«Il famoso detto: “l’economia è il nostro destino” è il triste segno di un’epoca, purtroppo, non ancora interamente tramontata. Palese falsità in ogni periodo di storia e di civiltà normale, questo principio è divenuto vero dopo che l’uomo ha distrutto l’uno dopo l’altro tutti i valori tradizionali e tutti i punti superiori di riferimento, che prima presiedevano alle sue decisioni e alle sue azioni»
(J. Evola, Saggi di dottrina politica)
All’indomani dell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo di Parigi, nel gennaio dello scorso anno, tra le vittime mi colpì la presenza di un nome che già mi era familiare da molti anni: quello di Bernard Maris.
Bernard, già consigliere della Banca di Francia, docente universitario a Parigi, giornalista ed economista, fu molto critico con gli economisti e l’economia moderna. Non certo l’unico ad esserlo, ma la sua modalità fu piuttosto efficace ed incisiva.
«Si ha voglia di capire. Perché questa scienza economica – partita da tanto in alto, dalla filosofia e dalla logica, da Ricardo, da Marshall, nell’epoca in cui questi ne facevano pazientemente una scienza autonoma a Cambridge con il sostegno del logico Sidgwick, e supplicava Keynes, di cui presagiva la genialità, di fare una tesi in economia e non in matematica (e Keynes le fece entrambe) – è decaduta a cagnara di refettorio, con qualche sorvegliante che urla più forte, come se la fisica dei Foucault si fosse abbassata al rango delle ciance delle astrologhe che predicono il futuro con un pendolino» (1).
Bernard non le mandava di certo a dire: «E voi, gente dei numeri…Agitatori di nacchere statistiche, che maneggiate somme sbalorditive, che fate giochi di destrezza con i tassi, illusionisti dei miliardi di dollari e della disoccupazione ridefinita venticinque volte in vent’anni come in Inghilterra (ha finito col diminuire), che fate previsioni cercando il futuro con un ago nel buio e una candela nel pagliaio» (2). E ancora: «Voi, i «ricercatori» delle organizzazioni al soldo dei potenti, mai stanchi di leccar piedi, che risalite senza posa le rupe dei loro errori, poveri Sisifo dell’equazione…Voi consiglieri del Principe, chief economists, […] Sicari del rapporto raffazzonato ma che uccide […] interpreti dei pastrocchi econometrici e delle curve di numeri usciti direttamente dalla pancia dei computer […] Sacerdoti di una religione senza fede e senza legge se non quella della giungla» (3).
Tutto ciò, Bernard lo scriveva nel 1999, ben prima della crisi del 2007-2008 che ha reso palese, per chi ancora non l’avesse già chiaro, la totale incapacità della teoria economica moderna di affrontare i problemi reali, dell’economia reale. Una “scienza” che «ripete da centocinquant’anni, ad nauseam, la legge della domanda e dell’offerta, e quell’«astuzia della ragione» – direbbe Hegel – secondo cui dai vizi privati nascerebbe un bene sociale. Siate egoisti e la società andrà bene. Come principio esplicativo è semplice quanto la lotta di classe. A partire da lì, si può ricamarci su. All’infinito» (4).
Ma altre grandi menti, prima di lui, già avevano denudato il Re-economista. Da Ezra Pound, a John Kenneth Galbraith, a Giacinto Auriti. Anche Evola ci ammoniva sull’epoca moderna del materialismo e dell’economicismo, caratterizzata dalla «subordinazione dell’idea all’interesse» (5). Perché è proprio questo il punto: il venir meno della radice ideale dei concetti, che tradizionalmente ancora collegavano il mondo reale con la teoria, con le idee appunto. Venendo meno le idee, e la razionalità che le esprime, viene meno la capacità di spiegazione del mondo reale, e si cade nell’ideologia del puro interesse egoistico e strumentale.
