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mardi, 29 septembre 2015

Lo zen delle vette

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Lo zen delle vette

La sacralità della montagna, il rito dell’ascesa, la trasfigurazione interiore. Dino Buzzati intuì una luce, Luigi Mario la trovò in quota

di Giulia Pompili

Ex: http://www.ilfoglio.it

Nel centro di Zermatt, la cittadina di tradizione walser che ospita il versante svizzero dell’inconfondibile Cervino, c’è un piccolo cimitero dedicato agli alpinisti. Ognuno di loro ha un nome e cognome. Chi non ce l’ha, viene ricordato con una lapide dedicata all’alpinista ignoto. Poco più in là c’è una targa che ricorda il gemellaggio di Zermatt con la città di Myoko, uno dei posti più particolari del Giappone perché protetto da cinque vette, il luogo di ritiro invernale della famiglia imperiale. Il Cervino, più di altre montagne, è legato alla vita e alla morte. Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della conquista della vetta, e fu l’inglese Edward Whymper a riuscirci, dopo anni di vani tentativi. Ogni volta che una spedizione partiva e falliva, si avvalorava l’idea che il Cervino fosse inaccessibile, che il dèmone della montagna rifiutasse la presenza umana. Improfanabile. Si dice che molte guide esperte non accettassero cospicue somme di denaro pur di non sfidare quel dèmone. Poi, il 14 luglio del 1865, Whymper raggiunse la vetta. Era il primo di una cordata composta dalla guida alpina Michel Croz di Chamonix, dal reverendo Charles Hudson, dagli inglesi Lord Francis Douglas, Douglas Robert Hadow e dalle due guide alpine di Zermatt Peter Taugwalder padre e Peter Taugwalder figlio. Ma durante la discesa, ecco la tragedia. Croz, Hadow, Hudson e Douglas, i primi quattro della cordata, caddero. La corda si ruppe. I corpi dei tre furono ritrovati nei giorni successivi, quello di Lord Francis Douglas riposa ancora sul Cervino. Si salvò Whymper, che continuò a fare l’alpinista ma venne divorato dai fantasmi dei morti sul Cervino, e morì alcolista nel 1911, a Chamonix. Gli altri due che si salvarono erano due guide alpine.

“Adesso, che sono ormai quasi vecchio e i fortissimi amici di un tempo si sono dispersi chi qua chi là oppure hanno smesso la montagna, adesso che io ritorno da solo, di quando in quando, alle mie corde, ma ben assicurato alla corda di una paziente guida brevettata, vivo e amaro è il rimpianto di non essere stato all’altezza dei miei sogni, di non avere avuto abbastanza coraggio, di non aver saputo lottare da solo, di non essermi impegnato a fondo così da poter essere, o per lo meno assomigliare, a uno di loro. Ormai, purtroppo, è troppo tardi. Ma, guardandomi malinconicamente indietro, ora capisco come soltanto a loro, ai capicordata, alle guide, e soprattutto agli accademici e a quelli che, senza avere la formale laurea, appartengono tuttavia alla loro intrepida famiglia, ora capisco come unicamente a loro la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura”. Quando scrive queste righe per il centenario del Cai, il Club alpino italiano, Dino Buzzati ha cinquantasette anni. E’ l’anno in cui il Corriere della Sera lo manda a Tokyo per un mese intero, a seguire lo stato di avanzamento dei lavori per l’Olimpiade giapponese del 1964. Ed è pure l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’amico più caro di Buzzati. Dallo scambio epistolare tra i due, che durò quarant’anni, verrà fuori il primo ritratto del Buzzati alpinista, e di quell’“ossessione d’amore” che ebbe inizio quando aveva quindici anni con la vetta della Croda da Lago, la cima di 2.701 metri tra le Dolomiti di Cortina. Buzzati tornò sulla Croda da Lago nel 1966, insieme con il collega Rolly Marchi. A guidarli in quell’occasione c’era Lino Lacedelli, il celebre alpinista che scalò il K2 nel 1954 con la spedizione organizzata da Ardito Desio. L’impresa storica costò a Lacedelli il pollice di una mano, congelato. Quando si aprì il “caso K2” – che durò cinquant’anni – sul ruolo dell’altra figura chiave della letteratura alpinistica italiana, quella di Walter Bonatti, Lacedelli fu l’unico a riconoscere che senza Bonatti gli italiani non ce l’avrebbero fatta. Fu un’ammissione sincera, dopo anni di menzogne. E questo perché la storia dell’alpinismo è una storia di imprese eroiche e di tritacarne mediatici, di arditismo, di bugie che finiscono per sbattere contro con la nuda verità della roccia. Quella stessa roccia i cui colori sono indicibili – le Dolomiti, di che colore sono? si chiede Buzzati – i cui strapiombi sono indescrivibili (“La gente che si accontenta di guardare le montagne dal basso non li conosce, gli strapiombi, e non sa neppure bene cosa siano”, scrive il giornalista e alpinista sulla Lettura nel 1933).

Poco prima di morire, il 28 gennaio del 1972, il giornalista bellunese domandò alla moglie Almerina Antoniazzi di poter tornare, pure da morto, sulla vetta della Croda da Lago. E così si fece, nel 2010, non appena la Regione Veneto si è dotata della legge che rende possibile disperdere in natura le ceneri. Buzzati riconosce di non essere mai andato oltre un quarto grado di difficoltà, nel suo scalare, eppure parla delle guide, di quegli alpinisti coraggiosi, quei “fuorilegge” – così li definisce, e “I fuorilegge della montagna” è anche il titolo di una imponente raccolta dei sui articoli sulle alte vette pubblicato nel 2010 da Mondadori – che lo aiutarono a scalare. Quelli sempre primi in una cordata. La vetta non avrebbe mai potuto raggiungerla senza di loro. La montagna è anche questo, spiega Buzzati: riconoscere i propri limiti. Oppure superarli, nel caso di alcuni uomini straordinari. E’ così che – forse inconsapevolmente – il giornalista bellunese incontra uno dei più grandi misteri dell’alpinismo, che lega indissolubilmente la montagna alla cultura e alla spiritualità orientale.

Nell’anno in cui morì Buzzati, Luigi Mario aveva appena ricevuto il suo nuovo nome, Engaku Taino, quello da monaco buddista, nel monastero Shofukuji di Kobe diretto da Yamada Mumon roshi. Nato da una famiglia di operai romani il 7 maggio del 1938, Luigi Mario è stato il primo romano a diventare guida alpina. A dire la verità, Mario è stato il primo in molte cose: la prima guida di Roma, il primo gestore del rifugio Gran Sasso, il primo italiano a essere ordinato monaco in un monastero zen giapponese. E poi quel luogo da lui fondato, Scaramuccia, un podere nella campagna umbra di Orvieto, che dal 1975 in poi inizia a essere chiamato monastero. Il primo luogo residenziale del buddismo in Italia e soprattutto la prima scuola al mondo dove l’arte della montagna – che comprende l’arrampicata e lo scivolamento – viene insegnata insieme con il taichi, lo yoga, la meditazione, lo zazen. E’ lo stesso maestro Engaku a raccontare la sua storia nel libro “Lo zen e l’arte di arrampicare le montagne”, appena pubblicato dalle edizioni Monte Rosa. Anche lui, come succede ai grandi della montagna, ha iniziato giovanissimo, intorno ai sedici anni: “Ufficialmente sono entrato nel mondo della montagna iscrivendomi al Cai nel ’54 influenzato da due avvenimenti. Il primo si può far risalire alla gita scolastica sul lago di Como, mentre la spedizione italiana scalava il K2. Frequentavo il secondo anno della scuola professionale, dopo la licenza di avviamento al lavoro, come si chiamavano i tre anni successivi alle elementari quando non c’era ancora la scuola media unificata. Facevamo il giro del lago e nel vedere tutte quelle rocce, così importanti poi per la mia crescita alpinistica, pensai ad alta voce che sarebbe stato bello montarci sopra. […] L’altro episodio importante fu il raduno nazionale degli alpini. Per la prima volta potevo vedere dei veri scalatori: si arrampicavano in cima al Colosseo e scendevano saltellando e scorrendo lungo le corde!”. L’autore prosegue raccontando che qualche giorno dopo volle raggiungere in bicicletta il Colosseo per andare a toccare quei chiodi da roccia che erano stati piantati dagli alpini.

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Quando era salito di sette, otto metri, un pizzardone romano lo avvertì a modo suo: a regazzi’, scenni giù che qui sotto mica ce sta er buro. Una frase che Luigi Mario fu costretto a ripetersi spesso, nel corso degli anni successivi. La carriera alpinistica inizia con la montagna degli arrampicatori romani: il monte Morra, sui Lucretili laziali. Poi apre la Via dei Camini sulla montagna Spaccata di Gaeta, poi le scalate sul Terminillo, con base a Pietracamela. Sempre più a lungo, sempre più professionalmente. Alla fine Luigi Mario lascia il lavoro sicuro in banca e inizia a viaggiare di continuo, su e giù tra le Alpi e gli Appennini, a Cervinia con Dino Buzzati, a Pescasseroli con Pier Paolo Pasolini, gli esami con Cesare Maestri. Ma ogni volta che superava se stesso, scalando una montagna, c’era qualcosa che mancava: “La cima della montagna, questa punta estrema, questo punto supremo al quale si sacrifica tanto della propria vita, non rappresentava affatto quello che si diceva e le scalate più difficili davano certo sensazioni più forti delle altre ma rimanevano sul piano della sensazione, richiedendone altre più forti ancora e anche, vanitosamente, maggiori consensi nel gruppo. Ciò che dico ora l’ho capito dopo, poco per volta, perché altrimenti avrei cercato qualcosa di diverso come poi ho fatto”. Luigi Mario ha una scrittura schietta, decisa. Come quando un maestro giapponese insegna le do (le vie di ascesi, di cui fanno parte anche le arti marziali) che per un occidentale sono artistiche in quanto poetiche. Ma non è nient’altro che tecnica, ripetizione, il gesto fine a se stesso. Nella parte del libro in cui parla del suo metodo d’insegnamento questo è ancora più chiaro. Niente fronzoli: “Nelle do giapponesi il maestro è il depositario dell’arte che si vuole apprendere e in lui si ripone completamente la propria fiducia. Egli ha ricevuto dal proprio maestro la trasmissione dell’arte e al suo maestro ha promesso di trasmetterla con sincera fede ai discepoli che avrà”. In principio fu il filosofo tedesco Eugen Herrigel, che studiò il Kyudo (l’arte del tirare con l’arco) durante il suo quinquennio d’insegnamento in Giappone. Basandosi su ciò che aveva imparato, nel 1953 pubblicò il famoso libro “Lo zen e l’arte del tirare con l’arco”, che non era affatto una guida all’insegnamento religioso. Piuttosto, nel libro si esplicitava per la prima volta agli occhi di un occidentale la possibilità di riconoscere l’esperienza spirituale orientale in quelli che da noi erano considerati né più né meno che degli sport.

E’ un po’ quello che ha fatto Marie Kondo, l’autrice giapponese di un best seller sul “magico potere del riordino. Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”. Il libro promette di organizzare gli spazi domestici e di ridare serenità ove prima regnava il caos, “perché nella filosofia zen il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali”, dice la quarta di copertina. Sai che scoperta. Ogni volta che sento parlare di lei, e del suo straordinario successo, mi viene in mente lo zaino per la montagna. La sua preparazione è un rito. E il nemico, l’ossessione del trekking alpino di più giorni, è il peso. Preparare lo zaino per la montagna rende tangibile l’idea di essenziale, perché non esiste cosa che non abbia un peso e guadagnare anche solo cento grammi può dare un significativo vantaggio. Chi conosce la montagna conosce il peso di ogni parte dell’“equipaggiamento” e – sembrerà ingenuo dirlo – il valore di ogni cosa che viene portata fino in cima. Per ore si cammina in silenzio, perché ogni respiro è dedicato all’unico scopo di salire. Come nelle discipline orientali, la respirazione è il fondamento di ogni “ascesa”. Il filosofo Julius Evola, conoscitore del mondo buddista tibetano, la chiama l’ascesa d’assalto: “Negli speciali riguardi delle ascese alpine (s’intende: là dove non si tratta di salti, di pareti da scalata – là dove l’ascensione, per quanto aspra, presenta sempre un certo andamento continuo), per tal via si può distunguere dal comune metodo, un metodo che potremmo chiamare d’assalto. Il potere che il fattore psichico morale può avere sul fisico è sufficientemente noto, perché qui vi si debba insistere: per via di disposizione interne, di esaltazione o di entusiasmo, corpi anche deboli o stremati in innumerevoli casi si sono dimostrati capaci di affrontare inaspettatamente e vittoriosamente le difficoltà e gli sforzi più incredibili […] Per tal via, bisogna riconoscere che oltre alla ‘forza vitale’ abitualmente in azione nelle membra e negli organi e legata a questi, ve ne è, per così dire, una riserva profonda e ben più vasta, la quale non si manifesta che eccezionalmente, essendovi costretta, e quasi sempre sotto l’azione di un fattore psichico o emotivo. Il tutto sta perciò nel trovare un ‘metodo’ per l’evocazione di questa sorgente sotterranea di energia”. Per Evola si tratta di esaurire sin da subito le energie normali, ed entrare nello stato di ritmo e di “instancabilità”, mantenendo il controllo sul passo e – soprattutto – sul respiro. Arrivati in cima, poi, ogni sforzo effettuato per raggiungere la vetta scompare, in pochi minuti. E di nuovo viene in aiuto Evola, per spiegare cosa succede in quell’attimo. E’ quello che il filosofo chiama “il momento della contemplazione”.

Tutto si lega alla tradizione della “sacralità della montagna” presente in tutte le culture antiche, sia occidentali sia orientali. La montagna è un simbolo naturale “direttamente offerto ai sensi”, scrive Evola, ma la sua spiritualità risponde soprattutto a un simbolismo dottrinale e tradizionale, basti pensare all’Olimpo ellenico, al tempio Walhalla di Ratisbona, al buddista “monte degli eroi”. “Meditazioni delle Vette” (Mediterranee, 2003) è una raccolta di scritti che il filosofo dedicò alla montagna. “Non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Questo libro ci dà la risposta”, aveva detto uno dei più grandi alpinisti italiani, Reinhold Messner, leggendo gli scritti di Evola. E non è un caso se Messner è uno di quegli alpinisti che mai si sono fermati alla pura vicenda atletica dello scalare le montagne. Ricorda infine Evola: “A proposito del decadere dell’alpinismo in sport, ci sembra interessante rilevare che a fondatore dell’alpinismo in Italia – quasi più di mezzo secolo fa – non stette uno sportman, ma un uomo di alta mente e di nobile cuore: Quintino Sella, il quale volle che a simbolo del nuovo impulso stesse la parola latinissima: Excelsior, ‘Più in alto!’. In questa idea, le grandi ascensioni dovevano essere esse stesse un simbolo e quasi un rito: simbolo e rito di un’ascensione interna, di un impulso alla liberazione e alla vita ‘in un più spirabil aere’”.

 

lundi, 28 septembre 2015

Julien Freund: les ravages de l'impolitique

DES IDÉES ET DES HOMMES: SUIVRE LA PENSÉE DE JULIEN FREUND

Les ravages de l'impolitique

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr
 

julien-freund.jpgCet article est le premier d'une série animée par des enseignants, collaborateurs de MÉTAMAG, consacrée à nos  "grands hommes" et aux idées qui mènent le monde. Nous y accueillerons d'ailleurs tous les articles de nos lecteurs qui souhaiteront y participer. Un onglet supplémentaire  "Des idées et des hommes"  sera consacré à cette série lors du très prochain changement de maquette du site. Jean Piérinot.

La victoire actuelle de l’oligarchie des criminels en col blanc est corrélative d’un effacement de la pensée politique en Europe, phénomène qui s’appuie sur la nomination de petits fonctionnaires dans les instances du pouvoir. L’impolitique permanente accompagne la chute de la République dans le néant. En suivant la pensée de Julien Freund, on soulignera trois aspects fondamentaux de cette crasse intellectuelle qui recouvre les cerveaux des collabos de l'Europe actuelle. 


L’État et l’anti-éducation


On sait que l’on doit aux socialistes et aux libéraux les décisions en faveur de l’éducation étatique. Au XIXème siècle, chacun a réclamé, au nom de l’égalité, l’éducation confiée à l’État. La pédagogie qui a fait couler beaucoup d’encre depuis les Grecs demeure néanmoins un mystère puisqu’il s’agit de la naissance d’un esprit. Comment transférer quelque chose d’une vie unique, celle de l’enseignant, vers une autre vie tout aussi spécifique, celle de l’élève? Nous ne sommes ni dans l’univers des liquides ni dans le domaine des solides. La pensée n'est pas liée seulement à celui qui la porte. Elle s’inscrit dans un paysage mental préexistant. Or, les dirigeants des États Européens veulent désormais que la vérité soit une bible que l’on récite. Le professeur, quant à lui, serait un complément du seul rapport au monde qui trouve grâce chez les tyrans modernes, le braiement systématisé dans les centrales multimédias. Il est évidemment impossible que réapparaissent des hommes de la trempe de Socrate ou Marsile Ficin (1433-1499) dans un univers où règnent l’esprit d’orthodoxie et l’obscurantisme contre ceux qui pensent. 


Le savoir dépend aussi des structures institutionnelles qui le favorisent ou l’assèchent. Les recteurs deviennent des assassins de la pensée et leurs maîtres jouent le spectacle que Régis Debray a décrit sous le titre “histoire française de l'infamie : 1919-1978”, le faux clivage "culture versus barbarie". Toujours, il y a eu urgence. Les affreux, les méchants sont à la porte. Il est urgent de manifester l'attachement à la cause de l'homme, de la démocratie, de la vraie science. Aujourd'hui, on ne saurait voir émerger une relation Maître-disciple, liée à une orientation commune vers la culture. A ne plus vouloir produire que des bien-pensants, l’Etat fabrique des monstres.


La double morale, preuve d’une mentalité primitive et sectaire


JFpol.jpgDepuis l’origine de l’humanité, les petits groupes d’humains ont toujours pratiqué la double morale: la loi du groupe impose d’agir dans le sens de la puissance collective, par exemple ne pas tuer ni voler son semblable, alors que les règles s’inversent dans les relations avec les autres. De plus, les anthropologues ont prouvé que pour la quasi totalité des tribus primitives, le nom de la tribu et celui d’homme se confondent. L’humanité s’incarne dans la tribu. A notre époque, les religions monothéistes qui se réfèrent à l’ancien testament ont gardé cet aspect primitif, le transformant en un racisme théologique. On ne peut être surpris en conséquence de la manière dont ont évolué les relations sociales, ni de la transformation des relations internationales. Le pouvoir économique globalitaire pratique cette double morale de manière permanente. Le mensonge notamment est systématique. L'axe de l’inhumanité (Washington, Londres, Bruxelles, Tel Aviv, Riad, Doha) ne tient pas ses promesses à l’égard de quiconque est situé hors de son axe. Il n’y a là non plus aucune politique, mais de l’impolitique et du néant.


La promotion des nuls 


L’éthologie enseigne que les petits groupes de primates et de sapiens connaissent l’agressivité intra-spécifique qui détermine la soumission hiérarchique. Cette hiérarchie permet de faire fonctionner le commandement selon un critère de valeur. Les petits groupes dans lesquels les humains se connaissent déterminent facilement qui est l’alpha, le dominant face auquel chacun se prosterne. Dans les sociétés de multitudes, il est plus difficile d’organiser la soumission, c’est-à-dire de mettre en place une hiérarchie admise. L’occident actuel impose la hiérarchie riches - pauvres. Les riches sont la race supérieure, les élus d’un dieu qu’ils inventent pour justifier l’inhumanité. Il convient de faire accepter ces horreurs aux pauvres car les responsables politiques savent bien que la paix n’est possible pour eux que si chacun applaudit au spectacle qu’ils présentent ou financent. Dès lors, ils recrutent des affidés selon trois critères: reconnaître que les riches sont la race supérieure permanente et qu’ils doivent régner pour des siècles; adopter comme vérité révélée le cours d’économie tel que peut l’enseigner l’institut d’études politiques, car il a été traduit de manuels anglo-saxons, lesquels sont l’équivalent de l’ancien testament.; montrer sa capacité à appliquer la double morale, éradiquant le vivier d’où sont sortis régulièrement les grands hommes et de grandes œuvres. 


Julien Freund termine son introduction sur l’impolitique en rappelant un principe général. On s’attaque aux faibles, c’est-à-dire ceux chez lesquels on soupçonne la carence dans la détermination et l’absence de courage et de fierté. De Juncker à Hollande, en passant par Merkel et autres pitres du théâtre européen, il en est exactement ainsi. La “World Al Capone Corporation” est lucide sur ses enjeux spirituels et matériels. Elle organise les conflits car elle sait qu’aujourd’hui les européens vont succomber définitivement. Les hommes et femmes placés à la tête des États vont se rendre sans honneur car ils sont lâches et las. Personne ne respecte les pleutres. Aucun discours niais sur l’humanité, sorti de l'antre de la bête biblique ne saurait modifier cet état de chose. La fin de l’Europe est désormais évidente et, partant, irréversible.


Julien FREUND : "Politique et impolitique" , Collection Philosophie politique, Éditions Sirey, 1987, 426 pages.

 

dimanche, 27 septembre 2015

Homo Exhibus: l’obsession de la transparence

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Homo Exhibus: l’obsession de la transparence

Les médias, la politique et la publicité ont un nouveau Dieu :  la transparence, une injonction moderne qui se veut synonyme de vérité. Mais comment rester aveugle face à son action totalitaire ? Comment ne pas y voir un mensonge en filigrane, c’est-à-dire une dissimulation supplémentaire ?

Pour promouvoir dans une publicité son amour de la vérité, une compagnie d’assurances n’hésite pas à se mettre totalement nue, car « la transparence est notre priorité ». Le marketing nous en dit long ici : dans cette mise à nu (toutefois partielle, car sexes et seins sont dissimulés) le spectateur doit croire que la compagnie d’assurances n’a rien à cacher, qu’elle est dans le vrai. La transparence serait-elle alors le temple de la Vérité Révélée ou, plutôt, un piètre argument marketing, permettant de faire oublier les conditions de ventes qui défilent au bas du téléviseur ? La nudité, le nudisme médiatique est en train de s’emparer des écrans. Nous lui fermerions la porte, qu’elle reviendrait par la fenêtre. L’émission de télé-réalité « Adam & Eve » a apposé la pierre de touche de la société de la transparence : elle faisait se rencontrer des candidats célibataires entièrement nus. Le leitmotiv de l’émission partait du principe qu’une fois éliminée l’intimité des corps des personnes, la vérité de l’amour ne pouvait que jaillir de leurs échanges verbaux… La naïveté et la niaiserie du Bien réunies dans un même programme télévisé sous l’étendard de la transparence…

Dès 1997, Philippe Muray, dans son texte « L’envie du pénal » des Exorcismes Spirituels I, fustigeait clairement et distinctement le terme de transparence en écrivant : « Transparence! Le mot le plus dégoûtant en circulation de nos jours ! Mais voilà que ce mouvement d’outing commence à prendre de l’ampleur. » Mais de quel dégoût parle-t-il au juste ? Pourquoi la transparence est-elle à dénoncer, puisqu’elle serait le générateur du Vrai ? C’est justement à cet endroit que la transparence ou, plutôt, la transparence comme étendard doit être vomie définitivement. « Soyez transparent ! », s’exclame Homo Exhibus, tapit dans l’ombre de ses intentions, « Montrez-vous et le Bien régnera ainsi définitivement dans ce monde emplit de mensonge, de tromperie, de trahison », « Venez comme vous êtes ! », scande le maquereau mondial du Big Mac : ne vous cachez plus, ne vous formalisez plus. Quel beau message ! Retenez vos larmes ! La transparence vous invite à consommer le Vrai à pleines dents, la modernité dégoulinante de bonnes intentions. Cette volonté de démasquer, n’est-elle pas une mascarade, autrement dit un maquillage tellement évident qu’il devient invisible ? À chaque fois qu’a été mise en  place une politique de la pureté, les dérives sont notoires. La transparence, c’est la foi en la conviction de la pureté : c’est un détournement pervers de l’attention. On donne à voir une chose pour occulter le reste, « impur ». Faut-il sacrifier la liberté individuelle sur l’autel du voyeurisme social et politique ?

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Transparence contre pudeur

Dans La Terre et les rêveries de la volonté, Gaston Bachelard écrit : « nous sommes dans un siècle de l’image. Pour le bien comme pour le mal, nous subissons plus que jamais l’action de l’image ». Si l’image est pour lui la caractéristique des « temps modernes », il ne la perçoit que comme poursuite, prolongement de la littérature et de la poésie. Or, lorsqu’il écrit ce texte en 1948, Bachelard n’a pas conscience de cette dictature naissante de l’image et, a fortiori, de la transparence. Tout un lexique se développe autour de cette notion : le « parlé vrai », les « révélations », « le live », le « besoin de vérité » ou encore « en immersion » sont autant de termes représentatifs d’un désir de tout mettre à nu, termes journalistiques vides de sens. « Encore un siècle de journalisme et tous les mots pueront », assène Nietzsche dans un fragment posthume. Effectivement à force de mettre en transparence des mots, ils finissent par pourrir jusqu’au trognon à l’air libre… Le médiatique emporte avec lui tout ce qui faisait le suc de l’existence : l’invisible devient visible, le privé se meut en public. La transparence est la victoire de l’image sur la parole, du montré sur le non-dit. La Vérité entendue comme transparence est un « attentat à la pudeur », écrivait Nietzsche.

C’est la victoire du pornographique sur l’érotique. La dissimulation n’est plus fréquentable sans ce soupçon permanent qui l’accompagne. Dissimuler c’est érotiser la société, c’est-à-dire révéler le désir qui émane de la pudeur. La pudeur est morte, elle est devenue un gros mot : il se faut montrer, en montrer le plus possible pour être quelqu’un de bien. Le désir est maintenant provoqué par une transparence totale, la transparence pornographique, celle qui consiste à tout montrer, sans la délicatesse de la pudeur, réel synonyme de distinction et de goût du désir. À l’extrémisme de la nudité, à l’excès démesuré d’impudeur, la réponse est religieuse : la dissimulation intégrale, comme volonté de se protéger. Se protéger de la contrainte à la visibilité, c’est sauvegarder sa personne, son intimité.

Le politique contemporain veut utiliser la transparence afin de plonger dans le silence ceux qui oseraient se montrer contre lui. Faire transparaître pour faire disparaître, ou quand la cohérence intellectuelle brille par son absence. C’est la volonté affichée de montrer pour désacraliser, une sorte de nietzschéisme pour les pauvres, comme si tout ce qui avait, de près ou de loin, le goût du sacré était susceptible d’être « mauvais » – au sens moral du terme. La désacralisation à tout-va tient de la confusion entre l’intime et le tabou. Par définition, le tabou désigne une prohibition à caractère sacré, notamment dans les études ethnologiques, tandis que l’intime relève de qui n’est pas accessible à tous, plutôt de l’exclusivité à soi ou un autre particulier. La crise religieuse ou spirituelle que traverse l’Occident est symptomatique de cette tendance à autoriser, voire à contraindre à ce que l’interdiction de la chose interdite soit levée, autrement dit que le tabou soit dévoilé. Soyons clairs : que certains tabous n’en soient plus n’est en soi pas une chose dangereuse. Mais exterminer le tabou n’implique-t-il pas de violer l’intimité individuelle ?

L’inauthenticité de la transparence comme vérité

Pour Homo Exhibus, la vérité est dans les détails. Il se met à soupçonner tout ce qui bouge, à se montrer « attentif » au moindre petit geste, lapsus, terme abscons ou décision secrète. Il ne supporte pas que le secret soit secret, que l’opaque retienne la lumière. Homo Exhibus permet de démontrer que médias et conspirationnistes marchent tous deux main dans la main, les yeux dans les yeux : ils sont culs et chemises, mais se rejettent l’un l’autre. Les premiers se prenant pour une science, les seconds pour indépendants et donc plus à même d’être dans le vrai. Dans la Généalogie de la morale, Nietzsche exprime déjà cette dérive de la presse et son rapport au lecteur : « Si l’on considère comment tous les grands événements  politiques, de nos jours encore, se glissent de façon furtive et voilée sur la scène, comment ils sont recouverts par des épisodes insignifiants à côté desquels ils paraissent mesquins, comment ils ne montrent leurs effets en profondeur et ne font trembler le sol que longtemps après s’être produits, quelle signification peut-on accorder à la presse, telle qu’elle est maintenant, avec ce souffle qu’elle prodigue quotidiennement à crier, à étourdir, à exciter, à effrayer? Est-elle plus qu’une fausse alerte permanente, qui détourne les oreilles et les sens dans la mauvaise direction ? ». Homo Exhibus se prend pour ce qu’il n’est pas – il fait le malin.

C’est ce que Nietzsche raille et dénonce dans le livre premier du Gai Savoir. Il décide de soupçonner le soupçon et son maître, le soupçonneux. Qui est donc ce « soupçonneux » ? C’est en réalité celui qui ne croit à rien, qui trouve tout suspect, qui « cligne les yeux » devant chaque parole : cet homme c’est celui « à qui on ne la fait pas ». Voici l’Homo Exhibus. Il cherche à exhiber ce qui semble être une mascarade, un mensonge d’État, un complot international. Nietzsche le rangerait dans la catégorie des nihilistes. Se prenant pour le juste, il ne croit à rien, sauf à sa capacité à dénicher le vrai derrière le caché. Il se pense lucide en ayant l’illusion de rendre le monde translucide. Car, pour lui, ne pas voir revient à une dissimulation et donc au mensonge pur et simple : une aberration logique absolue, car « la vérité ne signifie pas le contraire de l’erreur, mais la position de certaines erreurs relativement à d’autres » (Volonté de puissance, tome I). En effet, Nietzsche défend que l’apparence n’est rien d’autre que la réalité. Il n’y a que de la surface, la profondeur en arrière-fond des choses est une illusion de la raison, qui perdue devant la multiplicité des faits se cherchent des raisons, en réalité une foi. Ipso facto, la transparence se présente en tant que négation du réel.

La transparence, avant d’être un combat formidable pour la vérité est une technique de communication marketing. Auparavant, la dissimulation, le masque, le voilage de soi, de ses paroles étaient l’instinct de survie de l’homme, c’était son intelligence de séduction. Désormais, l’idéal de la transparence devient la nouvelle foi en la survie de soi. Pourquoi parler de « communication marketing » ? Car la transparence est hologramme : les choses se montrent comme-si, mais ne le sont pas intégralement. On affiche la transparence, d’une certaine manière, on se cache derrière la transparence, loin de la lutte naïve pour la vérité. Pendant que la transparence donne à voir une chose, le reste peut être occulté, peut passer inaperçu. Paradoxal ! Cette transparence apparaît comme étant un travestissement du réel, où tout dépend du filtrage, du zoom, du cadrage sur un même plan, une même scène. En effet, la transparence est un double-vitrage qui n’empêche ni de voir ni d’être vu, mais protège celui qui veut se montrer. C’est très justement le mode du détournement d’attention dont nous parlions quelques lignes plus haut : la transparence est donc une nouvelle forme de dissimulation.

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Inlassablement, nous ne sortons jamais de la dissimulation. Il y a une double perspective d’appréhension de la transparence : naïve, qui croit sincèrement qu’on peut ouvrir les portes de la vérité et que la vérité se résume à une adéquation avec la réalité ; et dans le ressentiment, dans la mesure où cette quête sert à d’autres fins, par exemple son orgueil personnel. Qu’importe la rive sur laquelle nous nous trouvons, il faut noter que l’épanouissement de la vie se déploie justement dans l’art de la dissimulation et de l’apparence, de sorte que (sur)vivre est nécessairement une volonté de duper, de tromper, de séduire, d’amadouer pour accroître sa puissance et maintenir sa domination sur autrui. Il revient à Nietzsche de conclure cette partie, à partir de ses mots dans Humain trop humain II, « Le voyageur et son ombre » : « En tant qu’il est un moyen de conservation pour l’individu, l’intellect développe ses forces principales dans la dissimulation ; celle-ci est en effet le moyen par lequel les individus plus faibles, moins robustes, subsistent en tant que ceux à qui il est refusé de mener une lutte pour l’existence avec des cornes ou avec la mâchoire aiguë d’une bête de proie. Chez l’homme cet art de la dissimulation atteint son sommet : l’illusion, la flatterie, le mensonge et la tromperie, les commérages, les airs d’importance, le lustre d’emprunt, le port du masque, le voile de la convention, la comédie pour les autres et pour soi-même, bref le cirque perpétuel de la flatterie pour une flambée de vanité, y sont tellement la règle et la loi que presque rien n’est plus inconcevable que l’avènement d’un honnête et pur instinct de vérité parmi les hommes. »

Voyeur recherche exhibitionniste (et réciproquement)

S’il existe bien un maître historique en la matière c’est Jean-Jacques Rousseau et ses Confessions. Il prend le parti original et exhibitionniste de se mettre à nu à l’écrit. Rousseau veut faire tomber le masque, pour que seul l’homme reste et que le héros s’évanouisse… Sauf que, comme le fait remarquer précisément Jean Starobinski dans Jean-Jacques Rousseau. La transparence et l’obstacle, en voulant se montrer authentique, il nous dupe de la plus belle des manières en écrivant une autobiographie auto-autorisée. Dans le premier livre des Confessions, Rousseau écrit « Je me suis montré tel que je fus » : mensonge ! Il s’est montré tel qu’il veut avoir été, selon la croyance de soi-même et du roman de sa vie. Starobinski démontre que Rousseau dévoile le problème de l’autobiographie en tant que lieu de la transparence, puisqu’elle en constitue son obstacle majeur. Il se réinvente une existence, ne dévoilant au public que ce qui l’arrange de dévoiler. « Je devenais le personnage dont je lisais la vie », écrit-il sur son enfance. Il devait se regarder écrire aussi pour finir par y croire autant… Rousseau fait tomber le masque, pour dévoiler plus ou moins authentiquement, le héros existant dans « l’homme à nu ». Mais, il ne serait pas honnête, intellectuellement parlant, de tout mettre sur le dos de Rousseau, et plus largement sur les épaules d’Homo Exhibus. Le succès dévastateur de la transparence – dans les Confessions de Rousseau comme dans les différents médias et supports contemporains – vient de la demande des voyeurs et voyeuristes des sociétés modernes. Homo Contemplator n’est pas en reste.

La relation entretenue entre Homo Exhibus et Homo Contemplator relève de la réflexivité interdépendante. L’un comme l’autre n’a de raison d’être que parce que son autre existe. En économie, nous dirions qu’il y a un rapport de l’offre et de la demande. Avec les mots de Rousseau, Homo Exhibus fait tomber « les apparences qui condamnent » et qui l’empêchent d’offrir à Homo Contemplator ce qu’il réclame : il s’offre à lui. En voulant se montrer, Rousseau a répondu à une demande de mettre sa pudeur à nu, de connaître l’envers du décor (le croustillant) et que le privé se fasse public. Les émissions de télé-réalité vont dans ce sens du rapport offre/demande. La course après l’audimat fait partie de ces dérives de la télévision : la télévision donne au monde ce que le monde veut (rece)voir. Le sensationnel, le choc, l’inattendu, le spectaculaire, le choquant, l’agaçant, l’excitant, autrement dit une construction du réel à partir d’une volonté a priori de révélations. Or, l’endroit et l’envers du décor sont les deux côtés d’une même pièce de théâtre. Ce strip-tease de la société dénote un « déshabillement-agacement » pour reprendre les termes de Laurent de Sutter dans Strip-tease. L’art de l’agacement. En effet, il y a une sorte d’agacement et d’excitation à la vue de la mise en transparence des choses et des événements. Une courte remarque à propos des chaines télévisées d’informations en continu s’impose. En souhaitant délibérément se trouver « au cœur de l’info », la télévision prend la décision de tout mettre à nu, de ne rien cacher, de ne rien dissimuler, car, pour elle, c’est à cet endroit que se situe la vérité-vraie des faits. Nous regardons. Scandalisés de ce qu’on nous contraint à voir. Excités des révélations sur la vie privée des événements du monde. Complices du supplice. Exhibitionnistes et voyeurs sont les amants d’un même mariage dans lequel le cercle de leur alliance est vicieux.

samedi, 26 septembre 2015

Angela Merkel, Max Weber et l’éthique du poisson mort

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Angela Merkel, Max Weber et l’éthique du poisson mort

Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

A propos du virage à 180 degrés d’Angela Merkel sur les migrants, il a été question d’éthique de la conviction et d’éthique de la responsabilité, distinction proposée par le philosophe/sociologue Max Weber au début du vingtième siècle. Je me souviens encore de l’éblouissement que j’ai ressenti lorsque j’ai pris connaissance de cette distinction, tant elle était lumineuse et profonde.

