple : Alain Finkielkraut a été enthousiasmé par le 11 janvier. Ce jour-là, le chef de l’Etat a organisé une manifestation monstre avec tous les moyens dont dispose l’Etat et le soutien de tous les médias, qu’ils soient d’Etat ou privés. Dans de nombreux pays au monde, de semblables manifestations « officielles » ou étatiques sont propres aux Etats despotiques ou totalitaires. Le 11 janvier a eu pour mot d’ordre la « liberté d’expression » Or, seul l’Etat et ses institutions, dont la « justice », ou les associations lucratives sans but, la menacent. Ce n’est pas la liberté d’expression qui a été attaquée les 7, 8, 9 janvier ; ce sont des crimes racistes qui ont été commis. Des juifs ont été tués parce qu’ils étaient juifs et des dessinateurs ont été exécutés au nom de la loi islamique, parce que les infidèles n’ont pas le droit de représenter le rasoul, ou « messager », d’Allah. Or, le 11 janvier, personne n’a protesté et surtout pas l’Etat contre l’application sur le territoire de la République d’une loi, décidée par on ne sait qui et qui n’a force de loi qu’en Arabie saoudite ou en Afghanistan ou dans les territoires contrôlés par Boko Haram ou par l’Etat islamique. Il n’est pas étonnant que, les choses étant ce qu’elles sont, Alain Finkielkraut ait été dépité par l’après-11 janvier.

Alain Finkielkraut n’est pas encore tombé dans l’hérésie. Pour cela, il faudrait qu’il marche sur les brisées de Soljenitsyne, qui, en 1974, dans sa Lettre ouverte aux dirigeants de l’Union Soviétique, s’est adressé à la gauche réelle en ces termes : « Qu’importe si le mensonge recouvre tout, s’il devient maître de tout, mais soyons intraitables au moins sur ce point : qu’il ne le devienne pas PAR MOI ! ».

Jean-Gérard Lapacherie

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Les progrès de la médecine, est-ce fini ? C’est peut-être pire encore.

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Les progrès de la médecine, est-ce fini ? C’est peut-être pire encore

 
Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Anne-Laure Boch est une pasionaria de la vie de l’esprit mais aussi de la vie du corps. Elle a d’abord étudié la médecine, ce qui l’a conduite à devenir neurochirurgienne à  l’hôpital de la Pitié-Salpêtrière. Ensuite elle a obtenu un doctorat en philosophie. Elle voulait  comprendre ce qu’elle faisait comme médecin, et pourquoi. C’est cette méditation sur le sens de la médecine qu’elle a partagé avec les étudiants de l’institut Philanthropos à Fribourg. Devant eux, elle a posé la question de savoir si l’on pouvait encore attendre des progrès en médecine. Elle en doute et craint que la médecine ne produise désormais plus de méfaits que de bienfaits.

Elle n’a évidemment pas nié que la médecine occidentale a fait d’énormes progrès dans les trois derniers siècles.  Mais rien ne nous garantit que des progrès passés engendrent des progrès pour l’avenir. Les communistes croyaient dur comme fer aux progrès de la science et ils ont bien placé Gagarine en orbite. Mais au-delà, plus rien ou presque. Ce n’est pas seulement que le progrès peut s’arrêter mais que, sur sa lancée, il peut produire du déclin, l’accélérer même. Une fusée, en retombant, peut faire des dégâts. La fusée de la médecine et des recherches qui lui sont associées est-elle en train de retomber ? On peut le craindre et c’est à repérer les raisons de cette crainte qu’Anne-Laure Boch s’est attachée.

La vocation de la médecine est de guérir. A-t-elle guéri le cancer par exemple ? Non, elle a fait de lui une maladie chronique, mais de guérison, point ! Si le but de la médecine est de faire survivre à n’importe quel prix, alors, oui, elle parvient effectivement à faire vivre plus longtemps les malades du cancer ? Mais le but de la médecine est la guérison du malade, pas son maintien en vie avec acharnement thérapeutique. Là, c’est l’échec, malgré les milliards investis dans la recherche depuis 50 ans. Faut-il se résigner à voir dans la médecine ce qui nous amène aux chaises roulantes, au semainier avec ingestion quotidienne de pilules, à un cheminement de plus en plus chevrotant avant la tombe ? Anne-Laure Boch ne s’y est jamais résignée. Pourquoi ?

Parce que, pour elle, l’être humain n’est pas un « tas de molécules » dont il faudrait comprendre le fonctionnement pour les rendre plus performantes. Elle a noté en passant que si nous ne sommes qu’un tas de molécules, l’amour se réduit à un frottement de chairs suivis de l’émission d’un liquide gluant. Pouvons-nous encore aimer si nous sommes un tas de molécules ?

La science ne connaît que des choses, et la technique « désanime » les êtres. De plus en plus dominée par la science, la médecine est devenue une « grande découpeuse » qui coupe le corps en tranches de plus en plus fines, comme le font d’ailleurs les images produites par un scanner médical. Plus encore, ce découpage conduit aujourd’hui à des greffes d’organes qui, à terme et selon certains, devraient nous permettre de vivre des centaines d’années (pour peu que les banques d’organes s’enrichissent…) Le philosophe Jean-Luc Nancy a témoigné de son expérience de greffé du cœur et du sentiment qu’il a eu d’être devenu « autre » après son opération. Or devenir autre, c’est se sentir aliéné. La médecine moderne s’est engagée sur un chemin qui, si elle le poursuit, pourrait non seulement faire de nous des assistés en chaise roulante, mais aussi des êtres qui se sentiraient étrangers à eux-mêmes. J’entends déjà caqueter les vautours de la vie à tout prix : « Au moins ils seraient vivants ! » Une vie mortelle, peu importe comment ! Étrange caquetage, puisque cette vie, nous devrons la quitter. Anne-Laure Boch n’est pas allée aussi loin mais je crois qu’elle me pardonnera de le faire. Je ne résiste pas toujours au plaisir d’extrapoler.

Nous ne sommes pas des choses dont la destination ultime serait de fonctionner le mieux possible dans le temps et dans l’espace. Si tel était le cas, alors oui, il faudrait tout faire pour nous rendre plus performants, plus propres, plus sains. Qui serait cet homme performant dont la figure transparaît en filigrane dans toutes les injonctions à ne pas fumer, à ne pas manger de viande, à ne pas boire le gras du lait, pour… éviter le cancer, les maladies cardiovasculaires, le diabète ou même la grippe lorsqu’arrive l’automne ? Cet homme, a souligné Anne-Laure Boch, serait un « homme nouveau ». Il serait si propre, si fonctionnel que, dans l’imaginaire des peuples modernes, il  échapperait à la mort. Il suffit de se tourner vers les propositions du transhumanisme pour voir se dessiner le visage de cet homme nouveau ou surhomme. Pas tout à fait un visage encore, puisqu’il est question, dans ce transhumanisme, d’utérus artificiel ou de cerveau agrandi, mais le visage apparaîtra bien un jour. Il y a des chances pour que ce soit celui de Frankenstein, couturé de cicatrices en raison des greffes subies, le regard perdu en raison des pilules absorbées.

Voilà ce qui inquiète Anne-Laure Boch : l’image presque toute-puissante d’un homme nouveau qui a échappé à la condition humaine, à sa condition d’homme mortel. C’est cette image qui guide, oriente, soutient la médecine moderne qui a oublié sa vocation première, guérir, pour participer à une grande marche vers une nouvelle terre et de nouveaux cieux. Chacun connaît la formule prononcée aux enterrements : « tu es né de la poussière et tu redeviendras poussière ». Eh bien, pas du tout pour la médecine d’aujourd’hui qui promeut un homme nouveau ! Elle n’est pas consciente, ajouterai-je, de s’être faite le promoteur de cet homme, mais elle n’en est pas moins orientée par lui. Était-il conscient de ce qu’il promouvait, cet expert de l’OMS qui expliquait récemment que la viande rouge augmente les risques de cancer du côlon ? Il est probable qu’interrogé, il aurait nié vouloir promouvoir un homme que la mort ne limiterait plus. Pour autant, le rapport de L’OMS sur la viande rouge tueuse n’en suggérait pas moins qu’à long terme, la mort pourrait être éradiquée non seulement par les greffes d’organes mais aussi par une prévention systématique dont on devinait que, une fois mise en place, elle nous conduirait vers d’enchantés pâturages où broutent déjà les adeptes du « véganisme ».

Les gardiens ou gargouilles d’une médecine orientée par pilotage automatique vers un homme nouveau abondent. Mais il n’y a pas que cela. Anne-Laure Boch nous a rendus attentifs au fait que différentes infrastructures se sont mises en place autour de la promotion de l’homme nouveau : structures d’accueil pour la fin de vie, personnel soignant pour ces structures, industrie pharmaceutique qui renforce le mythe d’une nouvelle vie grâce au viagra et autres pilules roses.

Notre époque n’aime pas les dogmes religieux, mais elle avale tout cru le dogme du progrès en général, le dogme du progrès de la médecine en particulier. C’est contre lui qu’Anne-Laure Boch s’est élevée avec, comme bélier pour enfoncer les portes de cette nouvelle citadelle dogmatique, Ivan Illich. Ce prêtre philosophe a en effet montré combien le dogme du progrès conduit à penser que, quoi qu’il arrive, on va vers le mieux, plus de bien-être, plus de bonheur. Staline déclarait en 1936 que les Russes étaient de plus en plus heureux, juste après avoir fait mourir de faim des millions d’Ukrainiens et juste avant d’organiser des grandes purges avec des centaines de milliers d’assassinats. Mais les gens l’ont cru, tant la soif de bonheur et d’immortalité est grande en nous.

Est-ce que, parmi des déambulateurs, des chaises roulantes, des drogués au Prozac, nous continuerons à bêler notre credo sur les bienfaits de la médecine et de la recherche ?

Pour Anne-Laure Boch ce n’est pas sûr. Nous voyons grandir la proportion des gens qui préfèrent mourir plutôt que d’être pris en charge par une médecine qui risque de faire d’eux des morts-vivants. Rejoindre le cortège des chevrotants ne les tente guère. Un autre facteur est que la schizophrénie s’aggrave chez les soignants : d’un côté ils sont encouragés à manifester de la bienveillance envers les malades – d’un autre côté, on leur dit que ces mêmes malades sont un « tas de molécules ». Viendra un jour où soigner des patients « molécularisés » n’aura plus de sens. Ce jour-là, il sera peut-être possible de retrouver une médecine qui se contente de guérir plutôt que de s’acharner à faire survivre à n’importe quel prix.

Jan Marejko, 28 ocotobre 2015

00:05 Publié dans Philosophie, Science, Sciences | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : science, sciences, médecine, philosophie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 30 octobre 2015

Le fascisme : un « étymon spirituel » à découvrir ?

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Le fascisme: un «étymon spirituel» à découvrir?

Sur le dernier ouvrage de Philippe Baillet

par Daniel COLOGNE

 

Note de la rédaction: Daniel Cologne rend ici hommage à Philippe Baillet qu'il a côtoyé notamment au "Cercle Culture & Liberté", structure qui a précédé la création de la revue évolienne "Totalité" (1977), dirigée ultérieurement par Georges Gondinet. Philippe Baillet, traducteur de Julius Evola, a été par la suite secrétaire de rédaction de "Nouvelle école", avant d'être évincé par le directeur de cette publication, qui pratiquait là son sport favori. L'intérêt du nouveau livre de Baillet réside surtout dans le fait qu'il rend hommage à Giorgio Locchi et poursuit la quête de ce dernier qui a donné à la "nouvelle droite" ses impulsions majeures avant d'être évincé de manière particulièrement inélégante par ce même directeur. 

 

* * *

 

Parmi les rencontres que j’ai faites durant ma période parisienne (1977 – 1983), celle de Philippe Baillet fut pour moi une des plus enrichissantes.

 

Co-fondateur de la revue Totalité, Baillet est l’un des principales artisans de la réception de l’œuvre de Julius Evola dans les pays francophones.

 

Sa maîtrise de l’italien lui permet de lire dans le texte original et de traduire avec fidélité de nombreux auteurs transalpins, dont l’énumération impressionne au chapitre 2 de la première partie de l’ouvrage ici recensé : Le Parti de la Vie. Clercs et guerriers d’Europe et d’Asie.

 

Il s’agit d’un recueil de textes initialement parus dans divers périodiques, dont Rivarol et Écrits de Paris, où j’ai moi-même collaboré entre 1977 et 1979.

 

Je reste reconnaissant à Philippe Baillet de m’avoir accordé son amical soutien, non exempt de critique toujours courtoisie, lors d’une conférence que j’ai prononcé en février 1979 au Cercle Péguy de Lyon. Dans la salle, il y avait une charmante et prometteuse étudiante nommée Chantal Delsol. Cette soirée rhodanienne demeure parmi les plus beaux souvenirs de mon séjour dans l’Hexagone.

 

L’émotion nostalgique s’efface devant la rigueur comptable de l’index, où Evola est cité douze fois, Guénon apparaît à trois reprises et Coomaraswamy ne récolte qu’une seule mention, en note infra-paginale.

 

Revenu à Nietzsche « comme référence essentielle » après « un très long détour (p. 15) » par le « traditionalisme intégral » des trois penseurs susdits, Baillet semble toutefois toujours considérer Evola comme inspirateur incontournable dans la perspective de La Désintégration du Système.

 

L’ouvrage de Giorgio Freda était abondamment commenté vers 1975 dans les milieux nationalistes-révolutionnaires. Il ne contenait rien d’original. Tout y était originel. Présents dans la préface du livre de Freda, les deux adjectifs s’opposent aussi dans la conclusion du recueil de Baillet.

 

Celui-ci évoque la haute figure de Lao-tseu : « Le vrai taoïste, lui, est insouciant de sa propre insouciance, qu’il ne donne pas en spectacle pour paraître “ original ”. Il est bien plutôt tourné vers l’originel (p. 233, c’est Baillet qui souligne). »

 

Quand on se rappelle que Révolte contre le monde moderne s’ouvre sur un extrait du Tao tö king, on peut conclure que l’ombre d’Evola plane sur ce florilège divisé en deux parties inégales, la première (six chapitres) relevant de la littérature et de l’histoire des idées, la seconde (deux chapitres) d’orientation plus nettement philosophique.

 

Le cloisonnement n’est toutefois pas étanche. L’auteur nous remet en mémoire l’œuvre littéraire de Mishima, extraordinaire en regard de sa courte existence : « Près de quarante romans, vingt recueils de nouvelles, dix-huit pièces de théâtre et quelques essais (p. 183). »

 

Parallèlement, quelques-uns des écrivains français analysés dans la première partie ont été attirés par l’Extrême-Orient. Même André Malraux, « un cabotin qui rêvait de s’inscrire dans la lignée des grands esthètes armés (p. 112) », connut une période japonisante, controversée, il est vrai. Rappelons aussi que La Condition humaine se passe en Chine.

 

En Chine : tel est précisément le titre d’un « ouvrage remarquable et devenu très rare (p. 79) » d’Abel Bonnard, dont Philippe Baillet se plaît à exhumer quelques brillantes phrases aux allures de maximes. « La Mort nous cache le regret de quitter le monde dans le bonheur de quitter les hommes (p. 108). »

 

Pierre Drieu connut aussi ce que le Belge Firmin Vandenbosch appelle « la tentation de l’Orient ». À l’auteur du Feu Follet, qui dirigea la Nouvelle revue Française sous l’Occupation, Baillet concède « l’élégance et l’honnêteté du désespoir ». Elles « forcent l’estime, voire l’admiration, que ne mérite sans doute pas l’œuvre, avec son ton trop souvent sentencieux, son style parfois médiocre, ses essais très inégaux, dans lesquels les meilleures intuitions s’arrêtent la plupart du temps au stade de l’esquisse (p. 111) ».

 

Étendues à Gabriele d’Annunzio et Ezra Pound, sommairement négatives en ce qui concerne Louis Aragon, les considérations d’ordre littéraire ne constituent pas l’essentiel du message délivré par Philippe Baillet.

 

Les amateurs de rapprochements inattendus goûteront celui effectué entre Nietzsche et Lao-tseu partageant « une vision biocentrique du monde (p. 202) ». Dans le cadre de cette étonnante parenté entre « deux univers de pensée » et en dépit de leur « éloignement racial, temporel, spatial et civilisationnel (p. 216) », Philippe Baillet redéfinit l’idée tant débattue de « volonté de puissance », « catégorie ontologique suprême (p. 218) », « sens originaire (p. 225) » non réductible au simple vitalisme bergsonien.

 

La « volonté de puissance » est synonyme de la « persévérance dans l’être ». Une filiation philosophique directe relie dès lors Nietzsche et Heidegger, et peut-être, en amont de l’histoire de la pensée européenne, le Wille zur Macht de Nietzsche et le conatus de Spinoza. En tout cas, la « volonté de puissance » s’affranchit de tout rapetissement tel que voudrait lui faire subir une certaine critique guénonienne en la confondant avec le jaillissement de « l’élan vital », avec « la création incessante d’imprévisible nouveauté », avec un vitalisme priapique et éjaculatoire.

 

Ailleurs dans l’ouvrage, certains guénoniens sont implicitement ciblés dans la mesure où ils jugent toute révolution anti-moderne impossible en raison des conditions cosmiques défavorables. Ce point de vue revient à catamorphoser le « traditionalisme intégral » en un mythe démobilisateur. L’Histoire n’est pas un progrès linéaire, mais elle n’est pas davantage une décadence unidirectionnelle. Comme le répétait souvent notre regretté ami Dominique Venner, elle a sa part d’imprévu, même si une véritable « astrologie mondiale », apte à saisir la respiration du mouvement historique, pourrait y introduire une frange de prévisibilité.

 

En l’occurrence, l’important est de ne pas « déserter la lutte pour la défense de la cité en raison du dégoût que celle-ci nous inspire (p. 104) ». Il ne faut pas « attendre que tout s’arrange grâce à la divine Providence (p. 105) », par une sorte de retournement automatique inscrit dans la marbre de la fatalité, par une espèce de choc en retour ou d’effet boomerang contre la pesanteur plurimillénaire de l’Âge Sombre (Kali Yuga).

 

À défaut de compter sur une improbable metanoïa de ce type, vers où convient-il de tourner le regard d’une espérance en une « régénération de l’Histoire (p. 133) », face au « mouvement irréversible » (François Hollande) que veut lui imprimer le finalisme égalitaire ?

 

Ce n’est ni du Front national ni des divers partis « populistes » européens qu’il faut attendre une salutaire réaction contre ceux qui souhaitent suspendre le vol du temps, non pas comme Lamartine sur les rives romantiques du lac du Bourget, mais au bord du bourbier social-démocrate perçu comme « horizon indépassable ».

 

Je partage totalement le point de vue qu’exprime Baillet dans les lignes qui suivent et dans son jugement sur le parti lepéniste.

 

« Je tiens évidemment pour acquis que les lecteurs auxquels je m’adresse ne nourrissent pas l’illusion de penser que les différents mouvements “ populistes ” qui engrangent des succès électoraux dans l’Europe d’aujourd’hui sont une résurgence du phénomène fasciste (p. 161). »

 

Quant au Front national, il « entretient désormais le comble de la confusion » en se présentant comme « le défenseur par excellence du républicanisme et du laïcisme (p. 101) ».

 

Philippe Baillet nous invite à rechercher « l’essence du fascisme », selon l’expression de Giorgio Locchi, dont une conférence est retranscrite (pp. 164 à 182) entre les deux parties du livre. Il s’agit en quelque sorte de trouver pour le fascisme l’équivalent de ce que le grand critique littéraire allemand Leo Spitzer, fondateur de la stylistique, veut faire surgir dans sa lecture des écrivains : un « étymon spirituel ».

 

Philippe Baillet s’interroge à propos d’un « nouveau regard (p. 21) » que la science et la recherche universitaires semblent porter, depuis quelque temps, sur le national-socialisme.

 

Johann Chapoutot affirme que le national-socialisme est porteur d’une Kulturkritik « prolixe et plus argumentée qu’on ne le dit (p. 22) ».

 

Plusieurs expéditions scientifiques en Amazonie, au Libéria et au Tibet, la reconversion de Leni Riefenstahl comme cinéaste du Sud-Soudan : voilà autant de faits avérés qui plaident en faveur d’une ouverture du nazisme au monde non européen. Ces réalités « sont encore largement méconnues dans nos propres rangs, quand elles ne sont pas purement et simplement ignorées (p. 247) ».

 

En revanche, on ne peut que constater l’hostilité de « beaucoup de hauts responsables nationaux-socialistes […] à la postérité d’Abraham, aux serviteurs de la Loi, de la Croix et du Livre, bref à tout l’univers mental du “ sémitisme ” au sens le plus large (p. 29) ».

 

Dans le sillage de Giorgio Locchi, Philippe Baillet diagnostique une « tendance époquale (p. 136) » dont nous subissons les effets pernicieux depuis deux millénaires : un sémitisme lato sensu, un judéo-christiano-islamisme, auquel doit s’opposer une « tendance époquale » surhumaniste.

 

Vie2.jpgRespectivement consacrés à Renzo de Felice et Giorgio Locchi, les chapitres 1 et 6 de la première partie posent les questions les plus fondamentales pour notre famille de pensée. Jusqu’où faire remonter la recherche de notre « moment zéro » (François Bousquet) ? Les étapes de la « tendance époquale » surhumaniste se succèdent-elles de manière continue ? Le fascisme lato sensu (dont le national-socialisme est provisoirement la forme la plus achevée) a-t-il été « prématuré (p. 142) », comme le laissent supposer certains passagers de Nietzsche prophétisant un interrègne nihiliste de deux siècles ?

 

Selon Locchi et Baillet, le « phénomène fasciste » de nature « transnationale et transpolitique (p. 136) » prend racine dans « la seconde moitié du XIXe siècle (p. 137) ». Baillet précise dès sa préface : « la grande réaction antirationaliste de la fin du XIXe siècle (p. 12) » marque l’origine du fascisme en tant qu’essence apte à « détrôner le cogito (p. 221) », cette formule finale soulignant la remarquable cohérence de l’auteur.

 

Mais pourquoi ne pas remonter encore plus loin, par exemple jusqu’à cet équivoque XVIIIe siècle qui préoccupe Renzo De Felice avant qu’il se spécialise dans la période mussolinienne ?

 

Car le siècle des prétendues « Lumières » et de l’Aufklarung ne fut pas seulement celui des philosophes néo-cartésiens instaurant « pour la première fois une culture de masse (p. 146) ». Il fut aussi celui des « illuminés » dont le « mysticisme révolutionnaire (p. 44) » fournit à l’historien l’occasion de réhabiliter « la dignité historiographique de l’irrationnel (p. 47) ». Le propos de De Felice est « d’insérer le “ fait mystique ” dans l’histoire, alors même que, selon lui, des tentatives dans ce sens n’ont été faites que par l’histoire littéraire à propos du Sturm und Drang et du romantisme (p. 44) ». Je rejoins Philippe Baillet dans son appel à compulser plus systématiquement les revues culturelles gravitant dans l’orbite du fascisme (allemand en l’occurrence) pour dévoiler certaines facettes d’un “ sens originaire ” ou d’un “ étymon spirituel ” chez Klinger, Lenz, Schiller, Herder, Hölderlin et Novalis, disait un jour Robert Steuckers cité en page 155. À titre anecdotique, je signale qu’un des plus brillants germanistes que j’ai croisés à l’Université libre de Bruxelles était d’origine togolaise et faisait une thèse de doctorat sur le Sturm und Drang.

 

Sur la « Révolution conservatrice », c’est bien entendu le travail de rassemblement d’Alain de Benoist (cité pages 134 et 155) qu’il faut saluer, tout en insistant sur un thème commun à Locchi et Baillet : la parfaite continuité de ce mouvement et du national-socialisme, même si certains « révolutionnaires-conservateurs (comme Armin Mohler, par exemple) ont « tenté de tourner les difficultés liées à cet incommode voisinage (p. 149) ».

 

Sous la forme du national-socialisme, la « tendance époquale surhumaniste » a-t-elle émergé trop tôt ? On peut le penser dans la mesure où la « tendance époquale » opposée, de nature « sémitique », n’était pas encore en état d’épuisement. Elle refait surface aujourd’hui dans « le panislamisme radicalisé », ses « formes exacerbées de ressentiment culturel » et sa « haine raciale patente (p. 161) ».

 

Le seul passage du livre de Baillet qui puisse laisser le lecteur sur sa faim est celui où l’islamisme est ainsi réduit à l’influence de facteurs psychologiques. Je conseille la lecture de l’analyse plus fine de François Bousquet, cité plus haut, dans la revue Éléments (n° 156, pp. 22 à 24).

 

Selon Bousquet, toute religion est coextensive d’un devenir historico-culturel et un exemple éloquent en est fourni par le Christianisme, qui peut être « interprété comme une métamorphose complexe de l’ancestrale religion païenne (p. 137) ». En l’occurrence, Baillet fait écho aux idées de Wagner, l’un des pôles de la « tendance époquale surhumaniste » (l’autre pôle étant évidemment Nietzsche).

 

Mais la mondialisation post-moderne favorise, par une sorte de mutation génétique, l’émergence de religions d’un type nouveau qui, à l’instar des « frères ennemis » de l’évangélisme et du salafisme, aspirent à renouer avec leur « moment zéro », leur origine immaculée, leur paléo-tradition non encore entachée par les vicissitudes de l’Histoire et les contraintes de ce que Charles Péguy appelle la nécessaire « racination » du spirituel dans le charnel.

 

À la lumière de l’article de Bousquet, le « panislamisme radicalisé » apparaît motivé par quelque chose de bien plus essentiel que la « haine » et le « ressentiment ».

 

Par ailleurs, une question mérite d’être posée : la recherche d’une essence fasciste « transpolitique » et « transnationale » (adjectif également utilisé par Bousquet dans son examen des « religions mutantes ») n’est-elle pas assimilable à la quête du « moment zéro », hors sol, hors temps et antérieur à toute « racination » ?

 

Rechercher l’essence du fascisme revient à découvrir son arché (le principe, l’origine) sans perdre de vue sa coextensivité à une genosis (le devenir).

 

C’est à dessein que j’emploie les termes inauguraux de l’Ancien Testament, car je ne suis convaincu, ni de la corrélation du « sémitisme » et de l’égalitarisme, ni de la désignation des monothéismes sémitiques comme ennemi global et principal.

 

Le mépris des Juifs pour les goyim, l’hostilité des Chrétiens envers les mécréants, l’aversion de l’Islam pour les infidèles sont analogues au dédain que peuvent ressentir les disciples de Nietzsche face aux « derniers hommes » qui se regardent en clignant de l’œil et se flattent d’avoir inventé le bonheur.

 

D’autre part, plutôt que « désigner l’ennemi », ne faut-il pas prioritairement identifier celui qui nous désigne comme ennemi ? À mes yeux, il ne fait pas de doute que c’est le laïcisme stupidement revendiqué par le Front national.

 

Quelle que soit l’étymologie basse-latine (laicus, commun, ordinaire) ou grecque (laos, le peuple, dont le pluriel laoi signifie « les soldats »), le laïcisme est à la fois égalitaire et profanateur.

 

D’un côté, il réduit les êtres humains à ce qu’ils ont de plus ordinaire en commun. De l’autre, il déclare une guerre permanente à tout ce qui relève du spirituel, du métaphysique, du cosmologique et du sacré.

 

René Guénon a très bien vu que l’égalitarisme ne serait qu’une première étape de la modernité. Dans un second temps sont appelées à émerger une « contre-hiérarchie » et une « parodie » de spiritualité. S’il faut éviter les pièges de l’apolitisme et du fatalisme tendus par certains guénoniens, il convient tout autant de garder en mémoire le message d’un maître à penser dont le diagnostic de « chaos social », entre autres analyses prémonitoires, se révèle d’une brûlante actualité.

 

Le mérite de Philippe Baillet est de dire clairement les choses : une révolution anti-moderne ne peut qu’être synonyme de rétablissement des valeurs d’ordre, d’hiérarchie et d’autorité. Je demeure réservé quant à l’adjectif « surhumaniste », trop nettement corollaire de la référence nietzschéenne, alors que la quête du « sens originaire » de la contre-modernité peut nous faire remonter au moins jusqu’au pré-romantisme, pour nous en tenir à l’aire culturelle allemande.