Nell’ordine tradizionale, le classi della società sono puramente meritocratiche secondo le reali capacità degli individui e ne rappresentano anche l’effettiva realizzazione, in senso metafisico. È una società, quella tradizionale, «che non conosce e nemmeno ammette classi semplicemente economiche, che non sa né di “proletari” né di “capitalisti”» (6). Distinzione, quella tra capitalisti e proletari, della teoria economica ottocentesca, che definì in tal modo il terzo ed il quarto stato, in quanto soggetti economici.
Qui non si tratta di demonizzare il progresso tecnico e tecnologico, che è palesemente un vantaggio per tutti, ma di ripristinarne la giusta collocazione, organica all’ordine sociale nel suo complesso. «Prima dell’avvento in Europa di quella che nei manuali viene chiamata significativamente l’”economia mercantile” (significativamente, perché ciò esprime che il tono all’intera economia fu dato esclusivamente dal tipo di mercante e del prestatore di danaro), dalla quale doveva svilupparsi rapidamente il capitalismo moderno, era criterio fondamentale dell’economia che i beni esteriori dovessero essere soggetti ad una certa misura, che il lavoro e la ricerca del profitto fossero solo giustificabili per assicurarsi una sussistenza corrispondente al proprio stato. Tale fu la concezione tomistica e, più tardi, quella luterana. Non era diversa, anche, in genere, l’antica etica corporativa, ove avevano risalto i valori della personalità e della qualità e ove, in ogni caso, la quantità di lavoro era sempre in funzione di un livello determinato di bisogni naturali e di una specifica vocazione. L’idea fondamentale era che il lavoro non dovesse servire per legare, ma per disimpegnare l’uomo» (7) affinché avesse più tempo per degni interessi.
L’economista moderno neoclassico è nudo perché la teoria che pretende “scientifica” e “razionale” (8) è in realtà uno studio di fenomeni, quali i comportamenti umani, che, di per loro, sono per lo più irrazionali. Come afferma con grande onestà intellettuale Ha-Joon Chang, uno dei più rinomati economisti odierni a livello internazionale, già consulente per numerosi organismi internazionali e docente a Cambridge, «il 95 per cento della scienza economica è semplice buonsenso reso complicato da espressioni tecniche e formule matematiche» (9).
Chang è uno degli studiosi, tra i più recenti di una lunga serie, che con onestà intellettuale hanno ammesso i forti limiti di tante teorie e modelli, astratti dal fenomenico, che vengono sovente studiati e presi come riferimento nelle scienze sociali. Maurice Allais, già premio Nobel per l’economia nel 1988, ammetteva candidamente, l’anno seguente, che «gli ultimi quarantacinque anni sono stati dominati da una bella serie di teorie dogmatiche, sempre sostenute con la stessa sicumera, ma in piena contraddizione l’una con l’altra, l’una più irreale dell’altra, e tutte abbandonate l’una dopo l’altra sotto la spinta dei fatti» (10).
Allo studio della Storia, all’analisi approfondita di quanto avvenuto in passato, per trarne beneficio per il presente e per il futuro, ossia al tradizionale e reale apprendimento ex post, «non si è fatto altro che sostituire semplici affermazioni, troppo spesso basate su puri sofismi, su modelli matematici non realistici e su analisi superficiali delle circostanze» (11). Con un uso spregiudicato della statistica che «all’incrocio dell’autorità statale con l’autorità scientifica (il calcolo delle probabilità e l’econometria) è nata per servire il Principe […] La statistica eufemizza il discorso politico. La «neutralità» del numero rimanda all’autorità scientifica, al discorso «autorizzato». Il discorso autorevole non è fatto per essere capito, ma per essere riconosciuto. Per far paura. […] La paura è l’inizio della fiducia nei capi» (12).