Le convaincu agit selon une valeur qu’il veut faire passer dans la réalité, sans chercher à savoir quelles seront les conséquences de ses actes. Il veut la paix à tout prix et ne comprend pas que son action pourrait conduire très vite à la guerre. Ainsi Angela aurait agi tout d’abord selon ses convictions en matière de droits de l’homme et de libre circulation. On pouvait la sentir satisfaite de promouvoir la paix, l’ouverture, une bienveillance universelle sur la scène du monde. Elle agissait selon une éthique de la conviction.

Et puis, elle semble avoir pris conscience qu’en agissant ainsi elle risquait de promouvoir le contraire de ce qu’elle voulait promouvoir : la haine plutôt que la bienveillance – le repli sur soi plutôt que l’ouverture. Prenant conscience des conséquences de ses actes, elle a passé d’une morale de la conviction à une morale de la responsabilité.

Jusque-là, pas de problème. On comprend. Mais à y réfléchir, on en vient à se demander s’il y a eu une conviction derrière le comportement de la chancelière allemande. Angela a-t-elle jamais été une convaincue avant de voir les conséquences de ses actes ? N’était-elle pas plutôt une fonctionnaire de la pensée unique, avant d’être surprise par un retour de la réalité comme on est surpris par un retour de flamme.

Comment parler d’un comportement qui ne repose ni sur des valeurs, ni sur des convictions, mais sur le conformisme au politiquement correct ? A côté d’Angela, on peut placer François Hollande. Avec lui, on va encore plus loin : à chaque fois qu’il énonce des propos, on a l’impression qu’il n’y a personne derrière et donc pas la moindre conviction. On parle depuis quelques années d’ordinateurs capables de rédiger des articles à la place des journalistes. Qui n’a jamais senti que les discours de nos gouvernants pourraient, eux aussi, être tenus par des ordinateurs dûment programmés ? Nous avons de moins en moins affaire à des convaincus ou à des responsables, mais à des âmes mortes qui récitent des formules.

Max Weber ne semble pas avoir tenu compte de cette troisième catégorie à côté des deux types d’éthique qu’il propose. C’est un peu surprenant, car il avait conscience du fait que l’Occident entrait dans une phase où les valeurs disparaissaient. A tel point qu’il recommandait que l’on choisît une valeur, n’importe laquelle,  pourvu qu’on en choisît une. Il avait donc bien pressenti que les âmes mortes allaient proliférer, des âmes sans conviction, sans valeurs, même si elles avaient constamment ce mot à la bouche.

L’âme d’un individu qui ne croit plus à rien pour mieux fonctionner dans le monde tel qu’il est (soi-disant) est une âme morte. Nous sommes appelés à davantage qu’à fonctionner ici bas. C’est seulement alors que nous cessons d’être des coquilles vides.

Comment nommer ce comportement qui, à côté de l’éthique de la conviction ou de la responsabilité, consiste en une pure adaptation  au monde ? Je propose : éthique du poisson mort.

Sans que je comprenne bien pourquoi, il me semble qu’il y a de plus en plus de poissons morts dans les classes gouvernantes des démocraties modernes. Les représentants du peuple, devant répondre aux demandes de plus en plus diverses de ceux qu’ils représentent, ne peuvent pas avoir de convictions solides et d’actions claires car ils risqueraient alors de ne pas être réélus. Ce mécanisme fait passer tout acteur politique habité par une solide conviction pour fou, dangereux, fasciste. Il ne lui reste plus alors qu’à flotter, comme un poisson mort, au gré des divers courants qui agitent la société. Les sociétés modernes sont des sociétés sans gouvernants, sans gouvernail. L’éthique du poisson mort y règne, presque toute-puissante.

Jan Marejko, 22 septembre 2015

jeudi, 24 septembre 2015

Emil Cioran: Un siècle d'écrivains

Emil Cioran

Documentaire "Un siècle d'écrivains"

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mercredi, 23 septembre 2015

Progressivism: The Horrors of an Idea

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One of the most interesting developments of the post-Bush years has been the resurgence of the popularity of the term “progressivism.” With that popularity has come, of course, a resurgence of the ideas traditionally associated with progressivism, though highly sanitized. Some very good and well-intentioned scholars and commentators–who in general are NOT aligned with the left–have even attempted to co-opt and redefine the term for their own belief systems. In particular, those who support rather radical free markets have claimed that progress and progressivism can best be attained by the methods (or anti-methods, as the case may be) of competitive enterprise.

Let me make my point as up front as possible. Not only should we avoid ever praising progressivism or the progressives, we should, without hesitation, shun the term and its advocates (while, of course, loving the person).

First, and importantly, the term itself is one of the most tainted in our history as a western people. And it should be. Indeed, it never should have a good cast to it in the least. Ironically, the very people who today claim the mantle of progressive as a force for humanist harmony have almost no conception of its origins as a brutally racist concept. From its origins and employment by Americans in the 1870s, it was associated with anything that despised and attempted to control non-Anglo-Saxon-Celtic (but only the Scotch, not the Irish) Protestant peoples. Germans and Scandinavians were barely tolerable, but not Irish, Italians, Spaniards, Yugoslavs, Jews, blacks, or any other people that didn’t fit a horrendous racialist norm. The WASP stereotype was much more than a stereotype. It was, for many, a reality. The progressives advocated the separation of the races, the stealing of children from parents, eugenics, and the eventual destruction of anything remotely Catholic, Jewish, or not “perfectly” white. They were as arrogant as they were inhumane. It’s worth remembering that Woodrow Wilson, often considered the greatest and yet most representative of the progressives, re-segregated all federal offices in D.C. as well as the military. He also listened in silence as blacks were lynched while simultaneously speaking out against lynchings of whites.

Frankly, the progressives are the very folks C.S. Lewis used as the model of the “conditioners” in his own fiction and non-fiction. They would use nature to dominate others, present and future, for the appeasement of their own very strong if misguided conceits.

Here’s a rather telling example of a leading progressive, writing in 1914.

“These oxlike men are descendants of those who always stayed behind.… To the practiced eye, the physiognomy of certain groups unmistakably proclaims inferiority of type. I have seen gatherings of the foreign dashboard in which narrow and sloping floor heads were the rule. The shortness and smallness of the crania were very noticeable. There was much facial asymmetry. Among the women, beauty, aside from the fleeting, epidermal bloom of girlhood, was quite lacking. In every face there was something wrong—lipstick, mouth course, upper lip too long, cheek–bones too high, chin poorly formed, the bridge of the nose hollowed, the base of the nose tilted, or else the whole face prognathous. There were so many sugar–loaf heads, moon–faces, slit mouths, lantern–Jaws, and goose–bill noses that one might imagine a malicious jinn had amused himself by casting human beings in a set of skew–molds discarded by the Creator.” [Edward Alsworth Ross, The Old World in the New: The Significance of Past and Present Immigration to the American People (New York: The Century, 1914).]

Not to be smug, but show me where a Warren Harding or Calvin Coolidge would ever stoop to such depths. Never, of course. But the progressives, on the other hand, rather gleefully played with the ideas of racialism and scientism and eugenics.

fjt86264.jpgPicture: Frederick Jackson Turner

Second, progressivism as a theory of politics and society demands a dualistic and conflict-oriented view of the universe. All progress comes—in whatever form—from the clashing of the thesis (old) and the antithesis (opposition) to form a third thing, the synthesis. That synthesis then becomes the old and struggles with a new opposition. This is whence the term “progressive” derives, the unceasing clash of impersonal forces toward some utopia in the far or not-so-distant future. Perhaps the best known American progressive historian, Frederick Jackson Turner, explained this best in his 1893 frontier thesis. American history, he claimed, found its origins in the continual struggle of civilization and savagery that resulted not in one winning, but in a synthesis of the two, in Americanization. Turner was actually quite conservative, and his case allows us to realize clearly that progressivism can be as rightist as it can be leftist in its political orientation. One must note, however, that even in the rather gentle and patriotic vision of Turner, there are winners and there are losers. The American Indian, far from being an independent person endowed with dignity and free will, becomes nothing but a member of an impersonal force, doomed to die. The very existence of the American Indian, therefore, serves only as a catalyst for white American civilization to thrive. It’s like the old Far Side cartoon—the Indians impatiently waiting at Plymouth Rock as the Pilgrims slowly make their way over the Atlantic. Oh, to have purpose in life!

Finally, but inherently related to the previous idea, the progressive sought not the traditional common good of a republic, but the general good of a democracy. That is, they cared little about what minorities thought. Indeed, they resented minorities and the power they might wield. The Progressives wanted man to conform in every way. They were the harbingers of the “mass man” so powerful in the main of the twentieth century. The common good seeks the humane for all, while the great good cares only about utility and power.

So, when a well-meaning person claims the mantle of “progressive,” run. For that way lies democratic despotism, fascism, nationalism, socialism, and communism. Madness.

Books by Bradley Birzer may be found in The Imaginative Conservative Bookstore.

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mardi, 15 septembre 2015

Déluge biblique et affectivisme postmoderne

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Déluge biblique et affectivisme postmoderne

Ex: http://www.dedefensa.org

7 septembre 2015 – ... Pour commencer, battez tambours, sonnez trompettes, et Gloire et Honneur à Michel Onfray, le 3 septembre 2015, sur BFM-TV... Pour la séquence, d’abord une image en studio d’une autre émission, avec BHL en image fixe, BHL seul, léonin par rapport au vulgaire et si loin du vulgaire, le regard au lointain qui voit le sort du monde, Statue du Commandeur d’une élégance inévitable ; la voix “off”, du pur-BHL dans le genre tragiquement-calme, mais humanitaire-hein, discourant à propos de la photo du petit garçon syrien trouvé mort sur une plage de Turquie ; des propos comme sur une tartine à la gelée royale, chargée de lieux communs délicieux, à propos de ces “images” qui “secouent le monde”, ou bien qui ont “l’étrange vertu” de “réveiller la conscience universelle”, “la mort d’un enfant”, “atroce” (on cite à vue de nez et d’une oreille un peu bouchée)... Puis, question à Onfray de l’aimable présentatrice : «Pour une fois, vous êtes d’accord ?»  ; réponse, toute fureur rentrée, ce qui laisse à Onfray la disposition d’un langage clair et tranchant  :

Non non, il a pas honte, il a pas honte, il ferait mieux de rester caché. Vous savez, je pourrais citer Audiard, “les cons ça ose tout, c’est même à ça qu’on les reconnaît”, parce que franchement, avec tout ce qu’il advient aujourd’hui il ferait mieux de rester chez lui ... Voilà un monsieur ...

Il n’y a vraiment rien qui peut vous mettre d’accord ...

Mais enfin, si, peut-être, sûrement, des choses, mais pas ça... Voilà quelqu’un qui a invité à bombarder la Libye, qui a invité à tuer des Libyens, sous prétexte qu’en tuant des Libyens on rendrait possible la démocratie ... On a détruit un État qui valait ce qu’il valait, mais avec lequel on pouvait discuter, on pouvait discuter avec l’interlocuteur qu’était Kadhafi. Là, on ne peut plus rien à faire avec la Libye, c’est une base extraordinaire pour le terrorisme... Responsable de rien, Bernard-Henri Lévy, il vient de nous expliquer qu’il faudrait ceci, qu’il faudrait cela... D’ailleurs on voit des photos de lui, récemment, où il donne des conseils aux gens qui combattent, etc. ... Donc, il faut juste qu’il y ait un moment donné où il faut un peu de pudeur, tous ces gens qui ont rendu possible cet enfant mort, et Bernard-Henri Lévy en fait partie ...

Il est complice ?

Oui, évidemment, il est complice, comme d’autres sont complices, les présidents de la République d’hier et d’aujourd’hui, qui défendent exactement la même ligne, et qui disent “oh là là, c’est effrayant cette photo”... C’est effrayant mais ce sont des criminels ces gens-là, leur politique est criminelle, on devrait commencer par arrêter cette politique ... Un chef d’État qui voudrait être un chef d’État dignement, devrait commencer par changer de politique, faire une politique indépendante ... (*)

Le démon, élégamment habillé d’une chemise d’un blanc éclatant comme l’innocence, ouverte sur un torse bronzé comme la peau tannée d’un vieux loup de terre qui a affronté les plus grands dangers pour sauver les pauvres hères accablés par les tyrans, surmonté d’une chevelure grisonnante du plus heureux effet puisque coiffée par les soins prodigieux des grands vents du Sud de la migration, le démon s’avance, à peine masqué. D’aucuns le nomment BHL, ce qui est à la fois à mourir de rire et mourir de plaisir.

Il ne cesse d’éructer, de tonner, de s’emporter. En un sens, il nous avait tous avertis. La Libye, la Syrie, tout cela était assuré. L’innommable Kadhafi jouait déjà de la migration du temps où on le subventionnait grassement, puis vint la “libération de la Libye” dont il (BHL) fut le modeste inspirateur, qui n’a rien provoqué en fait de migration puisque les migrants qui traversent la Méditerranée ne sont pas des Libyens même s’ils viennent de Libye. Les Libyens eux-mêmes, ils sont chez et ils y restent, chez eux, débarrassés du tyran et c’est bien, et ils vont bien conformément aux consignes. Le reste, les politiques n’avaient pas prévu. La Syrie, c’est encore pire ! Tout est de la faute d’Assad, qui n’a pas disparu au printemps 2011 comme il aurait du, et qui est le véritable créateur de Daesh, contrairement à ce qu’affirment les bouffons de la DIA. D’où la fuite précipitée actuelle des Syriens, bien entendu à cause d’Assad, vers l’Europe dont le devoir humanitariste est de tous les accueillir... Ah, si Obama n’avait pas «trahi», à l’été 2013, lorsqu’on pouvait encore bombarder Assad, Damas et quelques trucs alentour, avec quel profit pour l’humanité ! Tout serait bien rangé aujourd’hui, dans la Syrie démocratique, comme ce l’est dans la Libye démocratique.

On traduit, on résume, on adapte, on approximative. Avec lui, seul compte l’esprit, la citation précise est inutile, presque obscène dirait-on tant elle suppose un doute quant à la justesse de la pensée. BHL est désincarné, l’être humain ne compte plus, qui s’est sacrifié derrière la dimension globalisante qu’il a acquise ; à l’égal, —mais un cran au-dessus, tout de même, – des alchimistes qui transmutaient le vil plomb en or, BHL transmute le lieu commun en parole de Prophète... Il est l’ange-démiurge exceptionnel de cet ouragan de communication qui a saisi l’Europe depuis quelques semaines, et surtout depuis quelques jours. On espère qu’un scribe, un jour, recueillera toutes ses sorties pour l’édification des masses futures, mais uniquement parce qu’elles expriment si bien le récit de la crise européenne, celle de l’Europe désormais plongée dans un déluge, – non, dans le Déluge quasiment biblique, qui la bouleverse et la secoue de fond en comble.

La Grande Crise de la Migration (GCM) est devenue un nouveau chapitre furieux de la crise européenne qui ne cesse de tordre, de malaxer, de déformer l’Europe et de la soumettre à des tensions inouïes. Mais ce chapitre-là n’est à nul autre pareil dans la pureté chimique de l’ingrédient spirituel qui écrase le reste, – nous avons nommé l’“affectivisme”, déjà bien identifié. Certes, BHL est le grand’maître, le porte-voix de l’“affectivisme”, et nul ne sait s’il en est la victime ou le manipulateur accomplissant son travail de Combattant Suprême surgi de Mordor.

Le caractère le plus remarquable de cet épisode extraordinaire de la Grande Crise de la Migration, c’est la mise au grand jour, à ciel ouvert jusqu’au-delà de l’horizon, de cet affectivisme ; d’une manière frappante, extraordinairement éclatante, absolument impérative, tournure de la psychologie qui se suffit totalement à elle-même pour expliquer à la fois la Cause Première et la Fin Dernière de l’aventure, et même pour remplacer Dieu dont l’absentéisme (dans cette aventure) en est une des marques les plus notables. Il faut en effet Le remplacer puisqu’Il n’assume plus ... Voici donc ce que nous nommons affectivisme alors que nous avions choisi d’abord le terme “affectivité”... Ce néologisme impliquant la constitution d’une forme spécifique de comportement pseudo-intellectuel est bien mieux approprié que le terme “affectivité” qui autorise toutes les confusions avec un phénomène naturellement produit par l’affect, d’abord employé dans ce texte du 11 juin 2012 où nous tentions d’en donner une définition. Ce changement de désignation est due à l’intervention extrêmement pertinente d’un de nos lecteurs, le 10 novembre 2014, concernant ce même texte du 11 juin 2012. (**) C’est sur ce concept d’“affectivisme” que nous voulons concentrer notre attention. Nous citerons simplement un texte du réseau russe RT pour documenter d’une façon générale, ou plus simplement en rappeler là-dessus, tant ces choses sont connues ces derniers jours, les circonstances récentes les plus marquantes.

(Les Russes sont les mieux à même d’observer cette phase de la crise européenne parce qu’ils sont extérieurs à l’enjeu, qu’ils sont pourtant attentifs à cette crise, qu’ils connaissent bien les réactions des Européens, qu’ils ont eux-mêmes à faire à des migrations massives, – près d’un million d’Ukrainiens passés en Russie depuis 2014 sans soulever le moindre intérêt en Europe, sinon le scepticisme le plus inculte quant à la véracité de la migration, et le mépris le plus insultant pour cette sorte de réfugiés faisant partie des Ukrainiens prorusses qui ont le toupet de vouloir nous faire croire aux intentions massacreuses de “Kiev-la-folle”. Poutine lui-même nous a confié ses réflexions, prétendant ainsi faire la leçon aux Européens, toujours selon RT : «Lors du Forum économique de Vladivostok en Extrême-Orient russe, Vladimir Poutine a affirmé que la situation dans laquelle se trouvait aujourd'hui l'Europe était “inévitable”, puisque l'UE poursuivait une politique étrangère qui s'est révélée être un échec au Moyen-Orient et en Afrique du Nord. Selon le président russe, le principal défaut de cette politique étrangère occidentale est “l’imposition de ses propres normes à travers le monde” sans prendre en compte les caractéristiques historiques religieuses, nationales et culturelles de régions indépendantes.»)

Dans son texte du 4 septembre 2015, RT rapporte les divers détails de l’image qui a transformé la situation européenne en ce Déluge biblique de l’affectivisme postmoderne. Il s’agit de l’image du corps de ce petit enfant syrien noyé, ramené par les flots sur une plage de Turquie, accompagnée d’autres illustrations du sort tragique de réfugiés le plus souvent syriens. Il y a aussi, comme contrepoint aux réactions diluviennes qui ont accompagné cette seule image tragique, une réaction assez sèche de la Haute Représentante (ministre des affaires étrangères) de l’UE, Federica Mogherini, qui en “a assez” de subir ces réactions hystériques complètement sorties de leurs gonds de la plupart des hommes politiques européens, réactions productrices des propositions, voire des politiques les plus insensées, face à la Grande Crise Migratoire.

«As horrific pictures of a Syrian refugee boy washed ashore in Turkey make headlines, equally distressing scenes of drowned children found in Libya are causing a massive outcry online. Still, the EU foreign policy chief has stressed that politicians cannot afford to act emotionally. While global media features the picture of a drowned Syrian boy washed up on the Turkey's shore, a no less shocking and tragic case, which happened only last week, managed to mostly stay out of the media spotlight.

»The set of elegiac images showing dozens of drowned asylum seekers was posted on Facebook by Syrian photographer and artist Khaled Barakeh on August 29 and gathered over 100,000 shares in just a few days. The majority of the images, which most media avoided showing, revealed drowned children lying in foam on a beach while another depicted multiple orange bags with what appeared to be bodies inside. The album entitled “Multicultural graveyard” has a note that reads: “Last night [August 28, 2015] more than 80 Syrians and Palestinians refugees have drowned in the Mediterranean close to the Libyan shores trying to reach Europe.” The author of the post, a widely exhibited artist, did not comment on the source of the photos he posted. [...]

»The figures of the asylum seekers killed in attempts to cross the Mediterranean are shocking, but when the EU foreign policy chief was asked on Thursday about the picture of “that” three-year-old boy, Federica Mogherini said that despite the hype over the human tragedy politicians cannot afford to act emotionally. “I am a little bit fed up that politicians are called to react emotionally,” Mogherini said. “Our job, as I said, is to take decisions rationally, being consistent and coherent with our emotions. So I think, I'm sure, all of us are shocked seeing that kind of picture but I expect not only for us to be shocked but also for all of us to be responsible enough to take the consequential decisions that are needed.”»

Nous prétendons que cette situation qu’on peut difficilement qualifier de “politique” répond à une particularité extraordinaire de la psychologie, conditionnant à mesure l’activité de l’esprit, le jugement qu’il en tire et l’action qui en résulte. En 2012, dans le texte cité, nous ne parlions que des réactions à propos de la crise syrienne, tandis qu’aujourd’hui le propos est beaucoup plus large. La crise syrienne circa 2012, ajoutée à la crise libyenne, est présente parce que ces deux crises sont les causes opérationnelles directes et incontestables de cette vague migratoire d’une puissance extraordinaire. Ces deux crise, surtout la syrienne, ont évolué en un énorme “tourbillon crisique” affectant le Moyen-Orient, notamment autour du phénomène Daesh, et faisant partie de la situation crisique désormais générale. Dans ce tourbillon s’inscrit également la puissante crise ukrainienne, qui s’est développée depuis le début 2014 avec ce qu’elle a introduit dans l’état d’aggravation permanente de la psychologie produisant l’affectivisme, notamment avec de nouveaux concepts, essentiellement le “déterminisme-narrativiste”. La situation est, en 2015, infiniment plus grave qu’en 2012, sur à peu près tous les plans, et notamment et essentiellement pour notre propos sur celui de la prolifération absolument affolante de cet affectivisme.

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“L’affectivisme, ça ose tout...”

Comment définissons-nous l’affectivisme à partir de sa définition présentée en 2012 ? (Dans le commentaire qui suit, les diverses citations en italique et entre guillemets sont empruntées à notre texte de 2012, avec des ajouts éventuels [entre braquets].) «Il s’agit du constat de l’effacement complet de la raison en tant que force structurante du jugement dans les attitudes politiques de ces directions vis-à-vis de la crise syrienne [et, désormais, d’à peu près toutes les crises qui affectent l’Europe et, plus généralement, les pays du bloc BAO]. Il n’est donc plus question, en vérité, d’attitudes politiques mais d’attitudes psychologiques comme détonateur d’une situation effectivement métahistorique.

»Le constat est effectivement que l’effacement d’une raison efficace, une raison “loyale à la perception de la réalité”, ouvre la porte au déferlement de l’affect en termes psychologiques, ou pure affectivité, dans les réactions [aux diverses situations de crise qui intéressent directement les esprits concernés et conduits à des réactions très rapides sous la pression de la communication]. Cet affect n’est évidemment pas suscité par un plan de manipulation puisqu’on a vu que la raison, qui seule peut produire humainement de tels plans, est absente dans son rôle habituel de rangement des ambitions et des projets humains. L’affect prépondérant dans ces réactions est donc la cause autant que le produit des manipulations innombrables qui caractérisent le compte-rendu de la [réalité d’une situation,] qui est bien entendu une [réalité] complètement fabriquée, [c’est-à-dire une narrative, selon le terme désormais consacré dans notre usage]. Il s’agit d’une auto-manipulation, ou techniquement d’une auto-mésinformation, suscitées par une affectivité qui a complètement pris le dessus dans [le fonctionnement de la psychologie] , et qui affecte l’observation des faits et le jugement selon des normes idéologiques de type hystérique elles-mêmes véhiculées dans la psychologie avant d’être transcrites en “idées” de type-standard et homogénéisées (droits de l’homme, humanitarisme, etc.).»

En 2012, déjà et bien entendu, nous consacrions un passage à l’importance primordiale de la communication dans ce processus. (La communication ”, pour ce cas, lorsqu’elle est au service du Système en général, selon une de ses fonctions-“Janus”.) Aujourd’hui, cette importance est tout simplement gigantesque, écrasant et dispersant tout le reste pour régner en maîtresse absolue ; la communication sous sa forme sophistiquée et complexe de “système” a introduit des notions nouvelles d’automatisme qui renforcent l’enfermement, l’emprisonnement de l’esprit, du jugement, et d’abord de la psychologie dans la voie de l’affectivisme. Le principal concept nouveau qui est apparu, avec la crise ukrainienne, est celui du “déterminisme-narrativiste” qui peut vous emmener dans des contrées totalement inexplorées de la narrative la plus grotesque et véritablement fantasmagorique (une sorte d’Alice au Pays des Merveilles en un peu plus sombre). L’absolutisme du concept nous fait penser qu’on pourrait lui appliquer la formule Onfray-Audiard  : “le déterminisme-narrativiste ça ose tout, c’est même à ça qu’on le reconnaît”... L’usage massif d’informations déformées, fabriquées, inventées, souvent quasi-inconsciemment, pour servir la cause qui alimente l’affectivisme, pour justifier cette cause, pour lui donner cohérence et apparence de réalité, développées et produites à une cadence très élevée, «sans le moindre esprit critique qui disparaît avec la raison, la rapidité du processus de la communication qui interdit toute distance vis-à-vis du soi-disant fait exposé et la rapidité de la réaction émotive standard par conséquent, la profusion de l’emploi des mêmes images, la standardisation des réactions d’affectivité devant ce kaléidoscope ultra-rapide des mêmes éléments de communication présentés comme strictement objectifs, etc., tout cela crée cette atmosphère immensément favorable à la réaction affective, et seulement affective».

Nous écrivions en 2012 que «[c]ette atmosphère agit comme un complément, sinon décisif, dans tous les cas très efficace, pour le phénomène constaté». Nous dirions, trois ans plus tard que “cette atmosphère”, c’est-à-dire la communication en soi, est devenue une sorte de “monde en soi”, un “monde nouveau”, ou même un “Nouveau-Monde” si l’on veut honorer “Kiev-la-folle” qui est pour beaucoup dans cette évolution ; nul parmi ceux qui s’y sont aventuré n’en peut sortir sans subir des dommages psychologiques épouvantables, jusqu’à des pathologies, et sans aucun doute une sorte d’atonie de l’esprit, une paralysie générale de la pensée qui demande une longue convalescence ou bien s’avère inguérissable. Il s’agit donc beaucoup plus désormais qu’“un complément ... dans tous les cas très efficace”, mais au moins d’un “complément décisif”, sinon le facteur central, quasiment-créateur d’un renouvellement constant de l’affectivisme, comme une sorte de “potion magique” qui serait constamment en action (“Pas pour toi, Obélix, tu es tombé dans la marmite quand tu étais tout petit”).

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Nous parlions également dans le même texte de 2012 d’un aspect de “terrorisation” de l’esprit de nos dirigeants, toujours à cause de la faiblesse de leur psychologie. Nous nous référions notamment aux textes du 16 avril 2012 (“LEUR psychologie terrorisée”), et du 18 juin 2012 (reprenant une synthèse du dde.crisis du 10 juin 2012). Cet aspect de “terrorisation” des psychologies des directions politiques est devenu essentiel dans la psychologie des dirigeants politiques, essentiellement des pays du bloc BAO, depuis l’attaque du 11 septembre, et cela quelles qu’aient été les positions des uns et des autres vis-à-vis de cette attaque (y compris, même, s’il y a participation à un processus ou l’autre favorisant cette attaque, dans le cas de l’organisation des attentats 9/11 ou de la connaissance de l’organisation de ces attentats) : nous parlons là d’un processus affectant la psychologie, échappant à la maîtrise de l’esprit, et il y aurait donc dans certains cas une sorte d’“auto-terrorisation”... «Le résultat de cette situation de “terrorisation” de la psychologie est une dégradation extraordinairement accélérée des capacités d’une raison déjà largement subvertie par l’influence du Système. La raison subvertie et extrêmement dégradée n’est plus qu’un “outil technique” au service de l’[affectivisme] (au service du Système par conséquent, par délégation) pour construire la “narrative” et organiser l’action à l’intérieur de cette “narrative”; et même, dans le chef de cette même raison réduite au rôle d’“outil utile” comme on dit “idiot utile”, organiser la dissimulation de sa propre subversion et de sa propre dégradation...

»Les évènements jouent bien entendu un rôle considérable,[d’autant qu’ils sont pour l’essentiel profondément “dramatisés” en montages fantasmagoriques par le système de la communication agissant au nom du Système dans ce cas. Ils] accélèrent cette dégradation de la raison, de l’esprit en général, de la politique qui en est le produit. Ils mettent en lumière, par eux-mêmes, les effets des réactions catastrophiques d’une raison ainsi dégradée suscitant des politiques à mesure, et laissant la place au plus bas des composant de l’activité psychique générale, qui est l’affectivité. (L’affectivité [n’est pas sans valeur... Mais elle n’a de réelle valeur et évite l’affectivisme] que lorsqu’elle est contrôlée par la raison, et, [bien plus encore], éclairée par l’intuition haute [qui lui donne noblesse, substance et inspiration sublime]. Ce n’est bien entendu pas le cas dans notre situation, mais [absolument, complètement] une situation de complète inversion à cet égard.) Cette situation générale est appuyée sur l’idéologie maximaliste, absolue, nihiliste [qui est la marque absolument totalitaire que le Système impose à toutes nos activités aujourd’hui] ; l’idéologie pour elle-même, qui est l’extrême et le cul de sac à la fois d’une chose (l’idéologie), [qui est dans ce cas] une construction de l’affectivité pour faire accepter sous le couvert de la raison et d’un habillage d’une belle apparence logique ou morale, une politique absolument pervertie. (Résumons : [l’idéologie de l’affectivisme], ou la complète perversion de la politique par l’affectivité.)»

Les évènements, essentiellement depuis 2008 et la crise financière après l’épisode 9/11, ont effectivement joué ce rôle “considérable” dans la formation de l’affectivisme, notamment avec des caractères de vitesse, d’accumulation, de vélocité, d’incapacité complète à être pris sous contrôle et d’une tournure telle que des raisons déjà sous l’emprise de l’affectivisme sont totalement incapables d’en saisir la signification profonde, ni même la nécessité de tenter une telle recherche de compréhension. Il y a eu les évènements durant le “printemps arabe”, conduisant à un développement extraordinaire du terrorisme jusqu’à prendre des formes inusitées (Daesh) selon l’activisme complètement désordonné et déjà marqué par l’affectivisme des directions du bloc BAO ; il y a eu les caractères extraordinaires du point de vue de la communication et de ses effets sur la psychologie de la crise ukrainienne, conduisant à la nécessité de la construction de fausses réalités (narrative) dans une mesure jamais connue, jusqu’à une sorte d’hallucination construite et acceptée sans émettre le moindre doute sur la forme de ce processus, une sorte d’hallucination d’apparence rationnelle, mesurée, sinon même donneuse de leçons ; il y a enfin, pour notre cas présents, les premières grandes migrations à partir du printemps de cette année directement déclenchées par les activités déstructurantes du bloc BAO et constituant une extraordinaire anticipation du phénomène eschatologique des migrations massives (GCM ou Grande Crise de la Migration) jusqu’alors annoncées comme étant liées, dans un délai beaucoup plus long d’une ou plusieurs décennies, à des évènements également eschatologiques d’ampleur cosmique comme le dérèglement climatique et la crise environnementale... Ces évènements, et notamment les derniers (les migrations et la GCM) avec leur énorme charge eschatologique, ont constitué et constituent plus que jamais une pression constante énorme qui n’a fait qu’accentuer dans ces psychologies déjà dévastées des directions politiques l’influence prépondérante de l’affectivisme.

Par rapport à 2012 où nous nous attachions pour la première fois à l’affectivisme en tant que déviance intellectuelle identifiée, les directions politiques n’ont cessé de régresser dans le domaine de la maîtrise de leur propre raison, en même temps que cette raison ne cessait de se dégrader, et ces directions n’ont cessé de céder toujours plus à l’affectivisme jusqu’à perdre complètement toute capacité d’un jugement rationnel prenant en compte le processus de cause à effet, capable d’isoler les causes profondes de tel ou tel événement, capable de se libérer fût-ce un seul instant de l’empire total de la communication qui alimente l’affectivisme. Le cas d’un personnage aussi totalement discrédité, ridiculisé, mis aussi bas que possible si l’on a un jugement sain disposant d’une psychologie forte, qu’un Tony Blair (voir le 1er septembre 2015), exprimant comme il le fait son incompréhension devant l’apparition de divers phénomènes antiSystème, et semble-t-il incapable de concevoir la possibilité du fait de l’antiSystème, ce cas montre bien qu’un esprit touché par cette paralysie de la raison, et sous l’empire d’une psychologie si affaiblie qu’elle est toute entière et sur la durée sous l’empire de l’affectivisme, et d’un affectivisme triomphant comme on le décrit, se manifeste par une sorte de handicap mental qui a tous les caractères d’une pathologie fatale pour l’intelligence du monde. Tout cela fait de la victime de la chose, – Tony Blair en l’occurrence, – un malade mental qui devrait être traité dans un établissement psychiatrique. (Cette suggestion est conditionnée par la réserve d’apprécier dans quelle mesure de tels établissements ne sont pas eux-mêmes, au point d’infection par le Système où nous nous trouvons, des pourvoyeurs de cette même pathologie, du fait des traitements souvent choisis). Le fait que Tony Blair soit complètement pris au sérieux à cette occasion et même brandi comme référence dans les milieux dirigeants (voir le4 septembre 2015) montre sans surprise qu’il n’est pas seul dans le cas décrit, et même qu’il y a foule dans cet hôpital psychiatrique, au point qu’on prendrait pour un malade mental celui qui n’y séjourne pas...

Cet état de pénétration de l’intellect par l’affectivisme, et l’abaissement de la raison à mesure, traduisent bien entendu l’influence active et irrésistible du Système dans les directions politiques et les élites-Système. A cet égard, le constat que nous faisions en 2012 non seulement subsiste mais est grandement amplifié dans la mesure qu’on devine par les évènements qui se sont produits depuis. Cela signifie la disparition complète chez ces dirigeants-Système et élites-Système, d’une façon générale, du processus de la raison en état de complète subversion : «Plus aucun régulateur n’existe pour empêcher le déferlement de l’[affectivisme] selon des termes et des orientations suscités par [ce même affectivisme].» Mais il faut insister sur un facteur nouveau dont nous suggérions l’apparition en 2012, comme une des raisons du déferlement de l’affectivisme du point de vue de l’action du Système dans ce sens : «il s’agit [dans le chef du Système] d’empêcher par tous les moyens la moindre occurrence où l’esprit du “sapiens”-serviteur peuplant les directions politiques et les “élites” qui les soutiennent pourrait se douter de cet état catastrophique du Système.» Ce qui s’est passé depuis est que cet état catastrophique en constante aggravation du Système, marqué par le déferlement d’évènements catastrophiques, finit dans certains cas par susciter des réactions vitales chez certains, parmi les directions-Système, et l’on constate en effet l’apparition de cas de plus en plus nombreux (ceux que l’important Tony Blair ne comprend pas, – «I don’t get it...») de ce qu’on doit désigner comme des antiSystème au sein du Système. Dans ce cas, la prolifération de l’affectivisme produit un résultat inverse à celui que l’on attend, ce qui marque effectivement notre entrée dans un désordre considérable caractérisant essentiellement la transformation de la dynamique de surpuissance du Système en dynamique d’autodestruction. Nous sommes, avec cette énorme affaire de la Grande Crise de la Migration, notamment avec la puissance eschatologique qu’on a évoquée, au bord d’une sorte d’explosion de la poussée d’affectivisme vers des orientations et des conséquences impossibles à prévoir, où les psychologies épuisées et exacerbées peuvent produire des réactions complètement inattendues.

Bien entendu, on se doit de terminer notre démarche en envisageant l’appréciation hypothétique de la cause fondamentale de ce déchaînement de la raison subvertie laissant la voie libre à l’affectivisme. Bien entendu, notre approche n’a pas changé, elle s’est même accentuée dans le champ de la métaphysique. On y retrouve les séquences bien connues du “déchaînement de la Matière” entraînant la formation du Système comme entité opérationnelle organisant la recherche de la déstructuration, de la dissolution et de l’entropisation, – c’est-à-dire la primauté absolu du Mal «comme facteur dominant de notre contre-civilisation». Comme nous l’avons souvent proposé, l’idée même de la subversion de la raison implique une action contre la psychologie qui constitue la voie naturelle de toute influence sur cette même raison ; c’est, à l’origine de la séquence, le “persiflage” du XVIIIème siècle ; c’est aujourd’hui tout ce qu’organise le système de la communication lorsqu’il est manipulé par le Système.