 

Nous autres révoltés contre le monde moderne devons poursuivre le combat contre la « tendance époquale » égalitaire qui est loin d’être épuisée. Mais il nous incombe aussi de nous préparer à l’affrontement décisif entre, d’une part l’élite « transnationale » de clercs et de guerriers tels que nous les présente Philippe Baillet, et d’autres part « l’hyper-classe mondialiste » (Pierre Le Vigan), dont il est encore aujourd’hui difficile de cerner les contours, mais qui incarnera davantage l’aspect profanateur du laïcisme que sa facette égalitaire, si tant est qu’il faille diviser l’action anti-traditionnelle en deux étapes successives. Égalitarisme et « contre-hiérarchie » apparaissent plutôt comme des phénomènes simultanés, dès qu’on y regarde d’un peu plus près.

 

Cet enchevêtrement complexe d’influences négatives rend d’autant plus urgente la tâche de redéfinir un fascisme essentialisé, capable de riposter aux formules lapidaires et diffamatoires – comme « l’islamo-fascisme » de Manuel Valls – qui visent à confondre dans la même brutalité tous les ennemis du Nouvel Ordre Mondial.

 

Mais une essence ne persévère dans l’Être que sous les conditions historiques, culturelles, géographiques, voire ethniques d’une substance qui, dans le livre de Philippe Baillet, hormis les pénétrantes ouvertures vers l’Extrême-Asie, épouse un vaste courant germanique continu : le Sturm und Drang, Nietzsche, Wagner, la « Révolution conservatrice » et le national-socialisme.

 

L’« étymon spirituel » de Leo Spitzer ne perdure qu’en s’incarnant dans « une race, un milieu, un moment », selon la formule d’Hippolyte Taine, qui fut également un grand critique littéraire.

 

À notre époque de désinformation calomnieuse, Philippe Baillet a le courage d’écrire que le national-socialisme est « la seule forme historique de révolte anti-égalitariste que le monde moderne ait connue (p. 15) ».

 

Le cadre limité de la présente recension ne permet pas de mettre au jour toute la richesse du livre de Philippe Baillet.

 

Il faudrait s’attarder davantage sur le chapitre consacré à Bernard Faÿ, dont l’itinéraire « conduit de l’avant-garde artistique et littéraire au pétainisme, des sympathies initiales pour Roosevelt à la collaboration avec des responsables de la SS dans le cadre du combat anti-maçonnique, d’un cosmopolitisme snob à la passion du redressement national (p. 116) ».

 

Il conviendrait de commenter plus en détail les pages remarquables qu’inspire à Philippe Baillet la lecture d’Abel Bonnard, pour qui « l’ordre est le nom social de la beauté (p. 92) ».

 

« Face à l’uniformisation croissante des modes de vie et des cultures, face à la laideur moderne qui s’étend partout, le clerc authentique est appelé à témoigner pour les valeurs de l’esprit, d’abord en se faisant le chantre de l’ordre et de la civilisation (p. 78) ».

 

Baillet décèle chez Bonnard un « penchant pour la poésie de l’ordre, que résumait si bien, au Japon, l’alliance du tranchant du sabre et de la pureté du chrysanthème dans l’âme du guerrier (p. 93) ».

 

La « ligne de force générale » que l’auteur a vu émerger, au fur et à mesure de la relecture et de la ré-écriture augmentée de ses articles initiaux, mériterait d’être approfondie.

 

Cette « ligne de force » ne renvoie « jamais, fondamentalement, à un discours, une spéculation, des concepts, des idéologies, une dialectique, mais à leurs opposés : un mythe, une vision du monde, des images, une esthétique (p. 12) ».

 

Ce culte de la Beauté, qui n’est pas sans rappeler la poésie d’Émile Verhaeren, pourtant compagnon de route du socialisme, cette nécessité de percevoir le Beau même « dans ce qui peut être tragique (p. 19) », cet esthétisme se combine à un « conservatisme vital (p. 199) », à une vigoureuse dénonciation du « caractère absolument suicidaire de toutes les idéologies prétendant faire abstraction des lois de la vie au profit d’un monde artificiel entièrement recomposé dans une perspective où l’homme est la mesure de toutes choses (p. 20) ».

 

La célèbre proposition de Protagoras fut vivement critiquée par Platon, dont La République et Les Lois figurent, comme le De Monarchia de Dante ou l’Arthashâstra indien, parmi les grands textes « qui ignorent superbement les anti-principes démocratiques (p. 85) ».

 

C’est également à ces sources antiques et médiévales que doivent s’abreuver tous les non-conformistes désireux de penser « par delà les clichés (p. 117) », de dépasser les clivages manichéens et de partir en quête d’une fascisme essentialisé, coextensif d’un mouvement historique bien plus ample que celui amorcé par les prétendues « Lumières ».

 

Philippe Baillet nous offre une chatoyante galerie de portraits de clercs et de guerriers dans un livre réunissant la cohésion de la pensée, la brillance de l’écriture et la magistrale organisation du savoir.

 

L’auteur a choisi de nous dévoiler le « versant ensoleillé (p. 24) » de la montagne au sommet de laquelle, sur un équivoque et périlleux chemin de crête, le fascisme a proposé un parcours politique et un itinéraire métapolitique.

 

Les voyageurs de haute altitude s’exposent fatalement à des chutes au fond du précipice, dans l’abîme de l’autre versant.

 

Philippe Baillet ne se voile pas la face lorsqu’il stigmatise, par exemple, « le traitement réservé aux prisonniers russes (p. 28) » par les nazis dans les territoires de l’Est occupés.

 

La caste médiatique aujourd’hui dominante aurait certes préféré d’autres illustrations des excès meurtriers où le fascisme allemand a basculé.

 

Mais ce livre ne s’adresse pas à cette caste experte en victimisation préférentielle.

 

Il interpelle plutôt tous les membres de notre famille de pensée conscients de ne pouvoir se permettre l’économie d’une étape intellectuelle en compagnie des régimes et mouvements anti-égalitaires du XXe siècle.

 

Daniel Cologne

 

• Philippe Baillet, Le Parti de la Vie. Clercs et guerriers d’Europe et d’Asie, Akribeia, Saint-Genis-Laval, 2015, 243 p., 22 € (à commander à Akribeia, 45/3, route de Vourles, 69230 Saint-Genis-Laval).

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PhB_1.JPGLe Parti de la vie

 

Clercs et guerriers d’Europe et d’Asie

Philippe Baillet

Le « parti de la vie » est constitué de tous ceux en qui sont encore présents et actifs les éléments originaires du réel occultés par la modernité : la voix de la race et du sang, les instincts élémentaires de légitime défense et de protection des siens, la solidarité ethnoraciale, la grande sagesse impersonnelle du corps, le sens de la beauté conforme aux types. Qu’il s’agisse de réalités méconnues du régime national-socialiste ou de l’anti-intellectualisme fasciste, de l’ordre en tant que « nom social de la beauté » chez Abel Bonnard ou de Giorgio Locchi insistant sur le caractère nécessairement « mythique » du discours surhumaniste, de l’intimité possible de la chair avec les idées selon Mishima ou de la nature « biocentrique » de la vision taoïste du monde, etc. – tout ici renvoie à une esthétique incarnée, radicalement étrangère à la postérité d’Abraham, aux serviteurs de la Loi, de la Croix et du Livre, aux « Trois Imposteurs » (Moïse, Jésus, Mahomet). Apparemment inactuel, ce livre explore donc avec rigueur le « versant ensoleillé » d’une Cause diffamée, enracinant ainsi les convictions dans la dynamique même des lois de la vie.

Contient un texte inédit en français de Giorgio Locchi.

Index.

248 p.

Pour commander:

http://www.akribeia.fr/akribeia/1712-le-parti-de-la-vie.html

jeudi, 29 octobre 2015

Vico, der Vorläufer Spenglers

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Vico, der Vorläufer Spenglers

von Carlos Wefers Verástegui

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Der Geschichtstheoretiker und Kulturphilosoph Giambattista Vico (16681744) ist, wenn überhaupt, nur als „Vorläufer Spenglers“ bekannt.

Zu Unrecht, denn der Neapolitaner Vico ist Spengler in Sachen Eingebungskraft, Selbständigkeit und Reichhaltigkeit des Denkens überlegen. Er verdient es, als Bildungsmacht neben den ganzen Deutschen Idealismus gestellt zu werden, aber auch Wilhelm Dilthey, Friedrich Nietzsche – vor allem der geniale Nietzsche von „Lüge und Wahrheit im außermoralischen Sinne“ – und Ferdinand Tönnies sind Vico ebenbürtig. Vicos leidenschaftliche, aber dennoch den Tatsachen auf den Grund gehende Beschäftigung mit der Geschichte lassen ihn vorteilhafter als Spengler erscheinen. Anders als die herkömmlichen Geschichtsphilosophen neigt Vico nicht zu Ideologie und politischer Auswertung der Vergangenheit.

Bedeutung Vicos für den Konservatismus

Dass Vico immer noch so wenig bekannt ist, liegt vor allem daran, dass er im Gegensatz zu Spengler keinen durch Zeitumstände bedingten Erfolg hatte. Sein Hauptwerk, die „Neue Wissenschaft“ (Scienza Nuova), war seiner Zeit derart voraus, dass es über ein Jahrhundert lang einsam dastand und auch später meist unverstanden blieb.

Erst die Arbeiten des italienischen Philosophen Benedetto Croce sowie die Forschungen Deutscher, wie Richard Peters, aber auch Karl Löwith, haben die Viquianische Methode der historischen Einsicht in ihrem Wert wiedererkannt. Auch konservative Gelehrte, wie Werner Sombart und Carl Schmitt, haben Vico durchaus die Wertschätzung zuteil kommen lassen, die er verdient. Der ehemalige Spann-​Schüler Eric Voegelin hat in ausdrücklicher Anlehnung an Vico seinem Hauptwerk den Titel „Die neue Wissenschaft der Politik“ gegeben.

Gemäß ihrem Schöpfer ist die neue Wissenschaft eine teologia civile e ragionata della provvidenza divina, frei übersetzt: eine „auf Vernunftbelege gegründete politische Theologie der göttlichen Vorsehung“. Hinter dem barocken Ausdruck verbirgt sich eine Philosophie des Geistes, ähnlich imposant wie die Hegelsche. Dazu gesellen sich noch eine empirische Geschichte oder, wie Croce präzisiert, „eine Gruppe von verschiedenen Geschichten“, sowie eine Gesellschaftswissenschaft. Obwohl Vico den Begriff nicht gebraucht, ist sein Werk als eine umfassende Kulturphilosophie zu bezeichnen, die sich bereits im Übergang zu einer konservativen Soziologie befindet.

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Ideale ewige Geschichte

Nach Vico bezeichnet seine Wissenschaft eine „ideale ewige Geschichte“. Dieser idealistische Begriff geht auf zwei Gegenstände Viquianischer Eingebung zurück: durch die Erfassung des Heroenzeitalter Homers ist er im Mythos verankert, die römische Geschichte hat ihm als Vorlage für alles Weitere gedient – sie stand geradezu Modell für Vicos geschichtliche Zyklenlehre der corsi und recorsi. Vicos Geschichtsbild gemäß dieser „idealen ewigen Geschichte“ ist aufs innigste verwand mit romantischen Naturgeschichtsvorstellungen, wie denen Heinrich Leos oder Wilhelm Roschers, aber auch Othmar Spanns universalistische Geschichtstheorie gehört hier her.

Das Geschaffene ist das Wahre

Wie leicht es ist, Vico mißzuverstehen, beleuchtet Spanns Fehlurteil über Vico als eines „naturalistischen Geschichtsphilosophen“. Der Ernst von Vicos System ist, wie bei Spann, „objektiver Idealismus“. Auch führte Vico konsequent die fundamentale Unterscheidung zwischen Natur und Kultur, zwischen physischer Welt und Welt des Geistes als erkenntnistheoretischer Grundlage einer von den Naturwissenschaften geschiedenen und, im Gegensatz zu diesen, wahren Wissenschaft – der vom menschlichen Geist nämlich – ein.

Dadurch, dass Vico seinen Gottesglauben gedanklich ausführte, kam er zu der Feststellung: In Gott sind Einsicht, Erkennen und Schaffen eins. Nur Gott, als dem Schöpfer, gebührt vollkommene Einsicht in sein Werk, nur er besitzt wahres Wissen über alles. Der Mensch aber findet sich in einer natürlichen Welt zurecht, die er nicht geschaffen hat, und über die er deshalb nur „Gewissheit“, niemals aber „wahres Wissen“ erlangen kann. Nur was der Mensch selbst schafft, vermag er auch vollkommen zu erkennen, wahres Wissen erlangt er nur über seine eigenen Erzeugnisse.

Vico stützt sich in seinen Untersuchungen auf die Fähigkeit des menschlichen Geistes, Erkenntnis über sich selbst zu erlangen, auf die Einheit des Menschengeschlechtes sowie die (relative) Unveränderlichkeit der Menschennatur. Relativ unveränderlich ist die Menschennatur deshalb, weil Vico sich der Geschichtlichkeit des Menschen sowie seiner individuellen Abhängigkeit vom geschichtlichen Schicksal der „Völker und Nationen“ sicher ist.

Gegen Naturrecht, Rationalismus und Atheismus

Diese dogmatische Erkenntnisvoraussetzung nimmt bei Vico die Gestalt einer Kritik des Rationalismus sowie der utilitaristischen Naturrechtslehren, vor allem von Hobbes und Spinozas, an. Am Ende dieser Kritik steht bei Vico eine entschieden fromme Philosophie der Autorität, die für sich beansprucht, die gesamte Überlieferung, den Mythos, die Phantasie und überhaupt die Intuition wieder in ihr angestammtes Recht eingesetzt zu haben. Überhaupt ist die Frömmigkeit bei Vico erster und letzter Begriff.

Erst der Fromme besitzt den Schlüssel zum wahren, nämlich einfühlsamen Verständnis der gesellschaftlich-​geschichtlichen Welt. Gegenüber dem Frommen und seiner wahren Einsicht nehmen sich die Naturrechtler und Rationalisten toll und hochmütig aus; die Wahrheit bleibt ihnen auf immer verschlossen, und sie merken es nicht einmal. Derselbe tolle Hochmut macht für Vico auch die Atheisten so hassenswert. Über hundert Jahre später übernimmt der spanische Reaktionär Juan Donoso Cortés dieses Viquianischen Argument in seinem Kampf gegen die politischen Nachfahren der Rationalisten und Naturrechtler, die Liberalen und Sozialisten.

Die Rolle der „Vorsehung“

Vico_La_scienza_nuova.gifAls strenger Theist ist Vico der Ansicht, dass die Geschichte, die ihm immer eine Geschichte der „Völker und Nationen“, niemals von Individuen ist, zwar von Menschen gemacht ist, dass aber hinter den Menschen und selbst durch die Menschen hindurch unentwegt die göttliche Vorsehung wirkt. Die Selbsterkenntnisfähigkeit des menschlichen Geistes ist ein Beweis für dieses Wirken der Vorsehung, ja, sie nähert den Menschen selbst in gewisser Weise an Gott an.

Dieses Vergnügen in der Gewissheit, in der Erkenntnis der menschlichen Dinge über sich selbst als Menschen herausgewachsen zu sein, macht Vico zu einem würdigen Nachfahren und Geistesverwandten Machiavellis, der für sich – und für intelligente Leser ebenfalls – stillschweigend beanspruchte, die politischen Dinge sowohl von der Ebene als auch zugleich von der Anhöhe aus zu betrachten. Was aber bei Machiavelli verhohlener Stolz und eine kleine Eitelkeit gegenüber den Fürsten ist, ist bei Vico freudige Demut ob der errungenen wahren Einsicht im Angesicht Gottes.

Gott besitzt die vollkommene Einsicht, nur er besitzt die ganze Wahrheit, und sich ein wenig zu ihm emporgerungen zu haben, ist keine Kleinigkeit für den menschlichen Geist. Darauf ist Vico stolz. Die Menschen spielen sich nämlich dauernd selbst Streiche, sie irren über die wahren Beweggründe ihres Handelns. Sie meinen, etwas zu wollen oder zu tun, erreichen aber etwas ganz anderes, was ihnen nicht aufgeht – es ist die Vorsehung, die die Selbstsucht, die Triebe, den Ehrgeiz, die Laster, die Leidenschaften, die Irrtümer und überhaupt alles Streben der Menschen dazu benutzt, das Allgemeinwohl hinter dem Rücken der Akteure und über ihre Köpfe hinweg zustande zu bringen.

Machiavellischer Realismus und geschichtliche Dialektik

Vicos „Vorsehung“ hat zwar auf den ersten Blick etwas von Adam Smiths „unsichtbarer Hand“, die gerade da die allgemeine Wohlfahrt befördert, wo jeder seinem eigenen Vorteil nachgeht. Ihre genaue Entsprechung ist jedoch Hegels List der Vernunft: dadurch, dass die Menschen sich in ihren wesentlichen Überzeugungen, Glaubensartikeln, Ansichten und Zwecksetzungen täuschen bzw. sich grundsätzlich irren, machen sie sich letzen Endes selbst, nämlich freiwillig und ohne dass sie irgendetwas davon ahnten, zu Werkzeugen der Vorsehung.

Diese eigentümliche dialektische Spannung zwischen Existenz, Bewusstsein und Handeln des Individuums und dessen eigentlicher, ungeahnter Bewandtnis innerhalb von Gottes Vorsehung, sagt trotz ihrer, für heutiges Empfinden mythologischen Einkleidung, tatsächlich etwas über die Struktur der menschlichen Wirklichkeit aus. Sie tut es auf die gleiche Weise, wie es Machiavelli mit dem Hinweis getan hat, dass der Fürst sich auch darauf verstehen müsse, nach Notwendigkeit böse zu handeln. Nur ist bei Vico das Aktivistische von Machiavellis individualistischer Handlungstheorie eben zum überindividuellen Prozess der Vorsehung ausgeweitet, der so zur geschichtlichen Dialektik wird. Die Vorsehung ist gerade deshalb, weil sie göttlichem Ratschluss, Gottes Vernunft und Autorität in einem, entsprungen ist, gut und gerecht; in der Notwendigkeit des geschichtlichen Verlaufs rechtfertigt, d.h. reinigt, heilt und korrigiert sie diesen.

Sympathie für barbarische Heroen

vico1zs1fqL._UY250_.jpgAls tief einem in der Tradition verwurzelten Katholiken fehlte Vico jeder Begriff von „Fortschritt“. Trotzdem beinhaltet seine „Neue Wissenschaft“ eine intensive Auseinandersetzung mit dem Aufstieg und Verfall der Völker und Nationen. Nach Vico liegt der Anfang der Völker in einem dunklen Heroenzeitalter. Dies ist gekennzeichnet durch barbarische Gefühlsausbrüche und körperliche Sinnlichkeit. Doch gerade dieses unmenschliche Zeitalter der rohen Gewalt und Barbarei ist ganz im Sinn der Vorsehung, und zwar zum Besten der Menschen: sie sind der Urkeim eines wahrhaft geselligen Zustandes, der erst ein menschenwürdiges Zusammenleben möglich macht. Obwohl Vico nicht mit groben Bezeichnungen für seine barbarischen Helden spart, behandelt er diese Vorzeit mit Liebe und Verständnis, ja sogar mit Sympathie für die „Riesen und Polypheme“, wie er die Barbaren nennt. Ihr Zeitalter ist das einer unschuldigen Jugend, reichlich ausgestattet mit Phantasie und ursprünglicher Schaffenskraft.

Sind es auch Barbaren, so sind sie doch edelmütig und aufrichtig bei aller Gewalttätigkeit. Indem sie ihr zyklopisches Heroenrecht gegenüber anderen Barbaren und, vor allem, den nichtheroischen Schwachen durchsetzten, wurden sie zu Stiftern der Zivilisation. Die Schwachen machten sie sich unterwürfig, nahmen sie in ihre Obhut und gewährten ihnen so ein erträgliches Dasein.

Den weiteren Fortschritt der Kultur zeichnet Vico, hauptsächlich anhand der römischen Geschichte, als eine Folge von Kämpfen, Klassenkämpfen und Bürgerkriegen, zwischen Adligen und Niedriggeborenen, einheimischen Patriziat und fremdstämmigen Plebejern. Nach jedem dieser Kämpfe kommt es zu einem Ausgleich, der immer mehr diese „Gemeinen“, die für Vico die eigentliche Menschheit ausmachen, begünstigt. Dadurch, dass die Plebejer in der Geschichte gegenüber den sich immer mehr weibischen Adligen an Boden gewinnen, wird die mildeste und den Schwachen gemäße Zeit eingeläutet: das „menschliche Zeitalter“. In diesem sichert ein rechtlicher Zustand den Schwachen das Dasein, die „Gesellschaft“ – im Gegensatz zur Gemeinschaft. Auch die Regierungsformen ändern sich während dieses Prozesses: die Aristokratenrepublik, bestehend aus Heroennachkommen, weicht dem demokratischen „Volksstaat“, welcher am Ende in einen Cäsarismus bei bloß „sozialer“ Demokratie ausläuft.

Demokratie bloß eine Durchgangsphase

Die gesellschaftliche Entwicklung geht dabei vom Notwendigen zum Nützlichen. Darauf folgen nacheinander das Bequeme, das Gefällige und, schließlich, der völkerverderbende Luxus. Die „humanen Zeiten“ sind nicht dazu bestimmt, eine den Leuten zuträgliche demokratische Staatsform zu stabilisieren. Nach Vico wissen die „Menschen“ mit ihrer Sicherheit und ihrem Wohlsein nichts Besseres anzufangen, als sich immer mehr in ihrem Eigennutz und ihrer Genussucht gehen zu lassen.

Auch ihren hochentwickelten Verstand benutzen sie nur zu Falschheiten – zur Gemeinheit und Niedertracht. Entgegen den Behauptungen eines Forschers zeigt Vico überhaupt kein besonderes Interesse an der „Demokratie“, sondern sieht diese nur in ihrer geschichtlichen Notwendigkeit und Bestimmung in Egoismus und Unrecht umzuschlagen. Auf sie folgt wieder der ungesellige Zustand, es wird unerträglich für alle. Wegen dieser unerträglichen Ungerechtigkeit des Daseins legt nun die Vorsehung bei der idealen ewigen Geschichte als einem obersten Weltgericht „Berufung“ – ricorso – ein.

Drei Möglichkeiten sind es nun, die sich dabei auftun: 1. Der Retter kommt, gleich Oktavian-​Kaiser Augustus, aus den eigenen Reihen. Es ist die cäsarische Lösung. 2. Es kommt ein fremder Eroberer, der über die erwiesenermaßen sich selbst zu regierenden Unfähigen herrscht – zu ihrem eigenen Besten. 3. Es ist zu spät, die zivilisatorisch überfeinerte Gemeinheit und die Barbarei des Verstandes gehen so lange weiter, bis die Völker sich total heruntergebracht haben. Hier greift nun die Vorsehung rettend ein und gewährt der Menschheit nach all dem Schmerz und Unrecht eine zweite Chance – ein neues Mittelalter bricht an. Nur dieser völlige Rückfall in eine ganz ursprüngliche und gewalttätige Barbarei, wie die, die das Mittelalter ermöglichte, ist in der Lage, die zivilisierte Menschheit zu läutern und von sich selbst, als einem leidigen Übel, zu kurieren.

mercredi, 28 octobre 2015

Edmund Burke en de mensenrechten

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Door: Tom Potoms

Solide solidaire samenleving

Edmund Burke en de mensenrechten

Ex: http://www.doorbraak.be

Een solide solidaire samenleving kun je moeilijk uitbouwen met een liberaal opengrenzenbeleid. Dat wist Edmund Burke al.

Met de recente vluchtelingencrisis en bijbehorende (politieke en sociaal-economische) uitdagingen voor het beleid is er ook een interessante discussie ontstaan rond de praktische invulling of interpretatie van het begrip 'mensenrechten'. Tevens hoor je weer her en der de interessante tegenstelling tussen diezelfde mensenrechten (die een 'universeel' karakter dienen te hebben) enerzijds en burgerrechten (die gekoppeld zijn aan het territorium of de jurisdictie waar men zich bevindt). 

Dit debat is zeker niet nieuw en bovendien is het boeiend om de aloude filosofische tradities te zien opduiken binnen een actueel politiek debat. Aan de 'progressieve' kant van het politieke spectrum hoor je voornamelijk dat de nadruk gelegd wordt op het feit dat vluchtelingen mensen in nood zijn en omwille van dat 'mens-in-nood-zijn' dient men, de logica van de mensenrechten volgende, hen op eenzelfde voet te behandelen (in juridische termen) als de eigen burgers. 

Meer conservatieve politici en denkers zijn een eerder trapsgewijze benadering genegen. Zo kennen we inmiddels de voorstellen van Bart De Wever die een apart statuut voor vluchtelingen voorstelt, met onder meer ook een latere uitbetaling van kindergelden. 

Hoewel de concrete (beleidsgeoriënteerde, technische) invulling anders is, deze discussies gaan terug naar de tijd van de Franse Revolutie, waar men ook soms de geboorte van de moderne politieke links-rechtsopdeling situeert. 

Gematigde versus radicale Verlichting

Binnen de Europese filosofische traditie kan men een zekere lijn trekken waarbij we aan de ene zijde de 'Schotse variant' van de Verlichting terugvinden (met denkers als David Hume, Adam Smith en Adam Ferguson) en anderzijds de Franse versie (o.m. Voltaire, Rousseau, Condorcet). Grof gesteld kan men zeggen dat de eerste richting veeleer de nadruk legt op gewoontes, traditie en maatschappelijke regels als nuttige (zelfs noodzakelijke) aspecten om onze doeleinden (vaak aangedreven door passies, driften …) tot een succesvol einde te brengen. De Schotse school stond dan ook (ongeacht de zeer eenzijdige moderne lezing van bijvoorbeeld Smith zijn ‘onzichtbare hand') eerder sceptisch ten aanzien van ideeën op het Europese continent (in Frankrijk en Duitsland) rond het geloof in de zuiver rationele vermogens van individuen. 

Hoewel zeker een scherp en interessant onderscheid tussen diverse continentale Verlichtingsfilosofen gemaakt kan worden, zien we dat binnen de Franse traditie (met de cartesiaanse twijfel als methodologisch instrument) de idee van maatschappelijke regels die gefundeerd dienen te worden in rationele analyse vruchtbare grond vond. Uit het idee van individuen als vrije, autonome en rationele wezens, behept met zekere universeel geldende rechten, ziet men dan ook veeleer de moderne progressieve idee van politiek als een instrument tot 'social engineering'. Instituties, gewoontes en regels die men niet kan funderen vanuit rationalistische kritiek zijn 'imperfect' en dienen vervangen te worden. 

Denkers die binnen de traditie van de Schotse school werken, o.m. conservatieve en klassiek-liberale denkers, hameren op het feit dat vele instituties en maatschappelijke regels ontstaan uit een lang evolutionair (historisch) proces en moeilijk samen te vatten of te funderen zijn in rationele analyse. Toch zijn zulke regels uitermate nuttig, precies omdat ze ontstaan zijn uit een lang evolutionair  trial and error -proces. Regels die niet voldoende effectief zijn in de verwezenlijking van individuen hun doeleinden zullen na verloop van tijd verdwijnen. Deze redeneerstijl kan men terugvinden in de kritiek van Friedrich August von Hayek op het socialisme (en aanverwante 'constructivistische' ideologieën) om de maatschappij te hervormen op basis van 'rationele' analyse'. 

Edmund Burke en de mensenrechten

In deze context is ook de Iers/Britse politicus Edmund Burke (1729-1797) van tel. Burke geldt als een inspiratiebron voor N-VA voorzitter Bart de Wever. Daarom ga ik na wat de 'vader van het moderne conservatisme' te zeggen had over mensenrechten. 

burke781108018845.jpgVooreerst is het belangrijk om op te merken dat sommigen een schijnbare paradox vaststellen bij Burkes gedachtegoed. Zo was hij enerzijds een fervente criticus van het Britse koloniale bestuur in Indië en ondersteunde hij de Amerikaanse revolutionairen in hun onafhankelijkheidsstrijd, anderzijds was hij een fervente tegenstander van de Franse revolutionairen. De meeste auteurs wijzen echter op de continuïteit die men in deze attitudes aantreft, vooral wanneer men nauwgezet de Reflections on the revolution in France (1790) erop naleest. In dit werk, waarvoor hij zo bekend (of berucht) is geworden als vader van het moderne politieke conservatisme, maakt hij een duidelijk onderscheid tussen de traditie van de (Engelse) Glorious Revolution (1688) (en die hij ook terugvond bij de Amerikaanse revolutie) en de Franse revolutionairen van 1789 en nadien. 