La lista di convertiti o onesti intellettuali, sulla stessa scia, è lunga: da Keynes che già nel 1937 parlava delle «forze oscure dell’incertezza e dell’ignoranza che operano sui mercati», a Hicks, altro premio Nobel, che dopo aver ridotto la Teoria generale di Keynes ad un diagramma, il famoso IS-LM, ammise «che la sola economia possibile era la Storia. Che la nozione di legge economica non aveva senso», a Pareto che, dopo aver osannato Walras e la sua teoria astratta, riconobbe che «l’economia era soltanto un vano tentativo di parlare di psicologia», e similmente di economia come psicologia parlarono Marshall e Allais. Per finire con Myrdal, premio Nobel del 1974, che «si è sgolato a ragliare contro gli economisti e sghignazza degli econometristi» e con Solow, Nobel nel 1987, che «dopo anni di casistica matematica, riconosceva che, decisamente, in «scienza» economica, sono importanti l’istituzione, la Storia, la politica. Mai l’equilibrio, la razionalità, la concorrenza, l’efficienza e altre scempiaggini» (13).
La teoria economica moderna, neoclassica, si basa sulla teoria dell’equilibrio generale di Walras. Una teoria, ahinoi, i cui assiomi irreali la rendono un vero e proprio castello in aria. E dopo esser stata sbugiardata in modo netto dalla realtà, lo fu anche in ambito teorico dall’equilibrio di Nash, il quale dimostrò che il mercato, in un universo strategico, è la soluzione peggiore.
«Scommetto che la quasi totalità degli economisti sanno di essere soltanto dei logici, e si accontentano di produrre nel loro cantuccio i loro teoremini; che, simili ai microbi degli scienziati pazzi, non fanno male a nessuno finché non escono dalle provette», affermava lacònico Maris. «Poco importa sapere se i postulati sono veri (d’altronde non lo sono), o se le conclusioni sono vere (d’altronde nemmeno queste lo sono). Importa soltanto affermare che le conclusioni sono le conseguenze logiche necessarie di quei postulati» (14).
Molti economisti, consapevoli delle enormi falle delle teorie economiche neoclassiche à la Walras, hanno scelto di concentrarsi sulla teoria dei giochi che, per dirla con Maris «è una vasta impresa logico-ludica […] Anche i nomi dei giochi sono divertenti: il dilemma del prigioniero, la guerra dei sessi, la colomba e lo sparviero, il teorema del folclore…Con la teoria dei giochi giunse l’epoca della burla da osteria, della goliardata portata ai vertici del pensiero […] Certo, esteriormente si esibirà l’espressione austera di chi fa cose complessissime che sarebbe oltremodo maleducato da parte del pubblico cercare di capire!». Difatti, tali economisti «hanno il privilegio unico di poter concionare sulla vita degli uomini in società, di consigliarli, di guidarli, di sottoporli a paternali, di affamarli, all’occorrenza, senza mai dover render conto. Per giunta, le loro chiacchiere sono così complicate che nessuno ci capisce niente; vorrei anche vedere che qualcuno pretendesse di capire! Osiamo dirlo: la teoria dei giochi, l’economia postwalrassiana è una possibilità storica per i dotti, quelli veri: possono finalmente spassarsela in santa pace» (15).
La teoria economica classica, centrata sulla produzione (16), nacque come “teoria d’appoggio” della nascente rivoluzione industriale borghese. Con la modernità più recente, e l’avvento della società consumistica, la focalizzazione della teoria economica passa dall’offerta (produzione) alla domanda (consumo), nella dominante teoria neoclassica. Ma si rimane sempre sull’idea del mercato come perno centrale dell’economia, e la distribuzione come ambito marginale. Il contrario di quanto accadeva nell’economia tradizionale: il sovrano era interessato alla distribuzione, che tutti avessero il necessario, lasciando gli aspetti più pratici produttivi al terzo stato, al tempo per lo più artigiani, limitandosi a regolarne, entro certi limiti, i fattori di produzione.
Nella visione tradizionale, cioè, l’ambito economico è in subordine a quello politico, il quale regola produzione, distribuzione e consumo in base ai bisogni della comunità. Nella modernità, accade invece l’inverso: è il mercato liberista che determina le possibilità di scelta dell’ambito politico, attraverso la manipolazione dei tassi d’interesse. E, ancor più importante, attraverso la discrezionale emissione di moneta da parte del sistema bancario (17).
L’economia dei politici «è soltanto retorica destinata a tranquillizzare e a dare fiducia». «Tutte le teodicee politiche si sono giovate del fatto che le capacità generative della lingua possono valicare i limiti dell’intuizione o della verifica empirica per produrre discorsi formalmente corretti ma semanticamente vuoti» (18).
