jeudi, 31 octobre 2013
Nietzsche fenomenologo del quotidiano
Scolari, Paolo, Nietzsche fenomenologo del quotidiano
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mardi, 29 octobre 2013
Spengler e l’anima russa
Spengler e l’anima russa
La Russia antica e la “pseudomorfosi” illuminista
Nel Tramonto dell’Occidente[1], Oswald Spengler si sofferma ampiamente sulle peculiarità dell’anima russa. Tale analisi è collocata nella seconda parte dell’opera, che si intitola “Prospettive della storia mondiale”[2], la prima parte essendo dedicata a “Forma e realtà”, ove delinea la sua visione ciclica della storia, definisce l’“anima” di ogni civiltà, con le famose fasi, l’una ascendente (Kultur) e l’altra discendente (Zivilisation) di ogni ciclo storico, per poi tracciare una morfologia comparata delle civiltà che offre un grande scenario di macrostoria [3].
Altrettanto interessante e stimolante è l’applicazione del metodo comparativo spengleriano per studiare e decifrare l’affinità morfologica che connette interiormente la lingua delle forme di tutti i domini interni ad una data civiltà, dall’arte alla matematica alla geometria, al pensiero filosofico e al linguaggio delle forme della vita economica, essa stessa espressione di una data “anima”, ossia di un “sentimento del mondo” che contraddistingue un certo tipo di sensibilità.
In questa prospettiva, anche i fatti politici, assumono il valore di potenti simboli; per Spengler occorre saper cogliere che cosa significa il loro apparire, l’ “anima” di cui essi sono espressione.
Pseudomorfosi
Nella seconda parte dell’opera, l’Autore colloca lo studio dell’anima russa nel capitolo sulle pseudomorfosi storiche ed è partendo da questa categoria spengleriana che si può comprendere il suo modo di descrivere il mondo russo.
Per spiegare la pseudomorfosi, Spengler parte da una nozione di mineralogia. Egli attinge ad un fenomeno naturale per spiegare e definire un fenomeno storico, in ciò accogliendo un procedimento di osservazione scientifico-naturalistico tipico di Goethe, al quale esplicitamente si richiama nella prima parte della sua opera.
“Si supponga uno strato di calcare che contenga cristalli di un dato minerale. Si producono crepacci e fessure; l’acqua si infiltra e a poco a poco, passando, scioglie e porta via i cristalli, di modo che nel conglomerato non restano più che le cavità da essi occupate. Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli nei quali la struttura interna contraddice la conformazione esterna, un dato minerale apparendo ora sotto le specie esteriori di un altro. E’ ciò che i mineralogisti chiamano pseudomorfosi” [4].
Dalla nozione di mineralogia passa quindi alle pseudomorfosi storiche.
“Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione, ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle profondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell’adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora si subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”[5].
Di questo fenomeno Spengler ci offre vari esempi quali la civiltà araba – che egli fa risalire, come sentimento del mondo, al III secolo a.C. – che fu costretta e soffocata nelle forme di una civiltà straniera, quale quella macedone col suo relativo dominio (impresa di Alessandro Magno e civiltà ellenistica).
Non è questa la sede per esaminare la pseudomorfosi araba, perché tale tema ci porterebbe lontano, considerando la peculiarità della visione storica spengleriana, rispetto allo specialismo della storiografia occidentale del suo tempo con la quale egli polemizza e argomenta in modo approfondito.
Altra pseudomorfosi è quella che inizia con la battaglia di Azio del 31 a. C.
“Qui non si trattò di una lotta per la supremazia della romanità o dell’ellenismo; una lotta del genere era stata già combattuta a Canne e a Ama, ove ad Annibale toccò il destino tragico di battersi non per la sua patria bensì per l’ellenismo. Ad Azio la nascente civiltà araba si trovò di fronte alla civilizzazione antica senescente. Si doveva decidere il trionfo dello spirito apollineo o di quello magico, degli dei o del Dio, del principato o del califfato. La vittoria di Antonio avrebbe liberato l’anima magica; invece la sua sconfitta ebbe per conseguenza che sul paesaggio di tale anima si riaffermarono le rigide, disanimate strutture del periodo imperiale”[6].
Pseudomorfosi russa
Un ulteriore esempio di pseudomorfosi ce lo offre la Russia di Pietro il Grande. L’anima russa originaria si esprime nelle saghe di Kiev riguardanti il principe Vladimiro (verso il 1000 d. C.) con la sua Tavola Rotonda e l’eroe popolare Ilja di Muros. Qui il pensatore tedesco coglie l’immensa differenza fra anima russa e anima faustina (ossia quella europea tesa verso l’infinito e simboleggiata dalle cattedrali gotiche) nel divario che intercorre fra tali poemi slavi e quelli sincronici – rispetto ad essi – della saga di Malthus e dei Nibelunghi del periodo delle invasioni “nella forma dell’epica di Ildebrando”[7].
Il periodo “merovingio” russo (ossia il periodo aurorale) inizia con la liberazione dal dominio tartaro di Ivan III (1480) e si sviluppa attraverso gli ultimi Rurik e i primi Romanov fino a Pietro il Grande (1689-1725). Esso corrisponde al periodo che va, in Francia, da Clodoveo(465-511) fino alla battaglia di Testry (687) con la quale i Carolingi si assicurano il potere effettivo. Spengler coglie qui un’affinità morfologica.
“A questo periodo moscovita delle grandi stirpi bojare e dei patriarchi, durante il quale un partito della Vecchia Russia lottò continuamente contro gli amici della civiltà occidentale, segue, con la fondazione di Pietroburgo (1703) la pseudomorfosi, la quale impose all’anima russa primitiva le forme straniere dell’alto Barocco, poi quelle dell’illuminismo e infine quelle del diciannovesimo secolo. Pietro il Grande fu fatale per la civiltà russa. Si pensi alla sua corrispondenza “sincronica”, a Carlomagno, che metodicamente e con tutte le sue energie attuò ciò che Carlo Martello pochi anni prima aveva scongiurato con la sua vittoria sugli Arabi; il sopravvento dello spirito mauro-bizantino”[8].
Nella visione spengleriana, Pietro il Grande impone alla Russia una forma che non le è congeniale, che è lontana dallo spirito contadino, antico, mistico e religioso della Vecchia Russia. Carlomagno avrebbe mutuato in Occidente una forma mauro-bizantina (l’Impero, la struttura gerarchizzata sul modello romano-orientale) che non sarebbe stata congeniale all’Europa dell’alto Medio Evo (adopero questa periodizzazione per farmi intendere, anche se essa non è affatto spengleriana).
Qui lo studioso tedesco introduce una riflessione che è di rilievo centrale e che contribuisce a far comprendere anche la storia della Russia contemporanea.
“Lo zarismo primitivo di Mosca è l’unica forma che ancor oggi sia conforme alla natura russa, ma esso a Pietroburgo fu falsato nella forma dinastica propria all’Europa occidentale. La tendenza verso il Sud sacro, verso Bisanzio e Gerusalemme, profondamente radicata in tutte le anime greco-ortodosse, si trasformò in una diplomazia mondana, in uno sguardo rivolto verso l’Occidente … Furono importate arti e scienze tarde, l’illuminismo, l’etica sociale, il materialismo cosmopolita, benché in questo primo periodo del ciclo russo la religione fosse l’unica lingua nella quale ognuno comprendeva se stesso e comprendeva il mondo” [9].
Questa imposizione di un modello straniero generò un sentimento di odio “davvero apocalittico” contro l’Europa, intendendo con tale termine tutto quanto non era russo, anche Roma e Atene, insomma l’Occidente nella varietà ed anche nell’antichità delle sue manifestazioni.”La prima condizione a che il sentimento nazionale russo si liberi è odiare Pietroburgo con tutto il cuore e con tutta l’anima” scriveva Aksakoff a Dostoevskij.
In altri termini, Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana e Pietro il Grande, in una leggenda popolare, viene presentato come l’Anticristo[10].
Tolstoi e Dostoevskij
Per Spengler, se si vogliono comprendere i due grandi interpreti della pseudomorfosi russa, occorre vedere in Dostoevskij il contadino, in Tolstoi l’uomo cosmopolita.
“L’uno non poté mai liberarsi interiormente dalla campagna, l’altro la campagna, malgrado ogni suo disperato sforzo, non riusci mai a ritrovarla”[11].
Qui la lettura di Spengler diviene dirompente e innovativa, con tratti tipici da “rivoluzione conservatrice”.
Egli considera, infatti, Tolstoi come la Russia del passato e Dostoevskij come simbolo della Russia dell’avvenire, il che equivale a dire che l’anima contadina antica della Russia, l’anima legata al sentimento delle radici e delle tradizioni, rappresenta l’avvenire, mentre lo spirito cosmopolita e illuminista, di stampo occidentale moderno, è destinato a tramontare.
Peraltro, questa spirito cosmopolita era profondamente divorato da un odio viscerale contro un’Europa moderna da cui non poteva liberarsi, essendovi profondamente legato. In altri termini, una sorta di amore/odio verso l’Europa.
“Tolstoi odiò potentemente l’Europa da cui non poteva liberarsi. Egli l’odiò in sé stesso e odiò se stesso. Per questo fu il padre del bolscevismo[12]..
Dostoevskij, al contrario, non nutrì un tale odio ma un fervido amore per tutto ciò che è occidentale, nel senso delle antiche radici culturali dell’Europa.
“Un simile odio Dostoevskij non lo conobbe. Egli nutrì un amore altrettanto fervido per tutto quello che è occidentale. “Io ho due patrie, la Russia e L’Europa”[13]. Questa affermazione dello scrittore russo è molto sintomatica delle sue inclinazioni. Spengler passa poi a citare un brano del romanzo I Fratelli Karamazov che è molto eloquente circa quello che lo scrittore russo intende per richiamo interiore verso l’Europa.
“Partirò per l’Europa – dice Ivan Karamazov al fratello Alioscia – io so di non andare che verso un cimitero, ma so anche che questo cimitero mi è caro, che è il più caro di tutti i cimiteri. I nostri sacri morti sono seppelliti là, ogni pietra delle loro tombe parla di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle azioni che hanno compiute, nelle loro verità, nelle loro lotte e nelle loro conoscenze che io, lo so di già, mi prosternerò per baciare quelle pietre e per piangere su di esse”[14]
L’Europa, per Dostoevskij, è quella delle radici antiche, della memoria storica, dell’identità, degli avi, delle antiche fedi e delle antiche lotte. In altri termini, l’Europa non è quella dell’illuminismo cui guardava Pietro il Grande, ma esattamente il contrario.
Mentre Tolstoi si muove nell’ottica dell’economia politica e dell’etica sociale, in una dimensione intellettualistica, tipicamente occidentale e moderna, Dostoevskij era al di là delle categorie occidentali, comprese quelle di rivoluzione e di conservatorismo.
“Per lui fra conservatorismo e rivoluzione – scrive Spengler – non vi era differenza alcuna: entrambi erano per lui fenomeni occidentali. Lo sguardo di una tale anima si librava di là da tutto quanto è sociale. Le cose di questo mondo gli apparivano così insignificanti, che egli non dette alcuna importanza al tentativo di migliorarle. Nessuna vera ragione vuole migliorare il mondo dei fatti. Come ogni vero Russo, Dostoevskij un tale mondo non lo nota affatto: gli uomini come lui vivono in un secondo mondo, in un mondo metafisico esistente di là da esso. Che cosa hanno a che vedere i tormenti di un’anima col comunismo?” [15]
Spengler conclude asserendo che “il Russo autentico è un discepolo di Dostoevskij benché non lo abbia letto, anzi proprio perché non sa leggere. Lui stesso è un pezzo di Dostoevskij”[16]
Per Spengler il cristianesimo sociale di Tolstoi era intriso di marxismo; Tolstoi parlava di Cristo ma intendeva Marx, mentre “al cristianesimo di Dostoevskij appartiene invece il millennio che viene”[17]
L’analisi spengleriana si proietta nel futuro, anticipando di circa un secolo gli sviluppi della storia russa, in un momento storico in cui trionfava il bolscevismo e tutto sembrava andare in direzione contraria. Il punto è capire cosa intenda Spengler per “cristianesimo di Dostoevskij”. Lo studioso tedesco ha fatto riferimento a questa vocazione mistica che trascende il mondo dei fenomeni, dei fatti, ai quali l’anima russa non attribuisce un valore decisivo, il mondo metafisico essendo l’oggetto di interesse centrale e prioritario.
“L’immensa differenza fra anima faustiana e anima russa si tradisce già nel suono di certe parole. Il termine russo per cielo è njèbo ed è negativo nel suo n. L’uomo d’Occidente volge il suo sguardo verso l’alto, mentre il Russo fissa i lontani orizzonti. Occorre dunque vedere la differenza dell’impulso verso la profondità dell’uno e dell’altro nel fatto che nel primo esso è una passione di penetrare da ogni lato nello spazio infinito, nel secondo è un esteriorizzarsi fino a che l’elemento impersonale nell’uomo si faccia uno con la pianura senza fine…La mistica russa non ha nulla di quel fervore, proprio al gotico, a Rembrandt, a Beethoven, che si porta verso l’alto e che può svilupparsi fino ad un giubilo che invade il cielo. Qui Dio non è la profondità azzurra delle altezze. L’amore mistico russo è quello della pianura, quello verso fratelli che subiscono lo stesso giogo, sempre nella direzione terrestre; è quello per i poveri animali tormentati che vagano sulla terra, per le piante, mai per gli uccelli, per le nubi e per le stelle” [18].
Il cristianesimo russo-ortodosso è, dunque, per Spengler, un misticismo della Madre Terra, dell’immensa pianura, degli spazi sconfinati.
Fra Spengler e Steiner
Introduco qui alcune mie riflessioni. Questa pianura sconfinata è geograficamente - e simbolicamente - un ponte fra Oriente e Occidente. La Russia è una terra che sente storicamente il richiamo di Bisanzio, ossia dell’Impero Romano d’Oriente, come ho dimostrato nei miei contributi su Toynbee e su Zolla ed il loro modo di intendere l’anima russa e i suoi archetipi.
La Russia risente, però, anche di influssi spirituali e culturali spiccatamente orientali.
Un fenomeno che merita di essere osservato con attenzione è quello dell’attuale diffusione del buddhismo in Russia (di cui abbiamo testimonianze e riscontri anche qui in Italia presso i centri buddhisti frequentati dai russi provenienti direttamente dalla loro terra), particolarmente di quello tibetano che, nella sua iconografia e nel suo simbolismo, è segnato da figure luminose, da un senso di chiarità e di Luce spirituale che tradisce anche antiche influenze iraniche, come Filippani Ronconi ha evidenziato in Zarathustra e il Mazdeismo [19].
Questa “mistica della Luce” (adopero qui tale termine in un senso lato, non tecnico) si incontra necessariamente col misticismo della Madre Terra, con propensioni tipiche dell’anima slava.
È a questo punto che va considerata la previsione di Rudolf Steiner, secondo il quale in Russia rinascerà la religione di Zarathustra[20] , ossia una nuova mistica della Luce ed un nuovo sentimento del mondo, quello della lotta fra Luce e Tenebre nella storia, nella dimensione terrena, in forme adatte ad un ben diverso contesto storico, etnico e geografico rispetto a quello in cui maturò la riforma spirituale del Profeta iranico. Nella morfologia delle civiltà di Steiner la civiltà russa sarebbe la sesta civiltà – quella del futuro – dopo le prime cinque (Indiana, Iranica, Egizio-Caldaica-Babilonese, greco-romana, anglo-tedesca) che nel loro susseguirsi denotano una sorta di movimento pendolare da est ad ovest e poi di nuovo verso est. Una tale previsione sulla rinascita della religione di Zarathustra può avere una sua plausibilità ove si consideri appunto la posizione di ponte che la terra russa ha fra Oriente e Occidente e quindi simbolicamente di collegamento, di raccordo spirituale e culturale.
Il bolscevismo aveva significato, per un arco di 70 anni, una interruzione nella comunicazione spirituale fra Oriente e Occidente, un blocco materialistico, nel che può vedersi l’azione di influenze non meramente profane, secondo quella dimensione di profondità della storia che è tipica del “metodo tradizionale”di cui Evola ha parlato ampiamente in Rivolta contro il mondo moderno e sul quale chi scrive è tornato ampiamente ne I Misteri del Sole.
Un tale culto della Luce, ove un domani dovesse diffondersi, dovrà necessariamente innestarsi sul “sentimento della pianura” costitutivo dell’anima russa, per dirla con Spengler, e cogliere nella Madre Terra – la “Santa Madre Russia” – il teatro di una lotta fra Luce e Tenebre, fra Verità e Menzogna, fra elevazione dello spirito e demonìa della materia e dell’economia.
Si colgono, in definitiva, i primi segni premonitori – dal Buddhismo al rilancio dell’Ortodossia – dell’affiorare graduale di una nuova “forma spirituale” che ha profonde connessioni col risveglio del sentimento nazionale russo, di un forte senso delle proprie tradizioni e della propria identità che si esprime oggi nella linea politica di Putin e nel suo rilancio del ruolo di grande potenza della Russia, della sua proiezione mediterranea, del suo interagire e fare blocco con le nazioni del BRICS.
La stessa legislazione contraria alla propaganda dei gay, il rifiuto di Putin a dare i bambini russi in adozione alle coppie gay in Occidente, il forte richiamo alla tradizione religiosa russo-ortodossa, l’opposizione al “politicamente corretto”, sono tutti fatti politici sintomatici di un risveglio dell’anima russa, quella antica, interpretata e sentita da Dostoevskij.
I fatti politici, come diceva Spengler, vanno letti nella loro valenza simbolica, cogliendo i fermenti profondi di cui essi sono espressione e cercando d’intuire e anticipare le linee di tendenza che essi prefigurano.
[1] L’opera è del 1917 in prima edizione; la traduzione che ho consultato e studiato fa riferimento alla seconda edizione del 1923.
[2] O.Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, Guanda, Parma, 1991, p. 653 ss.
[3] Id., op.cit., p. 89 ss.
[4] Id., op.cit., p.927.
[5] Id., op.cit., pp.927-928
[6] Id., op .cit., pp. 930-931.
[7] Id., op.cit., p.932.
[8] Id., op.cit., p.932.
[9] Id., op.cit., pp.932-933.
[10] Id., op.cit., p. 934.
[11] Id., op.cit., p.934.
[12] Id., op.cit., p. 936.
[13] Id., op.cit., p. 936
[14] Id., op.cit., p.936.
[15] Id., op.cit., p.937.
[16] Id., op.cit., p. 939.
[17] Id., op.cit., p.939.
[18] Id., op.cit., nt.178, pp.1459-1460.
[19] P. Filippani Ronconi, Zarathustra e il Mazdeismo, Irradiazioni, Roma, 2007.
[20] R. Steiner, Miti e Misteri dell’ Egitto rispetto alle forze spirituali attive nel presente, Antroposofica, Milano, 2000.
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lundi, 28 octobre 2013
L'AUCTORITAS

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jeudi, 24 octobre 2013
Dugin und Heidegger
Dugin und Heidegger
von David Beetschen
Ex: http://www.blauenarzisse.de
Alexander Dugins „Vierte politische Theorie“ sorgte für kontroverse Debatten. Um den Kern seiner propagierten authentischen Existenz zu erfassen, muss man sich mit Heideggers Seinsfrage auseinandersetzen.
Treffend hat Markus Willinger in seinem Artikel über „Dugins Alternative“ erwähnt, dass der Kern der Theorie nicht klar herausgeschält wird. Insbesondere umschreibt er nicht genau die Basis, auf der das Subjekt der vierten politischen Theorie gründet.
Das Sammelbecken der antiliberalen Strömungen
Die vierte politische Theorie ist als Sammelbecken konzipiert für alle Menschen, die sich gegen Globalisierung und Amerikanismus wenden, der als Leitkultur fungiert. Um dies zu verwirklichen, versucht diese Theorie die Kräfte zu bündeln, also die Menschen, die sich für die zweite und dritte politische Theorie einsetzen, wie auch für alle anderen antiliberalen Strömungen.
Dies bedeutet aber nicht, dass die vierte politische Theorie ein Synkretismus der ersten drei darstellt, oder lediglich eine gegenaufklärerische Bewegung. Die vierte politische Theorie darf nicht mit einer der anderen verwechselt werden, insbesondere nicht mit der zweiten oder dritten.
Die Theorie schält die positiven Aspekte der anderen drei Theorien heraus: beim Liberalismus die „Freiheit“, dahingehend, dass man keine Tyrannei will. Bei der zweiten den Aspekt der Solidarität und bei der dritten die von Rassismus, Chauvinismus und Xenophobie befreite Idee des Ethnos. Ein wichtiger Punkt ist, dass Dugin selbst dazu aufruft, antifaschistische und antikommunistische Ressentiments beiseite zu legen, da diese nichts anderes seien als Instrumente in den Händen der Liberalen.
Das Subjekt der vierten politischen Theorie
Die vierte politische Theorie hat als neues politisches Subjekt nach dem Individuum, der Klasse, der Rasse und dem Staat eine Heideggersche Kategorie erhalten. Hierzu soll der Terminus „Dasein“ genutzt werden, der von Heidegger in seiner Fundamentalontologie anstelle von „Mensch“ gebraucht wird, um sich von der traditionellen Philosophie und ihren Vorurteilen abzugrenzen.
So soll „Dasein“ der Philosophie die Möglichkeit bieten, an die unmittelbaren Lebenserfahrungen des Einzelnen anzuknüpfen. Um sich insbesondere von Kants Erkenntnistheorie abzugrenzen, ging Heidegger nicht von einem „erkennenden Subjekt“ aus, sondern von einem „verstehenden Dasein“.
Nach der Definition von „Dasein“ soll hier nun nicht die ganze Fundamentalontologie Heideggers ausgebreitet, sondern direkt das aufgegriffen werden, was für die vierte politische Theorie wichtig ist und dies ist Heideggers „Man“. Dieses „Man“ bildet den Lebenshintergrund des Daseins, in allen kulturellen, gesellschaftlichen und geschichtlichen Aspekten, in die das „Dasein“ durch die „Geworfenheit“ eingebettet ist.
„Dasein“ und „eigentliches Sein“
Dieser Lebenshintergrund in Form der Kultur gibt dem Menschen gewisse Möglichkeiten, die er ohne sie nicht hätte. Jedoch kann die Kultur das Denken und Handeln des Daseins vorbestimmen, ohne dass ihm dies wirklich bewusst wird, wodurch es bestimmten Verhaltensmustern und Weltanschauungen ausgesetzt ist. Heidegger nannte diese Situation des Ausgeliefertseins „uneigentliche Existenz“.
Diesen Zustand konstatiert Heidegger als Ausgangspunkt, in welchen der durchschnittliche Mensch hineingeboren wird. Die Vorherbestimmung der kulturellen und gesellschaftlichen Verhaltensangebote nimmt dem „Dasein“ sein „eigentliches Sein“ weg. Wer ihm das wegnimmt, sind „die Anderen“, wobei hier keine spezifische Person gemeint ist, sondern das „Dasein“ in seiner Alltäglichkeit als „Man“.
Folgender Satz soll die Idee dahinter vergegenwärtigen: „Wir genießen und vergnügen uns, wie man genießt; wir lesen, sehen und urteilen über Literatur und Kunst, wie man urteilt; wir ziehen uns aber auch vom ‚großen Haufen‘ zurück, wie man sich zurückzieht.“ Diese Überlegungen brachten Heidegger dazu, folgenden radikalen Schluss zu ziehen: „Jeder ist der Andere und Keiner er selbst.“
Möglichkeit des authentischen Lebens
Als Gegenkonzept zur Fremdbestimmung des Daseins führt Heidegger das „eigentliche Selbstsein“ ins Feld, das eine „existenzielle“ Modifikation des „Man“ sei. Hierfür stellt er dem „Man“ die „Jemeinigkeit“ (dies ist jenseits von ich und wir) entgegen, wobei er nach einem möglichen Weg für ein authentisches Leben sucht, dem Weg vom „eigentlichen Selbst-sein-können“.
Um diesen Weg zu finden, macht Heidegger eine Analyse des Verhaltens des Daseins in Bezug auf seine Existenzialien. Diese umriss er bei einer phänomenologischen Analyse des Daseins, um dessen Struktur und Verhalten geistig zu begegnen. So sind nach ihm die Existenzialien des Daseins:
- Die „Geworfenheit“ – der Mensch ist in sein kulturelles Überlieferungsgeschehen hineingeworfen;
- Der „Entwurf“ – Das Dasein versteht die Welt, ergreift Möglichkeiten darin oder ergreift sie nicht;
- Die Verfallenheit an die Welt – Das Dasein ist „bei“ den Gegenständen und Personen, die ihm als unmittelbarer Orientierungspunkt dienen.
Durch die Verbindung dieser drei Punkte in einer Einheit erkennt Heidegger das „Sein von Dasein“ und definiert es als „Sich-vorweg-schon-sein-in-(der-Welt) als Sein-bei (innerweltlich begegnendem Seienden)“. Nun definiert Heidegger, daraus ableitend, die Possibilitäten, die sich als eigentliche Existenz erweisen und kommt dabei auf zwei verschiedene Lösungen, die in Bezug auf seine Zeitlehre stehen. Hierfür ist ein anderer Terminus sehr wichtig, die „Sorge“, was die Heideggersche Abkürzung für das „Sein des Daseins“ ist.
Die Bestimmung des Daseins
Diese Sorge hat jedoch weder mit der Besorgnis etwas zu tun, noch mit der Sorglosigkeit, sondern ist eine Seinsweise des Menschen, die primär im praktischen Umgang mit seiner Umwelt liegt, worauf er auch eine theoretische Erfassung derselben vornehmen kann, aber nicht bloß im erkennenden Anschauen derselben endet.
Heidegger versucht nun, die Bestimmung des Daseins als ein „Sein zum Tode“ hin genauer zu betrachten. Er kommt dabei zum Schluss, dass die Zeitlichkeit des Daseins ihm erst die Möglichkeit biete, sich auf den Tod hin einzustellen, wobei er schlussendlich subsumiert: „Zeitlichkeit ist der Sinn der Sorge.“ Diesen Sinn findet er in drei Ekstasen, die er in Bezug auf die „Sorge“ ordnet:
- „Schon-sein-in-der-Welt“ = Gewesenheit;
- „Sein-bei“ = Gegenwart;
- „Sich-vorweg-sein“ = Zukunft.
Hiermit wurde nun die Basis gelegt, um das „eigentliche Selbst-sein-können“ zu finden und auf die beiden Lösungen zu stoßen, die Heidegger so darstellte:
- Die erste Möglichkeit liegt in der zeitlichen Ekstase des Zukünftigen, auf das sich das „Dasein“ hin „entwirft“, durch die Ausrichtung des Lebens auf von ihm selbst geprüfte und als erstrebenswert erachtete Interessen.
- Die zweite Möglichkeit fußt auf der zeitlichen Ekstase der „Gewesenheit“, wobei sich das „Dasein“ seine Idole in der Vergangenheit sucht und die vergangene Möglichkeit des „eigentlichen Selbst-sein-können“ nicht nachmacht, sondern wiederholt, worin nun die Chance für das gegenwärtige Dasein liegt, selber das „eigentliche Selbst-sein-können“ auszuleben.
Die Fremdbestimmung des Daseins überwinden
An diesem Punkte setzt die vierte politische Theorie ein, die genau darum besorgt ist, dass dem Menschen die Möglichkeit bleibt, das „eigentliche Selbst-sein-können“ zu entfalten, indem der Mensch die Taten der gewesenen „Helden“ wiederholen kann. Um die Worte Dugins zu benutzen, steht die vierte politische Theorie für „Dasein“ ein, um ihm die Chance auf eine authentische Existenz zu gewähren, um die letzten Überbleibsel zu retten, „which makes man an existential being.“
Aus diesen Betrachtungen leitet sich ab, dass die Welt multipolar werden muss und die unipolare Hegemonie des Amerikanismus abschütteln sollte. Ja, sie muss die Kultur der „Fremdbestimmung des Daseins“ überwinden, wenn sie die „connection to the roots of …being“ wiederfinden will. Hier erscheint auch wieder die Vision Eurasien, wenn die Forderung nach dem Schmittschen „Großraum“ auftaucht. In diesen Großräumen könnten sich die Kulturen souverän selbständig organisieren, verteilt auf die Kontinente, fern aber von jedem Imperialismus.
Der Feind ist der Liberalismus, nicht eine andere traditionelle Kultur
Auch die Religionen, insbesondere in Form der Schule der Integralen Tradition, spielen eine essentielle Rolle für die Theorie, da auf der Grundlage der „inneren Einheit der Religionen“ eine Basis für ein inner– und außereurasisches Verständnis für die anderen Glaubensgemeinschaften gelegt wird. Es gibt keine Feindschaft mit Juden oder Moslems, sondern der Liberalismus wird als gemeinsamer Gegenspieler aufgefasst, der die Kulturen bedroht. Dies ist sicher ein wesentlicher Unterschied zu den identitären Blöcken, die gerne offen gegen den Islam auftreten.
Die vierte politische Theorie ist nicht als Dogma aufzufassen, sondern als eine Einladung Dugins an die oben genannten Gruppen, sich in der Bewegung einzufinden und konstruktive Kritik daran zu üben. So ist Dugins Buch The Fourth Political Theory nicht die Konzeption eines abgeschlossenen Systems, sondern ein Stein des Anstoßes, eine Frage, die Dugin gekonnt in den Raum stellt.
Anm. d. Red.: Alexander Geljewitsch Dugin wurde am 7. Januar 1962 in Moskau als Sohn eines sowjetischen Drei-Sterne-Generals und einer Ärztin geboren. Er spricht neun Sprachen, besitzt einen Doktortitel in Geschichts– und einen in Politikwissenschaft, ist verheiratet, hat zwei Kinder und gehört den Altorthodoxen an. Als Professor besitzt er einen Lehrstuhl für die Soziologie der internationalen Beziehungen an der Moskauer Staatsuniversität und fungiert seit längerer Zeit als Berater Putins in geopolitischen Fragen.
Beispiele bestehender Gruppierungen, die sich auf Dugins Theorie beziehen: Global Revolutionary Alliance, New Resistance, Eurasian Youth Union, International Eurasian Movement, Journal of Eurasian affairs, Eurasian Artists Association.
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mercredi, 23 octobre 2013
La mitología de la modernidad
por Dalmacio Negro
Ex: http://paginatransversal.wordpress.com
Minorías organizadas en lobbies reivindican como conquistas democráticas las cosas más absurdas.
El estado de naturaleza, la doctrina de la soberanía político-jurídica, el contractualismo, el Estado, la Sociedad, y el ciudadano como el hombre perfecto son los grandes mitos que subyacen en el subsuelo de las constituciones modernas, cajas de Pandora del artificialismo imperante en las relaciones humanas.
1.- Luís Díez del Corral observó hace tiempo en La función del mito clásico en la literatura contemporánea, que los mitos clásicos habían perdido su expresividad originaria y Manfred Frak dedicó más tarde algunos libros a “la nueva mitología” de la modernidad. El libro del jurista italiano Danilo Castellano Constitución y constitucionalismo, una espléndida síntesis, breve y muy clara, sobre la naturaleza del constitucionalismo nacido de las revoluciones modernas y sus vicisitudes, sugiere que el constitucionalismo descansa en doctrinas que operan como mitos.
2.- La tendencia más característica del pensamiento moderno interrumpió la mayor de las revoluciones imaginables: la desacralización del mundo que llevaba a cabo el cristianismo. La cultura de la civilización occidental, incluida la resurrección de la mitología, en este caso artificialista -una manera de desacralizar que, al prescindir de su causa, aniquila la vida natural-, tiene la impronta de esa desacralización o desdivinización de la Naturaleza, que suele describirse como secularización, palabra que, si significa algo, es la tendencia a la politización de la vida.
Aparte de hechos como el cambio en la imagen del mundo con los descubrimientos, etc., contribuyeron en el plano intelectual a la nueva mitologización la influencia de la Pólis griega de la mano del humanismo, según la tesis, que se pasa demasiado por alto, del alemán Paul Joachimsen, el suizo Werner Naef o el español Álvaro d’Ors; la del gnosticismo según Voegelin y la reducción del poder a sus connotaciones inmanentistas, de lo que dio Maquiavelo fe notarial. La Reforma protestante les dejó libre el campo al separar la razón (eine Hure, una prostituta según Lutero), de fe, rompiendo la relación entre este mundo y el sobrenatural, del que, como reafirmó el gran teólogo Urs von Balthasar, depende el mundo natural.
Los fundadores de la ciencia moderna estaban convencidos de que Dios había ordenado racionalmente la Creación, siendo posible por tanto conocer mediante la razón las leyes que la gobiernan. Sin embargo fue fundamental el auge de la ciencia, a pesar de haberla hecho posible la desacralización de la Naturaleza, que ahuyentó las creencias ancestrales en signos, fuerzas, seres misteriosos y supersticiones, para reactivar las explicaciones mitológicas: las ideas tienen consecuencias y una de las más peligrosas puede ser su divulgación, como gustaba sugerir Leo Strauss y la ciencia se divulgó como un medio de emancipación del mundo natural de su dependencia del sobrenatural. Algo parecido ha ocurrido con la teoría de la relatividad de Einstein. Al popularizarse la idea, ha contribuido poderosamente a difundir la creencia en que no hay verdades objetivas, impulsando el relativismo moral tan de moda.
3.- La conocida tesis de René Girard de que existe una lucha permanente entre el polémico logos griego de Heráclito y el logos del evangelio de San Juan, resume muy bien el proceso desencadenado en el mundo moderno, en el que se habría impuesto el logos naturalista, de naturaleza mítica. La teología, como fuente de la verdad del orden universal, era considerada el saber supremo en la jerarquía de los saberes. Pero la metafísica empezó a separarse de ella y ante el fracaso de la teodicea (“justificación de Dios”) de la metafísica racionalista, incapaz de demostrar la existencia de Dios, se empezó a poner la fe en la ciencia natural. Separado este mundo del sobrenatural por la Reforma,la ciencia da por lo menos certezas y seguridad acerca de las cosas terrenas.
Esa tendencia del pensamiento moderno impulsada por la metafísica armada con la ciencia, devino una creencia colectiva en la época romántica caracterizada por la revalorización, a la verdad un tanto inconsciente, de la mitología en la que se inserta el constitucionalismo.
4.- Decía Cassirer al comienzo de su libro El mito del Estado: «la preponderancia del pensamiento mítico sobre el racional en algunos de nuestros sistemas políticos modernos es manifiesta». Cassirer se quedó corto al decir “algunos”, seguramente porque el libro vio la luz en 1946. Él mismo afirma casi a continuación que «en la vida práctica y social del hombre, la derrota del pensamiento racional parece ser completa e irrevocable. En este dominio, el hombre moderno parece que tuviera que olvidar todo lo que aprendió en el desarrollo de su vida intelectual. Se le induce a que regrese a las primeras fases rudimentarias de la cultura humana. En este punto, remachaba Cassirer, el pensamiento racional y el científico confiesan abiertamente su fracaso; se rinden a su más peligroso enemigo».
El progreso del pensamiento mítico a partir de esa fecha, evidencia la claudicación del pensamiento racional y el científico. Es más, este último, en su degeneración ideológica, el cientificismo, produce continuamente infinidad de nuevos mitos. Recientemente, los mitos de las “ideologías de la estupidez” (A. Glucksmann), entre ellas las bioideologías, intelectualmente endebles pero muy poderosas dada la debilitación del pensamiento por el auge de esa estupidez que había detectado ya Robert Musil; por la destrucción del sentido común denunciada por Alfred N. Whitehead; por ”el oscurecimiento de la inteligencia” advertido por Michele Federico Sciacca; por la “derrota del pensamiento” constatada por Alain Finkielkraut;… En fin, por la infantilización diagnosticada por Tocqueville como una pandemia a la que es propensa la democracia y fomentan las oligarquías para afirmar su poder.
Los mitos que alberga el modo de pensamiento ideológico, dominan hoy el panorama de las ideas, entre ellas las políticas, jurídicas y sociales. Según el sociólogo Peter Berger, nuestra época es una de las más crédulas que han existido. Sin duda por la apariencia de cientificidad de que se revisten ideas de las que se aprovechan minorías para hacer su negocio.
5.- El profesor Castellano busca el lazo común entre los tres constitucionalismos que distingue: dos europeos, el constitucionalismo “continental” a la francesa y el “insular” inglés, y el extraeuropeo “estadounidense”. No obstante, existe una diferencia entre los anglosajones y el francés: y este último pretende desde su origen ser algo así como la cuadratura del círculo de la mitología política moderna, cosa que no pretenden los otros, más enraizados en la realidad meta-antropológica (von Balthasar), que en la visión meta-física moderna.
Los sistemas políticos que imitan el constitucionalismo a la francesa son prácticamente míticos. De ahí su naturaleza intrínsecamente revolucionaria, pues la Gran Revolución aspiraba a recomenzar la historia partiendo del Año Cero (1789), en contraste con los otros dos, que, menos metafísicos y antiteológicos, eran conservadores, como sentenció Macauley, en tanto no partían del Derecho -la Legislación- como un instrumento revolucionario, sino de la libertad como un presupuesto meta-antropológico cuya protección es, justamente, la razón de ser del Derecho.
En efecto, el verdadero sujeto del constitucionalismo continental no es el hombre libre sino, igual que en la Pólis,el ciudadano, una creación legal en tanto miembro de una comunidad artificial, la estatal.
6.- ¿Cuál es el fundamento intelectual del constitucionalismo? La lógica de la vida colectiva y del orden social es el Derecho de manera parecida a como lo es la Matemática en el orden de la naturaleza. Pero mientras aquella es práctica, empírica, puesto que pertenece al mundo de la libertad, la de la Matemática es teórica, deductiva, puesto que su mundo es el de la necesidad. El Derecho es por tanto el fundamento de los órdenes humanos concretos, en contraste con lo que llama Castellano «la tesis de la geometría legal», según la cual, «el derecho no es el elemento ordenador de la comunidad política (y, por tanto, bajo un cierto prisma preexistente a ella), sino que nacería con el Estado, que -a su vez- se generaría por el contrato social». Esta es la clave del constitucionalismo continental, que instrumentaliza el Derecho poniéndolo al servicio de la política estatal, una política distinta de la sometida al Derecho. De ahí el auge de la politización a través de la Legislación.
7.- El jusnaturalismo racionalista, que fundamenta el constitucionalismo, continuaba formalmente la tradición medieval de la omnipotentia iuris. Pero mientras el antiguo Derecho Natural se asienta como indica su nombre en la naturaleza de las cosas y en la costumbre, el nuevo descansa en la concepción puramente meta-física que excluye la teología (Grocio, Alberigo Gentile, Hobbes…). La anterior omnipotentia iuris, que pervive como un residuo, descansaba en la tradición del Derecho Natural para la que el orden cósmico es congruente con la naturaleza humana. La moderna se rige por el ingenuo jusnaturalismo racionalista, causa del artificialismo político, social, jurídico y moral, pues no se atiene a lo natural, tal como lo muestran las costumbres y la experiencia, sino a la recta ratio. Ésta construye el orden social como un producto abstracto al que ha de adaptarse la naturaleza humana.
8.- ¿Por qué es ingenuo este derecho natural?
En primer lugar, porque al ser puramente racional, “teórico”, su contenido queda a merced de la voluntad, con lo que su racionalidad depende de la coincidencia o no con la realidad empírica, con las costumbres, los usos y las tradiciones de la conducta. En segundo lugar, porque descansa en el mito del contractualismo político, liberador de otro mito, el del estado de naturaleza. Éste es un mito bíblico, pero en el sentido del mito como una forma de expresar la realidad. Idea que, vulgarizada, impulsó el romanticismo. «Para los verdaderos románticos, dice Cassirer, no podía existir una diferencia señalada entre la realidad y el mito; cabía ahí tan poco como entre poesía y verdad».
9.- Hobbes convirtió el estado de naturaleza caída del que hablaban los Padres de la Iglesia en el mito fundacional que justifica otro gran mito: el del contrato político, que, a pesar de la critica de Hume, dio origen a una interminable serie de mitos como el del poder constituyente, al que dedica Castellano un capítulo. Hume no pudo tampoco impedir que su neurótico amigo, el calvinista Rousseau, radicalizase el contractualismo. Hobbes se había contentado con distinguir lo Político y lo Social como el Estado y la Sociedad que, en cierto modo, se limitaban entre sí, puesto que la moral seguía dependiendo de la Iglesia. Rousseau los unificó en un sólo contrato, el contrato social, para acabar con la Iglesia y restaurar el estado de naturaleza, que en su opinión no era cainita como suponía Hobbes, sino todo lo contrario. La supresión o superación del dualismo hobbesiano, será una obsesión desde el romanticismo .
10.- Una consecuencia de la Gran Revolución es la consideración de la revolución como fuente de legitimidad, pues su idea central consistía en garantizar los Derechos del hombre y del ciudadano frente al despotismo monárquico. Mientras los otros dos constitucionalismos se contentaban con garantizar las libertades naturales mediante el Derecho, el francés trasladó el derecho divino de los reyes en el que se apoyaba la no menos mítica soberanía estatal al ciudadano. El ciudadano es el mito clave del constitucionalismo, cuya causa final consiste en la potenciación de la ciudadanía aunque vaya en detrimento de la libertad, pues el ciudadano no es el hombre libre por naturaleza sino una construcción legal, que reserva la ciudadanía para unos pocos, la burguesía revolucionaria triunfante, el tercer estado de Sieyés, una clase económica.