Bij de Engelse en Amerikaanse revoluties, zo beargumenteert Burke, ging het niet om het opeisen van universele, natuurlijke rechten van individuen die men moest institutionaliseren, maar veeleer om het verdedigen van de oude gevestigde rechten en wederzijdse verplichtingen (krachtsverhoudingen) tussen vorst en maatschappij. Zoals Burke noteert: 

'The Revolution [De Engelse Glorious Revolution waarbij James II werd vervangen door Willem III van Oranje, hetgeen final resulteerde in de Bill of Rights, 1689, TP] was made to preserve our ancient, indisputable laws and liberties, and that ancient constitution of government which is our only security for law and liberty. If you are desirous of knowing the spirit of our constitution, and the policy which predominated in that great period which has secured it to this hour, pray look for both in our histories, in our records, in our acts of parliament, and journals of parliament, and not in the sermons of the Old Jewry, and the after­dinner toasts of the Revolution Society [Een Engels radicaal genootschap, TP].'

Belangrijk in de kritiek van Burke is het gegeven dat 'abstracte' principes (zoals het formuleren van natuurlijke rechten), wanneer ze los komen te staan van het gewoonterecht en tradities die geëvolueerd zijn binnen een samenleving ('circumstances' ) aanleiding geven tot een erosie in gezag van de gevestigde instituties en dit heeft op zijn beurt weer verregaande niet-bedoelde (en potentieel zeer schadelijke) zij-effecten: 

'These metaphysic rights entering into common life, like rays of light which pierce into a dense medium, are by the laws of nature refracted from their straight line. Indeed, in the gross and complicated mass of human passions and concerns the primitive rights of men undergo such a variety of refractions and reflections that it becomes absurd to talk of them as if they continued in the simplicity of their original direction. The nature of man is intricate; the objects of society are of the greatest possible complexity; and, therefore, no simple disposition or direction of power can be suitable either to man's nature or to the quality of his affairs. When I hear the simplicity of contrivance aimed at and boasted of in any new political constitutions, I am at no loss to decide that the artificers are grossly ignorant of their trade or totally negligent of their duty.'

Een van die onvoorspelbare zij-effecten op politiek vlak, aldus Burke, zou zijn dat het verval van de gevestigde machten kan leiden tot initieel anarchie en chaos waarop dan enkel een tiranniek regime de orde zou kunnen herstellen. Dit heeft men uiteraard effectief vastgesteld in de Jakobijnse Terreur en het daaropvolgende napoleontische bewind. 

Die prudentiële houding tegenover het formuleren van universele rechten, wars van praktische toepasbaarheid binnen historische sociale omstandigheden, vormt de basis van Burke zijn notie van rechten en vrijheden. Op die manier kan men Burke dus veeleer aan de kant van de burgerrechten plaatsen. Burke wenste evenwel niet over te gaan tot een volledige verwerping van welbepaalde burgerlijke vrijheden en rechten:

'The pretended rights of these theorists [de voorstanders van 'abstracte, natuurlijke' rechten, TP] are all extremes; and in proportion as they are metaphysically true, they are morally and politically false. The rights of men are in a sort of middle, incapable of definition, but not impossible to be discerned. The rights of men in governments are their advantages; and these are often in balances between differences of good; in compromises sometimes between good and evil, and sometimes, between evil and evil.'

Lessen voor vandaag? 

De kritiek van klassiek-conservatieve denkers als Burke is uiterst pertinent en dient men serieus te nemen, zeker in het licht van de goede voorspellingen die vervat zitten in het doortrekken van 'abstracte' en 'rationalistische' principes om te komen tot maatschappelijke veranderingen. Totalitarisme (zoals vertegenwoordigd in nationaalsocialisme en communisme) is immers gefundeerd, aldus Hannah Arendt in haar Origins of Totalitarianism (1951), in het koelbloedig toepassen van logisch denken: 'This stringent logicality as a guide to action permeabel the whole structuren of totalitarian movements and governments.'

De reden waarom zoveel mensen uiterst verontwaardigd reageren op bepaalde pleidooien om rechten louter vanuit de bril van burgerrechten te bekijken, is uiteraard dat deze houding zeer snel kan ontaarden tot een egocentrisch of opportunistisch politiek discours, waarbij men de angsten van burgers exploiteert voor electorale motieven. Dit is soms een terechte vrees (waarmee ik mij niet uitlaat over de motieven van bijvoorbeeld Bart De Wever) en daar dienen we ook een afdoende theoretisch antwoord op te formuleren. 

Een goede bron daartoe is de al aangehaalde Hannah Arendt. Zij was zich, als Joodse Duitser, maar al te zeer bewust van enerzijds een doorgedreven ontkennen van menselijkheid als universeel principe en anderzijds de zwakte van 'mensenrechten' om aanvallen op de rechten van individuen tegen te gaan. Arendt formuleerde daarom, uitgaande van een gedeelde menselijkheid (en dus een zeker universalisme) als alternatief het 'recht op rechten', wat impliceert dat elk individu het recht heeft om tot een politieke gemeenschap te behoren. Dit sluit een permanente uitsluiting vanwege elke gemeenschap van bepaalde individuen uit, maar vereist daarentegen ook niet dat men een opengrenzenbeleid moet voeren. 

In die zin kan ik mij, als gematigde sociaaldemocraat die sterk geïnspireerd is door Hannah Arendt, volmondig scharen achter een gefaseerde, stapsgewijze toekenning van rechten. Niet alleen vervalt dit niet in een onhaalbaar en schadelijk (in de zin van het opbreken van het ongeschreven sociale contract tussen burgers, die de fundering is voor solidariteit binnen een politieke gemeenschap) idealisme, maar ook niet in een opportunistisch egoïsme. Ik zou dan ook mijn collega's aan de linkerzijde, zeker binnen de sociaaldemocratie, oproepen om deze moeilijke, maar gezonde middenweg, te bewandelen. Zeker indien men bekommerd is om het instandhouden van de broze en noodzakelijke ondersteuning vanuit de burgers voor de systemen van herverdeling en solidariteit (de sociale zekerheid). Met egoïsme heeft dit niets te maken, integendeel. Zoals de Amerikaanse Democratische presidentskandidaat (en zelfverklaard 'democratisch socialist') Bernie Sanders onlangs stelde: het zijn liberale tegenstanders van de welvaartsstaat die de meeste belangen hebben bij een volledig opengrenzenbeleid.

 

mardi, 27 octobre 2015

Réponses de Julien Rochedy au questionnaire de la Nietzsche académie

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Réponses de Julien Rochedy au questionnaire de la Nietzsche académie
 
Ex: http://nietzscheacademie.over-blog.com 

Julien Rochedy est l'auteur d’un essai d’inspiration nietzschéenne Le Marteau sous-titré Déclaration de guerre à notre décadence, auteur d’un mémoire universitaire sur Nietzsche et l’Europe et ancien directeur national du FNJ.

Nietzsche Académie - Quelle importance a Nietzsche pour vous ?

Julien Rochedy - Une importance fondamentale puisque je pense véritablement, sans pathos, qu'il a changé ma vie. Sa lecture, précoce, a fait office d'un baptême, d'une sorte de renaissance. Je l'ai lu si tôt (entre 14 et 17 ans) qu'on ne peut pas dire qu'il s'agissait de lecture à proprement parler, avec le recul et la distance que cela suppose. Je l'ai littéralement ingurgité, je l'ai fait mien, sans aucune interface entre ses livres et le jeune « moi » qui était en pleine formation. Dès lors, quoique je lise, quoique j'entende, quoique je voie ou quoique j'ai envie de faire, je ne peux l'appréhender qu'avec le regard nietzschéen qui me fut greffé si jeune.

N.A. - Etre nietzschéen qu'est-ce que cela veut dire ?

julien_rochedy_carre_sipa.jpgJ.R. - Je tiens Nietzsche pour une paire de lunettes. Il est, pour moi, avant tout une façon de regarder le monde. Une grille de lecture. Un filtre d'exactitude et, surtout, de sincérité. C'est s’entraîner à percevoir ce qui se mue et s'agite autour de soi en se débarrassant des grilles de lectures morales (le bien et le mal) ou idéalistes (au sens de la primauté de l'Idée). C'est donc regarder les choses et les hommes par delà bien et mal, par le prisme des valeurs aristocratiques ou des esclaves (le sain et le malade, le bon et le mauvais), en s'attardant plutôt sur la psychologie, et en fin de compte, la physiologie (l'importance du corps comme heuristique de l'esprit) pour comprendre les idées d'un homme, au lieu de se mentir sur la capacité « raisonnante » et abstraite des humains. Et c'est aussi sentir profondément ce qui appartient au nihilisme, au déclin, au mensonge vénéneux, à la maladie et à la mort, plutôt qu'à la vie, à la grande vie et l'immense « oui » qui va avec.

Je vous parlai de sincérité à propos de ce que nous oblige Nietzsche. Avec lui, après lui, on ne peut plus se mentir à soi-même. S'il m'arrive par exemple d'avoir une idée pour m'économiser, même si mon cerveau se met à fonctionner, comme de mise chez tous les hommes, pour me trouver une justification, morale ou raisonnable (toute « idée » est une justification de soi), je sais qu'en réalité cette idée ne fait que découler de ma faiblesse. Tout le reste est prétexte.

N.A. - Quel livre de Nietzsche recommanderiez-vous ?

J.R. - Je ne recommanderai pas un livre en particulier, même si « Par delà bien et Mal » et, bien sûr, « Zarathoustra », surnagent. Je recommanderai plutôt une succession de livres pour celui qui voudrait se lancer dans Nietzsche. D'abord Généalogie de la morale, qui suscite directement un immense doute sur ce que l'on croyait établi sur la nature du bien et du mal. Puis Par delà bien et mal, pour approfondir. Ensuite Zarathoustra, l'apothéose poétique de sa philosophie. Après, l'ordre compte moins. Je conseillerai toutefois particulièrement les œuvres de Nietzsche de l'après Zarathoustra, c'est à dire à partir de 1883, car j'ai toujours pensé qu'il y avait un Nietzsche, à la fois en tant qu'auteur (le style) et philosophe (la puissance), avant son Zarathoustra et après son Zarathoustra. L'auteur du Gai Savoir est encore un peu académique. Celui de Crépuscule des Idoles est pur génie.

N.A. - Le nietzschéisme est-il de droite ou de gauche ?

J.R. - Tout dépend bien sûr de ce que l'on entend par droite et gauche. Ces concepts peuvent signifier tellement de choses différentes selon les personnes qu'il est difficile d'enfermer Nietzsche dans des espaces si vagues. Toutefois, en me permettant de les prendre d'un point de vue philosophique, si toutefois ce point de vue peut exister, je dirais bien entendu que Nietzsche est de droite. L'importance qu'il donne à l'inégalité, aux valeurs aristocratiques, au goût raffiné, à la sélection et à la force, ainsi que son mépris souverain pour la populace, les valeurs égalitaires, la féminisation, la démocratie, le matérialisme grossier, etc, font que Nietzsche ne peut évidemment pas être reconnu comme un auteur de gauche.

N.A. - Quels auteurs sont à vos yeux nietzschéens ?

J.R. - Je pourrai vous faire une liste non exhaustive, de Drieu à Jünger en passant par London, mais ça n'aurait pas vraiment de sens, dans la mesure où ces auteurs peuvent être nietzschéens pour différentes raisons, et que des auteurs, nés avant Nietzsche, pourraient être considérés comme nietzschéens. Les grecs par exemple, Héraclite, Alcibiade, Périclès, sont des nietzschéens avant l'heure. Encore une fois, Nietzsche est une façon de voir le monde, et cette façon fut partagée mille fois dans l'Histoire, la plupart du temps par les hommes les plus grands, les plus intelligents et les plus honnêtes avec eux mêmes.

N.A. - Pourriez-vous donner une définition du surhomme ?

J.R. - Avec une lecture simple, mais tout de même pas trop mal, je pourrais vous répondre : c'est le kalos kagathos des Grecs, l’homme idéal, celui qui a la vie la plus remplie et dont la santé débordante s'enrichit de toujours plus de passions et d’aventures, de pensées, de force et de beauté. Mais ce serait bien trop banal. Le surhomme est celui qui accepte le tragique, le destin, et qui l'accepte en riant. C'est le Dieu Thor qui va à la guerre en riant aux éclats dans sa barbe rousse. Le monde n'a manifestement pas de sens, la vie est précaire, je suis imparfait, rien ne vaut rien, mais je cours au charbon quand même. Le pied dansant. Et là, à ce moment là, tout trouve son sens : la vie n'a comme seule justification qu'elle même. C'est le pessimiste actif dont parle Heidegger dans ses écrits sur Nietzsche.

N.A. - Votre citation favorite de Nietzsche ?

J.R. - Je n'en ai pas une en particulier, mais laissez moi vous raconter une anecdote :

Un jour que j'étais dans un bar et que je réfléchissais, avant de l'écrire, à mon livre le Marteau (d'inspiration largement nietzschéenne comme vous l'avez rappelé), je vois un grand gaillard venir s'accouder à côté de moi. Et sur l'un de ses avants bras, je vois tatoué « Amor fati ». J'exulte. Je vois cela comme un signe. Je me mets à délirer en mon for intérieur. Je lui fais signe et lui dit, bêtement, un truc du genre « aux nietzschéens ! » en levant mon verre. Il me répond, interloqué : « quoi ? ». Je lui répète et m’aperçois qu'en réalité il ne connaît pas Nietzsche. Il s'était tatoué ça juste « parce que ça sonnait bien ».

Alors finalement, je vous répondrai « amor fati ». Ça résume tout.

Et en plus ça sonne bien.

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samedi, 24 octobre 2015

Modernisme et totalitarisme

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Modernisme et totalitarisme

Bernard Plouvier
Ex: http://metamag.fr
 

Tous les esprits obsessionnels et/ou enthousiastes (l’un ne va pas forcément de pair avec l’autre) sont d’essence manichéenne. Ils se différentient très fortement de ceux qui ne partagent pas leur conviction, intensément vécue, assimilée à La Vérité. La distinction entre « eux » et « nous » tourne très facilement à l’alternative « eux » ou « nous ». C’est l’essence même du phénomène totalitaire, vieux comme l’humanité, infiniment plus répandu qu’on ne le croit.    Tout le monde l’aura compris : le suffixe « - isme » indique l’exposé d’une doctrine, qu’elle soit d’inspiration (ou « d’essence ») religieuse, politique, scientifique ou artistique.


A – Le Totalitarisme n’a rien de spécifiquement moderne ! 


C’est, par définition, un État où le détenteur de l’autorité exige l’obéissance absolue de ses ouailles, en « totalité », c’est-à-dire non seulement dans leur corps (travail, service armé, participation à la vie sociale), mais aussi de leur esprit (par une idéologie officielle imposée au peuple sous la forme d’une pensée unique)… voire de leur « âme » pour ceux qui croient en une ou plusieurs divinités. Toutes les théocraties anciennes (soit les civilisations où le monarque était réputé « de droit divin » ou était lui-même souverain pontife du culte officiel) ont été des totalitarismes au même titre que le communisme, le fascisme ou le nazisme, et si les musulmans sunnites parviennent à s’accorder sur la personne d’un nouveau calife, celui-ci deviendra un potentat de droit divin, absolu s’il cumule les fonctions de sultan (chef politico-militaire).


Le totalitarisme est une manière d’envisager la domination des êtres humains. Il est indépendant du type de régime politique : le Pouvoir peut appartenir à un seul homme, dictateur omnipotent, à deux hommes ou à un consortium d’hyper-capitalistes. Il peut être fondé sur une foi, sur le culte de l’État ou de la race, sur un dogme économique et/ou social. 


Le dictateur (si l’on préfère : l’autocrate) dirige lui-même :


- l’Exécutif, soit le pouvoir qui fait respecter les lois et la puissance de l’État : administration, fiscalité, polices généralement nombreuses et très puissantes, armée, prisons, relations étrangères

- le Législatif, en décidant seul des lois, avec ou sans la fiction d’un parlement à sa botte ; il n’existe en totalitarisme moderne qu’un parti unique, ce qui procure au despote des élections sans surprise

- le Judiciaire (même remarque que pour le parlement : des magistrats vautrés devant le maître ou convaincus sincèrement de son génie)

- l’Économie, étatisée, dans le cas du marxisme, ou plus ou moins fermement dirigée, dans les régimes populistes

- la Propagande, soit l’information domestiquée : les médias, qui vont du ministre de l’Information aux « réseaux sociaux », en passant par la presse, la radio, le cinéma et la télévision, les organismes culturels et les « sociétés dépensées », voire un clergé aux ordres ; la jeunesse est l’objet d’un endoctrinement spécifique dans un espoir, assez rarement vérifié, d’assurer la pérennité du régime

- le Spirituel, enfin. C’est un peu plus rare, mais cela fut le cas sous l’Empire romain préchrétien où l’Imperator était aussi Pontifex Maximus et dans les États pontificaux jusqu’en 1871 où le pape était souverain au temporel comme au spirituel. Dans les dictatures communistes, ce pouvoir était soit serf – ce fut le cas, en URSS, sous Staline et successeurs à partir de 1941 – soit hors la loi, au Mexique dans les années 1925-35, ou en Chine maoïste.


Un totalitarisme à deux dirigeants peut exister si le souverain temporel et le souverain spirituel s’entendent. Ce fut le cas, au Japon, des Shogun (maîtres militaires et politiques) et des Mikado (empereurs et chefs du culte shintoïste), jusqu’à la révolte de l’empereur Meïji en 1867, ainsi qu’au Tibet, où coexistaient le pouvoir politico-militaire du Panchen Lama et le pouvoir spirituel et intellectuel du Dalaï Lama jusqu’à l’invasion chinoise de 1950.


Une démocratie, parlementaire ou présidentielle, peut devenir un totalitarisme en cas de guerre : ce fut le cas de la France de 1914 à 1918, des USA et de la Grande-Bretagne durant la Seconde Guerre mondiale (suspension des libertés individuelles ; économie dirigée ; justice sommaire et enfermement des suspects ; information transformée en « bourrage de crânes »).


D’une manière générale, il est difficile d’instaurer un totalitarisme quand le ou les maîtres de l’Économie, des médias et de la politique doivent coexister avec un maître spirituel. On n’y parvient qu’en domestiquant l’un ou l’autre. Ce fut l’origine des querelles médiévales entre les papes et les rois ou empereurs ; la coexistence n’était pacifique que si le pape était faible ou si les rois tremblaient devant l’éventualité d’une excommunication personnelle ou de la mise en interdit du royaume. De nos jours, les chefs spirituels pratiquent généralement une grande souplesse, largement rétribuée, face au vrai pouvoir : l’économique. Notre société mondialiste, dans laquelle tous les médias officiels racontent la même histoire sous des apparences un peu diversifiées, sont des totalitarismes de fait, où seule la fantaisie de l’électeur peut se manifester, à échéances fixes, en hissant à l’apparence du pouvoir le groupe de pantins à la mode du jour, qui ne sera probablement pas celle de la prochaine élection. Que les polichinelles soient de droite, du centre ou de gauche, ils font tous la même politique, quelle que soient leur propagande électorale : tous obéissent aux vrais potentats.


Ceux-ci, qui sont les patrons de l’Économie, subventionnent tous les partis susceptibles d’obtenir une majorité ou de former une coalition gouvernementale. La mondialisation est l’uniformisation de la politique et de l’information dans les États où règne l’économie globale (délocalisations des entreprises et des services vers des régions de bas salaires et de minime protection sociale, sauf pour les productions qui exigent des salariés hautement intellectualisés)… donc États dinosaures marxistes et fantaisistes islamistes exclus. Les maîtres de notre monde monnaient la complaisance des chefs spirituels (ou font déposer les réfractaires : le cas de Benoît XVI, opposé à l’accueil généreux par la Banque vaticane de l’argent mafieux, fera peut-être école). Leur unique souci actuel est représenté par le Net qui demeure difficile à censurer. 


Le risque de cette mondialisation-globalisation est le retour du marxisme, par désarroi de peuples exploités, paresseux et abrutis par la propagande et l’alcoolisme : le marxisme est  « soluble dans l’alcool », on le sait depuis fort longtemps, mais les Occidentaux ne l’ont découvert qu’en 1968. Le cas grec risque, lui aussi, de faire école, où un peuple se refuse à régler ses dettes extérieures, accumulées par un régime de démagogues, conseillés par des requins d’affaires… c’est le commencement, non de la sagesse, mais du populisme.


Les doctes universitaires (presque tous issus de la riche bourgeoisie) qui ont savamment disserté sur le « phénomène totalitaire » sont tous passés à côté de l’essentiel, ayant insisté lourdement sur la répression policière (très inégale, en fait, selon les États) et omis l’enthousiasme populaire, généralement né du charisme du chef de l’État (ce fut évident pour Mussolini, Hitler, Kemal Atatürk ou Perón, voire Mao Tsé-toung). Cet enthousiasme était le meilleur soutien de ces régimes, jusqu’à la déréliction finale, liée à une guerre perdue (fascisme, nazisme), à une catastrophe économique (communisme), à l’intervention massive des services secrets US (pour le Péronisme) ou au retour en force de l’islam, dans son fanatisme premier. Il ne s’agit nullement d’un « délire collectif », mais d’un rêve : bâtir un monde nouveau, fonder de nouvelles relations sociales, redonner vie à un Empire. Ce ne peut être qu’un mouvement de jeunes, non encore désillusionnés !  

 

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B – Le modernisme est une doctrine très floue  


Il est née durant la Grande Guerre (un peu avant pour sa part artistique, qui, seule, fut durable, mais a passé initialement pour accessoire), au contact de l’effarante guerre de matériel, au cours de laquelle l’homme avait perdu sa position d’étalon de mesure. De 1914 à 1918, on fit la guerre avec du « million d’hommes » et des tonnes d’explosifs, avec des chars d’assaut, des avions de combat volant à 100 voire 200 km/h, des sous-marins. Et tout cela parut neuf, provoquant chez les survivants un engouement pour la modernité. 


Le culte de la vitesse et de la masse naquit de façon parallèle à la reconnaissance de la fin de l’efficacité de l’individu (sauf position exceptionnelle, mais même un pilote de chasse, prototype du guerrier solitaire moderne, a besoin d’une énorme logistique pour effectuer ses exploits).


Le modernisme, c’est aller plus vite et plus haut, frapper plus fort, construire davantage, produire plus et différemment, grâce à une rationalisation du travail. Le pétrole et l’électricité – déjà bien utilisés avant 1914 – deviennent des matières premières essentielles, à obtenir en énormes quantités et le moins cher possible, au besoin par des guerres à motif économique. Débute également le règne des produits artificiels, nés du génie chimique. Commence surtout la société de consommation envisagée comme le nec plus ultra (la « course au standing de vie » et au confort pour tous) chez les Nord-Américains et les Occidentaux à leur traîne. C’est l’aspect du modernisme qui est renié par les idéalistes nationalistes qui veulent adapter le monde industriel au culte de l’État, né en France au XVIIe siècle (sous Louis XIV) et rationalisé en Prusse aux XVIIIe (Frédéric II) et XIXe (Fichte, Hegel) siècles… et, pour certains, le culte de la race (nazisme ; mouvements panslave, panarabe, pantouranien, de « la plus grande Asie » etc.). 


Les populistes y ajoutent une idée de justice sociale : minimum de protection sociale (l’application est également prussienne, mais date des années 1880-90, grâce à Bismarck, puis à Guillaume II – pourtant présentés comme des « réactionnaires » par les universitaires, alors qu’ils furent d’assez performants « despotes éclairés »), et meilleurs salaires (ce fut la grande idée de l’entrepreneur populiste des USA Henry Ford, judéophobe acharné jusqu’à ce qu’il fasse sa soumission, en 1926, à la finance omnipotente).


Le modernisme, c’est aussi libérer les êtres de la tutelle du clergé, lorsqu’il est jugé rétrograde, mais ce n’est nullement bafouer la morale universelle, que l’on peut nommer l’éthique : ne pas voler ni violer ; ne pas tuer, sauf cas de légitime défense ; aider et protéger les faibles qui le méritent ; s’occuper de sa famille ; faire honnêtement son travail etc. Le travail féminin entraîne une diminution de la fécondité, un accroissement des divorces et des avortements de complaisance, chez les femmes insatisfaites pour toutes sortes de raisons qui ne sont pas exclusivement d’ordre sexuel ; la psychanalyse, l’une des plaies du XXe siècle, a fait errer un nombre ahurissant de « penseurs » sociaux. Les régimes modernistes vont s’opposer sur ces points, selon qu’ils sont populistes (favorables au boom démographique, donc luttant contre les avortements et limitant les divorces aux seuls cas de force majeure) ou marxistes (très permissifs, voire partisans de « l’amour libre »… 


On peut affirmer, sans trop de risque de se tromper, que le modernisme est la réactualisation, grâce à l’industrie et aux moyens nouveaux de communication des êtres et des idées, du « despotisme éclairé » du siècle (autoproclamé en toute modestie) des Lumières… « Il n’est rien de nouveau sous le soleil », soupirait, trois siècles avant notre ère, le rédacteur de l’Ecclésiaste.

samedi, 17 octobre 2015

Au secours: les intellectuels reviennent... par la droite!

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Au secours: les intellectuels reviennent... par la droite!

par François-Bernard Huyghe

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Vous pouvez découvrir ci-dessous un point de vue de François-Bernard Huyghe, cueilli sur son blog, Huyghe.fr, et consacré à l'assaut des intellectuels dits "réacs" contre la doxa politico-médiatique et son refus du réel...

Réac attaque

Les intellectuels reviennent et par la droite. Ou plus exactement, pendant que la gendarmerie de la pensée (Libé, télé & co.) s'épuise à constater les dérapages et franchissements de ligne rouge, quiconque a le malheur de commettre un livre d'un peu de portée se voit aussitôt soupçonné de faire partie du complot réac. Comme si penser c'était désormais regretter. Dès 2002, la première alarme fut tirée par le livre de Lindenberg "Le rappel à l'ordre" : il s'inquiétait du succès d'une intelligentsia odieuse à ses yeux - Gauchet, Finkielkraut, Besançon, Houellebecq, Ferry, Muray, Lévy, Taguieff, Nora et d'autres. Il étaient coupables de nostalgie identitaire, de déclinisme. Ils présentaient les symptôme contagieux des phobies qui nous ont fait tant de mal - refus de l'évolution des mœurs, des droits de l'homme, du métissage, etc..

Treize ans plus tard, il suffit d'ouvrir n'importe quel hebdomadaire pour voir combien font débat chaque nouveau livre ou nouvelle déclaration des inévitables Debray, Onfray, Houellebecq, Finkielkraut, Michéa, Zemmour, sans oublier Renaud Camus, Elisabeth Lévy, Richard Millet, Olivier Todd, Christophe Guilluy, etc. ( gens dont nous convenons volontiers qu'ils ne pensent pas la même chose). Ils risquent le tribunal, du type ONPC où l'on commence par vous dire que vous êtes partout, que vous dominez le débat et que vous ne cessez de vous exprimer avant de vous reprocher la moindre ligne et de vous intimer de vous repentir. Et si possible de vous taire. Ou alors pour votre salut et repentance, vous devriez faire quelque opuscule propre à édifier les masses, tenir des propos antiracistes et pro-européens, exalter la mondialisation et la modernité, chanter l'Autre et le changement. Nous expliquer en somme que le monde tel qu'il est est le moins mauvais possible, employer votre énergie à une cause enfin courageuse et anticonformiste comme lutter contre le réchauffement climatique, Poutine, le Front National, la France crispée et le populisme, devenir de vrais rebelles, quoi!


Pour ne prendre qu'un exemple, au cours des deux dernières semaines Onfray, Debray, Finkielkraut ont chacun fait la couverture d'un des principaux hebdomadaires. Ce sont de longs dossiers qui aideront le lecteur cadre à décider s'il doit croquer dans la pomme : d'un côté ces gens là disent des choses que l'on comprend. Leurs fulminations contre la bien-pensance ont un côté Bad Boys bien séduisant. De l'autre, il ne faudrait quand même pas faire le jeu de l'innommable et la blonde est en embuscade... On a moins hésité avant de goûter son premier joint.