Termini quali equilibrio, concorrenza, efficienza, trasparenza, razionalità del mercato e soprattutto la connessa e fondante “legge della domanda e dell’offerta” del modello walrasiano, hanno invaso oramai tutti gli altri ambiti sociali. Termini pseudoiniziatici, tentativi più o meno consapevoli di mascherare, con un’aura di verginità, la brutale realtà del mondo economico capitalista che si regge, al contrario, sull’opacità, sull’asimmetria informativa, sul disordine e sull’emotività umana.
L’ideologia neoclassica di un’economia “pura”, libera dal politico ed eticamente “neutra”, deve far posto, o meglio tornare a far posto, ad un’economia politica, sottoposta, secondo buon senso razionale, alla regolamentazione dell’ambito politico. Tanto quanto la politica deve tornare ad essere meta-politica, ossia non eticamente “neutra” ma ben radicata nella radice superiore delle Idee.
Quello dell’economia è solo il riflesso di un problema di più ampia portata. Forse invertire la rotta dell’estrema specializzazione del sapere, oggi dominante, potrebbe essere un primo passo. Ortega y Gasset, quasi novant’anni fa, affermava che lo specialista del mondo odierno «non è un saggio, perché ignora formalmente quanto non entra nella sua specializzazione; però neppure è un ignorante, perché è un ‘uomo di scienza’ e conosce benissimo la sua particella di Universo. Dovremo concludere che è un saggio-ignorante» (19).
L’universitas studiorum medievale, oltre a mirare ad una formazione la più vasta e completa possibile, universale appunto, l’opposto dell’ ”università” moderna, aveva come scopo la comprensione della ratio insita nel Creato, ricordando che tali universitates erano sostanzialmente promosse dal clero cattolico, e che la somma materia di studio era la teologia. Non si fantasticava su modelli matematici e teorie astruse, con assiomi spesso irrazionali, ma piuttosto si ragionava sul Reale, nel suo complesso, cercando di comprenderlo, e facendo leva sulla Storia secondo una visione monistica della realtà. L’insegnamento includeva le disputationes, ossia una sorta di dialogo platonico, tra maestri ed allievi, per comprendere assieme il mondo.
Una delle sfide che la civiltà odierna dovrà affrontare nel prossimo futuro sarà proprio quella di riuscire a formare non dei saggi-ignoranti, ma dei saggi tout court. La maggiore consapevolezza del proprio Io, non deve sfociare nell’individualismo e nel liberismo borghese, ma deve essere collocata all’interno del Bene collettivo, un Io nel Noi. Per dirla con Agostino, si necessita perseguire non il liberum arbitrium della ratio inferior, ma la libertas della ratio superior. In caso contrario, l’ideale di una civiltà ordinata rimarrà un concetto tanto astratto dalla realtà quanto l’equilibrio dell’economista teorico.
Note
1 B. Maris, Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli, Ponte alle Grazie, Milano 2000, p. 10.
2 Ibid., p. 14.
3 Ibid., pp. 14-16.
4 Ibid., p. 48.
5 J. Evola, Economicismo, a cura di G. Borghi, Settimo Sigillo, Roma 2001, p. 30.
6 Ibid., p. 31.
7 Ibid., pp. 32-33.
8 Ci riferiamo qui alla scuola economica predominante. Ma altre scuole di teoria economica quali quella austriaca, quella keynesiana, quella istituzionale, quella comportamentalista e quella schumpeteriana non credono, con diverse sfumature, alla “razionalità” umana. «I costumi e le tradizioni si collocano tra l’istinto e la ragione», sosteneva l’austriaco Hayek.