11.- El socialismo se enfrentó a esta situación fáctica, manifiestamente injusta, reivindicando no la igualdad formal, legal inherente a la libertad política, sino la igualación material de todos para establecer la ciudadanía universal. No se opone, pues, al espíritu burgués sino que quiere extenderlo a todas las clases: la verdadera democracia consiste en que participen todos como ciudadanos de las comodidades, placeres y bienestar de la burguesía. Algo así como una clase media universal de espíritu bourgeois. En su versión pacifista, el “socialismo evolutivo” (Bernstein), que prefiere la revolución legal a la revolución violenta, pacta con el odiado capitalismo, igual que había pactado antes la monarquía con la burguesía para afirmar su poder. La socialdemocracia es un capitalismo estatista que identifica el progreso y la democracia con el aburguesamiento universal .
12.- El ciudadano de la Pólis griega combinado por Rousseau con el creyente calvinista de su Ginebra natal -el propio Rousseau- aderezado con la visión de la vida campesina, es la figura central del constitucionalismo. El mito del ciudadano unirá luego los tres constitucionalismos bajo la rúbrica, anota Danilo Castellano, del pluralismo de la ideología de los derechos humanos, más que mítica supersticiosa, si creer en los derechos humanos es, al decir de MacIntyre, como la creencia en las brujas y los unicornios. Las ideologías, llevadas por su lógica y por la demagogia, al instalar como su principio el derecho a la autodeterminación individual, han llegado así al punto en que, sin quererlo, disuelven los órdenes políticos fundados en el constitucionalismo, abstractos por su concepción pero concretos gracias a la presión del poder político.
Ha surgido así un nuevo estado de naturaleza de guerra de todos contra todos fundado en el artificialismo, en el que minorías organizadas en lobbies reivindican como conquistas democráticas las cosas más absurdas. Entre ellas, están alcanzando una gran intensidad política las relacionadas con la “cuestión antropológica”, la última producción de la ideología de la emancipación. Este artificioso estado de naturaleza necesita sin duda de un nuevo constitucionalismo que contenga la destrucción del Estado, de la democracia, de la Sociedad, y, en último análisis, de la cultura y la civilización.
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Herbert Marcuse and the Tolerance of Repression
Herbert Marcuse and the Tolerance of Repression 1
by Keith Preston
Ex: http://www.attackthesystem.com
“I am not bound to defend liberal notions of tolerance.” –Left-wing anarchist activist to the author
The rise of the New Left is typically considered to have its origins in the student rebellions of the late 1960s and early 1970s when the war in Vietnam was at its height and cultural transformation was taking place in Western countries with dizzying rapidity. Yet scholars have long recognized that the intellectual roots of the New Left were created several decades earlier through the efforts of the thinkers associated with the Institute for Social Research (commonly known as the “Frankfurt School”) to reconsider the essence of Marxist theory following the failure of the working classes of Western Europe to produce a socialist revolution as orthodox Marxism had predicted.
The support shown for their respective national states by the European working classes, and indeed by the Socialist parties of Europe themselves, during the Great War which had broken out in 1914 had generated a crisis of faith for Marxist theoreticians. Marx had taught that the working classes had no country of their own and that the natural loyalties of the workers were not to their nations but to their socioeconomic class and its material interests. Marxism predicted a class revolution that would transcend national and cultural boundaries and regarded such concepts as national identity and cultural traditions as nothing more than hollow concepts generated by the broader ideological superstructure of capitalism (and feudalism before it) that served to legitimize the established mode of production. Yet the patriotic fervor shown by the workers during the war, the failure of the workers to carry out a class revolution even after the collapse of capitalism during the interwar era, and the rise of fascism during the same period all indicated that something was amiss concerning Marxist orthodoxy. The thinkers of the Frankfurt School sought to reconsider Marxism in light of these events without jettisoning the core precepts of Marxism, such as its critique of the political economy of capitalism, alienation, and the material basis of ideological hegemony.
The Institute attracted many genuine and interesting scholars some of whom were luminaries of the unique and fascinating German intellectual culture of the era of the Weimar Republic. Among these were Max Horkheimer, Theodor Adorno, Otto Kirchheimer, Franz Neumann, and Erich Fromm. But the thinker associated with the Institute who would ultimately have the greatest influence was the philosopher and political theorist Herbert Marcuse (1898-1979). The reach of Marcuse’s influence is indicated by the fact that during the student uprisings in France during 1968, which very nearly toppled the regime of Charles De Gaulle, graffiti would appear on public buildings with the slogan: “Marx, Mao, Marcuse.” Arguably, there was no intellectual who had a greater impact on the development of the New Left than Marcuse.
When the Nazis came to power in 1933, Marcuse and other members of the Frankfurt School immigrated to the United States and reestablished the Institute at Columbia University in New York City. Marcuse became a United States citizen in 1940 and during World War Two was employed by the Office of War Information, Office of Strategic Services (the forerunner to the Central Intelligence Agency), and the U.S. Department of State. Throughout the 1950s and 1960s, Marcuse was a professor of political theory at Columbia, Harvard, Brandeis, and the University of California at San Diego. During his time in academia, Marcuse continued the efforts to revise Marxism in light of the conditions of an industrially advanced mid-twentieth century society. One of his most influential works was an effort to synthesize Marx and Freud, Eros and Civilization, published in 1955, and One Dimensional Man, a critique of the consumer culture of the postwar era and the integration of the traditional working classes into the consumer culture generated by capitalism. Both of these works became major texts for the student activists of the New Left.
Because of his legacy as an intellectual godfather of the New Left and the radical social movements of the 1960s and 1970s generally, Marcuse is not surprisingly a rather polarizing figure in contemporary intellectual discourse regarding those fields where his thinking has gained tremendous influence. Much of the curriculum of the humanities departments in Western universities is essentially derived from the thought of Marcuse and his contemporaries, particularly in sociology, anthropology, gender studies, ethnic studies, and studies of sexuality, but also in history, psychology, and literature. It is quite certain that if Marcuse and his fellow scholars from the Frankfurt School, such as Adorno and Horkheimer, were still alive today they would no doubt be regarded as god-like figures by contemporary leftist academics and students. From the other end of the political spectrum, many partisans of the political right, traditionalists, religious fundamentalists, nationalists, and social conservatives regard Marcuse as the personification of evil. Because the legacy of Marcuse’s work is so controversial and polarizing, it is important to develop a rational understanding of what his most influential ideas actually were.
Although he remained a Marxist until his death, Marcuse was never an apologist for the totalitarian regimes that had emerged in Communist countries. Indeed, he wrote in defense of dissidents who were subject to repression under those regimes, such as the East German dissident Rudolph Bahro. Marcuse considered orthodox Marxism as lacking concern for the individual and criticized what he regarded as the insufficiently libertarian character of Marxism. Like many associated with the New Left, he often expressed a preference for the writings of the younger Marx, which have a humanistic orientation inspired by the idealism of nineteenth century utopian socialism, as opposed to the turgid and ideologically rigid writings of the elder Marx. The thinkers of the Frankfurt School had also been influenced by the Weberian critique of the massive growth of bureaucracy in modern societies and strongly criticized the hyper-bureaucratic tendencies of both capitalist and communist countries as they were during the Cold War period.
Marcuse regarded the consumer culture that emerged during the postwar economic boom as representing a form of social control produced and maintained by capitalism. According to Marcuse, capitalist productivity had grown to the level where the industrial proletariat was no longer the impoverished wage slaves of Marx’s era. Economic growth, technological expansion, and the successes of labor reform movements in Western countries, had allowed the working classes to achieve a middle class standard of living and become integrated into the wider institutional framework of capitalism. Consequently, workers in advanced industrial societies no longer held any revolutionary potential and had become loyal subjects of the state in the same manner as the historic bourgeoisie before them. This by itself is not an original or even particularly insightful observation. However, Marcuse did not believe that the rising living standards and institutional integration of the working classes represented an absence of exploitation. Rather, Marcuse felt that the consumer culture made available by affluent industrial societies had multiple deleterious effects.
First, consumer culture had the effect of “buying off” the workers by offering them a lifestyle of relative comfort and material goods in exchange for their continuing loyalty to capitalism and indifference to struggles for social and political change. Second, consumer culture created a kind of a false consciousness among the public at large through the use of the advertising industry and mass media generally to inculcate the values of consumerism and to essentially create unnecessary wants and perceived needs among the population. The effect of this is that people were working more than they really needed to sustain themselves in order to achieve the values associated with consumer culture. This created not only the psychological damaging “rat race” lifestyle of the competitive capitalist workforce and marketplace, but generated excessive waste (demonstrated by such phenomena as “planned obsolescence,” for example), environmental destruction, and even imperialist war for the conquest of newer capitalist markets, access to material resources, and the thwarting of movements for self-determination or social change in underdeveloped parts of the world. Third, Marcuse saw a relationship between the domination of consumer culture and the outlandishly repressive sexual mores of the 1950s era (where the term “pregnant” was banned from American television, for instance). According to Marcuse, the consumerist ethos generated by capitalism expected the individual to experience pleasure through material acquisition and consumption rather than through sexual expression or participation. The worker was expected to forgo sex in favor of work and channel libidinal drives into consumerist drives. Material consumption was the worker’s reward for avoiding erotic pleasure. For this reason, Marcuse regarded sexual expression and participation (what he famously called “polymorphous perversity”) as a potential force for the subversion of the capitalist system. As the sexual revolution grew in the 1960s, student radicals would champion this view with the slogan “make love, not war.”
As the working class had ceased to be a revolutionary force, Marcuse began to look to other social groups as potentially viable catalysts for radical social and political change. These included the array of the traditionally subordinated, excluded, or marginalized such as racial minorities, feminists, homosexuals, and young people, along with privileged and educated critics of the status quo such as radical intellectuals. Marcuse personally outlined and developed much of the intellectual foundation of the radical movements of the 1960s and exerted much personal influence on leading figures in these movements. The Black Panther figure Angela Davis and the Youth International Party (“Yippie”) founder and “Chicago Seven” defendant Abbie Hoffman had both been students of Marcuse while he taught at Brandeis. However, it would be a mistake to regard Marcuse as having somehow been a leader or founder of these movements. Marcuse did not so much serve as a radical leader during the upheavals of the 1960s and 1970s as much as he was an interpreter of social and political currents that were then emerging and a scholar who provided ideas with which discontented thinkers and activists could identify. It is often argued by some on the political right that the thinkers of the Frankfurt School hatched a nefarious plot to destroy Western civilization through the seizure and subversion of cultural institutions. This theory suggests that radical Marxists came to believe that they must first control institutions that disseminate ideas such as education and entertainment in order to remove the false consciousness previously inculcated in the masses by capitalist domination over these institutions before the masses can achieve the level of radical consciousness necessary to carry out a socialist revolution. Those on the right with an inclination towards anti-Semitism will also point out that most of the luminaries of the Frankfurt School, such as Marcuse, were ethnic Jews.
Yet the cultural revolution of the 1960s and 1970s was the product of a convergence of a vast array of forces. The feminist revolution, for instance, had as much to do with the integration of women into the industrial workforce during World War Two while the men were absent fighting the war and the need for an ever greater pool of skilled workers in an expanding industrial economy during a time of tremendous technological advancement and population growth as it does with the ambitions of far left radicals. The real fuel behind the growth of the youth and student movements of the 1960s was likely the war in Vietnam and the desire of many young people of conscription age to avoid death and dismemberment in a foolish war in which they had no stake. The sexual revolution was made possible in large part by the invention of the birth control pill and the mass production of penicillin which reduced the health and social risks associated with sexual activity. The racial revolution of the era was rooted in centuries old conflicts and struggles that had been given new impetus by growing awareness of the excesses which occurred during the Nazi period. The heightened interest in environmental conservation, concerns for populations with serious disadvantages (such as the disabled or mentally ill), increased emphasis on personal fulfillment and physical and psychological health, and concern for social and political rights beyond those of a purely material nature all reflect the achievements and ambitions of an affluent, post-scarcity society where basic material needs are largely met. Suffice to say that the transformation of an entire civilization in the space of a decade can hardly be attributed to the machinations of a handful of European radicals forty years earlier.
There is actually much of value in the work of the Frankfurt School scholars. They are to be commended for their honest confrontation with some of the failings and weaknesses of Marxist orthodoxy even while many of their fellow Marxists continued to cling uncritically to an outmoded doctrine. Marcuse and his colleagues are to be respected for their skepticism regarding the authoritarian communist states when many of their contemporaries, such as Jean Paul Sartre, embraced regimes of this type with appalling naivete. The critique of consumer culture and the “culture industry” offered by Marcuse, Horkheimer, and others may itself be one-dimensional and lacking in nuance at times, but it does raise valid and penetrating questions about a society that has become so relentlessly media-driven and oriented towards fads and fashions in such a “bread and circuses” manner. However, while Marcuse was neither a god nor a devil, but merely a scholar and thinker whose ideas were both somewhat prescient and reflective of the currents of his time, there is an aspect to his thought that has left a genuinely pernicious influence. In 1965, Marcuse published an essay titled, “Repressive Tolerance,” which foreshadows very clearly the direction in which left-wing opinion and practice has developed since that time.
The essay is essentially an argument against the Western liberal tradition rooted in the thinking of Locke, with its Socratic and Scholastic precedents, which came into political reality in the nineteenth century and which was a monumental achievement for civilization. In this essay, Marcuse regurgitates the conventional Marxist line that freedom of opinion and speech in a liberal state is a bourgeois sham that only masks capitalist hegemony and domination. Of course, there is some truth to this claim. As Marcuse said:
But with the concentration of economic and political power and the integration of opposites in a society which uses technology as an instrument of domination, effective dissent is blocked where it could freely emerge; in the formation of opinion, in information and communication, in speech and assembly. Under the rule of monopolistic media – themselves the mere instruments of economic and political power – a mentality is created for which right and wrong, true and false are predefined wherever they affect the vital interests of the society. This is, prior to all expression and communication, a matter of semantics: the blocking of effective dissent, of the recognition of that which is not of the Establishment which begins in the language that is publicized and administered. The meaning of words is rigidly stabilized. Rational persuasion, persuasion to the opposite is all but precluded.
Marcuse proceeds from this observation not to advocate for institutional or economic structures that might make the practical and material means of communication or expression more readily available to more varied or dissenting points of view but to attack liberal conceptions of tolerance altogether.
These background limitations of tolerance are normally prior to the explicit and judicial limitations as defined by the courts, custom, governments, etc. (for example, “clear and present danger”, threat to national security, heresy). Within the framework of such a social structure, tolerance can be safely practiced and proclaimed. It is of two kinds: (i) the passive toleration of entrenched and established attitudes and ideas even if their damaging effect on man and nature is evident, and (2) the active, official tolerance granted to the Right as well as to the Left, to movements of aggression as well as to movements of peace, to the party of hate as well as to that of humanity. I call this non-partisan tolerance “abstract” or “pure” inasmuch as it refrains from taking sides – but in doing so it actually protects the already established machinery of discrimination.
This statement reflects the by now quite familiar leftist claim that non-leftist opinions are being offered from a position of privilege or hegemony and are therefore by definition unworthy of being heard. Marcuse argues that tolerance has a higher purpose:
The telos [goal] of tolerance is truth. It is clear from the historical record that the authentic spokesmen of tolerance had more and other truth in mind than that of propositional logic and academic theory. John Stuart Mill speaks of the truth which is persecuted in history and which does not triumph over persecution by virtue of its “inherent power”, which in fact has no inherent power “against the dungeon and the stake”. And he enumerates the “truths” which were cruelly and successfully liquidated in the dungeons and at the stake: that of Arnold of Brescia, of Fra Dolcino, of Savonarola, of the Albigensians, Waldensians, Lollards, and Hussites. Tolerance is first and foremost for the sake of the heretics – the historical road toward humanitas appears as heresy: target of persecution by the powers that be. Heresy by itself, however, is no token of truth.
This statement on its face might be beyond reproach were it not for its implicit suggestion that only leftists and those favored by leftists can ever rightly be considered among the ranks of the unjustly “persecuted” or among those who have truth to tell. Marcuse goes on to offer his own version of “tolerance” in opposition to conventional, empirical, value neutral notions of tolerance of the kind associated with the liberal tradition.
Liberating tolerance, then, would mean intolerance against movements from the Right and toleration of movements from the Left. As to the scope of this tolerance and intolerance: … it would extend to the stage of action as well as of discussion and propaganda, of deed as well as of word. The traditional criterion of clear and present danger seems no longer adequate to a stage where the whole society is in the situation of the theater audience when somebody cries: “fire”. It is a situation in which the total catastrophe could be triggered off any moment, not only by a technical error, but also by a rational miscalculation of risks, or by a rash speech of one of the leaders. In past and different circumstances, the speeches of the Fascist and Nazi leaders were the immediate prologue to the massacre. The distance between the propaganda and the action, between the organization and its release on the people had become too short. But the spreading of the word could have been stopped before it was too late: if democratic tolerance had been withdrawn when the future leaders started their campaign, mankind would have had a chance of avoiding Auschwitz and a World War.
The whole post-fascist period is one of clear and present danger. Consequently, true pacification requires the withdrawal of tolerance before the deed, at the stage of communication in word, print, and picture. Such extreme suspension of the right of free speech and free assembly is indeed justified only if the whole of society is in extreme danger. I maintain that our society is in such an emergency situation, and that it has become the normal state of affairs.
Here Marcuse is clearly stating that he is not simply advocating “intolerance” of non-leftist opinion in the sense of offering criticism, rebuttal, counterargument, or even shaming, shunning, or ostracism. What he is calling for is the full fledged state repression of non-leftist opinion or expression. Nor is this repression to be limited to right-wing movements with an explicitly authoritarian agenda that aims to subvert the liberal society. Marcuse makes this very clear in a 1968 postscript to the original 1965 essay:
Given this situation, I suggested in “Repressive Tolerance” the practice of discriminating tolerance in an inverse direction, as a means of shifting the balance between Right and Left by restraining the liberty of the Right, thus counteracting the pervasive inequality of freedom (unequal opportunity of access to the means of democratic persuasion) and strengthening the oppressed against the oppressed. Tolerance would be restricted with respect to movements of a demonstrably aggressive or destructive character (destructive of the prospects for peace, justice, and freedom for all). Such discrimination would also be applied to movements opposing the extension of social legislation to the poor, weak, disabled. As against the virulent denunciations that such a policy would do away with the sacred liberalistic principle of equality for “the other side”, I maintain that there are issues where either there is no “other side” in any more than a formalistic sense, or where “the other side” is demonstrably “regressive” and impedes possible improvement of the human condition. To tolerate propaganda for inhumanity vitiates the goals not only of liberalism but of every progressive political philosophy.
If the choice were between genuine democracy and dictatorship, democracy would certainly be preferable. But democracy does not prevail. The radical critics of the existing political process are thus readily denounced as advocating an “elitism”, a dictatorship of intellectuals as an alternative. What we have in fact is government, representative government by a non-intellectual minority of politicians, generals, and businessmen. The record of this “elite” is not very promising, and political prerogatives for the intelligentsia may not necessarily be worse for the society as a whole.
In this passage Marcuse is very clearly advocating totalitarian controls over political speech and expression that is the mirror image of the Stalinist states that he otherwise criticized for their excessive bureaucratization, economism, and repression of criticism from the Left. Marcuse makes it perfectly clear that not only perceived fascists and neo-nazis would be subject to repression under his model regime but so would even those who question the expansion of the welfare state (thereby contradicting Marcuse’s criticism of bureaucracy). Marcuse states this elsewhere in “Repressive Tolerance.”
Surely, no government can be expected to foster its own subversion, but in a democracy such a right is vested in the people (i.e. in the majority of the people). This means that the ways should not be blocked on which a subversive majority could develop, and if they are blocked by organized repression and indoctrination, their reopening may require apparently undemocratic means. They would include the withdrawal of toleration of speech and assembly from groups and movements which promote aggressive policies, armament, chauvinism, discrimination on the grounds of race and religion, or which oppose the extension of public services, social security, medical care, etc”
Marcuse’s liberatory socialism is in fact to be a totalitarian bureaucracy where those who criticize leftist orthodoxy in apparently even the slightest way are to be subject to state repression. This is precisely the attitude that the authoritarian Left demonstrates at the present time. Such views are becoming increasingly entrenched in mainstream institutions and in the state under the guise of so-called “political correctness.” Indeed, much of the mainstream “anarchist” movement reflects Marcuse’s thinking perfectly. These “anarchists” ostensibly criticize statism, bureaucracy, capitalism, consumerism, imperialism, war, and repression, and advocate for all of the popular “social justice” causes of the day. “Tolerance” has ostensibly become the ultimate virtue for such people. Yet underneath this “tolerance” is a visceral and often violent hostility to those who dissent from leftist orthodoxy on any number of questions in even a peripheral or moderate way. Indeed, the prevalence of this leftist intolerance within the various anarchist milieus has become the principle obstacle to the growth of a larger and more effective anarchist movement.
A functional anarchist, libertarian, or anti-state movement must first and foremost reclaim the liberal tradition of authentic tolerance of the kind that insists that decent regard for other people and a fair hearing for contending points of view on which no one ultimately has the last word must be balanced with the promulgation of ideological principles no matter how much one believes these principles to be “true.” A functional and productive anarchist movement must recognize and give a seat at the table to all of the contending schools of anarchism, including non-leftist ones, and embrace those from overlapping ideologies where there is common ground. A serious anarchist movement must address points of view offered by the opposition in an objective manner that recognizes and concedes valid issues others may raise even in the face of ideological disagreement. Lastly, a genuine anarchist movement must realize that there is no issue that is so taboo that is should be taken off the table as a fitting subject for discussion and debate. Only when anarchists embrace these values will they be worthy of the name.
Sources:
William S. Lind. The Origins of Political Correctness. Accuracy in Academica. 2000. Archived at http://www.academia.org/the-origins-of-political-correctness/. Accessed on May 12, 2013.
Herbert Marcuse. Repressive Tolerance. 1965, 1968. Archived at http://www.marcuse.org/herbert/pubs/60spubs/65repressivetolerance.htm Accessed on May 12, 2013.
Martin Jay. The Dialectical Imagination: A History of the Frankfurt School and the Institute of Social Research. University of California Press, 1966.
http://en.wikipedia.org/wiki/Herbert_Marcuse – cite_note-marcuse.org-9
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mardi, 22 octobre 2013
Clément Rosset: Faits divers...
Faits divers...
Les Presses universitaires de France viennent de publier Faits divers, un recueil de textes de Clément Rosset. Philosophe du réel tragique et joyeux, Clément Rosset est notamment l'auteur de La philosophie tragique (PUF, 1960), Logique du pire (PUF, 1971), L'Anti-nature (PUF, 1973) , Le réel et son double (Gallimard, 1976), La Force majeure (Éditions de Minuit, 1983) ou de Principes de sagesse et de folie (Éditions de Minuit, 1991).
" Gilles Deleuze, les vampires, Emil Cioran, Samuel Beckett, le dandysme, Friedrich Nietzsche, Raymond Roussel, Casanova, Arthur Schopenhauer, Jean-Luc Godard, Goscinny & Uderzo, Jean-Paul Sartre, Hugo von Hofmannsthal. Le réel, le double, l’illusion, le tragique, la joie, la musique, la philosophie, la politique, le péché, l’enseignement. Faits divers sont les miscellanées de Clément Rosset : le répertoire désordonné et jubilatoire de ses passions et de ses dégoûts, de ses intérêts et de ses bâillements, de ses tocades et de ses coups de sang – ainsi que de la prodigieuse liberté de ton et de pensée avec laquelle il les exprime et les pense. Un des philosophes, un des écrivains les plus singuliers de notre temps revisite les coulisses de son œuvre. Et vous êtes invités. "
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samedi, 19 octobre 2013
Sixth Annual H.L. Mencken Club Conference
The Sixth Annual H.L. Mencken Club Conference
Decadence
November 1-3, 2013
Friday, November 1
5:00-7:00 PM - Registration
7:00-10:00 PM - Banquet
Introduction - Richard Spencer
Presidential Address - Paul Gottfried
Life on the Traditionalist Fringe - Tito Perdue
Saturday, November 2nd
9:00-10:15 AM - Panel 1: Decadence and the Family
Moderator: Byron Roth
Dysgenics and Genetic Decline - Henry Harpending
The War on Masculinity and the Traditional Family - Steven Baskerville
10:45 AM – 12:00 PM - Panel 2: Social Decadence
Moderator: Keith Preston
The “Inclusion” Obsession - James Kalb
In Defense of Decadence - Richard Spencer
An Introduction to Decadence - Thomas Bertonneau
12:30-2:00 PM - Lunch
The Normalization of Perversity - Special Guest
2:30-4:00 PM - Panel 3: Political Decadence
Moderator: Robert Weissberg
Decadence and Democracy - Michael Hart
The End of Citizenship - Carl Horowitz
Politics and Intelligence - John Derbyshire
7:00-10:00 PM - Banquet: Thrown off the Bus
William Regnery, John Derbyshire, Paul Gottfried, Robert Weissberg
Saturday, November 3rd
9:00-11:00 AM - Breakfast for H.L. Mencken Club Members Only
Speaker Biographies

Steven Baskerville
Stephen Baskerville is Associate Professor of Government at Patrick Henry College and Research Fellow at the Howard Center for Family, Religion, and Society, the Independent Institute, and the Inter-American Institute. He holds a PhD from the London School of Economics and has taught political science and international affairs at Howard University, Palacky University in the Czech Republic, and most recently as a visiting Fulbright scholar at the Russian National University for the Humanities. More recently, he has turned his full attention to the politics of the family in global perspective, and his most recenty book is Taken Into Custody: The War against Fathers, Marriage, and the Family (Cumberland House, 2007).
Thomas Bertonneau, visiting Professor of English at the State University of New York College, Oswego, New York. He holds a Ph.D. in Comparative Literature from UCLA. He has contributed to numerous journals and websites including Alternative Right, and is co-author of The Truth Is Out There: Christian Faith and the Classics of TV Science Fiction.

Thomas Bertonneau

John Derbyshire
John Derbyshire is a mathematician and cultural commentator. He is the author of several other books including Prime Obsession: Bernhard Riemann and the Greatest Unsolved Problem in Mathematics (2003). He writes for VDare.com and TakiMag.com.
Paul Gottfried is the President and Co-founder of the H.L. Mencken Club, and the author of nine books including Leo Strauss and the Conservative Movement in America (2012)

Paul Gottfried

Henry Harpending
Henry Harpending is distinguished professor of anthropology and Thomas Chair at the University of Utah, and co-author of the book The 10,000 Year Explosion (2009). Together with Gregory Cochran, he contributes to the blog “West Hunter“.
Michael Hart is the author of three books on history, various scientific papers, and controversial articles on various other subjects. His best known book is The 100: A Ranking of the Most Influential Persons in History. His most recent book is The Newon Awards: A History of Genius in Science and Technology , published this year by Washington Summit Publishers.

Michael Hart

Carl Horowitz
Carl F. Horowitz is affiliated with the National Legal and Policy Center, a nonprofit organization dedicated to promoting ethics and accountability in public life. He holds a Ph.D. in urban planning, and specializes in labor, immigration and housing policy issues. Previously, he had been Washington correspondent with Investor’s Business Daily, housing and urban affairs policy analyst with The Heritage Foundation, and assistant professor of urban and regional planning at Virginia Polytechnic Institute.
Jim Kalb is a lawyer (J.D., Yale Law School) and author, The Tyranny of Liberalism: Understanding and Overcoming Administered Freedom, Inquisatorial Tolerance, and Equality by Command (2008). His latest book is Against Inclusiveness: How the Diversity Regime Is Flattening America and the West and What to Do about It .

James Kalb

Tito Perdue
Tito Perdue is the author of several works of fiction. He has been dubbed “one of the most important contemporary Southern writers” by the New York Press, and his iconic character Lee Pefley has been called “a reactionary snob” by Publisher’s Weekly.
Keith Preston is the chief editor of AttacktheSystem.com. He was awarded the 2008 Chris R. Tame Memorial Prize by the United Kingdom’s Libertarian Alliance for his essay, “Free Enterprise: The Antidote to Corporate Plutocracy.”

Keith Preston
William Regnery is the founder of the Charles Martel society, publisher of The Occidental Quarterly and a past chairman of the National Policy Institute, which he co-founded with Sam Francis.

Byron Roth is Professor Emeritus of Psychology, Dowling College and is author, most recently, of The Perils of Diversity: Immigration and Human Nature. His work has appeared in The Journal of Conflict Resolution, The Public Interest, Academic Questions, and Encounter. His books include, Decision Making: Its Logic and Practice, co-authored with John D. Mullen and Prescription for Failure: Race Relations in the Age of Social Science.
Richard Spencer is a former assistant editor at The American Conservative and Executive Editor at Taki’s Magazine (takimag.com); he was the founder and Editor of AlternativeRight.com (2010-2012). Currently, he is President and Director of the National Policy Institute and Washington Summit Publishing and Editor of Radix Journal.

Richard Spencer
Robert Weissberg
Robert Weissberg is author of Pernicious Tolerance and other books including Bad Students, not Bad Schools (2012). He is a Professor Emeritus of Political Science, University of Illinois
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vendredi, 18 octobre 2013
Les aléas de la liberté de conscience
Les aléas de la liberté de conscience
Refuser l’objection de conscience face aux réformes sociétales, c’est en revenir au principe totalitaire selon lequel l’État a toujours raison.
Le développement récent des réformes “sociétales” — c’est-à-dire concernant les moeurs, l’éthique, la liberté individuelle, la famille, le couple et les comportements — rend plus légitime encore qu’auparavant un questionnement sur la liberté de conscience et même sur l’objection de conscience. Car tout cela ressort au domaine de l’infiniment discutable, concerne l’intime et les convictions profondes sur ce qu’est un humain, ce qu’il lui faut, ce qu’il doit rechercher.
On peut avoir l’impression que nous sommes justement arrivés au bon moment de l’Histoire pour défendre la liberté de conscience. C’est le nazisme qui en est l’occasion. Voir ces bourreaux qui ont obéi comme des fantassins aveugles à des ordres barbares et qui se trouvaient capables, des dizaines d’années après, de légitimer encore leur allégeance, cela nous a révulsés au point de nous inciter à toujours défendre la conscience individuelle. La hantise du bourreau fidèle aux ordres a même suscité chez nous une méfiance instinctive du côté institutionnel des choses, à ce point que les groupes les plus conformistes se prétendent indépendants d’esprit. Nous vivons à une époque où tout le monde se prend pour Antigone.
Il est donc assez déconcertant de voir les réponses données à ceux qui en appellent à la liberté de conscience, et même à l’objection de conscience, face aux réformes sociétales dont le gouvernement actuel semble s’être fait une spécialité, et particulièrement face au mariage homosexuel. On leur rétorque qu’ils ne sont pas républicains, car allant à l’encontre de l’égalité républicaine, et aussi homophobes, évidemment. Nantis de ces tares rédhibitoires, ils n’ont évidemment pas droit à la décision individuelle, à vrai dire ils n’ont même pas de conscience, puisqu’ils s’opposent à la seule vérité sociopolitique.
Autrement dit, nous retournons subrepticement à ce que le combat antitotalitaire avait réussi à démanteler : le positivisme — c’est-à-dire l’idée selon laquelle l’État a toujours raison, parce qu’il est l’État. Dans notre cas, il faudrait plutôt dire : ce qui est consacré républicain (progressiste, égalitariste, émancipateur) a toujours raison.
Il faut bien rappeler que la conscience personnelle, celle d’Antigone, celle de l’objection de conscience, représente exactement le contraire du positivisme. Elle présuppose, si elle existe ou plutôt si elle est légitimée (car elle existe même si personne ne la reconnaît), qu’aucune instance supérieure ne peut prétendre avoir toujours raison. Et que le dernier mot, toujours particulier et relatif, revient à la conscience personnelle — ce qui suppose évidemment que l’être humain soit une personne et non un individu programmé par l’État, formaté par l’École.
C’est seulement dans ce cadre que la liberté de conscience existe : si l’idéal républicain, passe au second rang, après la conscience personnelle — autrement dit, si l’on imagine que le progressisme tout-puissant peut être jugé ! Faute de quoi nous en revenons au positivisme, qui était la tare principale des deux totalitarismes, donc du nazisme contre lequel nous ne cessons de lutter.
On ne peut pas porter les antifascistes sur le bouclier de la gloire et ne pas permettre aux maires de récuser le mariage gay en leur âme et conscience. Si la conscience d’Antigone existe et si elle doit être révérée, ce n’est pas seulement pour lutter contre le nazisme et contre les dictateurs exotiques. C’est aussi pour juger les croyances de notre République et dénoncer ses excès, ses abandons, ses lois scélérates. La conscience d’Antigone n’est pas un outil qu’on saisit quand cela nous arrange — pour fustiger Papon ou crier haro sur les accusés des tribunaux internationaux, complices de gouvernements criminels. Et qu’on mettrait sous le boisseau, réclamant dès lors l’obéissance absolue, quand cela nous sied — devant l’égalité républicaine, devant la souveraineté de la pensée d’État. Brandir une théorie pour ses adversaires et la décréter inepte dès qu’elle s’applique à soi : c’est la spécialité des imbéciles, et des idéologues.
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dimanche, 13 octobre 2013
Jünger und Mohler
Jünger und Mohler
Karlheinz Weißmann
Ex: http://www.sezession.de
Die Beziehung zwischen Ernst Jünger und Armin Mohler hat sich über mehr als fünf Jahrzehnte erstreckt. Sie wird – wenn in der Literatur erwähnt – als Teil der Biographie Jüngers behandelt. Man hebt auf Mohlers Arbeit als Jüngers Sekretär ab und gelegentlich auf das Zerwürfnis zwischen beiden. Mit den Wilflinger Jahren hatte dieser Streit nichts zu tun. Seine Ursache waren Meinungsverschiedenheiten über die erste Ausgabe der Werke Jüngers. Der Konflikt beendete für lange das Gespräch der beiden, das mit einer Korrespondenz begonnen hatte, im direkten Austausch und dann wieder im – manchmal täglichen – Briefwechsel zwischen der Oberförsterei und dem neuen französischen Domizil Mohlers in Bourg-la-Reine fortgesetzt wurde. Von 1949, als Mohler seinen Posten in Ravensburg antrat, bis 1955, als Jünger seinen 60. Geburtstag feierte, war ihre Verbindung am intensivsten, aber es gab auch eine Vor- und eine Nachgeschichte von Bedeutung.
Die Vorgeschichte hängt zusammen mit Mohlers abenteuerlichem Grenzübertritt vom Februar 1942. Er selbst hat für den Entschluß, aus der Schweizer Heimat ins Reich zu gehen und sich freiwillig zur Waffen-SS zu melden, zwei Motive angegeben: die Nachrichten von der Ostfront, damit verknüpft das Empfinden, hier gehe es um das Schicksal Deutschlands, und die Lektüre von Jüngers Arbeiter. Die Verknüpfung mag heute irritieren, der Eindruck würde sich aber bei genauerer Untersuchung der Wirkungsgeschichte Jüngers verlieren. Denn, was er im Schlußkapitel des Arbeiters über den „Eintritt in den imperialen Raum“ gesagt hatte, war mit einem Imperativ verknüpft gewesen: „Nicht anders als mit Ergriffenheit kann man den Menschen betrachten, wie er inmitten chaotischer Zonen an der Stählung der Waffen und Herzen beschäftigt ist, und wie er auf den Ausweg des Glückes zu verzichten weiß. Hier Anteil und Dienst zu nehmen: das ist die Aufgabe, die von uns erwartet wird.“
Mohlers Absicht war eben: „Anteil und Dienst zu nehmen“. Es ging ihm nicht um „deutsche Spiele“, nicht um eine Wiederholung von Jüngers Abenteuer in der Fremdenlegion, sondern darum, in einer für ihn bezeichnenden Weise, Ernst zu machen. Daß daraus nichts wurde, hatte dann – auch in einer für ihn bezeichnenden Weise – mit romantischen Impulsen zu tun: der Sehnsucht nach intensiver Erfahrung, nach großen Gefühlen, dem „Bedürfnis nach Monumentalität“, ein Diktum des Architekturtheoretikers Sigfried Giedion, das Mohler häufig zitierte. Daß der nationalsozialistische „Kommissarstaat“ kein Interesse hatte, solches Bedürfnis abzusättigen, mußte Mohler rasch erkennen. Er zog sein Gesuch zurück und ging bis Dezember 1942 zum Studium nach Berlin. Dort saß er im Seminar von Wilhelm Pinder und hörte Kunstgeschichte. Vor allem aber verbrachte er Stunde um Stunde in der Staatsbibliothek, wo er seltene Schriften der „Konservativen Revolution“ exzerpierte oder abschrieb, darunter die von ihm als „Manifeste“ bezeichneten Aufsätze Jüngers aus den nationalrevolutionären Blättern. Dieser Textkorpus bildete neben dem Arbeiter, der ersten Fassung des Abenteuerlichen Herzens sowie Blätter und Steine die Grundlage für Mohlers Faszination an Jünger.
Zehn Jahre später schrieb er über die Wirkung des Autors Jünger auf den Leser Mohler: „Sein Stil könnte mit seiner Oberfläche auf mathematische Genauigkeit schließen lassen. Aber diese Gestanztheit ist Notwehr. Durch sie hindurch spiegelt sich im Ineinander von Begriff und Bild eine Vieldeutigkeit, welche den verwirrt, der nur die Eingleisigkeit einer universalistisch verankerten Welt kennt. In Jüngers Werk … ist die Welt nominalistisch wieder zum Wunder geworden.“ Wer das Denken Mohlers etwas genauer kennt, weiß, welche Bedeutung das Stichwort „Nominalismus“ für ihn hatte, wie er sich bis zum Schluß auf immer neuen Wegen eine eigenartige, den Phänomenen zugewandte Weltsicht, zu erschließen suchte. Er hatte dafür als „Augenmensch“ bei dem „Augenmenschen“ Jünger eine Anregung gefunden, wie sonst nur in der Kunst.
Es wäre deshalb ein Mißverständnis, anzunehmen, daß Mohler Jünger auf Grund der besonderen Bedeutung, die er den Arbeiten zwischen den Kriegsbüchern und der zweiten Fassung des Abenteuerlichen Herzens beimaß, keine Weiterentwicklung zugestanden hätte. Ihm war durchaus bewußt, daß Gärten und Straßen das Alterswerk einleitete und zu einer deutlichen – und aus seiner Sicht legitimen – Veränderung des Stils geführt hatte. Es ging ihm auch nicht darum, Jünger auf die Weltanschauung der zwanziger Jahre festzulegen, wenngleich das Politische für seine Zuwendung eine entscheidende Rolle gespielt und zum Bruch mit der Linken geführte hatte. Sein Freund Werner Schmalenbach schilderte die Verblüffung des Basler Milieus aus Intellektuellen und Emigranten, in dem sich Mohler bis dahin bewegte, als dessen Begeisterung für Deutschland und für Jünger klarer erkennbar wurde. Nach seiner Rückkehr in die Schweiz und dem Bekanntwerden seines Abenteuers wurde er in diesen Kreisen selbstverständlich als „Nazi“ gemieden. Beirrt hat Mohler das aber nicht, weder in seinem Interesse an der Konservativen Revolution, noch in seiner Verehrung für Jünger.
Die persönliche Begegnung zwischen beiden wurde dadurch angebahnt, daß Mohler 1946 in der Zeitung Weltwoche einen Aufsatz über Jünger veröffentlichte, der weit von den üblichen Verurteilungen entfernt war. Es folgte ein Briefwechsel und dann die Aufforderung Jüngers, Mohler solle nach Abschluß seiner Dissertation eine Stelle als Sekretär bei ihm antreten. Als Mohler dann nach Ravensburg kam, wo Jünger vorläufig Quartier genommen hatte, war die Atmosphäre noch ganz vom Nachkrieg geprägt. Man bewegte sich wie in der Waffenstillstandszeit von 1918/19 in einer Art Traumland – zwischen Zusammenbruch und Währungsreform –, und alle möglichen politischen Kombinationen schienen denkbar. Der Korrespondenz zwischen Mohler und seinem engsten Freund Hans Fleig kann man entnehmen, daß damals beide die Wiederbelebung der „Konservativen Revolution“ erwarteten: die „antikapitalistische Sehnsucht“ des deutschen Volkes, von der Gregor Strasser 1932 gesprochen hatte, war in der neuen Not ungestillt, ein „heroischer Realismus“ konnte angesichts der verzweifelten Lage als Forderung des Tages erscheinen, auch die intellektuelle Linke glaubte, daß die „Frontgeneration“ ein besonderes Recht auf Mitsprache besitze, und das Ausreizen der geopolitischen Situation mochte als Chance gelten, die Teilung Deutschlands zwischen den Blöcken zu verhindern. Wie man Mohlers Ravensburger Tagebuch, aber auch anderen Dokumenten entnehmen kann, waren Jünger solche Gedanken nicht fremd, wenngleich die Erwägungen – bis hin zu nationalbolschewistischen Projekten – eher spielerischen Charakter hatten.