L’affectivisme est donc un produit direct qu’on dirait “naturel” de l’action du Système à partir du “déchaînement de la Matière” de la fin du XVIIIème siècle, et une évolution logique de toute l’activité déstructurante et dissolvante qu’on constate tout au long de la séquence ainsi évoquée. Le constat qui peut être fait avec les évènements courants, et notamment par rapport à 2012 et depuis, est celui, là aussi et toujours plus, de l’accélération du processus qui engendre de plus en plus de désordre, de plus en plus d’évènements incontrôlables, de plus en plus d’enchaînements imprévus et imprévisibles, tout cela qui soumet nos psychologies à des tensions et à des souffrances inouïes mais ne parvient à aucun moment, et de moins en moins, à des situations de rupture décisive qui impliqueraient une véritable “organisation du Mal” signalant la réussite complète du processus. Le désordre est à diverses facettes, dont celle de l’“hyperdésordre”, témoignant toujours plus que cette «course folle, où la raison humaine qui était à l’origine faite pour recevoir la lumière de l’intuition haute est désormais précipitée dans les abysses de sa subversion et de sa dégradation, ne fait qu’accélérer la transmutation de la dynamique de surpuissance en dynamique d’autodestruction». L’accélération des destructions diverses, l’éclatement des cohérences culturelles, la dispersion des politiques renvoyant à cet affectivisme omniprésent constituent des occurrences catastrophiques effrayantes mais n’en conduisent pas moins, selon cette logique surpuissance-autodestruction, à la mise en cause des structures mêmes édifiées par le Système pour conduire ses propres ambitions d’entropisation à leur terme. (L’UE, touchée prioritairement par l’affectivisme, est l’une de ces structures, comme la globalisation elle-même, structure suprême chargée de conduire à son terme l’entropisation, est attaquée de toutes parts par ses propres contradictions et ses propres antagonismes. Comparez la popularité et la “bonne réputation” de l’“Europe“ et de la “globalisation” d’il y a 15 ans et celles d’aujourd’hui, comparez leur efficacité et leur maîtrise respectives, leur influence “constructive” dans le sens d’une “entropisation organisée” sur les diverses cultures, sur les esprits, etc. Le désordre que produisent aujourd’hui l’“Europe” et la “globalisation”, même si certains jugent qu’il s’agit d’une politique volontaire, – et qui est de toutes les façons une fatalité de l’action de ces entités, – est producteur de malaise, d’angoisse, de révolte, d’insoumission, d’insurrection qui interfèrent gravement sur le rangement du néant absolu de l’entropisation vers où voudrait nous conduire le Système.)

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Comme nous en jugions déjà en 2012, nous sommes de plus en plus précipités, avec toutes les souffrances et les angoisses qui vont avec, dans ce Moment où la métahistorique a complètement remplacé l’histoire-Système qui est laissée à l’étrange folie de l’affectivisme. Déjà, en 2012, nous laissions la conclusion au comte Joseph, avec une simple modification pour y faire entrer notre temps de tempête diluvienne qui est comme un miroir décisif de l’époque de la Révolution à laquelle il se référait dans cette observation : «…Sans doute, la Providence n’a pas besoin de punir dans le temps pour justifier ses voies ; mais, à [certaines époques,] elle se met à notre portée, et punit comme un tribunal humain.»

... Nous avions commencé avec BHL, nous terminons avec Joseph de Maistre... Tout est bien.

Notes

(*) Il y en a qui n’ont pas du tout aimé l'intervention d'Onfray, qui le dise(nt) hautement, parce qu’ils voient les choses de haut et qu’un “intellectuel” comme BHL ça se respecte, et encore plus par un Onfray. (Voyez le philosophe de Challenge.fr, publication honorable, intellectuelle et défenderesse de la veuve et de l’opprimé de la globalisation, le 4 septembre 2015.) Pour nous rassurer à propos de ce petit chambardement, et rassurer BHL par conséquent, on citera à nouveau Audiard (Michel) : «Un intellectuel assis va moins loin qu’un con qui marche.»

(**) Nous employons donc le terme “affectivisme” alors que nous avions choisi d’abord le terme “affectivité” grâce à l’intervention d’un de nos lecteurs le 10 novembre 2014 concernant ce même texte du 11 juin 2012. Le 10 novembre 2014, nous publiions cette “Note de mise à jour” à laquelle il n’y a pas un mot à retrancher puisqu’elle dit tout sur cette mise au point : “Revenant très récemment, à propos d'un texte du 10 novembre 2014, sur ce texte ci-dessus du 11 mai 2012, un de nos lecteurs, monsieur Michel Donceel, a proposé fort justement (Voir le Forum de ce texte) le terme d’“affectivisme” plutôt que le terme d’“affectivité” que nous employions. Il a parfaitement raison, selon une perspective qui, à notre sens, mériterait un débat. Nous le remercions de sa suggestion, ainsi bien entendu que son amie de laquelle vient au premier chef cette proposition”.

lundi, 14 septembre 2015

Commémorations : mais l’histoire existe-t-elle encore ?

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Commémorations: mais l’histoire existe-t-elle encore?

Ex: http://www.dedefensa.org

Nous avions envisagé comme titre initial “Commémorations : à qui l’histoire appartient-elle?”, puis nous avons préféré le titre que vous lisez, qui est en fait une réponse, elle-même en forme de question, à ce premier projet de titre... “A qui l’histoire appartient-telle ?” Réponse : “Mais l’histoire existe-t-elle encore ?” La réponse est évidemment négative.

Ce (très-vaste) sujet est abordé à l’occasion de la commémoration de la fin de la Deuxième Guerre mondiale qui a eu lieu hier en Chine, un jour après le 70ème anniversaire de la signature de l’armistice entre le Japon et les puissances alliées le 2 septembre 1945. (Voir aussi une contribution de dedefensa.org le 2 septembre 2015.) Cette commémoration en Chine suit la commémoration à Moscou, le 9 mai dernier, de la signature de l’armistice de 1945, entre l’Allemagne et les puissances alliées. Ces deux évènements sont singuliers et marquent, ou plutôt confirment une sorte de bouleversement de la fonction mémorielle de l’histoire, et de l’histoire elle-même.

Pour ce qui est de la fonction mémorielle, il est devenu évident que l’acte de la commémoration représente désormais un acte politique, où le symbolique est utilisé directement comme un acte de la politique. C’est la première fois, cette année, que les commémorations de 1945 sont interprétées directement de cette façon, dans une atmosphère d’antagonisme exacerbé. C’est cet aspect que présente le texte présenté ci-dessous, de Mikhail Gamandiy-Egorov pour Sputnik-français, le 3 septembre 2015. Gamandiy-Egorov présente la célébration du 3 septembre, après celle du 9 mai, respectivement dans les deux capitales du nouvel axe Moscou-Pékin, comme une affirmation de la nouvelle multipolarité du monde contre la vision unipolaire des USA, ou plutôt du bloc BAO selon notre terminologie. Nous présentons également un extrait d’un texte de MK Bhadrakumar, en date du 27 août 2015, qui donne une appréciation des effets de la Seconde Guerre mondiale sur la situation actuelle en Asie, en mettant l’accent sur certains points intéressants, – le plus intéressant étant certainement celui de la présence à Pékin de la présidente sud-coréenne Park Geun-hye, montrant que l’antagonisme avec le Japon qui unit la Corée du Sud et la Chine (souvenirs de la guerre) est extrêmement fort aujourd'hui face au Japon qui voudrait affirmer sa puissance militaire, et plus fort dans le cas sud-coréen que les consignes des USA.

On retrouve donc les mêmes caractères que lors de la commémoration de Moscou, avec le même boycott de la part des mêmes pays du bloc BAO, à peu près selon les mêmes lignes de conduites, parfois avec des arguments exotiques qui montrent une complète absence d’attention diplomatique pour de tels actes, c’est-à-dire le degré étonnant de crudité et de primitivisme auquel est réduite aujourd’hui la politique, surtout lorsqu’il s’agit de prendre en compte des facteurs historiques et culturels. Lorsque Spuntik-français écrit, le 1er septembre 2015 que le porte-parole de la Maison-Blanche «a déclaré lundi lors d'une conférence de presse qu'il ne connaissait rien du projet du président chinois de commémorer cette date et notamment du défilé donné à l’occasion de l’anniversaire de la fin de la Seconde Guerre mondiale», on se dit que le réseau russe pousse un peu du point de vue de la traduction... A peine, à peine, puisque lorsqu’on consulte le texte officiel (le 31 août 2015), on tombe sur cet échange où, effectivement, le porte-parole Josh Earnest n’a pas l’air au courant de grand’chose, y compris, peut-être, le fait lui-même de la Deuxième Guerre mondiale après tout ... (On notera, en passant, que la question elle-même est truffée d’inexactitudes diverses, situant le climat culturel des connaissances à cet égard, et de l’intérêt pour tout ce qui n’est pas Washington D.C.)

Question : «President Xi this week is hosting a sort of military parade to commemorate the 70th anniversary of World War II, and a lot of U.S. allies... Prime Minister Modi, Prime Minister Abe... have declined their invitations to go to that ceremony. I'm wondering if you think that it's appropriate, considering some of the regional tensions, for him to be hosting this, and if this is something that came up with Susan Rice.»

Josh Earnets : «Justin, I don't know if this came up in the context of the National Security Advisor’s trip to China. I can check on that for you. Actually, I will acknowledge I was actually not aware of the Chinese President’s plans to mark the end of the second world war, but you might check with the State Department to see if they have an official response to this. And I'll see if I can get my colleagues at the NSC to respond to your question in terms of whether or not this came up in Dr. Rice’s visit to China this week.»

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Au reste, si l’on s’en tient à cette réponse assez étrange du porte-parole de la Maison-Blanche, qui aurait aussi bien pu la raccourcir en disant simplement qu’il est actually not aware of the end of the second world war et qu’il peut éventuellement check on that for you auprès de ses collègues du NSC, on en vient au constat que tout cela n’a plus rien à voir avec l’histoire elle-même que la commémoration est censée célébrer. Il y a là un phénomène en pleine accélération, né avec les évènements d’Ukraine, les diverses narrative, les diverses récritures de l’histoire (des évènements de la Seconde Guerre mondiale) développées pour pouvoir répondre à la logique de fer du déterminisme-narrativiste, etc. L’histoire, dont la commémoration est devenue un enjeu presque exclusif pour les évènements en cours selon l’interprétation de communication qu’on veut leur donner, est en train de se transformer en un magmas incompréhensible et insaisissable qui n’a plus pour fonction que de correspondre à l’événement de communication “du jour”. Bien entendu, cette évolution est toute entière et absolument de la responsabilité du Système mais elle entraîne nécessairement des réactions antiSystème qui sont nécessairement déployées dans le même sens, – car comment faire autrement ? Que la Chine commémore comme elle le fait la la victoire alliée sur le Japon est une façon de réparer une grande injustice, parce que le rôle de la Chine dans cette victoire a souvent été minorée, sinon complètement ignorée dans les diverses commémorations faites depuis 1945. Pour autant, commémorer cette victoire alliée quasiment in absentia des États-Unis, du Royaume-Uni, etc., n’a pas tellement plus de sens.

Ainsi l’action du Système tend-elle à étouffer, non plus telle ou telle version de l’histoire, mais l’histoire elle-même, en tant que récit fondamental de notre passé commun. D’une certaine façon, on observera que cela n’a rien pour étonner dans la mesure où se développe à très grande vitesse une perception du monde qui se résume dans la formule dite du big Now, bannissant toute existence du passé et réduisant l’avenir à une formule postmoderne qui proclame une sorte de “présent éternel” contenant à la fois le “présent“ et le “futur inéluctable de ce présent”. Cela permet effectivement de faire passer à peu près tout, de proclamer un jour Pravy Sektor mouvement patriotique de libération d’Ukraine, sans s’interdire une seule seconde de le condamner le lendemain comme mouvement “fasciste” téléguidé par Moscou, ou d’affirmer que l’armée ukrainienne a libéré Auschwitz, ce qui permet de fêter le 70ème anniversaire de la libération d’Auschwitz en se passant d’inviter Poutine, représentant actuel de l’Armée Rouge qui libéra le camp.

Le constat de cette expulsion de l’histoire de notre champ de perception, correspondant à la dissolution de la “réalité” au profit de narrative éventuellement diverses, n’est pas un phénomène absolument nouveau et certainement pas inattendu si l’on observe l’évolution du Système. Mais il est extrêmement rapide (évident depuis l’Ukraine) et il n’est jamais apparu aussi évident qu’aujourd’hui. Bien entendu, la disparition de l’histoire telle qu’on l’observe ici ouvre toutes grandes les portes à l'interprétation de la métahistoire, tout comme la disparition de la “réalité” ouvre l’intuition à des constats de “vérités de situation” dont la richesse et la puissance sont incontestables. Bien entendu, nous persistons plus que jamais à considérer que le grand perdant dans cette opération est le Système parce qu’il perd ainsi toute sa légitimité globale qu’il tenait d’un récit de l’histoire jusqu’alors arrangé à son avantage (ce que nous avions notamment traduit par l’idée de métaphysique de l’Holocauste).

Cela ne signifie pas nécessairement que cette légitimité passe à l’antiSystème qu’on pourrait identifier notamment dans l’axe Moscou-Pékin, parce qu’on sait, justement, comme on l’a souvent rappelé, que cette fonction d’antiSystème se développe au sein même du Système (des pays comme la Russie et comme la Chine sont, selon notre formule, “un pied en-dedans, un pied en-dehors” par rapport au Système). L’antiSystème n’est pas une alternative au Système, ce n’est pas une entité d’une essence nouvelle mais une simple fonction, dont la dynamique est de facto d’attaquer le Système, même si cela revient à attaquer le cadre dans lequel on est soi-même installé. (Bien entendu, il faut apporter des nuances à cette règle, mais on les connaît, et certaines auront peut-être, voire certainement un rôle à jouer lors de l’arrivée à maturation extrême de la Grande Crise d’effondrement du Système actuellement en cours ; l’une des nuances les plus connues, d’une grande importance, est la résilience de la nation russe et sa force spirituelle qui, à côté de la fonction antiSystème de la Russie, font de ce pays un acteur central des bouleversements à venir.)

Le résultat général de l’évolution qu’on décrit ici est simplement la disparition de la légitimité comme principe, comme d’ailleurs la disparition de la structure principielle en général, et par conséquent l’affaiblissement du Système qui avait depuis longtemps repris à son avantage l’exploitation subversive de cette structure. Le résultat opérationnel est visible de plus en plus chaque jour, comme le constatait très récemment un orfèvre en la matière, Tony Blair, dont l’article du 31 août 2015 a été l’objet d’une analyse dans notre F&C du 1er septembre 2015. (L’on notera que cet article il a été traduit pour Le Monde, il a été très remarqué dans les milieux européens, – les moutons vont toujours par troupeaux, – avec des commentaires alarmistes devant cette description du surgissement de phénomènes antiSystème jugés “incohérents” et donc insensibles à quelque riposte que ce soit. L’article de Blair, lui-même apprécié comme extrêmement avisé sinon admirable du point de vue de la vision politique, est partout cité dans les milieux-Système, surtout européens, comme un signal d’alarme, et essentiellement dans ce cas parce que le “magicien-Blair” avoue qu’il ne sait pas comment on peut riposter devant de telles inconvenances. Que tout ce remue-ménage puisse encore être produit par un Blair, même un Blair-s’avouant-impuissant, donne une mesure des capacités du Système et de sa hauteur de pensée.)

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... Mais nous devons en revenir à des préoccupations plus terre-à-terre, qui ont salué cette commémoration chinoise du 70èmre anniversaire de la capitulation du Japon. Dire “plus terre-à-terre” ne signifie de notre part nul dédain ni condescendance, mais simplement une description opérationnelle. Pour le reste, la bataille Système versus antiSystème a lieu à tous les échelons, partout, de toutes les façons. Il n’y a rien qui ne mérite d’être salué pour sa participation à la bataille contre le Système... Voici donc les deux textes complet/partiel que nous avons annoncés plus haut.

dedefensa.org

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Après Moscou, la grande marche multipolaire se poursuit à Pékin

La grande alliance multipolaire une nouvelle fois en marche ! Après le défilé de la Victoire du 9 mai dernier à Moscou, célébrant le 70ème anniversaire de la victoire sur le nazisme, cette fois c'est l’allié chinois qui célèbre depuis sa capitale Pékin la fin de la Seconde guerre mondiale.

Pour rappel, l'URSS et la Chine ont perdu respectivement 27 millions et 20 millions de morts (militaires et civils) durant ce conflit, faisant des deux pays ceux qui ont sacrifié le plus pour anéantir la peste brune.

A noter la participation en plus des forces armées de la République populaire de Chine et à l'instar du défilé de la Victoire de Moscou, des forces armées d'autres pays. Et comme pour remercier les amis chinois d'avoir été la plus grande délégation étrangère lors du 9 mai à Moscou, à Pékin ce sont les forces russes qui étaient deuxièmes en termes d'effectifs, après bien évidemment les forces armées chinoises. A noter aussi l'absence à Pékin de tous les dirigeants occidentaux. Seul le courageux président tchèque a fait le déplacement comme il l'avait déjà fait à Moscou, étant ainsi le seul chef d'Etat représentant un pays de l'UE. Pour le reste que des ambassadeurs des pays dits du monde "civilisé". A l'opposé donc des dirigeants russe, kazakh, biélorusse, kirghize, sud-africain, vénézuélien, serbe et d'autres, qui ont bien été présents à Pékin, et pour qui l'histoire ne se réécrit pas.

Pour revenir au défilé, qui a été grandiose, en plus donc des représentants de l'Armée populaire de libération (nom officiel de l'armée chinoise), y ont pris part aussi les militaires de la Russie, de la Biélorussie, du Kirghizistan, du Venezuela, de Cuba, de Mongolie, du Mexique, du Kazakhstan, d'Egypte, du Tadjikistan, du Pakistan, de Serbie, de Cambodge, du Laos, des Fidji et du Vanuatu.

On pouvait aussi observer, comme ce fut le cas à Moscou, les présidents chinois et russe, côte à côte, tout au long du défilé. Et malgré toute la puissance affichée de la Chine, le leader chinois n'a pas manqué de noter dans son allocution que son pays est déterminée à défendre la paix: "La Chine ne recherchera jamais d'hégémonie, pas plus qu'elle ne cherchera à s'étendre. Elle n'imposera jamais des souffrances tragiques à d'autres nations", a affirmé ainsi le président Xi Jinping. Un message clair, précis et plein de sens. Un sens d'ailleurs qui devrait faire méditer une fois de plus le leadership d'un certain nombre de pays, dont un en particulier.

Ce qui est certain, c'est que par cette vision commune de l'histoire des leaders et des peuples de Russie et de Chine, mais également par une vision très proche sur l'avenir du monde, qui ne peut être que multipolaire, l'humanité attend avec espoir la suite des événements. Et compte tenu des événements que l'on observe en ce moment, il ne peut y avoir que deux suites logiques: soit le monde multipolaire s'impose une bonne fois pour toute et les partisans de l'unipolarité dépassée l'acceptent. Soit les habitués du monde unipolaire continuent à prétendre de garder leur hégémonie sur toute la planète, avec tout le chaos qui en découle.

Reste grandement à espérer que c'est la première option qui l'emportera, même si vraisemblablement du temps supplémentaire sera nécessaire, ainsi que des efforts communs de tous les partisans de la multipolarité, peu importe que nous soyons citoyens de grands ou de petits pays.

Mikhail Gamandiy-Egorov

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China’s WW2 parade guest list has meanings

[...] The western countries have a misconception that if they do not grace an international event, it loses importance. It’s a hangover from the colonial era. But then, the vanity has limits, too – provided, there is serious money involved. How the western countries fell over each other to join the China-led Asian Infrastructure Investment Bank [AIIB] as ‘founding members’ is legion. They instinctively saw AIIB as a free ride on Chinese money and no amount of American persuasion could keep them away from the honey pot. Britain and Germany hold very little equity in the AIIB in comparison with India, but are keen on the commercial spin off from the investment projects.

Alas, there is no money in China’s celebrations over the 70th anniversary of World War II. And there is no David Cameron at the ceremony in Beijing on September 3. The western media insists it’s a ‘snub’. Whereas, China says it didn’t press the invite but left to the invitees to suit themselves. At any rate, why should any country ‘snub’ China for celebrating a magnificent victory over fascism? There wasn’t any Holocaust in the Asian theatre, but the marauding Japanese army was no less horrific in war crimes than Nazi Germany.

China wasn’t the aggressor in World War II. It didn’t spill Anglo-Saxon blood. China’s participation took the form of its liberation struggle against Japanese imperialism. No doubt, the impact of World War II on the Asian region was historical. Fundamentally, the war galvanized the national movements across the region. Asia could shake off the colonial yoke, finally.

But in geopolitical terms, the single biggest beneficiary turned out to be the United States. The war on Japan – and the deliberate use of atomic weapons – enabled the US to eventually get embedded in the Asian region. Today, it claims to be an ‘Asian power’. On the other hand, the biggest loser was Imperial Britain, since its decline as a second rate power really began when it found that clinging on to the Indian colony was no longer sustainable. Of course, India’s independence in 1947 is attributable to World War II.

All the same, if the expected line-up in Beijing next week is interesting, it is for three reasons. First, Russian President Vladimir Putin’s presence in Beijing on September 2-4 affirms beyond doubt that the quasi-alliance between the two big powers is only getting stronger by the day and world politics and the international system will be profoundly affected by the Sino-Russian strategic partnership.

Second, the absence of the western countries at the celebrations underscores that they are a long way from accepting China as a strategic partner – and, furthermore, that if push comes to shove, blood will prove thicker than water and the Europeans will dutifully line up behind the US in any confrontation with China. Germany or Britain cannot do without the Chinese market to ensure that their economies remain resilient, but they see China inherently as an adversarial power in the world order. Their disquiet over China’s rise is compounded by the acute awareness of the West’s decline after a long history of global dominance since the Industrial Revolution.

Third, the presence of South Korean President Park Geun-hye as well as the absence of Japanese Prime Minister Shinzo Abe and North Korean leader Kim Jong UN will make a significant template of the emergent realignments in the politics of the Far East. China and South Korea have drawn together as strong economic partners, while Park’s presence in Beijing will underscore the two countries’ shared concerns over the rise of militarism in Japan under Abe. Significantly, setting aside speculations, Park decided to attend the military parade as well...

M.K. Bhadrakumar

jeudi, 10 septembre 2015

Métaphysique du dandysme

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Métaphysique du dandysme

 
Le nouveau livre de Luc-Olivier d'Algange
 
Les Éditions Arma Artis, maison dirigée par Jean-Marc Tapié de Céleyran et spécialisée dans les écrits de sagesse (mystique ou philosophique), ont publié en juin 2015 Métaphysique du dandysme par Luc-Olivier d’Algange (ne pas confondre avec une étude savante qui porte le même titre, celle de l’universitaire Daniel Salvatore Schiffer, publiée en 2013). Le livre peut être commandé par chèque pour 18 € port compris (pour la France) à : Éditions Arma Artis, B.P. N°3, 26160 La Bégude de Mazence Cedex, France (pour d’autres pays, voir la page pour les contacter).
 
Qu'entend notre auteur par ce titre ? S'agirait-il de l’apologie d’une révolte esthétique cachant en son sein une crise de l’individualité dans la modernité ? Celle que, dans un ouvrage d’histoire littéraire, Émilien Carassus décrit ainsi : « Le dandysme repose sur une tension interne, un perpétuel effort d’invention. Par sa résonance éthique, il oppose aux défaillances possibles d’une volonté fragile la rigueur d’un constant rappel à l’ordre ; par sa résonance esthétique, il invite à la continuelle surprise, au choc initial de la bizarrerie sans lequel il n’est pas de beauté. Soustrait à la “répugnante utilité”, le dandy s’élève à une originalité faite de spiritualisme et de stoïcisme. (…) Le monde refuse toute unité à l’homme déchiré : le dandy s'efforce d'établir sur le plan esthétique, en se composant une attitude, cette unité autrement impossible. Être de défi et de refus, le dandy cherche sa cohérence dans la création d’un personnage. D’un personnage quasi fantomatique et de pur effet puisque son existence trouve sa seule garantie dans le regard d'autrui ; d’un personnage sans cesse menacé de destruction, puisque ce regard est un miroir vite obscurci. Le dandysme n’est dès lors qu'une “forme dégradée de l'ascèse” ; le dandy “joue sa vie faute de pouvoir la vivre”, en une continuelle provocation. Mais, dans cette attitude sans doute stérile, qui renonce à l’être pour le paraître, le dandy se pose en rival de Dieu et, dans son honneur, dégradé peut-être en point d’honneur, il condamne le Créateur au nom de la créature » (in : Le mythe du dandy, Armand Colin, 1971). L’emploi du terme “métaphysique” n'a ici rien de vain ou de galvaudé : il ne renvoie pas à une quelconque métaphysique des apparences (attribuée à tort à Nietzsche pour lequel l’apparence désigne apparition, pur paraître, et non corrélat d’une réalité idéelle) et sert encore moins à introduire pompeusement son sujet. Il nous convie à une parole méditante, celle qui interroge l'impensé de notre condition historique, celle qui dessine comme une chandelle dans le clair-obscur les formes de l’invisible. Le dandysme revêt une dimension métaphysique par son rapport à la modernité : il ne s’agit pas de savoir être de son temps mais de savoir se détacher d'un temps qui détruit tout participation à l’éternité, qui désagrège toute articulation organique entre immanence et transcendance. La révolte au cœur du dandysme n'est donc pas seulement esthétique mais aussi éthique et spirituelle. À cet égard, la lecture de cette méditation ne pourra que toucher celles et ceux pour qui l’appel à une sagesse vécue reste vital pour traverser une époque chaotique. Le style est certes celui d'un lettré mais chaque mot est pesé, et l’esprit qui y palpite transcende la lettre. En voici donc un extrait qui débute l’ouvrage :   
   

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dandysme,littératureSi l’on considère les possibilités de l’esprit humain au regard de ses exercices les plus généralement répandus, en travaux et distractions, on ne peut se laisser d’être surpris et attristé de l’écart d’intensité et de vastitude entre les mondes offerts et les mondes généralement parcourus. Une instance mystérieuse, et sans doute secourable, persiste en moi, contre l’argumentaire massif de notre temps, à voir dans cette disparité des possibles une anomalie et une défaite. Il semblerait qu’une tyrannie diffuse, mais non moins prégnante, s’évertuât, non sans efficace, contre ces ressources sensibles et intelligibles qui haussent la vie à l’existence, et celle-ci, en certaines circonstances favorables, à l’être, - et celui-ci, enfin, à ces régions subtiles et paradisiaques où, selon les mystiques persans, règne l’Archange Empourpré.
Passant d’un état d’hébétude devant des écrans, la pensée alentie ou rendue confuse par des drogues sans fastes, aux tristes procès affairés d’un activisme modificateur qui ajoute la laideur à la laideur, l’absurde à l’absurde, les hommes de ce temps semblent avoir pour dessein de passer, d’un mouvement unanime, à côté d’eux-mêmes et du monde.
 
À ce mouvement commun, grégaire, - qui est celui de la société elle-même, devenue un amas de subjectivités traquées et plaintives, nous devons la disparition de la civilisation et de la civilité qui ne survivent qu’au secret de quelques cœurs, assez hauts, assez téméraires, assez fous pour croire encore que la destinée des êtres humains ne se réduit pas à être les agents de la Machine qui va les réduire en unités interchangeables, -c’est-à-dire, les hacher menus.
 
***
Il n’est rien de plus facile que de dire le plus grand mal des dandies. Eux-mêmes, non sans constance, offrent, comme s’ils étaient des adeptes de Sacher Masoch non moins que de Brummel, les verges pour se faire battre. Arrogants, insolents, vains, immoraux, ostentatoirement inutiles, agaçants dans leurs mises comme dans leurs propos, égocentriques semble-il par vocation ou par décret, aristocrates sans fief, souvent soupçonnés par surcroît de mœurs incertaines et de sympathies pour des idéologies coupables ou réprouvées, ils se plaisent au plaisir de déplaire et ajoutent à leurs dédains intimes des signes extérieurs de mépris pour les braves gens, les gens moyens, qui sont légion, qui font masse, et dont on devrait savoir, si l’on veut survivre commodément dans ces temps sans nuances, qu’ils sont l’incarnation du Bien, du Progrès et de toutes les vertus démocratiques, - seules vertus. Toutes les autres étant tenues pour criminelles par les philosophes en vogue, les journalistes, et, autorités suprêmes en la matière, les présentateurs de télévision et les chanteurs de variété.
Le dandy, tel un condamné portant beau et marchant droit au moment de monter sur l’échafaud et faisant du spectacle de son impassibilité, un défi, et peut-être un enseignement, - on pourrait croire à le voir ainsi, faisant des bons mots au bord de l’abîme, que de très-anciennes vertus de courage et de bonté l’eussent élu pour intercesseur ultime, ou pour victime, comme les derniers éclats d’un feu mourant, escarbilles qui laissent dans l’œil quelques phosphènes, - images d’une grandeur humaine à jamais perdue.
 
Or Baudelaire, Barbey d’Aurevilly, Oscar Wilde, Mishima (le plus radical d’entre eux) furent aussi de grands artistes, des ascètes du Verbe dissimulant, sous le spectacle qu’ils consentirent à offrir (peut-être non sans bonté comme un signe adressé, malgré tout, à ceux qui ne peuvent ni ne veulent comprendre), et selon la formule de Nietzsche : «  une provocation, un appel  ».
 
Ce monde est aveugle, sourd, insensible que le Médiocre régente et, procustéen, réduit à sa mesure. Il nous voudrait sans pieds pour la promenade et sans tête pour la rêverie ou pour la spéculation. Les écrivains de ce temps, intimidés par tant de suffisance collective destinée à les convaincre de la vanité ridicule de leurs ouvrages, en sont venus à faire profil bas ou à se feindre au service de quelque intérêt général. Ils se mêlent des “causes” du temps, s’improvisent journalistes bénins ou vitupérateurs et font dans l’édifiant avec des pomposités moralisatrices généralement dirigées contre des confrères plus frivoles, libres ou talentueux. Tout dans leurs tristes arguties est machine pour faire croire qu’ils sont la voix d’autres qu’eux-mêmes, - enfin qu’ils représentent ! Leur fausse modestie qui se donne à contempler est de la pire outrecuidance. L’humilité leur manque et la force de reconnaître leur singularité et ce qu’elle doit aux influences diverses et lointaines dont ils sont les hôtes passagers. Une formule revient sans cesse dans leur bouche, comme une excuse d’être, une complaisance, une lâcheté : “un petit peu”. Ils sont “un petit peu écrivain”, ils pensent ceci ou cela “un petit peu”. Mieux vaut préciser, en effet, car celui qui n’est pas dans le “petit peu” est un méchant homme qui s’écarte de la norme commune.
 
Avouons-le, ces mitrailles de “petit peu” excèdent notre patience et nous recevons comme un ressac de fraîcheur et de simplicité de belle augure quiconque, avec une inopportunité soudaine, nous parle de grandeur ; car cette grandeur dite, évoquée, est l’espace où nous sommes reçus. La grandeur grandement reçoit ; elle ignore les jugements et les classements vétilleux ; elle se fie à une intuition qui remonte plus haut que sa cause.
 
Telle est l’humilité du dandy : face à l’arrogance du Médiocre, agent de l’opinion publique, il consent à se revêtir de la fragilité de l’humanité essentielle, de la brièveté de son éclat singulier et oppose visiblement à l’uniforme et l’uniformité des hommes sans visage, la sapience presque perdue d’une civilisation d’essences rares, de gestes exquis, - une langue enfin, à la fois natale et conquérante, qui sera jugée alambiquée ou baroque par les pratiquants de l’idiome schématique, vulgaire et las de la “communication”.
 
De même que le vêtement du dandy ne lui sert pas seulement à se couvrir ou à se parer, sa langue connaît d’autres raisons d’être que la communication ou la publicité ; elle entre en des nuances qui, pour exigeantes qu’elles soient et ordonnées à des disciplines mystérieuses, s’apparentent « aux merveilleux nuages » qu’évoquait Baudelaire, qui se meuvent en une liberté grandiose dans les hauteurs, selon des lois immenses où notre liberté se perd et se réinvente.
 
Asocial civilisé, libertaire cherchant à atteindre l’ordre le plus profond pour, d’une science prompte et sûre, le faire apparaître à la surface, ennemi de l’informe qui est le pire conformisme, le dandy va calmement à sa perte, sachant, selon le mot de Baudelaire, « être un héros et un saint pour soi-même ». Sa cause perdue cependant le fait légataire de la témérité qu’il eut à la défendre,- « force qui va ».
***
Sans doute le moment est-il venu, pour nous autres songeurs d’empires ou de royaumes intérieurs, de cesser de faire profil bas et de renoncer à cette trouble complaisance de nous excuser d’être. La modestie ostensible est un péché de vanité qui interdit à jamais d’atteindre à l’humilité, - dont le premier signe est de reconnaître ce que Dieu nous fit, c’est-à-dire à son image, uniques.
 
Ce n’est point une si petite chose, dans ce grand chaos planifié, que d’être un homme avec ses ressouvenirs et ses pressentiments. Ce n’est pas rien d’avoir des goûts et des dégoûts, un discernement intuitif qui nous guide vers les uns et nous éloigne des autres, qui nous offre la chance de préférer, et d’entrer en relation avec des objets de nos préférences au lieu de les réduire au rôle subalterne d’expériences. Ce n’est pas rien, et c’est même une chose bien grande et bien rare, digne d’éloges, que d’honorer ces préférences, ces civilités, et de raviver ainsi, dans le secret du cœur, le sens de la gratitude.
 
Baudelaire en donnant à son dandysme, ce « plaisir aristocratique de déplaire », ces décisives nuances héroïques et mystiques, témoigne au plus juste des longitudes morales et des latitudes métaphysiques qu’il nous reste à reconquérir si nous voulons être le principe d’un monde où nous cesserions de vivre misérablement, fût-ce au cœur du confort le plus apprêté. Car il est inutile de se leurrer, de feindre de vivre dans une civilisation et dans un monde. Les sarcasmes des dandies, leurs ironies cruelles, eurent au moins le mérite - si peu que nous les comprenions dans leurs sagesses et leurs dédains, - de nous déniaiser à cet égard.
 
Ce monde hargneux, discourtois, où la quantité règne, où l’on convoite des voitures moches, où l’on pousse, habillé d’un survêtement de sport, des “cadies” surchargés de nourritures aussi coûteuses qu’à peine comestibles, ce monde où l’on s’affale devant des écrans, ce monde ni ascétique, ni épicurien, serait à peine remarquable comme défaite insigne de l’humanitas s’il ne coïncidait avec la perte du langage, - qu’autrefois des hommes moins aveulis considéraient comme un don des dieux, voire comme leur émanation la plus certaine.
On s’est récrié devant la supposée “préciosité” des dandies, on s’est permis de médire de leurs façons, parfois, d’user de mots rares comme des gemmes enchâssées dans la syntaxe, livrés à tous les feux de la pensée et de l’imagination. C’était méconnaître l’archaïque, l’originelle beauté de leur fidélité, l’honneur ingénu qu’ils font aux mots d’exister et de resplendir, leur étonnement qui réveille celui des premiers hommes devant la puissance neuve des runes ou des hiéroglyphes.
 
À cet égard, comme à tant d’autres, le dandy (ne parlons pas des singes qui se répandent dans la mode et les mondanités) est bien le contraire d’un homme blasé de tout. S’il paraît quelquefois lassé, c’est de tout ce qui n’est pas tout, - de cette existence piteusement restreinte, tant dans le sensible que dans l’intelligible, qui nous est imposée avec toute la force irrésistible d’une inertie collective tombant, selon les lois de la pesanteur, vers la substance indifférenciée.
 
Une dose exquise de métaphysique ne saurait nuire aux considérations les plus désinvoltes qui soient. Être léger, ce n’est pas être frivole. Quelques « coups d’ailes ivres » sont nécessaires, et l’ivresse, qu’elle soit d’eau fraîche ou de vin, exige précisément la pureté des essences. Le dandy, servant le « démon des minutes heureuses » devra faire ainsi de chaque moment de sa vie une révolte de l’essence contre la substance et rejoindre au cœur de l’acte ou de l’art distingués, l’essence qui le distingue.
 
« Être un héros et un saint pour soi-même » n’est-ce pas, hors de toute représentation, de tout spectacle, éveiller, par quelque rituel, l’essence même de l’héroïsme et de la sainteté ? Il y a chez tout dandy de belle venue et de haute exigence, une révérence à quelque principe impersonnel dont le rite est l’expression et qu’il importera de servir, ainsi que de son courage, dans un combat contre l’informe et l’avilissement. Humble, et dans ce monde ruiné où il eut la disgrâce de naître, le dandy commence par lutter contre son propre avilissement ; mais ce combat pour soi, pour la « sculpture de soi », selon la formule de Plotin, est aussi, par l’exemple, un combat pour les autres, sans le mauvais goût de trop leur faire savoir.
 