9 H.-J. Chang, Economia. Istruzioni per l’uso, Saggiatore, Milano 2015, p. 11.
10 B. Maris, cit., p. 56.
11 Ibid., p. 56.
12 Ibid., pp. 106-107.
13 Ibid., pp. 58-59.
14 Ibid., pp. 41-42.
15 Ibid., pp. 62-67.
16 La teoria mercantilista già aveva iniziato a focalizzarsi sull’aspetto produttivo, dell’accumulo di ricchezza, con una particolare attenzione sull’aspetto commerciale internazionale (surplus commerciale). Furono poi i fisiocratici francesi, da cui Smith prese spunto, a focalizzarsi in modo ancora più netto sull’aspetto produttivo.
17 In ambito istituzionale, in merito ad una proposta di riforma del sistema monetario internazionale, vogliamo qui ricordare il working paper dell’IMF redatto da Jaromir Benes e Michael Kumhof, The Chicago Plan Revisited (2012), disponibile all’indirizzo https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2012/wp12202.pdf.
18 P. Bourdieu, Ce que parler veut dire, Fayard, Paris 1979.
19 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962, pp. 101-102.




del.icio.us
Digg
Seul De Gaulle sauvera sa tête avec les honneurs dans ce livre de 369 pages, mais Pompidou et Giscard d'Estaing n'y sont pas trop maltraités non plus.
Marcel Gauchet est-il dans le vrai lorsqu'il prétend que nous n'avons pas besoin des intellectuels dans une "fonction critique" et de dénonciation qui ne demande "aucune compétence particulière". Un rôle qui serait maintenant réservé à "l'expert" au service des médias. Même si "l'apparence de survie des intellectuels" ne serait due qu'à l'utilisation de ces médias. "Un monde journalistique" qui est devenu un véritable anti-pouvoir plutôt qu'un contre-pouvoir" qui "exerce une sorte de censure à priori de l'action politique".

Et Donoso Cortès de continuer son analyse, en clamant que les révolutions «sont la maladie des peuples riches, des peuples libres», le monde ancien étant «un monde où les esclaves composaient la majeure partie du genre humain», le «germe des révolutions n'étant pas dans l'esclavage», malgré l'exemple de Spartacus qui ne fit que fomenter quelque guerre civile : «Non, Messieurs, le germe des révolutions n'est pas dans l'esclavage, n'est pas dans la misère; le germe des révolutions est dans les désirs de la multitude surexcitée par les tribuns qui l'exploitent à leur profit. Vous serez comme les riches, telle est la formule des révolutions socialistes contre les classes moyennes. Vous serez comme les nobles, telle est la formule des révolutions des classes moyennes contre les classes nobiliaires. Vous serez comme les rois, telle est la formule des révolutions des classes aristocratiques contre les rois» (p. 100), et l'auteur de conclure sa gradation par l'image logique, théologique : «Vous serez comme des dieux, telle est la formule de la première révolte du premier homme contre Dieu. Depuis Adam, le premier rebelle, jusqu'à Proudhon, le dernier impie, telle est la formule de toutes les révolutions» (p. 101).


Quelle définition peut-on donner de la cybernétique ? On peut dire qu'elle est l'héritière de la sophistique, ce qui placerait Heidegger par rapport à elle, selon Baptiste Rappin, dans la situation où fut Platon par rapport aux Sophistes : «La cybernétique, loin du fracas tonitruant des bombes atomiques, opère en silence la réduction des bruits dans la tranquillité circulaire des boucles de rétroaction. Elle prépare le monde paisible de la gouvernance qui succédera à la belligérance des États souverains. Héritière, par la maîtrise des codes, des effets rhétoriques de la sophistique; par l'attention aux inputs, de la philosophie sensualiste; par la planification des finalités, de la technoscience moderne, la cybernétique représente le double de la philosophie à l'époque de la fin de la philosophie» (p. 99).