À chaque époque l'évolution des idées dominantes, montée et le déclin des représentations hégémoniques - se développe dans un rapport complexe. Il se joue entre la situation des producteurs d'idées, leurs organisations collectives, la forme des moyens de transmission, les groupes d'influence ou les détenteurs d'autorité, la doxa populaire et -il faut quand même le rappeler- la situation objective. Nous n'avons pas la place d'en traiter ici, mais il nous semble qu'il y a au moins deux phénomènes majeurs sur lesquels nous reviendrons:


L'alliance qui s'esquisse entre la haute intelligentsia (producteur de thèses et idées générales) et le peuple ou du moins les tendances de l'opinion populaire. Elle se constitue autour d'un accord pour nommer un réel que refusent les politiquement corrects (basse intelligentsia, commentateurs médiatiques, classes urbaines assez matériellement protégées pour être soucieuses des "valeurs"). En clair, le conflit oppose ceux qui osent et ceux qui refusent d'aborder les sujets tabous - identité, effondrement de l'éducation, danger islamiste, existence d'ennemis, souveraineté, nation, peuple, culture et mœurs, continuité historique - autrement que comme des fantasmes répugnants nés des "peurs". Ceux qui s'inquiètent d'une permanence du tragique contre les partisans de ce qu'il faut bien nommer l'orde établi. Selon eux, ses principes seraient excellents, le triomphe historique inéluctable et il conviendrait seulement de corriger les excès et dérives avec un peu plus du même : plus de libéralisme, de gestion, de tolérance et d'ouverture, de gouvernance, d'Europe, de technologie et de vivre ensemble. À certains égards, cette bataille se fait à flancs renversés. Les positions entre pessimistes critiques s'attaquant aux élites et aux dominations idéologiques d'une part et, d'autre part universalistes moraux et bons gestionnaires ont été comme échangées entre "réacs" et "progressistes".


Le retrait des seconds sur des positions purement défensives voire répressives (on n'a pas le droit de dire que..., on sait où cela nous mène). Une hégémonie idéologique peut-elle survivre en n'expliquant rien, en ne promettant rien, mais en se contentant de dire que ses ennemis sont méchants ? La criminalisation de la critique et le recours au tabou nous semblent plutôt être les armes du suicide idéologique. C'est, en tout, cas une question sur laquelle nous reviendrons ici.

François-Bernard Huyghe (Huyghe.fr, 8 octobre 2015)

vendredi, 16 octobre 2015

Marcel Gauchet: «Le non-conformisme est globalement passé du côté conservateur»

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Marcel Gauchet: «Le non-conformisme est globalement passé du côté conservateur»

 
Philosophe et historien, directeur d’études à l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), le rédacteur en chef de la revue “Le Débat est un intellectuel complexe. Penseur de gauche, héritier du libéral Raymond Aron, critique du marxisme, ainsi que de Pierre Bourdieu et de Michel Foucault – idoles de la gauche contemporaine –, Marcel Gauchet ne peut pas faire l’unanimité. Radicalement anticapitalistes, au Comptoir, nous ne nous retrouvons pas dans le réformisme du philosophe. Pourtant, nous considérons que le père de l’expression « fracture sociale » fait partie des intellectuels qui aident à mieux comprendre notre époque, notamment grâce à l’analyse de la modernité développée dans “Le Désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion” (Gallimard, 1985). Nous avons mis de côté nos divergences pour discuter avec lui de sujets aussi vastes que la démocratie représentative, la modernité, les droits de l’Homme, ou encore le libéralisme.

Le Comptoir : Depuis trente ans, le taux d’abstention ne cesse de progresser, principalement au sein des classes populaires. Est-ce dû à l’aspect aristocratique d’un système représentatif qui ne favorise que les élites ?

Marcel Gauchet : Deux choses dans votre question : le pourquoi de l’abstention et la grille d’explication que vous évoquez. Elle ne convainc pas sur le fond, même si elle touche à quelque chose de juste. Pourquoi voter quand l’offre ne propose plus d’opposition tranchée ? “Tous pareils”. L’Union européenne limite fortement la gamme des choix. Elle accentue l’effet de la mondialisation, en créant le sentiment que les gouvernants, de toute façon, ne peuvent pas grand-chose. “Ils causent, mais ils ne peuvent rien faire.” Enfin, cerise sur le gâteau, la politique est faite pour les gagnants de la mondialisation. Pourquoi les perdants iraient-ils approuver le fait qu’ils sont sacrifiés sur l’autel de la bonne cause? “Ils se foutent des gens comme nous.” La mondialisation, c’est l’alliance des riches des pays riches avec les pauvres des pays pauvres contre les pauvres des pays riches. Voilà les trois faits qui me semblent largement expliquer la montée de l’abstention, en particulier dans les milieux populaires. Il y a d’autres facteurs, plus diffus, comme la dépolitisation générale.

Quant au rôle du système représentatif lui-même, en le qualifiant d’“aristocratique”, vous faites sans doute allusion à l’analyse de mon ami Bernard Manin. Je ne crois pas que ce soit le mot le plus approprié. La représentation, c’est effectivement un processus de sélection de gens supposément pourvus de qualités spéciales, dont celle de la représentativité. Mais cette représentativité peut très bien s’exercer contre les privilégiés. C’était le grand argument contre le suffrage universel pendant longtemps. Il était présenté comme le moyen pour les masses de faire fonctionner le pouvoir à leur profit grâce à de dangereux démagogues. Le système représentatif a été, de fait, le moyen pour réformer socialement nos régimes en d’autres temps. Il faut se demander comment il s’est retourné sur lui-même. Le problème est ailleurs, en un mot. Il ne faut pas confondre l’instrument et les conditions de son usage.

Peut-on, dans ce cas, dire que le clivage gauche-droite n’a plus de sens et que le vrai clivage s’opère aujourd’hui entre défenseurs et pourfendeurs de la nation ?

Pas du tout. Il y a une nation de droite et une nation de gauche. Il y a une anti-nation de droite, libérale, et une anti-nation de gauche, libertaire. Il y a la nation d’hier et la nation d’aujourd’hui. La nation de 2015 n’est pas, et ne peut pas être, celle de 1915. Et puis, il y a l’Europe : nation de substitution ou autre chose, mais quoi exactement ? La vérité est que le brouillage est complet. Tout est à redéfinir.

Vous avez analysé la modernité comme la « sortie de la religion » associée à la montée de l’individualisme, que vous avez toutes les deux liées au christianisme. Or, selon-vous, l’« individu total » tue la démocratie. Un renouveau du politique passe-t-il nécessairement par un retour du religieux ? Une redécouverte du paganisme peut-elle être utile ?

Aucun retour d’aucune sorte ne nous sera d’une quelconque utilité – il faudrait d’ailleurs qu’ils soient possibles, ce qui, en l’état, n’est pas le cas. Nous sommes condamnés à inventer. Cela commence par nous mettre en position de comprendre ce qui nous est arrivé pour nous retrouver dans cette impasse, sans anathèmes, exorcismes et autres “dénonciations”. Qu’est devenu le politique, par exemple, et pourquoi ? C’est le genre de travail auquel l’individu “total”, comme vous dites, n’est pas spontanément très disposé. Pourtant, il va falloir qu’il s’y mette, et il s’y mettra ! Les cures de désintoxication, c’est dur. Christianisme et paganisme sont des sujets très intéressants en soi, ce n’est pas moi qui dirai le contraire, mais ils ne nous aideront pas beaucoup pour ce travail, si ce n’est indirectement, pour nous aider à mesurer ce qui nous sépare de leurs univers. C’est là qu’est le sujet principal.

« S’il n’y a que des individus et leurs droits, alors toutes les expressions culturelles émanées de ces individus se valent. »

Vous critiquez les droits de l’Homme, tout en défendant la démocratie libérale : n’y a-t-il pas là une contradiction ? Comment critiquer les droits de l’Homme et leur universalisme abstrait sans pour autant tomber dans le relativisme culturel typiquement moderne ?

Je ne critique pas les droits de l’Homme, je critique les applications qui en sont faites et les conséquences qu’on prétend en tirer, ce qui est fort différent. Il n’y a pas grand sens à critiquer les droits de l’Homme si on y réfléchit un peu sérieusement : ils sont la seule base sur laquelle nous pouvons établir cette chose essentielle dans une société qu’est la légitimité. Que pourrions-nous mettre d’autre à la place pour définir la norme des rapports entre les gens ou la juste source du pouvoir ? La seule alternative valable, ce sont les droits de Dieu. C’est d’ailleurs ce qu’ont bien compris les fondamentalistes. Il faut donc faire avec les droits de l’Homme. La question est de savoir s’ils ont réponse à tout. C’est là qu’est l’égarement actuel. Ils ne rendent pas compte de la nature des communautés politiques dans lesquelles ils s’appliquent. Ils doivent composer avec elles. Le politique ne se dissout pas dans le droit. Ils ne nous disent pas ce que nous avons à faire en matière économique, etc. La démocratie libérale, bien comprise, consiste précisément dans ce bon usage des droits de l’Homme qui leur reconnait leur place, mais qui se soucie de les articuler avec ce qui leur échappe et ne peut que leur échapper. C’est en ce sens qu’elle est le remède au droit-de-l’hommisme démagogique.

De la même façon, cette vision de l’équilibre à respecter entre droit et politique permet d’échapper au relativisme culturel, qui fait d’ailleurs système avec le droit-de-l’hommisme. S’il n’y a que des individus et leurs droits, alors toutes les expressions culturelles émanées de ces individus se valent. Mais s’il existe des communautés historiques qui ont leur consistance par elles-mêmes, alors il est possible de les comprendre pour ce qu’elles sont, d’abord, en faisant aux cultures singulières la place qu’elles méritent et, ensuite, en les distinguant au sein d’une histoire où nous pouvons introduire des critères de jugement. C’est, de nouveau, une affaire de composition entre des exigences à la fois contradictoires et solidaires. La chose la plus difficile qui soit dans notre monde, apparemment. La conférence de l’Unesco, qui a adopté la Convention sur la protection et la promotion des expressions culturelles en 2005, souligne expressément, selon ses mots, « l’importance de la diversité culturelle pour la pleine réalisation des droits de l’Homme et des libertés fondamentales ».

Pour Hannah Arendt[i] et Karl Marx[ii], les droits de l’Homme consacrent l’avènement d’un homme abstrait, égoïste et coupé de toute communauté. De son côté, Simone Weil estimait que « la notion de droit, étant d’ordre objectif, n’est pas séparable de celles d’existence et de réalité » et que « les droits apparaissent toujours comme liés à certaines conditions ». On peut donc se demander si les droits de l’Homme peuvent vraiment avoir vocation à être universels. Marx pensait également qu’il aurait mieux valu un modeste Magna Carta, susceptible de protéger réellement les seules libertés individuelles et collectives fondamentales, plutôt que ce « pompeux catalogue des droits de l’Homme ». La logique des droits de l’Homme ne transforme-t-elle pas la politique en simple procédure au détriment des libertés réelles ?

Ne tirons pas de conclusions définitives sur l’essence des droits de l’Homme depuis ce que nous en observons aujourd’hui. Il est vrai que beaucoup de gens de par le monde trouvent grotesques les prétentions occidentales à l’universalisation des droits de l’Homme – non sans raison, étant donné les contextes sociaux où ils sont supposés s’appliquer. D’un autre côté, la débilité de nos droits-de-l’hommistes n’est plus à démontrer. Mais cela ne prouve rien sur le fond. Il a fallu deux siècles en Occident pour qu’on prenne la mesure opératoire du principe. Il est permis de penser qu’il faudra un peu de temps pour que leur enracinement s’opère à l’échelle planétaire. De la même façon, le mésusage de ce principe tel que nous le pratiquons actuellement dans nos démocraties peut fort bien n’être qu’une pathologie transitoire. C’est ce que je crois.

Je pense que les droits de l’Homme ont une portée universelle en tant que principe de légitimité. Ils représentent la seule manière de concevoir, en dernier ressort, le fondement d’un pouvoir qui ne tombe pas d’en haut et ne s’impose pas par sa seule force, à l’instar, par exemple, des dictatures arabes. Ils sont également le seul étalon dont nous disposons pour concevoir la manière dont peuvent se former des liens juste entre les personnes dès lors qu’ils sont déterminés par leur seule volonté réciproque et non par leurs situations acquises. De ce point de vue, je suis convaincu qu’ils sont voués à se répandre au fur et à mesure que la sortie de la religion, telle que je l’entends, se diffusera à l’échelle du globe – c’est en cours, c’est cela la mondialisation.

Maintenant, ce qui légitime ne peut pas se substituer à ce qui est à légitimer : l’ordre politique ou l’action historique. En Europe, c’est la folie du moment que d’être tombé dans ce panneau. C’est ce qui produit ce dévoiement que vous résumez très bien : la réduction du processus politique à la coexistence procédurale des libertés individuelles. Mais ce n’est pas le dernier mot de l’histoire, juste une phase de délire comme on en a connu d’autres. Elle est en train de révéler ses limites. Il y a un autre emploi des droits de l’Homme à définir. Ils n’ont pas réponse à tout mais ils sont un élément indispensable de la société que nous avons le droit d’appeler de nos vœux.

« Non seulement la place du politique demeure, mais plus le rôle du marché s’amplifie, plus sa nécessité s’accroît, en profondeur. »

Dans De la situation faite au parti intellectuel (1917), Charles Péguy écrivait : « On oublie trop que le monde moderne, sous une autre face, est le monde bourgeois, le monde capitaliste. » La modernité est-elle nécessairement capitaliste et libérale ?

C’est quoi au juste “libéral” ? C’est quoi “capitalisme” ? Il serait peut-être temps de se poser sérieusement la question avant de brailler en toute ignorance de cause.

Libéraux, nous le sommes en fait à peu près tous, que nous le voulions ou non, parce que nous voulons que tous soient libres de parler, de se réunir, mais aussi de créer des journaux, des radios, des entreprises pour faire fructifier leurs idées. La raison de fond de ce libéralisme qui nous embrigade, c’est que le monde moderne est tourné vers sa propre invention et que cela passe par les libres initiatives des individus dans tous les domaines. Et capitalistes, du coup, nous sommes amenés à l’accepter inexorablement parce que pour faire un journal, une radio, une entreprise, il faut des capitaux, des investissements, des emprunts, des bénéfices pour les rembourser, et ainsi de suite. Préférons-nous demander à l’État, à ses bureaucrates, et à ses réseaux clientélistes ?

Ce sont les données de base. Après, vient la question de la manière dont tout cela s’organise. Et sous cet angle, nous ne sommes qu’au début de l’histoire. Nous avons tellement été obsédés par l’idée d’abolir le libéralisme et le capitalisme que nous n’avons pas vraiment réfléchi à la bonne manière d’aménager des faits premiers pour leur donner une tournure vraiment acceptable. Voilà le vrai sujet. Il me semble que nous pouvons imaginer un capitalisme avec des administrateurs du capital qui ne seraient pas des capitalistes tournés vers l’accumulation de leur capital personnel. De la même manière, nous avons à concevoir un statut des entreprises qui rendrait la subordination salariale mieux vivable. Après tout, chacun a envie de travailler dans un collectif qui a du sens et qui marche. Mais il faut bien que quelqu’un prenne l’initiative de le créer et de définir sa direction. Arrêtons de rêvasser d’un monde où tout cela aurait disparu et occupons-nous vraiment de le penser.

« Foucault voit le pouvoir partout, Bourdieu détecte la domination dans tous les coins. Voilà du grain à moudre pour la “critique” à bon marché. »

Dans son ouvrage majeur, La grande transformation, l’économiste Karl Polanyi montre que notre époque se caractérise par l’autonomisation progressive de l’économie, qui, avant cela, avait toujours été encastrée dans les activités sociales. Si on définit le libéralisme comme une doctrine qui tend à faire du marché autorégulateur – aidé par la logique des droits individuels –, le paradigme de tous les faits sociaux, est-il vraiment possible de l’aménager ? N’existerait-il pas une “logique libérale”, pour reprendre les mots de Jean-Claude Michéa, qui ferait que le libéralisme mènerait à une “atomisation de la société” toujours plus grande, qui elle-même impliquerait un renforcement du marché et une inflation des droits individuels, pour réguler la société ?

Autonomisation de l’économie, soit. Mais jusqu’où ? Il ne faut surtout pas se laisser prendre au piège du discours libéral et de son fantasme de l’autosuffisance du marché autorégulateur. La réalité est que ce marché est permis par un certain état du politique, qu’il repose sur le socle que celui-ci lui fournit. Il en a besoin, même s’il tend à l’ignorer. Sa logique le pousse en effet à vouloir aller toujours plus loin dans son émancipation du cadre politique, mais cette démarche est autodestructrice et bute sur une limite. Elle suscite en tout cas inévitablement un conflit avec les acteurs sociaux à peu près conscients de la dynamique destructrice à l’œuvre. Nous y sommes. C’est en fonction de cette bataille inévitable qu’il faut raisonner, en rappelant aux tenants frénétiques du marché ses conditions même de possibilité. Non seulement la place du politique demeure, mais plus le rôle du marché s’amplifie, plus sa nécessité s’accroît, en profondeur. Nous ne sommes pas à la fin de l’histoire !

Votre conférence inaugurale aux Rendez-vous de l’histoire de Blois de 2014, qui avait pour thème “Les rebelles”, a fait couler beaucoup d’encre, et a notamment été suivie d’un boycott de l’événement par l’écrivain Édouard Louis et le philosophe Geoffroy de Lagasnerie. La sacralisation post-68 de la culture de la transgression a-t-elle accouché d’une société faussement subversive et terriblement conformiste ? Être rebelle aujourd’hui ne consisterait-il justement pas à défendre une forme de conservatisme ?

La réponse est dans la question ! Évidemment que les roquets qui m’ont aboyé dessus représentent la quintessence du néo-conformisme actuel, qui prétend combiner les prestiges de la rebellitude avec le confort de la pensée en troupeau. Les commissaires politiques “foucaldo-bourdivins” d’aujourd’hui sont l’exact équivalent des procureurs et des chaisières qui s’indignaient hier des outrages aux bonnes mœurs. Par conséquent, le non-conformisme, dans cette ambiance, est globalement passé du côté conservateur, vous avez raison. C’est un fait, mais ce n’est qu’un fait. Car le conservatisme n’est pas exempt pour autant de pensées toutes faites, de schémas préfabriqués et de suivisme. Le vrai non-conformisme est dans la liberté d’esprit et l’indépendance de jugement, aujourd’hui comme hier. Il n’est d’aucun camp.

« Si j’apprécie la part critique de l’idée de l’institution imaginaire de la société, je suis pourtant peu convaincu par la philosophie de l’imaginaire radical que développe Castoriadis, ce qui ne m’empêche pas d’admirer l’entreprise. »

Pierre Bourdieu et Michel Foucault ont-ils remplacé Karl Marx dans le monde universitaire français ? Le “foucaldo-bourdivinisme”, comme vous l’appelez, est-il selon vous le nouvel “opium des intellectuels”, pour reprendre la formule de Raymond Aron ?

N’exagérons pas les proportions du phénomène. Comme vous le remarquez vous-même, il reste confiné à la sphère universitaire. Contrairement au marxisme, il n’a pas le mouvement ouvrier derrière lui. Mais il a, en revanche, un relais public assez important avec la complicité de l’extrême gauche présente dans le système médiatique. Il fournit au journalisme de dénonciation une vulgate commode. Foucault voit le pouvoir partout, Bourdieu détecte la domination dans tous les coins. Voilà du grain à moudre pour la “critique” à bon marché. C’est d’une facilité à la portée des débiles, mais avec une griffe haute couture. Que demander de mieux ?

Castoriadis.jpgIl y a, depuis quelques années, un retour sur la scène publique des idées de Cornélius Castoriadis avec, notamment, la publication d’actes de colloque ou la grande biographie de François Dosse. Quel est votre rapport à l’œuvre de ce « titan de la pensée », comme le qualifiait Edgar Morin ?

J’espère que vous avez raison sur le constat et que la pensée de Castoriadis est en train de trouver l’attention qu’elle mérite. Elle est autrement consistante que les foutaises qui occupent le devant de la scène. Cela voudrait dire que les vraies questions sont peut-être en train de faire leur chemin dans les esprits, en dépit des apparences. Je ne peux que m’en réjouir. Je dirais que nous étions fondamentalement d’accord sur la question, justement, et en désaccord sur la réponse à lui apporter. Nous étions d’accord, d’abord, sur le brouillage intellectuel et politique dans lequel nos sociétés évoluent à l’aveugle. Et au-delà de ce constat critique, nous étions unanimes sur la voie pour en sortir : il faut ré-élaborer une pensée de la société et de l’histoire – seule à même de permettre de nous orienter efficacement – en mesure de prendre la relève du fourvoiement hegelo-marxiste. De ce que les pensées antérieures en ce domaine ont erré, il ne suit pas que toute pensée en la matière est impossible, comme nous le serinent les insanités postmodernes. C’est sur le contenu de cette pensée que nous divergeons. Si j’apprécie la part critique de l’idée de l’institution imaginaire de la société, je suis pourtant peu convaincu par la philosophie de l’imaginaire radical que développe Castoriadis, ce qui ne m’empêche pas d’admirer l’entreprise. Elle ne me semble pas éclairer l’histoire moderne et ses prolongements possibles. C’est pourquoi je me suis lancé dans une autre direction en élaborant l’idée de sortie de la religion. Le but est précisément d’élucider la nature de ce qui s’est passé en Occident depuis cinq siècles comme chemin vers l’autonomie et les difficultés présentes sur lesquelles butent nos sociétés. Pour tout dire, j’ai le sentiment que l’idée d’imaginaire radical est avant tout faite pour sauver la possibilité d’un projet révolutionnaire, plus que pour comprendre la réalité de nos sociétés. Elle empêche Castoriadis de mesurer la dimension structurelle de l’autonomie qui rend possible la visée d’autonomie.

Cela dit, ces divergences de vue se situent à l’intérieur d’un même espace de questionnement et c’est pour moi ce qui compte au premier chef. La discussion a du sens, elle n’est pas une dispute avec du non-sens. C’est l’essentiel.

Entretien réalisé avec l’aide de Galaad Wilgos

Nos Desserts :

Notes :

[i] « Le paradoxe impliqué par la perte des droits de l’Homme, écrit-elle, c’est que celle-ci survient au moment où une personne devient un être humain en général […] ne représentant rien d’autre que sa propre et absolument unique individualité qui, en l’absence d’un monde commun où elle puisse s’exprimer et sur lequel elle puisse intervenir, perd toute signification. » Hannah Arendt, L’impérialisme, Fayard, 1982.

[ii] « Aucun des prétendus droits de l’Homme ne s’étend au-delà de l’homme égoïste, au-delà de l’homme comme membre de la société civile, à savoir un individu replié sur lui-même, sur son intérêt privé et son caprice privé, l’homme séparé de la communauté. » Karl Marx, À propos de la question juive, 1843.

La théorie zinovienne de l'idéologie

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La théorie zinovienne de l'idéologie

Un bref aperçu

Fabrice Fassio**
Ex: http://metamag.fr

Dans le cadre de la VIème Conférence Internationale "Lire Alexandre Zinoviev", avec pour thème : "Alexandre Zinoviev et les idéologies contemporaines" qui se tiendra à Moscou fin octobre 2015, plusieurs  articles, dont celui-ci,  seront publiés et de nombreux chercheurs interviendront. Faire connaître les thèses du sociologue russe : tel est  l'objectif que se sont fixé tous les participants à cette conférence. Fabrice Fassio.


Á ma connaissance, Alexandre Alexandrovitch Zinoviev est le seul philosophe au monde qui ait créé une théorie englobant tous les aspects du phénomène idéologique. Il est regrettable  que peu de gens aient prêté attention aux idées radicalement nouvelles que le logicien russe a développées  dans ses ouvrages, qu'ils soient littéraires ou sociologiques. Dans le cadre de cet article, nous vous proposons un très bref aperçu de cette théorie.


Passion de jeunesse


zinoRCFBRL._S.jpgPassionné dès son adolescence par les problèmes politiques et sociaux, Alexandre Zinoviev raconte dans ses mémoires, Les Confessions d'un Homme en Trop,  qu'il  a commencé très jeune à se familiariser avec l'idéologie marxiste,  lisant entre autres des ouvrages de Marx, d'Engels ou de Staline. Devenu bien plus tard un logicien de renommée mondiale, le philosophe affirmera que le marxisme, idéologie d'État de l'ancienne Union soviétique, est le phénomène idéologique le plus important du vingtième siècle. Il affirmera aussi que le marxisme n'est pas une science, bien qu'il contienne des éléments scientifiques en son sein. Quelle est donc la frontière entre science et idéologie selon le philosophe?


Cerner le phénomène  idéologique


Selon le logicien russe, les propositions scientifiques sont vérifiables ou réfutables, à moins que l'on ne puisse prouver leur caractère insoluble. Quant aux  affirmations idéologiques, elles sont impossibles à prouver ou à réfuter; en outre, elles peuvent être interprétées de différentes façons, alors que  les termes utilisés par la science ont un sens précis. Enfin, et ce point me paraît essentiel, les résultats  d'une idéologie (qu'elle soit laïque ou religieuse) se mesurent par l'efficacité de son action sur la conscience des gens.  Dans ses ouvrages sociologiques, le philosophe explique que, dans l'Union soviétique des années 1980-1990,  l'influence du marxisme sur la conscience des Soviétiques  s'est révélée trop faible pour arrêter l'action de l'idéologie occidentale.  Ce fut l'un des facteurs qui contribuèrent à l'effondrement de l'Union soviétique.


La sphère idéologique


zinoavenir-radieux_7527.gifDans ses œuvres, Le Facteur de la Compréhension en particulier*, Alexandre Zinoviev note que la sphère idéologique comprend un grand nombre d'hommes et d'organismes dont la tâche consiste à conditionner l'esprit des citoyens  dans un sens favorable à  la survie de la société tout entière.

Journalistes, politiciens, sociologues, professeurs,  membres du clergé, effectuent au quotidien cette tâche indispensable à la préservation de l'organisme social. Les modes d'organisation de cette sphère sont très divers et forment un large éventail allant de l'organisation unique et toute-puissante (une "Eglise") jusqu'à un grand nombre d'institutions plus ou moins autonomes. L'ancienne Union soviétique où certains pays musulmans contemporains  sont des exemples de sociétés dans lesquelles existait ou existe encore une organisation unique chargée de diffuser une idéologie d'État  laïque ou religieuse. A l'inverse, les nations occidentales contemporaines  comptent de nombreuses institutions plus ou  moins autonomes  (maisons d'édition, médias, cercles de réflexion, etc.) qui exercent  une action idéologique sur les populations. Dans ses mémoires, Alexandre Zinoviev note qu'il existe un mode de pensée commun à tous les Occidentaux. Bien qu'elle se compose de nombreuses institutions, la sphère idéologique occidentale joue donc son rôle. 


Le champ idéologique


L'action de la sphère idéologique a comme résultat la création  d'un champ de forces dans lequel "baignent" en permanence tous les membres de la société. Mots, slogans, images, constituent  la  "nourriture mentale" quotidienne des citoyens d'un pays. De nos jours, des institutions telles que  les médias jouent un  rôle énorme  en matière d'éducation idéologique de la population. Les individus sociaux sont informés dans l'esprit de l'idéologie de l'actualité politique nationale et internationale,  des nouveautés en matière de science et de  technique, etc.  Cette éducation a pour objectif  non seulement d'imprégner les esprits d'une certaine vision de l'être humain, de la  société et du monde, mais aussi d'entraîner les cerveaux de telle sorte qu'ils ne soient pas capables d'élaborer une autre vision des choses. C'est la raison pour laquelle, au sein d'un même groupe humain, beaucoup de personnes adoptent une attitude identique face à des événements sociaux, politiques ou culturels nouveaux.

Si les gens perdent l'idéologie à laquelle ils sont  habitués, ils sombrent dans un état de chaos et de confusion idéologique,  note Alexandre Zinoviev dans le Facteur de la Compréhension. C'est ce qui s'est produit, ajoute le philosophe,  en Union soviétique après le rejet du marxisme-léninisme comme idéologie d'Etat.