Differenzen zwischen beiden ergaben sich auf literarischem Feld. Mohler hatte Schwierigkeiten mit den letzten Veröffentlichungen Jüngers. Ihn irritierten die Friedensschrift (1945) und der große Essay Über die Linie (1951), und den Roman Heliopolis (1949) hielt er für mißlungen. Die Sorge, daß Jünger sich untreu werden könnte, schwand erst nach dem Erscheinen von Der Waldgang (1951). Mohler begrüßte das Buch enthusiastisch und als Bestätigung seiner Auffassung, daß man angesichts der Lage den Einzelgänger stärken müsse. Was sonst zu sagen sei, sollte getarnt werden, wegen der „ausgesprochenen Bürgerkriegssituation“, in der man schreibe. Er erwartete zwar, daß der „Antifa-Komplex“ bald erledigt sei, aber noch wirkte die Gefährdung erheblich und der „Waldgänger“ war eine geeignetere Leitfigur als „Soldat“ oder „Arbeiter“.
Mohler betrachtete den Waldgang vor allem als erste politische Stellungnahme Jüngers nach dem Zusammenbruch, eine notwendige Stellungnahme auch deshalb, weil die Strahlungen und die darin enthaltene Auseinandersetzung mit den Verbrechen der NS-Zeit viele Leser Jüngers befremdet hatte. In der aufgeheizten Atmosphäre der Schulddebatten fürchteten sie, Jünger habe die Seiten gewechselt und wolle sich den Siegern andienen; Mohler vermerkte, daß in Wilflingen kartonweise Briefe standen, deren Absender Unverständnis und Ablehnung zum Ausdruck brachten.
Mohler schloß sich dieser Kritik ausdrücklich nicht an und hielt ihr entgegen, daß sie am Kern der Sache vorbeigehe. „Der deutsche ‚Nationalismus‘ oder das ‚nationale Lager‘ oder die ‚Rechte‘ … wirkt heute oft erschreckend verstaubt und antiquiert – und dies gerade in einem Augenblick, wo [ein] bestes nationales Lager nötiger denn je wäre. Die Verstaubtheit scheint mir daher zu kommen, daß man glaubt, man könne einfach wieder da anknüpfen, wo 1933 oder 1945 der Faden abgerissen war.“ Einige arbeiteten an einer neuen „Dolchstoß-Legende“, andere suchten die Schlachten des Krieges noch einmal zu führen und nun zu gewinnen, wieder andere setzten auf einen „positiven Nationalsozialismus“ oder auf eine Wiederbelebung sonstiger Formen, die längst überholt und abgestorben waren. In der Überzeugung, daß eine Restauration nicht möglich und auch nicht wünschenswert sei, trafen sich Mohler und Jünger.
Die Stellung Mohlers als „Zerberus“ des „Chefs“ war nie auf Dauer gedacht. Mohler plante eine akademische Karriere und betrachtete seine Tätigkeit als Zeitungskorrespondent, die er 1953 aufnahm, auch nur als Vorbereitung. Der Kontakt zu Jünger riß trotz der Entfernung nie ab. interessanterweise bemühten sich in dieser Phase beide um eine Neufassung des Begriffs „konservativ“, die ausdrücklich dem Ziel dienen sollte, einen weltanschaulichen Bezugspunkt zu schaffen.
Wie optimistisch Jünger diesbezüglich war, ist einer Bemerkung in einem Brief an Carl Schmitt zu entnehmen, dem er am 8. Januar 1954 schrieb, er beobachte „an der gesamten Elite“ eine „entschiedene Wendung zu konservativen Gedanken“, und im Vorwort zu seinem Rivarol – ein Text, der in der neueren Jünger-Literatur regelmäßig übergangen wird – geht es an zentraler Stelle um die „Schwierigkeit, ein neues, glaubwürdiges Wort für ‚konservativ‘ zu finden“. Jünger hatte ursprünglich vor, gegen ältere Versuche eines Ersatzes zu polemisieren, verzichtete aber darauf, weil er dann auch den Terminus „Konservative Revolution“ hätte einbeziehen müssen, was er aus Rücksicht auf Mohler nicht tat. Daß ihn seine intensive Beschäftigung mit den Maximen des französischen Gegenrevolutionärs „stark in die politische Materie“ führte, war Jünger klar. Wenn dagegen so wenig Vorbehalte zu erkennen sind, dann hing das auch mit dem Erfolg und der wachsenden Anerkennung zusammen, die er in der ersten Hälfte der fünfziger Jahre erfuhr. Zeitgenössische Beobachter glaubten, daß er zum wichtigsten Autor der deutschen Nachkriegszeit werde.
Dieser „Boom“ erreichte einen Höhepunkt mit Jüngers sechzigstem Geburtstag. Es gab zwar auch heftige Kritik am „Militaristen“ und „Antidemokraten“, aber die positiven Stimmen überwogen. Mohler hatte für diesen Anlaß nicht nur eine Festschrift vorbereitet, sondern auch eine Anthologie zusammengestellt, die unter dem Titel Die Schleife erschien. Der notwendige Aufwand an Zeit und Energie war sehr groß gewesen, die prominentesten Beiträger für die Festschrift, Martin Heidegger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, bei Laune zu halten, ein schwieriges Unterfangen – Heidegger zog seinen Beitrag aus nichtigen Gründen zweimal zurück. Ganz zufrieden war der Jubilar aber nicht; Jünger mißfiel die geringe Zahl ausländischer Autoren, und bei der Schleife hatte er den Verdacht, daß hier suggeriert werde, es handele sich um ein Buch aus seiner Feder. Die Ursache dieser Verstimmung war eine kleine Manipulation des schweizerischen Arche-Verlags, in dem Die Schleife erschienen war, und der auf den Umschlag eine Titelei gesetzt hatte, die einen solchen Irrtum möglich machte.
Im Hintergrund spielte außerdem der Wettbewerb verschiedener Häuser um das Werk Jüngers mit, dessen Bücher in der Nachkriegszeit zuerst im Furche-, den man ihm zu Ehren in Heliopolis-Verlag umbenannt hatte, dann bei Neske und bei Klostermann erschienen waren. Außerdem versuchte ihn Ernst Klett für sich zu gewinnen. Wenn Klostermann die Festschrift herausbrachte, obwohl er davon kaum finanziellen Gewinn erwarten durfte, hatte das mit der Absicht zu tun, die Bindung Jüngers zu festigen. Deshalb korrespondierte der Verleger mit Mohler nicht nur wegen der Ehrengabe, sondern gleichzeitig auch wegen einer Edition des Gesamtwerks, die Jünger dringend wünschte.
Klostermann und Mohler waren einig, daß eine solche Sammlung nach „Wachstumsringen“ geordnet werden müsse, jedenfalls der Chronologie zu folgen und die ursprünglichen Fassungen zu bringen beziehungsweise Änderungen kenntlich zu machen habe. Bekanntermaßen ist dieser Plan nicht in die Tat umgesetzt worden. Rivarol war das letzte Buch, das Jünger bei Klostermann veröffentlichte, danach wechselte er zu Klett, dem er gleichzeitig die Verantwortung für die „Werke“ übertrug. In einem Brief vom 15. Dezember 1960 schrieb Klostermann voller Bitterkeit an Mohler, daß er die Ausgabe im Grunde für unbenutzbar halte und mit Bedauern feststelle, daß Jünger gegen Kritik immer unduldsamer werde. Zwei Wochen später veröffentlichte Mohler einen Artikel über die Werkausgabe in der Züricher Tat. Jüngers „Übergang in das Lager der ‚Universalisten‘“ wurde nur konstatiert, aber die Eingriffe in die früheren Texte scharf getadelt.
Noch grundsätzlicher faßte Mohler seine Kritik für einen großen Aufsatz zusammen, der im Dezember 1961 in der konservativen Wochenzeitung Christ und Welt erschien und von vielen als Absage an Jünger gelesen wurde. Mohler verurteilte hier nicht nur die Änderung der Texte, er mutmaßte auch, sie folgten dem Prinzip der Anbiederung, man habe „ad usum democratorum frisiert“, es gebe außerdem ein immer deutlicher werdendes „Gefälle“ im Hinblick auf die Qualität der Diagnostik, was bei den letzten Veröffentlichungen Jüngers wie An der Zeitmauer (1959) und Der Weltstaat (1960) zu einer Beliebigkeit geführt habe, die wieder zusammenpasse mit anderen Konzessionen Jüngers, um „sich mit der bis dahin gemiedenen Öffentlichkeit auszugleichen“. Mohler deutete diese Tendenz nicht einfach als Schwäche oder Verrat, sondern als negativen Aspekt jener„osmotischen“ Verfassung, die Jünger früher so sensibel für kommende Veränderungen gemacht habe.
Jünger brach nach Erscheinen des Textes den Kontakt ab. Daß Mohler das beabsichtigte, ist unwahrscheinlich. Noch im Juni 1960 hatte Jünger ihn in Paris besucht, kurz bevor Mohler nach Deutschland zurückkehrte, und im Gästebuch stand der Eintrag: „Wenige sind wert, daß man ihnen widerspricht. Bei Armin Mohler mache ich eine Ausnahme. Ihm widerspreche ich gerne.“ Jetzt warf Jünger Mohler vor, ihn ideologisch mißzuverstehen und äußerte in einem Brief an Curt Hohoff: „Das Politische hat mich nur an den Säumen beschäftigt und mir nicht gerade die beste Klientel zugeführt. Würden Mohlers Bemühungen dazu beitragen, daß ich diese Gesellschaft gründlich loswürde, so wäre immerhin ein Gutes dabei. Aber solche Geister haben ein starkes Beharrungsvermögen; sie verwandeln sich von lästigen Anhängern in unverschämte Gläubiger.“
Sollte Jünger Mohlers Text tatsächlich nicht gelesen haben, wie er hier behauptete, wäre ihm auch der Schlußpassus entgangen, in dem Mohler zwar nicht zurücknahm, was er gesagt hatte, aber festhielt, daß ein einziges der großen Bücher Jüngers genügt hätte, um diesen „für immer in den Himmel der Schriftsteller“ eingehen zu lassen: „An dessen Scheiben wir Kritiker uns die Nase plattdrücken.“ Die Ursache für Mohlers Schärfe war Enttäuschung, eine Enttäuschung trotz bleibender Bewunderung. Mohler warf Jünger mit gutem Grund vor, daß dieser in der zweiten Hälfte der fünfziger Jahre ohne Erklärung den Kurs geändert hatte und sich in einer Weise stilisierte, die ihn nicht mehr als „großen Beunruhiger“ erkennen ließ. Man konnte das wahlweise auf Jüngers „Platonismus“ oder sein Bemühen um Klassizität zurückführen. Tendenzen, mit denen Mohler schon aus Temperamentsgründen wenig anzufangen wußte.
Die Wiederannäherung kam deshalb erst nach langer Zeit und angesichts der Wahrnehmung zustande, daß Jünger eine weitere Kehre vollzog. Das Interview, das der Schriftsteller am 22. Februar 1973 Le Monde gab, wirkte auf Mohler elektrisierend, was vor allem mit jenen Schlüsselzitaten zusammenhing, die von der deutschen Presse regelmäßig unterschlagen wurden: Zwar hatte man mit einer gewissen Irritation Jüngers Äußerung gemeldet, er könne weder Wilhelm II. noch Hitler verzeihen, „ein so wundervolles Instrument wie unsere Armee vergeudet zu haben“, aber niemand wagte sein Diktum hinzuzufügen: „Wie hat der deutsche Soldat zweimal hintereinander unter einer unfähigen politischen Führung gegen die ganze wider ihn verbündete Welt sich halten können? Das ist die einzige Frage, die man meiner Ansicht nach in 100 Jahren stellen wird.“ Und nirgends zu finden war die Prophetie über das Schicksal, das den Deutschen im Geistigen bevorstand: „Alles, was sie heute von sich weisen, wird eines schönen Tages zur Hintertüre wieder hereinkommen.“
Mohler stellte die Rückkehr zum Konkret-Politischen mit der Wirkung von Jüngers Roman Die Zwille zusammen, ein „erzreaktionäres Buch“, so sein Urteil, das in seinen besten Passagen jene Fähigkeit zum „stereoskopischen“ Blick zeigte, die von Mohler bewunderte Fähigkeit, das Besondere und das Typische – nicht das Allgemeine! – gleichzeitig zu erkennen. Obwohl Mohler an seiner Auffassung vom „Bruch“ im Werk festhielt, hat der Aufsatz Ernst Jüngers Wiederkehr wesentlich dazu beigetragen, den alten Streit zu beenden. Die Verbindung gewann allmählich ihre alte Herzlichkeit zurück, und seinen Beitrag in der Festschrift zu Mohlers 75. Geburtstag versah Jünger mit der Zeile „Für Armin Mohler in alter Freundschaft“; beide telefonierten häufig und ausführlich miteinander, und wenige Monate vor dem Tod Jüngers, im Herbst 1997, kam es zu einer letzten persönlichen Begegnung in Wilflingen.
Nachdem Jünger gestorben war, gab ihm Mohler, obwohl selbst betagt und krank, das letzte Geleit. Er empfand das mit besonderer Genugtuung, weil es ihm nicht möglich gewesen war, Carl Schmitt diese letzte Ehre zu erweisen. Jünger und Schmitt hatten nach Mohlers Meinung den größten Einfluß auf sein Denken, mit beiden war er enge Verbindungen eingegangen, die von Schwankungen, Mißverständnissen und intellektuellen Eitelkeiten nicht frei waren, zuletzt aber Bestand hatten. Den Unterschied zwischen ihnen hat Mohler auf die Begriffe „Idol“ und „Lehrer“ gebracht: Schmitt war der „Lehrer“, Jünger das „Idol“. Wenn man „Idol“ zum Nennwert nimmt, dann war Mohlers Verehrung eine besondere – von manchen Heiden sagt man, daß sie ihre Götter züchtigen, wenn sie nicht tun, was erwartet wird.
Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de
URL to article: http://www.sezession.de/2066/juenger-und-mohler.html
URLs in this post:
[1] pdf der Druckfassung: http://www.sezession.de/wp-content/uploads/2009/03/weissmann_junger-und-mohler.pdf
[2] Image: http://www.sezession.de/heftseiten/heft-22-februar-2008
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samedi, 12 octobre 2013
Romano Guardini
Romano Guardini
(Text aus dem Band Vordenker [2] des Staatspolitischen Handbuchs, Schnellroda 2012.)
Ex: http://www.sezession.de
von Harald Seubert
Guardini wurde als Sohn einer aus Südtirol stammenden Mutter und eines italienischen Geflügelgroßhändlers geboren. 1886 übersiedelte die Familie nach Mainz, wo Guardini das humanistische Gymnasium absolviert.
Nach Studien der Chemie und Nationalökonomie entschied er sich, zusammen mit dem Jugendfreund Karl Neundörfer, Theologie zu studieren. Romano Guardinis lebenslanger Freund, Josef Weiger, gehörte mit in den Tübinger Freundschaftskreis, der gleichermaßen von einer Neuaneignung des großen katholischen Erbes und den geistigen und ästhetischen Gärungen und Bewegungen der Zeit vor dem Ersten Weltkrieg bestimmt war.
1915 promovierte Guardini über Bonaventura, 1922 habilitierte er sich über denselben Kirchenlehrer. In den nächsten Jahren war Guardini an maßgeblicher Stelle in der katholischen Jugendbewegung tätig, vor allem im Quickborn mit dem Zentrum der Burg Rothfels. Neben einer Neugestaltung der gesamten Lebensführung bildete die Reform der Liturgie, wobei dem Logos ein verstärktes Gewicht gewidmet sein sollte, einen Schwerpunkt der Neuorientierung. Bis 1939 suchte Guardini die Burg Rothfels als eine Gegenwelt zu bewahren, auch wenn er seit 1934 bespitzelt wurde. Er wollte sie zu einer christlichen Akademie formen, was bis zu der erzwungenen Schließung auch weitgehend gelingen sollte.
Bereits 1923 erhielt Guardini den neuerrichteten Lehrstuhl für Christliche Weltanschauung an der Berliner Friedrich-Wilhelms-Universität. Die Titulatur, die auch seinen späteren Münchener Lehrstuhl prägen sollte, war Programm: Inmitten des protestantisch geprägten Berlin solltendie Grundphänomene und Kräfte der eigenen Zeit aus christlicher Perspektive gedeutet werden, im Sinn einer freien, auch ästhetisch hochgebildeten Katholizität, die die großen Traditionen neu aneignete. Der Weltanschauungsbegriff folgte dabei den geistigen und methodischen Vorgaben der hermeneutischen Schule von Dilthey bis Troeltsch. Die Einlösung zeigte sich in den morphologisch souveränen Deutungen Guardinis, die von der Patristik, von Augustinus zu Platon zurückreichen, wobei er aber die thomistische Tradition nicht verleugnete. Ein polyphones Wahrheitsverständnis, das zugleich auf den absoluten Grund gerichtet ist, bildet gleichsam die Mittelachse aller Arbeiten.
Schon in den frühen dreißiger Jahren kritisierte Guardini den innerweltlichen Messianismus des NS-Regimes; er verwies auf den unlösbaren Nexus zwischen jüdischer Religion und christlichem Glauben, der sich schon aus der Existenz Jesu ergebe. In den beiden letzten Kriegsjahren lebte Guardini zurückgezogen in Mooshausen, dem Pfarrort seines Freundes Weiger. Erst nach 1945 konnte er seine öffentliche Wirksamkeit wieder aufnehmen, zunächst in Tübingen und drei Jahre später mit der Berufung auf das persönliche Ordinariat in München. Von hier aus entfaltete Guardini in den nächsten Jahren eine große Wirksamkeit. Sein virtuoser und zugleich zurückgenommener Vortragsstil wirkte weit in das Bürgertum hinein. In großen Zyklen, die sich stets der existentiellen Dimension des Denkens aussetzten, interpretierte er Platon, Augustinus, Dante, Pascal, Kierkegaard, Dostojewski und Hölderlin. Im Zentrum eines langjährigen Vorlesungszyklus stand aber die Ethik, bei Guardini verstanden als umfassende Lehre von der Kunst der Lebensgestaltung. Ergänzend dazu wirkte er als überzeugender, auf die Stunde hörender Prediger und Liturg in der St.-Ludwigs-Kirche bei den Münchener Universitätsgottesdiensten.
1950 erschien die gleichermaßen essayistisch prägnante und wegweisende Studie [3] Das Ende der Neuzeit. Guardini sieht die antike und mittelalterliche Weltsicht durch eine grundsätzliche Geschlossenheit und Ordnung, nicht zuletzt durch eine Harmonie gekennzeichnet, von der sich die Neuzeit ablöst. Diese Trennung vom Göttlichen und Hypostase des Endlichen berge immense Gefahren. Man hat dies als Ablehnung der Neuzeit mißverstanden. Deren Ressourcen sieht Guardini in der Tat an ihr Ende gelangt. Er eröffnet aber zugleich eine künftige Perspektive: auf den Glauben, der in der Moderne seine Selbstverständlichkeit verloren hat und damit ein neues eschatologisches Bewußtsein ermöglicht.
Insgesamt ist Guardini nur zu verstehen, wenn man seinen janusköpfigen Blick, zurück in die Vergangenheit und in die offene nach-neuzeitliche Zukunft voraus, würdigt. Grundlegend für Guardinis philosophische Morphologien und Phänomenologien ist seine Gegensatzlehre (u. a. 1925 und 1955 in verschiedenen Fassungen vorgelegt). Der Gegensatz verweist auf das unverfügbare Gesetz der Polarität und unterscheidet sich damit ebenso von der spekulativen Dialektik Hegels wie auch von der Dialektik der Paradoxalität bei Kierkegaard und in der Existenzphilosophie. Vom einzelnen Phänomen sucht Guardini in einem gleitenden Übergang auf das umgreifende Ganze zu gelangen und umgekehrt. Gegensätzlichkeit ist ihm zufolge »unableitbar«, weil ihre Pole nicht auseinander zu deduzieren und auch nicht aufeinander zurückzuführen sind. Überdies bedarf der Begriff der Anschauung und umgekehrt. Guardini sah sich selbst bewußt eher am Rande der akademischen Welt (es wird berichtet, daß er das Hörsaalgebäude, als Ausdruck von Distanz und Respekt gleichermaßen, vor jeder Vorlesung umrundete). So übte er eine legendäre Strahlkraft auf unterschiedliche Geister, von Hannah Arendt bis Viktor von Weizsäcker, aus, hatte aber im engeren akademischen Sinn kaum Schüler.
Guardinis Denkstil war wesentlich künstlerisch bestimmt, weshalb er in den späten Jahren auch in der Münchener Akademie der Schönen Künste eine herausgehobene Wirkungsstätte finden sollte. In seiner Münchener Zeit wandte sich Guardinis Deutungskunst auch Phänomenen wie dem Film zu. Wenn er schon mit der Schrift Der Heiland 1935 eine profunde christliche Kritik der NS-Ideologie vorgelegt hatte, so konnte er daran 1950 mit der Untersuchung Der Heilsbringer anknüpfen, einer bahnbrechenden Studie für das Verständnis von totalitären Ideologien als Politische Religionen. Wenig bekannt ist Guardinis Bemühung um ein hegendes »Ethos der Macht«, das gegenüber den anonymen Mächten zur Geltung zu bringen sei, die seiner Diagnose gemäß immer deutlicher zutage treten, das aber auch die charismatische Macht und Herrschaft zu domestizieren weiß.
Schriften: Von heiligen Zeichen, Würzburg 1922; Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Mainz 1925; Christliches Bewußtsein. Versuche über Pascal, Leipzig 1935; Der Herr. Betrachtungen über die Person und das Leben Jesu Christi, Würzburg 1937 (16. Aufl. 1997); Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Würzburg 1939; Der Tod des Sokrates, Bern 1945; Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung, München 1950; Die Macht. Versuch einer Wegweisung, München 1951; Ethik. Vorlesungen an der Universität München, hrsg. v. Hans Mercker, 2 Bde., Ostfildern 1993.
Literatur: Berthold Gerner: Romano Guardini in München. Beiträge zu einer Sozialbiographie, 3 Bde., München 1998–2005; Franz Henrich: Romano Guardini, Regensburg 1999; Markus Zimmermann: Die Nachfolge Jesu Christi. Eine Studie zu Romano Guardini, Paderborn 2004.
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[2] Vordenker: http://antaios.de/gesamtverzeichnis-antaios/staatspolitisches-handbuch/33/staatspolitisches-handbuch-band-3-vordenker
[3] wegweisende Studie: http://www.sezession.de/3323/neues-mittelalter.html/3
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vendredi, 11 octobre 2013
Face à la décadence des valeurs...
Face à la décadence des valeurs...
par Yvan Blot
Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com
Nous reproduisons ci-dessous une intervention d'Yvan Blot au colloque de l'Institut de la démocratie et de la coopération, qui s'est tenu le 10 juin 2013, à l'assemblée nationale, sur le thème "La Grande Europe des Nations : une réalité pour demain ?". Un point de vue qui peut faire débat quant à la place qu'il accorde au christianisme, notamment...
Fondateur du Club de l'Horloge, Yvan Blot, qui préside actuellement l'institut néo-socratique, est notamment l'auteur de L'héritage d'Athéna ou Les racines grecques de l'Occident (Presses bretonnes, 1996) ainsi que d'un essai intitulé L'oligarchie au pouvoir (Economica, 2011).
La Russie et l'Europe face à la décadence des valeurs
Le problème des valeurs
Les valeurs ne sont pas une connaissance. Le vrai, le bien et le beau sont des objectifs pour l’action. Leur origine n’est pas la création par un petit père des peuples, ou par une commission interministérielle mais elle est immémoriale. L’Europe et la Russie partagent des valeurs communes parce qu’elles sont issues de la même civilisation, issue de la Grèce et de Rome, transfigurées par le christianisme. Refuser que l’Europe soit « un club chrétien » comme l’ont dit plusieurs politiciens comme Jacques Delors ou le premier ministre turc Erdogan revient à nier l’identité historique de l’Europe.
Les valeurs montrent leur importance sociale à travers leurs fruits. Le meurtre ou la malhonnêteté ne sont pas généralisables. La société s’effondrerait. L’honnêteté ou le respect de la vie sont généralisable. Le fait d’avoir des enfants aussi. C’est le signe qu’on est en présence de valeurs authentiques.
Le problème des valeurs est qu’elles ne sont pas issues de la raison comme l’ont montré des philosophes comme Hume ou le prix Nobel Hayek. Elles se situent entre l’instinct et la raison. Le 18ème siècle européen avec son culte de la raison et son éloge de la libération de la nature, donc des instincts a été une catastrophe pour les valeurs. La raison, cette « crapule » comme disait Dostoïevski, a servi à justifier les instincts. Or les hommes ont une vie instinctive chaotique à la différence des animaux. L’homme a par nature besoin des disciplines de la culture, de la civilisation, comme l’a écrit l’anthropologue Arnold Gehlen. Du 18ème siècle a nos jours, on a assisté en Occident à la destruction des valeurs traditionnelles issues du christianisme et du monde gréco romain. Quatre faux prophètes ont joué un rôle majeur : Voltaire, Rousseau, Marx et Freud. Au 20ème siècle, les idéologies scientistes totalitaires ont provoqué des meurtres de masse au nom de la raison.
Plus récemment, la révolution culturelle des années soixante, partie des universités américaines, a affaibli nos valeurs de façon décisive avec des slogans tels que « il est interdit d’interdire » ou « il n’existe pas d’hommes et de femmes mais des choix subjectifs d’orientation sexuelle ».
Le fait est que le nombre de crimes et de délits en France resté stable autour de 1, 5 millions d’actes entre 1946 et 1968 a monté depuis lors au chiffre de 4,5 millions. Le record des prisonniers est détenu de loin par les Etats-Unis d’Amérique où le nombre de meurtre par habitant est quatre fois celui de la France. Face à cette situation, les gouvernements n’ont guère réagi sauf celui de la Russie.
Si l’on reprend les quatre causes d’Aristote matérielle, formelle, motrice et finale, on a quatre groupes de valeurs culturelles qui sont le socle de la civilisation et de la société, on a les valeurs comme normes obligatoires incarnées par l’Etat et le droit, on a les valeurs familiales qui s’étendent aussi à l’économie et enfin les valeurs spirituelles incarnées par les religions. Dans quelle situation sommes-nous par rapport à ces quatre groupes de valeurs ? L’utilitarisme américain qui réduit l’homme à une matière première de l’économie remet en cause beaucoup de nos valeurs traditionnelles.
Les valeurs culturelles et morales
L’Europe et la Russie ont dans ce domaine un héritage majeur, celui de l’Empire romain et des anciens Grecs. Il s’agissait de la « paidéia », l’éducation de l’homme afin qu’il devienne « beau et compétent » de corps et d’âme (kaloskagathos). D’où la recherche de l’excellence morale par l’exemple des grands hommes de l’histoire. Cette éducation humaniste, qui était aussi bien catholique que laïque en France, a été reniée. On cherche à former des techniciens et des commerciaux sans culture générale et non des citoyens autonomes. L’homme doit devenir un simple rouage de la machine économique comme l’a montré le philosophe Heidegger. On assiste à un effondrement de la culture générale et de la lecture. En même temps, le sens moral s’affaiblit, à commencer chez les élites car « c’est toujours par la tête que commence à pourrir le poisson ».
Au nom des droits de l’homme, on sape la morale traditionnelle car on ignore la nature véritable de l’homme. Celui-ci a trois cerveaux, reptilien pour commander les instincts, mammifères pour l’affectivité (mesocortex) et intellectuel et calculateur (neocortex). En Occident, le cerveau affectif qui commande le sens moral n’est pas favorisé : il est considéré comme réactionnaire ! La morale est réactionnaire ! Seuls sont promus le cerveau reptilien (les instincts) et le cerveau calculateur (intelligence) mis au service du reptilien. Cela donne des personnalités au comportement déréglé comme un ancien directeur du FMI. Plus gravement, cette dégénérescence a produit aussi les criminels comme Hitler ou Pol Pot ! La raison au service de l’agression reptilienne, c’est la barbarie !
Il faut réaffirmer l’importance de la morale, notamment civique, laquelle n’est pas fondée sur la raison mais sur des traditions que l’on acquiert avec l’éducation du cœur, comme l’a toujours affirmé le christianisme. C’est essentiel pour l’Europe comme pour la Russie. Nous partageons l’idéal de la personne qui recherche l’excellence, idéal issu des anciens Grecs, de l’empire romain et du christianisme.
L’offensive contre les valeurs familiales
A partir de mai 1968 pour la France, les valeurs familiales se sont effondrées. Le mot d’ordre de mai 68 était « jouir sans entraves » comme disait l’actuel député européen Daniel Cohn Bendit accusé aujourd’hui de pédophilie. Depuis les années soixante dix, un courant venu des Etats-Unis, la théorie du genre, affirme que le sexe est une orientation choisie. Le but est de casser le monopole du mariage normal, hétérosexuel. Depuis les mêmes années, la natalité s’effondre dramatiquement en Europe. L’Europe ne se reproduit plus et sa démographie ne se maintient en quantité que par l’immigration du tiers monde. Le tissu social se déchire par les échecs familiaux et par l’immigration de masses déracinées. La France favorise la gay pride, autorise le mariage gay et réduit les allocations familiales. Par contre, la Russie créé pendant ce temps une prime de 7700 euros à la naissance à partir du deuxième enfant, et crée une fête officielle de l’amour de la fidélité et du mariage avec remises de décoration.
Une idéologie venue des Etats-Unis affirme le choix de vie « childfree » (libre d’enfants) opposé à « childless » sans enfants par fatalité. Avec une telle idéologie, l’Europe contaminée est en danger de mort démographiquement. Ce fut le cas de la Russie après la chute de l’URSS mais le redressement s’affirme depuis trois ans environ.
Il faut aussi lier les valeurs familiales et celles de la propriété et de l’entreprise. Dans le passé, la famille était la base de l’économie. Le système fiscal français démantèle la propriété et empêche les travailleurs d’accéder à la fortune par le travail. On sait grâce aux exemples allemand et suisse que les entreprises familiales sont souvent les plus efficaces et les plus rentables. Or on est dans une économie de « managers » de gérants qui cherchent le profit à court terme pour des actionnaires dispersés. L’Etat est aussi court termiste dans sa gestion et s’endette de façon irresponsable, droite et gauche confondues. Une société sans valeurs familiales est aussi une société tournée vers le court terme, qui se moque de ce qu’elle laissera aux générations futures. Là encore, l’Europe pourrait s’inspirer de la récente politique familiale russe et la Russie avec son faible endettement est un bon contre-exemple par ailleurs.
La crise des valeurs nationales
Le socialiste Jaurès disait : « les pauvres n’ont que la patrie comme richesse » : on cherche aujourd’hui à leur enlever cette valeur. La patrie repose sur un certain désintéressement des hommes : mourir pour la patrie fut un idéal de la Rome antique à nos jours. La marginalisation des vocations de sacrifice, celle du soldat et celle du prêtre n’arrange rien. La classe politique est gangrenée par l’obsession de l’enrichissement personnel. La patrie est vue comme un obstacle à la création de l’homme nouveau utilitariste et sans racines.
En outre en France surtout, on a cherché à dissocier le patriotisme de l’héritage chrétien, ce qui est contraire à tout ce que nous apprend l’histoire. L’Eglise dans beaucoup de pays d’Europe a contribué à sauver la patrie lorsque celle-ci notamment était occupée par l’étranger.
La patrie, du point de vue des institutions politiques, est inséparable de la démocratie. Or en Europe à la notable exception de la Suisse, on vit plus en oligarchie qu’en démocratie. Ce n’est pas nouveau. De Gaulle dénonçait déjà cette dérive. Il faut rétablir une vraie démocratie, au niveau national comme de l’Union européenne, organisation oligarchique caricaturale, et ré enseigner le patriotisme aux jeunes pour retisser un lien social qui se défait.
La marginalisation des valeurs spirituelles
L’Europe comme la Russie sont issues d’une même civilisation issue de l’Empire romain et du christianisme. Le christianisme est unique en ce qu’il est une religion de l’incarnation, du Dieu fait homme pour que l’homme puisse être divinisé comme l’ont dit Saint Athanase en Orient et saint Irénée en Occident. Le christianisme met donc l’accent sur le respect de la personne humaine que l’on ne peut séparer des devoirs moraux.
Cet équilibre est rompu avec l’idéologie des droits de l’homme où les devoirs sont absents. Dostoïevski, cité par le patriarche russe Cyrillel II a montré que la liberté sans sens des devoirs moraux peut aboutir à des catastrophes humaines. De même l’égalité sans charité débouche sur l’envie, la jalousie et le meurtre comme les révolutions l’ont montré. Quant à la fraternité, sans justice, elle débouche sur la constitution de mafias, qui sont des fraternelles mais réservées aux mafieux au détriment des autres.
L’égalité en droit des différentes religions n’est pas en cause. Mais il n’y a rien de choquant à reconnaître le rôle du christianisme dans notre histoire commune et à en tirer des conséquences pratiques. Comme l’a dit l’ancien président Sarkozy, un prêtre peut être plus efficace pour redonner du sens moral et retisser le tissu social que la police ou l’assistance sociale. Il en appelait à une laïcité positive, non anti-religieuse.
Là encore, la Russie tente une expérience intéressante qu’il ne faut pas ignorer de collaboration entre l’Etat et l’Eglise. La destruction du rôle public des Eglises a mené au totalitarisme, à un Etat sans contrepoids moral ; il ne faut pas l’oublier.
Redressement culturel et démocratie authentique
Qui pousse en Occident à l’effondrement des valeurs traditionnelles ? Ce n’est certes pas le peuple mais plutôt les élites profitant de leur pouvoir oligarchique, médiatique, financier, juridique et en définitive politique sur la société. Si on faisait un référendum sur le mariage gay, on aurait sans doute des résultats différents du vote de l’Assemblée Nationale.
Ce qui caractérise l’Europe d’aujourd’hui est une coupure croissante entre les élites acquises à la nouvelle idéologie pseudo religieuse des droits de l’homme et le peuple attaché aux valeurs traditionnelles de la famille, de la morale classique et de la patrie.
Ce fossé, par contre, existe moins, semble-t-il en Russie où le président et le gouvernement reflètent bien la volonté populaire, quitte à être critiqués par quelques oligarchies occidentalisées. C’est pourquoi je pense, contrairement à une idée reçue, que la Russie d’aujourd’hui est sans doute plus démocratique que la plupart des Etats européens car la démocratie, c’est d’abord le fait de gouverner selon les souhaits du peuple. En Occident, les pouvoirs sont manipulés par des groupes de pression minoritaires. Ils négligent la volonté du peuple et la preuve en est qu’ils ont peur des référendums.
La démocratie russe est jeune mais est-ce un défaut ? Une démocratie trop vieille peut être devenue vicieuse et décadente, et perdre ses vertus démocratiques d’origine pour sombrer dans l’oligarchie. La Russie est donc peut-être plus démocratique car plus proches des valeurs du peuple que nos oligarchies occidentales dont de puissants réseaux d’influence souhaitent changer notre civilisation, la déraciner, créer de toutes pièces une morale nouvelle et un homme nouveau sans le soutien du peuple. Démocrates d’Europe et de Russie ont en tous cas un même héritage culturel à défendre et à fructifier face à ces réseaux.
Face au déclin des valeurs, déclin surtout importé d’Amérique depuis les années soixante, il appartient donc à l’Europe et à la Russie de faire front commun pour défendre les valeurs de la nation, de la démocratie, de la culture classique avec son héritage chrétien. Comme disait De Gaulle, il faut s’appuyer sur les peuples d’Europe de ‘Atlantique à l’Oural, ou plutôt à Vladivostok. Il a écrit dans les Mémoires de guerre : « Les régimes, nous savons ce que c’est, sont des choses qui passent. Mais les peuples ne passent pas ». J’ajouterai qu’il en est de même de leurs valeurs éternelles car elles sont inscrites dans la nature humaine et dans la transcendance ».
Yvan Blot (Institut de la démocratie et de la coopération, 10 juin 2013)
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lundi, 07 octobre 2013
Julius Evola y Hakim Bey
por Juan Manuel Garayalde – Bajo los Hielos –
Ex: http://paginatransversal.wordpress.com
Charla dictada el día 16 de Diciembre de 2004 en el Centro de Estudios Evolianos, Buenos Aires, Argentina.
I – Anarquismo Mítico y Filosófico
Como todo pensamiento político, el anarquismo ha tenido diferentes puntos de vista. Una importante cantidad de intelectuales sitúan al nacimiento del anarquismo en el siglo XIX, cuando podemos hallar en la Metamorfosis de Ovidio, una mención a un sistema político de similares características que se lo hallaría en el inicio de una Edad de Oro, donde no habría leyes, jueces ni nada que se le parezca para sancionar a los ciudadanos, puesto que entre ellos existía una visión del mundo similar. Asimismo, no podemos olvidar a las comunidades anarquistas como los seguidores del Patriarca Gnóstico Carpócrates de Alejandría que fundó comunidades cristianas en el norte de Africa y en España en el siglo II. Diferente al anarquismo filosófico del siglo XIX, que sitúa al anarquismo al final de la historia humana, como un proceso evolutivo, tal como fue formulado de manera similar el paraíso comunista de Karl Marx.
Dentro de esta corriente del siglo XIX, se destacaron autores como William Godwin, Proudhon, Max Stirner, Bakunin, etc.. Stirner, el más importante exponente del individualismo anarquista, fue en contra no sólo del Estado, sino en contra de la Sociedad; fue mas lejos que cualquier pensador anarquista convirtiendo al hombre en el Absoluto, la nada creadora, en ser belicoso por naturaleza que lucha por la propiedad de si mismo, la “propiedad del único”, rechazando al Estado, la burguesía, las instituciones sociales y educativas, la familia, las leyes. Destruir las ilusiones para descubrirse a sí mismo y ser dueño de sí mismo.
Su principal obra, “El único y su propiedad”, fue recibida con hostilidad por Karl Marx, quien lo ve como una amenaza a todo su materialismo dialéctico, a lo que se dedicará con esmero a refutar sus ideas. Así, el anarquismo filosófico comienza a verse como amenaza al marxismo.
Posteriormente, será Bakunin el que desafiará el crecimiento del comunismo. Este pensador anarquista, marcará la diferencia con los otros, puesto que si dicho movimiento logró cierta presencia en la lucha social, será gracias a él. Es impensable el sindicalismo anarquista sin Bakunin (recordemos a FORJA en la historia Argentina, y la famosa “Semana Trágica” de 1919). Europa quizás nunca habría presenciado un movimiento político anarquista organizado, sino hubiese sido por la labor activa de Bakunin.
II – Anarquismo, Liberalismo y Socialismo
El surgimiento del anarquismo filosófico, está enlazado a la crisis social post-medieval. La burguesía comienza a establecer relaciones con las viejas aristocracias, en tanto se demolían los gremios y asociaciones que protegían a los pequeños productores. Ante el crecimiento del comercio y las manufacturas, los viejos gremios medievales eran una traba a ese nuevo desarrollo. Los pequeños artesanos y productores agrícolas, comenzaban a quedar desamparados ante el crecimiento de la competencia, en tanto crecían los derechos monopolistas en manos de grandes compañías industriales, agrícolas y comerciales.
Surgieron en esa época de transición dos corrientes de protesta: el Liberalismo Radical, que pretendía reformas parlamentarias para frenar el poder del Estado, y el Anarquismo. Los liberales (Locke) consideraban a la propiedad como un derecho natural, y le legaban la responsabilidad al Estado para que protegiera la misma de ataques internos y externos, permitiendo así el libre intercambio de mercaderías. Los anarquistas en cambio, decían que el Estado protege la propiedad de los ricos, y que las leyes favorecen la concentración de la propiedad. Para los anarquistas, se debía crear una sociedad igualitaria de productores pequeños y económicamente autónomos, libres de privilegios o distinciones clasistas, donde el Estado sería innecesario.
Se considera al Anarquismo una ampliación radical del Liberalismo. Esto significa, que tiene mas similitudes con el Liberalismo que con el Socialismo. Sin embargo, con este último hubo alianzas, siendo que lo único en que coincidían era en la estrategia revolucionaria contra el poder burgués. Durante el siglo XX, el anarquismo participó en dos importante acontecimientos: la Revolución Rusa de 1917 y la Guerra Civil Española de 1936. En ambas, el enemigo principal que se les manifestó, fueron los comunistas, los que llegaron a hacer ejecuciones en masa de militantes anarquistas.
El anarquismo tuvo su primera gran derrota cuando Marx se adueña de la Primera Internacional, luego de acalorados debates con Bakunin. Dicha hegemonía se mantuvo hasta 1991, con la desintegración de la URSS. Desde entonces, surgirán nuevas corriente del pensamiento anarquista, pero de todas ellas, la que aquí queremos rescatar por su nueva orientación, es el anarquismo ontológico, que tiene al británico Peter Lamborn Wilson, mas conocido como Hakim Bey como su principal exponente.
III – El Anarquismo Ontológico de Hakim Bey
Se torna dificultoso poder definir el concepto del anarquismo ontológico, puesto que es una forma de encarar la realidad, donde no se necesitan teorías que cierren en si mismas, sino acciones que tienden a despojar al hombre de preconceptos modernos. El anarquismo ontológico es un desafío abierto a la sociedad actual, donde el Yo es puesto a prueba, para ver si es capaz de cuestionarse ciertos comportamientos y pensamientos que se manifiestan mecánicamente. Su lenguaje principal, es lo que Hakim Bey denomina el “terrorismo poético”, una forma brusca pero profunda de rechazar las convenciones de toda sociedad organizada en torno a ilusiones.