Le Sauvage est le seul personnage à ne pas avoir subi de conditionnement. Lorsque Bernard Marx le ramène pour le présenter à son père, le chef Tomakin, le Sauvage se révèle incapable de comprendre encore moins de suivre les règles de cette civilisation. On apprend que lorsqu’il a été mis au monde, sa mère ne lui a exprimé aucun amour, n’a eu envers lui aucun geste d’affection. Rien de plus normal. Sa mère Linda, issue de cette société du bonheur permanent, n’a jamais été habituée à manifester le moindre sentiment. Les mots tels que « monogamie », « mère », et « père » étaient supprimés, bannis du vocabulaire de la communauté. Le Sauvage reproche à cette société la perte de relation avec soi qu’elle instaure. Les individus considérés uniquement comme des consommateurs sont obnubilés par la satisfaction de leurs besoins basiques. Ils ne recherchent aucune spiritualité et encore moins d’explications sur ce qui régit le monde qui les entoure… 
PHILITT : 







De tweede opvatting gaat terug op de Amerikaanse Revolutie. De Founding Fathers gaven aan het begrip democratie een pragmatische en realistische invulling. Zij koesterden geen illusies over de menselijke natuur. De maatschappij kan weliswaar verbeterd worden, maar de mens blijft fundamenteel dezelfde. Macht maakt corrupt en moet aan banden worden gelegd. Vandaar het complexe systeem van checks and balances, de scheiding van de machten en een indrukwekkende grondwet die de vrijheden van de burgers waarborgt. Een paradijs ligt niet in het verschiet en een nieuwe mens al evenmin.
Overreaching man is for Weil the main subject of Greek thought. Retribution, Nemesis. These are buried in the soul of Greek epic poetry. So starts the discussion on the nature of man. Kharma. We think
Marianne :
La deuxième étape renvoie à ce j’ai appelé « l’héritage impossible » de mai 68. Je parle bien de l’héritage impossible et non de l’événement historique lui-même. C’est ma différence avec Eric Zemmour et d’autres critiques qui ont un aspect « revanchard » : je ne règle pas des comptes avec l’événement historique et les soixante-huitards ne sont pas responsables de tous les maux que nous connaissons aujourd’hui. En France, l’événement mai 68 a été un événement à multiples facettes où ont coexisté la « Commune étudiante », une grève générale qui rappelait les grandes heures du mouvement ouvrier et une prise de parole multiforme qui a été largement vécue comme une véritable libération dans le climat de l’époque. L’événement historique Mai 68 n’appartient à personne, c’est un événement important de l’Histoire de France, et plus globalement des sociétés développées de l’après-guerre qui sont entrées dans une nouvelle phase de leur histoire et ont vu surgir un nouvel acteur : la jeunesse étudiante. Ce que le regretté Paul Yonnet a appelé le « peuple adolescent ». En ce se sens, à l’époque, Edgar Morin est l’un de ceux qui a le mieux perçu la caractère inédit de l’événement en caractérisant la « Commune étudiante » comme un « 1789 socio-juvénile ».
J-P LG : L’éducation était antérieurement liée à une conception pour qui les contraintes, la limite, le tragique étaient considérés comme inhérents à la condition humaine, tout autant que les plaisirs de la vie, la sociabilité et la solidarité. Devenir adulte c’était accepter cette situation au terme de tout un parcours qui distinguait clairement et respectait les différentes étapes de la vie marquées par des rituels qui inséraient progressivement l’enfant dans la collectivité. C’est précisément cette conception qui s’est trouvée mise à mal au profit nom d’une conception nouvelle de l’enfance et de l’adolescence qui a érigé ces étapes spécifiques de la vie en des sortes de modèles culturels de référence. Valoriser les enfants et les adolescents en les considérant d’emblée comme des adultes et des citoyens responsables, c’est non seulement ne pas respecter la singularité de ces étapes de la vie, mais c’est engendrer à terme des « adultes mal finis » et des citoyens irresponsables. Aujourd’hui, il y a un écrasement des différentes étapes au profit d’un enfant qui doit être autonome et quasiment citoyen dès son plus jeune âge. Et qui doit parler comme un adulte à propos de tout et de n’importe quoi. On en voit des traces à la télévision tous les jours, par exemple quand un enfant vante une émission de télévision en appelant les adultes à la regarder ou pire encore dans une publicité insupportable pour Renault où un enfant-singe-savant en costume co-présente les bienfaits d’une voiture électrique avec son homologue adulte… Cette instrumentalisation et cet étalage de l’enfant-singe sont obscènes et dégradants. Les adultes en sont responsables et les enfants victimes. Paul Yonnet a été le premier à mettre en lumière non seulement l’émergence de « l’enfant du désir » mais celui du « peuple adolescent ». Dans la société, la période de l’adolescence avec son intensité et ses comportements transgressifs a été mise en exergue comme le centre de la vie. Cette période transitoire de la vie semble durer de plus en plus longtemps, le chômage des jeunes n’arrange pas les choses et les « adultes mal finis » ont du mal à la quitter.