Que serait le monde sans ces hommes de finesse, d’ordre secret et de nuances qui semblent ne servir que leurs goûts et n’aller qu’à leur guise ? À quelle vulgarité sans échappatoire le monde et la parole humaine eussent-ils été livrés ? Sans contredit à la marée sombre, nous eussions été engloutis, et nous le sommes presque, et ce n’est, en effet, qu’un « presque rien », un « je ne sais quoi », selon le mot de Fénelon, qui nous sépare du pur et simple anéantissement du Logos dans la “communication”. C’est l’exemple de la liberté conquise qui le rend possible et non les soi-disant “libérateurs” tout empressés de nous délivrer d’un despotisme moindre pour nous subjuguer à une tyrannie plus efficiente.
 
Le dandy, cultivant en lui les vertus stoïciennes et ascétiques d’une impersonnalité active, offre l’exemple de l’éthos le plus distinct et le plus radicalement contraire à l’individualisme moderne qui, de masse, exacerbe une subjectivité, généralement plaintive. La forme qu’il illustre et à laquelle il se dévoue, est une idée. Cette forme-idée, réfractaire à l’informe, est un legs, auquel le dandy, avec désinvolture, se sacrifie. Loin de croire valoir par lui-même, et faisant, selon la formule d’Oscar Wilde, de sa vie une œuvre d’art, il hausse la vie, la vie confuse, informe, plate et cupide à la forme désirée, platonicienne et désintéressée.
 
Détachée de la volonté qui la produit, au plus loin de la substance indistincte, au plus près de l’essence distincte, la vie comme œuvre d’art accomplit une métaphysique. Si le monde sensible est l’empreinte du monde idéal, s’il est écriture divine, n’est-ce point impie de vivre en bête repue ou en bête traquée ? Si le pouvoir nous est donné de nous exhausser hors de la nature, de voir, ou d’entrevoir, le sceau divin, l’Idée, privilège insigne et redoutable dont ne disposent pas les fourmis, les chiens ou les écureuils, ne serait-ce pas un devoir de n’y pas déroger ? Au demeurant, qu’est-ce que le “naturel” de ces gens hostiles aux artifices, sinon le plus commun et le plus vulgaire des artifices ? Si commun et si vulgaire qu’il menace à chaque instant de défaillir dans la plus torve barbarie.
 
Dans une époque bourgeoise, utilitaire et puritaine, le dandy se souvient, comme il peut, de temps empreints de formes sacerdotales et héroïques, non pour les imiter, ou se leurrer sur leur perpétuité, mais pour manifester, comme l’idée impondérable dans la forme visible, qu’elles ont trouvé en lui le plus fragile des refuges - dont la fragilité, œuvre d’un verrier alchimiste, pour cassante qu’elle soit, et parfois tranchante, garde mémoire de la haute flambée et des fusions cruelles d’une civilisation perdue.
 
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L’extinction de la civilisation dans le carcan de la société, sous l’écorce morte de la société, pour évidente qu’elle soit aux hommes de goût, se laissera évaluer par ceux qui n’en sont pas saisis d’emblée d’horreur comme devant un charnier, par le progrès constant des interdits et la disparition proportionnelle des contraintes. Nous voici dans un monde où les aspirations les plus immémoriales et les mouvements les plus légitimes sont surveillés, bridés et punis mais où rien, vraiment rien, nous contraint à être un peu moins avachis dans la bêtise et l’ignorance la plus crasse. Le genre en est même bien considéré, tant “cool” que “démocratique”, - car il est entendu qu’il faut être “sans prétentions”.
 
On nous jette quelques colifichets technologiques, et vogue la galère des volontaires ! Google pourvoit aux mémoires inexercées ; tout s’oublie dans le meilleur des mondes amnésiques, sauf le ressentiment.
 
Que peuvent bien se dire des hommes et des femmes sans mémoire, ou de la seule mémoire qui leur reste, celle des griefs et des méfaits ? Ceux qui n’ont pas le bonheur d’avoir en mémoire, appris par cœur, quelques vers de Virgile ou d’Hölderlin, par ce cœur qui leur découvre, en ressouvenir de poèmes, les paysages et les visages aimés dans les heures heureuses, - ceux qui n’ont pas l’éloge au cœur de la mémoire, gardé par des Muses exigeantes, tourneront indéfiniment autour de leur Moi, dans un cercle de plus en plus réduit, comme l’âne attaché au piquet.
 
Les historiographes du dandysme ne remontent guère, dans leurs généalogies idéales, au-delà de Brummel ou du Prince de Ligne ; le dandysme serait le contemporain et l’alexipharmaque du poison bourgeois. D’autres, moins sociologues, voient en Alcibiade le parangon des dandies. Entre l’Antique et le Moderne, on pourrait trouver en Laurent de Médicis ou en Casanova des dandies d’instinct ou de fait. Au dandysme délicat de Robert de Montesquiou, on pourrait, en élargissant la notion, ajouter le dandysme sauvage d’Ungern von Sternberg, le dandysme luxueux de Barnabooth ou celui, ascétique, d’André Suarès, qui traverse l’Italie à pied en se nourrissant seulement de lait et de fruits. Certains dandies sont en mouvement, stendhaliens, d’autres sculptés dans quelque minéral rare, irréfragable, tel Stefan George. Certains défaillent à un parfum, ou sont réduits à l’inaction par un songe, d’autres, comme Claus von Stauffenberg, posent des bombes à bon escient. Ernst Jünger, lui, fut à la fois un homme enivré de synesthésies subtiles et un guerrier farouche. Les chemins de traverse sont nombreux et infinies les possibilités d’échapper aux normes vulgaires. Mishima met la même scrupuleuse attention choisir sa cravate que son sabre, à traduire, du vieux français, une pièce de D’Annunzio qu’à se forger un corps idéal par le soleil et l’acier.
La beauté, splendeur du vrai, resplendit en chromatismes divers, en des paysages désertés ou profus, en des âmes contemplatives ou actives, - et lorsque l’étau se resserre, lorsque les plafonds se rapprochent des planchers, lorsque pullule, comme disait Nietzsche, « la race du dernier des hommes  », lorsque les temps, selon le mot de Witkacy, sont au « nivellisme », livrés aux prédateurs mous de la pensée calculante, quelques dandies apparaissent pour signifier leur désaffection des mœurs communes.
 
Ce monde livré aux gestionnaires (par surcroît incompétents) donne supérieurement raison à quiconque veut hausser et faire briller quelques-unes des possibilités offertes de la vie, - qu’elle soit sensible ou mystique, visible ou invisible, solaire ou nocturne, aurorale ou crépusculaire. L’âme du plus morbide des “décadents” est encore d’une vivacité infiniment plus ingénue, plus hespériale que la sinistre planification des hommes à oreillettes qui, vampires sans dents et sans apparat, amoindrissent en eux et autour d’eux l’existence aux dimensions dérisoires de leurs “plans de carrière”. Plutôt crever la bouche pleine de terre que de céder à leur règne. Plutôt la mort dans l’âme, mais avec une âme, que la survie sans âme dans cette planification morte.
 
À ne s’y point tromper, il s’agit bien là d’une combat à mort, où les forces adverses sont à tel point supérieures, en nombre, en quantité et en “technicité”, - si outrancièrement, ubuesquement et pompeusement supérieures, qu’elles en deviennent ridicules. Imaginons face à quelque élégante petite bête sauvage, un renard par exemple, non le concours, déjà un peu grotesque, d’une chasse à courre, mais soixante divisions de chars, avec fanfares, porte-avions, et ogives nucléaires. La planification moderne face aux rares hommes différenciés est de cet acabit. La puissance périt dans son triomphe, sous l’estocade du ridicule et du dégoût.
 
Il faut apprendre à se déprendre, non seulement en vertu de cette sagesse essentielle qui nous fait traverser la vie en nous détachant de ses atours, un à un, et jusqu’à l’ultime battement de cœur, mais aussi dans le pur présent, qui n’est jamais si vaste ni si favorable que lorsque nous refusons de céder à l’emprise que nos semblables, par une compulsion fatale, prétendent à exercer sur nous. La plupart des tracasseries de ce monde administratif, bancaire et technologique n’ont d’autres raisons d’être que de nous forcer à nous intéresser un moment à ceux qui en sont les agents. L’affaire est sérieuse nous disent-ils, imbus de leur importance, elle vous concerne au premier chef. Ils voudraient nous en persuader pour que nous leur prêtions notre oreille et prenions en considération leur “pouvoir”, ou ce qu’ils imaginent être un pouvoir. J’annonce ainsi, sans autres ambages, la raison d’être de cet ouvrage : rien d’autre qu’un éloge de la désinvolture. Tout sérieux est frivole et toute frivolité, affreusement sérieuse. Il n’est plus une seule raison d’être, individuelle ou collective, qui ne soit, par les nouveaux maîtres du monde, reléguée aux marges extrêmes. La désinvolture à leur égard équivaudra au retour à l’essentiel : ce jour de fin d’été aux légers feuillages de brume, cette jeune passante qui éveille en ma mémoire des vers d’Ibn ’Arabî :
«  Son regard ayant tué,
Elle réanime par la parole
Comme si Jésus elle était
Quand elle rappelle à la vie.
Sa Thora, telle une lumière
Est la face brillante de ses jambes
Thora que je lis et que j’étudie
Comme si j’étais Moïse.
Prêtresse sans ornement
Parmi les filles des Grecs,
Sur elle tu contemples
Les lumières du pur bien.
  »
***
Si le monde moderne, sans que nous eussions à proprement parler de point de comparaison, puisque nous lui sommes contemporains depuis notre naissance, nous apparaît dans ses perspectives, ses modes de vie et de pensée, comme un monde étrangement rétréci, - tout y étant planifié par l’utilitarisme le plus vain et le plus abstrait (le travail devenant une distraction de l’essentiel, et la distraction, un travail, et même un bizness), si toute sollicitation supérieure en semble exclue, si les hommes y vivent généralement comme des créatures hébétées, - on ne peut s’empêcher de penser qu’il n’en fut pas toujours ainsi, qu’il ne s’agit là de rien de réel, et que ce « sinistre hypnotisme », pour reprendre le mot de Villiers de L’Isle-Adam, s’apparente moins à une fatalité ou à une nécessité invincible qu’à un mauvais sort que l’esprit humain eût jeté sur lui-même et dont il pourrait, à sa guise, se déprendre à chaque instant.
 
Force est de constater, hélas, que ce mauvais sort a sa durée propre qui excède la brève durée de nos vies individuelles. Il n’en demeure pas moins ce qu’il est : un pouvoir très-vague et très-vain dont les manifestations, aussi titanesques et planétaires que l’on voudra, n’existent et ne s’imposent à notre entendement que par l’immensité des mondes sensibles et intelligibles qu’elles nient.
 
L’œuvre d’Ibn ’Arabî nous entretient de cette immensité-là, qui n'existe pour nous que parce que Dieu voulut qu’elle existât pour Lui, trésor caché soudain révélé par la Création. Le génie individuel, certes, existe, mais il est, ce qu’oublia parfois le Romantisme, à l’exacte mesure de l’oubli de soi. Pour Ibn ’Arabî, comme pour Platon, la connaissance est réminiscence. Ce qui nous revient ainsi, vient par nous mais du monde lui-même, en resplendissements de beautés et de vérités. De cette vérité belle et de cette beauté vraie nous sommes les instruments. Au-delà du Calame est la main qui tient le Calame, et plus secrète encore que la main, est l’encre de la nuit des temps où plonge le Calame.
 
La réminiscence ravive un espace dont, emprisonnés que nous étions dans le ressassement de la subjectivité, nous étions exclus. Libératrice, au sens le plus haut du terme, elle nous restitue au Réel dans ses longitudes et ses latitudes, ses gradations, ses états et ses stations, son mouvement et son immobilité. Or, et c’est à cette élucidation vibrante qu’œuvre Ibn ’Arabî, l’essence de l’amour n’est autre que réminiscence. Dans ses plus beaux resplendissements le monde semble se souvenir de la puissance qui le fit apparaître : il est alors apparition à l’instant de l’apparition, absolue fraîcheur castalienne, recommencement du recommencement, anamnésis. Le temps qui vient sur nous comme une ondée de bénédictions n’est plus le temps profane, le temps linéaire de la durée ou de l’usure, le temps de l’action planificatrice, mais bien le temps de la contemplation, de l’accord, de l’hospitalité intérieure aux instigations ardentes et subtiles de la réminiscence.
 
Toutefois ce monde contemplé n’existe pas sans le contemplateur. Le contemplateur déploie par sa contemplation le monde contemplé, et celui-ci reçoit le regard qui le révèle à son essence, à sa divine antériorité. Le contemplateur et monde contemplé, qu’unissent des réminiscences en ressac, sont l’un à l’autre comme l’Amant et l’Aimée. Leurs sucs et leurs sèves se mêlent dans une essence intime, un œcuménisme de parfums.
 
Les plus obtus des agnostiques prennent volontiers argument contre la Théologie, de ce qu’elle nous entretient de l’enfer, du purgatoire et du paradis. Ces esprits schématiques, qui se vantent d’être “rationalistes” passent ainsi à côté de cette haute, vénérable et très-ancienne pragmatique, qui est à l’origine du Discernement, faculté, à la fois intuitive et intellectuelle qui nous permet, selon le langage de la Table d’Émeraude, de séparer le subtil de l’épais, et de nous orienter avec bonheur dans les troubles et les confusions de l’existence. À moins d’être déjà de ces « derniers des hommes » dont Nietzsche prévoyait et redoutait la venue, et s’il reste en nous quelque désir de lointain, de songes et d’étoiles, ou seulement le goût d’être là où nous sommes, en plénitude, si lors le « pareil au même », selon la formule de Renaud Camus, ne s’est pas installé dans nos cœurs comme une sournoise et tyrannique apologie de la médiocrité, il vient une seconde magique où nous reconnaissons qu’ici ou ailleurs, dans l’immobilité comme dans le mouvement, ce monde s’offre à nous dans une triple possibilité infernale, purgatorielle ou paradisiaque ; et que cette science suffit amplement à faire de nous, selon le juste principe du libre-arbitre, le plus malheureux ou le plus heureux des hommes ; à tout le moins à certains moments.
 
Contrairement à une idée commune, il n’est pas nécessaire d’être absolument mort pour savoir ce que sont l’enfer, le purgatoire et le paradis. Si tel était le cas, ces notions si familières nous seraient probablement inconnues, à moins que nous ne les supposions transmises par d’hypothétiques revenants. Or, une science nous est donnée en cette matière, variable, incertaine, comme l’est toute science, qui permet à chacun de s’en faire une image.
Une ambition belle, et, je gage, peu courue, serait avec la désinvolture humble qu’exigent les sujets profonds, d’esquisser la renovatio d’une sapience du Paradis, sinon dans son essence, du moins dans ses attributs. Qu’en est-il, de nos jours, du paradisiaque ? L’ennui est que là où nous sommes, il faut commencer par l’enfer. Passons vite, la description en est presque superflue ; cette contrée est la plus connue et la plus démocratiquement partagée. Chacun y travaille à son propre enfer et à celui des autres  ; chacun travaille dans une infernale solidarité à passer à côté des éclats, des promesses, et à s’incarcérer dans cet individualité collective, dans cet collectivité individualisée, chacun accuse chacun de son malheur. Ce monde semble sans issue car il n’existe pas ; l’existence lui est refusée. On ne s’évade pas de ce qui n’existe pas ; on y fait apparaître ce qui est, et qui fait mal à force d’être beau, d’une beauté terrible, numineuse… L’effroi que nous en ressentons sera notre purgatoire. Ensuite, voyez comme il faut bien se hâter, se présente à nous le seuil du Paradis ; là où les hautes sciences théologiques et poétiques nous serons secourables.
 
Il ne s’agit pas de faire le paradis, de le planifier (ce qui se nomme paver l’enfer), mais de le laisser entrer dans le néant où nous nous sommes réfugiés par effroi des grands bonheurs.
Une conversion du regard est nécessaire, une sapience, voire une morale. Toutes nos volontés seront vaines si nous ne discernons pas ce qui en nous et, accessoirement, autour de nous, marque le fatal coup d’arrêt à la chance pleine de prodiges. Une Machine travaille, disions-nous. Le bruit de fond du monde moderne est son grondement sourd. Machine uniformisatrice, mue par le ressentiment fondamental du médiocre à l’égard du génie ou du talent qui lui échappent. Et ce ne sont pas seulement, et de moins en moins, tant ils deviennent indiscernables, le génie et la talent individuels qui sont l’objet de la vindicte du médiocre, mais aussi le génie des lieux, des peuples et des langues, dont le génie individuel n’est que l’intercession. La Machine travaille, sans relâche, avec son insistance de Machine, à détruire tout ce qui, dans la haute culture européenne fut l’intercession des génies favorables orientés vers l’exercice magnifique de la vie.
 
Le fondamentalisme démocratique n’a pas fait disparaître le pouvoir et l’abus de pouvoir, le népotisme et l’accaparement, il s’est appliqué à les placer dans les mains les plus médiocres, les plus irresponsables et les plus illégitimes, - et cela non seulement à la tête de l’État, mais partout, dans les plus infimes et plus insignifiantes occurrence du monde social. Le moindre guichetier est un despote. Le plus ridicule notable de province, avec quelques accointances politiques et un peu d’argent, peut abuser de tout et de tous, comme le seigneur féodal le moins scrupuleux, à la différence que sa place fut conquise par quelque ruse et non par le sang ; et son nom jamais n’aura à répondre de rien, car il n’est point un maître auquel on peut demander des comptes, mais un “agent”. Un dispositif est ainsi mis en place, dans un consentement général, qui bétonne toute expression ou transmission du génie (terme, on l’aura compris, que nous n’utilisons pas dans son acception néoromantique de subjectivité exacerbée mais, tout au contraire, d’abandon à de plus vastes et calmes desseins, de plus lointaines et profondes fidélités).
 
Il nous reste, à nous qui sommes héritiers de toutes les outrances modernes, à réinventer le moment présent, - à lui redonner cette teneur, ce timbre, cette couleur, ce vibrato. Il nous reste à revenir au cœur du temps, au cœur ardent. Il nous reste à inventer des “feux légers”. Que la vie ne soit pas survie asservie à des finalités quantifiables mais une suite de feux légers, et peu importe, et tant mieux, si nous y disparaissons sans laisser d’autres traces que le ressouvenir d’une flamme blonde, insolente, à peine discernable dans le faste du jour !
Le monde moderne qui ne croit plus au péché originel, ni à Dieu, ni à rien, semble pourtant devoir son existence à la seule volonté farouche de nous faire expier, ici et maintenant, tous les bonheurs vécus ou possibles. Sans doute le Moderne soupçonne-t-il que chaque bonheur est une réponse à une prière, une flamme allumée dans l’oraison. Cette évidence, insupportable à son outrecuidance mécréante, le conduit à nier, non seulement la surnature, mais la nature sensible elle-même qui en est l’empreinte.
 
À l’oraison, le Moderne opposera la volonté, puis la volonté de volonté, crispation maniaque, qui détruit sans anéantir, qui détruit en encombrant. Voyez comme les êtres humains sont devenus encombrés, comme ils respirent mal, comme il se supportent difficilement, comme ils se trouvent toujours offensés, offusqués, victimes, rats traqués les uns par les autres, et comme ils se laissent peu de temps pour être, ou, plus exactement, selon la belle formule d’Heidegger, pour être là, dans «  l’éclaircie de l’être  », dans la clairière paradisiaque.

samedi, 05 septembre 2015

NIETZSCHE - LA DÉTRESSE DU PRÉSENT

NIETZSCHE - LA DÉTRESSE DU PRÉSENT

de Dorian Astor (folio) Ed. Gallimard

Pierre Lance*
Ex: http://metamag.fr

astornietz.jpgJ’avoue avoir manqué de prudence lorsque j’ai promis à MÉTAMAG de rédiger une note de lecture sur cet ouvrage. Car je n’avais encore rien lu de l’auteur et je ne m’attendais pas à recevoir un pavé de 650 pages constituées de commentaires sur l’oeuvre de Nietzsche. 


Certes, je salue bien bas la performance. Noircir 650 pages de considérations d’une utilité très contestable, il faut le faire ! Pourtant j’ai un préjugé favorable envers tous les écrivains qui se passionnent pour Nietzsche, le plus grand philosophe et psychologue de l’ère contemporaine, mais j’attends d’eux qu’ils apportent un éclairage original et des réflexions pertinentes sur les écrits flamboyants du prophète de la surhumanité. 


A mon grand regret, je n’ai rien trouvé de ce genre dans aucune de toutes les pages que j’ai lues, soit environ le quart du total en différents endroits, car je n’ai pas pu m’astreindre à lire la totalité de ce pensum, indigeste au plus haut point. L’avant-propos déjà m’avait laissé perplexe. D’abord parce que l’auteur y abuse des mots «moderne», «modernité» et «post-modernité» qui sont pour moi des termes dépourvus de sens, du moins sur le plan philosophique. Car la philosophie s’attache à l’essentiel qui, par nature, est intemporel. Ensuite parce qu’une phrase de ce texte m’a fait bondir. Dorian Astor nous affirme en effet : «Il ne fait aucun doute que la lecture de Nietzsche est douloureuse». J’en suis resté pantois ! Car mes premières lectures de Nietzsche me plongèrent immédiatement dans un bain de joie et d’enthousiasme sans pareil. Enfin quelqu’un qui avait tout compris ! (Et je ne peux imaginer de douleur à cette lecture que dans les esprits congelés par une religion ou idéologie quelconque). Si bien que je n’ai eu de cesse d’avoir absorbé les oeuvres complètes de ce magnifique trublion, sans oublier les Fragments posthumes, ni, bien entendu, la correspondance. C’est dans cette dernière que Nietzsche renie sans équivoque sa vision de l‘Éternel Retour (dont les petits professeurs de philosophie se gargarisent encore à qui mieux mieux), dans une note relevée par son excellent biographe Daniel Halévy dans une lettre à Peter Gast du 10 juin 1887. 


Le biographe écrit et cite : «Sans doute Nietzsche a-t-il voulu, une fois de plus, mettre sa pensée au clair». Quelques mots, deux lignes à peine, jetés comme un cri, interrompent cet exposé. Les voici : «Le Retour éternel est la forme la plus extrême du nihilisme : le néant (l’absurde) éternel !». Quel soulagement ce fut pour moi de voir Nietzsche reconnaître à ce propos son erreur, laquelle ne cessait de me tarabuster. Tant il me paraissait évident que l’idée d’un éternel retour de toutes choses est absolument incompatible  avec un univers éternel et infini (ce qu’il est inexorablement), donc indéfiniment renouvelé. (Nous abandonnerons à leurs rêveries pseudo-scientifiques et crypto-théocratiques les ridicules adorateurs du Big-Bang). À vrai dire, Nietzsche avait déjà quasiment tordu le cou à l’Éternel Retour dans l’aphorisme 335 du Gai savoir, dans lequel il écrit : «Qui juge encore: «dans tel cas tout le monde devrait agir ainsi», n’a pas encore fait trois pas dans la connaissance de soi-même; sans quoi il n’ignorerait pas qu’il n’y a pas, qu’il ne saurait y avoir d’acte semblable, que tout acte qui a été fait le fut d’une façon unique et irréproductible, qu’il en sera ainsi de tout acte futur...».
Dorian Astor s’est fort empêtré lui-même dans l’Éternel Retour, mais je porterai à son crédit ce paragraphe de la page 518 de son livre, dans lequel il écrit : «... Il me semble que dans l’Éternel retour, c’est la question de l’Éternel qui est centrale, et qui forme le point où se nouent le problème de la connaissance et celui de la vie. Le Retour n’est «que» l’une des formes hypothétiques ou expérimentales d’un exercice ou ascèse de la pensée et de la vie philosophiques en vue de répondre au problème de l’éternité.»  (Soit dit en passant, je ne vois pas en quoi l’éternité est un problème. C’est au contraire son impossible absence qui en serait un). Cette tentative de «justification» intéressante et astucieuse de l’absurdité fondamentale de l’Éternel Retour ne saurait pourtant remplacer la vérité toute nue : Nietzsche a lui-même donné congé à sa vision première de ce Retour sempiternel et illogique. A la décharge de tous ceux qui l’ignorent (et qui sont trop pauvres en intuition philosophique pour découvrir cela par eux-mêmes), il est vrai qu’il ne l’a fait qu’en une seule courte phrase, alors qu’il avait consacré des pages et des pages à vanter sa «vision» de 1880. 


Toutefois je m’étonne que Dorian Astor, qui a manifestement lu et relu toute l’oeuvre de Nietzsche avec grande vigilance, autant que moi-même s’il se peut, n’ait pas relevé la dénégation nietzschéenne de l’Éternel Retour. Aurait-il négligé la correspondance avec Peter Gast, le grand ami et confident de Nietzsche ? J’ai peine à le croire. A moins qu’il n’ait pas osé diffuser cette révélation capitale ? Car l’on a tant glosé sur cet impossible Retour depuis un siècle et sur toute la planète que cette révélation tardive causerait une véritable secousse sismique dans le landerneau universitaire, où l’éternel retour de l’Éternel Retour constitue en quelque sorte la rente viagère des cerveaux dévitaminés. Il n’y a donc probablement qu’un chien fou de mon espèce qui soit capable de jeter un tel brûlot dans les cimetières de la culture.


Dorian Astor, Nietzsche. La détresse du présent, Collection Folio essais (n° 591), Gallimard 10,20 € . 

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lance348-1338573363.jpgPierre Lance fut en 1969 le fondateur de la «Société Nietzsche», qui publia jusqu’en 1977 la revue «Engadine». Il est l’auteur d’une vingtaine d’ouvrages, dont notamment «Charles de Gaulle, ce chrétien nietzschéen» (1965, épuisé), «Au-delà de Nietzsche» (1976, réédité en 1992, épuisé), «En compagnie de Nietzsche» (recueil d’articles, 1991) et «Le Fils de Zarathoustra» (Editions Véga-Trédaniel, 2006). Il publie actuellement un billet quotidien abordant tous les sujets sur le site www.nice-provence.info.

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dimanche, 30 août 2015

Sombart und das „ökonomische Zeitalter”

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Sombart und das „ökonomische Zeitalter”

von Carlos Wefers Verástegui

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Der Nationalökonom und Soziologe Werner Sombart war nach Karl Marx und noch vor Max Weber der erste begriffsprägende Erforscher des modernen Kapitalismus.

Beinahe alles, was wissenschaftlich zu diesem Thema geliefert wird, fußt direkt oder indirekt auf Sombarts Ringen, Wesen, Werden und Gestalt des Kapitalismus zu erfassen. Heute ist der Begriff „Kapitalismus“ zu einem Allgemeinplatz verkommen, dem man Sombarts unermüdliches Streben um Klärung nicht mehr ansieht.

Ein „Wegbereiter des Nationalsozialismus“?

Obwohl Sombart sich eine ihn auszeichnende Unabhängigkeit als Kritiker der Zeit zu bewahren wusste, sind seine Zurechnung zur „Konservativen Revolution“ sowie seine in offene Opposition endende Tuchfühlung mit dem Nationalsozialismus seinem menschlichem und wissenschaftlichem Erbe zum Verhängnis geworden: Als „Wegbereiter des Nationalsozialismus“ – eine Brandmarkung, die Wesen und Werk dieses außergewöhnlichen Menschen nicht gerecht wird – ist Sombarts verdienstvoller Name für alle Zeiten kompromittiert.

Dabei sind seine wissenschaftlichen Vorschläge und Forschungsergebnisse von ungebrochener Aktualität. Sombarts Analyse, sowohl des Kapitalismus als auch des Sozialismus, führte ihn nämlich zur Darstellung des „ökonomischen Zeitalters“, welches (immer noch) das unserige ist.

Wissenschaftler und Konservativer

Dass Sombarts Ausführungen gegenüber denen Webers ins Hintertreffen geraten sind, liegt nicht zuletzt an Sombarts eigner geistiger und politischer Entwicklung, die nicht nach dem Geschmack unserer auf politische Makellosigkeit versessene Gegenwart ist: Ausgehend von der Historischen Schule der Nationalökonomie stand Sombart in seinen Anfängen unter dem Einfluss des Marxismus, zu dessen Revisionismus er entscheidend beitrug.

In den Jahren nach dem Ersten Weltkrieg wandte sich Sombart vom „proletarischen Sozialismus“, wie er den Marxismus später nannte, ab, um schließlich in der Sozialwissenschaft einen betont „geistwissenschaftlichen“ Standpunkt zu vertreten. Auch politisch tat sich die Abkehr vom Marxismus in einem zunehmenden Konservatismus kund, der Sombart methodisch wie menschlich in die Nähe Othmar Spanns brachte.

Von diesem unterschied sich Sombart allerdings im Temperament durch größere Gelassenheit und feine Ironie. Auch aus Sombarts Eintreten für eine strikte Trennung von Wissenschaft und Metaphysik ist, trotz seiner Anknüpfung in einigen Punkten an Spanns Ganzheitslehre, ganz klar seine persönliche Unabhängigkeit und Gelassenheit als Wissenschaftler zu erkennen.

Zersetzung der mittelalterlichen Einheit und bürgerlicher Geist

In Auseinandersetzung mit einseitigen materialistischen, ökonomischen, sowohl „bürgerlichen“ als auch „sozialistischen“, naturalistischen Interpretationen, erkannte Sombart die geistigen Grundlagen des ökonomischen Zeitalters: Das Aufkommen der spezifisch „modernen“, westlichen (im Gegensatz zur deutschen), nominalistisch-​naturalistisch-​naturwissenschaftlichen Denk– und Betrachtungsweise der gesellschaftlich-​geschichtlichen Welt.

Nach Sombart, der hier Max Scheler folgt, wurde diese „Verweltlichung“ des Wertens und Wissens in der modernen Weltanschauung durch die Zersetzung der auf Transzendenz, überpersönliche Verbände und (geistige) Gemeinschaften gerichteten „organischen“ Kultur des Mittelalters bewirkt. Dieser Entwicklung entspricht wissenssoziologisch der, nach Sombart unter jüdischem Einflusse zu Stande gekommene „bürgerliche Geist“ mit seiner vornehmsten Schöpfung, dem neueren individualistischen Naturrecht.

Die Rolle der „Volksgeister“

sombart344_BO1,204,203,200_.jpgWiewohl Sombart überhaupt den Einfluss eines säkularisierten Judentums für das Aufkommen von Kapitalismus und Sozialismus hoch anschlägt, so führt er doch nie beide kausal, d.h. schlechthin auf das Judentum zurück. Nur sei das spezifische Gepräge des modernen Kapitalismus wie des modernen Sozialismus „den Juden“ bzw. dem „jüdischen Geist“ zu verdanken, wobei Sombart übrigens letzteren – wie überhaupt alle „Volksgeister“ – von seiner leibseelischen Grundlage für ablösbar und sogar für übertragbar hält.

In diesem Sinne äußert sich Sombart des Öfteren über den „westlichen Geist“, der sich im deutschen Sprachraum betätigt, bzw. über den Unterschied eines „deutschen Denkens“ zum „Denken der (einzelnen) Deutschen“ – eine Unterscheidung die, zugespitzt im „Proletarischen Sozialismus“ (1924), beim französischen liberalen Soziologen Raymond Aron Befremden erzeugte.

 Das „ökonomische Zeitalter“

Die „Zersetzung des europäischen Geistes“ sowie die Anschauungen eines jede Transzendenz verneinenden sozialen Naturalismus brachten Ende des 18. Jahrhunderts schließlich den „ökonomischen Geist“ mit dem dazu gehörigen alleinigen Wertmaßstab des Ökonomischen hervor. Obwohl das ökonomische Zeitalter durch den Kapitalismus erst so richtig eingeläutet wurde, beschränkt es sich mit Nichten auf kapitalistische Grundlagen und Kulturphänomene:

Die Maßlosigkeit, die kindliche Begeisterung aller von unternehmerischem Geist angesteckten Menschen für Größe und Schnelligkeit und überhaupt „Entwicklung“, die Neuerungssucht, bezeichnen den verflachenden, seelisch vertrockneten und in seinem Gemüt verkrüppelten repräsentativen Typus dieses Zeitalters. Kapitalismus und Sozialismus verneinen die den Menschen haltgebenden, altüberkommenen sozialen Gebilde und Ordnungen, beide sind an der Entgottung der Welt und an der ökonomischen Ent– und Umwertung gleichermaßen beteiligt.

Politisch wirkt sich das in einer Indifferenz des Ökonomischen gegenüber den Staatsformen aus. Es wird nämlich grundsätzlich diejenige bevorzugt, in der es mehr zum Tragen kommt, und das können jeweils sehr verschiedene Regime sein. „Demokratie“ im ökonomischen Zeitalter bedeutet z.B. für Sombart deshalb lediglich die „Legalisierung des Kuhhandels“ zu Gunsten des Ökonomischen bzw. daraus abgeleitet, des industriellen Verbandswesens oder politischer Cliquen.

Sinnlosigkeit der ökonomischen Existenz

Wichtiger als die Darstellung politischer Zustände ist Sombart die „Anthropologie“ des verwirtschaftlichten Menschen. Stumpf gegenüber allen höheren Werte und Seinsformen, ist sein Dasein in seiner Ergriffenheit von technischem Fortschritt und Wirtschaftsbilanz ein sinnloses. Dafür ergötzt sich der moderne Mensch an vor allem sportlichen Wettkämpfen („Sportismus“), überhaupt begehrt er Kollektivvergnügungen und allerlei technische Spielereien, die sein Leben bequemer, unterhaltsamer und angenehmer machen sollen. Sombart sieht die Menschen einem „praktischen Materialismus“, dem Komfortismus ergeben, der „den ganzen Volkskörper zum faulen bringt“.

Der Komfortismus vereinheitlicht die an sich schon angeglichenen Menschen nur noch mehr, so dass Kapitalist und Sozialist, arm und reich, klug und dumm, Fachmensch und Ungelernter nur verschiedene Seiten eines einzigen öden Menschentums bezeichnen. Weltanschaulich steht diesem Krüppel die Naturwissenschaft mit ihren für das praktische Leben zu Erfolgen münzenden Erkenntnissen zur Seite. Dadurch werden auf der einen Seite Stumpfsinn und Unglaube gefördert bei gleichzeitiger Überintellektualisierung, auf der anderen aber die Fähigkeit vernichtet, sich Urteilen aus zweiter Hand zu erwehren.

Vorläufer der Postmoderne?

Aus dieser Analyse des Menschen des ökonomischen Zeitalters wird ersichtlich, wie flüssig der Übergang von Kapitalismus zu Sozialismus, im Gegensatz zur Klassenkampftheorie von Marx, ist. Ebenfalls nimmt Sombart die Diagnose späterer Kritiker des „social engineering“ und „social management“ vorweg. In seinem wissenssoziologischen Aufsatz „Weltschauung. Wissenschaft und Wirtschaft“ (1938) übertrifft Sombart an Klarheit und Weite der Problemstellung den Philosophen der Postmoderne, Jean-​François Lyotard: In der Nachforschung der Frage, welchen Stellenwert das Wissen bzw. die Wissenschaft in der Gesellschaft hat, und welches ihr „Wesen“ ist, ist Lyotard Sombart gegenüber als ein Verspäteter zu bezeichnen.

Ein hervorstechender Zug in Sombarts Arbeiten ist die pädagogische Sorge und Behutsamkeit, mit der er sich vor allem an die (akademische) Jugend wendet. In diesem Sinne wies er wiederholt auf die „Unhaltbarkeit der älteren liberalistischen Theorie“ hin, da ja die ökonomische Realität diese längst eingeholt habe. Deshalb warnte Sombart schon früh vor einem wissenschaftstheoretischen Rückfall in den Liberalismus: Die bloße Gesinnung und Oppositionsstellung der jungen Generation reiche bei Theorielosigkeit, dem Ausbleiben einer längst notwendigen Wissenskultur, vor allem bei fehlender eigener methodologischer Forschung nicht aus, dem theoretisch wohlgerüsteten dastehenden Gegner, dem Neoliberalismus, Einhalt zu bieten.