Ante la crisis espiritual que afecta principalmente a Occidente, propone Hakim Bey un nomadismo psíquico, un retorno al paleolítico, siendo mas realista que simbólico este último concepto. Como él dice, “se busca la transmutación de la cultura basura en oro contestatario”. Su frase principal es “El Caos nunca murió”, donde para él, seria el espacio donde la libertad se vive a pleno, en tanto que ve al Orden como la presentación de una serie de estructuras políticas, sociales, culturales, educativas, policiales; en sí, límites impuestos a la mente que debe poseer una naturaleza de libertad plena. Ese Orden actual, no hace más que aprisionar al hombre poniéndole por encima, leyes de una civilización que se detiene en el tiempo, para congelar y matar el Espíritu.
Bey nos dice que el Caos es derrotado por dioses jóvenes, moralistas, por sacerdotes y banqueros, señores que quieren siervos y no hombres libres. Seguidor de grupos sufíes no muy ortodoxos, plantea la jihad espiritual, la rebelión contra la civilización moderna.
El modelo social de lucha que plantea Hakim Bey, es la de la pandilla, del grupo de salteadores que tiene su propia ley. Ese es el sentido del paleolítico, la banda de cazadores y recolectores que erraban por los bosques y desiertos de una tierra antigua sin dioses tiranos.
Hace pocos años, se estrenó una película, en la cual, uno de sus realizadores, estuvo influido por los escritos de este autor. La película se llamaba “El Club de la Pelea” donde se describe un hombre sumiso al sistema económico y moral, que se le plantea una ruptura mental que lo lleva a crear un mundo real donde podía estar fuera del sistema atacándolo, burlándose del mismo continuamente.
Esto nos lleva a estudiar el aporte que consideramos el mas interesante de la obra de Hakim Bey: el concepto de TAZ, es decir, la Zona Temporalmente Autónoma.
IV – Zona Temporalmente Autónoma (TAZ)
Existe una coincidencia semántica con el pensador tradicionalista italiano, Julius Evola: Ambos autores utilizan el término “rebelión” como forma de reacción ante los síntomas de la decadencia espiritual y material del Hombre.
Para Hakim Bey, el planteo de una Revolución, implica un proceso de transformaciones donde se va de una situación caótica a un nuevo Orden, pero, un Orden al fin. El escritor nos dice: “¿Cómo es que todo mundo puesto patas arriba siempre termina por enderezarse? ¿Por qué siempre a toda revolución sigue una reacción, como una temporada en el infierno?” (1). De esta manera, un Orden dentro del Kali Yuga, implicaría retornar a una forma de conservadurismo decadente. Implica la frustración de ideales revolucionarios iniciales, ante las reacciones naturales de los que quieren volver las cosas a su cause normal, saliendo del CAOS.
H.B. utiliza los términos de “rebelión”, “revuelta” e “insurrección”, que implicaría “un momento que salta por encima del tiempo, que viola la “ley” de la historia”. En este caso, estamos muy cercanos al concepto evoliano del “idealismo mágico”.
Redondeando estas ideas: en tanto la Revolución es un proceso que va del CAOS a un Orden determinado, la rebelión que plantea H.B. es temporal: es un acto extra-ordinario, que busca cambiar el mundo y no adaptarse a él, que busca vivir la utopía y no conformarse con un Orden a medias.
Pero, si no hay un Orden determinado a crearse por parte de los anarquistas ontológicos, ¿de dónde parte la rebelión y a dónde retorna la misma una vez desatada? Allí H.B. nos habla de la TAZ, las Zonas Temporalmente Autónomas, que es un lugar físico que permite justamente un desarrollo de la libertad interior. Hay que aclarar, que la TAZ no es un concepto abstracto, sino real e histórico .. aunque esta siempre quiso manifestarse por fuera de la Historia.
Uno de los ejemplos que trata H.B., es la utopía pirata. Menciona fundamentalmente el período comprendido entre el siglo XVI y XVII. En América, la zona del Caribe es muy conocida por su historia de piratas, y el autor nos habla de la famosa Isla de la Tortuga que fue el refugio de los barcos piratas y de todo delincuente que transitó esos rumbos alejados de la civilización. Era una isla al norte de Haití, de 180 km. Cuadrados, con un mar rodeado de tiburones. En dicha isla, no existía ninguna autoridad, leyes, códigos de comercio, impuestos, y todo aquello a lo que hoy estamos sometidos para poder pertenecer a un determinado sistema social. Ellos supieron crear un sistema por fuera del Sistema, o sea, un anti-sistema, el CAOS, el lugar donde un anarquismo ontológico podía encontrar cause para su desarrollo. Si hablamos de la gente que componía los barcos piratas, hallaremos que eran de distintas razas: negros, blancos, asiáticos; distintas religiones, diferente educación y clase social de la cual quedaron desheredados: todos estaban en pie de igualdad, pero no una igualdad colectivista, sino guerrera.
Esta TAZ, esa Zona Temporalmente Autónoma que fue la Isla de la Tortuga, no duro muchos años; y esa es justamente la característica de la TAZ, su limitación en el tiempo, que según H.B. como mucho, puede durar la vida de una persona, no mas de eso, puesto que el Sistema ira en su búsqueda para destruirla. Veamos como el autor define la TAZ:
“El TAZ es como una revuelta que no se engancha con el Estado, una operación guerrillera que libera un área – de tierra, de tiempo, de imaginación- y entonces se autodisuelve para reconstruirse en cualquier otro lugar o tiempo, antes de que el Estado pueda aplastarla”. (2)
Es la estrategia de la barricada, que cuando esta viene a ser destruida, es abandonada, y levantada en otro lugar. Es el ámbito de la Internet, donde uno ingresa para criticar el sistema a través de una página web, y cuando esta cae, vuelve a aparecer en otro lugar.
Pero, sigamos con los ejemplos históricos que H.B. utiliza para describir su concepto de TAZ. En este caso, citamos un párrafo completo, con el objetivo de que puedan apreciar todos los elementos vulgares, artísticos, esotéricos, poéticos del pensador, que parece mezclar la realidad con la fantasía, con la utopía y con lo oculto. Esta forma de escribir, que como hemos dicho anteriormente, él ha definido como “terrorismo poético”:
“Por tanto, de entre los experimentos del periodo de Entreguerras me concentraré si no en la alocada república de Fiume, que es mucho menos conocida, y no se organizó para perdurar.”
“Gabriele D’Annunzio, poeta decadente, artista, músico, esteta, mujeriego, atrevido pionero aeronáutico, mago negro, genio y canalla, emergió de la I Guerra Mundial como un héroe con un pequeño ejército a sus órdenes: los “Arditi”. A falta de aventuras, decidió capturar la ciudad de Fiume en Yugoslavia y entregársela a Italia. Después de una ceremonia necromántica junto a su querida en un cementerio de Venecia partió a la conquista de Fiume, y triunfó sin mayores problemas. Sin embargo Italia rechazó su generosa oferta; el primer ministro lo tachó de loco.”
“En un arrebato, D’Annunzio decidió declarar la independencia y comprobar por cuanto tiempo podría salirse con la suya. Junto a uno de sus amigos anarquistas escribió la Constitución, que declaraba la música como el fundamento central del Estado. Los miembros de la marina (desertores y anarcosindicalistas marítimos de Milán) se autodenominaron los Uscochi, en honor de los desaparecidos piratas que una vez vivieron en islas cercanas a la costa saqueando barcos venecianos y otomanos. Los mudemos Uscochi triunfaron en algunos golpes salvajes: las ricas naves italianas dieron de pronto un futuro a la república: dinero en las arcas! Artistas, bohemios, aventureros, anarquistas (D’Annunzio mantenía correspondencia con Malatesta) fugitivos y expatriados, homosexuales, dandis militares (el uniforme era negro con la calavera y los huesos pirata; robada más tarde por las SS) y reformistas chalados de toda índole (incluyendo a budistas, teósofos y vedantistas) empezaron a presentarse en Fiume en manadas. La fiesta nunca acababa. Cada mañana D’Annunzio leía poesía y manifiestos desde el balcón; cada noche un concierto, después fuegos artificiales. Esto constituía toda la actividad del gobierno. Dieciocho meses más tarde, cuando se acabaron el vino y el dinero y la flota italiana se presentó, porfió y voleó unos cuantos proyectiles al palacio municipal, nadie tenia ya fuerzas para resistir.”
(…). En algunos aspectos fue la última de las utopías piratas (o el único ejemplo moderno); en otros aspectos quizás, fue muy posiblemente la primera TAZ moderna.” (3)
V – La TAZ en la Historia Argentina
Llegados a este punto, nos preguntamos: ¿puede hallarse un ejemplo de la TAZ en nuestra historia argentina? ¿Pudo haber hallado H.B. un ejemplo para aportar a su trabajo?. La respuesta es afirmativa, y ello lo encontramos nada mas y nada menos, que en nuestra obra cumbre de la literatura argentina: El Martín Fierro.
Esta obra, cuyo protagonista es una creación del autor, representa la confrontación entre la “Civilización” y la “Barbarie”, y forzando un poco los términos, entre la Modernidad y la Tradición. El tiempo en que se desarrolla este poema guachesco es durante el período de la organización nacional, entendido este como la adaptación de un país de carácter católico, libre y guerrero, al sistema constitucional liberal, laico, de desacralización del poder político en post de las ideologías que apuntalaron, reforzaron a la Modernidad.
Martín Fierro es el arquetipo de la “Barbarie”; el Hombre que no acepta una “Civilización” ajena a su cultura, que quiere obligarle a adoptar una nueva forma de vida, a riesgo de perderla si no obedece. Por tal motivo, Martín Fierro huye más allá de la frontera sur, a vivir con los indios. Leemos en esta obra:
“Yo sé que los caciques
amparan a los cristianos,
y que los tratan de “hermanos”
Cuando se van por su gusto
A que andar pasando sustos …
Alcemos el poncho y vamos”.
La Frontera, las tolderías, son la TAZ que supo existir en la Argentina. Allí, los hombres que estaban fuera de la ley, encontraron la libertad: fueron quienes desertaban del nuevo ejército constitucional, ladrones de ganado, asesinos, esclavos, muchachos jóvenes que huían de sus casas optando por la libertad que se vivía mas allá de la frontera. También existieron ejemplos de mujeres que cautivas de los indios, tuvieron familia, y que al regresar a la civilización, no pudieron acostumbrarse y regresaron con los indios. Martín Fierro nos describe la vida libre, hasta holgazana de vivir con los indios:
“Allá no hay que trabajar
Vive uno como un señor
De cuando en cuando un malón
Y si de él sale con vida
Lo pasa echado panza arriba
Mirando dar güelta el sol.”
Lo cierto es, que no existía mucha diferencia entre la toldería y el medio rural. La diferencia comenzó a ampliarse a medida que crecían las leyes y la coerción y se perdía la libertad que el gaucho conocía. La frontera pasa a convertirse no solo en una válvula de escape para las tensiones sociales, sino también, para las existenciales.
Pero del arquetipo, pasemos también a un ejemplo concreto, a un hombre que la literatura retrató varias veces en novelas, cuentos y obras de teatro, a lo que se le sumará muchos relatos acerca del lugar que utilizó para escapar de la “civilización”. Este hombre que hemos elegido al azar, se llamó Cervando Cardozo, conocido como Calandria por su hermosa voz para el canto. Fue un gaucho que nació en 1839 y fallece -muerto por la policía- en 1879. Tuvo una vida como cualquiera de su tiempo, pero a diferencia que decidió luchar cuando la institucionalización política del país comenzó a querer robarle su libertad. Él se incorpora a la última montonera de la historia nacional, la comandada por el caudillo entrerriano Ricardo López Jordán, al que la historia oficial, lo acusa de haber participado en asesinar al caudillo Justo J. de Urquiza, quién para entonces, era el principal responsable de las transformaciones políticas del país. Calandria peleará junto a López Jordán, y al ser derrotado su levantamiento, es obligado a incorporarse a un ejército de frontera. Calandria no acepta, y deserta. Nace así su vida de matrero, que la vivirá dentro de la provincia de Entre Ríos en la denominada Selva de Montiel, donde las fuerzas policiales jamás podrían capturarlo.
Aquí nos adentramos a una nueva TAZ: el monte. En muchas tradiciones, los bosques representan lugares prohibidos, donde abundan espíritus, criaturas fantásticas, y en donde se corría peligro de hallar una muerte horrenda. Uno de los ejemplos mas conocidos por todos, son los bosques de Sherwood donde encontraron refugio varios “fuera de la ley” que luego seguirían al famoso Roobin Hood.
En nuestra tierra, los montes representaban el lugar donde los gauchos matreros se escondían, donde hechiceros, curanderos, brujas, opas y deformes tenían su guarida. Es también el sitio donde los aquelarres se realizaban, que bien expresados están en nuestras canciones populares; por ejemplo en La Salamanca de Arturo Dávalos, dice su estribillo: “Y en las noches de luna se puede sentir, / a Mandinga y los diablos cantar”, o Bailarín de los Montes de Peteco Carabajal, en su estribillo también dice: “Soy bailarín de los montes / nacido en la Salamanca”.
Aquí haremos una breve profundización de este tema de La Salamanca: originalmente, la leyenda parte de España, de la región de Salamanca. Allí, se encontraban las famosas cuevas donde alquimistas, magos, kabbalistas, gnósticos, y otros, se reunían en secreto para eludir las persecuciones de la Inquisición. Como allí se efectuaban todo tipo de enseñanzas de carácter iniciático, quedo una leyenda negativa impulsada desde el clero católico de la época, donde allí se invocaba al demonio; y es por eso, que todo el proceso del que ingresa a la Salamanca hasta llegar frente al Diablo, es de carácter iniciático .. pero, hacia lo inferior. Es por eso, que se dice, que en la actualidad, hay dos entradas a la Salamanca con resultados diferentes, uno de ascenso y otro de descenso. La Salamanca, es para la TAZ argentina, el modelo de iniciación, en tanto se logre hallar “la otra puerta”.
Retomando, la Selva de Montiel (llamada así, por lo impenetrable de la misma) fue el refugio de muchos, como Calandria, que se resistieron al cambio, a perder su libertad y apego a la tradición a causa – como dice un motivo popular entrerriano – de la reja del arado, de la división de la tierra y del alambrado. Estos matreros conservaron en pequeña escala parte de la figura que representaron en otro momento los Caudillos, puesto que tenían un respeto y comprensión hacia los pobladores, y estos terminaban siendo cómplices silenciosos de las aventuras de estos outsiders.
Cito aquí, un párrafo de la obra de teatro “Calandria” de Martiniano Leguizamón, estrenada en 1896. En este fragmento que leeré, habla el gaucho matrero frente a la tumba de su Madre:
“¡Triste destino el mío! …. ¡Sin un rancho, sin familia, sin un día de reposo! … ¡Tendré al fin que entregarme vensido a mis perseguidores! … Y ¿pa qué? ¿Por salvar el número uno? … ¿Por el placer de vivir? … ¡No, si la libertad que me ofrecen no had ser más que una carnada! No; no agarro. ¡Qué me van a perdonar las mil diabluras que le he jugao a la polesía! ¡Me he reído tanto de ella y la he burlao tan fiero! … (Riendo) ¡La verdá que esto es como dice el refrán: andar el mundo al revés, el sorro corriendo al perro y el ladrón detrás del jues! … ¡Bah … si el que no nació pa el cielo al ñudo mira pa arriba!” (4)
Calandria no fue el único de estos gauchos matreros. Nuestro Atahualpa Yupanqui fue un gaucho matrero en los años ´30. Luego de una fallida revolución radical en la que participó, huyo a Entre Ríos y se ocultó en la Selva de Montiel. Fue en esa época que compuso la canción “Sin caballo y en Montiel”.
Pero avancemos más en esta construcción de la TAZ en nuestra tierra. Si el gaucho matrero es una representación, en pequeña escala, del Caudillo, ¿dónde podemos hallar una figura de tal magnitud que cuadre con el modelo del anarquismo ontológico?. Podremos hallar verdaderas sorpresas en nuestra historia nacional. Una de ellas, es la del joven Juan Facundo Quiroga, el “Tigre de los Llanos”, que por las descripciones que se hicieron sobre su persona, nos atrevemos a decir que fue uno de los primeros líderes anarcas que hubo en nuestra historia nacional.
Sarmiento, que conoció a Quiroga en su etapa juvenil -no ya la adulta donde se comenzaría a preocuparse por la forma organizativa que debía lograrse con la Confederación Argentina-, en su “Facundo”, entre el odio y la admiración escribe estas palabras sobre Quiroga:
“Toda la vida publica de Quiroga me parece resumida en estos datos. Veo en ellos el hombre grande, el hombre genio a su pesar, sin saberlo él, el César, el Tamerlán, el Mahoma. Ha nacido así, y no es culpa suya; se abajará en las escalas sociales para mandar, para dominar, para combatir el poder de la ciudad, la partida de la policía. Si le ofrecen una plaza en los ejércitos la desdeñará, porque no tiene paciencia para aguardar los ascensos, porque hay mucha sujeción, muchas trabas puestas a la independencia individual, hay generales que pesan sobre él, hay una casaca que oprime el cuerpo y una táctica que regla los pasos ¡todo es insufrible!. La vida de a caballo, la vida de peligros y emociones fuertes han acerado su espíritu y endurecido su corazón; tiene odio invencible, instintivo, contra las leyes que lo han perseguido, contra los jueces que lo han condenado, contra toda esa sociedad y esa organización de que se ha sustraído desde la infancia y que lo mira con prevención y menosprecio. (…) Facundo es un tipo de barbarie primitiva; no conoció sujeción de ningún género; su cólera era la de las fieras …” (5)
Y como todo anarca, Quiroga no era de los hombres que querían sentarse en un escritorio a gobernar lo que mucho le había costado conseguir. Sus batallas nunca finalizaron. Citamos nuevamente a Sarmiento:
“Quiroga, en su larga carrera, jamás se ha encargado del gobierno organizado, que abandonaba siempre a otros. Momento grande y espectable para los pueblos es siempre aquel en que una mano vigorosa se apodera de sus destinos. Las instituciones se afirman o ceden su lugar a otras nuevas más fecundas en resultados, o más confortables con las ideas que predominan. (…)
“No así cuando predomina una fuerza extraña a la civilización, cuando Atila se apodera de Roma, o Tamerlán recorre las llanuras asiáticas; los escombros quedan, pero en vano iría después a removerlos la mano de la filosofía para buscar debajo de ellos las plantas vigorosas que nacieran con el abono nutritivo de la sangre humana. Facundo, genio bárbaro, se apodera de su país; las tradiciones de gobierno desaparecen, las formas se degradan, las leyes son un juguete en manos torpes; y en medio de esta destrucción efectuada por las pisadas de los caballos, nada se sustituye, nada se establece”. (6)
Aquí se ven con claridad los conceptos de H.B. de psiquismo nómade y de un retorno al paleolítico.
VI – Anarquismo Ontológico y Tradición
Hasta aquí, hemos trazado un paralelismo entre el concepto de la TAZ de H.B. y nuestra historia nacional. Nuestra tarea a continuación es ver a donde nos puede llevar el anarquismo ontológico.
Esta postura, la creemos positiva para el impulso de un Nihilismo Activo, que consistirá en construir bases de acción que son la TAZ: su acción es decontructora, de rechazo a los valores y estructuras de pensamiento de la Modernidad. El anarquismo ontológico ha sabido descubrir en la historia a los outsiders del sistema, y este tema, es una eterna preocupación de la filosofía política contemporánea. Por ejemplo, uno de los pensadores mas importantes del neoliberalismo, Robert Nozick, (7) recientemente fallecido, nos habla de un estado de naturaleza donde paso a paso se va construyendo el Estado Liberal ideal para la sociedad actual. Nos habla de una Asociación de Protección Dominante, donde unos trabajan y otros toman el papel de defender a la comunidad de los agresores externos. De allí, se pasa al Estado Ultramínimo, que tiene como objetivo, justamente, incorporar a los outsiders .. a los fuera de la ley. Supuestamente, para Nozick, los outsiders se integrarían a la sociedad al ofrecerles protección gratuita para que puedan vivir en paz, lo que denominó principio de compensación. Dicho intento teórico fracaso, sobrándonos ejemplos reales para comprobarlo históricamente. El anarca no necesita que nadie lo proteja. El es libre de vivir y morir en su propia Ley. (8)
El Anarquismo Ontológico ha tenido una importante repercusión en los jóvenes, y esta idea de la TAZ hasta fue llevada al cine. La película “El Club de la Pelea” con Eduard Norton y Brad Pitt como actores principales, nos presenta la atmósfera de una generación de jóvenes sin ideales, con futuro incierto y, sobre todo, la revelación absoluta de su propia soledad en el mundo. Allí, como en Doctor Jekill y Mister Hyde, hay un hombre que no se atreve a liberarse de sus propias cadenas, a vivir el mundo sin tratar de controlarlo.
Una película como el Club de la Pelea nos muestra que estamos solos, que no hay nadie allá afuera con los brazos abiertos esperándonos. Uno de los personajes de esta película, Tyler Durden, en su discurso donde inaugura su TAZ, el Club de la Pelea, viviendo en un edificio abandonado en ruinas y rodeado de jóvenes rebeldes, dice: Veo en el Club a los hombres más listos y fuertes, veo tanto potencial y veo que se desperdicia. Dios mío, una generación vendiendo gasolina, sirviendo mesas, esclavos de cuello blanco y todos esos anuncios que promueven el desear autos y ropas con marcas de un tipo que nos dicta cómo debemos vernos. Hacemos trabajos odiosos para comprar lo innecesario, hijos en medio de la Historia sin propósito ni lugar…
Como nos dice con certeza H.B.: “El capitalismo, que afirma producir el Orden mediante la reproducción del deseo, de hecho se origina en la producción de la escasez, y sólo puede reproducirse en la insatisfacción, la negación y la alienación.” (9)
Y, en ese Club de la Pelea, los que lo integran, justamente, aprenden a pelear y no a huir … aprenden a reconciliarse con su propio pasado, a vencer el miedo y la angustiosa realidad materialista; y en el fondo, siempre manifestándose una lucha existencial.
Julius Evola, en su obra “El Arco y la Clava”, en oposición a ciertos movimientos juveniles modernos, describe una nueva orientación denominada anarquismo de derecha: aquí, nos habla de muchachos que no pierden su idealismo luego de pasar los 30 años. Jóvenes con un entusiasmo e impulso desmesurados, “con una entrega incondicionada, de un desapego respecto de la existencia burguesa y de los intereses puramente materiales y egoístas” (10). Una generación que puede hallarse en el presente, que asuman valores como el coraje, la lealtad, el desprecio a la mentira, “la incapacidad de traicionar, la superioridad ante cualquier mezquino egoísmo y ante cualquier bajo interés” (11); todos valores que están por encima del “bien” y del “mal”, que no caen en un plano moral, sino ontológico. Es mantenerse de pie con principios inmerso en un clima social desfavorable, agresivo; capaz de luchar por una causa perdida con una fuerza y energía sobrenatural, que termina inspirando el terror en sus rivales, y entre estos quizás, uno que logre despertar ante lo que creyó como una amenaza. Pocos hombres como estos, serían capaces de detener ejércitos en algún acantilado de la antigua Grecia, o, en los tiempos que hoy vivimos, tomar una Isla del Atlántico Sur sin matar ningún civil o soldado enemigo.
Pero, a diferencia de H.B., la TAZ, el anarquismo ontológico sólo puede ser considerado como una estrategia para la aceleración de los tiempos; pero, dentro de esa TAZ, deberán recrearse los principios de una Orden, que deberá reconstruir el mundo arrasado basándose en los principios de la Tradición Primordial.
Lo que nos separará siempre de la postura anarquista frente a la tradicional, es la aspiración de edificar un Estado Orgánico, Tradicional, y a confrontar un igualitarismo de proclama con las Jerarquías Espirituales. Como en un tiempo estuvieron unidos el Socialismo y el Anarquismo en la estrategia revolucionaria, en el presente, el Anarquismo Ontológico sigue el mismo camino postulado por el pensador italiano Julius Evola, de cabalgar el tigre, de controlar el proceso de decadencia para estar presentes el día en que el Tiempo se detenga. Quizás, cuando llegue ese día, ambas posturas estén unidas en la tarea de construir una nueva Civilización que sea inicio de una nueva Era.
En similitud el caso argentino, sin un Juan Facundo Quiroga que comenzó a desafiar la autoridad iluminista del Partido Unitario, en los años ´20 del siglo XIX, sumergiendo al país en la anarquía junto con otros Caudillos, no hubiese llegado una década mas tarde, un Juan Manuel de Rosas a comenzar a edificar la Santa Confederación Argentina: ambos son parte del Ser y del Devenir; ambos parte de la “Barbarie” en oposición al anti – espíritu alienante de la “Civilización”. El anarca y el Soberano Gibelino terminan juntos trayendo el alma del Desierto a las ciudades sin Luz interior.
No queremos concluir esta exposición sin volver a retrotraernos a nuestra tradición folclórica, a la TAZ que intentó resistir el avance de la Modernidad. Hoy, aquí reunidos, hemos conformado una TAZ. Y cuando cada uno de nosotros se haya marchado y las luces de este lugar se apaguen, la TAZ se disolverá para luego crearse en otros lugares. El espíritu rebelde del Martín Fierro, está en nosotros viviendo a través de todos estos años.
Concluimos con un fragmento de un poema con el cual nos identificamos, dedicado al gaucho Calandria, que murió peleando en su propia ley y soñando permanecer por siempre libre en su Selva de Montiel:
“En mí se ha reencarnado el alma de un matrero,
como la de Calandria, el errabundo aquél,
que amaba la espesura, igual que el puma fiero,
y que amplió las leyendas del bravío Montiel”
* * *
Notas:
(1) Hakim Bey. TAZ. Zona Temporalmente Autónoma. http://www.merzmail.net/zona.htm
(2) Hakim Bey. Ob. Cit.
(3) Idem.
(4) Leguizamón, Martiniano. Calandria. Del Viejo Tiempo. Edit. Solar/Hachette – Buenos Aires 1961. P..47.
(5) Sarmiento, Domingo F. Facundo. Civilización y Barbarie. Ed. Calpe – Madrid, 1924. p.106-107.
(6) Sarmiento, Domingo F. Ob. Cit. p. 123.
(7) Nozick, Robert. Anarquia, Estado y Utopía. FCE – Buenos Aires, 1991.
(8) Existe una diferencia entre el anarquismo (los “ismos”) y el anarca, concepción que esta mas cercana a la filosofía de Max Stirner. El escritor mexicano José Luis Ontiveros, nos da una explicación del mismo: “El anarca es un autoexiliado de la sociedad. El anarca es, también, un solitario, que cree en el valor incondicional y absoluto de los actos. A diferencia del anarquista, el anarca ha dejado de confiar en la bondad natural del ser humano, y en utopías y fórmulas filantrópicas que salven o rediman a la humanidad. Su ser se funda, en el sentido original de la voz griega anarchos “sin mando”, pero su autoridad individualista reconoce principios como la disciplina y la moral de la guerra, su combate se libra contra cuando menos dos o tres enemigos, su ámbito es el bosque, el fuego, la montaña en donde el hombre debe abandonar la máscara de la sociabilidad, para retornar a la experiencia primigenia, al ser que se otorga a sí mismo la voluntad”. Ontiveros, José Luis. Apología a la Barbarie. Ediciones Barbarroja – España 1992. p. 38.
(9) Hakim Bey. Ob. Cit.
(10) Evola, Julius. El Arco y la Clava. Editorial Heracles – Buenos Aires 1999. p. 244.
(11) Evola, Julius. Ob. Cit. p. 245.
Fuente: Bajo los Hielos
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samedi, 05 octobre 2013
Qual è il vero significato delle «Favola delle api» di Bernard Mandeville?
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Il successo, la ricchezza, la potenza degli individui e delle nazioni, si possono ottenere con la pratica intransigente della virtù; oppure l’egoismo, l’inganno e la violenza sono gli ingredienti necessari per raggiungerle e conservarle?
Bella domanda; domanda impertinente. E impertinente, infatti - anzi, sommamente impertinente, per non dire irritante - è «La favola delle api» di Bernard Mandeville (1670-1733), un medico di origine olandese trasferitosi in Inghilterra, che trasse la sua opera filosofica più famosa da quella che era, in origine, una poesia: «The Grumbling Hive: or, Knaves Turn’d Honest», che, dopo un processo di gestazione e rielaborazione durato quasi cinque lustri, vide infine la luce a Londra, nel 1729, con il titolo definitivo di «The Fable of the Bees: or, Private Vices, Public Benefits».
Per farsi un’idea della spregiudicatezza del tono adottato dall’Autore, basterà riportare qui la conclusione (da: B. Mandeville, «La favola delle api», traduzione dall’inglese di Maria Goretti, Firenze, Casa Editrice Felice Le Monnier, 1969, XXXI, vv. 409-433, pp. 54-55):
«Lasciate, quindi, le lamentele! Soltanto gli sciocchi si sforzano di fare del grande alveare del mondo un alveare onesto. Godere delle gioie della terra, essere rinomati nella guerra, e ancora vivere in pace, sena grandi vizi è soltanto utopia vana, esistente solo nell’immaginazione. È necessario che la frode, il lusso e la vanità sussistano, se noi vogliamo averne in benefici: allo stesso modo la fame è certo un terribile tormento, ma come digerire e prosperare senza di essa? Non dobbiamo il vino alla vigna, magra, brutta, contorta? La stessa, se i polloni sono lasciati stare, soffoca altre piante e diviene solo legna da bruciare; ma se i rami sono pareggiati e tagliati, subito diviene fecondo e ci dà la benedizione del suo nobile frutto: allo stesso modo il vizio risulta beneficio, purché sia rattenuto e nettato del superfluo dalla Giustizia; anzi, qualora un popolo voglia essere grande, il vizio è necessario in uno Stato come la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. La sua pura virtù non può rendere mai una nazione celebre e gloriosa; coloro che vorrebbero far rivivere l’età dell’oro debbono accettare con la virtù il cibo dei porci.»
Ce n’è abbastanza per mettere tremendamente a disagio il lettore, tanto più se questi appartiene alla specie degli ipocriti, abituati a predicare bene e razzolare male, ma niente affatto disposti a vedersi smascherati così brutalmente dal primo venuto; e Dio sa se, nella Londra e nell’Inghilterra dei primi decenni del Settecento, in piena espansione commerciale e finanziaria, e già in procinto di varare, con mezzo secolo di anticipo sul resto del continente, la propria rivoluzione industriale, una tale specie umana non era ampiamente diffusa e generosamente rappresentata sia nella società civile, che nelle istituzioni e nel Parlamento.
Mai come in questo caso, infatti, per comprendere il senso di uno scritto filosofico – che pure ci sottopone una questione di portata universale – è necessario contestualizzarlo: perché si rischierebbe di non comprendere i veri termini della questione, o, peggio, di fraintenderli completamente, se non si tenesse presente a quale genere di pubblico aveva l’ardire di rivolgersi il suo autore; vale a dire, quale razza di farisei ipocriti aveva deciso di prendere di mira e di sferzare senza troppi complimenti.
Un Paese in piena espansione, dunque; un Paese che si stava giocando, e che stava vincendo, niente meno che la grande partita per il controllo dei traffici internazionali, forte della marina più agguerrita e numerosa del mondo; un Paese governato con un singolare miscuglio d’intraprendenza, audacia, fortuna e assoluta mancanza di scrupoli, unite a una buona dose d’improntitudine; le cui banche stavano allungando i loro tentacoli sul mondo, le cui navi stavano saccheggiando le materie prime dei cinque continenti, le cui merci ad alto costo stavano invadendo i mercati del globo terracqueo, e le cui dottrine politiche liberali e costituzionali si stavano diffondendo con pari successo, magari al rombo dei cannoni, e preparavano il terreno per potersi poi imporre, con la calma, ma con piglio sicuro, uno dopo l’altro in tutti i Paesi del mondo, presentando sé stesso come modello inarrivabile di benessere, di progresso, di civiltà.
Ma ci piace dare la parola al filosofo Emanuele Riverso, abbastanza recentemente scomparso, per la chiarezza e la lucidità del quadro che sa tratteggiare sia della società inglese, sia del modo in cui fu accolto il capolavoro di Mandeville (da: E. Riverso, «Forme culturali e paradigmi umani. Le tappe del pensiero filosofico e pedagogico nella cultura occidentale», Roma, Edizioni Borla, 1988, vol. 2, pp. 304-305):
«L’opera suscitò un putiferio, perché fu accusata di essere una esaltazione o descrizione cinica del vizio. In realtà essa lacerava quel velo di autocompiacimento»e di auto-approvazione morale che gli scrittori dotti, i pubblicisti politici e gli autori di orientamento religioso distendevano sulla società del tempo, creando la buona coscienza in quanti spregiudicatamente si dedicavano alle speculazioni ed agli affari, sconvolgendo le antiche strutture rurali, urbane, produttive, commerciali e morali e creando masse di diseredati, di frustrati, di angosciati, che si addensavano intorno ai centri urbani e presso i nuovi centri minerari e industriali.
Mandeville volle soltanto spiegare che l’enorme prosperità globale dell’Inghilterra del tempo non poteva essere considerata come un premio o la conseguenza di una benedizione divina (secondo la tesi puritana e calvinista in genere che faceva della prosperità materiale un segno di benedizione e di predestinazione), ma nasceva dal cumulo e dall’interazione di attività e intenzioni individuali che, singolarmente prese, e dal punto di vista cristiano,non potevano essere considerate altro che vizi: i vizi privati (avidità, egoismo, spregiudicatezza, avarizia, lussuria) nel contesto libertario dell’Inghilterra dell’epoca, davano luogo a un dinamismo globale, che nel suo insieme produceva ricchezza e prosperità. Era una tesi realistica, l’esame realistico di una società che, al di sotto delle dichiarazioni ufficiali conformi ai valori cristiani, si andava adattando a valori nuovi di profitto, di ricchezza, di dominio e di prestigio economico. Non era meglio esaminare il fatto sociale per quello che realmente era anziché utilizzare finzioni ed ipotesi normative? Non era meglio tener conto delle reali intenzioni delle persone, quando si doveva procedere a iniziative pubbliche, e mettere da parte le ipocrisie, per ordinare in modo più efficace le azioni di governo?
Scrittori, ecclesiastici, moralisti e letterati reagirono violentemente allo scritto di Mandeville, accusandolo di essere un difensore del vizio. Uno di loro, John Dennis, disse di lui che “il vizio e la lussuria hanno trovato un campione e difensore che mai prima avevano trovato; un altro, William Law, disse che l’intento di Mandeville era quello di “liberare l’uomo dalla SAGACIA dei moralisti dal dominio della virtù e ricollocarlo nei diritti e privilegi della brutalità; di richiamarlo dalle vertiginose altezze della dignità razionale e della rassomiglianza con gli Angeli, per farlo andare nell’erba o a rotolarsi nel fango” (in “Remarks upon a Late Book, entituled, The Fable of the Bees, London 1726, p. 6).
Come si presenta oggi, l’opera di Mandeville, che è una delle più significative della storia del pensiero del settecento, comprende una prefazione, una composizione poetica in trenta strofe intitolata “L’alveare brontolone” o “Gli schiavi divenuti onesti”, in cui descrive la vita inglese del settecento con le assurdità, le angosce, gli sconvolgimenti, gli egoismi, la spietatezza tipici del tempo in cui andavano maturando le condizioni per la prima rivoluzione industriale. Segue una breve Introduzione ed una “Ricerca sulla natura della società”. La sua conclusione era che “né le qualità amichevoli e gli affetti gentili che sono naturali agli uomini, né le virtù reali che egli è capace di acquisire mediante la ragione e l’abnegazione, sono il fondamento della società; ma ciò che chiamiamo Male in questo mondo, tanto morale che naturale, è il grande principio che ci rende creature sociali, la solida base, la vita ed il sostegno di tutti i commerci e le attività senza eccezione: è lì che dobbiamo cercar la vera origine di tutte le arti e le scienze e nel momento in ci il Male cessa, la società so deve impoverite, se non dissolversi” (Mandeville, “The Fable of the Bees”, Pelican 1970, p. 370).»
Ammirevole franchezza, dunque; alla quale non ci sentiamo di aggiungere se non che il trionfo del male nelle attività economiche non è una condizione fatale e necessaria, ma il risultato di un certo modello di economia (e di politica): perché una cosa è, ad esempio, una organizzazione economica, giuridica e sociale che, come quella medievale e pre-moderna, proibisce o scoraggia l’usura e che fonda, con il Banco dei Paschi di Siena, la prima banca non speculativa del mondo; e un’altra cosa, e ben diversa, è una organizzazione economica, giuridica e sociale, come quella del nascente capitalismo inglese, che innalza la più spietata concorrenza al rango di legge ineluttabile e universale, che indica il profitto quale unico criterio di misura della bontà di una determinata iniziativa, che fonda la prima grande banca speculativa del mondo.
Insomma: non è un fatto di natura che lo sviluppo dell’economia si fondi sull’egoismo, sulla brutalità, sul cinismo: non qualunque tipo di economia porta a tali esiti, o non nella stessa misura; si tratta, invece, di una caratteristica specifica di un determinati modello di economia, quello basato sullo strapotere finanziario, sulla massimizzazione dei profitti ad ogni costo, sulla riduzione e la degradazione dell’uomo e del lavoro in una merce come qualunque altra. E non è certo un caso se, mezzo secolo dopo che era apparso lo “scandaloso” apologo di Mandeville, l’economista Adam Smith avrebbe teorizzato che dalla somma degli egoismi individuali discende, misteriosamente, anche la prosperità collettiva; e avrebbe tirato in ballo, con pochissimo rigore logico, una non meglio specificata “mano invisibile” per illustrare tale concetto. Perché nella cultura inglese, e specialmente in quella di matrice calvinista, è sempre stata vivissimo il bisogno di drappeggiare il nudo e crudo perseguimento dell’interesse individuale, squisitamente egoistico, di belle formule miranti a dimostrare che non c’è alcuna contraddizione con l’esigenza del bene comune. Non aveva John Locke posto la proprietà privata fra i diritti NATURALI dell’uomo? Ogni azione egoistica dell’individuo, purché questi sia formalmente timorato di Dio (il Dio dei puritani), trova sempre la sua giustificazione e perfino la sua glorificazione, in nome del progresso e del benessere collettivi. Così, ad esempio, gli “Highlanders” scozzesi, e con loro gli ultimi giacobiti, venivano massacrati fino all’ultimo sangue, perché anche le aree più “arretrate” delle Isole Britanniche si aprissero agli incomparabili vantaggi della modernità, del commercio e dell’industria; così i Pellerossa del Nord America venivano irretiti in trattati menzogneri, ingannati e, infine, braccati come bestie feroci, a maggior gloria dei Padri pellegrini e del manifesto destino civilizzatore dei coloni britannici.
La cultura nordamericana ha ereditato in pieno questa tendenza all’autocompiacimento ipocrita e non ha saputo nemmeno sbarazzarsi dell’ormai logoro paravento religioso: basta ascoltare il discorso di insediamento di un qualsiasi presidente degli Stati Uniti; basta udire le invocazioni a Dio affinché benedica l’America, nel momento in cui essa si appresta a perpetrare delle ingiustificabili guerre di aggressione, con la scusa di voler diffondere la democrazia e la libertà di commercio (cioè la libertà d’imporre un commercio ineguale, a tutto svantaggio degli altri), per udire la stesa nota falsa e stridente, per avvertire immediatamente la stessa sfacciata ipocrisia che si nascondeva dietro i bei discorsi di un William Pitt il Vecchio durante la guerra dei Sette Anni.
Non la sfrontatezza di Mandeville nel celebrare il vizio, dunque, ma la sua aspra sincerità nel mostrare «di lacrime grondi e di che sangue» la formula del successo economico e politico, è la cifra giusta per comprendere la «Favola delle api»; anche se permane – perché negarlo? – una vaga sensazione di ambiguità circa le sue reali intenzioni. Così come ci si è chiesti, infatti, sino a che punto George Berkeley aborrisca da quel libero pensiero che aggredisce con argomenti così pericolosamente simili a quelli dei suoi avversari, ci si può chiedere - e la domanda non è indiscreta - fino a che punto Mandeville abbia voluto davvero indossare i panni severi del moralista. Tuttavia, perché fare il processo alle intenzioni? È più importante che almeno una voce, nell’Inghilterra del XVIII secolo, abbia avuto la franchezza di scoprire gli altarini d’una classe dirigente cinica e falsa...
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
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mardi, 01 octobre 2013
L’amour du monde plutôt que l’amour de dieu
Pierre LE VIGAN
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samedi, 28 septembre 2013
Secrets à l'ère numérique
Secrets à l'ère numérique
Ex: http://www.huyghe.fr
Pas de société sans secret. Il est le contrepoint de la confiance et de l’interdépendance entre membres du groupe, comme le conflit est celui de la coopération.
Dans le domaine du sacré, il y a forcément des mystères et des initiations, des confessions et des révélations, de l'ésotérisme et du sens hermétique réservé à quelques élus.
En politique, le secret est une arme, un enjeu, une protection, un rapport de force, un pouvoir latent, parfois une obligation démocratique comme l'est, en corolaire, une certaine transparence. C’est un processus menacé et maintenu à grand effort. Un des rôles cruciaux du politique devient de contrôler les voies et moyens de le maintenir et d'y accéder. L'État alloue du secret (confidentialité de données, vie privée, secret des transactions, limites de la traçabilité et de la transparence…) et se dote de moyens de violer les secrets suspects (pour lutter contre le crime et le terrorisme, dit-il).