J-P LG : Ce n’est pas parce que cette période historique est en train de finir que ce qui va suivre est nécessairement réjouissant. Le monde fictif et angélique qui s’est construit pendant des années – auquel du reste, à sa manière, l’Union européenne a participé en pratiquant la fuite en avant – craque de toutes parts, il se décompose et cela renforce le désarroi et le chaos. La confusion, les fondamentalismes, le communautarisme, l’extrême droite gagnent du terrain… Le tout peut déboucher sur des formes de conflits ethniques et des formes larvées de guerre civile y compris au sein de l’Union européenne. On en aura vraiment fini avec cette situation que si une dynamique nouvelle émerge au sein des pays démocratiques, ce qui implique un travail de reconstruction, auquel les intellectuels ont leur part. Il importe tout particulièrement de mener un travail de reculturation au sein d’un pays et d’une Europe qui ne semblent plus savoir d’où ils viennent, qui il sont et où il vont. Tout n’est pas perdu : on voit bien, aujourd’hui, qu’existe une demande encore confuse, mais réelle de retour du collectif, d’institutions et d’un Etat cohérent qui puissent affronter les nouveaux désordres du monde. Ce sont des signes positifs.
Ces considérations sont prégnantes dans les mouvements de droite, aussi bien classiques que populistes, même si ces derniers les assument beaucoup plus aisément, notamment en Grande-Bretagne avec UKIP, en Belgique avec le Parti Populaire, ou en Suède avec les Démocrates Suédois. Le fait de rompre un tel tabou et de rouvrir le débat sur la coexistence des civilisations facilite leur classement à l’extrême-droite. Pourtant, les problématiques issues de la coexistence ne sont pas liées aux pays de l’Europe blanche et chrétienne. Une enquête réalisée par Ipsos en 2011 révèle que ce phénomène touche aussi aux autres continents, il s’agit d’un phénomène inhérent à l’être humain, il est donc universel.





Le voyageur en classe affaires dispose d'une échappatoire : il peut se réfugier dans les salons privés qui lui sont réservés. « On y propose de jouir du silence comme d'un produit de luxe. Dans le salon "affaires" de Charles-de-Gaulle, pas de télévision, pas de publicité sur les murs, alors que dans le reste de l'aéroport règne la cacophonie habituelle. Il m'est venu cette terrifiante image d'un monde divisé en deux : d'un côté, ceux qui ont droit au silence et à la concentration, qui créent et bénéficient de la reconnaissance de leurs métiers ; de l'autre, ceux qui sont condamnés au bruit et subissent, sans en avoir conscience, les créations publicitaires inventées par ceux-là mêmes qui ont bénéficié du silence... On a beaucoup parlé du déclin de la classe moyenne au cours des dernières décennies ; la concentration croissante de la richesse aux mains d'une élite toujours plus exclusive a sans doute quelque chose à voir avec notre tolérance à l'égard de l'exploitation de plus en plus agressive de nos ressources attentionnelles collectives. »
C'était, concède tout de même le philosophe dans sa relecture (radicale, elle aussi) des Lumières, une étape nécessaire, pour se libérer des entraves imposées par des autorités qui, comme disait Kant, maintenaient l'être humain dans un état de « minorité ». Mais les temps ont changé. « La cause actuelle de notre malaise, ce sont les illusions engendrées par un projet d'émancipation qui a fini par dégénérer, celui des Lumières précisément. » Obsédés par cet idéal d'autonomie que nous avons mis au coeur de nos vies, politiques, économiques, technologiques, nous sommes allés trop loin. Nous voilà enchaînés à notre volonté d'émancipation.