Un ensemble mouvant


En tant que doctrine (ensemble d'idées), l'idéologie n'est pas un ensemble figé, constitué une fois pour toutes. Certaines idées apparaissent alors que d'autres se modifient ou disparaissent tout simplement. Après l'effondrement de l'Union soviétique par exemple, l'idéologie occidentale a intégré de nouveaux concepts :  révolution globale, gouvernance mondiale, village planétaire, culture globale, etc. Ces concepts se sont agrégés à des idées plus anciennes (éloges de l'économie de marché ou de la démocratie parlementaire, par exemple). Née aux Etats-Unis, l'idéologie contemporaine de la globalisation est destinée à servir les intérêts des Occidentaux en général et  des Américains en premier lieu. Cependant, les idées occidentales ne sont pas les seules à exister sur cette terre. Idéologie religieuse, l'islam exerce aujourd'hui une action puissante sur l'esprit de millions d'hommes. En plein essor, il s'affirme comme un redoutable concurrent des autres idéologies qui fleurissent  de nos jours sur notre planète.


*Le Facteur de la Compréhension (Faktor Ponimania) ; ce livre n'est toujours pas édité dans notre pays alors que sont publiés chaque année des centaines de livres dénués d'intérêt. France, que devient ta tradition d'intellectualisme ?


**spécialiste de l'oeuvre du logicien et sociologue russe : Alexandre Zinoviev.

mardi, 13 octobre 2015

Dostoevsky: Demonic Rationalism

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Dostoevsky: Demonic Rationalism

In his work Dostoevsky and the Metaphysics of Crime, sociologist Dr. Vladislav Arkadyevich Bachinin analyzes the only seemingly contradictory correlation between Enlightenment rationalism and the rise of infernal forces in Fyodor Dostoevsky’s work Demons. Translated by Mark Hackard.

Ex: http://souloftheeast.org

The Immoral Reason of a Living Automaton

Pyotr Verkhovensky, the cold-blooded cynic who easily transgresses any moral obstacles, represents a special type of criminal, to whom is applicable the philosophical metaphor of “man the machine.”

In 1748 France, Lematrie’s book under that title was released. Its author cast man as a self-winding machine moving along perpendicular lines. In Lametrie’s conception a human being was the direct likeness of a watch or harpsichord, and at the same time subordinated to natural necessity. But possessing instincts, feelings, and passions, he is deprived of a soul. Lametrie assumed that the soul was a term lacking any essential substance whatsoever.

The world in which the machine-man dwells is anthropocentric; there is no place for God. Reality is arranged in accordance with the principles of Newtonian mechanics, and the world presents a mechanical conglomerate of soulless elements. Natural and social processes are moved by one and the same mechanical forces.

The philosophy of machine rationality unfolds as the unique result of the evolution of classical rationalism. The elimination of all metaphysical content prepares the ground both for the arrival of positivism and for the realization of plans for building the future strictly rationalized society with calculated parameters wholly under the control of a directing will. The machine-man and machine-state, which need each other, arise as something resembling Aristotle’s telic reasons, and will directly and gradually determine the development of positivist anthropocentric schematics.

In accordance with the mechanistic picture of the world, there always exists the threat of intentional deformations in the structures of the cosmic order. Objectively there exist possibilities for the violation of measure and harmony, the destruction of order, and the ascent of chaos. A murderer can realize the objective possibility of death that exists for his victim. A thief or robber is capable of realizing the objective possibility of shifting material values in the social space from one set of hands to the other, etc. That is, it stands only for man to apply certain efforts for the possibility of disintegration of existing structures, its movement into reality. At times purely mechanical forces were sufficient for this. Moreover, the higher the degree of mechanism of such enterprises, the less that spiritual, ethical, religious, and similar components are in the mix, and the more effective destructive actions will prove.

Dostoevsky has the philosophy of the machine-man applicable first and foremost to characters who represent practical businessmen smacking of commercial types of the Western model, i.e., to such men as Luzhin, Rakitin, Epanchin, Totsky, Ferdyshchenko, etc. Indifferent to metaphysical reality, they subscribe to Rousseau’s “Geneva ideals” allowing the possibility of “virtue without Christ.” Immersed in the vanity of a graceless, prosaic-pragmatic existence, “having ears, they do not hear, and having eyes, they do not see.” All that comes from on high, from the spheres of metaphysical reality, does not reach their souls, and therefore they are immersed in the darkness of ignorance and incomprehension of the most important meanings of life. The thoughts and feelings of these “Bernards” carry an earthly character and are not directed toward the beyond. They do not like abstract reasoning, considering it an idle pastime. For them as for Lametrie, God and the soul are false moral magnitudes. For them the entire world dwells in the “disenchanted” state of a gigantic conglomerate of soulless elements. Not in one of them does God’s spark gleam. All these men are spiritually impoverished living machines, wound up, however, by a mysterious hand, but as Lev Shestov would say about them, they are not conscious that their life is not life, but death.

Art by Sergei Yukhimov.

Art by Sergei Yukhimov.

In his portrayals Dostoevsky expounds his criticism of the far-from-clean, wholly filthy immoral mind, more precisely the banal and base “Euclidian” reason that is deaf to the metaphysics of moral absolutes, the mind that sees in the soul “only vapor;” that is governed by cold reason alone and views the entire world as a set of tools for the achievement of its vapid objectives.

Among the specimens of the machine-man replicated by Dostoevsky, Pyotr Verkhovensky represents the most odious exemplar. He is calculating, ruthless, and is ready to go the full distance for the achievement of his goals, not stopping at the most vile infamies and crimes.

Criminal reality, inside of which exists Verkhovensky’s true “I,” is distinguished by characteristics such as a harsh aloofness from other evaluative worlds, and most of all from the world of religious, moral, and natural-law absolutes. Second, inherent to it is an acute tension in relations with official-normative evaluative reality. And its third particularity is a faint vulnerability, explained by the fact that for all its antagonistic position, it aspires to copy the structures of legal realities in its own fashion. Just as the devil parodies God, trying to imitate him, the criminal world seeks, for all the caricatured nature of its efforts, to reproduce normative-evaluative stereotypes of the legitimate and sacral worlds, attempting to acquire additional vitatlity at their cost.

It is not accidental that Shatov’s murder in Demons bears the marks of a ritual sacrifice. Along with that it takes the form of a monstrous parody of ancient ritual: instead of the solemnity of a holy rite, there is the filthy lowness of the whole scene; instead of open officiality, there is the cowardly, concealed secret act; instead of calling upon the favor of higher forces, there is a wager on the dark elements of evil, a commiseration of all the participants of the murder through the spilled blood of the victim and mutual fear before one another.

Art by Sergei Yukhimov.

Art by Sergei Yukhimov.

The Normative Space of the Criminal-Political Association

Verkhovensky deliberately forms an enclosed normative-evaluative space of criminal-corporate “morality” with harsh principles of self-organization and self-preservation. He requires that association members’ attitude to their tasks and objectives be extremely serious, not allowing for skepticism, self-irony, or criticism. Violators are immediately punished. Applied violence fulfills a protective function, acting as a means of welding and self-defense for this artificial micro-world.

Aside from similarity in the structure and forms of activity of criminal-political and purely criminal organizations, between the two there are essential distinctions. And so, if a criminal group’s ultimate goals are limited to the resolution of self-interested mercantile tasks, then the goals of criminal-political associations reach far beyond the boundaries of mercantile interests and are oriented toward the achievement of political dominance, by which members of the association cross over into the position of a ruling elite.

If associated criminals, as a rule, do not issue a challenge to the state and the state system but prefer to deal with individual citizens, a criminal-political association boldly steps into antagonism with state power and its institutions.

If a criminal group represents a unique form of a “thing-for-itself” and doesn’t conceal its corporate egoism, then a criminal-political association masks its just-as-base interests with a smokescreen of lies about the interests of the people that supposedly concern it.

The latter circumstance, noted Dostoevsky, allowed such men as Verkhovensky to recruit supporters not only from the spectrum of little-educated “losers” and fanatics with an unhealthy lust for intrigue and power, but also to involve young people with a good heart, even if with a “shakiness” in their views. The fate of the latter proved genuinely tragic, since these confidence tricksters, who studied the magnanimous side of the human heart and were able to play on its strings as on a musical instrument, ultimately transformed these youth into criminals.

Dostoevsky lamented that contemporary youth was undefended against “demonism” through maturity of firm convictions and moral hardiness. Among many material drives dominate a higher idea, and a genuine education is replaced with stereotypes of impudent negation through another’s voice, dissatisfaction, and impatience. As a result “even an honest and guileless boy, even one who studied well, could occasionally turn out to be a Nechaevite…that is, again, if he’d come across Nechaev…” (21, 133). To such boys, Nechaevs and Verkhovenskys paint criminal acts as feats of policy.

The fateful transformations that took place in the souls of many “Russian boys” were facilitated by a “time of troubles” itself, which forced Russian civilization at first slowly, and then ever more quickly, to slide down a sloping surface leading from order to chaos.

“In my novel Demons,” wrote Dostoevsky, “I attempted to attempted to express those various and diverse motives by which even the purest of heart and the most guileless people can be drawn to commit the most monstrous villainy. Therein is the horror, that here one can do the most infamous and abhorrent deed, sometimes completely not being a scoundrel! And that’s not among us only, but across the whole world it is so, always and from the beginning of the ages, during times of transition, in times of dislocation in people’s lives, of doubts and negation, skepticism and unsteadiness in basic social convictions. But we have it more than it’s possible anywhere, and namely in our time, and this feature is the most painful and sad feature of our present time. In the possibility of seeing oneself, and even sometimes almost, as a matter of fact, as not a scoundrel, while working clear and inarguable abomination – herein is our contemporary tragedy!” (21, 131)

“Machine” Rationality of a Political Program

Verkhovensky, possessing a strong, mechanical will seeking power, found a just as machine-like political program that corresponded to his nature. Its basic positions amount to the following points:

  • A new type of state with predominantly totalitarian forms of rule is necessary.
  • This state should keep its subjects in constant terror, without ceasing, conducting surveillance of everyone “every hour and every minute.”
  • Since geniuses, talents, and striking individuals represent a threat to the power of “machine-like” leaders by their extraordinary nature, all people will brought to an average level in their development through ideological and police terror, in the course of which Ciceros will have their tongues ripped out, Copernicuses their eyes gouged, Shakespeares stuck down with stones, etc.
  • To come to enactment of this program, it is necessary to begin with the total destruction of everything, in practice carrying out the transition from order to chaos.

Two vectors have united in this criminal-political program – the “machine” rationality of soulless villains with the demonic irrationality of maniacs run amok.

One of the most impressive paradoxes of Verkhovensky’s personality is just that surprising combination of “machine likeness” with a maniacal enthusiasm for destruction. It accords the figure of the political fiend an especially sinister character. With the direct participation of this unfeeling “machine” for producing disorder, events in the novel take the form of an oncoming squall, chaos enthroned, when a dozen murders and suicides are committed, along with several bouts of madness and a grandiose fire from arson. As a result the world enclosed in the novel’s textual frame begins to resemble a monstrous bestiary, where there is an absence of love and mercy, where there is only ruthless struggle of all against all.

Dostoevsky saw one of the sources of this chaos in the philosophical mindsets of rationalistic, materialistic, and atheistic content that penetrated from the West. Falling on Russian soil, the doctrines of Darwin, Mill, Strauss, and other representatives of European “progressive” thought, as a rule were taken in the Slavic consciousness, untried by many centuries of philosophical schooling, as adamantine philosophical axioms. Moreover, practical conclusions were often drawn from them, conclusions the possibility of which Western teachers had not suspected.

Art by Sergei Yukhimov.

Art by Sergei Yukhimov.

Of course, positive knowledge did not directly teach anyone villainy. And if Strauss, Dostoevsky notes with unconcealed irony, denied and mocked Christ, alongside that for man and humanity he demonstrated the most earnest love and desired their most radiant future.

But then here is what seems to me indubitable – give all these contemporary higher teachers the full opportunity to destroy the old society and build a new one – then there will come such darkness, such chaos, something so crude, blind, and inhuman, that the whole construction would collapse under the curses of humanity before it could be completed. Once it has rejected Christ, the human mind can reach the most astounding results. That is an axiom. Europe, at least in the higher representations of its thought, rejects Christ, and as is known, we are obligated to imitate Europe. (21, 132-133)

For Dostoevsky the evaluative-orienting and practical-transforming activity of moral, legal, and political consciousness must be founded on the principles of Theo-centrism. He disseminates the spirit of Theodicy on all spheres of spheres of social and spiritual life without exception. The Western legal consciousness is predominantly anthropocentric, and as a rule does not accept either religious or metaphysical normative-evaluative bases.

These bases are unneeded by machine-man, who discovers by his actions that open immorality, crime, and political Machiavellianism all have one and the same nature. They all begin with the denial of higher principles of being, absolute values, and norms.

Le Bien par procuration, summum de la pensée adhérente

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JEAN-LUC NANCY*, LE BIEN PAR PROCURATION

Le summum de la pensée adhérente

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

L'affaire Michel Onfray déchaîne les journalistes, c'est normal. Michel Onfray s'est sans doute depuis trop longtemps prêté aux jeux mais qu'elle enrage les métaphysiciens du silence est beaucoup plus surprenant pour ne pas dire proprement indécent. 


000000000000000000000000000000000031o3.jpgL'éloge du « silence des intellectuels » vantés par un des plus bavards - pour ne pas dire le plus baveux - d'entre eux prête à rire. Si Jean-Luc Nancy ne fréquente pas les plateaux de la télévision, il ne s'est en réalité jamais tu. La masse importante de ses publications, sans grande signification d'avenir et qui se vendent d'ailleurs déjà au kilo, en atteste largement. Effectivement, il est peu intervenu dans le débat public mais c'est que si Jean-Luc Nancy s'est tu depuis des années sur les affaires du monde, c'est qu'il a toujours consenti. Il a beau nous la jouer grand intellectuel dans son bureau au-dessus de la mêlée avec le leitmotiv d'Adorno au plafond, "plus de poésie après Auschwitz", il a en réalité toujours trouvé le temps d'écrire pour soutenir les pouvoirs en place.

 
Jean-Luc Nancy n'est pas tout à fait l'ascète ou le vieux sage qu'il voudrait nous faire croire. Mais imbu de son travail pour ne pas dire de sa personne, il se croit occupé à des choses plus sérieuses, en effet il déconstruit, il arrache la tradition et c'est en ce sens là que précisément il n'a cessé de collaborer à ce qui nous arrive, ce désastre que lui-même pressent. Incapable de la moindre analyse géopolitique autre que celle des maîtres - c'est-à-dire en gros le journal de 20 heures ou le 20 minutes de Canal Plus -,  sans courage par carriérisme, il a toujours suivi le courant, il est donc dans le vent compassionnel et il adhère à toutes les manipulations. Jean-Luc Nancy, c'est en quelque sorte le summum de la pensée adhérente, de la pensée qui colle au manche mais qui est fière d'elle-même puisqu'elle a la certitude d'être dans le bien. .Il nous sert donc politiquement un brouet relativiste et cosmopolite, un humanisme de pacotille fondé sur l'émotion directe et la dialectique du fluide ou du nomade. Il joue la pleureuse philosophique, qui a d'ailleurs le toupet de déclarer que les mots, surtout les mots du politique, n'ont plus de sens  intelligible. Justement, les mots conservent leur sens intelligible à mesure que croît le décalage entre ce que les Français voient ou lisent et la réalité qu’ils perçoivent et vivent au quotidien. Il n'empêche selon cette grande âme du Bien par procuration, il s'agit  évidemment d’accueillir avec enthousiasme l’Autre, celui venu d’ailleurs, nimbé de toutes les vertus et paré de toutes les supériorités dont pourraient et même devraient se réjouir des peuples vieillissants et fatigués qu’ils auraient peut-être - mais Nancy n'ose le dire, cela aurait été trop « osé » - pour mission de régénérer. Avouons que le conte philosophique est très mièvre et qu'il ne ferait même pas sourire Voltaire mais il est destiné aux esprits les plus fragiles. Il flatte surtout le Prince qui vous paie. C'est sa fonction première, ce « sens qui fait sens », « cet horizon », cette « ligne de fuite » pour paraphraser les inepties du style post moderniste de la fin de la métaphysique. Avec Nancy, nous n'aurons donc pas un autre son de cloche que celui des « petites chances » Mais encore, il va plus loin. Lui qui déconseillait sûrement à ses élèves de lire Spengler, devient en quelque sorte un décadentiste, un converti néo darwinien à la Jared Diamond, un apocalyptique mais sans Katechon, cédant aux sirènes de la disparition et voyant dans les réfugiés les « messagers de la fin ». 


L’épisode migratoire intensif subi par la France et un certain nombre de nations européennes et son aggravation subite depuis le mois d’août dernier ne doivent évidemment rien au hasard, pas plus que le glissement sémantique de « clandestins » à « réfugiés ». Déjà, nous sommes biens pantois devant un philosophe grand manitou du silence, qui cède sans sourciller, à la novlangue sans avoir l'honnêteté de relever la dérive sémantique du terme « migrants » en « réfugiés » ou de reconnaître au moins qu'il assume ce détournement politique qui n’a rien à voir avec un tic langagier mais qui est imposé par les médias relevant de la propagande.  En fait, Jean-Luc Nancy s'est fait ici le porte-parole de la classe philosophique universitaire et des professeurs de philosophie du secondaire. Ce sont des milieux libéraux particulièrement aliénés qui entonnent en chœur les refrains connus du déficit démographique qu’il convient de combler au plus vite, d’un système social qu’il nous faudrait consolider en accueillant la misère du monde, de la nécessaire solidarité à mettre en œuvre et du grand cœur qu’il convient de porter en bandoulière tout en affichant une exaltation bienveillante devant un fléau de grande ampleur qu’il faudrait feindre de prendre pour une inégalable opportunité. C’est un festival de bons sentiments, de passions désordonnées avec pour fond d'écran la paix universelle de Kant ou un regain de spinozisme anachronique. La philosophie universitaire, fidèle et docile à ses commanditaires aura ici une fois de plus joué son rôle, collaborant, pilonnant sans répit les valeurs, confondant éthique personnelle et éthique politique, serment d'Hippocrate et raison d'Etat sans le moindre sens de la nuance et surtout du bien commun mais aussi encore plus grave sans la moindre parcelle de rationalité. Jean-Luc Nancy qui en bon masochiste aura passé toute sa vie à cracher sur la Raison se mobilise donc pour le lavage de cerveau et le bourrage de crâne avant le grand conflit. On saura le retenir comme le fait que quelles que soient les approximations de Michel Onfray, ce dernier se sera tenu au contraire debout et non couché.  « Accueillez-les », « Le grand défi de l’Europe », les silences bavards de l'intellectuel Nancy sont peut-être les silences de l'attendrissement mais c'est un attendrissement qui, en pleine cavale et inquisition intellectuelle contre Onfray, a choisi son camp. Déjà, cela ne se fait pas entre collègues. 
Quant à soutenir l'accueil inconditionnel des immigrés illégaux, Nancy qui a  travaillé toute sa vie à la mort de la métaphysique finit pourtant en parfait métaphysicien par occulter délibérément la réalité tangible du politique. C'est bien le bon laquais, déférent du cosmopolitisme philosophique et qui ne peut s'empêcher aussi de nous mettre en demeure d’ouvrir grandes les frontières et de profiter de cet horizon indépassable de félicité que représentent la submersion migratoire et la disparition de nos peuples autochtones mais néanmoins dans une vision décadentiste de la fin. L'apôtre du suicide collectif semble ainsi tout émoustillé et ragaillardi par le déferlement massif de la misère du monde aux quatre coins de l’Europe parce qu'il y voit la fin d'un monde. 


On croirait lire du Cioran pour les nuls mais c'est très tristement ce qu'il appelle « penser au présent », sur fond de messagers itinérants qui hélas, ne seront pas des extraterrestres. La pensée a des devoirs et des droits. En tout domaine étudié, la pensée doit se faire l'humble auxiliaire des conditions qu'elle rassemble, pour être libre juge des conséquences qu'elle tire. La pensée fait et défait nos idées. Si les idées exercent l'intelligence, il reste pour chaque vie, à n'être pas intelligent pour rien. 

(*) Philosophe. A paraître: "L'Equivalence des catastrophes. Après Fukushima" (Galilée).

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lundi, 12 octobre 2015

Carl Schmitt in China

Carl Schmitt in China

Schmitt by Muller Chinese trans

The ideas of Carl Schmitt (1888-1985), a man known as ‘the crown jurist of the Third Reich’, have enjoyed enormous currency among mainland Chinese scholars since the 2000s. The role of prominent academics such as Liu Xiaofeng 刘小枫, Gan Yang 甘阳 and Wang Shaoguang 王绍光 in promoting Schmitt’s ideas, and the fact that his theories on the state help legitimise one-party rule, have ensured that China’s ‘Schmittian’ discourse has been both fashionable and profitable (the usually heavy hand of the censors touches only ever so lightly on articles and books inspired by Schmitt).

Schmitt joined the German National Socialist, Nazi, party in 1933 when Adolf Hitler became Reichskanzler of the Third Reich and enthusiastically participated in the purge of Jews and Jewish influence from German public life. The anti-liberal and anti-Semitic Schmitt was a keen advocate of National Socialist rule and he sought to become the Third Reich’s official legal theorist. By late 1936, however, articles in the Schutzstaffel (SS) newspaper Das Schwarze Korps accused him of opportunism and Catholic recidivism. Despite the protection of Herman Göring, Schmitt’s more lofty ambitions were frustrated and thereafter he concentrated on teaching and writing.

Schmitt’s stark view of politics has attracted much criticism and debate in Euro-American scholarship. Thinkers on the left are ambivalent about his legacy, although despite the odeur of his Nazi past, he remains popular among theory-seeking academics. They see Schmitt’s ideas as deeply flawed while acknowledging his acuity and studying his writings for the insights they offer into the limitations of liberal politics, even as they impotently argue from the lofty sidelines of contemporary real-world governmentality.

In China, the reception of Schmitt’s ideas has been more straightforward; after all, even Adolf Hitler has enjoyed a measure of uncontested popularity in post-Mao China. Mainland scholars who seek to strengthen the one-party system have found in Schmitt’s writings useful arguments to bolster the role of the state, and that of the paramount leader (or Sino-demiurge), in maintaining national unity and order.

To date, Schmitt’s Chinese intellectual avatars have neglected a few key concepts in the meister’s oeuvre that could serve well the party-state’s ambitions under Big Daddy Xi Jinping. We think in particular of Schmitt’s views of Grossraum (‘Big Area’), or spheres of influence. Inspired by his understanding of the Monroe Doctrine propounded by the US in support of its uncontested hegemony in the ‘New World’, Schmitt’s Grossraum was to justify the German Reich’s European footprint and legalise its dominion. As China promotes its Community of Shared Destiny 命运共同体 in Asia and the Pacific (see our 2014 Yearbook on this theme), the concept of spheres of influence is enjoying a renewed purchase on the thinking of some international relations thinkers. See, for instance, the Australian scholar Michael Wesley’s unsettling analysis in Restless Continent: Wealth, Rivalry and Asia’s New Geopolitics (Black Ink, 2015).

During her time at the Australian Centre on China in the World in late 2013, the legal specialist Flora Sapio presented a seminar on the subject of Schmitt in China, and she kindly responded to our request to write a substantial essay on this important ‘statist’ trend in mainland intellectual culture for The China Story.

Flora Sapio is a visiting fellow at the Australian Centre on China in the World. Her research is focused on criminal justice and legal philosophy. She is the author of Sovereign Power and the Law in China (Brill, 2010); co-editor of The Politics of Law and Stability in China (Edward Elgar, 2014); and, Detention and its Reforms in China (forthcoming, Ashgate, 2016). — The Editors

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We set up an ideal form [eidos],
which we take to be a goal [telos],
and we then act in such a way
as to make it become fact. [1]

The Schmittian intellectual likes to play Russian roulette but with an intriguing new twist: she believes that a single round has been placed in the revolver but she also knows this may not be the case. In fact, the only one who knows the truth is the Sovereign, a figure whose will the Schmittian cannot fathom. The Sovereign decides who plays the game and how many times. If the Schmittian turns downs this offer that can’t be refused, she would be declared an enemy and shot. Given how this intellectual predicament, masquerading as a position, commits one to always comply with the Diktat of the Sovereign, we must ask ourselves: why have several prominent Chinese intellectuals elected Herr Professor Carl Schmitt, Crown Jurist of the Third Reich, to be their intellectual patron saint?

Fulfilling a dream of wealth and power has been a feature of Chinese history and intellectual life since the late-nineteenth century. Chinese dreams, whether they be those dreamt up around the time of the 1919 May Fourth Movement, or the visions conjured up almost a century later by party-state-army leader Xi Jinping, involve a conviction that China is endowed with a distinctive national essence 国粹. The national essence is to China what the soul is to man. Just as (religious) man seeks to ascend to heaven by cultivating and purifying his soul, China can become wealthy and powerful if its national essence is enhanced and cleansed of polluting influences. The New Enlightenment Movement which emerged following the ideological thaw of the late 1970s saw traditionalism and feudalism being accused of holding China back. In the 1980s, Chinese intellectuals argued over how to revive the nation’s true nature, with many recommending an eclectic combination of Western values, theories and models in the process.[2] The Movement would witness a reversal of fortunes after the 1989 Beijing Massacre. Powerful nationalist sentiments followed in the 1990s, fuelled in part by the state and in part by a reaction to the inequalities of market reform, coupled with the public’s response to external events.

Telling Friend from Enemy 

刘小枫

Liu Xiaofeng

It is against this fast-changing backdrop that China’s Carl Schmitt fever must be situated. It would be wrong to see the ‘invisible hand’ of the State at work behind the fad.[3] The reception of Carl Schmitt by Chinese intellectuals, some of whom are key members of the New Left, was possible only because of the work undertaken by the influential scholar Liu Xiaofeng 刘小枫 (currently a professor at Renmin University in Beijing) to translate, comment on and promote Schmitt’s opera omnia. The holder of a theology doctorate from the University of Basel, Liu argued in his PhD thesis for Christianity to be separated from both its ‘Western’ and ecclesiastical dimensions, thereby allowing Christian thought to be treated purely as an object of academic research. Christian thought, so conceived, could thus be put in dialogue with other disciplines and contribute, among other things, to the modernisation of Chinese society. Liu related the development of Christianity to the development of nations and their identities, reflecting Max Weber’s argument in The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, a book that was widely read in Chinese translation and highly influential in 1980s’ mainland intellectual circles.

Liu argued that in China Christianity took root in a unique way and was independent of missionary evangelisation. Liu’s sinicisation of Christian theology enabled the development of a Sino-Christian discourse in mainland intellectual circles focused on solving ‘Chinese problems’.[4] This was, and remains, a discourse that engages with such issues as economic development, social justice, social stability and most important of all, the political legitimacy of Communist Party rule.

Liu calls himself a ‘cultural Christian’, meaning a Christian without church affiliation: one who conducts research on theological arguments and concepts for the benefit of his nation. It is no surprise then that by understanding research in these terms, Liu soon developed a fervid interest in Carl Schmitt. To Carl Schmitt, the state has a theological origin — it must be conceived of as a divine-like entity if it is to hold back chaos and disorder so as to secure peace and prosperity. Schmitt’s thesis also implies that all modern political concepts originate in theology, which in turn makes theology amenable to being treated as a form of statecraft.[5] From the outset, Liu showed himself highly receptive to these Schmittian ideas. We must also note the ease with which the writings of Carl Schmitt succeeded in China. Unlike Chinese scholarship based on Western liberal-democratic models, which was and remains prone to censorship, Chinese aficionados of Schmitt’s ‘friend-enemy’ distinction and his critique of parliamentary democracy were unimpeded in their pursuits.

As a conservative Catholic, Schmitt understood politics (which he termed ‘the Political’, in an attempt to capture its essence) as based ultimately in the friend-enemy distinction. For Chinese intellectuals who had been brought up on Maoist rhetoric,[6] and were familiar with the adaptation of this dyad of friend-enemy 敌我 for post-Maoist political use,[7] Schmitt’s friend-enemy distinction had a powerful resonance. This was a distinction that could be used to name any pair of antagonists, as long as the attributes of the named antagonists could be demonstrated to be so thoroughly incommensurable as to make them want to destroy each other, in order for each to preserve its own identity.

The friend-enemy distinction was a central feature of Schmitt’s political and constitutional theory: it grounded his critique of parliamentary democracy as well as his ideas about ‘the state of exception’ and sovereignty. Liberal democracies, Schmitt held, were trapped in false political categories: they ignored the crucial distinction between friend and enemy and therefore exposed themselves to the risk of capture by the interests of wealthy individuals and factions, who would use the state for their own goals rather than for the greater good of the people. According to Schmitt, liberal polities pretended that the government and the people were subject to the demands of reliable legal norms but the pretence was shattered whenever an internal or external enemy threatened the nation and national security. Reliance on parliamentary debates and legal procedures, he argued, posed the risk of throwing a country into chaos because they hampered the adoption of an effective and immediate response.