Diese Worte Sombarts nehmen sich nach fast achtzig Jahren wie eine düstere Prophetie aus, denn sie betreffen nicht nur Sombarts Fachgebiet, sondern das gesamte kulturelle Leben, die gesamte Bildungsarbeit. Schließlich sind sie immer noch vom Wirtschaftlichen her bestimmt und stehen ohne eigenes Statut, im kultur– und bildungslosen Raume da.

samedi, 29 août 2015

Sexualités d'aujourd'hui et de demain

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Sexualités d'aujourd'hui et de demain

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Une frustration sexuelle très ancrée

Impossible de ne pas constater qu’on fait face, à notre époque, à un très grave et très sérieux problème autour de tout ce qui touche au sexe et à la sexualité. C’est le règne de l’image et de l’esbroufe. On affiche partout des corps dénudés afin de vendre la moindre saloperie (cela va du shampooing au cinéma) et on affirme que la parole serait complètement décomplexée sur ces sujets. Sur la forme, c’est vrai, on n’entend parler que de triolisme, de sodomie et d’expériences homosexuelles à tester absolument. Mais sur le fond, c’est différent… Entre les témoignages incessants de personnes ou de stars qui auraient, disent-elles, une « vie sexuelle épanouie » et la pornocratisation de la société, on croirait naïvement que le sexe apporterait l’harmonie à tout un chacun alors que je suis certain qu’on a jamais aussi peu baisé qu’aujourd’hui... Entre les puceaux de 40 ans, les addicts au porno et les maris qui veulent tringler n’importe qui sauf leur femme devenue imbaisable à leurs yeux (Mesdames, un petit effort vous est tout de même demandé... Restez désirables SVP!) , on est servis ! Résultat: des tonnes de névrosés sexuels qui ne pensent qu'au sexe et qui imaginent, à tort, que tout le monde baise (sauf eux).  Eux aussi veulent obtenir une part de ce gâteau constitué d'images attrayantes, de filles faciles et de jouissance. Et pour les plus faibles d'esprit, les plus malades ou les plus pervers d'entre eux, tous les moyens sont bons!

La France: l'autre pays du viol?

Cette frustration sexuelle qui n’a jamais été aussi répandue qu’aujourd’hui explique une certaine partie des « Trente-trois viols [qui] sont déclarés chaque jour en France, soit un toutes les quarante minutes en moyenne ! ». Inutile de discuter des chiffres, on sait qu’ils sont bien plus élevés. Même nos chers médias, à l’image du Figaro qui a dévoilé tous ces chiffres, n’hésitent pas à écrire que les résultats cités plus haut ne représenteraient que moins de 10% du total car la plupart des cas ne sont jamais signalés… Et où y-a-t-il le plus de viols selon vous ? En Guyane, Martinique et Guadeloupe, suivis de près par Paris. Quelle surprise ! J’avoue avoir du mal à comprendre la corrélation qui existe entre ces charmants endroits, pas vous ? Je me lance quand même : un certain type de population qui a tendance à considérer les femmes, et surtout les blanches (qui sont toutes des salopes, merci le porno !) comme des objets ? Allez savoir… En tout cas, le taux de viols sur les mineurs ne fait qu'augmenter lui aussi, ce qui est là encore d'une logique imparable. Ils sont d'ailleurs assez souvent commis par d'autres mineurs car d'après la Brigade de Protection des Mineurs (BMP), à Paris, "un tiers des viols recensés sur mineurs est commis par un jeune âgé de moins de 18 ans". On commence très jeune au pays vous savez! Le "boss" de la BPM, Vianney Dyèvre, fait un constat (partiel) que l'on ne peut que partager: « L’accès à la pornographie est tellement facile que les jeunes prennent exemple de ces films dans leurs relations amoureuses au collège ou au lycée. » Evident! Ajoutez à cela l'importation (et la normalisation) de nombre de mœurs archaïques et exotiques où les femmes ne tiennent pas une place similaire à celle qu'elles ont, de base, en Europe et vous aurez tout compris... On lit encore dans le même article: "Les viols entre mineurs, concernant principalement les 12-18 ans, sont généralement issus de chantages. Victimes et bourreaux évoluent généralement dans la même sphère amicale ou scolaire. La menace d’une mauvaise « réputation » est souvent un argument de poids pour faire accomplir au souffre-douleur la tâche qui lui est demandée. Pour un téléphone ou pour éviter les rumeurs dégradantes, certains jeunes sont capables de céder. Pire encore, les victimes de ces viols ont tendance à minimiser les actes de leur(s) agresseur(s)." Inutile de lire entre les lignes, tout est clair. On parle bien ici majoritairement du viol de Blanches dans les territoires ethniquement perdus (ou non). Les Européens ne protégeant plus leurs femmes, les nouveaux arrivés se servent... On voit le même schéma se reproduire partout en Europe, il suffit de se renseigner sur ce qui se passe en Scandinavie où les chiffres sont effrayants!

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Du porno en niqab!

Pour contenter nos violeurs en herbe, qu’ils sachent que l’industrie pornographique reprend tout et sait s’adapter à son époque, le sexe étant devenu une marchandise soumise aux lois du marché et « sans frontières » suivant la logique libérale… S’ils veulent du porno en niqab, ils n’ont qu’à aller mater Women of the Middle East, de PornFidelity, qui « est le premier long-métrage porno centré sur le hijab et le niqab » nous apprend le site vice.com. Je vous ai d'ailleurs mis une image (en tête de cet article) pour que vous puissiez vous faire une idée de ce que Women of the Middle East vous propose. Peu respectueux de l’Islam, sans doute, mais on ne peut pas tout avoir…

Sexe virtuel VS sexe réel

On peut toutefois espérer !! D’avoir des relations sexuelles avec des robots par exemple ! Ça existe oui, comme ce robot dont parle Numerama « conçu pour masturber un usager équipé d'un casque de réalité virtuelle » ! Helen Driscoll, qui est maître de conférences en psychologie à l'université de Sunderland (Royaume-Uni) prédit ainsi que « dans quelques décennies, en tout cas avant la fin du siècle, il ne sera pas rare que des humains entretiennent des relations sexuelles avec des robots, voire tombent amoureux de leur partenaire artificiel. » Nombre de chercheurs se penchent sur le sexe virtuel et même Bill Gates a investi dans "un projet de « préservatif du futur » en hydrogel (un matériau biodégradable plus agréable que le latex), capable de délivrer des petites doses de Viagra et des stimulations électriques…" lit-on dans le Parisien... Qui s'émerveille: "Les dernières avancées techniques veulent révolutionner notre sexualité." A l'image des casques de réalité virtuelle qui permettront à tous et à toutes d'oublier leurs frustrations passées! En effet: « On pourra remplacer, en pleine action, le corps de notre partenaire par celui de notre acteur ou actrice préférée [...] On pourra aussi dupliquer notre partenaire, rejouer nos scènes préférées. Le potentiel est énorme ! Ce sera une nouvelle ère, où le sexe s’enrichira des possibilités infinies du réseau. » nous conte l'un de ces docteurs Maboul. Un futur qu'ils veulent nous construire où "Le sexe sera de plus en plus virtuel. Finis, la drague en boîte de nuit et les sites de rencontres, le jeu de la séduction se fera à distance, au cœur d’univers générés par ordinateur dans lesquels nous naviguerons." Un univers virtuel basé sur la prédominance de la technique sur l'humain devenu un simple individu gris, interchangeable et isolé. Un individu qui aura perdu tout lien avec son identité et la réalité. Un esclave parfait contrôlé par le marché et des pulsions sexuelles virtualisées qu'il assouvira avec des robots créés à cet effet...

Avant de se marier avec eux ? Ce que David Levy (non, je n’ai pas trafiqué le nom), chercheur rattaché à l'université de Maastricht, ne prend pas à la légère. Selon lui, les rapports hommes-robots vont «  conduire tôt ou tard à se poser la question de la possibilité de légaliser le mariage humain-robot en 2050. »… Nous y voilà !! 

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Les robots s’installent !

Si vous vous mariez avec un robot, vous aurez au moins la certitude que votre conjoint aura un emploi ! D’après une étude du Journal du Dimanche (source), « les robots seraient responsables de la suppression de 3 millions d'emplois en France, d'ici à 2025 en raison de 20% des tâches devenues automatisées. Ainsi, "le taux de chômage en pertes brutes s'élèverait à 18%". »… « Le bâtiment, l'industrie, l'agriculture, l'administration publique, l'armée, la police et le service aux entreprises devraient être particulièrement touchés » lit-on encore et "les classes moyennes, y compris les classes moyennes supérieures" devraient être les plus exposées. Cependant, on nous promet 500.000 nouveaux emplois mais aussi « 30 milliards d'euros (recettes et économies) [qui] seraient engrangés et 13 milliards d'euros de pouvoir d'achat [qui] seraient libérés (en dividende et baisse de prix) ». Champagne quand même et puis, si on peut en plus se taper ou se faire branler par des robots, je crois qu’on n’aura pas perdu au change ! Vivement, hein ?

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Restez connectés!

En attendant de vous taper des robots hyper sexy à l'image de la nouvelle égérie du C.N.C. visible plus haut, vous pourrez toujours vous satisfaire de votre Iphone qui est l'alpha et l'omega de la vie moderne. En Allemagne, pays où les mœurs sexuelles sont encore plus "libérées" que chez nous, vient de paraître une version test d'une application à la Uber mais version sexe. Voyez donc à quel point votre Iphone va devenir encore plus important pour vous grâce à l'application Ohlala (!!!) qui "permet en quelques clics de « tirer son coup » avec des particuliers. L’utilisateur indique sa localisation, ses horaires, la prestation souhaitée et le prix qu’il est prêt à payer. Cette demande est alors transmise aux filles de joies en herbe, elles peuvent accepter ou refuser l’offre. Si l’une des candidates est partante, le client et la prestataire seront alors mis en relation pour se donner rendez-vous…". Génial, non? La fille du dessus chez toi tout de suite! Manque plus qu'à savoir si l'AppStore acceptera cette application... Priez mes amis! Et espérons qu'Ohlala ne discriminera pas nos amis robots!

Rüdiger / C.N.C.

Note du C.N.C.: Toute reproduction éventuelle de ce contenu doit mentionner la source

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vendredi, 28 août 2015

Le théorème irrésolu de Pier Paolo Pasolini

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Le théorème irrésolu de Pier Paolo Pasolini

par Patrice-Hans Perrier

Ex: http://www.dedefensa.org

La figure iconoclaste du cinéaste italien nous interpelle en cette époque de soumission et de trahisons multiples. Nous avons décortiqué les derniers écrits polémiques de Pasolini publiés sous le titre d’« Écrits corsaires » (*). Déjà, au beau milieu des années 1960, ce dernier avait compris que la Société de consommation était un fascisme en état de gestation. Nous nous débattons, quarante années après son assassinat, dans les méandres d’un véritable Léviathan qui achève de consommer ce que nous avions de plus précieux : notre innocence.

Fasciné, très tôt, par la culture populaire des bidonvilles et des banlieues ouvrières de l’après-guerre, le cinéaste Pier Paolo Pasolini prendra la relève du néoréalisme italien en travaillant la pellicule sur un mode à mi-chemin entre le documentaire et la fable surréaliste. Reprenant les canons esthétiques du néoréalisme, Pasolini termine en 1962 un film poignant intitulé Mamma Roma. Mettant en scène une Anna Magnani qui deviendra son égérie, et une source d’inspiration pour d’autres cinéastes prometteurs, le metteur en scène brosse un tableau saisissant des faubourgs de la Ville éternelle. Jeune quarantenaire, Pasolini aborde, finalement, le cinéma à la manière d’un écrivain et d’un sociologue qui a vécu « pour de vrai » auprès des classes défavorisées de l’Italie de l’après-guerre.

Praticien d’un « cinéma-vérité » proche de la tradition documentaire, Pasolini capte l’ambiance extraordinaire des bas-fonds romains en faisant déambuler son personnage principale – une prostituée qui tente de fuir son inhumaine condition – dans les alentours du Parc des aqueducs et de l’aqueduc de l’Aqua Claudia. Cet opus cinématographique inaugure une pratique qui deviendra sa véritable signature : filmer le plus possible les décors naturels de la cité et mettre en scène des figurants qui ne sont pas des professionnels du septième art. Tourné en noir et blanc, Mamma Roma ressemble à une véritable plongée au plus profond de l’existence quotidienne de ce « petit peuple » qui n’est déjà plus qu’un lointain souvenir.

Ecrits-corsaires_1057.jpegLe témoin oculaire d’une époque de transition

« … la société de consommation de masse, en recouvrant artificiellement le tissu vivant de l’Italie par un ensemble insipide et uniforme de valeurs pragmatiques propres à l’idéologies du « bien-être », a littéralement étouffé l’identité du pays, a broyé dans une même machine imbécile de normalisation tous les particularismes culturels, les « petites patries » et les mondes dialectaux de la campagne italienne, jusqu’à modifier moralement et même physiquement le paysan pauvre … »

Pier Paolo Pasolini, in « Écrits corsaires – Scritti Corsari »

Artiste manifestement en porte-à-faux face aux élites de son époque, Pasolini tente de témoigner du délitement des anciennes cultures populaires au profit de l’impérialisme de cette société de la consommation qui ne tolère plus aucune forme de dissidence. Militant communiste de la première heure, pourfendant les nostalgiques de l’ancien régime fasciste, le bouillant polémiste refuse de basculer dans le « camp du bien » représenté par un gauchisme à la mode qui fera, de plus en plus, le jeu du grand capitalisme international. Réalisant que la démocratie-chrétienne d’après-guerre sert toujours les mêmes intérêts qui contrôlaient les fascistes de l’ère mussolinienne, Pasolini tente de cerner avec une précision sans faille la transition qui s’est amorcée durant les « trente glorieuses » (1945 – 1975).

Le portrait de cette période de transition est loin d’être reluisant. Pendant que la masse des anciens prolétaires, comparés à des « néo-bourgeois », se laisse embrigader par la société de consommation, un véritable pouvoir occulte tisse sa toile et provoque des crises artificielles qui auront pour effet d’accélérer la transformation en profondeur de la société italienne. Les élites aux manettes utiliseront une « stratégie de la tension », savamment dosée, afin de mettre en scène ses troupes de choc. Cette montée en crescendo de la tension atteindra son point culminant avec l’attentat terroriste de la gare de Bologne en 1980. Ce qui constitue un des attentats terroristes les plus meurtriers du XXe siècle aura des conséquences considérables sur les futures orientations de la vie politique en Italie.

Pier Paolo Pasolini sera, envers et contre tous ses détracteurs, l’observateur lucide et prophétique d’une époque charnière qui peut se comparer à celle qui fut le théâtre de la dissolution du gaullisme en France. Pasolini décrypte, avec plusieurs coups d’avance, la mutation de l’ancien monde paysan et patriarcal vers une société de consommation qui permet d’agréger les citoyens au sein d’une « internationale » néolibérale qui ne dit pas son nom. Parlant de la démocratie-chrétienne, il souligne que « bien que ce régime ait fondé son pouvoir sur des principes essentiellement opposés à ceux du fascisme classique (en renonçant, ces dernières années, à la contribution d’une Église réduite à n’être plus qu’un fantôme d’elle-même), on peut encore très justement le qualifier de fasciste. Pourquoi ? Avant tout parce que l’organisation de l’État, à savoir le sous-État, est demeurée pratiquement la même; et plus, à travers, par exemple, l’intervention de la Mafia. La gravité des formes de sous-gouvernement a beaucoup augmenté ». Faisant allusion aux lobbys de l’ombre qui poussent leurs pions, Pasolini se rapprochait des conceptions actuelles qui ont trait à l’« État profond » et autres réseaux de gouvernance « occulte » ayant fini par court-circuiter l’appareil d’état.

Quand le discours des politiques sonne faux

Profondément influencé par la pensée critique d’Antonio Gramsci – un théoricien marxiste qui mettra de l’avant le primat de l’ « hégémonie culturelle » comme moyen central de maintien et de consolidation de l’appareil d’état dans un monde capitaliste –, Pasolini réalise que les élites italiennes aux commandes utilisent un discours politique caduc. Manipulant des concepts qui avaient leur raison d’être avant la Deuxième guerre mondiale, la classe politique italienne se comporte en véritable somnambule, incapable de comprendre ce qui se trame derrière la scène. La dislocation des anciens lieux de reproduction des habitus socioculturels et religieux semble avec été provoquée par la mutation d’un capitalisme qui ne se contente plus d’exploiter les masses.

Il s’agit de transformer les citoyens en consommateurs dociles, sortes de citadins décervelés qui ont perdu la mémoire. Chassés de leurs anciens faubourgs, relocalisés dans des banlieues uniformes et grises, les nouveaux citoyens de la société de consommation ne possèdent plus de culture en propre. Il s’insurge contre le fait qu’«une telle absence de culture devient [devienne], elle aussi, une offense à la dignité humaine quand elle se manifeste explicitement comme mépris de la culture moderne et, par ailleurs, n’exprime que la violence et l’ignorance d’un monde répressif comme totalité».

Le délitement de l’ancienne société

Pasolini s’intéresse à cette perte des repères identitaires qui finit par gruger les fondations d’une société déshumanisée par le passage en force du nouveau capitalisme apatride des années d’après-guerre. Il n’hésite pas à parler de « révolution anthropologique » et va jusqu’à affirmer « que l’Italie paysanne et paléo-industrielle s’est défaite, effondrée, qu’elle n’existe plus, et qu’à sa place il y a un vide qui attend sans doute d’être rempli par un embourgeoisement général, du type que j’ai évoqué … (modernisant, faussement tolérant, américanisant, etc.) ». À la manière des précurseurs du cinéma-vérité et documentaire québécois, Pier Paolo Pasolini filme, enregistre et consigne les derniers sédiments d’une société archaïque en voie de dissolution. Pris à parti, dans un premier temps, par les ténors de la droite, ce créateur iconoclaste finira par s’attirer les foudres de l’intelligentsia au grand complet.

Pier-Paolo-Pasolini_2822.jpegUn humaniste dégouté par la violence ordinaire

Il est impératif de lire (ou de relire) ses « Écrits corsaires » qui rassemblent un florilège de ses meilleurs pamphlets et autres écrits polémiques. Démontrant une intelligence critique sans pareil, Pasolini demeure un véritable hérétique qui n’a jamais baissé le ton fasse aux trop nombreuses impostures d’une intelligentsia, de droite comme de gauche, corrompues jusqu’à la moelle. Militant communiste, non-croyant et anticonformiste, il se désole, néanmoins, de la disparition de cette foi catholique qui représentait un des « relais » de l’authentique culture populaire. S’il s’est élevé contre le pouvoir démagogique des autorités ecclésiastiques et politiques de l’ancien régime, il admet que celui de la nouvelle classe technocratique est encore plus effrayant.

Il tente d’esquisser le profil de cette hyper-classe mondiale qui s’est installée à demeure depuis : « Le portrait-robot de ce visage encore vide du nouveau Pouvoir lui attribue des traits « modernes » dus à une tolérance et à une idéologie hédoniste qui se suffit pleinement à elle-même, mais également des traits féroces et essentiellement répressifs : car sa tolérance est fausse et, en réalité, jamais aucun homme n’a dû être aussi normal et conformiste que le consommateur; quand à l’hédonisme, il cache évidemment une décision de tout pré-ordonner avec une cruauté que l’histoire n’a jamais connue. Ce nouveau Pouvoir, que personne ne représente encore et qui est le résultat d’une « mutation » de la classe dominante, est donc en réalité – si nous voulons conserver la vieille terminologie – une forme « totale » de fascisme ».

Plus que jamais d’actualité, le vibrant témoignage de Pier Paolo Pasolini interpelle ceux et celles qui ont à cœur de refonder les agoras de nos cités prises en otage. Ses écrits polémiques, ses films et sa truculente poésie sont encore accessibles. Mais, pour combien de temps encore ?

Patrice-Hans Perrier

Notes

(*) Écrits corsaires – Scritti corsari, une compilation de lettres brulantes mise en forme en 1975. Écrit par Pier Paolo Pasolini, 281 pages – ISBN : 978-2-0812-2662-3. Édité par Flammarion, 1976.

lundi, 24 août 2015

Jan Marejko: Résister?

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Résister?

Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste
 

Ex: http://www.lesobservateurs.ch 

Autour de moi des amis dépriment. Ils voient l’Europe et l’Occident incapables de résister. Incapables de résister à l’Islam, incapables de résister à Poutine, incapables de résister au mariage gay. Partout règne le sentiment que nous sommes emportés par un boueux tsunami qui renverse toutes les frontières. Frontières entre pays. Frontières entre les sexes. Frontières entre le bien et le mal. Et partout j’entends comme un cri plaintif : pourquoi n’arrivons-nous plus à résister ?

Mais dans le fond, faut-il résister ? Pourquoi ne pas se laisser emporter par ce boueux tsunami ? Et puis résister, cela servirait-il à quelque chose ? A quoi bon s’agiter ?

Ou alors, faut-il résister en s’élançant vers un nouveau monde, en laissant derrière soi le vieux monde, l’obscurité, l’ennui des dimanches sans fin, ces propos qui s’allongent dans une infinie insignifiance. Courir avec des camarades vers un nouveau monde, quelle joie !  Ce serait une rupture profonde avec le quotidien, une Révolution pour tout dire. Comme on y a cru ! Et comme on s’est trompé ! Du quotidien, de l’histoire, de la lourdeur des jours, on ne se dégage pas facilement.

Nonobstant, le mythe de la révolution a fasciné pendant deux siècles. Aujourd’hui, au 21e siècle, nous assistons au chant du cygne de ce mythe. Lors du Printemps arabe et à Maïdan on aura psalmodié les dernières strophes de ce chant. Il a été entonné avec d’autant plus de ferveur que, dans le fond, on n’y croyait plus. Aujourd’hui, nous savons qu’une révolution, c’est des lendemains qui tuent, enferment, exterminent.

La modernité aura oscillé entre la gestion du quotidien et de fervents élans vers une terre promise pour échapper à cette gestion. Or, il est impossible d’échapper à cette gestion de cette manière, car toute révolution produit une réaction qui produit elle-même une nouvelle révolution et ainsi de suite à l’infini. Ce n’est pas ainsi qu’on sort du cours des choses, de la prose de l’histoire.

Première conclusion : la révolution s’inscrit elle-même dans ces eaux boueuses de l’histoire qui ne conduisent finalement nulle part. Elle aura été le miroir aux alouettes de ceux qui ont cru qu’on pouvait avoir le beurre et l’argent du beurre. On ne peut pas à la fois s’élancer vers une terre promise et, en même temps, améliorer la gestion de sa petite vie.  C’est l’un ou l’autre. Il faut choisir.

Les révolutionnaires lisaient avec passion les journaux. Ils voulaient voir l’actualité nous amener vers cet autre monde auquel nous aspirons. Ils se trompaient. L’actualité est finalement un triste manège qui tourne en rond, « revolves around itself », dirait-on en anglais pour mieux marquer que révolution (revolve) renvoie à un cycle ou un cercle. Il n’y a et il n’y aura jamais coïncidence entre l’autre monde auquel nous aspirons et la roue du quotidien. Cette  roue continuera à tourner. Quoi qu’il arrive ici-bas, ce ne sera jamais un prélude à de lumineux lendemains. Telle est la leçon à tirer de deux siècles d’espoirs révolutionnaires. Ils étaient creux, ces espoirs, et n’ont rien produit. Pire ! Ils ont produit des horreurs.

Deuxième conclusion : ce n’est pas en devenant révolutionnaire qu’on résiste. Toute révolution ne fait que laisser encore plus le champ libre au boueux tsunami de l’histoire.

Alors comment résiste-t-on ? Faudrait-il renoncer à tout engagement et suivre Platon hors de la caverne du monde par le suicide ou la méditation ?

Ce ne serait pas une mauvaise chose que la méditation, au moins dans un premier temps. Ne sommes-nous pas tous fatigués et exaspérés par ces plans de redressement pour la croissance, la paix dans le monde, un meilleur climat ?  Au lieu d’un énième programme de changement, osons la retenue, un temps d’arrêt, une inspiration, qui mettraient quelque chose du ciel dans nos actions. Car ce qui est déprimant, dans nos efforts, aujourd’hui, est qu’ils sont désespérément horizontaux, proviennent de nos bas horizons et nous y ramènent.

La première forme de résistance consiste donc à ne pas répondre, lorsqu’on nous demande ce que nous proposons pour l’avenir. Fermons nos visages devant tous ceux qui nous invitent, sourire aux lèvres, évidemment, à participer à cette grande course pour le progrès qui s’achève dans le néant. Alors, peut-être, la chance nous sera-t-elle donnée d’accueillir un souffle venu d’ailleurs et qui gonflerait enfin nos voiles pour sortir du port de nos petites concoctions intellectuelles.

C’est par là que commence la résistance : le silence, le recueillement, la méditation. J’entends déjà des commentaires sarcastiques. « Comme il est nase ce type ! Il ne nous dit pas quoi faire ! » En fait, l’abruti, c’est celui qui attend qu’on lui dise ce qu’il faut faire.

Ne nous laissons donc pas impressionner ! La plupart de ceux qui ont changé le monde ont paru ridicules, insignifiants, incapables d’énoncer un programme. Le Christ devant Ponce Pilate, est resté muet. Il n’a rien expliqué, rien proposé, et ses disciples étaient très déçus par son impuissance devant les gladiateurs qui le fouettaient ou le ridiculisaient. Qu’il ait existé ou non, qu’il ait été fils de Dieu ou non, force est d’admettre qu’il a radicalement changé l’ordre des choses romaines et même humaines. A méditer !

Jan Marejko, 21 août 2015

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dimanche, 23 août 2015

De la tradition

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De la tradition

par Patrice-Hans Perrier

Ex: http://www.dedefensa.org

La tradition, à toutes les époques, représente la « substantifique moelle » de l’ethos collectif. On parle de la durée historique sur le « long terme », de la « mémoire collective » ou du rôle métahistorique des archétypes qui tiennent le rôle d’agrégateurs des mythes fondateurs de la cité. La cité représente l’ordre consensuel qui cimente les libertés individuelles dans un contexte où toute citoyenneté qui se respecte ne peut agir qu’à travers le consensus civique. La Charte de la cité est comparable à une forme de « pacte républicain » qui ordonnance un « vivre ensemble » qui, autrement, ne serait qu’une chimère en l’espèce. Toutefois, c’est la tradition, comme force dépositaire de la mémoire collective, qui donne sa raison d’être à la vie citoyenne. Privée de tradition, la cité est condamnée à se transformer en univers concentrationnaire.

La mémoire collective et ses enjeux

« Si cette volonté, cette injonction d’être moderne, ne cesse de bouleverser les conditions de la vie commune, de faire se succéder les révolutions aux révolutions, sans jamais parvenir à se satisfaire, sans jamais parvenir à un point où nous puissions nous reposer en disant : « voici enfin le terme de notre entreprise », si cette volonté ou cette injonction ne se saisit jamais de son objet, qu’est-ce que cela veut dire ? »

- Pierre Manent, in « Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident »

Cette perte des repères de la mémoire collective qui affecte nos sociétés occidentales postmodernes s’apparente, manifestement, à une fuite en avant mortifère. Et, nous l’observons tous les jours, cette fuite semble nous entraîner vers le gouffre abyssal d’une « antimatière historique », pour reprendre une catégorie conceptuelle mise de l’avant par Philippe Grasset. Nous serions entrés, d’après certains historiens, dans l’ère de la postmodernité à la suite de la Seconde Guerre mondiale. C’est donc dire que ceux qui ont le pouvoir d’écrire l’histoire ont décrété la fin de la modernité, c’est-à-dire le délitement de cette « époque des lumières » à l’intérieur de laquelle le « mythe du progrès » jouait un rôle d’agrégation et de consentement essentiel. Mais, vers où sommes-nous donc entraînés ?

Qu’il nous soit permis de reprendre une intervention d’Éric Basillais, un commentateur particulièrement actif sur le site Dedefensa.org. Ce dernier soulignait, à la suite d’un article intitulé « Vertigo », que « si subversion il y a, elle tient à un habitus Marchand (l'échange, la monnaie,...) dans un premier sens historique; et à une subversion du COSMOS (en CHAOS au final) si l'on songe (et croit) aux Eschatologies de la TRADITION (Hindoue, Germanique, Celtique...) ». À l’instar d’Éric Basillais, nous estimons que la tradition constitue, bel et bien, un processus métahistorique d’agrégation des cultures et des cultes, dans un sens fondateur. Ainsi donc, la TRADITION, peu importe les enjeux idéologiques ou spirituels, est le lit sur lequel prendra forme une nouvelle société, une nouvelle cité.

C’est par la médiation de la mémoire traditionnelle que s’accompliront la dissolution d’une cité et sa refondation dans un nouvel espace de représentation. La tradition est immémoriale, a-historique, indépendante des lectures orientées de l’histoire humaine et dépositaire d’une mémoire collective qui permet aux générations de se succéder en espérant pouvoir approfondir le legs de leurs géniteurs. La tradition, au sens universel, représente la mémoire de l’humanité, non pas un ensemble de prescriptions se rattachant à une culture en particulier.

C’est ce qui a poussé Mircea Eliade à professer que les rituels qui se répètent in illo tempore, en dehors de la contemporanéité, à une autre époque, permettent aux archétypes de survivre et d’irriguer la mémoire collective. Une mémoire collective correctement irriguée fera en sorte que les citoyens puissent approfondir leur passage en cette vie, donner un sens à leur existence. Pour paraphraser Eliade, on pourrait souligner que les places sacrées de la cité le deviennent parce qu’une collectivité y a accompli, sur le long terme, « des rites qui répètent symboliquement l’acte de la Création ». La tradition, si l’on approfondit cette vision des choses, est manifestement indépendante de l’« habitus Marchand », pour reprendre l’expression d’Éric Basillais. Voilà pourquoi l’« ordre marchand » tente de « liquéfier » nos sociétés postmodernes, pour que rien ne vienne entraver la libre circulation des commodités. Les commodités sont des valences qui permettent au pouvoir de dominer l’espace et le temps, d’acheter l’ « humaine condition » et de transformer la cité en univers concentrationnaire.

La TRADITION représente, pour l’imperium, l’ennemi numéro 1 à abattre, vaille que vaille.

Nous avons pris le parti de lancer un débat herméneutique qui portera sur le rôle de la TRADITION au cœur de la cité humaine. Ce mortier spirituel aura permis aux sociétés de s’ériger sur le mode d’une cité symbolique favorisant l’épanouissement de l’humanité en définitive. Toute société qui se coupe de la tradition est condamnée, à brève échéance, à se muer en univers concentrationnaire, à devenir l’« agora du chaos » [dixit PHP]. Loin de nous l’idée de perpétuer une vision nostalgique, pittoresque, de l’histoire. Il nous importe, a contrario, de partager avec nos lecteurs notre appréhension viscérale du délitement d’une tradition menacée par la vision luciférienne d’un « progrès illimité », véritable deus ex machina au service de la « volonté de puissance » de nos maîtres réels. En espérant qu’un authentique débat puisse naître à la suite de notre analyse.

Les fondations de la cité

« La cité, la polis, est la première forme politique. Elle est la condition de production ou la matrice d’une forme de vie nouvelle, la vie politique, la vie dans laquelle les hommes se gouvernent eux-mêmes et savent qu’ils se gouvernent eux-mêmes. Cette forme de vie peut prendre des formes diverses, car il y a différentes manières de se gouverner. »

- Pierre Manent, in « Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident »

Nous tenterons, malgré l’étendue du sujet, de cerner l’importance de la tradition comme source immémoriale. La cité grecque représentant l’apex de la médiation (politique) des rapports citoyens, elle nous sert de représentation symbolique d’un stade de gouvernance qui semble indépassable au moment de composer notre analyse. Mais, outre le fait qu’elle permette d’organiser la collectivité, qu’est-ce qui fonde la cité ?

Pierre Manent, chercheur en sciences sociales, nous rappelle que « les auteurs grecs (Aristote et consorts) n’ignoraient pas l’existence d’autres formes politiques que la cité, s’ils montraient peu d’intérêt pour elles. Ils connaissaient fort bien deux autres formes politiques au moins, à savoir la tribu – ethnos – et l’empire (en particulier l’empire perse qui s’imposa plus d’une fois à leur attention !). On pourrait ajouter une quatrième forme, celle des monarchies tribales… ». La nation, pour sa part, est une structure politique forgée tout au long d’une modernité qui allait tenter de fédérer des ensembles de cités qui, autrement, seraient condamnées à se faire la guerre. Les nations de la postmodernité tiendraient-elles le rôle des antiques cités ? Les nouvelles formes d’unions fédérales devenant le mortier de cette gouvernance mondiale tant abhorrée par ce qu’il est convenu d’appeler la « dissidence ».

Certains anarchistes, pour leur part, professent que la polis génère un état d’enfermement qui brime les droits fondamentaux de ses sujets au profit d’une concentration de pouvoir entre les mains d’une élite prédatrice. Leur vision d’une autogestion fédérée par une constellation de syndicats en interrelation dynamique nous fait penser au monde tribal des anciennes nations amérindiennes. Cette vision idyllique d’un univers tribal « non-concentrationnaire » ne semble pas tenir compte du fait que la guerre ait toujours été une condition naturelle de cet état d’organisation politique primitive.

La guerre permanente était, aussi, une condition naturelle inhérente au rayonnement de la cité grecque. Toutefois, comme le souligne Pierre Manent, «… le politique ancien est un éducateur inséparablement politique et moral qui s’efforce de susciter dans l’âme des citoyens les dispositions morales « les plus nobles et plus justes » ». Si la cité moderne a pacifié nos ardeurs guerrières, c’est l’appât du gain qui est devenu le modus operandi d’une politique qui revêt toute les apparences d’une médiation entre des intérêts financiers qui menacent la pax republicana. Pour simplifier, on pourrait dire que les philosophes étaient les politiques (politiciens) de l’antiquité, alors que les épiciers (pris dans un sens négatif) sont les politiques de la postmodernité.

Qu’est-ce qui fonde la cité ? C’est la famille; le récit de l’Iliade est sans équivoque sur la question. Lorsque le troyen Paris enlève la belle Hélène, il provoque la colère des Grecs et, de fil en aiguille, le siège de la ville de Troie se met en place sur la base d’une saga familiale. Ce sont les liens filiaux, en dépit des rançons exigées, qui sont en jeu et non pas une volonté de puissance automotrice. Toutefois, les héros de cette tragédie épique sont emportés par la folie de l’hubris et sont les auteurs de forfaits impardonnables. Un retournement de la destinée fera en sorte qu’Achille (le champion des grecs) finisse par céder aux supplications du roi Priam traversant les lignes ennemies pour réclamer la dépouille de son fils Hector. Il s’agit d’un moment-clef du récit construit par Homère. L’auteur y démontre que c’est en raison du respect de la filiation que les vainqueurs finiront par se montrer cléments.

Athena..jpgOn pourrait, facilement, opposer l’idéal de la cité (le rayonnement des familles patriciennes) à celui de l’imperium (le nivellement des citoyens afin qu’ils deviennent des sujets consentants). Que s’est-il passé, en Occident, pour que l’idéal de la cité finisse par imploser sous la pression d’un imperium protéiforme et « multicartes »?

Dominique Venner, historien français décédé en 2013, déplore, comme tant d’autres, cette perte de mémoire qui afflige nos élites intellectuelles (…) et il ne se gène pas pour pointer du doigt cette « métaphysique de l’illimitée » qui semble avoir fourni à l’imperium ses meilleurs munitions. Venner admire la sagesse antique des stoïciens qui s’appuyait, entre autres, sur le respect des limites qui sont imparties à la nature environnante. Il souligne, à l’intérieur de son dernier essai (*), que « la limite n’est pas seulement la frontière où quelque chose s’arrête. La limite signifie ce par quoi quelque chose se rassemble, manifestant sa plénitude ». Cette notion de borne, ou de limite, recoupe toute la question, combien controversée, des frontières, de l’identité et de la filiation. Dominique Venner rend justice à la contribution du philosophe Martin Heidegger, notamment pour son essai intitulé « Être et Temps », qui a su définir « le monde contemporain par la disparition de la mesure et de la limite ».

Le rituel de la consommation

Mais, comment sommes-nous passés d’une civilisation agraire, à l’écoute des rythmes de la nature, à cet espèce de VORTEX du commerce qui désintègre tous nos habitus, nos lieux communs? La mémoire collective se déploie sur le cours d’une histoire longue, elle consiste en une agrégation de rites qui fondent leurs pratiques sur des cités pérennes. Le commerce, a contrario, nécessite une fluidité constante, des flux tendus qui permettent de produire, écouler, échanger, retourner, recycler, détruire et recommencer le cycle de la production-consommation de manière quasi instantanée. Consommer c’est oublier qui nous sommes, puisque la marchandise impose son langage propre au sein de nos agoras qui sont devenues des places marchandes. Le commerce ne constitue pas un problème en soi; c’est son développement sans limites et son instrumentalisation au profil de la sphère financière qui blessent. Guy Debord, nous le répétons, n’aurait pas hésité à affirmer que « c’est la marchandise qui nous consomme » en définitive.

La consommation demeure le seul rituel toléré par l’ordre marchand. À l’instar de la marchandise qui se déplace, suivant les flux monétaires, nos habitudes de consommation sont instables, elles induisent des rituels qui ne sont fondés que sur des concepts arbitraires. Dans de telles conditions, la cité se dissout et, invariablement, les rapports citoyens se distendent. Curieusement, plusieurs grandes « marques » commerciales se sont glissées, tels des parasites, sous la dépouille de termes empruntés à la mythologie. Ainsi, les chaussures Nike ont été affublées du nom de la déesse grecque de la VICTOIRE (Niké). Idem pour les voitures Mazda, empruntant au dieu perse Ahura Mazdâ la prérogative d’être un « Seigneur de la Sagesse ». Les commodités du monde marchand se sont infiltrées à travers tous les pores de la cité, au point de permettre à la caste aux manettes d’investir nos repères symboliques afin de les récupérer.