The philosopher of politics and history
The knowledge which scientistic Puritanism so aggressively publishes, and which the Philosophy faculty so vigorously applauds, is a peculiar but typically modern species of knowledge. It is less a positive assertion of anything than it is a denial or, better yet, a denunciation of a longstanding prior assertion, and as such its character is largely if not entirely negative. Such knowledge is not sufficient by itself, offering its theses for impartial examination, but rather it requires a public performance to validate it. It must sweep up the crowd into a mood of unanimity. Such a performance, its rationalistic appurtenances notwithstanding, is essentially a cultic ritual: The spokeswoman’s presentation corresponded to an archaic exorcism, whose action banishes the smut of profanation from the boundaries of the community. And what specific bane fell under banishment? “Creationism,” according to the organization’s website, “refers to the religious belief in a supernatural deity or force that intervenes, or has intervened, directly in the physical world.” In sum, matter, in its uncreated purity, must never be contaminated by spirit. But why should an inversion of the classic Gnosticism, which remains Gnostic for all that it is an inversion, be a requirement?

Almost all of Gómez Dávila’s writings are collections of aphorisms called — in Spanish — Escolios. Escolios comes from the Greek scholión, which literally means commentary. This term was used in old manuscripts for commentaries made between the lines by someone other than the original author of the text. These escolios have been compiled into his main works: Escolios a un Texto Implícito I, Escolios a un Texto Implícito II, Nuevos Escolios a un Texto Implícito I, Nuevos Escolios a un Texto Implícito II, and Sucesivos Escolios a un Texto Implícito.
Nicolás Gómez Dávila, being a devout Catholic, was also highly critical of modern atheism by affirming that “todo fin diferente de Dios nos deshonra”[12]: “every goal different from God dishonors us” and that we must “Creer en Dios, confiar en Cristo”[13]: “Believe in God, trust in Christ.” This spiritual aspect of life is what provides an adequate interpretation of it: “si no heredamos una tradicion espiritual que la interprete, la experiencia de la vida nada enseña”[14]: “if we do not inherit a spiritual tradition which interprets it, life experience teaches nothing.”

Cependant, contre cet activisme planificateur, un recours existe bien, et se laisse dire en ce seul mot latin que nous évoquions, tradere, autre dit la Tradition en action, l'acte d'être de la Tradition, qui n'est pas, au contraire de la ressassante modernité, commémorative ou muséologique, mais variation, cours scintillant qui, à chaque instant, garde la mémoire de sa source, qui est hors du temps.




« Éduque- les, si tu peux » : c’est par ces mots de Marc-Aurèle que Chantal Delsol concluait son ouvrage sur le populisme, enjoignant nos gouvernants au respect de l’enracinement, et le peuple à élever prudemment son regard. La Haine du Monde, son dernier essai, poursuit cette réflexion sur la modernité tardive, nous éduquant à notre tour.








Russia’s ‘Soul’
‘Russian Socialism’, Not Marxism
‘The first condition of emancipation for the Russian soul’, wrote Ivan Sergyeyevich Aksakov, founder of the anti-Petrinist ‘Slavophil’ group, in 1863 to Dostoyevski, ‘is that it should hate Petersburg with all this might and all its soul’. Moscow is holy, Petersburg satanic. A widespread popular legend presents Peter the Great as Antichrist.
Katechon
Dostoyevski was indifferent to the Late West, while Tolstoi was a product of it, the Russian Rousseau. Imbued with ideas from the Late West, the Marxists sought to replace one Petrine ruling class with another. Neither represented the soul of Russia. Spengler stated: ‘The real Russian is the disciple of Dostoyevski, even though he might not have read Dostoyevski, or anyone else, nay, perhaps because he cannot read, he is himself Dostoyevski in substance’. The intelligentsia hates, the peasant does not. He would eventually overthrow Bolshevism and any other form of Petrinism. Here we see Spengler unequivocally stating that the post-Western civilisation will be Russian.