Nous vivons désormais bardés de codes, obsédés de confidentialité, menacés par toutes sortes de délits d’information ou d’outils de fichage. Comme citoyens nous haïssons le secret, celui de l’État, ce que nous cachent les puissants, ce que nous taisent les médias..., comme particuliers nous le réclamons : nous ne voulons plus être filmés, écoutés, décryptés... Mais, double contradiction, nous étalons notre intimité sur les réseaux sociaux et nous exhibons en ligne.
L’économie, qui est affaire de rareté, repose sur le monopole de procédés techniques ou simplement sur une meilleure connaissance que
le concurrent de données cruciales. Voire sur le paradoxal secret des "big data" : des informations individuellement très banales, traitées à l'échelle des millions de données confèrent un singulier pouvoir pour prédire des comportements de masse et profiler des individus.
Quant à notre vie intime et nos rapports avec nos proches et nos communautés, ils sont régis par le jeu de ce que nous dissimulons avouons, partageons avec les uns et non avec les autres.
Le fait que nous adhérions à une idéologie démocratique de la transparence ou que le citoyen possède bien davantage qu'hier de moyens de dénoncer ce que font les dirigeants ou les voisins, ne change rien à l’affaire. Plus la technologie progresse, plus les secrets et contre-secrets prolifèrent. Leur histoire est l’envers de celle des inventions. Leur désirabilité s’accroît tandis augmente l'enjeu de l'accès à des informations confidentielles. Ces dernières sont stockées et traitées par des prothèses technologiques, lisibles à distance, modifiables et reproductibles en leurs moindres parties, la compétition pour dissimuler ou percer se généralise.
L'extension du domaine du secret traduit donc un rapport de force militaire, politique, économique, technique et idéologique. Il se pourrait que la puissance se confonde désormais avec la faculté de savoir ou de dissimuler et que la part du caché augmente à proportion du développement des techniques dites de l’intelligence et de la connaissance. Le numéro 37 de Médium (parution en octobre, dirigé par Paul Soriano et moi-même) traitera précisément de ce paradoxe : à l'ère numérique la société qui devait être de l'information est obsédée par le code qui protège et la surveillance qui se dissimule (y compris à l'échelle gigantesque de Prism & co.), les manœuvres occultes (vraies ou fantasmées), zones inconnues du Net, peur de Big Brother et obsession du complot, questions d'anonymat et de vie privée, découverte du pouvoir paradoxal des "porteurs d'alerte" (ils espionnent les espions), multiplication des secrets de Polichinelle, problèmes de l'intime et de la surveillance.
Notre thèse est que le secret est l'arme, la cible, l'enjeu au cœur de tous nos affrontements.
Secret d'État, diplomatie de l'ombre, professions du secret, filiation, psychanalyse, littérature et philosophie, impératif politique de la transparence, stratégies d'anoymisation des internautes, arcanes du pouvoir, réseaux et affrontements : nous avons tenté d'explorer quelques facettes d'un domaine par définition inépuisable et obscur.
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vendredi, 27 septembre 2013
L’eredità romano-bizantina della Russia nel pensiero di Arnold Toynbee
L’eredità romano-bizantina della Russia nel pensiero di Arnold Toynbee
Preambolo
La recentissima iniziativa diplomatica di Vladimir Putin in relazione alla crisi siriana ha riproposto e rilanciato il ruolo internazionale della Russia, dopo un ventennio di declino seguìto allo smembramento ed al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.
In precedenza, con varie scelte di politica interna (l’azione penale contro le Femen, la lotta contro l’oligarchia affaristico-finanziaria, la polemica e l’opposizione al modello occidentale delle adozioni da parte dei gay), Putin si era posto come esponente di un modello alternativo rispetto a quello del “politicamente corretto” di matrice statunitense, differenziandosi anche da altri esponenti della classe dirigente russa che esprimono un atteggiamento più filo-occidentale.
Nella attuale crisi siriana, la Russia esprime ed afferma una visione geopolitica multipolare che si è concretizzata nell’esito del G-20 di S. Pietroburgo, in cui la sua opposizione all’intervento militare USA in Siria ha coagulato intorno a sé i paesi del BRICS (Brasile, India, Cina, Sudafrica, oltre alla Russia stessa). Il presidente russo ha però compreso che non era sufficiente limitarsi a dire no alla guerra nel teatro siriano, ma occorreva mettere in campo un’iniziativa diplomatica che sottraesse ad Obama il pretesto delle armi chimiche per un intervento bellico ammantato da giustificazioni “umanitarie” e legato, in realtà, ad un preciso disegno geopolitico di smembramento e destabilizzazione delle guide politiche “forti” del mondo arabo e dell’area mediorientale in particolare, in moda da garantirsi il controllo delle fonti energetiche (compreso il grande bacino di gas presente nel sottosuolo del Mediterraneo orientale) e consolidare la supremazia militare e politica di Israele.
Questo rilancio del ruolo internazionale della Russia sia rispetto agli USA, sia rispetto al dialogo euro-mediterraneo, unitamente alla riaffermazione di una diversità culturale russa rispetto ad un occidente americanizzato, sollecita una riflessione sulle radici storico-culturali della Russia e sulla possibilità di riscoprire una koiné culturale euro-russa che investe le origini storiche di questa Nazione e la sua diversità rispetto al modello di un Occidente che graviti sul modello americano.
La diffusione e il rilancio della teoria politica “euroasiatica” (espressa in Italia dalla rivista Eurasia e che vanta illustri precedenti teorici) e la recentissima enucleazione del progetto “Eu-Rus” rendono tale riflessione ancora più attuale e necessaria.
A tale riguardo è molto pertinente considerare un saggio dello storico inglese Arnold Toynbee (Londra 1889-York 1975), dal titolo Civilisation on trial (Oxford, 1948), pubblicato poi in traduzione italiana per le edizioni Bompiani nel 1949 e poi riedito tre volte, fino all’ultima edizione del 2003. Il saggio appare quindi in piena epoca staliniana, quando l’URSS sembrava l’antagonista dell’Occidente nello scenario della “guerra fredda”.
In questo libro – che è un classico della storia comparata e che pur risente fortemente del momento storico in cui viene scritto (il passaggio all’era atomica, la supremazia militare ed economica americana), lo storico inglese si interroga sulle radici remote e sull’ eredità bizantina della Russia, illuminandone una dimensione profonda che, nel contesto storico in cui venne teorizzata, denota la capacità di trascendere le apparenze e identificare le “costanti” della storia.
Toynbee divise la sua attività fra gli incarichi accademici e quelli politico-istituzionali. Fu docente di storia bizantina all’Università di Londra (e questo è un aspetto importante per capire il saggio di cui ci occupiamo) e docente di storia internazionale alla London School of Economics. Egli fece parte di numerose delegazioni inglesi all’estero e fu direttore del Royal Insitute of International Affairs. La sua opera maggiore è A Study of History (Londra-Oxford, 1934-1961) in 12 volumi, ma ricordiamo anche L’eredità di Annibale, pubblicato in Italia da Einaudi, in cui approfondisce le linee guida della politica estera di Roma antica e le conseguenze devastanti della guerra annibalica; siamo in presenza di uno storico famoso la cui opera spazia da Bisanzio a Roma antica, da Annibale alle civiltà orientali, offrendo al lettore un grande scenario d’insieme. Egli unisce lo studio della storia all’esperienza diplomatica ed alla conoscenza della realtà contemporanea.
L’eredità bizantina della Russia
In Civiltà al paragone Toynbee dedica un‘ intero capitolo al tema dell’eredità bizantina della Russia e lo apre con la citazione di una massima di Orazio: “Naturam espellas furca, tamen usque recurret” (“Allontana pure la natura; tuttavia essa ritornerà”).
“Quando tentiamo di rinnegare il passato - scrive lo storico inglese - quest’ultimo ha, come Orazio ben sapeva, un suo modo sornione di tornare fra noi, sottilmente travestito”. Egli non crede quindi alle affermazioni del regime di Stalin secondo cui la Russia avrebbe compiuto un taglio netto col suo passato. In realtà, le radici di un popolo possono manifestarsi in forme nuove, adattate al mutato contesto storico, ma è falso ed illusorio pretendere di cancellare il passato.
Nel decimo secolo d.C. i Russi scelgono deliberatamente – secondo Toynbee – di abbracciare il Cristianesimo ortodosso orientale. Essi avrebbero potuto seguire l’esempio dei loro vicini di sud-est, i Kazars delle steppe – che si convertirono al Giudaismo (v. op.cit., p. 242) – o quello dei Bulgari Bianchi, lungo il Volga, che si convertirono all’Islam nel decimo secolo. Essi preferirono invece accogliere il modello religioso di Bisanzio.
Dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 e la scomparsa degli ultimi resti dell’Impero Romano d’Oriente, il principato di Mosca assunse in piena coscienza dai Greci l’eredità di Bisanzio.
Nel 1472 il Gran Duca di Mosca, Ivan III, sposò Zoe Paleològos, nipote dell’ultimo imperatore greco di Costantinopoli, ultimo greco a portare la corona dell’Impero Romano d’Oriente. Tale scelta riveste un senso simbolico ben preciso, indicando l’accoglimento e la riproposizione di un archetipo imperiale, come evidenziato da Elémire Zolla.
Nel 1547, Ivan IV (“il Terribile”) “si incoronò Zar, ovvero – scrive Toynbee – Imperatore Romano d’Oriente. Sebbene il titolo fosse vacante, quel gesto di attribuirselo era audace, considerando che nel passato i principi russi erano stati sudditi ecclesiatici di un Metropolita di Mosca o di Kiev, il quale a sua volta era sottoposto al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, prelato politicamente dipendente dall’Imperatore Greco di Costantinopoli, di cui ora il Granduca Moscovita assumeva titolo, dignità e prerogative”.
Nel 1589 fu compiuto l’ultimo e significativo passo, quando il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, a quel tempo in stato di sudditanza ai Turchi, fu costretto, durante una sua visita a Mosca, a innalzare il Metropolita di Mosca, già suo subordinato, alla dignità di Patriarca indipendente. Per quanto il patriarcato ecumenico greco abbia mantenuto, nel corso dei secoli fino ad oggi, la posizione di primus inter pares fra i capi delle Chiese ortodosse (le quali, unite nella dottrina e nella liturgia, sono però indipendenti l’una dall’altra come governo), tuttavia la Chiesa ortodossa russa divenne, dal momento del riconoscimento della sua indipendenza, la più importante delle Chiese ortodosse, essendo la più forte come numero di fedeli ed anche perché l’unica a godere dell’appoggio di un forte Stato sovrano.
Tale assunzione dell’eredità bizantina non fu un fatto accidentale né il frutto di forze storiche impersonali; secondo lo storico inglese i Russi sapevano benissimo quale ruolo storico avessero scelto di assumere. La loro linea di “grande politica” fu esposta nel sedicesimo secolo con efficace e sintetica chiarezza dal monaco Teofilo di Pakov al Gran Duca Basilio III di Mosca, che regnò fra il terzo e il quarto Ivan (quindi nella prima metà del ‘500):
“La Chiesa dell’antica Roma è caduta a causa della sua eresia; le porte della seconda Roma, Costantinopoli, sono state abbattute dall’ascia dei Turchi infedeli; ma la Chiesa di Mosca, la Chiesa della Nuova Roma, splende più radiosa del sole nell’intero universo… Due Rome sono cadute, ma la Terza è incrollabile; una quarta non vi può essere” .
È significativa questa identificazione esplicita di Mosca con la terza Roma, a indicare l’assunzione, in una nuova forma, dell’ideale romano dell’Imperium, ossia la unificazione di un mosaico di etnie diverse in una entità politica sovranazionale, che è – nella forma storica russa – anche l’autorità da cui dipende quella religiosa ortodossa, così come in precedenza il Patriarca ecumenico di Costantinopoli dipendeva dall’Imperatore di Bisanzio.
In questo messaggio del monaco Teofilo si coglie, inoltre, un esplicito riferimento allo scisma del 1054 d.C. fra le Chiese ortodosse orientali e quella cattolica di Roma, considerata eretica (Toynbee ricorda, al riguardo, la famosa disputa teologica sul “filioque” nel testo del Credo in latino).
Lo storico inglese si chiede perché crollò la Costantinopoli bizantina e perché invece la Mosca bizantina sopravvisse. Egli reputa di trovare la risposta ad entrambi gli enigmi storici in quella che egli chiama “l’istituzione bizantina dello Stato totalitario”, intendendo per tale lo Stato – Impero che esercita il controllo su ogni aspetto della vita dei sudditi. L’ingerenza dello Stato nella vita della Chiesa e la mancanza di autonomia e di libertà di quest’ultima sarebbero state le cause dell’inaridimento delle capacità creative della civiltà bizantina, soprattutto dopo la restaurazione dell’impero di Bisanzio da parte di Leone il Siriano, due generazioni prima della restaurazione dell’Impero d’Occidente da parte di Carlo Magno (restaurazione che Toynbee, da buon inglese fedele ad un’impostazione di preminenza “talassocratica”, considera come un fortunoso fallimento).
La stessa istituzione dello Stato totalitario sarebbe stata invece all’origine della potenza e della continuità storica della Russia, sia perché ne assicurava l’unità interna, sia anche perché tale unità consentiva alla Russia, unitamente alla sua remota posizione geografica rispetto a Bisanzio, di non essere coinvolta nel disfacimento dell’impero bizantino e di restare l’unico Stato sovrano e forte che professasse il cristianesimo ortodosso orientale.
Tale configurazione politica e religiosa implica però che i Russi, nel corso dei secoli, abbiano riferito a se stessi, secondo lo storico inglese, quella primogenitura e supremazia culturale che noi occidentali ci attribuiamo quali eredi della civiltà greco-romana e – secondo Toynbee – anche quali eredi di Israele e dell’Antico Testamento (ma qui il tema si fa più complesso e discusso, perché il cristianesimo occidentale si afferma storicamente in quanto si romanizza e diviene cattolicesimo romano che è fenomeno ben diverso dalla corrente cristiana di Pietro e della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme).
Pertanto in tutti i momenti storici in cui vi sia un conflitto, una divergenza di vedute fra l’Occidente e la Russia, per i Russi l’Occidente ha sempre torto e la Russia, quale erede di Bisanzio, ha sempre ragione. Tale antagonismo si manifesta per la prima volta in modo plastico con lo scisma del 1054 fra le Chiese ortodosse orientali e quella di Roma ma è una costante che si sviluppa in tutto il corso della storia russa, seppure con alterne vicende ed oscillazioni, dovute ad una componente filo-occidentale che pur è presente, talvolta, con Pietro il Grande e con la sua edificazione di san Pietroburgo, la più occidentale delle città russe.
Questo Stato totalitario ha avuto due riformulazioni innovative, una appunto con Pietro il Grande e l’altra con Lenin nel 1917. Agli occhi di Toynbee, il comunismo sovietico si configura come una sorta di nuova religione laicizzata e terrestrizzata, di nuova chiesa, ma la Russia nella sua sostanza, resta pur sempre uno Stato-Impero totalitario – nel senso specificato in precedenza - che raccoglie l’eredità simbolica e politico-religiosa dell’Impero Romano d’Oriente. Ciò equivale a vedere – e in questo il suo sguardo era acuto – il comunismo come una sovrastruttura ideologica, come fenomeno di superficie rispetto alla struttura dell’anima russa, rovesciando così l’impostazione del materialismo storico. In quel momento epocale in cui scrive, Toynbee vede un grande dilemma presentarsi davanti alla Russia: se integrarsi nell’Occidente (che egli vede come sinonimo di una civiltà di impronta anche anglosassone e quindi, implicitamente, nel quadro euro-americano) oppure delineare un suo modello alternativo anti-occidentale. La conclusione dello storico inglese – impressionante per la sua lungimiranza – è che la Russia, come anima, come indole del suo popolo, sarà sempre la “santa Russia” e Mosca sarà sempre la “terza Roma”. Tamen usque recurret.
Considerazioni critiche
L’eredità bizantina della Russia è, in ultima analisi l’eredità romana, la visione imperiale come unità sovrannazionale nella diversità, visione geopolitica dei grandi spazi e della grande politica, ivi compresa la proiezione mediterranea, perché un Impero necessita sempre di un suo sbocco sul mare come grande via di comunicazione.
Tale retaggio romano (lo Czar ha una sua precisa assonanza fonetica con il Caesar romano, come già notava Elémire Zolla in Archetipi, ove evidenzia anche la componente fortemente germanica della dinastia dei Romanov) è la base, il fondamento della koiné culturale con l’Europa occidentale ed è anche la linea di demarcazione, di profonda distinzione rispetto agli USA.
In altri termini, la Russia è Europa, mentre gli USA risalgono ad un meticciato di impronta culturale protestante e calvinista che è tutta’altra cosa in termini di visione della vita e del mondo, nonché di modello di civiltà.
La teoria del blocco continentale russo-germanico – sostenuta, negli anni ’20 del Novecento dal gruppo degli intellettuali di Amburgo nell’ambito del filone della “rivoluzione conservatrice” – e la visione “euroasiatica” affermata da Karl Haushofer trovano il loro fondamento in questi precedenti storico-culturali, senza la conoscenza dei quali non si comprende la storia contemporanea della Russia, la sua proiezione mediterranea, la sua vocazione ad un ruolo di grande potenza nello scacchiere mondiale.
Sta a noi europei – ed a noi italiani, in particolare, per la specificità della nostra storia e delle nostre origini – ritrovare e diffondere la consapevolezza delle radici comuni euro-russe nella prospettiva auspicabile di un blocco continentale euro-russo che sia un modello distinto e alternativo rispetto a quello “occidentale” di impronta statunitense, sia sul piano politico ma soprattutto su quello “culturale”.
In questa ottica, gioveranno anche altri ulteriori approfondimenti teorico-culturali su temi affini, quali il pensiero di Spengler sull’anima russa, la lettura spengleriana della dicotomia Tolstoj-Dostojevski come simbolo di un’ambivalenza russa, il contributo di Zolla sul rapporto fra la Russia e gli archetipi che essa riprende e sviluppa, l’elaborazione culturale della Konservative Revolution sul rapporto russo-germanico.
Il presente contributo è solo l’inizio di uno studio storico-culturale più ampio.
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jeudi, 26 septembre 2013
Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa
Land und Meer – Amerikas Ringen mit Europa
Negative Dialektik: Karl Marx
In der Marx’schen Bestandsaufnahme des „Bonapartismus“ und in der Prognose einer „negativen Aufhebung des Kapitalismus auf kapitalistischer Grundlage“ fand die historische Substanz der französischen und deutschen Staatsmacht und die Kooperation von Kredit- und Industriekapital im 19. Jahrhundert Aufmerksamkeit. Das Kreditkapital konnte nach Marx die Herkunft aus dem Wucher- und Spekulationskapital nicht verleugnen. Es trieb zwar die industrielle Akkumulation über die nationalen Reserven hinaus, indem es im Weltmaßstab die brachliegenden Gelder mobilisierte, trotzdem fand es wiederholt Gefallen an Raub, Piraterie, Diebstahl und Betrug. Der Weltmarkt und die Weltmeere wiesen unzählige Schlupfwinkel auf. Gelegenheiten boten sich, wenn „faule Papiere“ angeboten wurden, Aktien, Schuldscheine, Anrechte, Fonds, die irgendwann aufflogen, waren sie doch nur teilweise durch „Werte“, Geld, Gold, Rohstoffe, Immobilien, Industrieanlagen, gedeckt. Hier ließen sich Milliarden von Dollar verdienen. Schon deshalb war das Kreditkapital daran interessiert, einen internationalen „Raum“, Markt oder Niederlassungen zu finden, die nicht von den nationalen Staaten kontrolliert werden konnten. Überhaupt lehnte der „Internationalismus“ dieses Kapitals den Staat oder die Staatskontrolle ab. Es selbst wollte „frei“ und „ungebunden“ auftrumpfen und umgekehrt die staatlichen Eingriffe und Begrenzungen beeinflussen oder festlegen. Deshalb beteiligte sich das Kreditkapital an den neuartigen Staatsgründungen in Frankreich, Europa und Nordamerika. Die bonapartistische Diktatur in Frankreich würde diesem Staat Aussehen und Farbe verleihen.
Der bonapartistische Staat gab die selbstherrliche Form des Absolutismus auf, nutzte jedoch dessen Machtapparate von Polizei und Militär, um die Veränderungen in Gesellschaft und Staat abzusichern. Dieser neuartige Staatstyp entwickelte neue Methoden von Herrschaft, die er aus den Operationen aus Handel, Kredit, Spekulation erschloß und die er mit der Stabilität des Militärabsolutismus verband. Er verstand sich als Einrichtung, über Konjunkturpolitik, Staatsaufträge, Investitionen, die Überproduktions- bzw. Spekulationskrisen und die Massenarbeitslosigkeit zu bekämpfen. Der Staat sollte für die Risiken und Schulden der Machenschaften und Spekulationen aufkommen. Die „Verselbständigung“ der Macht von Kapital und Staat durch eine Präsidialdiktatur bzw. durch eine konstitutionelle Monarchie benötigte neben den alten Machtzentren die neuen Institutionen von Wirtschafts- und Sozialpolitik. Diese kooperierten eng mit der Privatökonomie, mit dem Bankkapital und mit den staatlichen Aufgaben, um die unterschiedlichen sozialen Schichten unter Aufsicht zu halten. Außerdem war dieser neuartige Staat auf politische Bündnisse, Kooperationen der Klassenfraktionen oder auf identische Massenparteien angewiesen. Sie sollten propagandistisch die Klassen auf „Masse“, „Volk“ oder den „Untertanen“ vereinigen. Die Propaganda dieser neuartigen „Partei“ machte Anleihen bei den Religionen bzw. bildete nach deren Vorbild eine „politische Religion“ heraus. Ein Präsident nutzte die neuen Formen von Propaganda und Selbstdarstellung, und er gründete eine Massenpartei, um sich über Wahlkampf und Inszenierung in die Funktion und Rolle eines zivilen „Ersatzkaisers“ zu bringen. Gewerkschaften und sozialistische Parteien sollten durch „utopische Ideale“ übertrumpft und durch die Polizei ausgeschaltet werden. Vor allem in Frankreich und in USA erlangte dieser „Demokratietyp“ politische Anerkennung. Die „negative Aufhebung“ des Kapitalismus mobilisierte diese „bonapartistischen Auftritte“ von Skandal, Medien, Sicherheits- und Militärpolitik, um über den Staat eine Regelung von Wirtschaft und Gesellschaft anzustreben. Es galt außerdem, die Massen ideologisch einzubinden und die finanzpolitischen Ziele des Bank- und Finanzkapitals aufzunehmen. Trotzdem errichteten die alten „Klassen“ aus Staatsapparat, Militär und Grundeigentum gegen diese Interventionen in Wirtschaft und Staat Hindernisse.
Indessen hatten die USA in ihrem bonapartistischen „System“ der „Transformationen“ und der „Aufhebung“ nicht die historischen Blockaden Europas. Als Präsidialmacht unter dem Einfluß von zwei identischen Großparteien wurde der „bonapartistische Putsch“ bei jeder Präsidentenwahl wiederholt und friedlich erledigt. Dadurch verliefen die Interventionen des Finanzkapitals nach einem einfachen Muster. Sie finanzierten die aufwendigen Wahlkämpfe. Der „Präsident“ lief nicht aus dem Ruder, wenn er auf ihre Geldspenden und Ratschläge angewiesen war. Sie sorgten dafür, daß die entstehende Großmacht die Handelswege und Finanzoperationen deckte und zugleich über die Flotte und das Militär den Zugriff auf die Weltrohstoffe sicherte. Hier wirkte eine Weltmacht, die die Weltmeere und Kontinente beherrschen wollte und die den europäischen Imperialismus überall zurückdrängte. Über die Handels- und Menschenrechte, über Militärstützpunkte und abhängige Regierungen oder über die Stärke der Wirtschaft und des „Dollars“ ließen sich alle Grenzen öffnen. Die „inszenierte Demokratie“ von Wahlen und Parteien war den bonapartistischen Manövern in Europa überlegen. In den USA entstand ein dynamischer Kapitalismus, der die Staatseingriffe für seine Operationen nutzte. Für Marx war diese vorerst letzte Form von Kapitalismus keine Alternative zum Sozialismus. Der nordamerikanische Kapitalismus würde zu keinem Zeitpunkt den bonapartistischen Aufbau von Staatsmacht und potentieller Diktatur abschütteln können. Ähnlich wie im europäischen „Bonapartismus“ lagen ihm die „Explosionen“ von Krisen, Kriegen, Armut, Arbeitslosigkeit, Chaos und Selbstzerstörung zugrunde. Nur mit „Ausnahmegesetzen“ ließen sich derartige Deformationen bekämpfen.
Die USA konnten nach Marx den europäischen Kapitalismus und die einzelnen Mächte übertrumpfen, trotzdem ließ sich die immanente „Negativität“ nicht positiv aufheben. Der alte Revolutionär Marx konnte sich nicht vorstellen, daß die sozialistische Arbeiterbewegung scheitern würde, deshalb erhob er die „Pariser Kommune“ zum Symbol des kommunistischen Manifests. Der „bonapartistische Staat“ mußte zerschlagen werden. Die Rücknahme der Funktionen des Staates in die Selbstverwaltung der Produzenten ermöglichte erst die Einrichtung der sozialen Demokratie und die Garantien der politischen Freiheit. Marx skizzierte in den Analysen der „bonapartistischen Form“ von Staat und Kapital die Kriege und Diktaturen im 20. Jahrhundert. Allerdings ließ seine „dialektische Sicht“ nicht zu, sich einzugestehen, daß ein „realhistorischer Sozialismus“ in Europa die traditionellen Herrschaftsformen aufnahm und radikalisierte und gegen Nordamerika sich nicht behaupten konnte. Die USA und nicht die Arbeiterklasse würden jedoch Europa vor dem „Untergang“ retten.
Zur Theorie des Finanzkapitals: Rudolf Hilferding
Die sozialdemokratischen Analytiker des Finanzkapitals, etwa Rudolf Hilferding und Otto Bauer, berücksichtigten die Veränderungen in den Funktionen des Kreditkapitals, die sich unmittelbar auf die kapitalistische Produktion auswirkten. Das Industriekapital wurde durch die Kooperation mit den Kreditbanken in die Lage versetzt, die eigenen Verwertungs- und Kapitalgrenzen zu übersteigen. Das brachliegende Geld der Gesellschaft wurde durch diese Banken aufgenommen und als Fremdkapital den Einzelbetrieben zur Verfügung gestellt. Sie investierten in die neuen Technologien. Das Finanzkapital absorbierte als ökonomische und politische Macht das Industriekapital. Kartelle und „Syndikate“ entstanden, die als konzentrierte Betriebe oder zentrale Einheiten einzelne Industriebranchen überspannten. Partiell mauserte es sich zum „Weltkapital“, wenn es die Herrschaft über einzelne Rohstoffe, Währungen oder Staaten antrat. Der „moderne Imperialismus“ beruhte deshalb auf Rüstung, Kolonialismus und Militarismus. Daneben repräsentierte er die Geldmacht, den Reichtum und den Anschein von Demokratie und Medienmacht. Zugleich war das Kapital versucht, die Staatseliten unter Kontrolle zu nehmen, um die Staatsverschuldung, die Währungspolitik und die Rüstungswirtschaft unter Aufsicht zu halten. Das gelang nur bedingt, denn die Militärs und Rüstungspolitiker ließen sich als „alte Klassen“ auf die verschiedenen Ansätze von Einflußnahme und „Korruption“ nur bedingt ein. Sie verfolgten durchaus eigene Interessen.
Die wachsende Arbeitslosigkeit und die Existenz der alten Klassen machten zugleich auch politische Maßnahmen notwendig, die Macht von Kapital und Staat ideologisch und politisch abzusichern bzw. die Kritik der sozialdemokratischen Opposition abzuschwächen und zu überspielen. Das „Ideologische“ erlangte für das Finanzkapital neben der Finanzspekulation eine neue Bedeutung. Für die sozialdemokratischen Theoretiker gab es die Konkurrenz und die Kombinationen des alten Staates mit dem Finanzkapital. Neben der Planung und Organisation des Kapitalismus stritt man in Fragen von Flottenbau und Kolonialpolitik. Zugleich wurden Tendenzen zur Selbstzerstörung und Krieg durch Militärbündnisse und den Aufmarsch der kontinentalen Armeen sichtbar. Aufrüstung und Kriegsvorbereitung stärkten die alten Eliten und gaben dem Finanzkapital neue Potentiale der Einflußnahme. Die Sozialpolitik zwang zur Integration von SPD und Zentrum in den Staatsapparat. Hier lag die politische Chance der Sozialdemokratie, gegen die alten Eliten und das Finanzkapital eine neue Ordnung einzuführen. Das Finanzkapital in Deutschland war zugleich daran interessiert, politische Parteien zu unterstützen, die dem Krieg und der Rüstung zugewandt waren und mit den alten Klassen kooperieren konnten. In der Kriegswirtschaft klappte die Zusammenarbeit mit den Gewerkschaften. Nach 1918 wurden die gegenrevolutionären Kräfte, Parteien, Freikorps und Vereinigungen unterstützt.
Im Selbstverständnis des Finanzkapitals verkörperte der entstehende Nationalsozialismus die politische Chance, ideologisch und politisch die eigene Macht gegenüber den Staatseliten und der Linksopposition zu stärken. Die Notwendigkeit einer Vermittlung von Ökonomie und Ideologie war in Deutschland genauso gegeben wie in den USA. Deshalb befand sich das „Finanzkapital“ Europas in einem Übergang zu „freien Formen“ der Herrschaft, die die Bindung an die alten europäischen Mächte abstreifen würden. Die Zerschlagung des alten Staates schuf die Voraussetzungen für die finanzkapitalistischen Initiativen, entweder die bestehende Demokratie zu kooptieren oder eine Diktatur zu favorisieren. In Deutschland wurden die Experimente der Notverordnungsdiktaturen nach 1933 ersetzt durch die Kooperation mit der NSdAP. Die „große Koalition“ von Gewerkschaften, SPD und Zentrumspartei, die eine Militärdiktatur tragen sollte, barg die Risiken einer „sozialistischen Planwirtschaft“ gegen das Finanzkapital. Die Nazis versprachen eine massive Aufrüstung und waren für die Wirtschaftseliten leichter handhabbar. Sie sollten sich irren. In Zentraleuropa blieben vorerst die Wege der USA verschlossen. Der Ballast der Vergangenheit drängte zu diktatorischen Lösungen. Der „organisierte Kapitalismus“ öffnete sich nicht dem Rechtsstaat und bildete keinen Übergang zum Sozialismus. Hilferding als Wirtschaftspolitiker mußte seinen theoretischen Irrtum einsehen. Die Kooperation des Medienkapitals mit dem Finanzkapital und der Einsatz einer Propaganda- und „völkischen“ Partei bewiesen ihm, daß gegen die gespaltene Arbeiterbewegung eine neuartige, politische Front die Bedingungen von Politik festlegte und zur totalen Macht strebte. Die Beziehungen der SPD und der Gewerkschaften zum Finanzkapital bargen die Gefahr, daß die sozialistische Arbeiterbewegung zurückgedrängt und ausgeschaltet wurde.
Die Bonapartismusanalyse und die Bestimmungen der „negativen Aufhebung“ des Kapitals, die Marx vorgelegt hatte, wurden durch Hilferding ergänzt: die Koexistenz von Rüstung, Medien und Finanzspekulationen lief darauf zu, das Volk neu zu „ordnen“ und über die Propaganda und die Staatsmacht zu kontrollieren. Damit wurden die wichtigsten Voraussetzungen für Kriegsvorbereitung erfüllt. Das US-amerikanische Finanzkapital hatte nach Hilferding Anteil an der Kredit- und Pleitepolitik während der Weltwirtschaftskrise in Deutschland. Hier stand es allerdings in Konkurrenz zur deutschen Variante der Finanzoperationen. Es besaß jedoch andere Ausmaße und Möglichkeiten und sicherte sich weltweit ab. Außerdem wurde es in USA nicht gezwungen, in den politischen Radikalismus zu investieren. Die zwei identischen Volks- und Medienparteien in USA erfüllten ihre politische Aufgabe, ohne in offen totalitäre Ziele überzuleiten. Der „Sozialismus“ in Gestalt einer Partei und Gewerkschaft konnte in den Vereinigten Staaten keine sozialen Grundlagen gewinnen. Das Finanzkapital mußte sich nicht wie in Europa um überbrachte Herrschaftstraditionen, radikale Parteien oder sozialistische Gewerkschaften kehren. Es konnte sich weiterhin „frei“ entwickeln. Der europäische Bonapartismus, Faschismus oder Nationalsozialismus konnten die kontinentalen Bindungen nicht abwerfen. Die USA als Imperium und Seemacht dagegen waren von allen Fesseln der Tradition entbunden. Sie zeigten sich offen für die vielfältigen Experimente in der Machttechnik und in der Inszenierung von Politik.
Revolution und Tradition: die Wiedergeburt der russischen Großmacht
Georgij Plechanov entwarf in seiner Schrift „das Jahr in der Heimat“ von 1917/18 ein Bild des „Roten Oktobers“, das die Differenz des russischen Bolschewismus zum „Westen“ und zu den Menschewiki herausstellte und zugleich die russischen Grundmuster von „Staatlichkeit“ im Bolschewismus unterstrich. Ähnlich argumentierte Karl Kautsky zum gleichen Zeitpunkt in seiner Skizze über „Terrorismus und Kommunismus“. Die bolschewistischen Theoretiker um W. I. Lenin, N. Bucharin, Leo Trotzki und später J W. Stalin lösten sich in ihren Theorien von Partei und Revolution nicht von der russischen Tradition despotischer und asiatischer Macht. Die bolschewistische „Revolution“ würde diese historischen Grundlagen aktualisieren und den Methoden der bonapartistischen Herrschaft anpassen und überbieten. In der Parteiauffassung wurde eine Elitekonzeption vertreten, die sich am politischen Gegner aus dem Staatsapparat und an der Tradition der terroristischen Staatsgewalt der „großen Zaren“ messen wollte. Die bolschewistischen Berufsrevolutionäre waren überzeugt, daß das russische Volk in der Mehrzahl die vorkapitalistischen Verhältnissen nicht aufgegeben hatte. Eine revolutionäre Diktatur konnte das Wagnis auf sich nehmen, dieses Volk hineinzunehmen in Aufgaben einer forcierten Industrialisierung und Umwälzung der Gesellschaft. Es ließ sich von oben über Terror und Propaganda zur „werktätigen“ Masse vereinen. Die Revolutionäre distanzierten sich von den archaischen Völkern Rußlands und setzten auf eine umfassende Staatsgewalt, die vielen Völker den unterschiedlichen Formen von Zwangsarbeit und einer „großrussischen Vision“ zu unterwerfen. Über Partei, Massenorganisationen, Propaganda, Bildung, Militär und Polizei wurde die Gesellschaft „verstaatlicht“, eine Zielsetzung, die der „bonapartistische Staat“ im Westen kaum erfüllen konnte. Die Parteiavantgarden würden dieses Volk über Terror und Disziplin einspannen in die „historischen“ Aufgaben, das rückständige und hoffnungslose Rußland in das industrielle Zeitalter zu wuchten. Es würde nur eine „Partei“ geben, die als Massenpartei auf ein Machtzentrum konzentriert wäre, ein Machtzentrum, das die Ziele von Politik und „Transformation“ diktierte. Dieses Zentralbüro war faktisch als eine „Verschwörung“ gegen Staat und Volk anzusehen. Es besetzte jedoch den Staat über eine allmächtige Geheimpolizei und sorgte über sie für die Koordination der unterschiedlichen Staatsaufgaben. Zugleich besetzten diese „Verschwörer“ die Gesellschaft, indem neben dieser „Sozialpolizei“ Massenorganisationen als die Übersetzer der Propaganda und der Umerziehung dienten. Der Machtaufbau konditionierte neben der despotischen Herrschaft die Elemente von Mafia oder der kriminellen Banden aus den kaukasischen Gebieten zur Staats- und Machtstruktur.
Die alten Klassen hatten sich bis 1917 den Aktivitäten des ausländischen Kapitals unterworfen, vorsichtig die russische Wirtschaft der ursprünglichen Akkumulation des Kapitals zu öffnen. Der westliche Imperialismus hatte seine finanzielle und industrielle Macht genutzt, die Bodenschätze in Besitz zu nehmen, Industriezentren zu schaffen und Rußland in Abhängigkeit zu bringen. Im Ersten Weltkrieg wurde dieses Land in die Kriegskoalition mit den Westmächten gegen das deutsche Kaiserreich gezwungen. Für das westliche Finanzkapital brachte es ein riesiges Blutopfer. Aus diesen Gründen bemühten sich die Bolschewiki nach 1917, diesen staatlichen Überbau und die Keimformen der „westlichen Klassen“ und ihrer Gesinnung zu zerstören. Der alte Macht- und Staatsapparat mußte zerschlagen werden, schon um die anstehenden Umwälzungen nach russischen Maßstäben durchzuführen. Außerdem mußten alle Ansätze des westeuropäischen Rechtsstaates und der Konstitution aufgelöst werden. Alle Bindungen an den „Westen“ wurden zertrümmert. Eine Diktatur als Kombination einer traditionell asiatischen Macht und des Planstaates würde das historische Werk des industriellen Fortschritts vollenden. Aller Widerstand im Volke mußte über einen permanenten Krieg gegen die „Volksfeinde“ gebrochen werden. Zum „Feind“ wurden jede Form von Widerspruch, Liberalismus und Sozialdemokratie genauso gerechnet wie die westlichen Einflüsse im „jüdischen Bolschewismus/Trotzkismus“ oder die archaischen Relikte des alten Rußland.
Terror und Propaganda wurden zur „Produktivkraft“ erhoben und galten als das gesellschaftliche Mittel, über Zwangsmaßnahmen jede Opposition einzuschüchtern und die Jugend in die freiwerdenden Positionen einzubinden. Die Willkür im Terror folgte einer asiatischen Herrschaftstechnik wie sie auch schon das Handeln Ivans des Schrecklichen kennzeichnete, alle potentiellen Ansätze von Fraktion, Cliquen und Klüngel, Schlamperei, Bürokratismus oder Widerstand zu zerschlagen und Chaos und Angst zu schüren, um darüber die Hingabe der Massen an den „großen Führer“ zu erreichen. Stalin bewies später über Zwang und Massenterror seine „Unfehlbarkeit“ als gottgleicher Herrscher über Leben und Tod und ließ sich von seinem Volk durch Paraden, Aufmärsche, Prozessionen und Kulte feiern, die an die Huldigungen für „Alexander des Großen“ durch sein Volk und seine Krieger erinnerten. Eine „kulturellen Revolution“ als die Mischung von Terror und Propaganda zerstörte jede „proletarische“ oder bäuerliche Eigenständigkeit und verfolgte das Ziel, eine absolute Unterwerfung zu erzwingen. Die revolutionäre Diktatur umwarb die Jugend und erneuerte die Gesellschaft durch einen permanent durch tschekistische Säuberungen herbeigeführten Generationenaustausch. Riesige Produktionsschlachten und Technikkriege mußten in der Zukunft bestanden werden. Mit dieser Mobilisierung konnten die russischen Partisanen und die Rote Armee der deutschen Wehrmacht widerstehen. Millionen Soldaten wurden in diesen Kriegen geopfert. Das revolutionäre Rußland würde das Symbol der europäischen Landmacht stellen und sich gegen die USA nach 1945 positionieren. Es profilierte sich als die letzte europäische Großmacht.
Das Religiöse wurde vorerst von der russischen Orthodoxie gelöst und eingebunden in eine „politische Religion“, die gleichzeitig die Arbeitsethik mit Patriotismus, Disziplin, Gehorsam und Unterwerfung verbinden mußte. Außerdem mußte sie so etwas bieten wie Weltanschauung und Parteilichkeit. Der Marxismus – Leninismus setzte die Distanzierung zur Tradition, die von Marx und der europäischen Sozialdemokratie eingeleitet wurde, nicht fort. Die bolschewistische Ideologie blieb in der russischen Tradition von Despotie und theologischer „Parteilichkeit“ befangen. Deshalb radikalisierte und inspirierte diese Ideologie das Revolutionsdenken in Asien, vor allem in China und beeindruckte das konservative Denken in Deutschland und Westeuropa.
Der russische Bolschewismus als Staatsmacht enthielt bonapartistische und faschistische Elemente, behauptete in den dreißiger Jahren auch Leo Trotzkij. Als „Transformationssystem“ von Partei und Propaganda kopierte der Stalin’sche Bolschewismus den bonapartistischen Staat und übertraf ihn. Als Terrorapparat, Geheimpolizei, Zwangsarbeit, Massenmord, Säuberung und Liquidation der Revolutionskader von 1917 war er auf die uralten Herrschaftstechniken asiatischer Despoten ausgerichtet. Die Anlage der riesigen Arbeitslager und einer Militärindustrie außerhalb der zivilen Produktion nahm die nationalsozialistischen Konzentrationslager vorweg, gab ihnen jedoch über die Zwangsarbeit eine andere Funktion. Die bolschewistische Macht bekämpfte die westlichen Ideen von Freiheit und Sozialismus. Die USA wurden zum Hauptfeind. Der Stalin’sche Terrorstaat überbot die europäischen Traditionen von Absolutismus und Militärmacht und verknüpfte sie mit den asiatischen Zielen, Massen zu zügeln und zum Einsatz zu bringen. Das bolschewistische Rußland bildete eine Landmacht, deren Wurzeln fernöstliche Traditionen aufnahm, zugleich ließ es sich vom Nationalsozialismus beeindrucken. Die ursprüngliche Akkumulation des Kapitals und die industrielle Revolution wurden über die Staatswirtschaft und Rüstungsindustrie geregelt. Ein „permanenter Kriegskommunismus“ schaffte sogar den Anschluß an das westliche Technikniveau, war allerdings der Konkurrenz mit der kapitalistischen Produktivität nicht gewachsen. Die Reformen stießen an die Grenzen von Mentalität und Tradition. Irgendwann wirkte der innere Bürgerkrieg kontraproduktiv. Die Planwirtschaft brach zusammen. Die „Partei“ unter Michail Gorbatschow beendete erst 1989 das bolschewistische Experiment.