Wall Street représente l’Acropole, ou cité des dieux. Les centres commerciaux tiennent la place de temples de la consommation. Les vendeurs ressemblent, à s’y méprendre, à des prêtres officiant au culte de l’achat compulsif et salutaire. Les marques affichées sur les bannières servent à nommer les divinités tutélaires de la cité marchande. Et, in fine, les logos commerciaux se sont substitués au logos, c’est-à-dire le discours de la raison des antiques philosophes. Les logos commerciaux nous propulsent en arrière, à l’époque des hiéroglyphes, en s’imposant comme « signes moteurs » de la communication. Il n’y a qu’à observer les nouvelles formes d’écriture tronquée utilisées pour transmettre des message-textes via nos téléphones « intelligents » pour comprendre l’étendu des dommages. De facto, on pourrait parler de « troubles moteurs » de la communication. Ainsi donc, c’est toute la syntaxe des rapports langagiers qui est déconstruite, déstructurée, au gré d’une communication humaine calquée sur celle des échanges marchands.

Le Léviathan de la sphère marchande

Qu’est-ce qui nous prouve que les fondations de la cité aient été pulvérisées par l’ordre marchand en fin de parcours ? Le fait qu’un ancien cimetière soit converti en centre d’achat, ou qu’une église désaffectée se métamorphose en édifice à condominiums, tout cela nous interpelle. Il n’est pas surprenant, dans un tel contexte, d’assister à la multiplication de profanations qui visent les cimetières, et autres nécropoles (cités des morts), où ont été enterrés nos ancêtres. Ceux et celles qui profanent et souillent les sites sacrées de nos cités dévoyées agissent au profit de l’ordre marchand. Il s’agit de banaliser, de néantiser, tous les lieux de la mémoire collectives qui conservent (pour combien de temps?) une part inviolable de cette tradition immémoriale. Lorsque certaines églises étaient érigées sur les décombres d’anciens sites de rituels païens, il ne s’agissait pas de souiller la mémoire collective en abrogeant la symbolique initiale des lieux. La tradition avait, donc, été respectée dans une certaine mesure. Le Genius loci (Esprit du lieu) n’avait pas été transgressé.

À l’heure du néolibéralisme, dans un contexte où de puissants intérêts privés investissent les espaces de la cité, tous nos rites immémoriaux sont menacés d’extermination. Enterrer ses morts constitue une pratique universelle qui aura contribué à façonner nos espaces collectifs. De nos jours, par soucis d’économie et au nom de la protection de l’environnement, nous utilisons la crémation (ici, nous ne remettons pas cette pratique en question) afin de faire disparaître toute trace du défunt et l’urne funéraire, posée tel un bibelot sur une console, a définitivement pris la place de la pierre tombale. Les morts n’ont plus droit de cité, ils sont devenus des itinérants, sans domicile fixe, qui, passant d’une main à l’autre, ne peuvent même plus reposer en paix ! Tout doit circuler dans le monde marchand. Même les morts …

Pierre Manent souligne, dans son essai intitulé « Les métamorphoses de la cité », que la caste des guerriers dans le monde de l’ancienne Grèce constituait le « petit nombre » des citoyens aux commandes de la polis. Outre leurs prérogatives guerrières, les patriciens s’adonnaient, aussi, au commerce qui permettait à la cité de s’épanouir en tissant des liens avec d’autres cités concurrentes. Maîtres du commerce, les patriciens ne possédaient pas de grandes richesses, hormis des propriétés terriennes et des titres se rapportant aux tombeaux des ancêtres. Il ajuste le tir en précisant que « le petit nombre était surtout propriétaire de rites – rites funéraires, rites de mariage –, tandis que le grand nombre n’avait que la nudité de sa nature animale. Le grand nombre était extérieur au genos, ou à l’ordre des « familles », comme plus tard l’étranger (métèque) « proprement dit » sera étranger à la cité ». L’auteur cerne, avec précision, la notion capiton de filiation, dans le sens d’une passation de prérogatives qui n’ont rien à voir avec une quelconque fortune personnelle. Nul de besoin, ici, de discuter (ou de nous disputer) des limites objectives de cette démocratie primitive limitée aux descendants (patriciens) d’une haute lignée. Le point de cette observation portant sur l’importance des rites funéraires dans le cadre d’une transmission de la mémoire collective, sorte de « génome » de la cité.

Les puissantes guildes marchandes de la Renaissance permettront au grand capital de circuler et de concurrencer le pouvoir tutélaire des patriciens. L’auteur Thomas Hobbes, dans son célèbre traité intitulé « Le Léviathan », oppose le droit naturel à un contrat social qui représenterait les fondations politiques de toute société évoluée. Une société où tout un chacun tire sur la couverture peut se désagréger sous l’effet délétère de la guerre civile et dégénérer en chaos. Rappelons que le terme Léviathan représentait le monstre du chaos primitif dans la mythologie phénicienne. C’est précisément la figure symbolique du chaos qui semble menacer une tradition par laquelle se fondent les « rapports citoyens durables ». Et, c’est la notion moderne de progrès illimité qui conforte toute la politique d’une sphère marchande emportée par un hubris sans vergogne. Pierre Hadot, un spécialiste cité par Dominique Venner, nous prévient que « le « oui » stoïcien est un consentement à la rationalité du monde, l’affirmation dionysiaque de l’existence dont parle Nietzsche est un « oui » donné à l’irrationalité, à la cruauté aveugle de la vie, à la volonté de puissance par-delà le bien et le mal ».

L’hubris au service d’une volonté de puissance démoniaque

Nous sommes rendus au terme de notre analyse critique et nous devons conclure, faute de temps et d’énergie. Qu’il nous soit permis de revenir sur cette notion d’« affirmation dionysiaque de l’existence » afin d’expliciter le rôle de la « contre-culture » au sortir de la Seconde Guerre mondiale. Prétextant une étape inévitable, au cœur d’un fallacieux processus de libération, les activistes à l’œuvre dans les coulisses de Mai 68 ont moussé l’« affirmation dionysiaque de l’existence » dans un contexte où l’« état profond » souhaitait accélérer le cours des choses. « Il est interdit d’interdire » deviendra l’antienne d’une communication au service de la dissolution des repères identitaires qui auraient dû, normalement, guider l’éclosion des forces vives du « baby boom » de l’après-guerre.

Jim Morrison, chantre emporté par un hubris débridé, déclame vouloir « faire l’amour à sa mère et tuer son père ». Brisant le tabou fondateur de la famille, unité de base de la cité, Morrison inaugure, tel un prophète de malheur, une nouvelle ère. Cette ultime provocation agira comme le « geste fondateur » d’une « rébellion sans cause ». La jeunesse paumée de l’Amérique se mettra à danser en solitaire dans les discothèques, en répétant, pour paraphraser le philosophe Michel Clouscard, la gestuelle d’une rébellion supposément révolutionnaire. Il s’agissait, pour dire vrai, de se mouler aux exigences de la nouvelle « société de consommation » afin d’épouser les gestes d’un automate programmé dans ses moindres affects par les « sorciers » de la « contre-culture ». Et, à coup de drogues de plus en plus dures, il sera possible de rendre amnésique la jeunesse pour qu’elle ne soit plus JAMAIS capable de renouer avec ses racines.

 

Patrice-Hans Perrier

Petite bibliographie

(*) Un samouraï d’Occident – Le Bréviaire des insoumis, une source de références incontournable achevée en 2013. Écrit par Dominique Venner, 316 pages – ISBN : 978-2-36371-073-4. Édité par Pierre-Guillaume de Roux, 2013.

(*) Les Métamorphoses de la cité – Essai sur la dynamique de l’Occident, une étude synoptique de l’histoire politique de l’Occident achevée en 2010. Écrit par Pierre Manent, 424 pages – ISBN : 978-2-0812-7092-3. Édité par Flammarion, 2010.

Western civilization is imploding

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Western civilization is imploding

by Brett Stevens

Ex: http://www.amerika.org

Over the generations, a sense of dread has been building: the observation that — despite some things which have improved — our society is heading downward. Its organization, or the pattern of how it holds itself together, is fraying. It is the death of the West.

We all make fun of the old guys who rail about how in their day the steaks were redder and the whiskey sweeter, but perhaps those were merely symbols for an ongoing decay in quality. Quality is measured by the experience as a whole, and not particular items that seem brighter and newer than others.

Over at The Mad Monarchist a new article gives voice to concern about the collapse of the West:

We are at or are fast approaching the point of critical mass for western civilization…The internationalists have the world firmly in their grip and with the United States circling the drain, western civilization is going the same way. Of course, all monarchists know that the USA was never a pure example of western civilization, it has never had any of the high culture of Europe but that is to be expected as it is a branch rather than the tree itself.

…The leaders of the EU have emasculated the countries of Europe to empower their central EU government while also making sure that Europe itself is never significant again. They are all part of the same internationalist clique. They don’t want any European country to be great because that would detract from the European Union and they don’t really want Europe to be great because they have nothing but contempt for European culture, European history and western civilization in general. Some actively want to destroy it while others are just looking out for themselves and willingly go along with those who do want to destroy it to further their own interests.

He makes excellent points and the following notions are designed to harmonize with those, not contradict them.

We do not get to a state such as our present condition without first having lost track of our future. Future is tied to past; past shows us not only what worked and what did not, but also who we are and from that, where we should be going. But that past was rejected in favor of egalitarianism during The Enlightenment™. Egalitarianism states that all people are equal, which means that the individual — not culture, values, philosophy, heritage or social order — determines the future. We base our decisions not on what has worked, or what would be good, but what individuals want to do. This creates a transition to a facilitative society.

Facilitative societies have many problems, but the two largest are the need for control, and the passivity of the population. When each person does whatever they want, there is no balance in social order nor is there a central idea to which people “harmonize” or find themselves in resonance with and attempt to fulfill. Morality would be one example of this type of order. Control in turn creates passivity. Citizens are accustomed to doing whatever they want unless stopped, but also become familiar with correction by their ideological leaders. As a result, they do not act toward any purpose, but instead flit around and do nothing of import unless explicitly told to do otherwise. The far extreme of this is what happens in authoritarian societies where people refuse to act unless commanded because the risks of unauthorized action are too great, and the state will step in at some point and tell them what to do anyway. Like children of an overbearing parent, they wait for this correction and achieve nothing in the meantime.

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Control-based societies become miserable places. As the 21st century has taught us, even when “free” and “tolerant” places they become tyrannical because those in power — or those who want to join them — must manufacture a constant series of ideological crises in order to keep motivating the population. A facilitative society has no objectives, therefore must style every change as a “war” or a defensive action. This self-pity mentality spreads to the population at large. Between the constant war for ideological clarity, and the general apathy of the population to everything else, decay results and the society plunges downward into a spiral of despair. Eventually it loses all social order and becomes a third-world style society, unable to organize itself to have public hygiene, rule of law, freedom from corruption and even social order itself.

The origin of this decay begins with egalitarianism (or “equality”) which is itself a form of individualism, or the demand by the individual that society support him in his choices without a corresponding investment by the individual in society. All of the subsidy states — socialism, communism, and even consumerism which is capitalism supported through low-return consumer purchases funded by state welfare programs — are based in this form of radical individualism. It comes about when societies become “bottom-heavy,” or have many individuals who know nothing about how to run a society who nonetheless demand participation in its decision-making. These individuals band together into a “Crowd,” and through a philosophy of Crowdism develop a sense of victimhood based in self-pity which spurs them to attack their society and convert it into a facilitative society.

Control then becomes required because facilitative societies are chaotic and individuals, acting on radical individualism, tend to externalize the costs of their actions to others. Conservatism arises as a resistance to this movement, but generally fails because its adherents are unable to articulate what they really need, which is an end to the facilitative society. Early experiments in liberalism in France and Russia showed how quickly revolutions turn to ideological enforcement, usually by inventing or discovering enemies, and from that to authoritarianism. Conservative experiments in using this force against liberalism, as seen in Italy and Germany, met with less than shining results because of the inherent control-tendencies of liberal society which prevented the restoration of organic culture.

Opposite the control-based facilitative society is the leadership-based society. This is part of what is called “tradition,” which is a way of viewing the world through both (a) realistic and (b) transcendental viewpoints. These aim to discover methods that work in the real world, but to point them toward “transcendentals” or eternal goals that can never be fully realized and thus can both harmonize and motivate a society without the war/victimhood narrative of egalitarian societies. In these societies, leaders do not “control” their population but actually lead it, meaning that they discover necessary tasks and keep people organized toward transcendental goals. Leadership societies have purpose, and as a result, in them people have roles in which they fulfill parts of the overall ongoing goal. Paul Woodruff refers to the basis of the glories of the past as “reverence,” or an awe and transcendental appreciation for our world, and this seems like an appropriate basis for the combination of strong cultural, religious and moral feeling that traditional societies have.

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Perhaps the best definition of tradition comes from Aldous Huxley, who wrote The Perennial Philosophy to detail what is present in such societies. He outlines a mixture of religion and philosophy that serves as a principle of social order and personal order simultaneously:

More than twenty-five centuries have passed since that which has been called the Perennial Philosophy was first committed to writing; and in the course of those centuries it has found expression, now partial, now complete, now in this form, now in that, again and again. In Vedanta and Hebrew prophecy, in the Tao Teh King and the Platonic dialogues, in the Gospel according to St. John and Mahayana theology, in Plotinus and the Areopagite, among the Persian Sufis and the Christian mystics of the Middle Ages and the Renaissance–the Perennial Philosophy has spoken almost all the languages of Asia and Europe and has made use of the terminology and traditions of every one of the higher religions. But under all this confusion of tongues and myths, of local histories and particularist doctrines, there remains a Highest Common Factor, which is the Perennial Philosophy in what may be called its chemically pure state. This final purity can never, of course, be expressed by any verbal statement of the philosophy, however undogmatic that statement may be, however deliberately syncretistic. The very fact that it is set down at a certain time by a certain writer, using this or that language, automatically imposes a certain sociological and personal bias on the doctrines so formulated. It is only the act of contemplation when words and even personality are transcended, that the pure state of the Perennial Philosophy can actually be known. The records left by those who have known it in this way make it abundantly clear that all of them, whether Hindu, Buddhist, Hebrew, Taoist, Christian, or Mohammedan, were attempting to describe the same essentially indescribable Fact.

The original scriptures of most religions are poetical and unsystematic. Theology, which generally takes the form of a reasoned commentary on the parables and aphorisms of the scriptures, tends to make its appearance at a later stage of religious history. The Bhagavad-Gita occupies an intermediate position between scripture and theology; for it combines the poetical qualities of the first with the clear-cut methodicalness of the second. The book may be described, writes Ananda K. Coomaraswamy in his admirable Hinduism and Buddhism, “as a compendium of the whole Vedic doctrine to be found in the earlier Vedas, Brahmanas and Upanishads, and being therefore the basis of all the later developments, it can be regarded as the focus of all Indian religion” is also one of the clearest and most comprehensive summaries of the Perennial Philosophy ever to have been made. Hence its enduring value, not only for Indians, but for all mankind.

At the core of the Perennial Philosophy we find four fundamental doctrines.

  1. The phenomenal world of matter and of individualized consciousness–the world of things and animals and men and even gods–is the manifestation of a Divine Ground within which all partial realities have their being, and apart from which they would be non-existent.
  2. Human beings are capable not merely of knowing about the Divine Ground by inference; they can also realize its existence by a direct intuition, superior to discursive reasoning. This immediate knowledge unites the knower with that which is known.
  3. Man possesses a double nature, a phenomenal ego and an eternal Self, which is the inner man, the spirit, the spark of divinity within the soul. It is possible for a man, if he so desires, to identify himself with the spirit and therefore with the Divine Ground, which is of the same or like nature with the spirit.
  4. Man’s life on earth has only one end and purpose: to identify himself with his eternal Self and so to come to unitive knowledge of the Divine Ground.

Tradition treats reality as fact and includes in that fact a philosophical and metaphysical exploration of the order of life. Julius Evola gave us a hint in “On the Secret of Degeneration”:

If we look at the secret of degeneration from the exclusively traditional point of view, it becomes even harder to solve it completely. It is then a matter of the division of all cultures into two main types. On the one hand there are the traditional cultures, whose principle is identical and unchangeable, despite all the differences evident on the surface. The axis of these cultures and the summit of their hierarchical order consists of metaphysical, supra-individual powers and actions, which serve to inform and justify everything that is merely human, temporal, subject to becoming and to “history.” On the other hand there is “modern culture,” which is actually the anti-tradition and which exhausts itself in a construction of purely human and earthly conditions and in the total development of these, in pursuit of a life entirely detached from the “higher world.”

In a traditional culture, all is viewed by its significance as ideal; in a modern culture, all is material. This does not limit the ideal to the metaphysical alone, because ideas like loyalty, values and morality come first before material convenience. The difference lies in the tendency of traditional cultures to view the significance of acts as if, in Kant’s words, they were to “Act only according to that maxim by which you can at the same time will that it should become a universal law.” The order of nature itself as an idea matters more than material fate or condition. Where a modern culture is pragmatic, a traditional culture views itself through the lens of purpose and in that a sense of the underlying informational order to the universe. When radical individualism takes over, and cultures view themselves through egalitarianism, the idea of individuals deferring to an invisible social order formed of honor, loyalty, duty, culture, values and heritage becomes impossible.

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That outlook creates a transcendental effect on a society by which it sacralizes itself not as an end, but as a means to more of the sacred. Like the transcendentals “the good, the beautiful and the true,” a traditional culture aims for the principle of every act and aspect of being. These principles are more important than materiality because, in the view of traditional cultures, they create materiality. Whether this is atheistic or theistic matters little. A society can either idealize the patterns of reality itself, or its own people, and the latter path leads to decay and ruin. On a simple level, when principles such as law, justice, integrity and honor are lost, corruption reigns. On a greater level, when principles such as morality are placed first, it becomes impossible for wholesale abuses in which damages of individual acts are socialized to the group to become valid. Tradition is the opposite of utilitarianism, which argues from what a group feels — statistically, or by majority — benefits them as individuals. As the West has turned from this traditional view, it has plunged into slow but inexorable decline.

While we search today for answers, all of our methods resemble symptomatic or palliative treatment. That is: we do not believe we can strike at the core of our decay, and instead apply intermediates. To reverse our decline, we must first — as Kant reminds us — choose to be good. We must target the transcendentals. With a little thought and some reading of history, we can see that these mandate a society quite unlike our own: ruled by an aristocracy, united by heritage and culture, governed not by laws but by principles and, perhaps most importantly, one that has reverence for life and the fact that there are more important things than convenience and survival. The answer is not as simple as a theocracy, or nationalism, or even cultural reign, but includes all of the above. We must restore our identity as the West not just as a physical group, but as a principle: those who do what is right, no matter how inconvenient, and rise accordingly.

samedi, 22 août 2015

Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

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Impersonalità metafisica e assenza dell’illusione dell’Io

 

di Giandomenico Casalino

Ex: http://www.ereticamente.net

Perché, nel mondo indoeuropeo, non vi è la presenza della “personalità” nel senso di Io come Soggetto, ma vi è solo il Sé che è il Principio Ordinatore del Mondo che è nel Mondo ed è l’Intelletto attivo-divino di Aristotele? Per la ragione che, se la “parte” superiore dell’uomo, quella divina, non è “personale”, nel senso che non è del soggetto né si identifica con esso, è vero invece che la “persona”, il Soggetto, l’Io, uccidendosi come tale, deve salire (Ascesi) verso il Nous, lo Spirito ed identificarsi con esso, con la “parte” superiore; deve ricordare, prendere coscienza e quindi Sapere che egli nella sua vera realtà è il Pensiero Cosmico, l’Oggettivo, l’Eterno, e che non è mai stato “io” (coscienza, intelletto – nel senso hegeliano – sentimenti, passioni…); che tale fantasma (io storico-sociale, soggetto alla coscienza di veglia) non solo scompare e si dilegua ogni volta che l’uomo si avvicina al processo di dissociazione, che è la morte, in un itinerario che è poi alquanto simile a quello del sonno (Eraclito); ma è “qualcosa” di tanto labile, transeunte e fallace che, in sostanza, non è alcunché di stabile, di epistemico. Allora “anche” lo stesso Principio cosmico, il Divino, to Thèion, è impersonale, nel senso che supera, va oltre il concetto di “persona”, di soggetto, di Io, e, quindi, per causalità filosofica, la sapienza indoeuropea è oltre la “dialettica” teismo-ateismo, in quanto, poiché il Divino non ha alcuna natura “personale”, non può sussistere il Dio-persona, al quale si attribuiscono conseguenzialmente le potenze dell’animo della persona: volontà, amore, gelosia…; al quale si può contrapporre solo la negazione di esso con l’atteggiamento spirituale dell’ateismo.

Da ciò  discende che in  tale visione del  Mondo,  il  “problema” della “immortalità” dell’anima, nel mondo indoeuropeo, non sussiste come tale per la semplice ragione che il Principio Divino, intelletto attivo in termini aristotelici, pur presente nell’uomo in genere, in guisa però incosciente, è presente in senso attivo e cosciente solo in colui il quale si identifìca consapevolmente con esso, in colui il quale vive il bios theoretikòs e, anche per un Istante, esperimenta nella pura Contemplazione, ciò che gli Dei sono sempre! Pertanto non vi può essere, nel mondo indoeuropeo, concezione di una “immortalità”, che poi scade e si rivela pura e semplice “speranza” di sopravvivenza personale dell’anima, poiché il soggetto come individuo non è assolutamente pensato e ciò che è nobile ed eterno in esso in tanto lo è in quanto nulla ha a che fare con l’individualità soggettiva ma bensì con l’Oggettività dello Spirito, essendo questo, peraltro, il “riflesso” del Principio Divino cosmico che è impersonale. Nel mondo arcaico omerico e romano vale, pertanto, il discorso relativo alla virtus eroica: è la Gloria dell’Eroe, in quanto il migliore (àristos) tra gli uomini, che viene cantata dalle Muse attraverso il Cantore, tale è l’immortalità genuinamente indoeuropea: quella dell’eroe; solo Eracle giunge alla divinificazione ed all’accoglimento nell’Olimpo. E qui si deve riflettere sullo “strano” destino del semantema della parola greca dòxa: nel mondo omerico essa ha il significato dell’apparire della Luce, della Gloria, è l’onore che avvolge e distingue l’Eroe quando si presenta agli occhi della comunità dei guerrieri ed è quindi l’apparenza di ciò che appare, nel senso che ciò che l’Eroe è nell’ “interno” (di cui come tale l’Eroe comunque non ha coscienza…), nell’animo, è identico a ciò che è nell’ “esterno”, nella forma in cui appare come esistenza della sua essenza, poiché, come abbiamo già detto, è uomo trasparente ed aperto al Mondo.

La stessa parola, dopo l’avvento della decadenza della spiritualità greca che conduce all’oscurarsi della trasparenza in un’opacità spessa ed impenetrabile, l’apparenza, la dòxa, non è più la Luce “interna”-”esterna”, ma la coltre di nebbia della non-conoscenza, è ciò che nasconde e cela “qualcosa” che forse c’è ma che potrebbe anche non esserci e, pertanto, è opinione e quindi fallibile. Essa ormai come apparenza che inganna, che nasconde, può essere cacciata via solo dal suo “contrario”: dalla Verità che in greco si chiama proprio Alètheia e cioè quella “forza” che elimina, annulla (a privativo) il Lanthàno che è il nascondimento e che è come dire il “nuovo” significato di dòxa. Infatti in Platone tale processo è già completo, e la dòxa-opinione non è conoscenza proprio perché è frutto dell’inganno dell’apparenza che è la serie di ombre (vedi il mito della Caverna…) che oscurano e ingannano la vista; l’apparire non è più l’Essere, l’esistenza non coincide più con l’essenza (ed è straordinario che tale recuperata identità sia invece proprio l’oggetto di cui tratta Hegel nella Scienza della Logica - Logica oggettiva – che è il Sapere dell’Assoluto…) e quindi la falsità dell’apparenza, il suo inganno, devono essere superate mediante l’Ascesi sapienziale per giungere all’ “interno”, poiché esso, lo Spirito, non è più visibile, “esterno” nel mondo, non è più apparente, nel senso che non appare più come forma intelligibile, se non agli occhi dello Spirito di colui che è iniziato al logos filosofico; e siamo già nella lotta per lo Spirito che ingaggiò Platone e nella differenza (tragica…), da lui tematizzata, tra dòxa (opinione) ed epistème (Sapere incontrovertibile poiché anipotetico).

*****

augbef6yo9.jpgÈ in Agostino e nei suoi dialoghi interiori con il suo Dio che nasce l’Io moderno come soggetto-singolo; Agostino dice per la prima volta: “Ego”, anticipando Cartesio e tutto il soggettivismo moderno. Pertanto effettuale all’assenza di qualsiasi personalismo o soggettivismo, in quanto non vi è, nel mondo indoeuropeo, alcuna presenza dell’Io, come si è accennato sopra, è l’inesistenza culturale della tematica “teismo-ateismo” che è processo dialettico paralizzante interno alla cultura astratta del monoteismo creazionistico e potenzialmente ateo, in quanto concepisce Dio come persona (personalizzazione del Divino) dotata di volontà e “progetto”  creativo,  d’  “amore”  e  di  “compassione”,  il  tutto  in  una “umanizzazione” del Divino a cui, giustamente, W.F.Otto contrapponeva la elevazione greca ed indoeuropea dell’uomo verso il Divino e cioè la “divinizzazione” dell’umano (omòiosis theò). Nel mondo spirituale indoeuropeo in tanto non vi è dualismo religioso, in tanto il Divino è nel Mondo, in quanto esso (il Divino) non è nulla di personale, di “umano”, e quindi di “staccato” dal mondo; esso è, invece, il Principio del Mondo, il suo Arché ed è presente “in esso” impersonalmente poiché Potenza Divina nel Mondo medesimo; essendo (il Divino) il Mondo stesso però nella sua essenza: come Idea dell’Unità; in caso contrario non avrebbe avuto senso la sapienza ellenica che insegna (da Talete a Proclo…) che il mondo è ricolmo di Dei! L’assenza del concetto teistico di persona fa cadere nel nulla dell’inesistenza l’altro polo ad esso connesso: l’ateismo, il quale sorge inesorabilmente quando quella “persona” viene meno perché scompare la fede (secolarizzazione… modernità).

La spiritualità religiosa greco-romana è fuori, è estranea a tali tematiche, poiché non conoscendo il teismo non conosce nemmeno l’ateismo, se non come atto mentale (ýbris) di un folle che nega il Mondo, la phýsis e cioè l’evidente che è il Divino.

La  consapevolezza  fondata  sul  sapere  che  è  assente  qualsiasi  realtà “individuale”, (1) “personale”, “mia” nella “componente” immateriale dell’umano è ulteriore segno che evidenzia la tradizionale ed oggettiva spiritualità del mondo indoeuropeo. Se il Principio, il Nous, l’intelletto attivo, l’anima razionale è principio divino e immortale, nell’uomo Esso non è dell’uomo ma è bensì tutt’altro che individuale o “mio” o “suo”; è infatti universale ed ecco la ragione per cui è l’unica “parte” immortale nella realtà che abbiamo convenuto di chiamare “immateriale”. Quest’ultima è anche la “parte” che appare personale, individuale, che inerisce “quel” carattere, “quella” persona ed è il “suo” genio che, in termini biologici, è il corredo genetico; anche questo è, sulla superficie, l’Io storico-sociale, qualcosa che appartiene a quella persona e non ad altri, ma, al di là delle personali differenze, il carattere, la natura in senso sovrapersonale è quella realtà che è costante nella sua lineare tipicità come Demone della razza; ed anche questo non ha, nel profondo, nulla di personale, anche se così appare. La forma vitale pura che, quasi come “terzo” elemento o strato, è alla base del vivente, anzi è il vivente dal punto di vista della stessa, è anch’essa assolutamente oggettiva ma subpersonale, nello stesso (simile) modo in cui l’Intelletto divino è oggettivo ma superpersonale. Plotino, infatti, insegna che all’Uno che è oltre la Forma, “corrisponde”, nell’oscurità degli “abissi”, (dove, se pur fioca, giunge la Luce…) “qualcosa” che è sotto la Forma e ciò nel macrocosmo; se alla parola “forma” si sostituiscono le parole: personalità, carattere formato, allora nel microcosmo vale il medesimo discorso così come afferma anche la cultura egizia, dove la “tripartizione”, che è trifunzionalità dell’unità “immateriale”, è definita AKH, BA e KA. Si può affermare che l’uomo indoeuropeo, in quanto, come si è più volte ribadito, “uomo aperto al Mondo”, uomo cosmico, è attraversato dalle Potenze Cosmiche, che non sono e non possono essere “sue” quasi quanto il “carattere”, la “personalità” lo sono in apparenza e nel modo in cui si è detto.

Lo Spirito, dunque, è relazione, è unione, è organicità funzionale, è armonia, è Ordine, è Forma, e quindi è intelligibile dallo Spirito stesso ed ecco il Circolo: l’esperienza dello Spirito è l’esperienza (sua) dello Spirito ma è simultaneamente, dall’eternità, esperienza dello Spirito (come “oggetto” di essa…). La Vita è la potenza ribollente che è alla base, da essa, essendo in essa come potenza, proviene l’Anima che è la sottilizzazione e la sensibilizzazione della Vita, è la sua Verità, è ciò a cui deve pervenire e perviene da sempre, anzi è sempre pervenuta, come “accade” allo Spirito che è la potenza luminosa che proviene dall’Anima.

II termine “potenza” non ha alcun semantema quantitativo o irrazionale come “parti” o “facoltà” dell’Anima, ma è adottato con lo stesso significato che dýnamis ha nel lessico plotiniano. Se lo Spirito, provenendo dall’Anima, è lo Svegliarsi dell’Anima, allora comprendiamo la ragione per cui l’Anima è il «sonno dello Spirito» (Hegel); ciò significa che, come sapeva Eraclito, il sonno è simile alla morte, come processi del distacco, e quindi l’Anima, il sottile sensibile che giace nella Vita, staccata dal sostegno del corpo cioè dallo Spirito pietrificato (che dovrà essere sciolto dai legami e Svegliato) vaga nel “vuoto” e la sua “conoscenza” non sarà vera, né formale ed intelligibile, né cosmica né armonica, ma approssimativa e minacciosa, irrazionale nel senso di irreale, simbolica; l’anima “libera” dai legami che la tengono “unita” sia al corpo che allo Spirito, viaggia sulla barca della Vita (che è la base, la sua base, come il “mare”) nelle Acque del Sogno per parlare un linguaggio simile a quello del Mito, poiché il Mito nei Popoli è “vicenda” analoga a quella che “accade”  all’uomo.  Con  il  distacco  (nel  sogno)  l’Anima  giunge  nel “mondo dei morti” (Ade), tali sono i viaggi dell’Anima.

Note

1 J.M. RIST, Eros e psyche. Studi sulla Filosofia di Platone. Plotino e Origene, Milano 1995, p. 136 e ss..

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mercredi, 19 août 2015

Le temps d’Antigone, d’Eric Werner

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Le temps d’Antigone, d’Eric Werner

 
par Francis Richard
Resp. Ressources humaines
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

"Certaines grandes oeuvres de la littérature occidentale ont pénétré l'inconscient collectif au point de s'y imprimer durablement, au point d'y prendre racine, contribuant par là même à faire de nous ce que nous sommes." écrit Eric Werner dans son essai, Le temps d'Antigone.

Au nombre de ces oeuvres, il y a justement l'Antigone de Sophocle: "Tout le monde, naturellement, n'est pas amené à devenir Antigone. Mais cette possibilité-là (devenir Antigone) est inscrite en nous, nous n'avons donc pas à l'inventer, tout au plus, peut-être, à la (re)découvrir, à l'exhumer."

antigone-werner.jpgAlors Eric Werner (re)découvre, exhume cette oeuvre mythique. Et il faut reconnaître que sa (re)découverte, son exhumation, la fait apparaître sous un jour on ne peut plus moderne. Quoi de neuf? Sophocle, vingt-cinq siècles plus tard...

On sait (ou on ne sait pas) que, dans cette pièce, pour la seule raison que c'est un ennemi, Créon s'oppose à ce que soit donnée une sépulture à Polynice qui s'est mis du côté des envahisseurs de Thèbes: celui qui contreviendra à cette loi sera puni de mort.

Antigone brave l'interdit de Créon, parce que cette loi personnelle s'oppose aux lois non écrites et inébranlables des dieux, lois qui "ne datent ni d'aujourd'hui, ni d'hier", qui sont "éternelles". Ce qui fait penser inévitablement à ces innombrables lois humaines fabriquées au gré des circonstances, et qui s'opposent aux droits naturels...

Selon Eric Werner la phrase peut-être la plus importante de la pièce est celle que dit le choeur au tout début: "Les combats d'hier sont finis; il faut les oublier." Ce que, justement, Créon ne veut pas. Il veut aller jusqu'au bout de sa vengeance, quitte à offenser les dieux, quitte à en assumer les conséquences funestes.

Antigone est une pièce sur la guerre et sur les limites à lui donner: Créon ne veut pas admettre qu'il y ait des limites à la guerre et il refuse cette première limite à la guerre qu'est le respect dû aux morts, que les dieux commandent, fussent-ils des ennemis. Cette absence de limites est caractéristique de sa démesure, de l'hybris, qui est le propre de l'homme au sein du monde.

De prime abord Créon et Antigone semblent, l'un comme l'autre, n'écouter qu'eux-mêmes, mais, en réalité, Antigone se distingue de Créon, parce qu'elle écoute en elle quelqu'un d'autre que les autres. Ce quelqu'un d'autre, Eric Werner l'appelle Dieu, et ce "n'est pas une instance externe, mais bien interne", contrairement à la représentation usuelle.

Pour Eric Werner, Sophocle appartient au camp humaniste - "il croit en l'homme, il a confiance en l'homme" -, mais "il est nécessaire, dans l'intérêt même de l'humain, que l'humain s'articule au divin, car, à défaut, l'humain a toute chance de virer à l'inhumain". Antigone personnifie ce dépassement de l'opposition entre raison et religion.

Pour Sophocle, qui doit beaucoup à Héraclite, l'homme est un être en mouvement, ce qui est bien. Ce qui le met en mouvement, ce sont ses affects, "l'amour, l'espoir, le plaisir pris à l'audace", mais pour que cette autonomie conduise à choisir le bon chemin, comme Antigone, il faut qu'elle adhère aux lois non écrites, sinon elle conduit à errer, comme Créon.

Dans Antigone, trois personnages sont des archétypes: Créon, ou l'autonomie sans Dieu, Tirésias, ou Dieu sans l'autonomie, et Antigone, ou l'autonomie avec Dieu. Ce sont des archétypes qui se retrouveront plus tard dans la parabole évangélique du fils prodigue, où les deux fils représentent deux extrêmes, Dieu sans l'autonomie pour l'aîné et l'autonomie sans Dieu pour le prodigue.

Une autre façon de décrire ces trois possibilités d'autonomie est de dire que le progressiste est l'impie qui recherche le mouvement pour le mouvement, le traditionaliste le pieux qui s'oppose à tout mouvement, et le défenseur du mouvement respectueux des lois non écrites celui qui, de fait, défend la civilisation, où se réconcilie deinotès et justice des dieux.

Ces grandes lignes de l'essai d'Eric Werner sont bien sûr réductrices des raisonnements qui le sous-tendent, dont certains lui sont propres et dont d'autres s'appuient, de manière critique, par exemple sur Oedipe Roi, l'autre pièce de Sophocle, où ne subsistent plus que les deux premiers archétypes; ou sur les réflexions de Georges Steiner dans son livre Les Antigones; ou sur les points de vue opposés d'Ernst Jünger et de Martin Heidegger.

Selon Eric Werner, au XXe siècle, nous serions entrés dans la post-civilisation, dans une ère de démesure. Les hommes auraient fini par succomber à leur tentation innée de la démesure, qui serait devenue idéologique et avancerait masquée. Et les Antigones - "il y a bien des manières d'être Antigone" - seraient "le petit nombre"...

Eric Werner fait sienne la vision de Naomi Klein qui, "dans le contexte de l'après-guerre froide et du redéploiement néolibéral consécutif à la chute du mur de Berlin" parle de "capitalisme du désastre" - "qu'on pourrait aussi qualifier de jusqu'au-boutiste", qui se caractériserait par l'élimination "de tout ce qui ferait obstacle aux lois du marché", et où le mouvement pour le mouvement prendrait "la forme de la croissance pour la croissance".