Schmitt held that sovereignty resides not in the rule of law but in the person or the institution who, in a time of extreme crisis, has the authority to suspend the law in order to restore normality. The authority to declare a state of emergency or Ausnahmezustand thus has unquestioned legitimacy, regardless of whether it takes the form of an actual (written) constitution or an implicit (unwritten) one. Yet how can a sovereign power that exists above and outside the law enjoy any legitimacy? Wouldn’t such a power be self-referential and premised on sheer violence? According to Schmitt, the legitimacy of such a power can be defended if one delinks the concepts of liberalism and democracy. He held that the two were substantially distinct and set about redefining the latter.

Schmitt argued that a polity founded on the sways of popular opinion could hardly be legitimate. He appealed instead to ideas about equality and the will of the people.[8] For Schmitt, political equality meant a relationship of co-belonging between the ruler and the ruled. As long as both ruler and ruled were members of the same group, or ‘friends’ holding identical views about who the enemy was, a polity was democratic. Schmitt held that where the will of the people mirrored the sovereign’s decision, rule was, indeed, by the people. Such a popular will need not be formed or expressed in terms of universal suffrage: the demands made at a public rally were sufficient to convey a popular will at work.[9]

Schmitt’s eclectic definition of the popular will led him to conceive of democracy as a democratic dictatorship. This way of thinking was very attractive to intellectuals who favoured statist and nationalist solutions to political problems and issues of international relations.[10]

Schmitt by Liu Xiaofeng

Why Schmitt? 

The reasons for Chinese intellectuals’ fascination with Carl Schmitt are straightforward. The related concepts of ‘friend and enemy’, ‘state of exception’ and ‘decisionism’ are simple and usable. Policy advisors and policy-makers can easily apply these concepts in their analysis of situations. Schmitt’s vocabulary can also lend theoretical weight to the articulation of reform proposals, to serve as a source of inspiration or to furnish building blocks in the construction of pro-state arguments in political science and constitutionalism. Moreover, Schmitt’s friend-enemy distinction complements and provides justification for the many narratives of nationalism and cultural exceptionalism that have become influential in Chinese scholarship in recent years. These narratives are by no means unique to China but we must note that they are at odds with the universalist and internationalist aspects of Chinese Communism as state doctrine. The gist of the Chinese Schmittian argument is that the world is not politically homogeneous but a pluriverse where radically different political systems exist in mutual antagonism. China, accordingly, is not only entitled to but must find and defend its own path to power and prosperity.

The Chinese Schmittian argument justifies the party-state’s view that Western parliamentary democracy, thick versions of the rule of law, civil society, and the values and institutions of Western constitutionalism are all unsuitable for China. Schmitt’s argument allows those who hold this view to say that such ideas belong to an ‘alien’ liberal cosmopolitanism that is ultimately damaging for the Chinese way of life. In 2013, a state directive dubbed ‘Document 9’, outlined these ideas as posing a serious threat to China’s ‘ideological sphere.’[11]

Carl Schmitt’s views have now become influential in mainland Chinese scholarship and he is frequently quoted as a foreign authority in arguments mounted against ‘liberalism’ and Western or US-inspired models of economic and political development. But the fact that Schmitt’s philosophy premises politics on exclusion and even the physical elimination of the enemy (should such an elimination be deemed necessary to the achievement of an ideological goal), is something never raised in Chinese intellectual discourse. The friend-enemy distinction encourages a stark form of binary thinking. The category of friend, however substantively defined, can be conceived only by projecting its opposite. ‘Friend’ acquires meaning through knowing what ‘enemy’ means. The attributes used to define a ‘friend’ can, as Schmitt pointed out, be drawn from diverse sources. Religion, language, ethnicity, culture, social status, ideology, gender or indeed anything else can serve as the defining element of a given friend-enemy distinction.

The friend-enemy distinction is a public distinction: it refers to friendship and enmity between groups rather than between individuals. (Private admiration for a member of a hostile group is always possible). The markers of identity, however, are relatively fluid because a political community is formed via the common identification of a perceived threat.[13] In other words, it is through singling out ‘outsiders’ that the community becomes meaningful as an ‘in-group’. This Schmittian way of defining a ‘people’ elides the necessity of a legal framework. A ‘people’, as a political community in the Schmittian sense, is primarily concerned about whether a different political community (or individuals capable of being formed into a community) poses a threat to their way of life. For Schmitt, the friend-enemy distinction is a purely political distinction and to be treated as entirely separate from ethics.[14] Since the key concern is the survival of the ‘in-group’ as a ‘people’ and a political community, Schmitt’s argument implies that the elimination of a perceived enemy can be justified as a practical necessity.[15] Hence, those who call themselves Schmittian intellectuals should be aware that Schmitt’s argument is framed around necessity. So long as a there is a necessary cause to defend, any number of deaths can be justified.

Moreover, necessity is premised on antagonism. The friend-enemy distinction grounds every aspect of Schmitt’s thinking about politics and constitutionalism. But this is precisely why Schmittian concepts have inspired some of the most effective analyses of Chinese politics and constitutionalism. Schmitt’s view of sovereignty as requiring the ruler to have the freedom to intervene as necessary for the good of the whole country is of a piece with the ‘statist intellectual trend’ 国家主义思潮 in Chinese scholarship of which Wang Shan 王山 and Wang Xiaodong 王小东 were and remain key proponents.

This movement led to the development of an argument around the importance of ‘state capacity’. In an influential 2001 work, the political scientists Wang Shaoguang 王绍光 and Hu Angang 胡鞍钢 presented ‘state capacity’ as the key to good governance and policy. They argued against democratic decision-making processes by outlining their adverse consequences. According to them, such processes can involve lengthy discussions, leading to delays in policy implementation or even to political and institutional paralysis. They saw ‘the capacity on the part of the state to transform its preference into reality’ as crucial for protecting the nation’s well-being.[16] Since then, there have been many academic publications in mainland China that present ‘state capacity’ with its corollaries of social control and performance-based legitimacy as a viable alternative to parliamentary democracy.

Quotable and Useful Ideas

王绍光

Wang Shaoguang

In a subsequent work provocatively titled Four Chapters on Democracy,[17] Wang Shaoguang pays implicit tribute to Carl Schmitt’s Four Chapters on the Concept Sovereignty. Like Schmitt, Wang rejects representative democracy on the pragmatic and utilitarian grounds that such a system is ultimately incapable of improving the welfare of the entire population. Echoing the Schmittian argument of parliamentarianism’s capture by interest groups, Wang argues that universal suffrage plays into the hands of those endowed with financial means, while reducing the have-nots to the role of passive spectators.

Wang also presents a Schmittian-inspired notion of ‘the people’ as the basis of a responsive democracy, arguing that countries with a strong assimilative capacity and steering capacity (that is, the people united under a strong leader) have a higher quality of democracy. Some of Wang’s vocabulary has come from democratic political theorist Robert Dahl, but it is Schmitt’s argument that underlies Wang’s explanations of responsive democracy and state effectiveness.[18]

The ‘state capacity’ argument advanced by Wang, Hu and others has enjoyed the attention of Western scholarship on contemporary China for a decade or more. It is frequently cited in academic publications about China’s economy, political economy and public administration.

In many of these published studies (in English and other European languages), ‘state capacity’ is treated as having afforded the Chinese government an effective means for accelerating China’s economic development. The evidence of China’s economic success, in turn, has also encouraged some academics to propose that an authoritarian government may be more efficient in delivering economic growth than a liberal-democratic one. It is baffling that among those who hold this view, some have also claimed to ‘support China’s transition to a more open society based on the rule of law and human rights’.[19] If by ‘more open’ they mean greater freedom of the liberal-democratic variety, then this goal is at odds with their argument that the Chinese Communist Party’s one-party system must be strengthened through a range of capacity-building initiatives.

Schmitt’s argument has also been very influential in mainland scholarship on constitutional theory. After Mao, the party-state needed — and to an extent still needs — a distinctively Chinese political ontology. This ontology — or way of conceptualizing and understanding the world — has to include a bipartite political system, in which an extensive party apparatus exists both inside and outside the law, wielding supreme power over the state. Furthermore, this party-state system has to be internally coherent: capable of self-perpetuation to enjoy legitimacy in the eyes of both the Chinese people and foreigners. Chinese legal academics such as Qiang Shigong 強世功, who view constitutionalism in these terms, began in the 2000s to defend their position by deploying the whole arsenal of Schmittian philosophy. The result was a trinity of concepts: ‘the state of exception’, ‘constituting and constituted power’ and ‘political representation by consensus’ (representing respectively the terms State, Movement and People as used by Schmitt in his 1933 work, Staat, Bewegung, Volk), which these academics hailed as the true essence of Chinese law.

When Schmitt is directly quoted, his influence is obvious. But there are scholars such as Cui Zhiyuan 崔之元 who have made tacit use of Schmitt in their theorising about governance and politics in China. Schmitt’s influence is evident in Cui’s understanding of China as a ‘mixed constitution’ involving ‘three political levels’.[20] Similarly, Chen Ruihong’s 陈瑞洪 notion of ‘virtuous unconstitutionality’;[21] Han Yuhai’s 韩毓海 doctrine of ‘constitutionalism in a proletarian state’;[22] Hu Angang’s 胡鞍钢 rebranding of the Politburo as a  ‘collective presidency’;[23] Qiang Shigong’s 强世功 model of ‘shared sovereignty under a party-state leader’,[24] are other prominent Schmittian-inspired arguments to have emerged in the last two decades. These theories belong to different areas of Chinese constitutional scholarship,[25] but they all recast the Schmittian sovereign in Chinese party-state garb. Specifically, each of these theories defends political representation by consensus, linking consensus to broad acceptance of the Diktat of the party-state. In one way or another, they also all present the ‘West’ and its political and legal institutions as unsuited for China.

To date, Western legal scholarship has properly examined neither these influential arguments nor their legal and political ramifications. But there are several scholars who have indicated the relevance of these arguments for China. For instance, Randall Pereenboom presents a useful account of the Chinese legal system as a pluriverse populated by different conceptions of the rule of law.[26] Michael Dowdle has argued, in sympathy with the New Left position, that liberal conceptions of constitutionalism are limited and that there is room for state power to be legitimated in other ways.[27] Larry Catà Backer has conceived the Party and the State as a unitary whole, a theoretical construct inspired by the reality of Chinese institutions, which allows for shuanggui 双规 detention on legal grounds.[28] These works can be read as putting the finger in the wound of some of our own contradictions. We may criticise the Chinese legal system from the purview of an idealised model of the Western legal system but at the same time we cannot avoid dealing with Chinese law as it is discussed and presented, and as it exists within the People’s Republic of China.

Several mainland intellectuals have pointed out that although Chinese Schmittians are fond of attacking the West, they don’t explain why they rely on a German political thinker to do so.[29] This criticism is useful, but it ignores how advocates of indigenous concepts and models, ‘Third Way’ proponents and Western-style liberals alike have yet to examine their uses of a logic that belongs more to Western metaphysics than to indigenous Chinese thought (Confucian or other forms of thinking derived from pre-Qin sources). This Western logic requires one to construct an ideal model of how a political system, a legal system, a society or truly any other entity should be, into which we then attempt to ‘fit’ reality, often without heeding the consequences of doing so.

At any rate, we can see that Schmittian concepts have become far more dominant than liberal ones in mainland legal scholarship. Political moderates such as He Baogang 何包钢[30] have sought to accommodate the arguments of both sides by proposing, for instance, that a constitutional court should have the power to decide on what constitutes a ‘state of exception’, on which the absolute authority of a Schmittian sovereignty is predicated. But such attempts at accommodation only reveal the weakness of the liberal position by comparison with the Schmittian one. Professor He reflects the quandary of those who seek to defend elements of a liberal democratic model (such as judicial independence) within an unaccommodating Schmittian friend-enemy paradigm.

Schmitt und Xi

Since Xi Jinping became China’s top leader in November 2012, the friend-enemy distinction so crucial to Carl Schmitt’s philosophy has found even wider applications in China, in both ‘Party theory’ and academic life. The selective revival of the Maoist rhetoric of struggle to launch a new mass line education campaign on 18 June 2013 is a good example of how the friend-enemy distinction has been adapted for present-day one-party rule.

To see the consequences of Schmittian reasoning, it is important that we consider the motivations behind Carl Schmitt’s privileging of the friend-enemy distinction and absolute sovereignty. Schmitt believed that he was theorising on behalf of the greater good. His philosophy can be rightly described as a political theology because it was inspired by the Biblical concept of kathechon [from the Greek τὸ κατέχον, ‘that what withholds’, or ὁ κατέχων, ‘the one who withholds’] — the power that restrains the advent of the Anti-Christ.[31] Schmitt transposed kathechon into a political register, defining it as the power that maintains the status quo.[32] This power can be exercised by an institution (such as the nation-state) or by the sovereign (whether as dictator or defender of the constitution). A logical consequence of Schmitt’s belief in the kathecon was the conflation of religious and political imagery. Forces which were against a given sovereignty were nothing less than evil enemies sowing the seeds of chaos and disorder. Accordingly, to protect one’s nation or sovereign was a sacred duty and the path to salvation.

We may fundamentally disagree with Chinese intellectuals who have opted to promote a Schmittian worldview. But if we are to defend intellectual pluralism, we must accept that people are free to choose their own point of view. In fact, the emergence of a Chinese Schmittian discourse in academic scholarship augments the current range of Schmittian-inspired arguments produced as much by scholars on the right as on the left in European and American settings.

We must also note that in China, as everywhere else, political differences of the left and right, or between the New Left and liberals, emerge out of and remain largely trapped in a common setting: what may be called a common political-theological paradigm, to use Schmitt’s vocabulary. Political differences are made meaningful in a common setting, out of which people receive and develop their mental schemes, their political vocabularies and the entire universe of concepts for thinking politics. The political-theological paradigm of one-party rule in the People’s Republic of China has ensured that Chinese intellectuals are bound to the mental schemes, vocabularies and concepts that this paradigm has allowed to be generated. What we must bear in mind is that Western ideas must also be accommodated into the paradigm.

Living in a country that has witnessed a rapid rise to economic wealth and global power over three decades, Schmittian intellectuals in today’s China have sought to marry a philosophy that emerged and developed in Germany from the 1920s to the 1940s with ideas about statehood that first became popular in China in the 1980s. This mix of Schmittian thinking and ‘statism’ has now become very influential in Chinese academic circles. But there doesn’t seem to be much concern about the destructive potential of Carl Schmitt’s philosophy.

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Notes:

* The author would like to thank the editors of The China Story, in particular Gloria Davies, for their intellectual and stylistic contributions to this study. Subheadings have been added by the editors.

[1] François Jullien, A Treatise on Efficacy: Between Western and Chinese Thinking, Honolulu: University of Hawai’i Press, 2004, p.1.

[2] On the New Enligthenment Movement, see Xu Jilin, ‘The Fate of an Enlightenment — Twenty Years in the Chinese Intellectual Sphere (1978–1998)’, Geremie R Barmé and Gloria Davies, trans, East Asian History, n.20 (2000): 169–186. More generally, and critically, see Zhang Xudong, ed., Whither China: Intellectual Politics in Contemporary China, Durham: Duke University Press, 2001, Part I.

[3] The study of European philosophy was not a priority of the Ninth Five Year Plan on Research in the Social Sciences and Philosophy 国家哲学社会科学研究九五规划重大课题, which covered the period from 1996 to 2000, and Liu Xiaofeng’s first publication on Carl Schmitt, a review of Renato Cristi’s book Carl Schmitt and Authoritarian Liberalism, dates to 1997. See Liu Xiaofeng 刘小枫, ‘Shimite gushide youpai jiangfa: quanwei ziyouzhyi?’ 施米特故事的右派讲法: 权威自由主义? , 28 September 2005, online at: http://www.aisixiang.com/data/8911.html. On the Ninth Five Year Plan, see Guojia Zhexue Shehui Kexue Yanjiu Jiuwu (1996–2000) Guihua Bangongshi 国家哲学社会科学研究九五 (1996–2000) 规划办公室, Guojia Zhexue Shehui Kexue Yanjiu Jiuwu (1996–2000) Guihua 国家哲学社会科学研究九五 (1996–2000) 规划, Beijing 北京: Xuexi chubanshe 学习出版社, 1997.

[4] Liu Xiaofeng 刘小枫, ‘Xiandai yujing zhongde hanyu jidu shenxue’ 现代语境中的汉语基督神学, 2 April 2010, online at: http://www.aisixiang.com/data/32790.html. On Sino-Christian theology, see also Yang Huiling and Daniel HN Yeung, eds, Sino-Christian Studies in China, Newcastle: Cambridge Scholars Press, 2006; Pan-chiu Lai and Jason Lam, eds, Sino-Christian Theology: A Theological Qua Cultural Movement in Contemporary China, Frankfurt am Main: Peter Lang, 2010; and, Alexander Chow, Theosis, Sino-Christian Theology and the Second Chinese Enlightenment: Heaven and Humanity in Unity, New York: Peter Lang, 2013. For a mainstream commentary on Chinese Schmittianism, see Mark Lilla, ‘Reading Strauss in Beijing’, The New Republic, 17 December 2010, online at: http://www.newrepublic.com/article/magazine/79747/reading-leo-strauss-in-beijing-china-marx

[5] Carl Schmitt, Political Theology: Four Chapters on the Concept of Sovereignty, George Schwab, trans, Chicago: University of Chicago Press, 2005 p.36.

[6] Mao Zedong, ‘On the Correct Handling of Contradictions Among the People’, Selected Works of Chairman Mao Tsetung, Volume 5, edited by the Committee for Editing and Publishing the Works of Chairman Mao Tsetung, Central Committee of the Communist Party of China, Beijing: Foreign Language Press, 1977, pp.348–421.

[7] For an exploration of its uses in the field of public security, see Michael Dutton, Policing Chinese Politics: A History, Durham: Duke University Press, 2005.

[8] Carl Schmitt, Dictatorship: From the origin of the modern concept of sovereignty to proletarian class struggle, Michael Hoelzl and Graham Ward, trans, Cambridge: Polity Press, 2014.

[9] Carl Schmitt, The Crisis of Parliamentary Democracy, Ellen Kennedy, trans, Cambridge and London: MIT Press, 2000; and, Carl Schmitt, Constitutional Theory, Jeffrey Seitzer, trans, Durham: Duke University Press, 2008.

[10] On the statist and nationalist intellectual trend, see  Xu Jilin 许纪霖, ‘Jin shinianlai Zhongguo guojiazhuyi sichaozhi pipan’ 近十年来中国国家主义思潮之批判, 5 July 2011, online at: http://www.aisixiang.com/data/41945.html

[11] ‘Communiqué on the Current State of the Ideological Sphere. A Notice from the Central Committee of the Communist Party of China’s General Office’, online at: http://www.chinafile.com/document-9-chinafile-translation.

[12] As, for instance, a relationship of agonism, where the Schmittian enemy becomes an adversary. In this context, see Chantal Mouffe, On the Political. London and New York: Routledge, 2005.

[13] Carl Schmitt, The Concept of the Political, George Schwab, trans, Chicago: University of Chicago Press, 2007, p.38.

[14] Schmitt, The Concept of the Political, pp.25–27.

[15] Schmitt, The Concept of the Political, pp.46–48.

[16] By which Wang and Hu mean: ‘the ratio between the actual degree of intervention that the state is capable of realizing and the scope of intervention that the state hopes to achieve.’ See Wang Shaoguang and Hu Angang, The Chinese Economy in Crisis: State Capacity and Tax Reform, New York: ME Sharpe, 2001, p.190.

[17] Wang Shaoguang 王绍光, Minzhu sijiang 民主四讲, Beijing 北京: Sanlian shudian 三联书店, 2008.

[18] Wang Shaoguang, ‘The Problem of State Weakness’, Journal of Democracy 14.1 (2003): 36-42. By the same author, see ‘Democracy and State Effectiveness’, in Natalia Dinello and Vladimir Popov, eds,  Political Institutions and Development: failed expectations and renewal hopes, London: Edward Elgar, 2007, pp.140-167.

[19] ‘EU-China Human Rights Dialogue’, online at: http://eeas.europa.eu/delegations/china/eu_china/political_relations/humain_rights_dialogue/index_en.htm

[20] Cui Zhiyuan 崔之元, ‘A Mixed Constitution and a Tri-level Analysis of Chinese Politics’ 混合宪法与对中国政治的三层分析, 25 March 2008, online at: http://www.aisixiang.com/data/18117.html

[21] Chen Ruihong 陈瑞洪, ‘A World Cup for Studies of Constitutional Law: a Dialogue between Political and Constitutional Scholars on Constitutional Power’ 宪法学的知识界碑 — 政治学者和宪法学者关于制宪权的对话, 5 October 2010, online at: http://www.aisixiang.com/data/36400.html; and, also Xianfa yu zhuquan  宪法与主权, Beijing 北京: Falü chubanshe 法律出版社, 2007.

[22] Han Yuhai 韩毓海, ‘The Constitution and the Proletarian State’ 宪政与无产阶级国家 online at: http://www.globalview.cn/ReadNews.asp?NewsID=34640.

[23] Hu Angang, China’s Collective Presidency, New York: Springer, 2014.

[24] Qiang Shigong 强世功, ‘The Unwritten Constitution in China’s Constitution’ 中国宪法中的不成文宪法, 19 June 2010, online at: http://www.aisixiang.com/data/related-34372.html.

[25] See also the special issue ‘The Basis for the Legitimacy of the Chinese Political System: Whence and Whither? Dialogues among Western and Chinese Scholars VII’, Modern China, vol.40, no.2 (March 2014).

[26] Randall Peerenboom, China’s Long March Towards the Rule of Law, Cambridge: Cambridge University Press, 2002.

[27] Michael Dowdle, ‘Constitutional Listening’, Chicago Kent Law Review, vol.88, issue 1, (2012-2013): 115–156.

[28] Larry Catá Backer and Keren Wang, ‘The Emerging Structures of Socialist Constitutionalism with Chinese Characteristics: Extra Judicial Detention (Laojiao and Shuanggui) and the Chinese Constitutional Order’, Pacific Rim Law and Policy Journal, vol.23, no.2 (2014): 251–341.

[29] Liu Yu 刘瑜, ‘Have you read your Schmitt today?’ 你今天施密特了吗?, Caijing, 30 August 2010, online at: http://blog.caijing.com.cn/expert_article-151338-10488.shtml option=com_content&view=article&id=189:2010-10-08-21-43-05&catid=29:works&Itemid=69&lang=en

[30] He Baogang 何包钢, ‘In Defence of Procedure: a liberal’s critique of Carl Schmitt’s theory of exception’ 保卫程序 一个自由主义者对卡尔施密特例外理论的批评, 26 December 2003,  online at: http://www.china-review.com/sao.asp?id=2559

[31] ‘Let no man deceive you by any means: for that day shall not come, except there come a falling away first, and that man of sin be revealed, the son of perdition; Who opposeth and exalteth himself above all that is called God, or that is worshipped; so that he as God sitteth in the temple of God, shewing himself that he is God. Remember ye not, that, when I was yet with you, I told you these things? And now ye know what withholdeth that he might be revealed in this time. For the mystery of iniquity doth already work: only he who know letteth will tell, until he be taken out of the way’. See, The Bible: New Testament, 2 Thessalonians 2: 3-8.

[32] For a simple illustration, see Gopal Balakrishnan, The Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, London: Verso, 2002, Chapter 17. An overview of debates about the role of the katechon and a genealogy of the concept in Carl Schmitt’s political theology can be found in Julia Hell, ‘Katechon: Carl Schmitt’s Imperial Theology and the Ruins of the Future’, The Germanic Review, vol.84, issue 4, (2009): 283-325.

 

dimanche, 11 octobre 2015

Après le dernier homme, quoi?

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Pierre Le Vigan

Après le dernier homme, quoi?

Le personnage principal de la philosophie antique, c’est le monde, c’est le cosmos. Le personnage principal de la philosophie médiévale, c’est Dieu. Le personnage principal de la philosophie moderne (à partir de Kant), c’est l’homme[1]. On pourrait dire que le personnage principal de la philosophie postmoderne, c’est la pulsion, un désir immédiat sans projection dans le temps[2].

L’envie, le désir immédiat, l’appétit, la sensation ont remplacé le devoir. Le désir est devenu le principal attribut de l’homme. Désir mimétique de se regarder, voire de se regarder être vu, désir d’être soi – avec l’idéologie du « c’est mon choix » ou « c’est ma vie » – tout cela passe avant le désir de faire son devoir, ou de servir le collectif, qu’il s’agisse de la patrie, ou de son idéal. Le désir est en quelque sorte l’attribut du dernier homme.

Nietzsche écrit : « ‘’Jadis tout le monde était fou” – disent les plus fins, et ils clignent de l’œil. / On est prudent, et l’on sait tout ce qui est advenu ; sans fin, l’on peut ainsi railler. / Encore, on se chamaille, mais, vite, on se réconcilie – sinon, l’on gâte l’estomac »[3]. En d’autres termes, rien n’est pris au sérieux et chacun se croit plus malin que les autres, et plus malin que dans les anciens temps.

Parlons de ce dernier homme. Nous l’avons vu : c’est celui qui fait le malin. Pourtant, il n’a plus de boussole ni d’étoile. Mais cela tombe bien, il pense qu’il ne faut surtout plus vouloir aller quelque part, et qu’il vaut mieux de pas savoir où l’on est. Il faut « s’adapter ». Etre « disponible », ouvert, et cool. Il faut n’avoir plus de préjugés, c’est-à-dire de pré-jugement – à peu de choses près ce que Kant eut appelé un jugement synthétique a priori[4].  

Un monde détraqué

Il faut avancer dans le monde sans préjugés donc. Sans trace de l’ancien. Est-ce à dire que le monde a été entièrement détruit ? Oui et non. Il a été détruit. Mais, à sa place, il n’y a pas rien. Il y a un autre monde. Un monde a été reconstruit sur les ruines de l’ancien. Un monde entièrement artificialisé. C’est en ce sens que Franz Kafka disait que nous ne vivons pas dans un monde détruit mais dans un monde détraqué[5].

Dans ce monde qui est le nôtre, la fonction symbolique est elle-même déréglée. L’homme est alors en quelque sorte périmé car il ne peut plus réaliser ce qui lui est propre : effectuer la triangulation entre soi, le monde et les autres. C’est pourquoi l’époque postmoderne a créé, à la place de l’homme, le néo-homme.  Le néo-homme ne doit rien à ses ancêtres, il en a fini avec les vieilleries de la transmission, il ne croit plus en la permanence des choses, en leur poids, en leur existence solide. Nous sommes, avec lui, enfin vraiment « sorti du Moyen-Age ».  Certes, on voit une objection : si le dernier homme, ne croit plus en rien, comment peut-il croire encore au progrès ? Il n’y croit plus, il croit simplement que le progrès fait corps avec sa propre existence. L’existence du progrès précède en quelque sorte son essence. Il est en acte avant même d’avoir à être. Le progrès est en quelque sorte Dieu, ou le Bien selon Aristote, c’est l’acte pur des théologiens.

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Le dernier homme ou néo-homme vit dans une pure présence – le présentisme –, il revendique aussi un égalitarisme esthétique. Le Vagin de la reine c’est autant de l’art qu’un tableau d’Antoine Van Dyck, Conchita Wurst incarne autant la beauté que Greta Garbo. Beau, belle ? C’est du reste encore trop dire. Car il s’agit moins de beauté que d’art. Le beau est devenu suspect, quasi fasciste. L’art contemporain – celui qui est subventionné (ce qui ne veut pas dire tous les artistes bien entendu) – se vautre dans l’éloge de l’insignifiance. Celle-ci a deux sens. Cela peut être l’éloge de ce qui est microscopique (la «première gorgée de bière » de Philippe Delerm[6]), Mais cela va plus loin. C’est aussi l’éloge de ce qui ne signifie rien. La gratuité du non-sens est préférée à l’engagement dans le sens. Ce qui est « drôle » et insignifiant est préféré à ce qui est vrai et sensé. C’est l’esprit « petit journal de Canal + ». En affirmant l’illisibilité du monde, il s’agit aussi de rendre impossible toute récriture de celui-ci. Si notre monde n’est pas définissable, comment un autre monde serait-il même imaginable ? L’idéologie du non-sens favorise le maintien du « désordre établi », pour reprendre une très juste expression des non conformistes des années trente, et particulièrement d’Emmanuel Mounier.