Konservative Reaktionen auf Krieg und Revolution: Max Weber
Inwieweit die konservativen Soziologen und Verfassungsrechtler Marx, Hilferding, Lenin, Trotzki oder Stalin gelesen hatten, läßt sich schwer nachweisen. Sie nahmen jedoch Themen auf, die von den marxistischen Theoretikern angesprochen wurden und die sich historisch aufdrängten. Die Synthese von Militärabsolutismus, „Bonapartismus“ und Tradition beschäftigte die konservativen Denker intensiv. Das Zusammenspiel von Industrie-, Finanzkapital und Staat bildete ein wichtiges Thema. Die Kombination von Religion und Zwang in der modernen Variante von Terror und Propaganda fand Aufmerksamkeit. Die ideologische Mobilmachung, um eine gespaltene Gesellschaft neu zu gestalten oder zu gewaltigen, historischen Aufgaben aufzurufen, beschäftigte die konservativen Denker. Die Umwandlungen und Funktionen der Religion in den modernen Ideologien ergaben sich aus dieser Thematik. Die Ereignisse in Rußland 1905 und 1917 oder in Deutschland nach 1914 im Weltkrieg wurden zur Kenntnis genommen und in einer Neuformulierung konservativer Werte umgesetzt. Wollte der Konservatismus gegenüber Liberalismus, Sozialismus oder Kommunismus an Bedeutung zurückgewinnen, mußte er „revolutioniert“ und aktualisiert werden. Davon waren die politischen Konservativen wie Oswald Spengler, Max Weber, Werner Sombart, Hans Freyer, Carl Schmitt überzeugt. Die bolschewistischen und faschistischen bzw. nationalsozialistischen Umwälzungen als Folgen von Krieg und Bürgerkrieg beeindruckten die konservativen Denker, weil diese politischen Umbrüche über Staat und „Partei“ die konservativen Ziele und Vorstellungen neu bewerteten. Die Völker wurden über Ideologie und Propaganda neu geformt und in kurzer Zeit zu Krieg und großen Leistungen angespornt. Die alten „Strukturen“ von Macht und Volk wurden reaktiviert und neu gruppiert. Die Konservativen lehnten zwar die Methoden einer „Kollektivierung“ des Volkes oder die totale Mobilmachung ab, trotzdem beunruhigte sie die Flexibilität und Umsetzbarkeit einer Ideologie, die die konservativen Traditionen aufzunehmen und auszubeuten schien.
Oswald Spengler entdeckte die Grundtendenz der europäischen, westlichen Gesellschaft im Übergang der Demokratie in den „Cäsarismus“. Diese Transformation war nach seiner Überzeugung angelegt im Parlamentarismus und in der Parteienherrschaft. Sie fand ihren Rückhalt in Kriegswirtschaft, Militär und Staatsplanung. Sie bildeten als Organisation und Hierarchie den Boden für die Heraufkunft der neuen Cäsaren. Diese nutzten primär ihre Sonderstellung im Partei- oder Staatapparat, um zur absoluten Herrschaft zu gelangen. Zugleich setzten sie die neuen Medien als Boulevar- und Massenzeitung, als Demonstration und Kundgebung ein, um sich als einmalige Führer und Politiker vorzustellen und durchzusetzen. Über „Führerkulte“ und über eine verengte bzw. „künstliche“ Weltsicht wurden die „Massen“ auf die Diktatur als die „Lösung“ aller Fragen von Krieg und Frieden eingeschworen. Sie wurden vom zukünftigen Diktator poltisch gefügt und geordnet. Die Definition der Massen über Propaganda, Reklame, Illusionen und ihre Reduktion auf Gehorsam und Pflicht, auf den Massencharakter, auf den „Fellachen“, wurden von Spengler als Voraussetzung angesehen, die bestehende Demokratie in eine Diktatur überzuleiten. Ein Polizei- und Staatsterror verfestigte diese Grundlagen des entstehenden Führermacht. Die Bedeutung des „Geldes“ und die „Fetischisierung“ aller Beziehungen durch Geldgeschäfte bzw. die Rolle der Banken in der Politik erlangten in einer demokratischen Republik Bedeutung, die sich offen zeigte für derartige Machenschaften. Politik, Parteien, Führerpersönlichkeiten wurden finanziert und eigebunden in Privatinteressen. Eine entstehende Diktatur äußerte sich im Aufbau der Parteien und in den Einflußnahmen der Wirtschaft auf Staat und Politik. Sie leitete eine Endphase von Gesellschaft ein, die außerhalb der Diktatur keine Kräfte besaß, sich zu erneuern oder gar zu demokratisieren.
Für Spengler erfüllte eine derartige Staatsmacht den historischen Auftrag, die westliche Zivilisation endgültig zu zerstören. Sie folgte einer „Wiederkehr“, die die Potenz enthielt, große Kulturen zu schaffen und verschwinden zu lassen. Das neue Europa folgte hier dem historischen Auftrag der Selbstzertrümmerung des antiken Griechenlands und der römischen Kultur. Spengler übertrug die Stimmungen und die Kriegsbegeisterung des Kaiserreichs auf seine Weltsicht. Nicht im obersten Kriegsherrn, im Monarchen, erblickte er den zukünftigen Diktator. Er würde seine „Mission“ und seine „Realität“ aus den Aktivitäten des Generalstabs oder der Parteien herausfinden. Diese Apparate mobilisierten und lenkten die „Massen“ gleichsam für den Krieg oder den Frieden. Sie benötigten die Befehlsgewalt, die in letzter Konsequenz von einem Diktator ausgehen mußte.
Spengler zeigte sich in seinen Untergangsvisionen als Philosoph und Metaphysiker, der den „Naturalismus“, den „Pantheismus“ von Johann W. Goethe und die Lebensphilosophie Friedrich Nietzsche in der Interpretation von Georg Simmel übersetzte. Religionen und Ideologien folgten der Tendenz zum letzten „Cäsar“. Sie bargen keinerlei Geheimnis der Widerwehr oder des Neuanfangs. Der Ausdruck der Schwäche und der Sklavenseele konnte in ihnen entdeckt werden. Als „Sozialismus“, „Liberalismus“ oder „Konservatismus“ nahmen die Ideologien als Übertragung religiöser Gefühle die Interessen nach Diktatur oder Alleinherrschaft auf. Die Gesellschaft interpretierte Spengler als „Pflanze“, als „Organ“, als „Lebewesen“, das die Stadien der Entwicklung und des Alters, Zerfalls, des Todes durchmachte und nun im „Abendland“ an den Endpunkt des „Absterbens“ gelangte. Den „Cäsarismus“ interpretierte er als Lebensgefühl, als Fatalität der grauen „Massen“, die durch den modernen Industrialismus und durch die „Lebenswelten“ von Organisation, Fabrik, Büro, Militär und Propaganda entwurzelt wurden und die sich nach Führung und Befehl sehnten. Ein wissenschaftlicher und soziologischer Zugang zum Weltgeschehen blieb Spengler fremd.
Max Weber, angeregt durch die Kant’sche Philosophie und durch den französischen Positivismus, war angetan von einer „objektiven“ Sichtweise der aktuellen Veränderungen in „Wirtschaft und Gesellschaft“. Ihren inneren Maßstab und Dynamik wollte er erkunden und zugleich die Triebkräfte als Herrschaftsformen und religiöse Motive herausfinden. Er betonte in seinem Hauptwerk, durchaus beeinflußt von den geschichtsphilosophischen Thesen Spenglers, nicht zufällig die Koexistenz der unterschiedlichen Herrschaftsformen in Industrie und Staatsverwaltung. Allerdings weigerte er sich, den Prognosen des “Untergangs des Abendlandes“ zu folgen. In den modernen Demokratie existierte der Widerspruch alter Herrschaftsformen mit den Ansätzen rationaler Arbeitsteilung. Vor allem die protestantische Religion und die ihr entsprechenden Ideologien und Parteien blockierten die soziale Stagnation und schufen in Krisensituationen Auswege und Neuanfänge.
In seinen Studien über die „russische Revolution“ und über die „protestantischen Sekten in Amerika“ stieß er auf die „Produktivität“ von Religion oder religiös aufgeladener Ideologie. In Rußland gelang es den unterschiedlichen Fraktionen der Sozialdemokratie das Volk zu spalten und vom Zarismus und der alten Gesellschaft zu trennen. Unter neuen Vorzeichen wurde die „Größe“ Rußlands propagiert. Wurde diese soziale Umwälzung weiterhin organisiert und gefestigt, würde die sozialdemokratische Ideologie die Ziele einer kulturellen und industriellen Veränderung aufnehmen, ohne die „russischen Werte“ anzutasten. Rußland würde sich über eine Revolution erneuern können und zur Weltmacht aufsteigen. In USA zeigte sich der Protestantismus offen für wirtschaftliche Ziele und Aufgaben. Die Siedler nahmen Entbehrungen auf sich, um das Land zu besetzen und zu bebauen und eine neue Gesellschaft zu errichten. Weber vermutete sogar einen inneren Zusammenhang zwischen Sozialdemokratie und Protestantismus. Das „antike Judentum“ schien nach Weber seit historischen Zeiten eng verbunden mit dem Geschäftsleben und mit der finanziellen Spekulation. Den Bezug zur produktiven Arbeit bestritt er, obwohl er zugeben mußte, daß in dieser Ursprungsreligion viele Reformansätze des Christentums enthalten waren. Werner Sombart dagegen interpretierte im Judentum die Ursachen und Motive einer kapitalistischen Gesinnung. Für ihn enthielt die jüdische Religion die wirklichen Werte und Quellen des kapitalistischen Aufbruchs in der Welt.
Die „Koexistenz der Herrschaftsformen“ bildete den produktiven Rückhalt einer sich wirtschaftlich verändernden Gesellschaft. Weber wußte, daß eine rationale Arbeitsteilung nicht ausreichte, um die Produktivität zu steigern. Das Management mußte sich um die innere Organisation, den „Betriebsfrieden“ und die mentale Zusammenarbeit in der Belegschaft kümmern. Die unterschiedlichen Methoden von Aufsicht und Fürsprache mußten aufeinander abgestimmt sein. Vertrauen mußte über eine Verantwortungsethik der Betriebsführer hergestellt werden. Patriarchalische Herrschaftsverhältnisse existierten gleichzeitig in Familie, Handwerk, Bauernschaft, Bürokratie, Parteien und Armee, obwohl rationale Ansprüche und Rechtsformen vorhanden waren und oft dominierten. Im Kontext der „charismatischen Herrschaft“ wurde das Religiöse, Prophetische oder das Priesterhafte der Generäle, Agitatoren oder Politiker angesprochen. Sie zeigten sich als Meister in der Propaganda, in politischen Mobilisierungen und Parteipolitik, wenn es sich um „Schicksalsfragen“ handelte, es um Krieg und Frieden ging oder hervorragende Leistungen erwartet wurden. Die charismatischen Führer mobilisierten Sehnsüchte, Hoffnungen und Ängste in den Massen und Gefolgschaften. Die Führer wurden zur Inkarnation von Idee und Ziel. Dadurch erreichten sie ihre „Verkörperung“ in jedem Einzelnen und fügten sie zur Masse. Über eine derartige Führerschaft und durch die Übersetzungskunst in einer inszenierten Medienwirklichkeit ließen sich Massen begeistern und Abstand nehmen von allen Bedenken und Vorurteilen. Derartige „Führer“ schienen nach Weber notwendig zu sein, um eine Gesellschaft aus der Stagnation zu bringen. Er hegte wohl nicht die Befürchtung, daß diese Generäle, Manager oder Agitatoren Ambitionen gewinnen konnten, sich zum Diktator küren zu lassen.
Das Religiöse fand zugleich die Fortsetzung in der „Arbeitsethik“ und in der allgemeinen Moral. Das Gebet als Arbeit fortzusetzen und Verantwortung zu übernehmen, fußte auf den Geboten und einem religiös geführten Leben. Arbeits- und Freizeit verschmolzen zu einer Haltung, die die Ansprüche von Leistung, Fleiß und Obhut aufnahm. Das Religiöse enthielt die Bereitschaft, den Aufgaben der Arbeit und des Staates Folge zu leisten. Eine derartige Übersetzung der religiös motivierten Verantwortung sollte auf den rationalen Rechtsstaat, seine Verwaltung und Vertreter übertragen werden. Das Religiöse als ethischer Anspruch war für die kapitalistische Industriegesellschaft Grundlage und Voraussetzung der Arbeitsleistung und der Disziplin. Sobald der christlich protestantische Einfluß zurückgedrängt würde, mußten die politischen Ideologien diesen Auftrag übernehmen, sollte eine industriell verfaßte Gesellschaft nicht zusammenbrechen. Diese Aussagen von Weber formulierten nur bedingt einen Widerspruch zum Marxismus, denn auch hier bestand ein Nachdenken darüber, daß die Religion moralische Aufgaben übernahm, die bei wachsender Aufklärung durch das gesellschaftliche Bewußtsein abgelöst werden mußten. Herbert Marcuse und Franz Borkenau verfolgten die Anstrengungen im „Sowjetmarxismus“ bzw. Marxismus – Leninismus, Arbeitsethik und Disziplin in die „Herzen“ der werktätigen Massen zu verplanzen. Dieser Ideologie erreichte zu keinem Zeitpunkt die Glaubwürdigkeit und die „innere Mission“ der protestantischen Ethik oder des politischen Protestantismus.
In den Religionsstudien hinterließ Weber den Eindruck, daß Katholizismus, russische Orthodoxie, Judentum und Islam einen archaischen, statischen Aufbau aufwiesen. Ihre Rituale befestigten die alten Machtformen von Selbstherrschaft, Feudalismus, Zarismus und orientalischer Despotie. Sie sorgten für die Unterwerfung der Gläubigen oder für die Herrscher- und Staatskulte. Der Arbeitszwang mußte von außen durch den Staat oder durch die lokalen Herrscher auf dem Lande erzwungen werden. Er besaß keinerlei innere Anreize. Schon deshalb seien die Sklavenarbeit oder die Arbeit unter feudalen und despotischen Herrschaftsbedingungen nicht produktiv. Die Hierarchie und „Bürokratie“ der institutionell verfaßten Religionen wurden Vorbild für die Staatlichkeit oder für die Rechtsordnung von traditioneller Herrschaft. Nichts wies darauf, daß diese Religionen sich den Veränderungen oder gar den kapitalistischen Ansprüchen öffneten. Der Status quo, Stabilität von Herrschaft und die Stagnation bildeten das Maß, wonach diese Religionen sich ausrichteten. Volksreligionen wie der Protestantismus, die auf Hierarchie verzichteten, sich im Volk verankerten und sich sogar gegen die bestehende Macht kehrten, entwickelten eine neue Ethik und eine neue Auffassung von Fleiß, Arbeit und Hingabe. Nicht zufällig wurden die USA von primär protestantischen Sekten besiedelt und entstand dort eine „protestantische Großmacht“. Max Weber, der 1920 starb, konnte den entstehenden Faschismus nicht beobachten, der den Katholizismus politisieren würde. Die Offenheit eines politischen Protestantismus zu Rassismus und zu totalitären Bewegungen und Zielen blieb ihm in letzter Konsequenz verborgen. Die Kopie und Weiterentwicklung der russischen Orthodoxie in die Staats- und Führerkulte des Bolschewismus wurden erst nach 1917 sichtbar. Der Zionismus als ein politischer Anspruch des Judentums auf einen eigenen Volksstaat war nach 1945 in der Gründung des Staates Israel erfolgreich. Die Politisierung und Radikalisierung des Islam sind Produkt des Zweiten Weltkrieges, der Entkolonialisierung und der Befreiungskriege nach 1945. Derartige Veränderungskräfte in den traditionellen Religionen konnten von Weber nicht beachtet werden.
Konservativer Existenzialismus: Carl Schmitt
Bei Carl Schmitt waren die marxistischen Impressionen eindeutig, denn seine Kritik der „Romantik“, des „Liberalismus“ oder des „Parlamentarismus“ bzw. seine „Theorie des Politischen“ enthielten marxistische Ansätze, die zu seiner Zeit in Deutschland oder Rußland diskutiert wurden. Schmitt nahm diese Eindrücke nur als Impuls auf und ging darüber hinaus. Alle genannten Themen wurden katholisch, theologisch, religiös, geopolitisch und existentiell aufgelegt. Die Bewertung der Religionen, primär der Gegensatz des Katholizismus zum Protestantismus, reagierte auf das Weber’sche Lob der protestantischen Ethik. Die Bestimmung des modernen Staates zwischen Tradition und Diktatur nahm die marxistische Staatskritik auf, historisierte und mystifizierte sie zugleich. Im Zweiten Weltkrieg befaßte Schmitt sich nach dem Kriegseintritt der USA 1941 und zum Zeitpunkt der deutschen Niederlagen im Ostfeldzug mit der Besetzung Zentraleuropas durch die nordamerikanische Großmacht. Dadurch thematisierte er die Differenz der freien, finanzkapitalistischen Herrschaft in Nordamerika zur europäischen Staatsmacht, die zu diesen Zeitpunkt von der bolschewistischen bzw. nationalsozialistischen Diktatur bestimmt wurde. In einer Legende über „Land und Meer“ radikalisierte er die Widersprüche der zwei staatlichenr Mächte, indem er sie zu den „Idealtypen“ von Land- und Seemächten zuspitzte. Die USA als protestantische Großmacht wurde nach den Gesichtspunkten des „Feindes“ vorgestellt. Wir wollen an dieer Stelle die einzelnen Schritte skizzieren.
Einzelne Schriften von Carl Schmitt lasen sich wie Kommentare zu den Veröffentlichungen von W. I. Lenin. Der „Begriff des Politischen“ enthält Fragestellungen, die Lenin in „Was tun?“ und in den Schriften über den „Imperialismus“ und des Kriegskommunismus aufgeworfen hatte. Die Erörterungen über „Verfassungsfragen“ und über die „geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus“ schienen den Lenin’schen Konzeptionen von „Staat und Revolution“ und den Programmschriften nach der Oktoberrevolution entnommen zu sein. Lenins Polemiken gegen den „Linksradikalismus als Kinderkrankheiten des Kommunismus“ wurden in der Schmitt’schen Kritik der „politischen Romantik“ übertragen. Die „politische Theologie“ schien sich auf die Leninsche „Parteilichkeit“ zu stützen. Der revolutionäre Bolschewismus entwickelte Ideen und Werte, die als Kommentare und Folien im Konservatismus Schmitt’scher Prägung, verändert und anders interpretiert, neu auftauchten. Eine unmittelbare Nähe zwischen dem revolutionären Bolschewismus und dem konservativen Aufbruch in Deutschland kann nur schwer am Beispiel von Zitaten nachgewiesen werden. Beide Richtungen waren jedoch gezwungen, sich gegen den „Westen“ und hier vor allem gegen die USA zu profilieren, die die entwickelte Form des Finanzkapitals vorstellten. Deshalb entstanden die parallelen Themen über den „Feind“.
Vom Bolschewismus übernahm Schmitt den existentiellen Feindbegriff bereits in den zwanziger Jahren. Der „Feind“ als das Prinzip der grundlegenden Gegnerschaft und einer anderen Ordnung wurde als ein konstituierender Begriff der eigenen Konzeption verstanden. Er mußte als Gegenentwurf und radikale Gegenposition zur eigenen Ordnung verstanden werden. Der „Feind“ war stets präsent und bedrohte als Zweifel oder Unsicherheit das eigene Denken und die bestehende Moral. Schmitt verlangte eine radikale Distanz zu „fremden“ Werten und eine fundamentale Anklage der feindlichen Ideologie. Der „Volksfeind“ und „Verräter“ wurde als die Inkarnation des Bösen, der Hinterlist, der Lüge, der Heimtücke und der Feindschaft kommentiert. Der Abweichler und Doppelzüngler zeige seine Gefährlichkeit in der scheinbaren Treue zu den Zielen der eigenen Ordnung, die in Wirklichkeit in Frage gestellt würden. Die Unsicherheiten oder die „revolutionäre Ungeduld“ des Linksradikalismus oder „Trotzkismus“ verrieten den „Feind“ als unsicheren Kandidaten, Zweifler oder Zyniker. Schmitt projizierte diesen Begriff einer heimtückischen und zugleich absoluten Feindschaft auf die Romantik, den Liberalismus, Sozialismus und auf die parlamentarische Demokratie. Die „politische Romantik“ gab sich sensibel, feierte Stimmungen, relativierte die Prinzipien und war unfähig, eindeutig Position zu beziehen. Der Liberalismus verkündete Freiheit und Gleichheit und blieb trotzdem dem Terror zugewandt. Nur über ihn gelinge die Nivellierung der Gesellschaft und die Gleichmacherei. Der Sozialismus verkündete das Paradies auf Erden, verfolgte schöne Utopien und endete in Diktatur und Terror. Der Parlamentarismus sicherte den Parteieliten den Zugriff auf die Staatsmacht und machte den Staat zur „Beute“ für eine Minderheit von Aufsteigern. Er garantierte Minderheiten die Macht im Staat. Aus dem Versprechen der liberalen Freiheit wurde das Gegenteil herausgelesen: die absolute Macht liberaler Eliten. Die Quellen der modernen Ideologie wurden offengelegt: die Ketzerei, die Meuterei, die protestantischen Reformation, das Revolutionäre, die der Gottesordnung des Katholizismus ihr Widerwort entgegenschleuderten und die Welt in die Unsicherheiten und in das „Bodenlose“ rissen.
Der „Feind“ verkörpere das Andere und Fremde, das keinerlei Bezug zu den eigenen Werten aufwies. Für Schmitt war die theologische Notwendigkeit des Bösen und des Außenseiters gegeben, um deutlich zu machen, daß die Stabilität eines souveränen Staates stets gefährdet sei, falls die feindlichen Übertragungen und Ziele nicht bemerkt und nicht bestimmt werden könnten. Diese primär katholisch religiösen Festlegungen und Eindeutigkeiten mußten auch von Atheisten erkannt werden, wollten sie nicht den stabilen Machtzustand dem „Feind“ opfern. Dieser stelle permanent die Machtfrage und symbolisierte selbst Macht als ein gegensätzliches Prinzip. Er konnte den Staat neu gestalten, allerdings nach dem Primat einer fremden Ordnung. Nach Schmitt bedrohte der positive Rechtsstaat bereits die souveräne Staatsmacht, denn er relativierte und liberalisierte eine Ordnung, die auf Ausnahme, Souveränität oder Tradition aufgebaut sein mußte.
Als Gegenbild zum „Feind“, der bewußt in das Teuflische und das Bösartige verzerrt und mythologisiert wurde, wäre der „Freund“ zu sehen, der seine Substanz in der Souveränität und Unabhängigkeit des Staates und in der Entscheidungskraft großer Politiker und Staatslenker entwickele. Diese Aufrichtigkeit und Offenheit entlehnte Schmitt der katholischen Tradition. Gegen Webers Soziologie einer protestantisch inspirierten Ethik und Ökonomie wollte Schmitt die katholischen Tugenden von Treue, Autorität, Hierarchie, Gebundenheit, Selbstvertrauen, Standhaftigkeit stellen. In der Politik und im Staat waren Eliten gefragt, die zu ihrer Sache eindeutig standen und die keinerlei Kompromisse eingingen. Diese Eindeutigkeit und Entschlossenheit sollte eine Alternative zu den schwankenden und korrupten, liberalen Eliten abgeben.
Land und Meer symbolisierten nach Schmitt diesen Widerspruch zwischen Freund und Feind. Sie fanden ihr Material in den Seemächten England und USA und in den europäischen Landstaaten, in Deutschland und Rußland. Diese geopolitische Bestimmung, die das Meer gleichsetzte mit Handel, Spekulation, Geld, Medien, Manipulation und Finanzmacht und im Land die Stabilität und die feste Ordnung erblickte, behauptete die Differenz von Tradition und Bodenlosigkeit. Die USA fußten auf einem weitgehend geschichtslosen Kontinent. Hier hatten sie eine finanzkapitalistische und liberale Ordnung errichtet. England vollzog bereits im 16. und 17. Jahrhundert als Empire und Kolonialmacht eine elementare Wendung vom Land zum Meer. Diese Seemacht löste sich radikal von allen kontinentalen Bindungen, so jedenfalls Schmitt. Deutschland dagegen blieb über das Militär, die Staatsmacht und das Volk an die Tradition gebunden und hatte die finanzkapitalistischen und liberalen Ziele in der Weimarer Republik abgelehnt und überwunden.
Land und Meer wurden als feindliche Kräfte gesehen. Dieser existentielle Gegensatz wurde sichtbar im Staatsaufbau und im politischen System. Der absolute Fortschrittsglaube, die Technikfaszination, die Inszenierung von Leben und Politik, die Vormacht der Medien mußten als Kennzeichen einer Hinwendung der Mächte zum Meer gesehen werden. Dem entsprach der Glaube an die Menschheit, an die Jugend und eine unendliche Freiheit, Ansprüche, die die Gottesfurcht genauso ignorierten wie die natürlichen Grenzen von Krankheit, Elend, Krieg und Tod. Der alle Bindungen aufgebende und wurzellose Mensch werde zum Idealbild erhoben. Der industrielle Fortschritt werde alle Grenzen einreißen und den Menschen gottgleich gestalten. Eine grenzenlose Freiheit und die Universalität von Recht und Gerechtigkeit würden versprochen. Dagegen setzten die Landmächte auf Bescheidenheit und die Geborgenheit in einem sorgenden Staat. Die Menschen als Volk und Familie konnten sich behaupten und Großartiges leisten, verließen sie nicht die historischen Grundlagen ihrer natürlichen Existenz. Schon deshalb war eine staatliche Ordnung notwendig, die die Entwurzelungen und Selbstzerstörungen der sozialen Verhältnisse und der Gesellschaft nicht zuließ. An dieses Maß von Lenkung und Aufsicht wurde das Recht orientiert. Es sollte bewahren und hegen und den Menschen vor den eigenen Illusionen schützen. Es durfte nicht der Bereicherung, der Beliebigkeit, der Implosion oder der Kriminalität dienen.
Das Religiöse wurde bei Schmitt nicht allein durch die Hineinnahme katholischer Tugenden und die Stabilität einer Gottesordnung betont. Er verfolgte sogar eine katholische Bodenmystik, indem er die Erde zum Gestalter des Menschen, zu seinem Antlitz oder zum Hort der Tradition, zur Heimat und Ort der Verwurzelung machte, alles Hinweise, die das Bodenlose, die Vertreibung, die Entwurzelung das Heimatlose, die Arbeitslosigkeit, das Elend, den Zerfall aller sozialen Bindungen zur Drohkulisse verfestigten, die als Charakterbild der Seemächte entworfen wurde. Schmitt verabscheute die Blutmystik des nationalsozialistischen Rassismus, der die europäische Koexistenz der Rassen und Völker auflöste und zum Rassenkrieg aufrief. Der Boden umfaßte für Schmitt die Heimat, die Tradition, die Religion und hier den Katholizismus und den souveränen Staat, der die Unabhängigkeit und die Unversehrtheit des Volkes behütete. Solch ein Staat und solch eine Gesellschaft konnte nicht demokratisch konstituiert sein. Er folgte als souveräner und hierarchischer Staat der permanenten „Ausnahme“, um Bedrohung und Krieg vom Volk abzuwehren. Er verkörperte die europäische Tradition von Absolutismus und Militärdiktatur. Im „Partisanen“ feierte dieses konservative Prinzip eine späte Anerkennung. Er würde die Seemächte in Asien, Afrika, Lateinamerika besiegen und den Landstaat auf der Grundlage der traditionellen Religionen oder der davon abgeleiteten Ideologien neu begründen.
Zur magischen Begriffswelt und zum Negativspiegel dieser „gottgewollten Ordnung“ zählten der Protestantismus und das Judentum, während das orthodoxe Christentum eher die Normen und die Stärke des Katholizismus aufwies. Der Protestant war bodenlos. Er gefiel sich als der typische Eroberer, der fremde Länder und Kontinente besetzte, andere Völker okkupierte und nach seinem Vorbild umerzog. Auf fremden Boden errichtete er ohne Bedenken seine Industrie, die Großbauten und eine Farmwirtschaft, die die einheimischen Bauern vertrieb oder versklavte. Der protestantische Okkupant unterstützte den industriellen Fortschritt und war allen finanzkapitalistischen Operationen zugetan. Er machte den Boden zum Objekt der Arbeit oder der Spekulation. Er kümmerte sich nicht um den Bestand der Natur. Volk und Nation als Staat und Ordnung wurden der Dynamik der Technik und der industriellen Produktion unterworfen. Der Protestantismus fand seinen materiellen Rückhalt bei den Seemächten und er inspirierte die modernen Ideologien von Liberalismus und Sozialismus. Ähnlich wie dem Judentum seien den Protestanten die Spekulation und die finanzkapitalistischen Manöver eigen, alles Methoden und Machenschaften, die die Tradition auflösten und zerstörten. In beiden Religionen lauere nach Schmitt der „Antichrist“. Ob er mit dieser Kritik des Protestantismus zugleich den Nationalsozialismus als den Zerstörer der Tradition meinte, kann aus den Texten nicht erschlossen werden.
Die Seemächte England und die USA standen mit Deutschland im Krieg und würden Zentraleuropa besetzen. Ihre Okkupation kam einer Revolution gleich, denn sie würden politisch die bestehende „Tradition“ von Staat, Volk und Armee zerschlagen. Die Individualisierung werde mit dem Aufbau einer Massengesellschaft verbunden, die jeden Subjektcharakter aufgegeben habe. Die Ziele des Liberalismus und der parlamentarischen Demokratie lägen darin, Volksinteressen zu ignorieren und zugleich die Massen als Publikum, Konsumenten oder Zuschauer zu isolieren. Die politische Macht solle den liberalen Eliten in Parteien und Staat übertragen werden. Über die „Amerikanisierung“ der deutschen Gesellschaft würden die Seemächte in Deutschland und auf dem europäischen Kontinent Einzug halten und eine radikale Umwertung aller Werte einleiten. Die deutsche Tradition in Ethik, Recht, Sprache, Universität, Literatur und Wissenschaft würde verschwinden und mit ihnen die Staatsidee und die Tugenden der Landmächte.
Schmitt diskutierte zu Beginn der vierziger Jahre des 20. Jahrhunderts eine „theologische Begründung“ der zwei Staaten, des Rechtsstaates und des souveränen Staates. Die Besetzung Deutschlands durch die USA erfordere die prinzipielle Feindbestimmung, denn die Niederlage der deutschen Zentralmacht werde den Sieg der Seemacht in Europa begründen. Die Negation der europäischen Tradition von Staat und Verfassung komme der Infragestellung der europäischen Geschichte gleich. Der Sieg der Bürgerlichkeit und des Liberalismus über den „Soldaten“ werde die katholische Substanz von Staatlichkeit und Ordnung zerschlagen. Die Seemächte verträten einen psychologischen Imperialismus, der die Widerstandskraft der europäischen Völker zerstöre und sie den Postulaten der Individualität unterwerfe. Deshalb sei die Besetzung und die Pazifizierung gleichzusetzen mit einer Strafexpedition gegen das deutsche Volk. Es werde nicht etwa nur umerzogen, es werde psychologisch neu verfaßt und bestimmt. Deshalb könne der Zweite Weltkrieg als eine Art „Kreuzzug“ angesehen werden, der die europäischen Landmächte endgültig unter die Kontrolle der Seemächte genommen habe.
Ende und Anfang: die Legende vom „Zusammenbruch“ einer Kultur
Die Thesen von Carl Schmitt über die Besetzung Europas durch die Seemächte England und die USA scheinen auf einen „Untergang“ oder einen „absoluten Zerfall“ des alten Europas hinzuweisen. Aber gab es historisch so etwas wie Zerfall und Untergang? Entstanden aus einem Zusammenbruch nicht neue Kräfte und Akteure, die das „Ende“ mit dem neuen Anfang synthetisierten? Kamen die „Seemächte“, die derartig negativ vorgestellt wurden, nicht aus Europa oder wiesen europäische Kräfte auf, die einst die eigene Macht bestimmt hatten? Brachten die Siegermächte über die NS – Diktatur nicht Frieden und das „Neubeginnen“ einer demokratischen Kultur? War es nicht richtig die deutsche Kriegsmacht und eine Diktatur zu zerschlagen, die millionenfachen Tod und Leid über Europa gebracht hatten? Hatte nicht die NS – Diktatur den Deutschen die kulturelle Tradition und die Würde genommen?
Fragen über Fragen tauchen bei der Lektüre der Schriften von Carl Schmitt über „Land und Meer“ auf. Eine Gesellschaft gewann so etwas wie einen inneren Subjektcharakter, wenn Institutionen, Religionen, Eliten, Parteien, Verbände, Initiativen, Stimmungen, Millieus vorhanden waren, die „Übersetzungsarbeit“ leisteten und aus einem vermeintlichen Ende einen Neuanfang ertrotzten. In den beiden Deutschlands agierten neben den Besatzungsmächten die Kirchen, die entstehenden Parteien, Gewerkschaften und Einzelpersonen, die so etwas vorstellten wie eine „Alternative“ zur Diktatur. Der Katholizismus als Glaube, Apparat, Heiliger Stuhl, Priester, Laien und Mönche gehörten dazu. Der politische Katholizismus begründete im Westen über die Christdemokratie demokratische Parteien und setzte sich bewußt von den „klerikalfaschistischen Diktaturen“ unter General Franco und Salazar auf der iberischen Halbinsel ab. Schmitt sprach in seinen Thesen das katholische Prinzip als potentielles Gesellschaftssubjekt an und idealisierte es gegen den politischen Protestantismus und den Liberalismus. Gab es zur westlichen Demokratie Alternativen, die nicht auf einer absoluten Macht oder Diktatur beharrten? Schmitt war von der ideologischen Fiktion der westlichen Demokratie überzeugt. Sie verdeckte lediglich die Machtrealität von Minderheiten und Cliquen.
Es ist undenkbar, daß Schmitt mit seinen Thesen über „Land und Meer“ eine Verteidigungsschrift der „nationalsozialistischen Diktatur“ verfaßte. Ohne es offen auszusprechen, schien für Schmitt die NS-Ideologie Bezüge zum politischen Protestantismus und zum germanischen Heidentum zu besitzen. Die Eröffnung der vielen Kriegsfronten bis hinein nach Nordafrika, Rußland, Atlantikküste und Norwegen, der Völker- und Massenmord innerhalb des Kriegsgeschehens oder die Belastung der Kampfkraft der Wehrmacht durch ideologische Ziele bewiesen die Maßlosigkeit einer Kriegsführung. Die deutsche Landmacht verhielt sich wie „das Seeungeheuer“, das Schmitt spukhaft vorgestellt hatte. Dieses Fabelwesen riskierte alles auf einmal, ohne eine „festen Rückhalt“ von Taktik und Kompromißfrieden vorweisen zu können. Die Lehren Preußens als Land- und Zentralmacht zwischen Rußland und England waren längst vergessen. Fürst Bismarck und seine Politik des Ausgleichs zwischen Ost und West wurden von den NS-Expansionisten in ein „Alles oder Nichts“ verbogen. Eine deutsche Diplomatie gab es nicht. Der deutsche Landdrachen führte einen Seekrieg, indem er die moderne Technik, die Panzerwaffe, Geschütze, Flugzeuge, Kesselschlachten einsetzte, ohne den technologischen Vorsprung halten oder den eroberten „Raum“ absichern zu können. Alle „Siege“ gingen verloren. Die Gegner zogen gleich und überrundeten die deutschen Armeen, die sich aufsplitterten und keinerlei Reserven hatten. Der Luftraum wurde zum Kampfgebiet der angloamerikanischen Bombengeschwader. Das „Meer“ erreichte den Himmel über Berlin. Die deutschen Städte, das Hinterland, wurden zur Front und in Schutt und Asche gelegt. Schmitt konnte die NS-Diktatur nicht gleichsetzen mit der souveränen und umsichtigen, europäischen Landmacht
Das bolschewistische Rußland als die letzte europäische Landmacht würde der konservative Schmitt kaum zum Beispiel oder zum Beleg der Stabilität erheben. Die Einheit von Volk, Armee, Staat und Partei im „Großen Vaterländischen Krieg“ würde zwar seiner Beschreibung der souveränen Landmacht entsprechen. Der Bolschewismus/Stalinismus wurde von ihm auf eine sozialistische Utopie reduziert, die sich nicht vom Herrschaftsprinzip des Liberalismus entfernt hatte. Der Bolschewismus blieb ihm fremd und unheimlich und er beachtete die Nähe zur russischen Orthodoxie nicht. Er ließ sich nicht nach den Maßgaben des Katholizismus sezieren. Schmitt übersah, daß nach 1945 ein mächtiges „volksdemokratisches China“ aufsteigen würde, das die europäischen Erbschaften von Staatlichkeit, Produktivität, Gehorsam, Volkseinheit und Führungswillen übernehmen würde. Schmitt hoffte sicherlich darauf, daß die Besetzung Westeuropas durch die USA scheitern würde. Die nordamerikanische Seemacht würde mit Rußland in Hader geraten. Nach einem erneuten Krieg oder der Konstellation von Labilität und Gegnerschaft würden beide Mächte so geschwächt sein, daß eine „katholische Befreiung“ die europäischen Nationen und Völker neu vereinen konnte. Jetzt war die Zeit gekommen, die katholischen Tugenden in eine europäische Staatsmacht zu übersetzen, die sich radikal vom Mafiastaat Italiens oder der iberischen Diktaturen unterscheiden würde.
Schmitt verfolgte in den späteren Schriften andere Visionen. Die russische Großmacht konnte an den inneren Widersprüchen von Tradition, Willkür und industrieller Revolution scheitern. Die Seemacht USA werde die Kräfte der Selbstzerstörung nicht bändigen können. Sie seien im Liberalismus enthalten, und sie seien angelegt in den Menschen- und Bürgerrechten. Schmitt sprach in seinen Schriften wiederholt von der Heimtücke des „Humanitarismus“. Dieser stürze als Versprechen und Ideal das menschliche Sein in die Beliebigkeiten einer wurzellosen und isolierten Existenz. Die Auflösung aller Bindungen in Familie, Gesellschaft und Staat, die Vereinsamung und die Gleichgültigkeit schüfen Verzweiflung, neue Abhängigkeiten und Krankheiten. Der „psychologische Imperialismus“ der liberalen Gesellschaft kehre die Vorstellungen von Freiheit und Würde in ihr Gegenteil: in die Ratlosigkeit, Abhängigkeit und Einsamkeit. Die Konsequenzen der finanzkapitalistischen Ökonomie wurden in der wachsenden Dynamik oder Rastlosigkeit und in der Ausgrenzung durch Armut und Arbeitslosigkeit gesehen. Die Medien könnten diese Wirklichkeit nicht überspielen. Kriege schüfen keinerlei Ausweg. In dieser psychologischen Wüste würden die Werte des Katholizismus zu einer Neudefinition von Staatlichkeit und sozialer Stabilität führen. Schmitt konnte die Realität einer katholischen Einwanderung aus Lateinamerika, Südeuropa, Asien und den Philippinen in die USA nicht überblicken. Er konnte nicht ahnen, daß die protestantische Ostküste oder der mittlere Westen vom Katholizismus, Islam, Taoismus und Buddhismus eingerahmt wurden und in eine Minderheit gerieten. Die Religionskriege der Welt als „Kampf der Kulturen“ erlangten in der nordamerikanischen Innenpolitik ihr Spiegelbild. Der Protestantismus mußte sich auf das Judentum stützen, um als Macht zu überleben. Schmitt zweifelte jedoch nicht daran, daß das protestantische Nordamerika langfristig an seinen eigenen Widersprüchen zugrunde gehen würde.