Il est dommage qu'Eric Werner fasse sienne une telle vision caricaturale, idéologique. Car peut-on encore parler de libéralisme dans ce qu'il décrit, et même de capitalisme? Quand il reproche à Heidegger d'avoir "un problème de noms" - pour Heidegger, "la dikè [la Justice] n'est que l'autre nom de l'hybris [la démesure]" - ne peut-on pas lui faire un reproche analogue?

Le libéralisme authentique ne repose-t-il pas sur les postulats fondateurs que sont:

- la liberté des échanges, de la concurrence et du travail (ce qui suppose le respect des contrats);

- la non-intervention de l'État limité dans l'activité économique (tout le contraire de ce qui se passe aujourd'hui où l'État démesuré ne connaît plus de limites);

- la primauté de la propriété privée (y compris la propriété de soi, ce qui suppose la non-agression physique et matérielle) et de la responsabilité individuelle (ce qui suppose de réparer les dommages commis à autrui);

c'est-à-dire sur autant de limites, de règles de bonne conduite pour reprendre l'expression de Friedrich Hayek?

Mario Vargas Llosa ne dit-il pas que le terme de néolibéralisme a été "conçu pour dévaluer sémantiquement la doctrine du libéralisme"?

Francis Richard

Le temps d'Antigone, Eric Werner, 160 pages, Xenia (à paraître)

Publication commune Lesobservateurs.ch et Le blog de Francis Richard

Livres précédents chez le même éditeur:

Portrait d'Eric (2011)

De l'extermination (2013)

Une heure avec Proust (2013)

L'avant-guerre civile (2015)

lundi, 17 août 2015

Nihilisme, mal de vivre et crise de la modernité

Nihilisme, mal de vivre et crise de la modernité

Chaque fois qu’un peuple fait sa révolution industrielle et se modernise, il sombre dans un nihilisme de masse, comme en témoigne alors l’explosion des courbes statistiques du suicide et de la dépression. Pourquoi l’entrée dans la modernité s’accompagne-t-elle visiblement toujours de la généralisation du spleen et du mal-être ? En quoi les modes de vie actuels sont-ils susceptibles d’entretenir cet état de déprime ? L’individualisme et la solitude, qui sont désormais le lot quotidien de milliards d’hommes et de femmes à travers le monde, ne forment-ils pas en définitive les contours d’un nouveau mal du siècle ?

Plan de l'exposé :
1/ Etat des lieux : le suicide et la dépression sont des problèmes majeurs aujourd’hui
2/ Le mal-être se développe avec la richesse économique des nations
3/ Les modes de vie modernes favorisent la solitude
4/ Les pauvres souffrent plus que les riches de la modernité, au XXIe siècle
5/ La mondialisation des menaces rend toute action individuelle ou collective impossible et nous déprime
6/ Notre ère se caractérise par le désenchantement et la fin des idéaux
7/ La société de consommation aggrave le processus, en valorisant le présent plutôt que l’avenir
8/ La modernité comporte malgré tout de nombreux mérites, comme le goût pour la réalisation personnelle

www.thibaultisabel.com
www.leblogdethibaultisabel.blogspot.fr

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dimanche, 16 août 2015

¿Quienes fueron Ayn Rand y Leo Strauss?

¿Quienes fueron Ayn Rand y Leo Strauss? 

¿Qué relaciones existen entre estos dos filósofos, el sionismo y el Nuevo Orden Mundial?

¿Quienes son los dioses y los tiranos en el capitalimo?

¿Conoces la teoría de la 'guerra permanente'?

 

¡¡NOVEDAD EDITORIAL!!

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En esta obra se analiza un aspecto puntual del asalto a la cultura occidental realizado desde el capitalismo a lo largo del pasado siglo, como es el de las corrientes ideológicas que mueven el sistema norteamericano, que ha puesto de manifiesto que esta concepción de la existencia representa el mayor desafío que se ha planteado nunca a la supervivencia de Europa como civilización. El estudio de esta ofensiva cultural contra el alma europea, nos conduce directamente, una vez más, a la caja torácica que contiene el corazón del capitalismo: los Estados Unidos.


El pensamiento anarcocapitalista de Ayn Rand junto con el pensamiento neoconservador de Leo Strauss y los herederos políticos de ambos, han intentado en la recta final del siglo pasado y lo transcurrido del presente, afrontar la crisis histórica de la nación ‘elegida por Dios’, como campeones intelectuales del capitalismo, luchando por mantener a cualquier precio su hegemonía mundial. Y lo han hecho, una, como la mano izquierda, y el otro, como la mano derecha del Leviatán capitalista.

 

AYN RAND Y LEO STRAUSS
EL CAPITALISMO, SUS TIRANOS Y SUS DIOSES

 
una obra de
Francisco José Fernandez-Cruz Sequera

 
Coleccion Khronos
 
Edición en rústica con solapas
Páginas: 171
Tamaño: 21 x 15 cm
Peso: 300 gr.
Papel blanco: 90 gr.
Cubierta estucada en mate de 260 gr.
ISBN: 
978-84-944210-1-3


P.V.P.: 14,50 € 
(
gastos de envío incluidos para España peninsular)

Web: www.editorialeas.com


Contacto: info@editorialeas.com

samedi, 15 août 2015

Hermann Keyserling’s America

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Hermann Keyserling’s America

A half-forgotten German philosopher’s profound analysis of the United States

Ex: http://www.counter-currents.com

When the German philosopher Count Hermann Keyserling, the centennial of whose birth was celebrated last year by a very small but dedicated band of followers, made a four-month lecture tour of the United States in 1928, it was his second visit to the country. The first had taken place before World War I, in the midst of a trip around the world, and was duly noted in his erudite bestseller, Travel Diary of a Philosopher. The book he produced after his second visit to the States, which he wrote in English, was America Set Free (Harper and Brothers, New York, 1929). In the introduction he was careful to point out that this “is not a book on America, but for Americans . . . the productive effect it may have depends primarily on my readers adopting the right sort of attitude from the outset.” The work, he insisted, should not be considered an exercise in criticism. “I have,” he emphasized, “tried to disentangle America’s truth from untruth . . .”

Keyserling judged the average American to be a fair psychologist who, nevertheless, often encounters difficulties in understanding ways of living that differ from his own. This difficulty arises in part from the average American’s limited contact with other nations, a circumstance which later changed after masses of Americans in their numerous twentieth-century wars had the opportunity to come into personal contact with many foreign peoples. From this viewpoint war is not exclusively negative. It often helps to build bridges to foreign nations, some of them long-time enemies.

Emigrants, Keyserling believed, often preserve their original race character. Accordingly, an American with a distinctly American physique and a distinctively American soul could not appear overnight. How could an American soul take shape when no gods, except Manitou, had been born on U.S. soil? The birth of a national mentality derives from a range of emotions linked to the earth and not to the asphalt of the city. The variety of immigrants who came to America with their varied religious denominations from several parts of Europe turned the United States into a sort of New World Balkans. But this variety could have a positive effect. In the same way that what is good for Europe often depends on its multiplicity, the American melting process contains a large number of “vital roots of creativeness.” The narrowness of isolated countries cut off from the world can lead to degeneration.

Being an admirer of Houston Stewart Chamberlain, Keyserling was very much aware of the importance of heredity and eugenics and, as he calls them, the laws of blood. “The Jew,” he asserted, “cannot easily become part of a new nation. Since he is essentially ‘spirit-born’ and has no support from the forces of the earth, his process of denationalization only too often leads to moral putrefaction. . . . The ability to preserve the original character of a race after it emigrates to a foreign land seems to be an occupational specialty of the Jews. They have had no really native country for thousands of years; they have spread all over the earth, settling down in almost all countries; having become a fundamentally parasitic nation . . . they have lived in closer touch with ‘environment’ than most autochthonous races. And yet they have always remained, even as a physical type, what they were originally. This is due to two causes. Firstly, to the unequalled understanding the Jews possess of the laws of the blood. Second, to the Jewish mentality. For the Jew the law of his religion is always his real ‘environment.’ Since he had to practice Judaism with the utmost strictness, consistency and severity, his life was psychologically determined. Owing to this, he has proved stronger than nature. He has maintained his original type in spite of the varying influences brought to bear on him. On the other hand, if the Jew ever becomes unfaithful to his law, the result is truly disastrous. Such a disaster has been avoided only where he has immediately succeeded in becoming part of a new national body, as in Spain and to a certain extent in Italy” (pp. 26–27).

The psychological determination Keyserling has attributed to the Jewish people, however, he also ascribes to the Anglo-Saxon Puritan. Puritanism represents a typical reincarnation of the spirit of the Old Testament, by which a link had been established between Jewish and Puritan traits. Also, in the case of the typical Puritan, his spiritual force resisted the influence of the American environment and helped to preserve the original ancestral type. Gradually, as the Puritan and the American pioneer merged into one, Puritanism became the very essence of American politics, of American military tradition and of American business, the latter embodying a synthesis of religion, work and enterprise. The New England culture founded by the Puritan fathers, however, was from the very beginning extremely narrow in comparison to the aristocratic tradition of Virginia. But time, Keyserling stated, still works for the American of the Virginian type, a superior stock which is represented by the “cavalier” and which will gradually assure the future predominance of the American South. Meanwhile, the moralistic New Englander will become obsolete, while the Middle Westerner will be considered the true reflection of the American spirit and both the real and symbolic cornerstone of the American nation.

Keyserling saw the average American as a child of unlimited horizons. The sense of continental vastness seems to lead to the American goal of the “spiritual Americanization of the world,” since the American “is always a missionary, no matter whether as a preacher, a salesman, or a headlining newspaper writer” (pp. 9–10). It was this missionary spirit which caused Americans to try to make the world safe for democracy and thereby open the door to an “American century.”

But America, Keyserling pointed out fifty years ago, faced a number of great dangers as “the majority of the population constitutes what under the Indian system would have formed the lower castes. The spirit of the conquering race still rules, but the race has changed” (p. 33). The Puritan spirit began to vanish in the North in the same way as the spirit of the Nordic invaders of old India gradually disappeared.

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As with many foreign investigators of the American scene, Keyserling was alarmed by the Negro problem. “For if the white American continues on his present line of development then America may end up by becoming the Black Continent of post-modern times. We know today that from palaeolithic days onward there have been at least three great civilizations in Africa, the original representatives of which were not black. . . . But the ruling races eventually lost their vitality; they lived too much aloof from Mother Earth. So the Negro, although inferior, had the last word.” Keyserling went on, “I do, of course, not really believe that America will end as the Black Continent of the future, but I thought it wise to over-stress at this point the dangers of urban civilization, because as yet Americans do not seem to be at all aware of them” (pp. 41–42).

The author compared America to Rome and Greece, which he characterized as heroic and individualistic, but which gradually dissolved into the populations of the original settlers, as the laws were made “by a race not belonging to the ruler-type” (p. 71). Similarly in America, the vital pioneer impulses gradually weakened.

An overmechanized, overstandardized economy can easily lead to an end of the technical era and a collapse of man himself. When Keyserling wrote America Set Free, the North was undergoing a growing industrial restlessness and expansion, while the South seemed to be half asleep. Today the South, once characterized by an aristocratic type of life, is running the risk of being dominated by a materialism which both directs and represses the cultural evolution of its inhabitants. The American South had hitherto been more influenced than the North by the forces of the soil. Matter and intellect, according to Keyserling, belong together in the same way as the soil and the soul. Only by joining the worlds of the intellect and emotions, mind and feeling, is modern man able to help us solve the problems of a world which is now being formed more by matter than by man himself, who has become a prisoner of matter. Logic, mathematics and reason are found on the side of dead matter while life itself is symbolized by the emotional world. Reason, intellect and law, as represented by ancient Rome, are the antithesis to the Greek world of beauty. Above all, it is the soul that creates man and fixes his character, not mind and reason. Today the world of matter rules not only in Communist states, but also in the Western world. That is why Keyserling emphasized the importance of a synthesis of the intellect and soul and values so highly a culture of being as opposed to a culture of merely knowing, having and doing (“eine Kultur des Seins anstatt einer Kultur des Könnens”).

A wholly mechanized world must sooner or later lead to a fiasco for mankind. “If man is rightly adjusted within the cosmic scheme as an animal only, he is actually not rightly adjusted. He does not live out of, nor up to the intrinsic meaning of his life; and since what I call ‘meaning’ stands for its very wellspring, not unlimited progress, but devitalization and, eventually, the end of the civilized race would be the inevitable outcome if the process were to continue much longer. This is the all-important point. . . . It is not a question of human nature in the all-embracing sense of the word. A civilization without spiritual roots consciously realized as real is not only incomplete—it is actually without roots. It resembles at best the blossom in a vase. The great task, then, of the centuries to come is to develop a new spiritual life on the foundations of the Technical Age” (pp. 585–86).

Hand in hand with technology, Keyserling saw a worldwide conformity taking place. Man becomes more and more a collective being adapted to mechanical devices and is beginning to resemble a cog in a machine. And there is no great difference between the collective man in the United States and in the Soviet Union. “The difference between the facts of Bolshevik Russia and America . . . only amounts to a difference in prosperity; the standard is different, but the standardization is identical. . . . America expresses its socialism in the form of general prosperity, and Russia in the form of general poverty. America is socialistic by means of the free cooperation of all, and Russia by means of a class rule” (pp. 253–54).

hermY344_BO1,204,203,200_.jpgKeyserling was very pessimistic about America’s influence abroad. He believed President Wilson’s Fourteen Points “have really wrecked Europe and imperilled the position of the whole white race. They are the spiritual parents of Bolshevism because, but for the idea of the self-determination of nations and Wilson’s utter disregard of historical connexions, the Bolsheviks would never have succeeded in revolutionizing the whole East and never even dreamt of attempting the same in Europe” (p. 84).

In World War I the Allies liquidated the psychological foundations of the old social order. In the United States a new type of man emerged—a more violent man, full of vitality and empty of culture. At the same time the ancient ideal of man was born or reborn. With Charles Lindbergh, “a modern Siegfried,” another Americanism took shape, a new consciousness of the American soul. Keyserling characterized this new America as “a decidedly intelligent nation” and the new Americans as “good psychologists, no thinkers, intelligent, but not intellectual.”

“Spirit,” Keyserling had already written in the Travel Diary of a Philosopher, “can manifest itself on earth only by means of material tensions, precisely as tightened strings only can produce musical sounds.” Comfort can never create true culture, which only develops where beauty is the highest value. The spirit of competition helps to create a part of the tension that makes men aspire to something higher. Uniformity, however, cannot create any culture. Only an innate emphasis on privacy, Keyserling called it privatism, may help reveal to Babbitts what a true American civilization can and should be.

Biographical Note

Hermann Keyserling was born in July 1880, at Könno, Estonia, then as today a Russian province. Having attended the universities of Geneva, Dorpat, Heidelberg and Vienna, he acquired a Ph.D. in geology in 1902. Before leaving for an extended visit to France, he worked on his father’s estate in Estonia, where he did some original research in farming methods. During his Paris years he published his first book, Das Gefüge der Welt (1906), in German and his second in French, Essai critique sur le système du monde (1907). The same year he became a professor of philosophy at the University of Hamburg. His lectures there were subsequently published under the title, Prolegomena zur Naturphilosophie (1910). In 1911–12 came his trip around the world and Travel Diary of a Philosopher (Reisetagebuch eines Philosophen). The New York Times compared it to Dante’s Divine Comedy, while the London Times called its author “a Buddha among philosophers.” Hermann Hesse, later a Nobel laureate, wrote, “this book of a European thinker of our time . . . is going to exercise the strongest influence on this epoch.”

In 1919 Keyserling married Countess Godela Bismarck, the granddaughter of Otto von Bismarck, who bore him two sons, Manfred and Arnold, both of whom became philosophers and psychologists. The latter is a professor in Vienna and the author of fifteen books.

After the confiscation of his estates by the government of Estonia, Keyserling was invited by Grand Duke Ernst Ludwig to move to Darmstadt, Germany, where in 1920 he founded his School of Wisdom. Internationally known scholars lectured there, among them Rabindranath Tagore, Carl Jung and Leo Frobenius. At the school he wrote several of his later works, which are too numerous to mention here. After the destruction of his house and library at Darmstadt by Allied bombers in World War II, Keyserling left Germany for Austria. He died at Innsbruck in the spring of 1946. “He is not,” French critic Pierre Frédéric said in 1946 at Keyserling’s death, “like Bergson, Leibnitz or Berkeley, the creator of a derivative philosophical system; he is instead a searcher after the great spiritual currents which traverse and reform our planet—a Pythagoras or Socrates at the threshold of the twentieth century.”

The great bulk of Keyserling’s correspondence has not yet been published. Among his epistolary friends were Bernard Shaw, Houston Stewart Chamberlain, Claude Debussy, Auguste Rodin, André Gide, Albert Schweitzer, Bertrand Russell, Oswald Spengler, Sigmund Freud, Miguel de Unamuno and José Ortega y Gasset.

Hermann Keyserling propounded a synthesis of the deepest wisdom of the Occident and Orient. His universality reached from philosophy, religion, psychology and history to biology, geology, economics, astronomy and the world of music. It was his lifetime desire to help man find a fundamental reason for existence. Frank Thiess, a modern European writer, said about Keyserling, “He became what Nietzsche always had aspired to be.”

What mankind needs, Keyserling repeatedly stressed, is to forge an unbreakable link from the intellect to the soul. The predominance of one or the other has always led to chaos and disaster. We must come to revere something higher than mere materialistic aspirations and moral values. In a generation which revels in materialism, egoism and the ugliest elements of modernism, it is our duty to emphasize the distinctly superior sentiments that flow from an aristocratic mind.

Hermann Keyserling said that his family, which many centuries ago had gone to the Baltic States from Germany as knights and governors, were veritable giants in height. They were also giants of the spirit. One Keyserling was the friend and benefactor of Johann Sebastian Bach. Another was the closest friend of Immanuel Kant; another the chief adviser of Frederick the Great. Count Alexander Keyserling, Hermann’s grandfather, was a leading member of the Baltic nobility and, as a geologist, helped discover much of the mineral wealth of Czarist Russia. Bismarck was referring to this Keyserling when he said he was the only human being whose mind he feared.

Arnold Keyserling wrote about his father:

In order to understand man, he had to start from the unity of the globe, and to transcend the barriers between East and West, as well as between the different religions. The School of Wisdom he created was meant to shape the ideal of the ecumenical man, whose time was to come after the period of the great wars. It was his opinion that only through delving into both origins, the terrestrial as well as the spiritual, could man finally attain integration and self-realization.

Author: Swedish Instaurationist

Source: Instauration, January 1981, pp. 9–11.

lundi, 06 juillet 2015

Warum Konservative scheitern – metaphysisch betrachtet

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Warum Konservative scheitern – metaphysisch betrachtet

Wie schon in meinem Beitrag über den Staat als zu meidendes Ungeheuer [2]gehe ich auch im Folgenden an die Wurzeln konservativen bzw. rechten Selbstverständnisses. Es ist nicht die reine Lust an der Provokation, die mich antreibt. Mein Anliegen ist es vielmehr, Selbstgewissheiten in Frage zu stellen – voraussetzend, daß ein Infragestellen nicht zwangsläufig eine Verneinung bedeutet, sondern auch ein Prüfstein sein kann.

Man betrachte es als Antidot gegen den sich allzu oft Geltung verschaffenden Drang, einander wohlwollend in Stammtischmanier auf die Schulter zu klopfen. Die gegenseitige Bestätigung hilft uns nicht weiter. Wir müssen die beständige, harte und ehrliche Auseinandersetzung mit unseren eigenen Grundlagen und Denkvoraussetzungen suchen.

Wann und wo immer konservative Versuche, das Ruder herumzuwerfen, scheitern, machen die Gescheiterten alles Mögliche dafür verantwortlich: die Linken, die Liberalen, die Medien, den Zeitgeist, besondere Umstände, gelegentlich auch Querelen in den eigenen Reihen. Kaum jemals reicht die konservative Besinnung weit genug, um zu erkennen, daß der konservative Anspruch selbst es sein könnte, der auch die konservative Aktion notwendig scheitern lässt. Wie ist das zu verstehen?

Ernst Jünger konstatiert im Vorwort zu den Strahlungen: „Der konservative Anspruch, sei es in der Kunst, der Politik, der Religion, stellt Wechsel auf nicht mehr vorhandene Guthaben aus.“ Konservative sind also – metaphysisch gesehen und völlig unabhängig vom Begriff bürgerlichen Ehrhaftigkeit – Betrüger, Zinker, Hütchenspieler.

In Typus, Name, Gestalt führt Jünger diesen Gedanken einige Jahre später näher aus. Er warnt davor, die „Weißung“ („Blanko“), in der die überkommenen Begriffe, Werte, Namen, Typen und Gestalten an Geltung verlieren, vorschnell zu füllen. Denn hierin liegt eine große Gefahr: „… es gibt nichts Unreineres als Götter, die überständig geworden sind.“

Der Rückgriff auf den Mythos genügt nicht: „Daß unzureichende Setzungen schnell unter Einbußen ad absurdum geführt werden, hat das jüngste Geschehen gelernt“. Natürlich kann jeder für sich im Privaten konservative Wertsetzungen leben und damit individuell durchaus glücklich sein, vielleicht sogar als Vorbild wirken. Darum geht es Jünger aber gar nicht. Ihm geht es um die großen Setzungen, um das überindividuell Prägende in Kunst, Politik und Religion. Und genau darum geht es uns doch auch, nicht allein um das werterfüllte Leben im Privaten.

Jünger greift Nietzsches Analyse des Nihilismus auf: der Nihilismus als gewaltige Grundströmung der abendländischen Geistesgeschichte seit Platon. Dass Nietzsche (und mit ihm Heidegger) den Nihilismus als langwirkende Macht ansieht, dem kein bloßes Meinen und Bekennen und trotziges Festhalten auch nur ansatzweise etwas entgegensetzen kann, will der konservative Geist nicht wahrhaben:

Er geht zur Tagesordnung über, bekennt sich zu den „Werten“ seiner Vorväter, glaubt weiter unbeirrt an Gott, das Ewige, das Wahre, das Schöne und Gute und tut so, als ob der „Nihilismus“ eine bloße Meinungsäußerung des bekanntlich geistesgestörten Nietzsche gewesen sei.

Nochmals: Natürlich kann jeder für sich entscheiden, ob er an den Gott der Bibel glauben möchte oder nicht. Die Frage ist, wohin diese „kleinen Fluchten“ führen. Das wesentliche Ziel erreichen sie, wie es aussieht, nicht: das einer Umgestaltung im Großen. Das liegt daran, dass das Bekenntnis zu Werten und Weltanschauungen beliebig und Sache einer subjektiven Entscheidung ist. Im Warenhaus der Sinnangebote entscheidet der eine sich für dieses, der andere für jenes. Eine echte, strenge Notwendigkeit, ein „Ich kann nicht anders“ ist bei nüchterner Betrachtung nicht zu erkennen.

Die Frage, der Konservative sich stellen sollten, wäre die: Wenn der Nihilismus – der Rückzug der Götter, des Gottes – wirklich eine langwirkende Macht aus der Tiefe der abendländischen Geschichte und als solche gleichsam Seinsgeschichte (Heidegger) bzw. Heilsgeschichte ist: Wie verhalten wir uns angemessen?

Rückgriffe sind Griffe ins Leere, ins Haltlose. Sie fördern bloße Schemen zutage, nicht den echten, lebendigen Gott, der alles Seiende durchdringt. Sich hingegen an der Destruktion zu beteiligen, scheidet für Konservative ebenso aus wie der reine Genuss der Abwesenheit verbindlicher Autoritäten („Spaßgesellschaft“).

Auch das von Carl Schmitt favorisierte Modell des Katechon, des Aufhalters, kann es nicht sein, wenn denn der dem heraufdämmernden Nichts vorangehende Rückzug Gottes von diesem selbst gewollt ist. Wozu ihn aufhalten und ihm so ins Handwerk pfuschen? Geht es nicht vielmehr darum, die heraufziehende Kälte auszuhalten? Gilt es nicht, sich dem Nichts zu stellen? Wäre nicht zu akzeptieren, dass wir uns vielleicht noch nicht einmal im Auge des Sturms befinden und erst recht nicht schon jenseits der imaginären Linie, die uns von einer neuen erfüllten Wertsetzung im Großen trennt?

Sowohl Nietzsche als auch Heidegger sahen weitere Jahrhunderte ohne neuen Gott oder neue Götter als das Ganze prägende Mächte vor uns liegen. Also: Wie lässt sich eine solche Zeit jenseits individueller Erwägungen, also ausschließlich mit Blick auf „Werte“ bzw. deren Abwesenheit, mit Blick auf das Ganze überleben? Wie lässt sich überwintern? Müssen wir vielleicht weit hinter den Mythos zurück?

mercredi, 01 juillet 2015

Jure Georges Vujic présente son livre "Nous n'attendrons plus les barbares",

Jure Georges Vujic présente son livre "Nous n'attendrons plus les barbares", publié aux éditions Kontre Kulture


mardi, 30 juin 2015

Orwell, Huxley and America’s Plunge into Authoritarianism

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Legitimizing State Violence

Orwell, Huxley and America’s Plunge into Authoritarianism

by HENRY A. GIROUX
Ex: http://www.counterpunch.org

In spite of their differing perceptions of the architecture of the totalitarian superstate and how it exercised power and control over its residents, George Orwell and Aldus Huxley shared a fundamental conviction.  They both argued that the established democracies of the West were moving quickly toward an historical moment when they would willingly relinquish the noble promises and ideals of liberal democracy and enter that menacing space where totalitarianism perverts the modern ideals of justice, freedom, and political emancipation. Both believed that Western democracies were devolving into pathological states in which politics was recognized in the interest of death over life and justice. Both were unequivocal in the shared understanding that the future of civilization was on the verge of total domination or what Hannah Arendt called “dark times.”

While Neil Postman and other critical descendants have pitted Orwell and Huxley against each other because of their distinctively separate notions of a future dystopian society,[1] I believe that the dark shadow of authoritarianism that shrouds American society like a thick veil can be lifted by re-examining Orwell’s prescient dystopian fable 1984 as well as Huxley’s Brave New World in light of contemporary neoliberal ascendancy. Rather than pit their dystopian visions against each other, it might be more productive to see them as complementing each other, especially at a time when to quote Antonio Gramsci “The crisis consists precisely in the fact that the old is dying and the new cannot be born; in this interregnum a great variety of morbid symptoms appear.” [2]

Both authors provide insights into the merging of the totalitarian elements that constitute a new and more hybridized form of authoritarian control, appearing less as fiction than a threatening portend of the unfolding 21st century. Consumer fantasies and authoritarian control, “Big Brother” intelligence agencies and the voracious seductions of privatized pleasures, along with the rise of the punishing state—which criminalizes an increasing number of behaviors and invests in institutions that incarcerate and are organized principally for the production of violence–and the collapse of democratic public spheres into narrow market-driven orbits of privatization–these now constitute the new order of authoritarianism.

Orwell’s “Big Brother” found more recently a new incarnation in the revelations of government lawlessness and corporate spying by whistleblowers such as Chelsea Manning, Jeremy Hammond, and Edward Snowden.[3] All of these individuals revealed a government that lied about its intelligence operations, illegally spied on millions of people who were not considered terrorists or had committed no crime, and collected data from every conceivable electronic source to be stored and potentially used to squelch dissent, blackmail people, or just intimidate those who fight to make corporate and state power accountable.[4] Orwell offered his readers an image of the modern state in which privacy was no longer valued as a civil virtue and a basic human right, nor perceived as a measure of the robust strength of a healthy and thriving democracy. In Orwell’s dystopia the right to privacy had come under egregious assault, but the ruthless transgressions of privacy pointed to something more sinister than the violation of individual rights. The claim to privacy, for Orwell, represented a moral and political principle by which to assess the nature, power, and severity of an emerging totalitarian state. Orwell’s warning was intended to shed light on the horrors of totalitarianism, the corruption of language, the production of a pervasive stupidity, and the endless regimes of state spying imposed on citizens in the mid-20th-century.

orw84.jpgOrwell opened a door for all to see a “nightmarish future” in which everyday life becomes harsh, an object of state surveillance, and control—a society in which the slogan “ignorance becomes strength” morphs into a guiding principle of mainstream media, education, and the culture of politics. Huxley shared Orwell’s concern about ignorance as a political tool of the elite, enforced through surveillance and the banning of books, dissent, and critical thought itself. But Huxley, believed that social control and the propagation of ignorance would be introduced by those in power through the political tools of pleasure and distraction. Huxley thought this might take place through drugs and genetic engineering, but the real drugs and social planning of late modernity lies in the presence of an entertainment and public pedagogy industry that trades in pleasure and idiocy, most evident in the merging of neoliberalism, celebrity culture, and the control of commanding cultural apparatuses extending from Hollywood movies and video games to mainstream television, news, and the social media.

Orwell’s Big Brother of 1984 has been upgraded in the 2015 edition. As Zygmunt Bauman points out, if the older Big Brother presided over traditional enclosures such as military barracks, prisons, schools, and “countless other big and small panopticons, the updated Big Brother is not only concerned with inclusion and the death of privacy, but also the suppression of dissent and the widening of the politics of exclusion.[5] Keeping people out is the extended face of Big Brother who now patrols borders, hospitals, and other public spaces in order to “spot “the people who do not fit in the places they are in, banishing them from the place and departing them ‘where they belong,’ or better still never allowing them to come anywhere near in the first place.”[6]

This is the Big Brother that pushes youthful protests out of the public spaces they attempt to occupy. This is the hyper-nationalistic Big Brother clinging to notions of racial purity and American exceptionalism as a driving force in creating a country that has come to resemble an open air prison for the dispossessed. This is the Big Brother whose split personality portends the dark authoritarian universe of the 1 percent with their control over the economy and use of paramilitarised police forces, on the one hand, and, on the other, their retreat into gated communities manned by SWAT-like security forces.

The increasing militarization of local police forces who are now armed with weapons from the battlefields of Iraq and Afghanistan has transformed how the police respond to dealing with the public. Cops have been transformed into soldiers just as dialogue and community policing have been replaced by military-style practices that are way out of proportion to the crimes the police are trained to address. For instance, The Economist reported that “”SWAT teams were deployed about 3,000 times in 1980 but are now used around 50,000 times a year. Some cities use them for routine patrols in high-crime areas. Baltimore and Dallas have used them to break up poker games. In 2010 New Haven, Connecticut sent a SWAT team to a bar suspected of serving under-age drinkers. That same year heavily-armed police raided barber shops around Orlando, Florida; they said they were hunting for guns and drugs but ended up arresting 34 people for “barbering without a license”. Maricopa County, Arizona sent a SWAT team into the living room of Jesus Llovera, who was suspected of organizing cockfights.”[7]

In the advent of the recent display of police force in Ferguson, Missouri and Baltimore, Maryland it is unfair to view the impact of the rapid militarization of local police on poor black communities as nothing short of terrifying and symptomatic of the violence that takes place in authoritarian societies. For instance, according to a recent report produced by the Malcolm X Grassroots

Movement entitled Operation Ghetto Storm, ‘police officers, security guards, or self-appointed vigilantes extra judicially killed at least 313 African-Americans in 2012…This means a black person was killed by a security officer every 28 hours’. Michelle Alexander adds to the racist nature of the punishing state by pointing out that “There are more African American adults under correctional control today — in prison or jail, on probation or parole — than were enslaved in 1850, a decade before the Civil War began.”[8] Meanwhile the real violence used by the state against poor minorities of color, women, immigrants, and low income adults barely gets mentioned, except when it is so spectacularly visible that it cannot be ignored as in the cases of Eric Garner who was choked to death by a New York City policeman after he was confronted for illegally selling untaxed cigarettes. Or the case of Freddie Gray who had his spine severed and voice box crushed for making eye contact with a cop. These cases are not exceptional. For too many blacks, the police have turned their neighborhoods into war zones where cops parading as soldiers act with impunity.

Fear and isolation constitute an updated version of Big Brother. Fear is managed and is buttressed by a neoliberal logic that embraces the notion that while fear be accepted as a general condition of society, how it is dealt with by members of the American public be relegated to the realm of the private, dealt with exclusively as an individual consideration, largely removed from the collapse of authoritarian control and democratic rule, and posited onto the individual’s fear of the other. In the surveillance state, fear is misplaced from the political sphere and emergence of an authoritarian government to the personal concern with the fear of surviving, not getting ahead, unemployment, and the danger posed by the growing legions of the interminable others.  As the older order dies, a new one struggles to be born, one that often produces a liminal space that gives rise to monsters, all too willing to kidnap, torture, and spy on law abiding citizens while violating civil liberties.[9] As Antonio Gramsci once suggested, such an interregnum offers no political guarantees, but it does provide or at least gestures towards the conditions to reimagine “what is to be done,” how it might be done, and who is going to do it.[10]

Orwell’s 1984 continues to serve as a brilliant and important metaphor for mapping the expansive trajectory of global surveillance, authoritarianism, and the suppression of dissent that has characterized the first decades of the new millennium. The older modes of surveillance to which Orwell pointed, including his warnings regarding the dangers of microphones and giant telescreens that watch and listen are surprisingly limited when compared with the varied means now available for spying on people. Orwell would be astonished by this contemporary, refashioned “Big Brother” given the threat the new surveillance state poses because of its reach and the alleged “advance” of technologies that far outstretch anything he could have imagined—technologies that pose a much greater threat to both the personal privacy of citizens and the control exercised by sovereign power.

In spite of his vivid imagination, “Orwell never could have imagined that the National Security Agency (NSA) would amass metadata on billions of our phone calls and 200 million of our text messages every day. Orwell could not have foreseen that our government would read the content of our emails, file transfers, and live chats from the social media we use.”[11] Edward Snowden and other critics are correct about the dangers of the state’s infringement of privacy rights, but their analysis should be taken further by linking the issue of citizen surveillance with the rise of “networked societies,” global flows of power, and the emergence of a totalitarian ethos that defies even state-based control.[12] For Orwell, domination was state imposed and bore the heavy hand of unremitting repression and a smothering language that eviscerated any appearance of dissent, erased historical memory, and turned the truth into its opposite. For Orwell, individual freedom was at risk under the heavy hand of state terrorism.

In Orwell’s world, individual freedom and privacy were under attack from outside forces. For Huxley, in contrast, freedom and privacy were willingly given up as part of the seductions of a soft authoritarianism, with its vast machinery of manufactured needs, desires, and identities. This new mode of persuasion seduced people into chasing commodities, and infantilized them through the mass production of easily digestible entertainment, disposable goods, and new scientific advances in which any viable sense of agency was undermined. The conditions for critical thought dissolved into the limited pleasures instant gratification wrought through the use of technologies and consuming practices that dampened, if not obliterated, the very possibility of thinking itself. Orwell’s dark image is the stuff of government oppression whereas Huxley’s is the stuff of distractions, diversions, and the transformation of privacy into a cheap and sensational performance for public display. Neil Postman, writing in a different time and worried about the destructive anti-intellectual influence of television sided with Huxley and believed that repression was now on the side of entertainment and the propensity of the American public to amuse themselves to death. [13] His attempt to differentiate Huxley’s dystopian vision from Orwell’s is worth noting. He writes:

Orwell warns that we will be overcome by an externally imposed oppression. But in Huxley’s vision, no Big Brother is required to deprive people of their autonomy, maturity and history. As he saw it, people will come to love their oppression, to adore the technologies that undo their capacities to think. What Orwell feared were those who would ban books. What Huxley feared was that there would be no reason to ban a book, for there would be no one who wanted to read one. Orwell feared those who would deprive us of information. Huxley feared those who would give us so much that we would be reduced to passivity and egoism. Orwell feared that the truth would be concealed from us. Huxley feared the truth would be drowned in a sea of irrelevance. Orwell feared we would become a captive culture. … As Huxley remarked in Brave New World Revisited, the civil libertarians and rationalists who are ever on the alert to oppose tyranny “failed to take into account man’s almost infinite appetite for distractions.” In 1984, Huxley added, people are controlled by inflicting pain. In Brave New World, they are controlled by inflicting pleasure. In short, Orwell feared that what we hate will ruin us. Huxley feared that what we love will ruin us.[14]

Echoes of Huxley’s insights play out in the willingness of millions of people who voluntarily hand over personal information whether in the service of the strange sociality prompted by social media or in homage to the new surveillance state. New surveillance technologies employ by major servers providers now focus on diverse consumer populations who are targeted in the collection of endless amounts of personal information as they move from one site to the next, one geopolitical region to the next, and across multiple screens and digital apparatuses. As Ariel Dorfman points out, “social media users gladly give up their liberty and privacy, invariably for the most benevolent of platitudes and reasons,”[15] all the while endlessly shopping online, updating Facebook, and texting. Indeed, surveillance technologies are now present in virtually every public and private space – such as video cameras in streets, commercial establishments, workplaces, and even schools as well as the myriad scanners at entry points of airports, retail stores, sporting events, and so on – and function as control mechanisms that become normalized through their heightened visibility. In addition, the all-encompassing world of corporate and state surveillance is aided by our endless array of personal devices that chart, via GPS tracking, our every move, our every choice, and every pleasure.

orwell-eye.jpegAt the same time, Orwell’s warning about “Big Brother” applies not simply to an authoritarian-surveillance state but also to commanding financial institutions and corporations who have made diverse modes of surveillance a ubiquitous feature of daily life. Corporations use the new technologies to track spending habits and collect data points from social media so as to provide us with consumer goods that match our desires, employ face recognition technologies to alert store salesperson to our credit ratings, and so it goes. Heidi Boghosian points out that if omniscient state control in Orwell’s 1984 is embodied by the two-way television sets present in each home, then in “our own modern adaptation, it is symbolized by the location-tracking cell phones we willingly carry in our pockets and the microchip-embedded clothes we wear on our bodies.”[16] In this instance, the surveillance state is one that not only listens, watches, and gathers massive amounts of information through data mining, allegedly for the purpose of identifying “security threats.” It also acculturates the public into accepting the intrusion of commercial surveillance technologies – and, perhaps more vitally, the acceptance of privatized, commodified values – into all aspects of their lives. In other words, the most dangerous repercussions of a near total loss of privacy involve more than the unwarranted collecting of information by the government: we must also be attentive to the ways in which being spied on has become not only normalized, but even enticing, as corporations up the pleasure quotient for consumers who use new digital technologies and social networks – not least of all by and for simulating experiences of community.