Le travail de sape réussi par la postmodernité s’est traduit par plusieurs déconstructions. Nous suivrons ici largement L’homme dévasté[7] de Jean-François Mattéi. On hésitera à dire que ces déconstructions ont été menées « à bien », ce qui laisserait penser qu’elles relèvent du bien[8]. Je dirais plutôt qu’elles ont été menées à fond. Poussées à leur terme. Jusqu’à faire accoucher le néant.

L’ère des déconstructions

Quelles déconstructions ont été menées ? Celles qui concernent le langage, le monde, l’art, le corps. On pourrait ajouter à cette liste de J-F Mattéi la politique, car elle couronne tous ces domaines. La politique suppose la maitrise du langage. Parlez-vous le Hollande ? « La France, sur tous ces sujets, elle est à l'initiative »[9] [au lieu de « La France a l’initiative »]. La politique suppose une vision du monde, elle nécessite la capacité de croire en l’art comme ce qui est noble, raffiné, élevé, elle nécessite aussi une idée juste du corps, qui reconnaisse les heureuses proportions comme idéal esthétique.  Il en est de même en architecture.

La déconstruction du langage consiste à préférer le rayonnement de l’absence d’idées au rayonnement des idées vraies. Il s’agit ensuite de préférer le vide d’un non rayonnement à tout rayonnement. L’insignifiant, l’hésitant devient un grand moment littéraire. Ecoutons Hélène Cixous. « Hier, j'ai dit que j'irai peut-être à Alger. Avec une voix distraite, sans couleur: J'irai peut-être à Alger. Je ne peux même pas affirmer l'avoir dit moi-même. C'est plutôt l'autre voix qui a prononcé ces mots comme pour les essayer. J'ai entendu l'hésitation. La probabilité d'aller à Alger m'était si faible. Je n'ai pas dit : j'irai. Je ne sais pas pourquoi j'ai avancé cette phrase vers ma mère à ce moment-là. Ce n'était qu'une phrase. J'essayais l'hypothèse. Il se peut que j'aie voulu en éprouver la résistance à la réalité. La faire sortir de l'abri de la fiction »[10].   L’écriture ne doit pas être cela. Elle doit vouloir dire quelque chose. Qu’elle y arrive difficilement, c’est possible. Mais elle est là pour essayer de dire quelque chose. « La pensée ne veut rien dire », explique Derrida de son côté. On ne pourrait dire que : « Ca pense », « il y  a de la pensée ». Mais elle ne voudrait rien dire.  Faut-il alors écrire pour laisser une simple trace ? Elle-même vouée à disparaître ?

Qu’en est-il maintenant de la déconstruction du monde ? Il y a toujours eu plusieurs visions du monde, supposant un écart plus ou moins grand entre la façon dont il nous apparait, par les phénomènes, et ce qu’il est vraiment, le noumène[11], la réalité en soi.  Ces variations amènent, soit à partir de l’expérience et à remonter vers les idées (induction), soit à partir des idées pour descendre vers les expériences (déduction). [du général au particulier : par exemple « Les hommes sont mortels. Socrate est un homme. Socrate est donc mortel »].

Un monde authentiquement faux

Nous vivons actuellement un renversement de nos visions du monde. Il ne s’agit plus de simples réinterprétations. C’est le renversement du mythe de la caverne[12]. Ce que nous voyons n’est pas une illusion, ce n’est pas l’image très déformée, trompeuse de choses réelles, c’est vraiment l’image d’un monde authentiquement faux. Guy Debord a magistralement expliqué cela : « Dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux »[13]. Le monde devient un fantôme, et en même temps, il ne cesse de se regarder du fait de la disparition de tous les horizons[14]. Notamment de l’idée de Dieu, de l’idée de patrie, de l’idée d’historicité. En Occident, du moins, l’idée de Dieu est morte. Et L’idée de patrie s’est endormie. Or, comme l’a montréGünther Anders[15], quand les fantômes se rapprochent, c’est le réel qui s’éloigne et devientfantomatique.« Puisque le démon ou le dieu marcionien[16] qui condamne l'homme à exister en tant qu'instrument – quand il ne le transforme pas, purement et simplement, en instrument –  n'existait pas, l'homme a inventé ce dieu. Il s'est même permis de jouer lui-même le rôle de ce nouveau dieu. Mais il n'a joué ce rôle que pour pouvoir s'infliger à lui-même les coups qu'il ne pouvait pas recevoir des autres dieux. C'est dans le seul but de devenir un esclave d'un nouveau genre qu'il est devenu maître.» En d’autres termes, l’homme s’est choséifié. Loin de se projeter dans le monde, il se projette maintenant dans les choses qu’il produit comme succédanés du monde.

DH6817_5141839.jpgLa déconstruction du monde a amené la déconstruction des images. Sans visions du monde, pas d’images du monde. L’image devient simulacre, et même simule le simulacre. Elle devient un jeu, et non plus un enjeu. Une part importante de l’art étant de l’image, l’art connait le même destin. L’art ne représente plus rien.  Les icones disparaissent, et laissent la place aux idoles. Or, l’idole ne renvoie qu’à elle-même tandis que l’icône laisse passer une vénération, elle n’est pas à elle-même sa propre fin.

La terre n’est plus le centre du monde depuis Copernic. Dieu n’est plus non plus le centre du monde depuis Kant, qui met le sujet humain au centre du monde.  Depuis Nietzsche, le sujet lui-même n’est plus au centre du monde, il est traversé par un faisceau de forces psychiques, et depuis Freud, complétant sur ce point Nietzsche, le « moi n’est pas maitre dans sa propre maison ». Le logos n’est plus au centre du monde, a voulu montrer Jacques Derrida, et ce logos [de l’homme] est d’autant plus en ruine que l’homme n’existe pas, comme l’a expliqué Michel Foucault[17]. C’est la grande dislocation. « Les signes de la dislocation sont le sceau d’authenticité de l’art moderne, ce par quoi il nie désespérément la clôture du toujours-semblable. L’explosion est l’un de ses invariants. L’énergie anti-traditionaliste devient un tourbillon vorace. Dans cette mesure, l’art moderne est un mythe tourné contre lui-même ; son caractère intemporel devient catastrophe de l’instant qui brise la continuité temporelle », écrit Theodor Adorno[18]

« L’homme est un Dieu pour l’homme »

Le corps de l’homme est la dernière substance touchée par la déconstruction. Déjà, Descartes avait assimilé l’animal à une machine[19], une « machine perfectionnée » disait-il, que l’on pourra un jour fabriquer. Puis La Mettrie avait étendu cette définition à l’homme[20]. Nous serions un simple assemblage de rouages, et de neurones dira-t-on plus tard. En conséquence, tout, chez l’homme, peut être réparé et réagencé. Tout est question de pièces à changer. Plus besoin d’avoir une vue d’ensemble de l’homme. Prenons le cas de l’homme malade par exemple. On peut opérer à distance ; mieux, un robot peut nous opérer à distance. Ainsi nait un homme artificiel. Au sens propre : l’homme comme une somme d’artifices. Des néo-organes et des néo-désirs sont greffés sur l’homme. C’est la réalisation du projet de Francis Bacon dans Le Nouvel Organon[21] [un Organon est un instrument] : « L’homme est un Dieu pour l’homme ».[22] En quel sens ? Par ses créations et inventions qui sont « comme autant de créations et d’imitations des œuvres divines », dit Bacon. L’homme devient la démesure même, guetté par l’hubris. Se croyant maître de la nature, et au nom de Dieu, il peut « prendre la route du mal tout comme du bien »[23], dit Sophocle. Mais ce qui était chez Sophocle conscience du tragique et du hors-limite qui nous guette devient inconscience et négation des limites. L’homme devient le deinos, que l’on traduit parfois par le merveilleux mais qui désigne aussi le terrible.

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L’homme réduit à un assemblage de pièces, maitre de lui-même et son destin, fabricant de ses propres recompositions, choisissant non plus seulement son orientation sexuelle mais son genre (« si je veux être homme bien que né femme, c’est mon choix »),  tout ce qui parait constituer l’unité humaine est nié ou dévalué. Etre un animal politique ? Issu d’un peuple et d’une culture ? Tout cela est nié. Nous sommes tous « égaux ». Certes.  Il est impossible de hiérarchiser les hommes et les cultures et de dire qu’un Tasmanien ou un Turc vaut plus, ou moins, qu’un Français. Mais, en langage postmoderne, cela veut dire : « Nous sommes tous pareils ». Tous identiques. L’homme relève désormais d’un genre neutre. Sans sexe ni race ni ethnie ni culture. La marche vers la suppression de la culture générale dans les grandes écoles est très caractéristique. Il s’agit de nier que la contextualisation culturelle informe même les choix techniques. Il s’agit de nier que l’on accède à une culture universelle par les cultures particulières.

Multitudes et masses

Si aucune culture ne peut plus être centrale, on valorise néanmoins les marges culturelles. Marginaux, immigrés, sans papiers, « migrants » : ce sont eux qui sont dans le vrai car ils sont hors normes. Tant qu’ils le restent, ils seront valorisés. « Multitudes et masses informes, surtout, restez le ! » L’important, dans la logique de l’idéologie dominante, c’est de discréditer tout projet politique. C’est d’empêcher toute cristallisation. C’est d’être un obstacle à toute solidification politique et humaine.  C’est de maintenir toute substance en état liquide, gazeux, informe. Les communautés ? Très bien, du moment qu’elles sont éphémères. La politique ? Très bien, du moment que c’est une « flash mob » pour réclamer la gratuité d’un concert de rap ou la piétonisation de 2 km de berge de Seine. Du moment que cela n’engage à rien, tout est permis. Surenchérir sur l’insignifiance est même encouragé.

L’indifférenciation est partout promue : « Le talent n’a pas de couleur, pas de genre, pas d’origine », clame une fondation parmi d’autres, toutes pour « la diversité », car cette diversité supposée est l’idéologie du Capital. Au nom de l’antiracisme, les origines, les cultures, ethnies et races non européennes sont seules valorisées, manifestant ainsi une obsession raciale à l’envers.  Le droit à tous les droits est demandé pour tous, anciens issues de centaines de générations de Français comme tous nouveaux dans la « patrie de droits de l’homme » (sans qualités). Tout ceci aboutit à ce qu’avait déjà vu un personnage de Dostoïevski : « On part de la liberté illimitée pour aboutir au despotisme illimité »[24].

Mais l’essentiel est ailleurs. A quoi sert l’éloge des diversités apparentes, telles celles de la couleur de peau ? A cacher bien mal l’homogénéisation des idées.  Le système veut faire des personnes « issues de la diversité » (je croyais que les origines ne comptaient pour rien, et voilà qu’elles sont importantes) de bons fonctionnaires de la mégamachine capitaliste. Ils n’ont pas d’idées sauf le « refus de l’exclusion », ils ne comprennent rien à l’histoire sauf le rappel des « heures les plus sombres de notre histoire ». Formule pratique quand l’on s’adresse à des gens qui ne comprennent rien à l’histoire, et tout a été fait pour qu’ils n’y comprennent rien par une vaste entreprise de décérébration mentale.

Les naïfs, les incultes et les empêtrés dans la « moraline »[25] sont les derniers hommes. C’est « le bonhomme en kit qui ne baise qu'avec sa capote, qui respecte toutes les minorités, qui réprouve le travail au noir, la double vie, l'évasion fiscale, les disjonctages salutaires, qui trouve la pornographie moins excitante que la tendresse, qui ne peut plus juger un livre ou un film que pour ce qu'il n'est pas, par définition, c'est-à-dire un manifeste (…) C'est l'ère du vide, mais juridique, la bacchanale des trous sans fond »[26].

De l’assimilation à la « société inclusive »

000041ICf+uT.jpgCette ère du vide est aussi l’ère de l’immigration de masse par appel d’air. Puisque nous ne sommes rien, puisque nous n’imposons rien, pourquoi ne pas venir chez nous sans faire le moindre effort ? « Venez comme vous êtes » : c’est le slogan d’une grande chaine de ‘’fast food’’. C’est aussi la politique d’immigration menée par nos gouvernements depuis plusieurs décennies. « La France a abandonné le concept d'assimilation, jugé trop unilatéral, elle lui a préféré le paradigme plus ouvert de l'intégration, mais celle-ci ne fonctionne plus, au point même que certains lui substituent l'idée de société inclusive. Comme si c'était en ne demandant plus rien à nos hôtes que nous réussirions à établir avec eux un modus vivendi et que le "vivre ensemble" retrouverait son harmonie perdue. Ces replis successifs témoignent de l'extrême difficulté de faire cohabiter, à l'intérieur d'une même communauté, des peuples qui ne partagent pas les mêmes principes, ni les mêmes traditions, ni le même idéal », écrit Alain Finkielkraut[27]

Pourtant, si le dernier livre auquel travaillait Albert Camus s’appelle Le premier homme, c’est qu’un recommencement est imaginable. Se souvenir, c’est imaginer une suite et un retour. Il faut imaginer ce premier homme qui est un nouvel homme et, plus encore, qui sera à nouveau un homme. Cet homme enfin revenu dans le pays des hommes, il ne peut être de nulle part. Il met l’œuvre avant l’espérance, comme le recommandait Alain[28]. Il recherche ce qui est nécessaire avant d’en chercher les conditions de possibilité. Saint Exupéry expliquait qu’il faut vivre « pour une chose profondément et pour mille autres suffisamment ». L’aliénation par la raison technique et marchande va de pair avec la fin de la liberté de nos peuples. C’est celle-ci qu’il faut tenter de sauver. Saint Exupéry disait encore : « On ne peut être à la fois responsable et désespéré ».

                                                                               Pierre Le Vigan.

Dernier ouvrage de Pierre Le Vigan : Soudain la postmodernité, éd La barque d’or, labarquedor@gmail.com  20 € + 4 € de frais de port pour la France. Pour l’étranger consulter l’éditeur. Tarifs spéciaux pour les libraires.


[1] Et même à partir de Descartes qui déduit tout le réel de l’existence de Dieu mais met au centre de la connaissance de Dieu et du reste la volonté. Or il s’agit bien sûr de la volonté de l’homme.

[2] Le désir s’appuie sur la volonté (je veux telle chose et je veux m’en donner les moyens), la pulsion suppose au contraire l’annulation de la volonté (je suis prisonnier de ma pulsion).

[3] Ainsi parlait Zarathoustra, prologue.

[4] Fondements de la métaphysique des mœurs, 1785 ; Critique de la raison pratique, 1788.

[5] Günther Anders est un des premiers à avoir attiré l’attention sur la dimension philosophique et anthropologique de l’œuvre de Kafka, et ce en 1934. G. Anders note : « Kafka détraque l'aspect apparemment normal de notre monde détraqué ».

[6] Livre parodié avec brio avec La première gorgée de sperme de Fellacia Dessert, 1998.

[7] Grasset, 2015.

[8] « La fin de la politique [son but] sera le bien proprement humain » écrit Aristote.

[9] Cf. Christian Combaz, Le Figarovox, 19 septembre 2014.

[10]Si près, Galilée, 2007.

[11] Pur objet de l’entendement relevant de l’intuition non sensible. Le noumène est l’autre du phénomène, ce dernier étant la réalité pour soi.

[12] Platon, République, livre VII. Il s’agit plus d’une allégorie que d’un mythe au demeurant.

[13] La société du spectacle, 1967.

[14] Bien analysé notamment par Charles Taylor, Les sources du moi. La formation de l’identité moderne, Seuil, 1998.

[15] L’obsolescence de l’homme. Sur l’âme à l’époque de la deuxième révolution industrielle, 1956.

[16] Pour Marcion, 1er siècle ap. JC, Jésus n’est pas le messie. Un Dieu d’amour s’oppose au Dieu de colère et de justice. Le christianisme de Marcion est déjudaïsé.

[17] Michel Foucault peut et doit être soumis à la crique mais sans le caricaturer. Il ne plaide pas pour la disparition de l’homme mais constate que la raison analytique, poussée à l’extrême, tend à faire disparaitre l’homme.

[18] Théorie esthétique, 1970.

[19] Discours de la méthode, 1637.

[20] L’homme machine, 1747.

[21] 1620. Le titre évoque bien sûr Aristote.

[22]Novum Organum. Aphorisme 129.

[23] Antigone. Le chœur.

[24] Les Possédés, 1871. Livre aussi appelé Les démons.

[25] A écouter : Jean-Charles Darmon, « La ‘’moraline’’ et les moralistes »,https://www.canal-u.tv/video/universite_de_tous_les_savoirs/

[26] Philippe Muray, « L’envie de pénal » in Essais, Belles Lettres, 2010.

[27] L’Express, 7 octobre 2015. Finkielkraut écrit aussi que « contrairement à ce que réclame Marine Le Pen, il faut coûte que coûte maintenir vivant le droit d'asile ». Je ne sais si c’est ce que réclame Marine Le Pen, que je n’ai pas suivi d’aussi près qu’Alain Finkielkraut dans ses propos. Il me parait évident que l’on ne peut maintenir un droit qui s’impose à nous sans possibilité de choisir qui on accueille. Il est non moins évident qu’il faut maintenir un droit de solliciter l’asile. Dont la réponse pourrait petre négative, et surtout suivi d’effets, c’est-à-dire d’une expulsion, ce qui n’es pas le cas sauf de manière anecdotique aujourd’hui.

[28]Propos sur le bonheur, 1928. “La foi est la première vertu, et l’espérance n’est que la seconde ; car il faut commencer sans aucune espérance, et l’espérance vient de l’accroissement et du progrès [de l’oeuvre]”.

 

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samedi, 03 octobre 2015

Metapolitik und Parteipolitik

Thor v. Waldstein

Metapolitik und Parteipolitik

Am 13. und 14. Juni 2015 fand in Schnellroda der II. Staatspolitische Kongreß statt. Rechtsanwalt und Autor Dr. Dr. Thor v. Waldstein hielt den Festvortrag anläßlich des 15jährigen Bestehens des Instituts für Staatspolitik (IfS). Thema: die Frage nach der Trennung zwischen »Metapolitik und Parteipolitik«.

Weitere Informationen im Netz unter: http://staatspolitik.de

jeudi, 01 octobre 2015

Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

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Carlo Costamagna: un illustre sconosciuto del ‘900 da riscoprire

 
In attesa della conferenza di sabato 3 Ottobre , presso la libreria di Raido, scopriamo la figura e il pensiero di Carlo Costamagna, tramite anche l’ausilio dell’ultimo  libro scritto da Rodolfo Sideri
L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna

a cura della Redazione

Ex: http://www.azionetradizionale.com

In un’epoca di “democrazia liquida”, di sovranità limitata e quant’altro, parlare del pensiero politico di Carlo Costamagna significa entrare a gamba tesa sulle categorie moderne del politico. Ed è proprio questo il merito di Carlo Costamagna: oggettivizzare in forma giuridica e politica quella “rivolta contro il mondo moderno” che rischia, altrimenti, di essere un’inattuabile visione del mondo.

E’ questo, perciò, il merito dell’ultimo libro di Rodolfo Sideri – “L’Umanesimo nazionale di Carlo Costamagna”  che riscopre questo illustre sconosciuto del ‘900, e riporta alla luce pagine importantissime della sua troppo poco nota opera. Opera riedita in minima parte, ma comunque fondamentale e da conoscere.

Tutta l’opera di Costamagna parte da un quesito: avrebbe potuto, il Fascismo, sorto grazie agli irripetibile eventi della Prima Guerra Mondiale, superare le contingenze temporali che lo avevano informato per divenire dottrina a-temporale dello Stato? E’ per questo che Costamagna cerca di definire la “dottrina fascista dello Stato”. Infatti, non è di “scienza” bensì di “dottrina” che devesi parlare nei confronti dello Stato. Lo Stato non è mera organizzazione politica: è “ordine” che contiene la diseguaglianza intrinseca di chi lo compone. E’ “ordine” poichè fondato su di una visione superiore: non un contratto sociale, semmai, reciproca subordinazione ad una volontà superiore e formatrice.

“Fascismo” è per Costamagna perciò un movimento “restauratore” della vera Idea di Stato (e di Uomo). Per questo Costamagna si batte in seno al Fascismo cercando spazio e consenso alle sue idee. Idee radicali, forse troppo per un movimento rivoluzionario divenuto prima regime e poi, in alcuni casi, burocrazia statolatrica. Costamagna propugna idee che lo rendono antipatico a chi aveva fatto carriera col Fascismo: invoca la formazione di una élite che vada al comando, integralmente fascista; invoca la funzione temporanea dello stesso “duce”, subordinata all’affermazione del vero Stato, secondo il leitmotiv diffuso fra i fascisti più intrepidi: “Deve essere Mussolini a servire il Fascismo, e non il Fascismo servire Mussolini

Lo Stato è realtà a sè, non è un “fatto giuridico”. E’ realtà irriducibile. Ed in Costamagna la concezione dello Stato diventa tutt’uno con quella dell’uomo: perché a quell’uomo avente dimensione spirituale ed integrale non potrà che corrispondere uno stato analogo.

Costamagna afferma, di conseguenza, la superiorità dello Stato su tutto: nazione, popolo, diritto stesso. Lo Stato è autosufficiente, è principio generatore. Si oppone così alla visione contrattualistica che pone l’individuo, ed il razionalismo, a fondamento dello Stato. E’ la riaffermazione totale del principio virile ed aristocratico della politica. La grande politica, potremmo dire.

Costamagna si schiera contro l’illuminismo, il liberalismo ed il positivismo in genere. E va oltre. La sua acuta analisi lo porta a comprendere che è proprio nella frattura, già segnalata da Evola e Guenon, determinata dal razionalismo e poi proseguita con Umanesimo e Rinascimento, che stanno i motivi della decadenza attuale.

Le pagine di Costamagna sulla sovranità sono una anticipazione beffarda al triste destino delle nazioni europee post-1945. Il vero Stato o è sovrano o non è. E’ uno schiavo eunuco, lo stato senza vera sovranità.

La questione del “bene comune” invece – un vero e proprio mantra del liberalismo e dell’individualismo moderno – secondo Costamagna si può risolvere solo alla luce di un’esperienza e d’una visione spirituale. Dove, però, per bene comune si intende un bene “politico”, e non misurabile secondo i criteri edonistici della felicità o, peggio, quelli economicistici della ricchezza.

Non è questa la sede per affrontare la biografia politica di Costamagna, che meriterebbe dei capitoli a parte che neanche il libro di Sideri, nella sua economia complessiva, può affrontare se non di sfuggita. Molto ci sarebbe da dire in merito al capitolo del rapporto con Gentile ed Evola. Rispetto al primo, non possiamo che ribadire e sottoscrivere le posizioni di Costamagna contro quell’idealismo liberale di Gentile che nulla aveva a che realmente spartire con il Fascismo. Ricordiamo di sfuggita che solo per un limite del Fascismo, che non seppe o non volle essere coerente con le sue premesse rivoluzionarie, non si apportò nella cultura politica quella spinta radicale che invece uomini come Costamagna, ardentemente fascisti – della “prima ora”, a differenza di Gentile – invocavano a gran voce. Gentile dagli anni ‘30, cioè dopo il consolidamento istituzionale del Fascismo, non ebbe vita facile, bersagliato com’era dall’eterogeneo mondo degli anti-idealisti fascisti.

Quanto al rapporto con Evola, parlano abbastanza le collaborazioni alla rivista di Costamagna “Lo Stato”. Inoltre, un capitolo a parte, pressoché sconosciuto, meriterebbe il progetto che nel secondo dopoguerra avrebbe visto Evola, su incarico di Berlino, costituire delle “uova del drago” a Roma all’indomani della conquista alleata. A tale progetto Costamagna avrebbe partecipato attivamente ma, altro non è dato sapere.

Capitolo a parte, su cui si sofferma Sideri, è dedicato ai rapporti fra Costamagna e la Rivoluzione Conservatrice germanica (austriaca e tedesca), nei rapporti con Spann e Schmitt in particolare. L’economia dell’opera non ha consentito di approfondirli ma, pure, Sideri sottolinea alcuni aspetti di convergenza e di divergenza che ci fanno dire come Costamagna abbia superato (positivamente) alcuni limiti di entrambi i filoni. Anche sul grandissimo Carl Schmitt, Costamagna infatti segna il punto, soprattutto circa le differenti vedute in merito al cosiddetto Führerprinzip.

Non male per un illustre sconosciuto

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Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

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Progressivism Cannot Deliver Multicultural Tolerance and Peace

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

[This is an excerpt from Progressivism: A Primer on the Idea Destroying America (2014).]

One of the great virtues of liberalism is that, it alone among the political worldviews, discovered a way for people from different ethnic, racial and religious groups to live together in relative peace.  In all systems of powerful government, including progressivism, these groups struggle with each other for control of the state.  As I demonstrated in a paper presented at the Mises Institute in 2002, the major cause of war in the last fifty years was conflict between or among competing ethnic, racial and religious groups inside states: civil war.[1]  The state system has not only failed to solve the problem of peace among disparate groups but in fact is itself the major cause of conflict and violence among these groups.  The cause of the violence is the fear of or the actual exploitation and domination of ethnic, racial or religious groups by a state controlled by hostile groups.

It is also a myth that the best way to smooth over multicultural differences is through the ballot box.  This is false. The ballot box is simply a means to determine how state violence is to be used against the losers of the election and how those losers will then be exploited economically and in other ways by the majority.  Thus, the incentive for minority groups to attempt to secede or seize control of the state to avoid such domination and exploitation exists in democracies and dictatorships. In 23 of the 25 recent intrastate wars, the prevailing regime was democratic throughout the dispute or at least at certain times during the dispute.[2] In certain cases, a democratic government was overthrown because of the feeling of an ethnic or religious subgroup that its interests were not being protected or advanced by the democratic state.

Thus, in strong states that exercise a great deal of control over people’s economic and personal lives, groups that do not control the state live in constant fear of exploitation, domination, and sometimes genocide itself.  In such states, whether democratic or not, different groups live in continual fear that competing groups may increase their political power, including by increases in population and immigration and thus, the state creates a conflict of interests that would not otherwise exist! In a liberal market society, disparate groups and individuals may live side by side, house to house, without the slightest fear that those who differ from them will seize control of the state and deprive them of their life, liberty or property.  They may associate with them if they wish, trade with them to their mutual benefit if they wish, or not associate with them if that is preferred.  Most importantly, peace is achieved!

It must be emphasized that progressive government, contrary to popular myth, exacerbates racial, ethnic and religious tensions and does not ameliorate them.  Every progressive policy, involving as it does state violence, creates winners and losers and thus resentment among the losers.  The progressive’s favored policies such as civil rights laws (forced association), affirmative action (affirmative racism) and welfare, create winners and losers and therefore resentment among the losers.  Under liberalism, both parties in every voluntary transaction are winners and positive relations among different groups are attained.

Multiculturalism and big government are a toxic mix.  We see this today all over the world with ethnic, racial or religious violence ongoing in Iraq, Ukraine, Syria, Sudan, Israel/Palestine, Darfur, Chechnya and other regions. Those who look forward to a peaceful multicultural world should embrace liberalism and the free market.  No other political system can maintain peace and tolerance in a multicultural world.

Notes

[1] “The Myth of Democratic Peace: Why Democracy Cannot Deliver Peace in the 21st Century,” LewRockwell.com, Feb. 19, 2005.

[2] Id.

mardi, 29 septembre 2015

Lo zen delle vette

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Lo zen delle vette

La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota

di Giulia Pompili

Ex: http://www.ilfoglio.it

Nel centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un piccolo cimitero dedicato agli alpinisti. Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi non ce l’ha, viene ricordato con una lapide dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là c’è una targa che ricorda il gemellaggio di Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché protetto da cinque vette, il luogo di ritiro invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi. Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14 luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter Taugwalder figlio. Ma durante la discesa, ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello di Lord Francis Douglas riposa ancora sul Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si salvarono erano due guide alpine.

“Adesso, che sono ormai quasi vecchio e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma ben assicurato alla corda di una paziente guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai capicordata, alle guide, e soprattutto agli accademici e a quelli che, senza avere la formale laurea, appartengono tuttavia alla loro intrepida famiglia, ora capisco come unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a seguire lo stato di avanzamento dei lavori per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione d’amore” che ebbe inizio quando aveva quindici anni con la vetta della Croda da Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2” – che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta. Fu un’ammissione sincera, dopo anni di menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche e di tritacarne mediatici, di arditismo, di bugie che finiscono per sbattere contro con la nuda verità della roccia. Quella stessa roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili (“La gente che si accontenta di guardare le montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla Lettura nel 1933).