Die „Kritische Theorie“ nahm über Max Horkheimer und Theodor W. Adorno diese Idee des „psychologischen Imperialismus“ auf. Ob in der „Dialektik der Aufklärung“ oder im „Autoritären Staat“ die Schmittschen Prognosen direkt verarbeitet wurden, läßt sich kaum nachweisen. In diesen Texten wurde der Gedanke wie bei Schmitt entwickelt, daß die eindeutige Siegermacht im Zweiten Weltkrieg, die USA, den Virus von Zerfall und Zerwürfnis in sich bargen. Die grundlegenden Strukturmerkmale von Demokratie und Staatlichkeit wiesen Widersprüche auf, die kaum zu beheben waren. Die genannten Schriften der „Kritischen Theorie“ folgten einem Konzept des „Untergangs“ und nahmen nach den Marx’schen Vorgaben eine Sichtweise der „negativen Dialektik“ auf. Die Formen und der Absolutheitsanspruch von Herrschaft wurden im „autoritären Staat“ der USA aus den bonapartistischen, faschistischen, nationalsozialistischen und bolschewistischen Diktaturen übersetzt. Offener Terror, Zwang, Willkür, die Repressionsorgane des Staates, waren nicht mehr notwendig, blieben trotzdem hochgerüstet, wenn die soziale Gliederung einer Gesellschaft auf „Massen“, „Konsumenten“, „Publikum“ reduziert wurde und jeder Bürger den Maßgaben der Reklame oder der politischen Inszenierung genügte. Die Ausgestoßenen und Außenseiter gerieten unter die Obhut der Psychologie oder der Polizeidienste. Alle waren frei. Jeder war sein eigener Polizist und Kontrolleur. Jeder spielte sich selbst als eine jeweils andere Kopie von Konsumsymbolen und Markenzeichen. Eine derartige Macht der Inszenierung und Manipulation gab langfristig die Widerstandskraft und die Ethik der Selbstbehauptung auf. Sie besaß keinerlei Kraft und Subjektcharakter, die sozialen Beziehungen neu zu formen. Die kulturelle und religiöse Reproduktion gelang nicht mehr. Die orientierungslosen Bürger verzweifelten. Eine derartige Gesellschaft wurde Objekt der Einwanderer oder genügte den Ambitionen fremder Religionen und Mächte. Sie ließ sich in fremde Einflußsphären und „Zonen“ spalten, könnte heute die Interpretation fortgesetzt werden.
In der „Theorie des Partisanen“ lenkte Schmitt den Blick nach außen. Als Seemacht übernahmen die USA die Aufgaben und das Erbe des europäischen Imperialismus, um gegen Rußland und China den „Status quo“ in der Welt zu wahren und die Expansion dieser Mächte zu vermeiden. Die USA übertrugen nicht die liberalen „Freiheitsprinzipien“ auf die Einflußzonen oder abhängigen Staaten. Demokratie und Volkssouveränität erlangten gegenüber den unterschiedlichen Militärdiktaturen kaum Bedeutung. „Demokratisiert“ im liberalen Sinn wurden die ehemaligen Kriegsgegner in Europa und Japan und zugleich über Verträge und Stützpunkte „besetzt“. Pufferstaaten wie Südkorea, Formosa, Pakistan, Südvietnam oder wie die Frontstaaten in Nahost, soweit sie unter nordamerikanischer „Hegemonie“ standen, bildeten im Kern Militärdiktaturen oder Despotien, die auf einen inneren und äußeren Kriegszustand festgeschrieben wurden. Plötzlich koexistierte die liberale Idee mit den Vorstellungen despotischer Macht und der Herrschaft von Cliquen und Minoritäten. Gegen eine derartige Festschreibung von Macht entstand in der Jugend der Widerwillen und das oppositionelle Widerwort. Dieser Mißmut der Jugend formte sich zu einer existentiellen Opposition, die in den Untergrund und in den Partisanenkampf getrieben wurde, waren die Mächtigen zu keinerlei Zugeständnissen bereit. Der „Partisan“ verkörperte deshalb gleichzeitig ein antiliberales, antiwestlichen und antiamerikanisches Prinzip, das mit den neuen Vorstellungen von Tradition, Religion und Ideologie zusammenkam. Es wiederholte sich eine Konstellation von Radikalität, die Plachanov und Kautsky für den „Bolschwismus“ beschrieben hatten. Ernst Bloch und Karl Kautsky hatten in der revolutionären Auslegung der Religion bei Thomas Müntzer im Mittelalter eine ähnliche Politisierung beobachtet. Der Übergang des Religiösen in eine Revolutionsideologie erhob den Veränderungswillen zum Glauben und zu einem fundamentalistischen Engagement der Kämpfer und Partisanen.
Der „Partisan“ kombinierte die antiwestliche Kritik mit einer neuen Interpretation von Tradition und Religion und bildete zum westlichen Imperialismus eine Gegenmacht und ein Gegenprinzip von Staatlichkeit und Recht. Er kam aus dem „Land“. Er verteidigte die „Heimat“ gegen eine Intervention äußerer Mächte. Das „Bodenständige“, „Kontinentale“ war ihm eigen. In ihm wurde die Landmacht neu geboren. Die Werte einer statischen Religion oder einer entsprechend abgeleiteten Ideologie wurden durch ihn zur Legitimation einer staatlichen Ordnung erhoben. Der „Partisan“ bildete bei Schmitt eine „Chiffre“, denn der Gegner zu Liberalismus und politischen Protestantismus wurde aus den bisher statischen Religionen geformt, die die Tradition mit Stabilität und Radikalität verbanden. Neben dem Katholizismus oder der orthodoxen Kirchen würde sich der Islam in seiner Region zum revolutionären Pathos gegen die westlichen Seemächte politisieren lassen. So jedenfalls ließ sich das Aufkommen des „Partisanen“ in der Welt nach Schmitt als Gegenkraft und Widerstand zur „westlichen Zivilisation“ interpretieren.
Eine neue, weltpolitische Situation entstand mit der Auflösung der Sowjetunion. Schmitt konnte sie nicht mehr erleben. Er starb 1985. Der Kollaps des bolschewistischen Rußlands und des sozialistischen Lagers von 1989 schuf eine neue Konstellation. Hier sorgten die westlichen Mächte, die USA und die oberen russischen Machteliten aus Partei, Armee, Staat und Geheimpolizei für eine weiche Landung. Niemand hatte Interesse daran, daß dieser ökonomische und moralische Zusammenbruch einer Großmacht von Bürgerkrieg, Chaos, Unruhen, Elend, Versorgungs- und Produktionskrisen begleitet wurde. Ein neuer Krieg der politischen Lager und Systeme wurde vermieden. Die westlichen Seemächte übertrugen vorsichtig ihre Interessen und politischen Formen auf die soziale Schichten und die ehemaligen Machteliten, die bereit waren, den Despotismus und die Willkür des alten Rußlands abzuwerfen und die offen waren für die „westlichen Errungenschaften“, wurde der Lebensstandard gesichert und erhöht, fanden diese Eliten Anerkennung und Auskommen in der neuen Wirtschaft und Staat. Alte Machtstrukturen wurden mit den neuen Ansätzen einer pluralistischen Demokratie verbunden. Der demokratische Neuanfang kooptierte alte Machtformen, um eine soziale Revolution und eine kompromißfreie Demokratisierung zu vermeiden. Anders als in West- und Zentraleuropa nach 1945 sicherten die USA im Osten die Machtstabilität, setzten Pflöcke der Einflußnahme, ohne diese gerantieren zu können. Rußland blieb eine Landmacht.
Das russische Beispiel wäre auf alle anderen Staaten übertragbar. Keine demokratische Macht und keine Diktatur lösten sich in Unruhen und Verzweiflung auf. Die USA etwa würden bei der Gefahr von „Kollaps“ die Fürsprecher in China, in Japan, in Europa und Rußland finden, denn alle diese Staaten und „Systeme“ würden einen Bürgerkrieg oder Chaos auf einem kontinentalen Raum unterbinden wollen. Aus dem „politischen Protestantismus“, aus dem „politischen Katholizismus“ und aus den unterschiedlichen „ethnischen Kulturen“ konnten neue Kräfte entstehen, die den „Zusammensturz“ der bisherigen Staatsmacht positiv beerben würden. Gesellschaften konnten nicht zusammenbrechen, solange die Bürger um ihr politisches Mandat und um ihr Existenzrecht kämpften. Im Widerstand formten sich neue „Subjekte“.
Bei Marx entwickelte sich ein „Proletariat“, das die Erbschaft des Kapitalismus übernehmen sollte. Hilferding war überzeugt, daß die „Gewerkschaften“ den Zusammenbruch einer Gesellschaft positiv umkehren würden. Max Weber würde dem „politischen Protestantismus“ zutrauen, einen Neuanfang im Staat und Gesellschaft zu finden. In Rußland wurde das „werktätigen Volk“ und seine Kontrollorgane, die allmächtige Partei und Geheimpolizei, durch die „Bürger“ abgelöst. Allerdings stieß die „Verwestlichung“ der Demokratie auf die russischen Gegenreaktionen einer Präsidialmacht. Trotzdem fiel Rußland nicht in das „Nichts“ von Unregierbarkeit oder Bürgerkrieg und die Völker entwickelten so etwas wie einen Willen, aus der despotischen Tradition herauszufinden.
Es würde große Schwierigkeiten bereiten, die „inszenierte Demokratie“ und den Machtanspruch finanzkapitalistischer Kreise in USA abzuschütteln, trotzdem war den Religionen und den unterschiedlichen Völkern und Ethnien in diesem Bundesstaat die Widerstandskraft zuzutrauen, eine Demokratie nach den Maßstäben des amerikanischen und europäischen Freiheitskampfes zu errichten. Das Finanzkapital als eine negative Macht konnte Krisen, Zusammenbrüche, Chaos, Bankrotte hervorrufen. Es konnte den Lebenswillen der Menschen nicht zersprengen. Allerdings mußte jeder politischer Neuanfang ausscheren aus der finanzkapitalistischen Politik von Inszenierung, Manipulation und der faktischen Macht von Minderheiten. Das System der Medienkontrolle durch die großen „Imperien“ der Verlage oder der „Mafia“ mußte zerschlagen werden.
Carl Schmitt war in seiner Schrift über „Land und Meer“ zu Beginn der vierziger Jahre zu sehr befangen durch die Kriegsereignisse und die Negativsicht des Liberalismus. Diese Einschätzungen eigneten sich nicht, dem modernen Nordamerika jede Zukunft abzusprechen. Selbst der „Untergang“ des Römischen Reiches fand nicht statt, denn eine subtile Fortsetzung des „Imperiums“ war im katholischen Christentum, im Reich Karl des Großen und in der europäischen Kultur zu beobachten. Schmitt eignete sich im Laufe der Jahre den „protestantischen Optimismus“ von Max Weber an und übertrug ihn auf den Idealtyp von „Katholizismus“. Dadurch löste er sich von den düsteren Prognosen eines Oswald Spengler.
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mercredi, 25 septembre 2013
On the Essence of War
On the Essence of War
By Guillaume Faye
Translated by Greg Johnson
Ex: http://www.counter-currents.com/
We have read all the commentaries, pro and con, on punitive strikes against the Assad regime in Syria. (As of this writing, nothing has happened yet.) The pacifists who have become warmongers (the French Greens), the anti-Atlanticists who have aligned with Washington (the French Socialist Party), the Atlanticists who eschew the label (the British Parliament), and other strange cross-positions present us with an opportunity to reflect: What is war? War, that is to say the use of armed force between sovereign political units—as distinct from private violence[1]—has always been poorly understood, even in the minds of its protagonists. For example, the recent book on the outbreak of the First World War (1914–1918), an absolute disaster for Europe (Europe’s Last Summer: What Caused the First World War? by historian David Fromkin, a professor at Boston University), shows that this race into the abyss was produced not by any rational political calculation, and contrary to the interests of the belligerents, by a kind of agitated autonomous mechanism, which we can call “warmongering.” A mechanism that some will call tautological, irrational, “crazy.” No actor really wanted to “attack the other,” but more or less all wanted to fight to varying degrees, without any clear shared goals of the confrontation. Fromkin shows that long before the tragic sequence of events of Europe’s last happy summer, disparate forces wanted war for various reasons. And this is true of all future belligerents. Let us dive into history. The best historians of the Roman Empire[2] note that its wars of conquest in the pre-Imperial period obeyed neither a desire for economic hegemony (which already existed), nor a defensive engagement against the pacified Barbarians, nor a politico-cultural Roman imperialism (which too was imposed by soft power, without legions). The historian of Gaul, Jean-Louis Brunaux notes that Caesar himself, in his famous Commentaries, never logically explained the reasons for his engagement, particularly against the Belgians, northern Gauls (Celto-Germanics) who in no way threatened Rome, which required lethal operations condemned by the Senate for their strategic uselessness.[3] Nor could Augustus three generations later justify the loss of Varus’ three legions recklessly sent into Germany against the “traitor” Hermann (Arminius).[4]
History offers countless similar examples: wars or military operations that do not follow a rational logic, and whose goals could have been achieved by fundamentally easier means. The Marxist School (war = economic imperialism) or geopolitical school (war = securing control of space) or nationalist school (war = defending the national stock) are not wrong but do not answer the question: Why war? Because, according to Aristotelian reasoning, “Why pursue a goal the hard way when we could take an easier way?” Talleyrand thought, in this regard, that France could have easily dominated Europe through diplomacy, economic and cultural influence, and demography without—and much more securely than by—the bloody Napoleonic Wars, which propelled England and Germany to the top. As a rule, intra-European wars have not benefitted any of the protagonists but have weakened the whole continent. What, then, is war? The answer to this question is found not in political science but in human ethology. Robert Ardrey, Konrad Lorenz, and many others saw that the branch of primates called Homo sapiens was the most aggressive species, including in intraspecific matters. Violence in all its forms, is at the center of genetic impulses of the human species. It is impossible to escape. “Anti-violence” religions and moralities only confirm this disposition by opposition. War would be, in the words of Martin Heidegger about technology, “a process without a subject.” That is to say, a behavior that (a) escapes rational and volitional causality in the sense of Aristotle and Descartes, and (b) ignores factual consequences.
The essence of war is, therefore, not found on the level of logical thinking (e.g., should we invest or not in a particular energy source?) but on the level of the illogical, on the frontiers of the paleocortex and neocortex. The essence of war is endogenous; it contains its own justification within itself. I make war because it is war, and one must make war. We must show our strength. When the Americans—and, on a lower level, the French—engage in military expeditions, it is less a matter of calculation (the same would be achieved at lower cost and, worse, the result contradicts the objective) than of a drive. A need—not animal, but very human!—to use force, to prove to yourself that you exist. Vilfredo Pareto has quite correctly seen two levels in human behavior: actions and their justifications, with a disconnect between the two. Thus the essence of war lies in itself. This is not the case of other human activities such as agriculture, industry, animal husbandry, botany, computer science, technology research, architecture, art, medicine and surgery, astronomy, etc., which, to use Aristotelian categories, “have their causes and goals outside of their own essence.”[5] And what most resembles war as a self-sufficient human activity? It is religion, of course.
War, like religion, with which it is often associated (in that religion is theological or ideological), produces its own ambiance self-sufficiently. It emanates from a gratuity. It enhances and stimulates as it destroys. It is a joint factor of creation and devastation. It came out of the human need to have enemies at any cost, even without objective reason. This is why religions and ideologies of peace and harmony have never managed to impose their views and have, themselves, been the source of wars. It is that ideas expressed by man do not necessarily correspond to his nature, and it is the latter that is essential in the end.[6] Human nature is not correlated with human culture and ideas: it is the dominant infrastructure. Should we all embrace pacifism? History, of course, is not just war, but war is the fuel of history. War inspires artists, filmmakers, and novelists. Without it, that would historians talk about? Even proponents of the “end of history” show themselves to be warmongers. We deplore it, but we adore it. Feminist scholars have written that if societies were not chauvinistic and dominated by bellicose males, there would be no war but only negotiations. Genetic error: in higher vertebrates, females are as warlike as the males, even more so.
The paradox of war is that it may have an aspect of “creative destruction” (to use the famous category of Schumpeter), especially in economic matters. In addition, in techno-economic history from the earliest times to the present day, military technology has always been a major cause of civilian innovations. In fact, conflict and the presence of an enemy creates a state of happiness and desire in the private sphere (because it gives meaning to life), just as in the public sphere, war initiates a collective happiness, a mobilization, a rupture with the daily grind, a fascinating event. For better or for worse. So what to do? We cannot abolish the act of war. It is in our genome as a libidinal drive. War is part of the pleasure principle. It is tasty, attractive, cruel, dangerous, and creative. We must simply try to regulate it, direct it, somehow dominate it rather than do away with it.
The worst thing is either to refuse or to seek war at all costs. Those facing Islamic jihad who refuse to fight back will be wiped out. Like those who deceive themselves about the enemy—for example, proponents of strikes against the Syrian regime. Everything fits in the Aristotelian mesotes, the “mean”: courage lies between between cowardice and rashness, between fear and recklessness. That is why any nation that disarms and renounces military power is just as foolish as those who abuse it. War, like all pleasures, must be disciplined.
Notes
Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com
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Der Tod des “Behemoth”
Geheimtipp
Bei der Rezeption der politikwissenschaftlichen Theoriegeschichte nach 1968 kam niemand an den Gutachten und Theorieentwürfen von Carl Schmitt vorbei. Dieser Grenzgänger zwischen bürgerlicher Demokratie und Diktatur hatte durchaus Berührungspunkte mit Karl Marx und W. I. Lenin. Allein sich zu bemühen, einen „Begriff des Politischen“ im Zeitalter der Krisen, Revolutionen und Weltkriege zu entwerfen, der den Ausnahmestaat oder „Sondergesetze“ zum Inhalt hatte, erinnerte an die vielfältigen, marxistischen Diskussionen über den Charakter und das Ziel der „Diktatur des Proletariats“. Schon deshalb gehörte Carl Schmitt zur geheimnisvollen „Theoriegeschichte“, die in den sechziger und siebziger Jahren im Zentrum der akademischen und politischen Diskussionen stand.
Die Übergänge und Umbrüche einer Studentenrevolte, die die unterschiedlichen, historischen Ideologien aktualisiert hatte, nahm irgendwann die vielfältigen Themen der „Diktatur“ im Marxismus auf und aktualisierte sie. Die Massnahmen der Reformuniversität und die Bildungspolitik einer Sozialliberalen Koalition lenkten zu Beginn der siebziger Jahre die Diskussionen auf die Realität des Bildungs-, Sozial- und „Notstandsstaates“. Der dissidente Marxismus, den die jüdische Emigration nach 1945 an die westdeutschen Universitäten, vor allem nach Frankfurt/Main und an die FU gebracht hatte, beeinflusste die einzelnen Exponenten der Studentenbewegung und ihrer Nachgänger, sich mit der Bedeutung der Marx’schen Kapitaltheorie und mit den „politischen Schriften“ des Marxismus zu befassen. Es entstand nach 1970 ein Interesse an der theoretischen „Rekonstruktion“ des Marxismus von Marx, Lenin, Trotzki, Stalin u. a.. Eine Marxismusrenaissance öffnete den Blick für die europäische Sozialgeschichte des 19. Und 20. Jahrhunderts.
Diese Theoriewendungen erklärten sich aus der Radikalisierung einer Studentenrevolte, die sich sehr bald zwischen den Extremen des illegalen Partisanenkrieges der RAF und des sozialdemokratischen Reformismus bzw. der kommunistischen „Realpolitik“ der DDR und der neu zugelassenen DKP auflöste. Ein derartige Kampf der „Linien“ fand sein Echo im inneruniversitären Streit zwischen den unterschiedlichen Theoriefraktionen des Neomarxismus, der Kulturtheorie und der „bürgerlichen Soziologie“. Er wurde zwischen den „alten Professoren“ und den neuen Dozenten, Assistenten und „Zeitprofessoren“ ausgetragen und gehörte zugleich zu den Streitpunkten der Studenten und Assistenten, die sich den unterschiedlichen kommunistischen Gruppen angeschlossen hatten. Die Reformuniversität hatte die Ziele einer „Kulturrevolution“ und Studentenrevolte in die Lehre und Forschung übersetzt und dadurch entschärft und entpolitisiert. Dem „theoretischen Radikalismus“ wurde die Praxis und die „revolutionäre Aktion“ genommen. Er fand Platz in den theoretischen Disputen und Streitigkeiten der unterschiedlichen „Kader“ an der Universität und verlor im akademischen und studentischen Milieu trotzdem die Schärfe, zur „politischen Entscheidung“ zu drängen. Dieser Radikalismus, der für die Sozialwissenschaften bisher vollkommen fremd war, befruchtete und „ideologisierte“ die sozialwissenschaftliche Debatten in den unterschiedlichen „Fachbereichen“ der westdeutschen Universitäten und der FU.
Die entstehende „Massenuniversität“ nahm die Widersprüche der Gesellschaft und des geteilten Europas auf. Die neuen Lehrkräfte hatten den wachsenden Zugang von Studenten pädagogisch zu „verarbeiten“ und sie erweiterten das Lehrangebot durch die skizzierten, neuen Themen. Über den „Marxismus“ nahm zugleich die Propaganda und die „grosse Ideologieindustrie“ der DDR Einfluss auf die Sozialwissenschaften. Die unzähligen „Kapitalkurse“ wurden ergänzt durch die Themen der Sozialpsychologie, der Familiensoziologie, der Sozialgeschichte, des „Faschismus in seiner Epoche“, der Staatstheorie und durch die DDR – Forschung bzw. durch den „Systemvergleich“. Die Gegenüberstellung der Marx’schen Staatsauffassung mit der Max Weber’schen Herrschaftssoziologie öffnete die Diskussionen hin zu W. I. Lenins „Staat und Revolution“ und zu Antonio Gramscis Interpretation von Machiavelli und der Sicht des „virtu“ und der „Hegemonia“, die die Legitimation von Opposition und Staat begründen sollten. Plötzlich wurden die Arbeiten von Carl Schmitt entdeckt und interessant, der zwar als Parteigänger der Militärdiktatur und der NS – Herrschaft galt und durch Georg Lukacs, Herbert Marcuse und Karl Löwith den Makel des Zerstörers der Demokratie und der „Vernunft“ erhalten hatte, trotzdem in seiner Charakterisierung des demokratischen „Parlamentarismus“, des „Politischen“ und der Fragen der „Legitimation“ von Staat und Opposition die Fragen ansprach, die durch Marx, Lenin und Gramsci nicht gelöst wurden: Wie gelang es der Staatsmacht oder einer „Führerpartei“, die Massen für die eigenen Ziele zu gewinnen und zu begeistern? Inwieweit gehörten die Feindmobilisierung, die „Ausnahmegesetze“ und die „Entscheidungsfähigkeit“ einer Regierung zur Grundlage der modernen „Staatlichkeit“? Konnte eine „ausserparlamentarische Opposition“ eine hegemoniale „Macht“ in den jungen Generationen entfalten und sich in einer „feindlich gesinnten Gesellschaft“ durchsetzen?
Radikalität und Faschismus
Aber nicht nur von der marxistischen Staatstheorie her wurde auf Carl Schmitt aufmerksam gemacht. Ralf Dahrendorf und Jürgen Habermas, die die soziologische Zwischengeneration zwischen der „jüdischen Emigration“, den ehemaligen „Wehrmachtsoffizieren“ und Professoren an der Universität, dem „Widerstand“, der soziologischen „Klassik“ und den neuen Dozenten verkörperten, diskutierten in den sechziger Jahren die westeuropäische und die deutsche Demokratiegeschichte. Habermas benutzte in seiner Darstellung von „Strukturwandel der Öffentlichkeit“ sogar die Schmitt’sche Parlamentarismuskritik und inspirierte eine rebellische Studentenschaft in ihrer Kritik der Parteienpolitik des Bundestages, der Medienkonzerne und der Rolle des Springerkonzerns in der Öffentlichkeit und der Gesellschaft. Über Schmitt wurde die Demokratiekritik radikalisiert und sie gewann in diesen Kreisen eine „anarchistische“ Interpretation. Habermas vollzog als „Vorbild“ und Ideengeber der Revolte im Juni 1967 deshalb einen Positionswechsel, indem er die Frage des „Linksfaschismus“ in die Debatte warf und von der Zerstörung der Errungenschaften der „europäischen Rationalität“ durch die unterschiedlichen Fraktionen der Studentenrevolte warnte.
Rudi Dutschke war für ihn ein typischer Vertreter des Neoanarchismus und des „Linksfaschismus“. Habermas wandte sich schnell dem Hegel’schen Staatsidealismus zu und benannte die „Notwendigkeit“ der Kommunikation und des sozialen Ausgleichs als Ausdruck des „positiven Rechts“ und der progressiven „Staatlichkeit“. Von Carl Schmitt wechselte er zum Rechtspositivismus von Hans Kelsen, dem theoretischen Gegner von Schmitt. Habermas entsprach dadurch dem Zeitgeist, die Politik der Sozialliberalen Koalition mit dem Auftrag der westlichen Zivilisation zu verbinden, sich gegen den „Extremismus“, gegen den östlichen „Sozialismus“ und gegen die faschistische bzw. nationalsozialistische Vergangenheit zu behaupten. Carl Schmitt stand plötzlich bei den „Marxisten“, bei der „Kritischen Theorie“ und innerhalb der „bürgerlichen Soziologie“ im Mittelpunkt der Auseinandersetzung.
Carl Schmitts Werk schien eine Parallelität in den Arbeiten von W. I. Lenin zu besitzen Dieser hatte in „Was tun“ und in der Schrift über den „Imperialismus“ den bolschewistischen Politikbegriff gegen die Sozialdemokratie und gegen den Liberalismus entworfen. Eine „Verfassungslehre“ wurde in den Schriften über „Staat und Revolution“ und über die Notwendigkeit des „Kriegskommunismus“ sichtbar. Die Schriften und Polemiken über den „Linksradikalismus“ als „Kinderkrankheit des Kommunismus“ enthielten Fragestellungen der Kritik der „politischen Romantik“ und der „Theologie“ bei Carl Schmitt. Lenin arbeitete situativ und interpretierte jeweils den Stand der sozialen Revolution oder der Transformation der Diktatur nach den Massgaben einer Ideologie, die als Weltanschauung theologische und religiöse Merkmale besass. Ähnlich ging Carl Schmitt vor, indem er die unterschiedlichen Umbrüche von Staat und Gesellschaft, des Kaiserreichs, der Militärdiktatur nach 1916, der Revolution und der Konterrevolution zwischen 1918 und 1923, der Weimarer Republik, der Notverordnungsdiktaturen 1930/1933, der Hitlerdiktatur 1933/1945, der Besatzungsdiktatur 1945/49 und der Bundesrepublik ab 1949 interpretierte, analysierte und „repräsentierte“. Als Gutachter und Jurist und als Vertreter des Ausnahmestaates rechtfertigte Schmitt jeweils die autoritären Eingriffe des zentralen Staates, die die Entscheidungsgewalt und die Souveränität des Staates begründen sollten.
Lenin und Schmitt waren durchaus vergleichbar. Lenin setzte sich für die zentrale Macht einer Diktatur und eines Planstaates ein, der sich allerdings aus der asiatischen Tradition des russischen Zarismus und des Polizeiterrors ableiten liess. Carl Schmitt begründete als katholischer „Konterrevolutionär“ den Ausnahmestaat und die Militärdiktatur, die jeweils den Bürgerkrieg beenden oder über die zentrale Entscheidungsgewalt in der Gesellschaft verfügen sollten. Schmitt diskutierte das geltende Recht als Machtfaktor. Für Lenin bildeten die zentralistische Partei und das hierarchische Entscheidungsprinzip von oben nach unten den Ausgangspunkt, Staat und Gesellschaft als Medium der Intervention der Berufsrevolutionäre einzuschätzen. Der Katholik Schmitt näherte sich ab 1933 dem nationalsozialistischen Führerstaat an und war von den Werten der NS – Ideologie beeindruckt. Nach Nikolai Berdjajev und nach Ernst Nolte inspirierte die bolschewistische Revolution und Politik den europäischen Faschismus und beeindruckte über Hans Rosenberg und Joseph Goebbels den Nationalsozialismus. Schmitt als Vertreter der katholischen Ordnungsprinzipien dieser Zeit verringerte durch seine Begeisterung für die NS – Ideologie die Distanz zum atheistischen Bolschewismus. Er blieb jedoch misstrauisch gegenüber dem „jüdischen Bolschewismus“. Wichtig war für ihn die „Diktatur“ als Ordnungsfaktor und Garant der sozialen und politischen Stabilität gegen die Entscheidungsunfähigkeit der parlamentarischen Demokratie und des Parteienstaates.
Die historischen Umbrüche und die juristische Anpassung Carl Schmitts an die neuen Aufgaben des Staates liessen sich mit der Gabe Lenins vergleichen, die politische Taktik der Bolschewiki auf die politische Lage zu orientieren. Ein derartiger Realitätssinn hatte vorerst nichts mit Opportunismus zu tun. Die „Verfassungslehre“, die Schriften über die „politische Romantik“, den „Parlamentarismus“ und die „Diktatur“, über den „Begriff des Politischen“, über die „Raumrevolution“ und über den „Nomos der Erde“ enthielten wie bei Lenin Ansätze einer modernen „Staatsphilosophie“, die vergleichbar wären mit den Arbeiten von Thomas Hobbes, Machiavelli, Hegel, Marx und Kelsen. Schmitt dachte über seine Zeit hinaus und entdeckte in Staat und Verfassung Tendenzen, die in die Zukunft wiesen. Schmitt argumentierte jedoch äusserst subtil „theologisch“ oder „ideologisch“. Als Advokat berief er sich auf die juristische Sprache und deutete die Gesetzeslage bzw. die Machtfaktoren, die in Recht und Verfassung sichtbar wurden.
Carl Schmitt als Ideologe und Wissenschaftler
Carl Schmitt hatte nach 1943 bereits deutlich gemacht, wie er sich selbst sehen wollte, welche Bedeutung und welche Grenzen er hatte. Nach seiner Überzeugung würde die deutsche Landmacht den „Weltbürgerkrieg“ verlieren und andere Verfassungsordnungen aus USA oder sogar aus Russland würden die deutsche Rechts- und Verfassungstradition überwinden und eine neue Politik und neues Verfassungsrecht begründen. Schmitt blieb bewusst, dass die neuen Welt- und Besatzungsmächte ihn zur Verantwortung ziehen würden. Er bereitete sich auf eine innere Emigration, auf einen „Prozess“ oder auf eine Haftzeit vor, denn er hatte in seinen Kommentaren und Rechtsgutachten drei gravierende Fehler gemacht, die das „universalistische Recht“ des Westens oder die „Prinzipien“ der Diktatur des Proletariats ihm ankreiden würden. Er hatte 1934 den Mord an seinen konservativen Freunden, General v. Schleicher, Edgar Jung und Klausner in der Schrift „Der Führer schützt das Recht“ gerechtfertigt. Sie wurden bei den Aktionen von GESTAPO unnd SS im „Röhmputsch“ umgebracht. Auf einem Kongress gegen das „Judentum in den Rechtswissenschaften“, den er in Berlin an der Universität organisiert hatte, hatte er 1936 den jüdischen Rechtsgelehrten jegliche Kapazität und Konsistenz abgesprochen und sie aus der deutschen Rechtstradion ausgeschlossen. Fast zum gleichen Zeitpunkt rechtfertigte er den „Führerbefehl“ und wollte ihn in das Strafgesetzbuch des Reiches aufnehmen, um den inneren „Feind“ direkt zu bekämpfen und zu liquidieren. Der Jurist Schmitt hatte die pure Willkür und den Staatsterror zum Prinzip des Führerstaates erhoben.
Jetzt, 1943, vollzog er einen Rückzieher und bereitete seine Verteidigung gegen die westlichen oder östlichen Ankläger vor. Nach seiner Überzeugung war der „wissenschaftliche Jurist“ kein „Theologe“ und kein „Philosoph“. Allerdings war er auch keine „blosse Funktion“ des „gesetzten Sollens“. Er wehrte sich gegen eine „subalterne Instrumentalisierung“. Gegen den philosophishen und theologischen Anspruch und gegen die Unterwerfung des Juristen zum „Funktionsträger“ und „Staatsdiener“ wollte er sich als „Wissenschaftler der Jurispondenz“ behaupten. Hier lag seine „geistige Existenz“. Er musste sich als Denker und Wissenschaftler bewähren, obwohl die unterschiedlichen Ordnungen, Machtwechsel und Staaten unterschiedliche Anforderungen an ihn stellten. In diesen „wechselnden Situationen“ wollte und musste er die Grundlagen eines „rationalen Menschseins“ definieren und feststellen. Die „Prinzipien des Rechts“ mussten in den Umbrüchen vom Kaiserreich zur Weimarer Republik, von dieser Republik zur NS Diktatur und von der Diktatur zur Bundesrepublik bewahrt werden. Zu diesen „Prinzipien“ zählte Schmitt die gegenseitige Achtung und Anerkennung des Juristen und Wissenschaftler als „Person“. Der „Sinn für Logik“, die „Folgerichtigkeit der Begriffe und Institutionen“, der „Sinn für Reziprozität“ und für das „Minimum eines geordneten Verfahrens“ und einen „due process of law“, ohne den es kein Recht geben würde, sollten weitere Kriterien der objektiven Rechtsanwendung sein. Es kam ihm darauf an, den „unzerstörbaren Kern des Rechts“ zu erhalten. Darin lag die „Würde“ des Juristen, dieses „Minimum“ in allen Systemen und Staaten einzuklagen. (Carl Schmitt, in: „verfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1985 (3. Auflage), S. 385, 442)
Schmitt selbst stellte sich als ein „situativer Denker“ vor, der je nach Lage, den Staat beriet und Gutachten anfertigte, jedoch auf „Objektivität“ und „Rechtsausgleich“ bestand. Dabei wollte er den „unzerstörbaren Kern des Rechts“ einhalten und sich je nach Institution um den rechtslogischen „Begriff“ und um die „Wiederholbarkeit“ und „Logik“ des Verfahrens kümmern. Neben der opportunistischen Anpassung an den Zeitgeit und die Macht des Staates musste der Jurist seine „geistige Existenz“ und seinen „Anspruch des Rechtsgelehrten“ verteidigen. Schmitt konnte, wurden diese Zeilen auf den juristischen Stand angewandt, als Exponent seiner Generation und der juristischen Wissenschaften erklärt werden. Der Seinsgrund seines Denkens entsprach dem politischen Wechsel und den unterschiedlichen Situationen. Trotzdem mussten die Widerstände nachweisbar sein, die der Jurist gegen die Willkür und den Staatsterror entwickeln würde. Mit vielen anderen Wissenschaftlern, Ideologen, Philosophen und Juristen genügte er jedoch dem Karriereangeboten der unterschiedlichen Staatsformen und wollte sich der jeweiligen Staatsmacht andienen. Zugleich musste er die unterschiedlichen Wendungen vor seinen wissenschaftlichen und moralischen Ansprüchen legitimieren, verarbeiten und interpretieren.
In den Arbeiten von Reinhard Mehring: „Carl Schmitt, Aufstieg und Fall, eine Biographie“, München 2009, Bernd Rüthers, Carl Schmitt im Dritten Reich, München 1990 und Heinrich Meier: „Die Lehre Carl Schmitts“, Stuttgart 1994, wurde dieser Selbstbespiegelung widersprochen. Allerdings wurde Carl Schmitt in Nürnberg nach 1945 freigesprochen. Ossip K. Flechtheim, amerikanischer Ankläger, Offizier und später Professor an der Freien Universität, zugleich Mentor und Beschützer des SDS, redete später davon, dass ein „Voltaire“ nicht in die Strafanstalt geschickt werden konnte. Schmitt wurde allerdings von der Lehrtätigkeit an einer Universität ferngehalten. Jacob Taubes, Philosophieprofessor und Religionswissenschaftler an der FU, nahm zu diesem konservativen Theoretiker und Juristen Schmitt Kontakte auf, um mit ihm die „Raumrevolution“ der Zukunft und die „Theorie des Partisanen“ zu diskutieren. Derartige Ideen erreichten den Republikanischen Club und den SDS.
Carl Schmitt erschliesst sich uns heute als Charakter und Generationstyp durch die soziale Herkunft, durch den sozialen Aufstieg, durch das Milieu und durch die Institutionen, in denen er sich bewegte und arbeitete. Die Verbindungen zum wohlhabenden Onkel und später zu den Vorgesetzten, Lehrern und Professoren gaben ihm Impulse und Orientierung. Die Freundes- und Kollegenkreise und der Einfluss der Mentoren und Ideengeber bezeichneten die Situation und den sozialen Hintergrund von Aufstieg. Sie wurden bis auf Ausnahmen bei jedem Karriereschritt ausgetauscht und durch neue Kreise und Verbindungen ersetzt. Die Institution der Universität, des Staates oder des Militärkommandos, der Verbindungen oder der „Partei“ wiesen Hindernisse und Potentiale auf, die Schmitt jeweils erkennen musste, um sich behaupten zu können. Er musste allerdings seine Intelligenz, zugleich seine Anpassungsfähigkeit und seinen juristischen Geist als Gutachter und Textschreiber unter Beweis stellen. Primär durch Leistung, durch „geniale Ideen“, Fleiss und Beweisführungen, durch Anpassung und Subsumtion unter Personen und Ideen fand er die Anerkennung seiner Vorgesetzten und seiner Förderer und konnte dadurch den Weg nach oben nehmen. Diese Nähe zu den informellen Hierarchien und Entscheidungsträgern und die Leistungsfähigkeit des Juristen Schmitt erklärten den Aufstieg als Fachberater und Wissenschaftler, der als Gutachter bei den unterschiedlichen Gremien, Stabsstellen und später Regierungen oder Ministerien auftrat und als Porfessor Anerkennung finden konnte. Sowohl die kleinbürgerliche Herkunft und die künstlerische Begabung erzeugten bei Schmitt den „Willen“ und eine spielerische Bereitschaft, die unterschiedlichen sozialen und funktionalen Barrieren zu überwinden. Der „Drang“ in eine andere Schicht aufzusteigen, „richtiges Geld“ zu verdienen und zu Wohlstand zu gelangen, beschrieb eine wichtige Seite des Charakters dieses Juristen. Seine Intellektuellität und die Begabung, vor allem sein künstlerisches Talent, gaben ihm die Fähigkeit, Texte zu formulieren und Ideen zu entwickeln, die gut juristisch fundiert waren und hinausgigen über die Fachsprache oder die gängigen Dispute.
Diese Selbstbehauptung war typisch für Carl Schmitt. Dadurch entsprach er einer Zeitfigur, einem Typus von Juristen und Experten, einer bestimmten Physiognomie und „Maske“, die innerhalb der deutschen Intelligenz zwischen 1914 und 1945 und nach dem „Zeitbruch“ tausendfach zu finden war. Seine Begeisterung für die NS- Diktatur kam aus der Überzeugung einer funktionalen Intelligenz, dass die „nationale Revolution“ und die Ausschaltung der „Marxisten“ und „Juden“ den Weg an Universität und Staat für sie selbst freigab, in neue und lukrative Funktionen zu kommen. Ausserdem war er von der Durchschlagkraft dieser Führerdiktatur überzeugt, die eine Neuordnung Deutschlands und Europas einleiten würde. Die NS – Ideologie begeisterte und trug das Ziel, für eine längere Periode die neue Macht zu sichern. Dieser „Kulturbruch“ bzw. politische „Umsturz“ und die Öffnung der Staats-, Kultur- und Wissenschaftsapparate nach 1933 machten auch Carl Schmitt blind, das „Hintergründige“, das „Extreme“, den „Vernichtungswillen“, den Niedergang dieser Führerdiktatur oder die Niederlage im Krieg überhaupt zu bedenken. Er redete im NS – Jargon und steigerte sogar den Antisemitismus in die Überzeugung, dass ihm vorerst nichts passieren konnte. Er wurde deshalb zum willfähigen Diener dieser Diktatur, die zugleich die Grundlage seines Erfolgs abgeben sollte. Erst als die SS Professoren aus dem „Schwarzen Korps“ und der „Sicherheitsdienste“ ihm die Grenzen zeigten, und er an seinen „konservativen Katholizismus“ und an seine „Judenfreundlichkeit“ in „Weimar“ erinnert wurde, wurde er vorsichtig und er kehrte zurück zum subtilen und feinfühligen Opportunismus seiner frühen Jahre. Der juristische, wissenschaftliche Ansatz erlangte erneut ein Primat.
Die genialen Visionen, die Carl Schmitt entwickelte, kamen aus diesen Zeitbrüchen nach 1918 und nach 1942. Diese Weitsichten gaben ihm die Grösse der historischen Staatsphilosophen. Als Vertreter der Militärdiktatur setzte er auf einen zentralen Staat, der die eindeutige Befehlsgewalt über einen Generalstab oder über einen Präsidenten aufwies. Er kritisierte den Liberalismus und Parlamentarismus als Methode der Zersplitterung, des Zerfalls, der Relativierung, der Geheimdiplomatie und der Machenschaften der Cliquen und Klüngel und er hatte das Thema der „politischen Romantik“ und der „Lage des Parlamentarismus“ gefunden. Die Diktatur als Entscheidungsgewalt und Definitionsmacht des inneren und äusseren Feindes erlaubten ihm, eine „allgemeine Verfassungslehre“ und den „Begriffs des Politischen“ allgemein zu definieren. Schmitt nahm durch diese Schriften den Niedergang der Weimarer Republik vorweg. Nach der Niederlage der Wehrmacht in Stalingrad 1942 und nach der Landung der Westalliierten in Marokko und Sizilien wandte er sich der Thematik der „Landnahme“ zu. Die NS- Diktatur würde zerschlagen werden. Europa und vor allem Deutschland würde in der Zukunft von den Seemächten USA und England bestimmt werden. Sie würden die Grundlagen von Politik, Verfassung und Recht legen. Der „Nomos“ und die Theorie der „Raumrevolution“ erblickten das Licht der Welt.