Many individuals, especially young people, now run from privacy and increasingly demand services in which they can share every personal facet of their lives. While Orwell’s vision touches upon this type of control, there is a notable difference that he did not foresee. According to Pete Cashmore, while Orwell’s “Thought Police tracked you without permission, some consumers are now comfortable with sharing their every move online.”[17] The state and corporate cultural apparatuses now collude to socialize everyone – especially young people – into a regime of security and commodification in which their identities, values, and desires are inextricably tied to a culture of commodified addictions, self-help, therapy, and social indifference. Intelligence networks now inhabit the world of major corporations such as Disney and the Bank of America as well as the secret domains of the NSA, FBI and fifteen other intelligence agencies. As Edward Snowden’s revelations about the PRISM program revealed, the NSA also collected personal data from all of the major high tech giant service providers who according to a senior lawyer for the NSA, “were fully aware of the surveillance agency’s widespread collection of data.”[18]

The fact is that Orwell’s and Huxley’s ironic representations of the modern totalitarian state – along with their implied defense of a democratic ideal rooted in the right to privacy and the right to be educated in the capacity to be autonomous and critical thinkers– has been transformed and mutilated almost beyond recognition by the material and ideological registers of a worldwide neoliberal order. Just as we can envision Orwell’s and Huxley’s dystopian fables morphing over time from “realistic novels” into a “real life documentary,” and now into a form of “reality TV,” privacy and freedom have been radically altered in an age of permanent, non-stop global exchange and circulation. That is, in the current moment, the right to privacy and freedom have been usurped by the seductions of a narcissistic culture and casino capitalism’s unending desire to turn every relationship into an act of commerce and to make all aspects of daily life subject to market forces under watchful eyes of both government and corporate regimes of surveillance. In a world devoid of care, compassion, and protection, personal privacy and freedom are no longer connected and resuscitated through its connection to public life, the common good, or a vulnerability born of the recognition of the frailty of human life. Culture loses its power as the bearer of public memory, civic literacy, and the lessons of history in a social order where the worst excesses of capitalism are left unchecked and a consumerist ethic “makes impossible any shared recognition of common interests or goals.”[19] With the rise of the punishing state along with a kind of willful amnesia taking hold of the larger culture, we see little more than a paralyzing fear and apathy in response the increasing exposure of formerly private spheres to data mining and manipulation, while the concept of privacy itself has all but expired under a “broad set of panoptic practices.”[20] With individuals more or less succumbing to this insidious cultural shift in their daily lives, there is nothing to prevent widespread collective indifference to the growth of a surveillance culture, let alone an authoritarian state.

The worse fears of Huxley and Orwell merge into a dead zone of historical amnesia as more and more people embrace any and every new electronic device regardless of the risks it might pose in terms of granting corporations and governments increased access to and power over their choices and movements. Detailed personal information flows from the sphere of entertainment to the deadly serious and integrated spheres of capital accumulation and policing as they are collected and sold to business and government agencies who track the populace for either commercial purposes or for fear of a possible threat to the social order and its established institutions of power. Power now imprisons not only bodies under a regime of surveillance and a mass incarceration state but also subjectivity itself as the threat of state control is now coupled with the seductions of the new forms of passive inducing soma: electronic technologies, a pervasive commodified landscape, and a mind numbing celebrity culture.

Underlying these everyday conveniences of modern life, as Boghosian documents in great detail, is the growing Orwellian partnership between the militarized state and private security companies in the United States. Each day, new evidence surfaces pointing to the emergence of a police state that has produced ever more sophisticated methods for surveillance in order to enforce a mass suppression of the most essential tools for democratic dissent: “the press, political activists, civil rights advocates and conscientious insiders who blow the whistle on corporate malfeasance and government abuse.”[21] As Boghosian points out, “By claiming that anyone who questions authority or engages in undesired political speech is a potential terrorist threat, this government-corporate partnership makes a mockery of civil liberties.”[22] Nowhere is this more evident than in American public schools where a youth are being taught that they are a generation of suspects, subject to the presence of armed police and security guards, drug sniffing dogs, and an array of surveillance apparatuses that chart their every move, not to mention in some cases how they respond emotionally to certain pedagogical practices.

Whistleblowers are not only punished by the government; their lives are also turned upside down in the process by private surveillance agencies and major corporations who now work in tandem. For instance, the Bank of America assembled 15 to 20 bank officials and retained the law firm of Hunton & Williams in order to devise “various schemes to attack WikiLeaks and Greenwald whom they thought were about to release damaging information about the bank.”[23] It is worth repeating that Orwell’s vision of surveillance and the totalitarian state look mild next to the emergence of a corporate-private-state surveillance system that wants to tap into every conceivable mode of communication, collect endless amounts of metadata to be stored in vast intelligence storage sites around the country, and use that data to repress any vestige of dissent.[24]

As Huxley anticipated, any critical analysis must move beyond documenting abuses of power to how addressing contemporary neoliberal modernity has created a social order in which individuals become complicit with authoritarianism. That is, how is unfreedom internalized? What and how do state and corporate controlled institutions, cultural apparatuses, social relations, and policies contribute to making a society’s plunge into dark times self-generating as Huxley predicted? Put differently, what is the educative nature of a repressive politics and how does it function to secure the consent of the American public? And, most importantly, how can it be challenged and under what circumstances? Aided by a public pedagogy, produced and circulated through a machinery of consumption and public relations tactics, a growing regime of repression works through the homogenizing forces of the market to support the widespread embrace of an authoritarian culture and police state.

brave-new-world-cover.jpgRelentlessly entertained by spectacles, people become not only numb to violence and cruelty but begin to identify with an authoritarian worldview. As David Graeber suggests, the police “become the almost obsessive objects of imaginative identification in popular culture… watching movies, or viewing TV shows that invite them to look at the world from a police point of view.”[25] But it is not just the spectacle of violence that ushers individuals into a world in which brutality becomes a primary force for mediating relations as well as the ultimate source of pleasure, there is also the production of an unchecked notion of individualism that both dissolves social bonds and removes any viable notion of agency from the landscape of social responsibility and ethical consideration.

Absorbed in privatized orbits of consumption, commodification, and display, Americans vicariously participate in the toxic pleasures of the authoritarian state. Violence has become the organizing force of a society driven by a noxious notion of privatization in which it becomes difficult for ideas to be lifted into the public realm. Under such circumstances, politics is eviscerated because it now supports a market-driven view of society that has turned its back on the idea that social values, public trust, and communal relations are fundamental to a democratic society. This violence against the social mimics not just the death of the radical imagination, but also a notion of banality made famous by Hannah Arendt who argued that at the root of totalitarianism was a kind of thoughtlessness, an inability to think, and a type of outrageous indifference in which “There’s simply the reluctance ever to imagine what the other person is experiencing.” [26]

By integrating insights drawn from both Huxley and Orwell, it becomes necessary for any viable critical analysis to take a long view, contextualizing the contemporary moment as a new historical conjuncture in which political rule has been replaced by corporate sovereignty, consumerism becomes the only obligation of citizenship, and the only value that matters is exchange value. Precarity has replaced social protections provided by the state, just as the state cares more about building prisons and infantilizing the American public than it does about providing all of its citizens with quality educational institutions and health care. America is not just dancing into oblivion as Huxley suggested, it is also being pushed into the dark recesses of an authoritarian state. Orwell wrote dystopian novels but he believed that the sheer goodness of human nature would in the end be enough for individuals to develop modes of collective resistance he could only imagine in the midst of the haunting spectre of totalitarianism. Huxley was more indebted to Kafka’s notion of destabilization, despair, and hopelessness. For Huxley, the subject had lost his or her sense of agency and had become the product of a scientifically manufactured form of idiocy and conformity. Progress had been transformed into its opposite and science now needs to be liberated from itself. As Theodor Adorno has pointed out, where Huxley fails is that he has no sense of resistance. According to Adorno, “The weakness of Huxley’s entire conception is that it makes all its concepts relentlessly dynamic but nevertheless arms them against the tendency to turn into their own opposites.” [27] Hence, the forces of resistance are not simply underestimated but rendered impotent.

The authoritarian nature of the corporate-state surveillance apparatus and security system with its “urge to surveil, eavesdrop on, spy on, monitor, record, and save every communication of any sort on the planet”[28] can only be fully understood when its ubiquitous tentacles are connected to wider cultures of control and punishment, including security-patrolled corridors of public schools, the rise in super-max prisons, the hyper-militarization of local police forces, the justification of secret prisons and state-sanctioned torture abroad, and the increasing labeling of dissent as an act of terrorism in the United States. [29] This is part of Orwell’s narrative but it does not go far enough. The new authoritarian corporate-driven state deploys more subtle tactics to depoliticize public memory and promote the militarization of everyday life. Alongside efforts to defund public and higher education and to attack the welfare state, a wide-ranging assault is being waged across the culture on all spheres that encourage the public to hold power accountable. If these public institutions are destroyed, there will be few sites left in which to nurture the critical formative cultures capable of educating people to challenge the range of injustices plaguing the United States and the forces that reproduce them. One particular challenge comes from the success of neoliberal tyranny to dissolve those social bonds that entail a sense of responsibility toward others and form the basis for political consciousness. Under the new authoritarian state, perhaps the gravest threat one faces is not simply being subject to the dictates of what Quentin Skinner calls “arbitrary power,” but failing to respond with outrage when “my liberty is also being violated, and not merely by the fact that someone is reading my emails but also by the fact that someone has the power to do so should they choose.”[30] The situation is dire when people no longer seem interested in contesting such power. It is precisely the poisonous spread of a broad culture of political indifference that puts at risk the fundamental principles of justice and freedom which lie at the heart of a robust democracy. The democratic imagination has been transformed into a data machine that marshals its inhabitants into the neoliberal dream world of babbling consumers and armies of exploitative labor whose ultimate goal is to accumulate capital and initiate individuals into the brave new surveillance/punishing state that merges Orwell’s Big Brother with Huxley’s mind- altering soma.

Nothing will change unless people begin to take seriously the subjective underpinnings of oppression in the United States and what it might require to make such issues meaningful in order to make them critical and transformative. As Charles Derber has explained, knowing “how to express possibilities and convey them authentically and persuasively seems crucially important”[31] if any viable notion of resistance is to take place. The current regime of authoritarianism is reinforced through a new and pervasive sensibility in which people surrender themselves to the both the capitalist system and a general belief in its call for security. It does not simply repress independent thought, but constitutes new modes of thinking through a diverse set of cultural apparatuses ranging from the schools and media to the Internet. The fundamental question in resisting the transformation of the United States into a 21st-century authoritarian society must concern the educative nature of politics – that is, what people believe and how their individual and collective dispositions and capacities to be either willing or resistant agents are shaped.

I want to conclude by recommending five initiatives, though incomplete, that might help young people and others challenge the current oppressive historical conjuncture in which they along with other oppressed groups now find themselves. My focus is on higher education because that is the one institution that is under intense assault at the moment because it has not completely surrendered to the Orwellian state.[32]

First, there is a need for what can be called a revival of the radical imagination. This call would be part of a larger project “to reinvent democracy in the wake of the evidence that, at the national level, there is no democracy—if by ‘democracy’ we mean effective popular participation in the crucial decisions affecting the community.”[33] Democracy entails a challenge to the power of those individuals, financial elite, ruling groups, and large-scale enterprises that have hijacked democracy. At the very least, this means refusing to accept minimalist notions of democracy in which elections become the measure of democratic participation. Far more crucial is the struggle for the development public spaces and spheres that produce a formative culture in which the American public can imagine forms of democratic self-management of what can be called “key economic, political, and social institutions.”[34]

One step in this direction would be to for young people, intellectuals, scholars and other to go on the offensive in defending higher education as a public good, resisting as much as possible the ongoing attempt by financial elites to view its mission in instrumental terms as a workstation for capital. This means fighting back against a conservative led campaign to end tenure, define students as consumers, defund higher education, and destroy any possibility of faculty governance by transforming most faculty into adjuncts or what be called Walmart workers. Higher education should be harnessed neither to the demands of the warfare state nor the instrumental needs of corporations. In fact, it should be a viewed as a right rather than as an entitlement. Nowhere is this assault on higher education more evident than in the efforts of billionaires such as Charles and David Koch to finance academic fields, departments, and to shape academic policy in the interest of indoctrinating the young into the alleged neoliberal, free market mentality. It is also evident in the repressive policies being enacted at the state level by right-wing politicians. For instance, in Florida, Governor Rick Scott’s task force on education has introduced legislation that would lower tuition for degrees friendly to corporate interests in order to “steer students toward majors that are in demand in the job market.”[35] In Wisconsin, Governor Scott Walker drew up a proposal to remove the public service philosophy focus from the university’s mission statement which states that the university’s purpose is to solve problems and improve people’s lives. He also scratched out the phrase “the search for truth” and substituted both ideas with a vocabulary stating that the university’s goal is to meet “the state’s work force needs.”[36] But Walker’s disdain for higher education as a public good can be more readily understood given his hatred of unions, particularly those organized for educators. How else to explain his egregious comparison of union protesters to the brutal terrorists and thugs that make up ISIS and his ongoing attempts to eliminate tenure at Wisconsin’s public universities as well as to eviscerate any vestige of shared governance.[37]

bravhuxley2.jpegAnother egregious example of neoliberalism’s Orwellian assault on higher education can be found in the policies promoted by the Republican Party members who control the North Carolina Board of Governors. Just recently it has decimated higher education in that state by voting to cut 46 degree programs. One member defended such cuts with the comment: “We’re capitalists, and we have to look at what the demand is, and we have to respond to the demand.”[38] The ideology that drives this kind of market-driven assault on higher education was made clear by Republican governor, Pat McCrory who said in a radio interview “If you want to take gender studies, that’s fine, go to a private school and take it. But I don’t want to subsidize that if that’s not going to get someone a job.”[39] This is more than an example of crude economic instrumentalism, it is also a recipe for instituting an academic culture of thoughtlessness and a kind of stupidity receptive to what Hannah Arendt once called totalitarianism.

Second, young people and progressives need create the institutions and public spaces in which education becomes central to as a counter-narrative that serves to both reveal, interrogate, and overcome the common sense assumptions that provide the ideological and affective webs that tie many people to forms of oppression. Domination is not just structural and its subjective roots and pedagogical mechanisms need to be viewed as central to any politics that aims to educate, change individual and collective consciousness, and contribute to broad-based social formations. Relatedly, a coalition of diverse social movements from unions to associations of artists, educators, and youth groups need to develop a range of alternative public spheres in which young people and others can become cultural producers capable of writing themselves back into the discourse of democracy while bearing witness to a range of ongoing injustices from police violence to the violence of the financial elite.

Third, America has become a society in which the power at the state and national levels has become punitive for most Americans and beneficial for the financial and corporate elite. Punishment creep now reaches into almost every commanding institution that holds sway over the American public and its effects are especially felt by the poor, blacks, young people, and the elderly. While the American public is distracted by Bruce Jenner’ sex change, millions of young men are held in prisons and jails across the United States, and most of them for nonviolent crimes. Working people are punished for a lifetime of work by having their pensions either reduced or taken away. Poor people are denied Medicaid because right-wing politicians believe the poor should be financially responsible for their health care. And so it goes. The United States is one of the few countries that allow teenagers to be tried as adults, even though there are endless stories of such youth being abused, beaten, and in some cases committing suicide as a result of such savage treatment. Everywhere we look in American society, routine behavior is being criminalized. If you owe a parking ticket, you may end up in jail. If you violate a dress code as a student you may be handcuffed by the police and charged with a criminal offense. A kind of mad infatuation with violence is matched by an increase in state lawlessness. In particular, young people have been left out of the discourse of democracy. They are the new disposables who lack jobs, a decent education, hope, and any semblance of a future better than the one their parents inherited.

In addition, an increasing numbers of youth suffer mental anguish and overt distress even, perhaps especially, among the college bound, debt-ridden, and unemployed whose numbers are growing exponentially. Many reports claim that “young Americans are suffering from rising levels of anxiety, stress, depression and even suicide. For example, “One out of every five young people and one out of every four college students … suffers from some form of diagnosable mental illness.”[40] According to one survey, “44 percent of young aged 18 to 24 say they are excessively stressed.”[41] One factor may be that there are so few jobs for young people. In fact the Jobless rate for Americans aged 15 to 24 stands at 15.8 percent, more than double the unemployment rate of 6.9 per cent for all ages, according to the World Bank.”[42] Facing what Richard Sennett calls the “spectre of uselessness,” the war on youth serves as a reminder of how finance capital has abandoned any viable vision of democracy, including one that would support future generations. The war on youth has to be seen as a central element of state terrorism and crucial to critically engaging the current regime of neoliberalism.

Fourth, As the claims and promises of a neoliberal utopia have been transformed into an Orwellian and Dickensian nightmare, the United States continues to succumb to the pathologies of political corruption, the redistribution of wealth upward into the hands of the 1 percent, the rise of the surveillance state, and the use of the criminal justice system as a way of dealing with social problems. At the same time, Orwell’s dark fantasy of an authoritarian future continues without enough massive opposition as students, low income, and poor minority youth are exposed to a low intensity war in which they are held hostage to a neoliberal discourse that translates systemic issues into problems of individual responsibility. This individualization of the social is one of the most powerful ideological weapons used by the current authoritarian regime and must be challenged.

Under the star of Orwell, morality loses its emancipatory possibilities and degenerates into a pathology in which misery is denounced as a moral failing. Under the neo-Darwinian ethos of survival of the fittest, the ultimate form of entertainment becomes the pain and humiliation of others, especially those considered disposable and powerless, who are no longer an object of compassion, but of ridicule and amusement. This becomes clear in the endless stories we are now hearing from U.S. politicians disdaining the poor as moochers who don’t need welfare but stronger morals. This narrative can also be heard from conservative pundits such as New York Times columnist, David Brooks, who epitomize this view. According to Brooks, poverty is a matter of the poor lacking virtue, middle-class norms, and decent moral codes.[43] For Brooks, the problems of the poor and disadvantaged can be solved “through moral education and self-reliance…high-quality relationships and strong familial ties.”[44]   In this discourse soaring inequality in wealth and income, high levels of unemployment, stagnant economic growth and low wages for millions of working Americans are ignored.   What Brooks and other conservatives conveniently disregard are the racist nature of the drug wars, the strangle hold of the criminal justice system on poor black communities, police violence, mass unemployment for black youth, poor quality education in low income neighborhoods, and the egregious effect of mass incarceration on communities of color are ignored. Paul Krugman gets it right in rebutting the argument that all the poor need are the virtues of middle class morality and a good dose of resilience.[45] He writes:

So it is…disheartening still to see commentators suggesting that the poor are causing their own poverty, and could easily escape if only they acted like members of the upper middle class….Shrugging your shoulders as you attribute it all to values is an act of malign neglect. The poor don’t need lectures on morality, they need more resources — which we can afford to provide — and better economic opportunities, which we can also afford to provide through everything from training and subsidies to higher minimum wages.[46]

Lastly, any attempt to make clear the massive misery, exploitation, corruption, and suffering produced under casino capitalism must develop both a language of critique and possibility. It is not enough to simply register what is wrong with American society, it is also crucial to do so in a way that enables people to recognize themselves in such discourses in a way that both inspires them to be more critical and energizes them to do something about it. In part, this suggests a politics that is capable of developing a comprehensive vision of analysis and struggle that “does not rely on single issues.”[47] It is only through an understanding of the wider relations and connections of power that the American public can overcome uninformed practice, isolated struggles, and modes of singular politics that become insular and self-sabotaging. This means developing modes of analyses capable of connecting isolated and individualized issues to more generalized notions of freedom, and developing theoretical frameworks in which it becomes possible to translate private troubles into broader more systemic conditions. In short, this suggests developing modes of analyses that connect the dots historically and relationally. It also means developing a more comprehensive vision of politics and change. The key here is the notion of translation, that is, the need to translate private troubles into broader public issues and understand how systemic modes of analyses can be helpful in connecting a range of issues so as to be able to build a united front in the call for a radical democracy.

This is a particularly important goal given that the fragmentation of the left has been partly responsible for its inability to develop a wide political and ideological umbrella to address a range of problems extending from extreme poverty, the assault on the environment, the emergence of the permanent warfare state, the roll back of voting rights, and the assault on public servants, women’s rights, and social provisions, and a range of other issues that erode the possibilities for a radical democracy. The dominating mechanisms of casino capitalism in both their symbolic and material registers reach deep into every aspect of American society. Any successful movement for a radical democracy will have to wage a struggle against the totality of this new mode of authoritarianism rather than isolating and attacking specific elements of its anti-democratic ethos.

The darkest side of the authoritarian state feeds and legitimizes not only state violence, the violation of civil liberties, a punishing state, and a culture of cruelty, but also a culture for which violence becomes the only mediating force available to address major social problems. Under such circumstances, a culture of violence erupts and punishes the innocent, the marginalized, and those everyday people who become victims of both hate crimes and state terrorism. The killings in South Carolina of nine innocent black people once again registers the lethal combination of racist violence, a culture of lawlessness, and political irresponsibility. In this case, politics becomes corrupt and supports both the ideological conditions that sanction racist violence and the militarized institutional gun culture that it celebrates rather than scorns it. Should anyone be surprised by these killings in a state where the Confederate flag waves over the state capital, where the roads are named after Confederate generals, and where hate crimes are not reported? South Carolina is only the most obvious example of a racist legacy that refuses to die throughout the United States. Violence has become the DNA of American society. And it will continue until a broken and corrupt political, cultural, and market-driven system, now controlled largely by ideological, educational, economic, and religious fundamentalists, can be broken. Until then the bloodshed will continue, the spectacle of violence will fill America’s screen culture, and the militarization of American society will continue. Neither Orwell nor Huxley could have imagined such a violent dystopian society.

What will American society look like in the future? For Huxley, it may well mimic a nightmarish image of a world in which ignorance is a political weapon and pleasure as a form of control, offering nothing more that the swindle of fulfillment, if not something more self-deluding and defeating. Orwell, more optimistically, might see a more open future and history disinclined to fulfill itself in the image of the dystopian society he so brilliantly imagined. He believed in the power of those living under such oppression to imagine otherwise, to think beyond the dictates of the authoritarian state and to offer up spirited forms of collective resistance willing to reclaim the reigns of political emancipation. For Huxley, there was hope in a pessimism that had exhausted itself; for Orwell optimism had to be tempered by a sense of educated hope. Only time will tell us whether either Orwell or Huxley was right. But one thing is certain, history is open and the space of the possible is always larger than the one currently on display.

Henry A. Giroux currently holds the McMaster University Chair for Scholarship in the Public Interest in the English and Cultural Studies Department and a Distinguished Visiting Professorship at Ryerson University. His most recent books are America’s Education Deficit and the War on Youth (Monthly Review Press, 2013) and Neoliberalism’s War on Higher Education (Haymarket Press, 2014). His web site is www.henryagiroux.com.

Notes.

[1] Neil Postman, Amusing Ourselves To Death: Public Discourse in the Age of Show Business, (New York, NY: Penguin Books, 1985, 2005).

[2]. Antonio Gramsci, Prison Notebooks, Ed. & Trans. Quintin Hoare & Geoffrey Nowell Smith, New York: International Publishers, 1971. p. 276.

[3] I take up in great detail the nature of the surveillance state and the implications the persecution of these whistle blowers has for undermining any viable understanding of democracy. See: Henry A. Giroux, “Totalitarian Paranoia in the post-Orwellian Surveillance State,” Truthout (February 10, 2014). Online: http://www.truth-out.org/opinion/item/21656-totalitarian-paranoia-in-the-post-orwellian-surveillance-state.

[4] For an excellent description of the new surveillance state, see Glenn Greenwald, No Place to Hide (New York: Signal, 2014); Julia Angwin, Dragnet Nation: A Quest for Privacy, Security, and Freedom in a World of Relentless Surveillance (New York: Times Books, 2014);

[5] Zygmunt Bauman and David Lyon, Liquid Surveillance: A Conversation (Cambridge, UK: Polity Press, 2013).

[6] Zygmunt Bauman, Wasted Lives (London: Polity, 2004), pp.132-133.

[7] Editorial, “Cops or Soldiers: America’s Police Have Become Militarized,” The Economist (May 22, 2014). Online: http://www.economist.com/news/united-states/21599349-americas-police-have-become-too-militarised-cops-or-soldiers

[8]Michelle Alexander, “Michelle Alexander, The Age of Obama as a Racial Nightmare,” Tom Dispatch (March 25, 2012). Online: http://www.tomdispatch.com/post/175520/best_of_tomdispatch%3A_michelle_alexander,_the_age_of_obama_as_a_racial_nightmare/

[9] Heidi Boghosian, Spying on Democracy: Government Surveillance, Corporate Power, and Public Resistance, (City Lights Books, 2013).

[10]. Instructive here is Manuel Castells, Networks of Outrage and Hope: Social Movements in the Internet Age (Cambridge: Polity, 2012).

[11] Marjorie Cohn, “Beyond Orwell’s Worst Nightmare,” Huffington Post (January 31, 2014).

[12] See, for example, Manuel Castells, The Rise of the Network Society (Malden: Wiley-Blackwell, 1996) and Zygmunt Bauman, Collateral Damage: Social Inequalities in a Global Age (Cambridge: Polity Press, 2011).

[13] Ibid., pp. xix-xx

[14] Ibid., Postman, Amusing Ourselves To Death.

[15] Ariel Dorfman, “Repression by Any Other Name,” Guernica (February 3, 2014).

[16] Boghosian, op cit., p. 32.

[17] Pete Cashmore, “Why 2012, despite privacy fears, isn’t like Orwell’s 1984”, CNN (January 23, 2012). Online: http://ireport.cnn.com/docs/DOC-770499

[18] Spencer Ackerman, “US tech giants knew of NSA data collection, agency’s top lawyer insists,” The Guardian (March 19, 2014). Online: http://www.theguardian.com/world/2014/mar/19/us-tech-giants-knew-nsa-data-collection-rajesh-de

[19] Ibid. Boghosian, p. 22..

[20] Jonathan Crary, 24/7 (London: Verso, 2013), p. 16.

[21] Mark Karlin, “From Spying on ‘Terrorists Abroad’ to Suppressing Domestic Dissent: When We Become the Hunted,” Truthout, (August 21, 2013).

[22] Ibid., pp. 22-23.

[23] Arun Gupta, “Barrett Brown’s Revelations Every Bit as Explosive as Edward Snowden’s,” The Guardian (June 24, 2013).

[24] Bruce Schneier, “The Public-Private Surveillance Partnership,” Bloomberg (July 31, 2013).

[25] David Graeber, “Dead Zones of the Imagination,” HAU: Journal of Ethnographic Theory 2 (2012), p. 119.

[26] Ibid., p. 48.

[27] Theodor W. Adorno, “Aldous Huxley and Utopia”, Prisms, (Cambridge: MIT Press, 1967), pp. 106-107.

[28] Tom Engelhardt, “Tomgram: Engelhardt, A Surveillance State Scorecard,” Tom Dispath.com (November 12, 2013).

[29] I take up many of these issues in Henry A. Giroux, The Violence of Organized Forgetting (San Francisco: City Lights Publishing, 2014); The Twilight of the Social (Boulder: Paradigm Press, 2012), and Zombie Politics and Culture in the Age of Casino Capitalism (New York: Peter Lang, 2011).

[30] Quoted in Quentin Skinner and Richard Marshall, “Liberty, Liberalism and Surveillance: a historic overview,” Open Democracy (July 26, 2013).

[31] Charles Derber, private correspondence with the author, January 29, 2014.

[32]Stanley Aronowitz, “What Kind of Left Does America Need?,” Tikkun, April 14, 2014

http://www.tikkun.org/nextgen/what-kind-of-left-does-america-need

[33] Ibid.

[34] Ibid.

[35] Lizette Alvarez, “Florida May Reduce Tuition for Select Majors,” New York Times (December 9, 2012). Online: http://www.nytimes.com/2012/12/10/education/florida-may-reduce-tuition-for-select-majors.html?_r=0

[36] Valerie Strauss, “How Gov. Walker tried to quietly change the mission of the University of Wisconsin,” The Washington Post (February 5, 2015). Online: http://www.washingtonpost.com/blogs/answer-sheet/wp/2015/02/05/how-gov-walker-tried-to-quietly-change-the-mission-of-the-university-of-wisconsin/

[37] Monica Davey and Tamar Lewinjune , “Unions Subdued, Scott Walker Turns to Tenure at Wisconsin Colleges,” New York Times (June 4, 2015). Online: http://www.nytimes.com/2015/06/05/us/politics/unions-subdued-scott-walker-turns-to-tenure-at-wisconsin-colleges.html?_r=0

[38] Andy Thomason, “As Degrees Are Cut, Critics continue to Decry Dismantling of U. of North Carolina,” The Chronicle of Higher Education (May 27, 2015). Online: http://chronicle.com/blogs/ticker/as-degrees-are-cut-critics-continue-to-decry-dismantling-of-u-of-north-carolina/99587

[39] Ibid.

[40] Therese J. Borchard. “Statistics About College Depression,” World of Psychology (September 2, 2010). Online: http://psychcentral.com/blog/archives/2010/09/02/statistics-about-college-depression/; Allison Vuchnich and Carmen Chai, “Young Minds: Stress, anxiety plaguing Canadian youth,” Global News (May 6, 2013). Online: http://globalnews.ca/news/530141/young-minds-stress-anxiety-plaguing-canadian-youth/

[41] Paul Luke, “Seriously stressed-out students on the rise on post-secondary campuses

Burdened by debt and facing a shaky job market, many students feel overwhelmed,” The Province (April 21, 2014). Online: http://www.theprovince.com/business/Seriously+stressed+students+rise+post+secondary+campuses/9756065/story.html

[42] See http://data.worldbank.org/indicator/SL.UEM.1524.ZS

[43] See, for instance, David Brooks, “The Nature of Poverty,” New York Times (May 1, 2015). Online:

http://www.nytimes.com/2015/05/01/opinion/david-brooks-the-nature-of-poverty.html?smid=tw-share&_r=0

[44] Sean Illing, “Why David Brooks Shouldn’t Talk About Poor People,” Salon (May 1, 2015). Online: http://www.slate.com/articles/news_and_politics/politics/2015/05/david_brooks_shouldn_t_talk_about_the_poor_the_new_york_times_columnist.single.html?print

[45] For an excellent rebuttal of the politics of resilience, see Brad Evans and Julien Reid, Resilient Life: The Art of Living Dangerously (London: Polity Press, 2014).

[46] Paul Krugman, “Race, Class, and Neglect,” New York Times (May 4, 2015). Online: http://www.nytimes.com/2015/05/04/opinion/paul-krugman-race-class-and-neglect.html?_r=0

[47] Ibid.

 

samedi, 27 juin 2015

Guénon y Drieu

Guénon y Drieu

por José Luis Ontiveros

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com

drieu&&&&&.pngHay un reclamo persistente en Drieu: “Voces falsarias y hueras me han acusado de que mi posición surge de un adaptarme a las formas políticas que se proyectan como victoriosas, en este momento de la guerra y que serían las dominantes en el futuro, todo ello es falso”

“Las guerras —prosigue— como la vida fluyen y cambian su rumbo, nada es seguro, no se percibe el sentido oculto de mi actitud; cada vez soy más escéptico en cuanto Alemania aliente el futuro o si la barbarie rusa, creadora de instintos poderosos lo perfile”.

Estas palabras epifánicas de sus escritos depositados en el México profundo y vestigial hacen una clara referencia en clave a la influencia determinante —en Drieu— de las reflexiones sobre la Tradición primordial, la historia de los símbolos de las religiones y su confluencia sagrada que marcan la obra de René Guénon, en particular de su libro axial La crisis del mundo moderno, que tiene como corolario El reino de la cantidad y los signos de los tiempos, el primero publicado en 1927, y el segundo, en el fatídico año de 1945.

En un círculo pitagórico que cumple en Drieu la bitácora de cuáles fueron las causas metafísicas de que continuara hasta el final en una situación límite y en el filo de la navaja, llegando a consumar el ritual de su propia muerte consagratoria.

En cuanto Guénon dice: “Lamentablemente mi lectura de Guénon fue un tanto tardía, ya pasando del comunismo al fascismo revolucionario, más el haberlo encontrado fue para mí más definitivo, quizá, que mi conocimiento de Nietzsche, de Maurice Barrés y de Charles Maurras, al punto que puedo considerarlo una fuente decisiva para mi ruptura con el mundo moderno y su civilización materialista”.

“He de referirme al propio Guénon —continúa— en cuanto los puntos esenciales que legitiman, por el sentido de las ciencias sagradas, lo que puede parecer puramente contingente, superficial y aún meramente ‘político’.

“Por ello destaco lo que toca el centro de mi corazón y la profundidad del espíritu luminoso que guarda el alma”.

Y Drieu retoma a Guénon como la verdadera doctrina: “Hay algunos que vislumbran —de manera algo difusa y confusa— que la civilización occidental, en lugar de seguir evolucionando siempre en el mismo sentido, bien podría un día llegar a punto muerto o hasta perecer por completo en algún sombrío cataclismo”.

Recopila citas que vuelve suyas en comunión con la sacralidad de la Tradición unánime identificándose sin saberlo con el símbolo heroico de Julius Evola y su Doctrina aria de lucha y victoria, en que lo esencial es el valor de la acción en sí y no sus resultados.

Da especial atención el juicio de René Guénon: “Lograr concebir que esta civilización, de la cual los modernos se sienten tan ufanos, no ocupa un sitio de privilegio en la historia del mundo”.

En tal sentido estima en una misma caída espiritual a la civilización demoliberal y a la marxista, fusionándose con Guénon: “Es inminente una transformación más o menor profunda, (en que) inevitablemente tendrá que producirse un cambio de orientación a breve plazo, de buen o mal grado, de manera más o menos brusca, con catástrofe o sin ella”.

guénoniiii.jpgSobre el particular apunta Drieu: “Me he convencido de que Guénon anuncia, con el lenguaje cifrado propio de la Tradición sagrada de los pueblos, que se aproxima un cambio drástico en la valoración de los hombres y en el sentido de la vida; en ello he visto a las nuevas fuerzas que se alzan contra los dogmas, al parecer inamovibles, de una civilización basada en el dinero, el materialismo y en formas políticas caducas”.

“Ello me ha sido confirmado —señala— al leer en Guénon”: “El estado de malestar general que vivimos en la actualidad me da el oscuro presentimiento de que, en efecto, algo está por terminar”.

“Y esta creencia —agrega— se tornó ya indeclinable cuando Guénon se refiere al cierre de un ciclo y el principio de uno nuevo”: “Los elementos que luego deberán intervenir en el ‘juicio’ futuro, a partir del cual se iniciará un nuevo periodo de la historia de la humanidad en la Tierra”.

Drieu interioriza en su vida la lectura de Guénon: “Y si lo que debe terminar es la civilización occidental en su forma actual (considerada como la ‘civilización sin epítetos’), (hay quienes) se sienten dispuestos a creer que al desaparecer vendrá el fin del mundo”.

“El fin del mundo —acota— es para mí el escenario de esta guerra en la que combato por la Idea y en la que sé moriré y eso está claro”, manifiesta.

La lectura que Drieu hizo de Guénon es la verdadera explicación de su sacrificio visionario.

Fuente: Vértigo Político