Poco prima di morire, il 28 gennaio del 1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di difficoltà, nel suo scalare, eppure parla delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi, quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da Mondadori – che lo aiutarono a scalare. Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla senza di loro. La montagna è anche questo, spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti. Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.

Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Mario aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una famiglia di operai romani il 7 maggio del 1938, Luigi Mario è stato il primo romano a diventare guida alpina. A dire la verità, Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro Engaku a raccontare la sua storia nel libro “Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni Monte Rosa. Anche lui, come succede ai grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como, mentre la spedizione italiana scalava il K2. Frequentavo il secondo anno della scuola professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Facevamo il giro del lago e nel vedere tutte quelle rocce, così importanti poi per la mia crescita alpinistica, pensai ad alta voce che sarebbe stato bello montarci sopra. […] L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche giorno dopo volle raggiungere in bicicletta il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli alpini.

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Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto mica ce sta er buro. Una frase che Luigi Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema, questo punto supremo al quale si sacrifica tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate più difficili davano certo sensazioni più forti delle altre ma rimanevano sul piano della sensazione, richiedendone altre più forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una scrittura schietta, decisa. Come quando un maestro giapponese insegna le do (le vie di ascesi, di cui fanno parte anche le arti marziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle do giapponesi il maestro è il depositario dell’arte che si vuole apprendere e in lui si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la trasmissione dell’arte e al suo maestro ha promesso di trasmetterla con sincera fede ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante il suo quinquennio d’insegnamento in Giappone. Basandosi su ciò che aveva imparato, nel 1953 pubblicò il famoso libro “Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che da noi erano considerati né più né meno che degli sport.

E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller sul “magico potere del riordino. Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che scoperta. Ogni volta che sento parlare di lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La sua preparazione è un rito. E il nemico, l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale, perché non esiste cosa che non abbia un peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi conosce la montagna conosce il peso di ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa che viene portata fino in cima. Per ore si cammina in silenzio, perché ogni respiro è dedicato all’unico scopo di salire. Come nelle discipline orientali, la respirazione è il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto: “Negli speciali riguardi delle ascese alpine (s’intende: là dove non si tratta di salti, di pareti da scalata – là dove l’ascensione, per quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perché qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin da subito le energie normali, ed entrare nello stato di ritmo e di “instancabilità”, mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi, ogni sforzo effettuato per raggiungere la vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”.

Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in tutte le culture antiche, sia occidentali sia orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di Evola. E non è un caso se Messner è uno di quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di mezzo secolo fa – non stette uno sportman, ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa idea, le grandi ascensioni dovevano essere esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un impulso alla liberazione e alla vita ‘in un più spirabil aere’”.

 

lundi, 28 septembre 2015

Julien Freund: les ravages de l'impolitique

DES IDÉES ET DES HOMMES: SUIVRE LA PENSÉE DE JULIEN FREUND

Les ravages de l'impolitique

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr
 

julien-freund.jpgCet article est le premier d'une série animée par des enseignants, collaborateurs de MÉTAMAG, consacrée à nos  "grands hommes" et aux idées qui mènent le monde. Nous y accueillerons d'ailleurs tous les articles de nos lecteurs qui souhaiteront y participer. Un onglet supplémentaire  "Des idées et des hommes"  sera consacré à cette série lors du très prochain changement de maquette du site. Jean Piérinot.

La victoire actuelle de l’oligarchie des criminels en col blanc est corrélative d’un effacement de la pensée politique en Europe, phénomène qui s’appuie sur la nomination de petits fonctionnaires dans les instances du pouvoir. L’impolitique permanente accompagne la chute de la République dans le néant. En suivant la pensée de Julien Freund, on soulignera trois aspects fondamentaux de cette crasse intellectuelle qui recouvre les cerveaux des collabos de l'Europe actuelle. 


L’État et l’anti-éducation


On sait que l’on doit aux socialistes et aux libéraux les décisions en faveur de l’éducation étatique. Au XIXème siècle, chacun a réclamé, au nom de l’égalité, l’éducation confiée à l’État. La pédagogie qui a fait couler beaucoup d’encre depuis les Grecs demeure néanmoins un mystère puisqu’il s’agit de la naissance d’un esprit. Comment transférer quelque chose d’une vie unique, celle de l’enseignant, vers une autre vie tout aussi spécifique, celle de l’élève? Nous ne sommes ni dans l’univers des liquides ni dans le domaine des solides. La pensée n'est pas liée seulement à celui qui la porte. Elle s’inscrit dans un paysage mental préexistant. Or, les dirigeants des États Européens veulent désormais que la vérité soit une bible que l’on récite. Le professeur, quant à lui, serait un complément du seul rapport au monde qui trouve grâce chez les tyrans modernes, le braiement systématisé dans les centrales multimédias. Il est évidemment impossible que réapparaissent des hommes de la trempe de Socrate ou Marsile Ficin (1433-1499) dans un univers où règnent l’esprit d’orthodoxie et l’obscurantisme contre ceux qui pensent. 


Le savoir dépend aussi des structures institutionnelles qui le favorisent ou l’assèchent. Les recteurs deviennent des assassins de la pensée et leurs maîtres jouent le spectacle que Régis Debray a décrit sous le titre “histoire française de l'infamie : 1919-1978”, le faux clivage "culture versus barbarie". Toujours, il y a eu urgence. Les affreux, les méchants sont à la porte. Il est urgent de manifester l'attachement à la cause de l'homme, de la démocratie, de la vraie science. Aujourd'hui, on ne saurait voir émerger une relation Maître-disciple, liée à une orientation commune vers la culture. A ne plus vouloir produire que des bien-pensants, l’Etat fabrique des monstres.


La double morale, preuve d’une mentalité primitive et sectaire


JFpol.jpgDepuis l’origine de l’humanité, les petits groupes d’humains ont toujours pratiqué la double morale: la loi du groupe impose d’agir dans le sens de la puissance collective, par exemple ne pas tuer ni voler son semblable, alors que les règles s’inversent dans les relations avec les autres. De plus, les anthropologues ont prouvé que pour la quasi totalité des tribus primitives, le nom de la tribu et celui d’homme se confondent. L’humanité s’incarne dans la tribu. A notre époque, les religions monothéistes qui se réfèrent à l’ancien testament ont gardé cet aspect primitif, le transformant en un racisme théologique. On ne peut être surpris en conséquence de la manière dont ont évolué les relations sociales, ni de la transformation des relations internationales. Le pouvoir économique globalitaire pratique cette double morale de manière permanente. Le mensonge notamment est systématique. L'axe de l’inhumanité (Washington, Londres, Bruxelles, Tel Aviv, Riad, Doha) ne tient pas ses promesses à l’égard de quiconque est situé hors de son axe. Il n’y a là non plus aucune politique, mais de l’impolitique et du néant.


La promotion des nuls 


L’éthologie enseigne que les petits groupes de primates et de sapiens connaissent l’agressivité intra-spécifique qui détermine la soumission hiérarchique. Cette hiérarchie permet de faire fonctionner le commandement selon un critère de valeur. Les petits groupes dans lesquels les humains se connaissent déterminent facilement qui est l’alpha, le dominant face auquel chacun se prosterne. Dans les sociétés de multitudes, il est plus difficile d’organiser la soumission, c’est-à-dire de mettre en place une hiérarchie admise. L’occident actuel impose la hiérarchie riches - pauvres. Les riches sont la race supérieure, les élus d’un dieu qu’ils inventent pour justifier l’inhumanité. Il convient de faire accepter ces horreurs aux pauvres car les responsables politiques savent bien que la paix n’est possible pour eux que si chacun applaudit au spectacle qu’ils présentent ou financent. Dès lors, ils recrutent des affidés selon trois critères: reconnaître que les riches sont la race supérieure permanente et qu’ils doivent régner pour des siècles; adopter comme vérité révélée le cours d’économie tel que peut l’enseigner l’institut d’études politiques, car il a été traduit de manuels anglo-saxons, lesquels sont l’équivalent de l’ancien testament.; montrer sa capacité à appliquer la double morale, éradiquant le vivier d’où sont sortis régulièrement les grands hommes et de grandes œuvres. 


Julien Freund termine son introduction sur l’impolitique en rappelant un principe général. On s’attaque aux faibles, c’est-à-dire ceux chez lesquels on soupçonne la carence dans la détermination et l’absence de courage et de fierté. De Juncker à Hollande, en passant par Merkel et autres pitres du théâtre européen, il en est exactement ainsi. La “World Al Capone Corporation” est lucide sur ses enjeux spirituels et matériels. Elle organise les conflits car elle sait qu’aujourd’hui les européens vont succomber définitivement. Les hommes et femmes placés à la tête des États vont se rendre sans honneur car ils sont lâches et las. Personne ne respecte les pleutres. Aucun discours niais sur l’humanité, sorti de l'antre de la bête biblique ne saurait modifier cet état de chose. La fin de l’Europe est désormais évidente et, partant, irréversible.


Julien FREUND : "Politique et impolitique" , Collection Philosophie politique, Éditions Sirey, 1987, 426 pages.

 

dimanche, 27 septembre 2015

Homo Exhibus: l’obsession de la transparence

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Homo Exhibus: l’obsession de la transparence

Les médias, la politique et la publicité ont un nouveau Dieu :  la transparence, une injonction moderne qui se veut synonyme de vérité. Mais comment rester aveugle face à son action totalitaire ? Comment ne pas y voir un mensonge en filigrane, c’est-à-dire une dissimulation supplémentaire ?

Pour promouvoir dans une publicité son amour de la vérité, une compagnie d’assurances n’hésite pas à se mettre totalement nue, car « la transparence est notre priorité ». Le marketing nous en dit long ici : dans cette mise à nu (toutefois partielle, car sexes et seins sont dissimulés) le spectateur doit croire que la compagnie d’assurances n’a rien à cacher, qu’elle est dans le vrai. La transparence serait-elle alors le temple de la Vérité Révélée ou, plutôt, un piètre argument marketing, permettant de faire oublier les conditions de ventes qui défilent au bas du téléviseur ? La nudité, le nudisme médiatique est en train de s’emparer des écrans. Nous lui fermerions la porte, qu’elle reviendrait par la fenêtre. L’émission de télé-réalité « Adam & Eve » a apposé la pierre de touche de la société de la transparence : elle faisait se rencontrer des candidats célibataires entièrement nus. Le leitmotiv de l’émission partait du principe qu’une fois éliminée l’intimité des corps des personnes, la vérité de l’amour ne pouvait que jaillir de leurs échanges verbaux… La naïveté et la niaiserie du Bien réunies dans un même programme télévisé sous l’étendard de la transparence…

Dès 1997, Philippe Muray, dans son texte « L’envie du pénal » des Exorcismes Spirituels I, fustigeait clairement et distinctement le terme de transparence en écrivant : « Transparence! Le mot le plus dégoûtant en circulation de nos jours ! Mais voilà que ce mouvement d’outing commence à prendre de l’ampleur. » Mais de quel dégoût parle-t-il au juste ? Pourquoi la transparence est-elle à dénoncer, puisqu’elle serait le générateur du Vrai ? C’est justement à cet endroit que la transparence ou, plutôt, la transparence comme étendard doit être vomie définitivement. « Soyez transparent ! », s’exclame Homo Exhibus, tapit dans l’ombre de ses intentions, « Montrez-vous et le Bien régnera ainsi définitivement dans ce monde emplit de mensonge, de tromperie, de trahison », « Venez comme vous êtes ! », scande le maquereau mondial du Big Mac : ne vous cachez plus, ne vous formalisez plus. Quel beau message ! Retenez vos larmes ! La transparence vous invite à consommer le Vrai à pleines dents, la modernité dégoulinante de bonnes intentions. Cette volonté de démasquer, n’est-elle pas une mascarade, autrement dit un maquillage tellement évident qu’il devient invisible ? À chaque fois qu’a été mise en  place une politique de la pureté, les dérives sont notoires. La transparence, c’est la foi en la conviction de la pureté : c’est un détournement pervers de l’attention. On donne à voir une chose pour occulter le reste, « impur ». Faut-il sacrifier la liberté individuelle sur l’autel du voyeurisme social et politique ?

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Transparence contre pudeur

Dans La Terre et les rêveries de la volonté, Gaston Bachelard écrit : « nous sommes dans un siècle de l’image. Pour le bien comme pour le mal, nous subissons plus que jamais l’action de l’image ». Si l’image est pour lui la caractéristique des « temps modernes », il ne la perçoit que comme poursuite, prolongement de la littérature et de la poésie. Or, lorsqu’il écrit ce texte en 1948, Bachelard n’a pas conscience de cette dictature naissante de l’image et, a fortiori, de la transparence. Tout un lexique se développe autour de cette notion : le « parlé vrai », les « révélations », « le live », le « besoin de vérité » ou encore « en immersion » sont autant de termes représentatifs d’un désir de tout mettre à nu, termes journalistiques vides de sens. « Encore un siècle de journalisme et tous les mots pueront », assène Nietzsche dans un fragment posthume. Effectivement à force de mettre en transparence des mots, ils finissent par pourrir jusqu’au trognon à l’air libre… Le médiatique emporte avec lui tout ce qui faisait le suc de l’existence : l’invisible devient visible, le privé se meut en public. La transparence est la victoire de l’image sur la parole, du montré sur le non-dit. La Vérité entendue comme transparence est un « attentat à la pudeur », écrivait Nietzsche.

C’est la victoire du pornographique sur l’érotique. La dissimulation n’est plus fréquentable sans ce soupçon permanent qui l’accompagne. Dissimuler c’est érotiser la société, c’est-à-dire révéler le désir qui émane de la pudeur. La pudeur est morte, elle est devenue un gros mot : il se faut montrer, en montrer le plus possible pour être quelqu’un de bien. Le désir est maintenant provoqué par une transparence totale, la transparence pornographique, celle qui consiste à tout montrer, sans la délicatesse de la pudeur, réel synonyme de distinction et de goût du désir. À l’extrémisme de la nudité, à l’excès démesuré d’impudeur, la réponse est religieuse : la dissimulation intégrale, comme volonté de se protéger. Se protéger de la contrainte à la visibilité, c’est sauvegarder sa personne, son intimité.

Le politique contemporain veut utiliser la transparence afin de plonger dans le silence ceux qui oseraient se montrer contre lui. Faire transparaître pour faire disparaître, ou quand la cohérence intellectuelle brille par son absence. C’est la volonté affichée de montrer pour désacraliser, une sorte de nietzschéisme pour les pauvres, comme si tout ce qui avait, de près ou de loin, le goût du sacré était susceptible d’être « mauvais » – au sens moral du terme. La désacralisation à tout-va tient de la confusion entre l’intime et le tabou. Par définition, le tabou désigne une prohibition à caractère sacré, notamment dans les études ethnologiques, tandis que l’intime relève de qui n’est pas accessible à tous, plutôt de l’exclusivité à soi ou un autre particulier. La crise religieuse ou spirituelle que traverse l’Occident est symptomatique de cette tendance à autoriser, voire à contraindre à ce que l’interdiction de la chose interdite soit levée, autrement dit que le tabou soit dévoilé. Soyons clairs : que certains tabous n’en soient plus n’est en soi pas une chose dangereuse. Mais exterminer le tabou n’implique-t-il pas de violer l’intimité individuelle ?

L’inauthenticité de la transparence comme vérité

Pour Homo Exhibus, la vérité est dans les détails. Il se met à soupçonner tout ce qui bouge, à se montrer « attentif » au moindre petit geste, lapsus, terme abscons ou décision secrète. Il ne supporte pas que le secret soit secret, que l’opaque retienne la lumière. Homo Exhibus permet de démontrer que médias et conspirationnistes marchent tous deux main dans la main, les yeux dans les yeux : ils sont culs et chemises, mais se rejettent l’un l’autre. Les premiers se prenant pour une science, les seconds pour indépendants et donc plus à même d’être dans le vrai. Dans la Généalogie de la morale, Nietzsche exprime déjà cette dérive de la presse et son rapport au lecteur : « Si l’on considère comment tous les grands événements  politiques, de nos jours encore, se glissent de façon furtive et voilée sur la scène, comment ils sont recouverts par des épisodes insignifiants à côté desquels ils paraissent mesquins, comment ils ne montrent leurs effets en profondeur et ne font trembler le sol que longtemps après s’être produits, quelle signification peut-on accorder à la presse, telle qu’elle est maintenant, avec ce souffle qu’elle prodigue quotidiennement à crier, à étourdir, à exciter, à effrayer? Est-elle plus qu’une fausse alerte permanente, qui détourne les oreilles et les sens dans la mauvaise direction ? ». Homo Exhibus se prend pour ce qu’il n’est pas – il fait le malin.

C’est ce que Nietzsche raille et dénonce dans le livre premier du Gai Savoir. Il décide de soupçonner le soupçon et son maître, le soupçonneux. Qui est donc ce « soupçonneux » ? C’est en réalité celui qui ne croit à rien, qui trouve tout suspect, qui « cligne les yeux » devant chaque parole : cet homme c’est celui « à qui on ne la fait pas ». Voici l’Homo Exhibus. Il cherche à exhiber ce qui semble être une mascarade, un mensonge d’État, un complot international. Nietzsche le rangerait dans la catégorie des nihilistes. Se prenant pour le juste, il ne croit à rien, sauf à sa capacité à dénicher le vrai derrière le caché. Il se pense lucide en ayant l’illusion de rendre le monde translucide. Car, pour lui, ne pas voir revient à une dissimulation et donc au mensonge pur et simple : une aberration logique absolue, car « la vérité ne signifie pas le contraire de l’erreur, mais la position de certaines erreurs relativement à d’autres » (Volonté de puissance, tome I). En effet, Nietzsche défend que l’apparence n’est rien d’autre que la réalité. Il n’y a que de la surface, la profondeur en arrière-fond des choses est une illusion de la raison, qui perdue devant la multiplicité des faits se cherchent des raisons, en réalité une foi. Ipso facto, la transparence se présente en tant que négation du réel.

La transparence, avant d’être un combat formidable pour la vérité est une technique de communication marketing. Auparavant, la dissimulation, le masque, le voilage de soi, de ses paroles étaient l’instinct de survie de l’homme, c’était son intelligence de séduction. Désormais, l’idéal de la transparence devient la nouvelle foi en la survie de soi. Pourquoi parler de « communication marketing » ? Car la transparence est hologramme : les choses se montrent comme-si, mais ne le sont pas intégralement. On affiche la transparence, d’une certaine manière, on se cache derrière la transparence, loin de la lutte naïve pour la vérité. Pendant que la transparence donne à voir une chose, le reste peut être occulté, peut passer inaperçu. Paradoxal ! Cette transparence apparaît comme étant un travestissement du réel, où tout dépend du filtrage, du zoom, du cadrage sur un même plan, une même scène. En effet, la transparence est un double-vitrage qui n’empêche ni de voir ni d’être vu, mais protège celui qui veut se montrer. C’est très justement le mode du détournement d’attention dont nous parlions quelques lignes plus haut : la transparence est donc une nouvelle forme de dissimulation.

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Inlassablement, nous ne sortons jamais de la dissimulation. Il y a une double perspective d’appréhension de la transparence : naïve, qui croit sincèrement qu’on peut ouvrir les portes de la vérité et que la vérité se résume à une adéquation avec la réalité ; et dans le ressentiment, dans la mesure où cette quête sert à d’autres fins, par exemple son orgueil personnel. Qu’importe la rive sur laquelle nous nous trouvons, il faut noter que l’épanouissement de la vie se déploie justement dans l’art de la dissimulation et de l’apparence, de sorte que (sur)vivre est nécessairement une volonté de duper, de tromper, de séduire, d’amadouer pour accroître sa puissance et maintenir sa domination sur autrui. Il revient à Nietzsche de conclure cette partie, à partir de ses mots dans Humain trop humain II, « Le voyageur et son ombre » : « En tant qu’il est un moyen de conservation pour l’individu, l’intellect développe ses forces principales dans la dissimulation ; celle-ci est en effet le moyen par lequel les individus plus faibles, moins robustes, subsistent en tant que ceux à qui il est refusé de mener une lutte pour l’existence avec des cornes ou avec la mâchoire aiguë d’une bête de proie. Chez l’homme cet art de la dissimulation atteint son sommet : l’illusion, la flatterie, le mensonge et la tromperie, les commérages, les airs d’importance, le lustre d’emprunt, le port du masque, le voile de la convention, la comédie pour les autres et pour soi-même, bref le cirque perpétuel de la flatterie pour une flambée de vanité, y sont tellement la règle et la loi que presque rien n’est plus inconcevable que l’avènement d’un honnête et pur instinct de vérité parmi les hommes. »

Voyeur recherche exhibitionniste (et réciproquement)

S’il existe bien un maître historique en la matière c’est Jean-Jacques Rousseau et ses Confessions. Il prend le parti original et exhibitionniste de se mettre à nu à l’écrit. Rousseau veut faire tomber le masque, pour que seul l’homme reste et que le héros s’évanouisse… Sauf que, comme le fait remarquer précisément Jean Starobinski dans Jean-Jacques Rousseau. La transparence et l’obstacle, en voulant se montrer authentique, il nous dupe de la plus belle des manières en écrivant une autobiographie auto-autorisée. Dans le premier livre des Confessions, Rousseau écrit « Je me suis montré tel que je fus » : mensonge ! Il s’est montré tel qu’il veut avoir été, selon la croyance de soi-même et du roman de sa vie. Starobinski démontre que Rousseau dévoile le problème de l’autobiographie en tant que lieu de la transparence, puisqu’elle en constitue son obstacle majeur. Il se réinvente une existence, ne dévoilant au public que ce qui l’arrange de dévoiler. « Je devenais le personnage dont je lisais la vie », écrit-il sur son enfance. Il devait se regarder écrire aussi pour finir par y croire autant… Rousseau fait tomber le masque, pour dévoiler plus ou moins authentiquement, le héros existant dans « l’homme à nu ». Mais, il ne serait pas honnête, intellectuellement parlant, de tout mettre sur le dos de Rousseau, et plus largement sur les épaules d’Homo Exhibus. Le succès dévastateur de la transparence – dans les Confessions de Rousseau comme dans les différents médias et supports contemporains – vient de la demande des voyeurs et voyeuristes des sociétés modernes. Homo Contemplator n’est pas en reste.

La relation entretenue entre Homo Exhibus et Homo Contemplator relève de la réflexivité interdépendante. L’un comme l’autre n’a de raison d’être que parce que son autre existe. En économie, nous dirions qu’il y a un rapport de l’offre et de la demande. Avec les mots de Rousseau, Homo Exhibus fait tomber « les apparences qui condamnent » et qui l’empêchent d’offrir à Homo Contemplator ce qu’il réclame : il s’offre à lui. En voulant se montrer, Rousseau a répondu à une demande de mettre sa pudeur à nu, de connaître l’envers du décor (le croustillant) et que le privé se fasse public. Les émissions de télé-réalité vont dans ce sens du rapport offre/demande. La course après l’audimat fait partie de ces dérives de la télévision : la télévision donne au monde ce que le monde veut (rece)voir. Le sensationnel, le choc, l’inattendu, le spectaculaire, le choquant, l’agaçant, l’excitant, autrement dit une construction du réel à partir d’une volonté a priori de révélations. Or, l’endroit et l’envers du décor sont les deux côtés d’une même pièce de théâtre. Ce strip-tease de la société dénote un « déshabillement-agacement » pour reprendre les termes de Laurent de Sutter dans Strip-tease. L’art de l’agacement. En effet, il y a une sorte d’agacement et d’excitation à la vue de la mise en transparence des choses et des événements. Une courte remarque à propos des chaines télévisées d’informations en continu s’impose. En souhaitant délibérément se trouver « au cœur de l’info », la télévision prend la décision de tout mettre à nu, de ne rien cacher, de ne rien dissimuler, car, pour elle, c’est à cet endroit que se situe la vérité-vraie des faits. Nous regardons. Scandalisés de ce qu’on nous contraint à voir. Excités des révélations sur la vie privée des événements du monde. Complices du supplice. Exhibitionnistes et voyeurs sont les amants d’un même mariage dans lequel le cercle de leur alliance est vicieux.

samedi, 26 septembre 2015

Angela Merkel, Max Weber et l’éthique du poisson mort

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Angela Merkel, Max Weber et l’éthique du poisson mort

Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

A propos du virage à 180 degrés d’Angela Merkel sur les migrants, il a été question d’éthique de la conviction et d’éthique de la responsabilité, distinction proposée par le philosophe/sociologue Max Weber au début du vingtième siècle. Je me souviens encore de l’éblouissement que j’ai ressenti lorsque j’ai pris connaissance de cette distinction, tant elle était lumineuse et profonde.

Le convaincu agit selon une valeur qu’il veut faire passer dans la réalité, sans chercher à savoir quelles seront les conséquences de ses actes. Il veut la paix à tout prix et ne comprend pas que son action pourrait conduire très vite à la guerre. Ainsi Angela aurait agi tout d’abord selon ses convictions en matière de droits de l’homme et de libre circulation. On pouvait la sentir satisfaite de promouvoir la paix, l’ouverture, une bienveillance universelle sur la scène du monde. Elle agissait selon une éthique de la conviction.

Et puis, elle semble avoir pris conscience qu’en agissant ainsi elle risquait de promouvoir le contraire de ce qu’elle voulait promouvoir : la haine plutôt que la bienveillance – le repli sur soi plutôt que l’ouverture. Prenant conscience des conséquences de ses actes, elle a passé d’une morale de la conviction à une morale de la responsabilité.

Jusque-là, pas de problème. On comprend. Mais à y réfléchir, on en vient à se demander s’il y a eu une conviction derrière le comportement de la chancelière allemande. Angela a-t-elle jamais été une convaincue avant de voir les conséquences de ses actes ? N’était-elle pas plutôt une fonctionnaire de la pensée unique, avant d’être surprise par un retour de la réalité comme on est surpris par un retour de flamme.

Comment parler d’un comportement qui ne repose ni sur des valeurs, ni sur des convictions, mais sur le conformisme au politiquement correct ? A côté d’Angela, on peut placer François Hollande. Avec lui, on va encore plus loin : à chaque fois qu’il énonce des propos, on a l’impression qu’il n’y a personne derrière et donc pas la moindre conviction. On parle depuis quelques années d’ordinateurs capables de rédiger des articles à la place des journalistes. Qui n’a jamais senti que les discours de nos gouvernants pourraient, eux aussi, être tenus par des ordinateurs dûment programmés ? Nous avons de moins en moins affaire à des convaincus ou à des responsables, mais à des âmes mortes qui récitent des formules.

Max Weber ne semble pas avoir tenu compte de cette troisième catégorie à côté des deux types d’éthique qu’il propose. C’est un peu surprenant, car il avait conscience du fait que l’Occident entrait dans une phase où les valeurs disparaissaient. A tel point qu’il recommandait que l’on choisît une valeur, n’importe laquelle,  pourvu qu’on en choisît une. Il avait donc bien pressenti que les âmes mortes allaient proliférer, des âmes sans conviction, sans valeurs, même si elles avaient constamment ce mot à la bouche.

L’âme d’un individu qui ne croit plus à rien pour mieux fonctionner dans le monde tel qu’il est (soi-disant) est une âme morte. Nous sommes appelés à davantage qu’à fonctionner ici bas. C’est seulement alors que nous cessons d’être des coquilles vides.

Comment nommer ce comportement qui, à côté de l’éthique de la conviction ou de la responsabilité, consiste en une pure adaptation  au monde ? Je propose : éthique du poisson mort.

Sans que je comprenne bien pourquoi, il me semble qu’il y a de plus en plus de poissons morts dans les classes gouvernantes des démocraties modernes. Les représentants du peuple, devant répondre aux demandes de plus en plus diverses de ceux qu’ils représentent, ne peuvent pas avoir de convictions solides et d’actions claires car ils risqueraient alors de ne pas être réélus. Ce mécanisme fait passer tout acteur politique habité par une solide conviction pour fou, dangereux, fasciste. Il ne lui reste plus alors qu’à flotter, comme un poisson mort, au gré des divers courants qui agitent la société. Les sociétés modernes sont des sociétés sans gouvernants, sans gouvernail. L’éthique du poisson mort y règne, presque toute-puissante.

Jan Marejko, 22 septembre 2015