Die Diktatur in der bürgerlichen Demokratie
Carl Schmitt musste primär als Jurist, Advokat und zugleich als ein moderner Denker gesehen werden, dessen Analysen noch heute aktuell sind, weil sie richtige Fragen aufwerfen. Dadurch bestätigte er die „Politisierung“ der Sozialwissenschaften. Ihre juristische Erschliessung konnte zwar ideologische Einflüsse nicht überwinden, trotzdem enthielt sie objektivierende Ansprüche und zeigte sich als Mittel und Methode, den Zustand von Staatsmacht, Recht und Verfassung zu ergründen. Wer würde sich in den Machtkämpfen durchsetzen? Worin lag das Ziel des Staates? Würde die finanzkapitalistische Weltmacht USA über die NS – Raummacht oder den realen „Sozialismus“ Russlands triumphieren oder würden nach dem weltpolitischen Sieg der USA neue Machtzentren, etwa in China sich herausbilden, die das Völkerrecht oder die internationale Raumpolitik umdefinieren würden?
Die theoretishen Denktraditionen und Vorbilder dieses Juristen sind deshalb zu benennen. Sie gipfelten nicht etwa nur in den Bezügen zu Machiavelli oder zum spanischen Konterrevolutionär Donosso Cortes. Schmitt entwickelte eine feinfühlige Marxismuskritik, die sich auf Max Stirner und auf die Lebensphilosophie von Soren Kierkegaard bezog. Schmitt übernahm die Kritik am „massiven Rationalismus“ der materialistischen Theorie, die alles Denken als Funktion und „Emanation vitaler Vorgänge“ auffasste. Durch diesen Rückzug auf logische, mathematische, naturwissenschaftliche und ökonomische „Gesetze“ und Vorgänge in der Gesellschaft schlug dieser Materialismus in eine „irrationale Geschichtsauffassung“ um. Sie blendete wichtige politische, humane und soziale Zusammenhänge aus. Sie wurde zu einem sinnlosen „Funktionalismus“, der alles zu erklären schien, trotzdem aktuelle und konkrete Zeitgeschichte nicht aufnehmen und deuten konnte. Selbst Georges Sorel mit seinem Gespür für mythologische Vorgänge in der Gesellschaft durch das weite Spektrum von Gewalt und Macht fand bei Schmitt keine Anerkennung, solange er an der Marxschen Theorie des „Klassenkampfes“ festhielt.
Schmitt gewichtete die Kriegspolitik des internationalen „Finanzkapitals“ vor 1914 und nach 1918, das auf Eroberung, Herrschaft, Unterwerfung, Vormacht und Diktatur drängte, mit Geld operierte und manipulierte, um die „Fremdherrschaft“ und die „Unterdrückung“ der Völker in Europa einzuleiten. Die deutsche und europäische Kultur sollte nach Schmitt im I. Weltkrieg und durch den Versailler Vertrag zerschlagen und grundlegend umgewertet werden. In dieser historischen Kriegserklärung entstand eine „Feindschaft“, die so einfach nicht zu erkennen war und deshalb verharmlost wurde, jedoch gegen die deutsche und europäische Substanz von Kultur, Recht, Verfassung und Staat gerichtet war. Dieser „Feindbegriff“ würde das „Wesen einer Epoche“ bestimmen. Er besass einen politischen Anspruch von dominierender Macht und Herrschaft. Dieser „Feind“ verfolgte das Ziel, den Willen des deutschen Staates zu brechen und das Volk und die Eliten zu zermürben. Er unterminierte den Widerstandswillen. Er war enthalten in den unterschiedlichen Ideologien. Gab sich unerkennbar, verschleierte und verdrängte den Anspruch auf Vormacht. Nicht die Ökonomie als „Funktion“ und Grundlage von Gesellschaft war wichtig, sondern die Feindbestimmung wurde bedeutsam und liess sich über das Völkerrecht, internationale Verträge und politische Auflagen und Bündnisse entschlüsseln. Schmitt hatte sein Thema und seinen Ansatz gefunden, über die Rechts- und Staatsanalyse den „Feindbegriff“ zu thematisieren und zu ergründen.
Machiavelli wurde dadurch zu einem Vordenker und Vorbild für ihn, denn er bestimmte die Staatstypen über den stattfindenden Bürgerkrieg in Norditalien des späten Mittelalters. Daraus ergab sich, daß die Stadtrepubliken sich jeweils nur als Diktaturen, „oligarchische Demokratien“ oder Herrschaftsformen erhalten konnten, in denen bestimmte Familien, Parteien, Machtgruppen oder Geheimgesellschaften dominierten. Allerdings benötigten derartige „Republiken“ oder „Diktaturen“ die Anerkennung durch das Volk, wollten sie „Kontinuität“ bewahren und sich längere Zeit gegen die Feinde behaupten. Eine derartige „Legitimation“ wurde über die Propaganda und die Mobilisierung des Volkes gegen vermeintliche oder echte Feinde erreicht. Der Staat als „Fürst“ oder „Macht“ musste die zentrale Entscheidungsgewalt gegenüber den demokratischen Gruppen und Institutionen behaupten und er erlangte eine unbedingte Souveränität, konnte er ein Gleichgewicht im potentiellen Bürgerkrieg herstellen und über die Ausnahmesituation verfügen. Der entstehende, moderne Staat liess sich nicht aus einem „Gottesgnadentum“, dem Auftrag der christlichen Religion oder einer überhistorischen Mission der Fürsten, Könige oder „Familien“ ableiten. Der Staat liess sich auch nicht aus den Aufgaben eines „Weltgeistes“ erklären. Er wurde nicht über das positive Recht definiert, das als abstraktes Postulat Gerechtigkeit und den „ewigen Frieden“ herstellen würde. Der „amtierende Staat“ war auf keinen Fall der „Überbau“ der ökonomischen und kapitalistischen Entwicklung. Er folgte dem Auftrag, sich gegen den „Feind“ zu behaupten, der seine Grundlagen zerstören und das Volk in Elend und Not treiben würde. „Feindschaft“ zeigte sich als „Kulturbegriff der Umwertung und der Dekadenz“. Sie würde Wirtschaft und Handel, Staat und Politik zersetzen, zerstören und in den Ruin treiben. Sie unterminierte den Stolz und der Widerstandwillen der Eliten und Völker.
Hier folgte Schmitt den Überzeugungen von Max Weber. Eine Analyse der vorherrschenden Herrschaftsformen, die sich aus der „Tradition“, dem rationalen Aufbau von Wirtschaft und und Staatsbürokratie ergaben und dem charismatischen, mystischen Führungsansprüchen historischer Persönlichkeiten folgten, liessen sich nur bedingt ökonomisch, psychologisch, religionswissenschaftlich oder soziologisch erklären. Sie benötigten die „Machtanalyse“ über Recht und Verfassung. Bei dieser Vorgehensweise wurde deutlich, dass Schmitt seine Ideen wie ein Dramaturg in die historischen Vorbilder, Hobbes, Machiavelli, Hegel, Weber u. a. projizierte, um sie in seinem Sinn erfolgreich zu zitieren. In dieser Vorgehensweise unterschied er sich kaum von anderen Wissenschaftlern. Er gab jedoch dadurch zu erkennen, dass er selbst einen „Weltplan“ anerkannte, der nicht über die idealistische Philosophie, nicht über eine Utopie oder das positive Recht begründet werden konnte. Er war enthalten in den Zielen der feindlichen Weltmacht, die als Leviathan die Landmacht Behemoth besiegen wollte.
Nach Schmitt wurde die „bürgerliche Gesellschaft“ über die nordamerikanische Unabhängigkeit und über die Französische Revolution begründet. Sie wurde schnell in die Abhängigkeit zur Geldaristrokratie gebracht und enthielt keinerlei Ziel, Wahrheit, Leidenschaft oder Heldentum. Sie bewegte sich je nach „Lage“ zwischen den sozialistischen Ideen und der politischen Reaktion, akzeptierte die Geldmanipulationen, verkam in den entscheidungslosen Diskussionen zur labilen, schwachen Macht und zerredete jedes Engagement, jede Entscheidung und zerstörte dadurch die „Staatlichkeit“. Der „demokratische Staat“ zeigte sich offen für derartige Manipulationen und leitete über den Parlamentarismus die Selbstaufgabe der bürgerlichen Gesellschaft ein. Die Mittelklassen lösten sich auf. An der Spitze agierten die Milliardäre der Finanzspekulation. Unten verkam das pauperisierte Volk in Dekadenz, Kriminalität und Armut.
Dagegen behauptete die „Theologie“ der Gegenrevolution den Schöpfungsgedanken und die Hierarchie einer katholischen Ordnung, die die Einheit der Welt und die „Menschgeltung“ nach christlichen Werten restaurieren wollte. Das biologische Mass des Menschen wurde anerkannt, jedoch durch das Gottesgebot gehegt. Eine derartige Ordnung besass keinen „rationalen Aufbau“, folgte nicht dem „Profit“, sondern besaß eine menschliche, katholische Disposition. Reformation, Atheismus, Utopismus und Liberalismus lieferten die Gesellschaft an die Interessen der Geldaristrokratie und der Spekulanten aus, die ihre „Demokratie“ als potentielle und unfassbare „Diktatur“ einrichteten. Die Lobbygruppen der Geldmanager bestimmten Parteien und Regierung.
Schmitt sympathisierte mit der „katholischen Reaktion“ eines Donosso Cortes und machte deutlich, dass er die bürgerliche Ordnung primär als eine Art „Verschwörung“ betrachtete. Er konnte diese einseitige Festlegung über die Verfassung, das geltende Recht und das Strafgesetzbuch belegen. Die Ausnahmegesetze sicherten der „politischen Klasse“ die Macht. Trotzdem blieb bedenklich, eine juristische Staatssicht des „Liberalismus“ als eine pure Manipulation oder Verschwörung zu sehen. Schmitts „Theologie“ kannte als Alternative zur „bürgerlichen Demokratie“ die Militär- oder Präsidialdiktatur, weil der Soldat oder der Beamte fähiger und toleranter zu sein schien als der liberale Macher und Manipulateur. Das machiavelistische „Virtu“ wurde durch Schmitt als Verantwortungsethik, Kapazität, Überzeugung und Willen übersetzt und einer bestimmten Schicht und Religion zugeschrieben. Schmitt wurde bestätigt bei der Reichswehr oder bei den katholischen Reichskanzlern der Weimarer Republik. Sogar das Bündnis zwischen Wehrmacht, NSdAP, Industrie und konservativer Staatsbürokratie schien noch diesen „Willen“ zu enthalten. Er zersprang bereits mit dem Machtantritt Hitlers 1933 und nach 1939 und 1941 in dem Augenblick, wo der Krieg in einen totalen Technikkrieg gesteigert und der Terror gegen den „inneren Feind“ forciert wurde.
Die Analyse von Marx über die bürgerliche Gesellschaft im Bürgerkrieg in Frankreich und Nordamerika kam zu ähnlichen Resultaten wie Schmitt. Sie enthielt über die staatliche Zentralbürokratie, Verfassung und Recht die innere Tendenz zur Diktatur. Marx analysierte die Rolle des Finanzkapitals in Frankreich und USA und kam zum Ergebnis, dass dieses „Kapital“ als Geld- und Zentralmacht den zentralen Staat über den „Präsidenten“ fügen und kontrollieren wollte. Es finanzierte die aufwendigen Wahlkämpfe und es unterstützte die Regierungen, sich gegen demokratische Kontrollen abzusichern. Es finanzierte die Rüstung und war an Kriegen interessiert, um Raum und Markt für die Finanzspekulationen zu erweitern. Das Finanzkapital nahm die Währungen, die Rohstoffe, die Industrie, die Immobilien, den Handel zum Objekt und verwandelte sie in die Derivate, Aktien oder Anleihen. Nur als internationale Macht konnte es sich behaupten und bildete gegenüber dem Nationalstaat einen internationale, staatsähnliche Macht, die die Bedingungen von Wirtschaft und Politik diktieren würde. Nach Marx enthielt das Finanzkapital sozialistische Prinzipien der Planung, der Zentralisation, der Arbeits- und Konjunkturpolitik, um sie allerdings „privat“ umzusetzen. Dadurch wurde es zur Macht der Zerstörung und zum „Feind“ gesellschaftlicher Ziele, um über Zerstörungen neue Methoden und Mittel des „Aufbaus“ und der Spekulation zu finden. Krieg und Chaos waren in diesem finanzkapitalistischen System vorgegeben. Es bedeutete die „negative Aufhebung“ des Kapitalismus auf „kapitalistischer Grundlage“ und war an Diktatur und Krieg interessiert. Es zerstörte die „bürgerliche Gesellschaft“ und zielte auf die „soziale Paralyse“ und den Polizeistaat, denn diese Politikformen erleichterte die Regentschaft der wenigen Milliardäre über die Masse der Völker. Für Marx bildete allerdings die „proletarische Revolution“ und die „Diktatur des Proletariats“ als „Negation der Negation“ die Alternative.
Lenin dachte ähnlich wie Schmitt und Marx über die demokratische Republik. In seiner Imperialismusschrift und den Vorarbeiten dazu diskutierte er die Rolle der Banken und des Finanzkapitals bei der Organisierung der Monopole und Trust. Ihr Einfluss auf den Staat und die imperialistische Kriegspolitik wurde unterstrichen. Die „Fäulnis“ und die „Dekadenz“ der politischen Eliten war für Lenin Anlass, nach seiner Rückkehr im April 1917 nach Petrograd auf den bolschewistischen Aufstand zu drängen. Er hatte keinerlei Bedenken, sich die Durchfahrt von der Schweiz nach Russland durch Deutschland durch den deutschen Generalstab „gewähren“ zu lassen. Die „Provisorische Regierung“ und ihre Parteien zeigten sich unfähig, den Krieg mit Deutschland zu beenden, obwohl die Arbeiter und die unzähligen Bauernsoldaten kriegsmüde waren und desertierten. Das Entente – Kapital und hier wieder die finanzkapitalistischen Investoren der Kriegsindustrie bestanden auf der Kriegsbereitschaft Russlands, um die deutschen Truppen in einem Zweifrontenkrieg endgültig niederzuringen. Der „bolschewistische Sturm“ auf das Winterschloss hatte die symbolische Kraft, die bürgerliche Regierung auszuschalten und zu verhaften und die Auflösung der Front einzuleiten und Frieden mit Deutschland zu schliessen. Die Oktoberrevolution fand lediglich in zwei, drei Grosstädten statt, hatte jedoch das Echo im weiten Land, in den unzähligen Landumverteilungen und in den Streiks der Arbeiter. Die „Fäulnis“ hatte die herrschenden Eliten machtunfähig gemacht. Der republikanische Staat wurde durch die Revolutionäre zerschlagen und ersetzt durch die unterschiedlichen Initiativen, eine „Rote Armee“ zu fügen, die „Tscheka“ einzusetzen und eine kriegskommunistische Umverteilung und soziale „Reproduktion“ zu organisieren. Die Bolschewiki wollten im entstehenden Bürgerkrieg eine organisatorische und waffentechnische Überlegenheit erreichen. Aus diesen „Organen“ entstand eine neue Variante der asiatischen „Staatlichkeit“.
Das „Revolutionäre“ dieser Oktoberrevolution stammte aus dem wachsenden Chaos. Die Organisationskraft der Bolschewiki, die zentrale Propaganda und der Einsatz der „Produktivkraft“ des Terrors gegen Sozialdemokratie, Liberalismus, Konservatismus und das „alte Russland“ nahmen diesen revolutionären Schwung auf. Die „Massen“ folgten einem „Glauben“ der Erlösung. „Stenka Razin“ erlebte eine historische „Auferstehung“. Lenin interpretierte diese Eigendynamik einer Revolution und zog erst dann die Notbremse, als die Selbstzerstörung der Revolution einsetzte. Schmitt, der sicherlich die Leninschriften kannte, verglich die Situation seit 1929 in Deutschland mit dem Jahr 1917 in Russland, so die Vermutung. Nach Lenins Überzeugung waren die wachsende „Fäulnis“ und die „Selbstparalyse“ einer Gesellschaft Bestandteil der Profitsucht der finanzkapitalistischen Milliardäre und ihrer Zuhälter. „Fäulnis“ bezeichnete den Gegensatz zur Verantwortungsethik oder zum „virtu“ einer produktiven Machtelite. Eine fatale Gesinnung der Mächtigen steckte die ganze Gesellschaft an und trieb sie in die Lethargie und in den inneren Zerfall. „Revolution“ bedeutete Erneuerung und den radikalen „Austausch“ der Eliten, die nun aus den unverbrauchten, jungen Generationen kamen.
Der Triumph des „Leviathan“
Schmitt unterschied in seiner Kritik des Völkerrechts und des Varsailer Vertrages generell zwischen der Landmacht Behemoth und der Seemacht Leviathan. Für ihn gab es zwei grundverschiedene Rechtssysteme, die jeweils bei der europäischen Landmacht angesiedelt waren und die ihre Wurzeln in der Seemacht Englands oder der USA hatten. In der Landmacht, so seine These, wurzelt alles Recht auf einem „bodenhaften Urgrund“, in dem Raum und Recht, Ordnung und Ortung zusammentrafen. Die Seemacht kannte keine festen Beziehungen. Je nach Macht und Situation wurde das Recht umgeschrieben und es diente den Mächtigen als eine vorläufige Legitimation, bis die nachfolgenden Mächtigen ihr neues Recht verkündeten. Vor allem in der Auseinandersetzung mit Thomas Hobbes begründete Schmitt dieses doppelte Weltrecht.
Der Völkerbund und das Völkerrecht schrieben nach 1918 den Versailer Vertrag fest und sicherten den bestehenden „Besitzstand“. Im Völkerbund wurde nicht Recht oder Gerechtigkeit vertreten, sondern die historische Entwicklung und die bestehende Machthierarchie zwischen den Staaten und Völker festgeschrieben. Es wurden Verträge geschlossen, die bei nächster Gelegenheit gebrochen wurden. Die Souveränitätsansprüche der Mittelmächte und Russlands wurden eingeschränkt und das Völkerrecht fragmentiert und in Ost- und Zentraleuropa in eine Vielzahl von Sonderzonen und Gebietsforderungen aufgelöst. Die Eigenstaatlichkeit wurde durch internationale Verträge relativiert und zugleich durch die Forderung der Freiheit der Meere und der Rohstoffe der Zugriff der Seemächte gestärkt. Die Gültigkeit des Völkerrechts kannte keinerlei Rechtslogik und war nicht einer allgemeinen Moral verpflichtet, sondern fügte sich dem Gewohnheitsrecht oder wurde von der us – amerikanischen Grossmacht je nach Situation interpretiert. Die Moroedoktrin, die die Freiheit des Handels einklagte und die Freiheits- und Menschenrechte gegen den katholischen Imperialismus Spaniens und Portugal einforderte, wurde nach 1918 auf Europa übertragen und sollte den Landmächten Deutschland und Russland die Souveränität nehmen und ein vages Interventionsrecht begründen.
Die Landmächte sollten ihre innerstaatliche Souveränität verlieren und sollten von aussen durch das Völkerrercht begründet werden. Der demokratische Willen der Völker wurde dadurch ignoriert oder aufgelöst und den Seemächten ein politischer Eingriff garantiert. Über internationale Verträge oder Bündnisse, Absprachen, Abkommen wurde das natioanle Recht ausgehöhlt und den einzelnen Staaten die Souveränität genommen. Internationale Gremien, durchaus anonym, nicht durch Wahlen legitimiert, unkontrolliert, übernahmen die Aufgabe, sich in die inneren, nationalen Belange der Einzelstaaten einzumischen. So entstand eine bürokratische Diktatur, die im Auftrag des internationalen Finanzkapitals agierte, jedoch vollkommen unabhängig war von der demokratischen Kontrolle der Völker und Wähler. Selbst die nationalen Regierungen hatten ihren Direktiven zu folgen. Es fällt auf, dass Schmitt die Vorbehalten gegen den westlichen Liberalismus und das Finanzkapital auf die Staatsform und den „Imperialismus“ der Seemächte übertrug. Allerdings schien ihm die strikte Analyse der Vertragsformen und des Völkerrechts Recht zu geben, obwohl die positive und negative Idealisierung dieser zwei Staatstypen sichtbar war.
Nach 1939 nahm Schmitt diese Kritik aus den zwanziger Jahren auf. Jetzt reduzierte er die bisherige „Weltgeschichte“ auf eine Geschichte des Kampfes der Seemächte gegen die Landmächte. Die Welt zerfiel in zwei Lager, die jeweils unterschiedliche Wirtschaftsformen, Gesellschaftstypen, Staatsstrukturen und Rechtsnormen aufwiesen. 1941 kommentierte Schmitt die Atlanticcharta, die durch den amerikanischen Präsidenten Roosevelt und den englischen Premier Churchill aufgestellt wurde und die eindeutig gegen die NS – Diktatur in Deutschland gerichtet war, die sich jedoch auf Russland und später auf China übertragen liess. Schmitt veröffentlichte bei Reclam in Leipzig drei Aufsätze zu diesem Thema: „Das Meer gegen das Land“, „das neue Problem der westlichen Hemisphäre“ und „Land und Meer“. Die alliierten Konferenzen in Casablanca, 1943 und in Teheran und Yalta, 1945, die die bedingungslose Kapitulation Deutschlands festschrieben, schienen ihn zu bestätigen. Die USA würden Westeuropa und Deutschland besetzen und in einer „Landnahme“ rechtlich und politisch umwälzen und nach dem Vorbild der USA gestalten. Nicht primär Europa wurde von dieser Umwälzung betroffen. Die ganze Welt sollt nach der Perspektive des Leviathans geordnet werden. In der „Marinerundschau“ vom August 1943 gab Carl Schmitt dieser weltpolitischen Tendenz in dem Aufsatz über „die letzte globale Linie“ Ausdruck.
Es interessiert, ob nicht die Landmächte Deutschland und Russland, die ihre Verfassungen der NS – Diktatur geöffnet hatten bzw. der bolschewistischen „Revolution“ keinen Widerstand entgegensetzen konnten, ob diese Landmächte, die als Rechts- und Verfassungsstaaten sich dem politischen Massnahmestaat unterwarfen, ob diese Landmächte nicht notwendig ersetzt werden mussten durch das nordamerikanische Prinzip von Verfassung und Politik. Bei Schmitt klingt wiederum eine „Verschwörung“ an. Deutschland und Russland als Militärmächte, Planstaaten und Diktaturen konnten ihre Ambitionen von „Raumpolitik“ und „Weltmacht“ nur über den Massenterror und durch den totalen Krieg eröffnen und scheiterten letztlich an der USA bzw. an der Taktik, Russland gegen Deutschland in Front zu bringen. Nach 1945 wurde auf West- und Zenraleuropa das amerikanische Prinzip von Politik, Medienmacht, Demokratie und Verfassung übertragen. Es garantierte den Zugriff der nordamerikanischen Grossmacht auf die Innenpolitik der europäischen „Volksparteien“ und Staaten. Nach 1989 wurde Russland und Osteuropa diesem Prinzip unterworfen. Widerstand würde entweder in Fernost, in China oder in den islamischen Republiken entstehen, die die Wurzeln der Landmacht konservierten. Daneben entstand im Volk die Idee des „Partisanen“, sich gegen die wachsende Dekadenz, gegen die Armut, das Verbrechen und die Willkür zu wehren. Schmitt erinnerte in diesen Überlegungen an Marx, der eine „negative Dialektik“ kannte, die seiner Utopie des Fortschritts widersprach. Negative Zuspitzungen von Krisen, Chaos und Krieg kannten den Widerspruch und den Widerstand, die sich zusammenführen liessen aus den Resten von Tradition und Überlebenswillen der einzelnen Eliten und Völker.
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mardi, 24 septembre 2013
Über Othmar Spann
Über Othmar Spann
von Michael Rieger
Ex: http://www.sezession.de
Als »Nazi« verdammt, darf der Wiener Nationalökonom und Sozialphilosoph Othmar Spann (1878–1950) als aus der Geistesgeschichte getilgt gelten. Otto Neurath – Positivist, Austromarxist – ließ 1944 keine Zweifel: Sicher sei Spann ein Nazi.
Seine Mißhandlung durch die Gestapo wie das Lehrverbot könnten nur das Ergebnis einer »Abweichung« sein, schließlich hätte Spann einen »nationalen Totalitarismus« gepredigt, »schlicht und einfach«. Schlicht und einfach liegen die Dinge selten und bei Spann, der »in der Spur Schellings … inmitten der Moderne … den Universalismus und Theozentrismus des christlichen Denkens zu rekonstituieren« suchte (Ernst Nolte), schon gar nicht. Man darf sogar von einer unverminderten Bedeutung dieses »zu Unrecht Vergessenen« (Kurt Hübner) sprechen.
Doch Schnittmengen bleiben: Die Bücherverbrennung war Spann »ein Ruhmesblatt der nationalsozialistischen Umwälzung«; die deutschen Juden wollte er in Ghettos sehen. Aber er verurteilte den biologistisch-rassistischen Charakter der »NS-Judenpolitik«, um deren fatalen Kurs durch eine naive wie mutige Intervention zu verändern – im September 1935, lange nach dem »Röhm-Putsch« und kurz nach den »Nürnberger Gesetzen«, einer der letzten Versuche konservativ-revolutionärer Selbstbehauptung. »Schlicht und einfach«?
Am 23. Februar 1929 kritisierte Spann die »unwürdigen« NS-Aufmärsche, was dem im Münchner Audimax anwesenden Adolf Hitler nicht eben gefiel. Am 9. Juni 1933 erteilte der Wiener Professor der Confederazione Nazionale Fascista del Commercio Nachhilfe: Seit 1929 praktizierte man in Rom staatlichen Dirigismus, Spann warb für das Gegenteil, eine ständisch-dezentralisierte Wirtschaft. Ähnliche Kritik hielt er, vom Hitler-Förderer Fritz Thyssen unterstützt, auch für das Deutsche Reich parat, dabei der Fehleinschätzung erlegen, die Entwicklung mitprägen zu können. Als man den Spann-Kreis 1938 eine »Gefahr für die gesamtdeutsche Entwicklung« nannte, wußten Hitler und Rosenberg längst um die Unverträglichkeit ihrer totalitären Ansprüche mit Spanns Ganzheitslehre. Es gilt Gerd-Klaus Kaltenbrunners Klage über die wohlfeile Sicht auf Spann, den »liberale Flachköpfe und sozialistische Schreihälse für einen ›Faschisten‹ ausgeben dürfen«.
Sachlichere Töne kamen von Katholiken. Gustav Gundlachs Einwand, Spann vernachlässige die Person, klingt bis heute im Lexikon für Theologie und Kirche nach: Obschon in katholischer Mystik gründend, sich gegen Mechanismus und Marxismus wendend, werde Spanns Philosophie »der Wirklichkeit des Menschen« nicht gerecht, da sie sich »auf ein abstraktes Ganzes« konzentriere. Vor allem aber hielt ein Kreis von Wissenschaftlern die Erinnerung wach: Initiiert von Spanns bedeutendstem Schüler, Walter Heinrich, arbeitete man im Umfeld der Zeitschrift für Ganzheitsforschung (1957–2008) das umfangreiche Werk auf, vernetzte es mit anderen Denktraditionen. Über Schüler und Enkelschüler (Baxa, Riehl, Pichler, Romig) läßt sich eine Linie ziehen bis zur jüngsten Monographie von Sebastian Maaß, die Spann als »Ideengeber der Konservativen Revolution« würdigt.
Armin Mohler betonte, daß der Spann-Kreis der Konservativen Revolution »das durchgearbeitetste Denksystem geliefert« habe. Doch nicht an diesem imposanten Bau aus Gesellschaftslehre (1914), volkswirtschaftlichen Standardwerken, Kategorienlehre (1924), Geschichtsphilosophie (1932), Naturphilosophie (1937) und abschließender Religionsphilosophie (1947) entzündete sich der Antifa-Furor, sondern an den politischen Implikationen, an Spanns Generalkritik des Individualismus und der Demokratie, nachzulesen in seinem bekanntesten Werk Der wahre Staat (1921).
Die historische Entwicklung seit dem Humanismus wertet Spann als Austreibung alles Höheren, als Weg in Atomisierung und Materialismus: Wo der Mensch »nur aus sich selbst heraus lebt«, übt er Sittlichkeit und Pflicht sich selbst, »aber nicht dem anderen gegenüber«. Es ist eine asoziale Welt triebgesteuerter Atome ohne Verantwortlichkeit und Rückbindung. Diesem Auflösungsprozeß begegnet Spann zunächst anthropologisch: Das autarke Ich sei eine »knabenhafte Anmaßung«, der einzelne werde nur durch »Zugehören«, »Mitdabeisein eines anderen Geistes« gleichsam »wachgeküßt«.
Gegen die hybride individualistische Erkenntnistheorie denkt Spann vom Ganzen her, da »alles mit allem verwandt, alles an alles geknüpft ist«. Das Ganze gehe den Gliedern voraus, »offenbart« sich in ihnen. Von diesem Perspektivwechsel erhofft er eine »vollständige Umkehr« im Verhältnis des Menschen zu Welt und Gesellschaft, die nicht mehr als Summe gleicher Einzelkämpfer erscheint, sondern als verwobene, abgestufte Wirklichkeit. Hier nun bricht Spann, politisch höchst unkorrekt, mit dem Gleichheitsbegriff: Zwar besäßen »der Verbrecher wie der Heilige … einen unverletzlichen Kern ›Mensch‹! Niemals aber heißt dies: Sie seien gleiche Menschen«. Während die Menschenwürde »gewiß nicht angetastet werden darf«, rekurriert Spann auf eine »organische Ungleichheit«, die aus dem »inneren Verrichtungsplane« des Ganzen hervorgehe. Die Ungleichheit der Menschen, die jeweils nach geistigen Grundinhalten Gemeinschaften bilden (Demokraten, Katholiken, Facharbeiter, Vegetarier, Sportler …), schaffe eine »maßlose Zerklüftung«: »Der Bestand der Gesellschaft … wäre gefährdet, wenn die kleinen, einander fremden Gemeinschaften« in dieser »Zusammenhanglosigkeit« verblieben. Also bedarf es einer Integration, einer Rangordnung und »organischen Schichtung nach Werten«, die nur qua Herrschaft Form gewinnt.
Mittelalterliche und romantische Ordnungsmuster aktualisierend, faßt Spann die gesellschaftlichen Glieder als Hierarchie von Ständen: von den Handarbeitern über die höheren Arbeiter zu den »Wirtschaftsführern«; darüber bestimmt Spann einen Stand von Staats-, Heer-, Kirchen- und Erziehungsführern und zuletzt einen zielgebenden »schöpferischen Lehrstand«. Da alle aufeinander angewiesen sind, der Soziologe auf den Schreiner, der auf den Förster, der wiederum auf den Priester, besteht eine »gleiche Wichtigkeit für die Erreichung des Zieles«: Stabilität, soziale Harmonie, Gerechtigkeit. Welche darin liegt, daß jeder in der ihm gemäßen Stellung im Ganzen sein »Lebenshöchstmaß« realisiere, als sinnvolles Glied einer Gemeinschaft und, berufsständisch organisiert, einer Korporation. Dieses natürliche, dynamische Gefüge, mitnichten die Erstarrung in »Geburtsadel oder Geburtsuntertänigkeit«, ist Spanns Gegenbild zur linken Einheitsschablone wie auch zur machiavellistischen »Kampfeswirtschaft« des Kapitalismus.
Da mit der Auflösung der Stände in der Neuzeit »weder das Phänomen des differierenden sozialen Status, noch der Bedarf an ›erzogenen Führern‹ verschwindet«, so Mohammed Rassem, stellt Spann in einer »Gegenrenaissance« – gegen die Verabsolutierung liberaler Werte – ein traditionelles Ordnungsgesetz neu her. Politisch gewendet: Aus dem (potentiell veränderlichen) Standort in der Gliederung, aus der »Lebensaufgabe« und Leistung für die Gesellschaft ergeben sich der jeweilige Ort und Grad der »Mitregierung«. So will Spann, gestützt auf die Selbstverwaltung der Stände und das fundamentale Prinzip der Subsidiarität, die defizitären demokratischen Mechanismen überwinden, wobei die Staatsführer einen übergreifenden »Höchststand« bilden, eine sachverständige, »staatsgestaltende« Elite. Überzeugt, daß man »Stimmen nicht zählen, sondern wägen« solle, forderte er, die Besten mögen herrschen: Mehrheiten assoziierte Spann mit Wankelmut, Inkompetenz, Einheitsbrei, kurz: mit »demokratischem Kulturtod«, ja »Kulturpest«, wie der »alle Überlieferung, alle Bildung« zerschlagende Bolschewismus zeige.
Von einiger Sprengkraft ist Spanns Begriff der Wirtschaft. Dem »Bereich des Handelns« angehörend, liege ihr Wesen darin, »Mittel für Ziele zu sein«. Sie sei »dienend, nicht eigentlich primär«, worunter Spann allein »ein Geistiges« verstand. »Handeln kann ich nur, um einem Ziele zu dienen, … z.B. um eine Kirche zu bauen.« An höhere Ziele gebunden, bilde die Wirtschaft »keinen selbsttätigen Mechanismus mehr«, ein Primat komme ihr nicht zu. In der ständischen Ordnung sei auch Privateigentum »der Sache nach« Gemeineigentum. Mit dieser »Zurückdrängung« der Ökonomie reagierte Spann auf die »Verwirtschaftlichung des Lebens«, die der alles verwertende Kapitalismus so rücksichtslos betrieben hat wie der alles auf ökonomische Kategorien reduzierende Marxismus.
Doch die Geschichte hat Spanns Begriff einer dienenden Wirtschaft auf den Kopf gestellt. Im Rahmen einer globalen Amerikanisierung erweisen sich die politischen Akteure als Erfüllungsgehilfen der Wirtschaft. Bei Staatsbesuchen werden wie selbstverständlich Verträge für die mitreisende Großindustrie angebahnt; Entscheidungen zugunsten partikularer Interessen gelten als »alternativlos«; subsidiäre Strukturen werden leichthin preisgegeben; »Flexibilität« und »Mobilität« bemänteln die Entwurzelung der Arbeitnehmer … Nicht die Wirtschaft dient der Gesellschaft, vielmehr assistiert die Politik der Wirtschaft bei der Indienstnahme der Gesellschaft. Aktuell illustrieren Finanzkrise und Euro-Misere, wie von Spanns Enkelschüler Friedrich Romig analysiert, die strukturelle Verantwortungslosigkeit dieses Verhältnisses: Wirtschaftliches Handeln ist nicht höheren Zielen, etwa der Stabilität, sondern nur kurzfristigen Profiten verpflichtet. Verluste aus Spekulationen werden, jeden Begriff von Gerechtigkeit negierend, auf die Gemeinschaft abgewälzt. In Europa zeichnet sich eine gleichmacherische Schuldenunion ab, vermittels derer die Schuldenberge in jenen Ländern anwachsen, die nicht für diese Entwicklung verantwortlich sind. In der »hastigen Unruhe« ist der einzelne nicht »aufgehoben«, sondern seinen Zukunftsängsten überlassen. Die Inkompetenz der Politik spiegelt die Hilflosigkeit des Staates, dessen Souveränität dahin ist. Vor genau achtzig Jahren hat Walter Heinrich dieses Szenario antizipiert: »Die zum Selbstzweck gewordene Wirtschaft bedeutet Verfall des Staates und der Kultur. … Der Staat, der die Führung verloren hat, hört auf Staat zu sein«. Und das geistige Leben verkommt – um mit Spann zu sprechen – vollends zur »Krämerbude«.
In Spanns Alternative liegen hingegen grundsätzliche Umwertungen beschlosen: Als »Organ einer genossenschaftlichen Ganzheit« werde der einzelne in seinem wirtschaftlichen Handeln eingeschränkt, woraus ein relatives »Stillstehen des technischen Fortschrittes« folge. Die »ungehemmt vorwärts strebende Entfaltung der produktiven Kräfte« werde beschränkt. »Der Mensch ist nicht mehr derselbe. Wer das Äußere bändigt und bindet, kann es nicht zugleich ins Unbegrenzte« entwickeln. Denn »auf Innerlichkeit und auf Bindung der Wirtschaft« hinzusteuern, heißt zugleich, »daß wir ärmer werden!« Die übliche Kritik an der Trägheit der Stände übersieht stets, wie sehr sich in den Momenten der Bescheidung, Verlangsamung und Langfristigkeit eine neue Sittlichkeit, ein antisäkulares Ethos ausdrückt.
Das Ziel dieser Ordnung läßt sich über die irdische Gerechtigkeit hinaus in einer übersinnlichen Dimension fassen: Spanns Konzeption macht die Rückverbundenheit aller Glieder sichtbar, zuletzt ihre Vermittlung zwischen Welt und kosmischer, göttlicher Ordnung. Es geht darum, den verlorenen Blick fürs Ganze wiederzugewinnen.
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A 70 años de la muerte de Simone Weil
Mailer Mattié*
Instituto Simone Weil/CEPRID
Ex: http://paginatransversal.wordpress.comEl 18 de julio de 1943, un mes antes de morir, Simone Weil escribió desde Londres a sus padres que se encontraban en Nueva York:
Tengo una especie de certeza interior creciente de que hay en mí un depósito de oro puro que es para transmitirlo. Pero la experiencia y la observación de mis contemporáneos me persuade cada vez más de que no hay nadie para recibirlo. Es un bloque macizo. Lo que se añade se hace bloque con el resto. A medida que crece el bloque, deviene más compacto. No puedo distribuirlo en trocitos pequeños. Para recibirlo haría falta un esfuerzo. Y un esfuerzo ¡es tan cansado!
Aquí Weil señala tres requisitos a su parecer imprescindibles para acercarse a la comprensión de su pensamiento: ese bloque compacto de oro puro. Ciertamente, es necesario un importante esfuerzo intelectual el cual, sin embargo, resultaría del todo insuficiente si no podemos acceder a la verdad sobre el mundo social en el que vivimos y si no contamos con determinadas experiencias; es decir, con determinadas referencias de aprendizaje.
¿A qué se refería en realidad Simone Weil? ¿Qué era aquello que impedía a sus contemporáneos comprender sus propuestas?
Con gran probabilidad, es posible que aludiera a dos de los rasgos que caracterizan la existencia humana en la sociedad moderna: ignorar la experiencia histórica que constituye el pasado y aceptar la distorsión del conocimiento que creemos tener sobre la realidad. El pasado, en efecto, ha sido borrado por el progreso, arrasado por el desarrollo del Estado y de la economía, destruido por la industrialización. Las ideologías y el pensamiento académico, por otra parte, han secuestrado la verdad al adscribirla a los dogmas heredados del siglo XIX.
Sería legítimo, entonces, preguntarnos sobre nuestras propias posibilidades de llegar a contar al menos en parte con esas referencias, puesto que ahora nos encontramos en disposición de dar testimonio real de los errores y el fracaso de las formas de organización social sustentadas en las ideologías del progreso económico. Somos testigos desde finales del siglo pasado, además, de la determinación y autonomía de la emergencia de la invalorable riqueza de saberes –que apenas la ciencia está comenzando a validar- contenida en las antiguas culturas y cosmovisiones de muchos pueblos originarios, sobrevivientes del exterminio en los territorios andinos o amazónicos, por ejemplo.
Asimismo, nos devuelven la verdad del pasado los recientes –aunque aún escasos- estudios que intentan revelar la realidad social que constituyó la Alta Edad Media en Europa, oculta en la falsa e interesada definición del Feudalismo y en la interpretación lineal que simplifica la historia, entre los cuales podemos destacar la obra del filósofo e historiador Félix Rodrigo Mora en referencia a la península Ibérica: Tiempo, Historia y Sublimidad en el Románico Rural, publicada en 2012. La crisis de las ideologías, por otra parte, anima el verdadero conocimiento, incluyendo la recuperación del pensamiento de autores importantes que fueron condenados al olvido porque sus criterios comprometían seriamente la solidez de las ideas dominantes. Es el caso, por ejemplo, de la obra de Silvio Gesell escrita a principios del siglo XX sobre la función del dinero en los sistemas económicos y el lugar que la moneda podría desempeñar en un proceso de transformación social. Planteamiento que ha servido de inspiración al matemático estadounidense Charles Eisenstein para proponer una transición hacia la economía del don en su libro Sacred Economics. Gift and Society in the Age of Transition, publicado en 2010.
Simone Weil fue, ciertamente, una tenaz observadora del mundo social, cualidad que la condujo siempre a desconfiar de las teorías y de las interpretaciones a priori. Una actitud, además, que contribuyó indudablemente a impregnar su corta vida de la intensidad que nos asombra. Exploró también el pasado, al encontrar absurdo enfrentarlo al porvenir. Halló así en la experiencia histórica que había constituido la sociedad occitana del sur de Francia en el siglo XIII –destruida sin piedad por la fuerza incipiente del Estado- los fundamentos para elaborar el núcleo de lo que sería su gran obra, Echar Raíces: la noción de las necesidades terrenales del cuerpo y del alma. A la luz de la mirada occitana, en efecto, advirtió el júbilo de la vida convivencial, basada en la obediencia voluntaria a jerarquías legítimas (no al Estado, cuya autoridad aunque sea legal no es necesariamente legítima) y en la satisfacción de las necesidades vitales. Un espacio colectivo que encuentra su justo equilibrio en la estrategia que consiste en juntar los contrarios -libertad y subordinación consentida, castigo y honor, soledad y vida social, trabajo individual y colectivo, propiedad común y personal-, para sustentar así el arraigo de las personas en un territorio, en la cultura, en la comunidad. Es lo mismo que el pueblo kichwa y el pueblo aymara llaman Sumak Kawsay o Suma Qamaña –el Buen Vivir que es convivir-; eso que el pueblo mapuche nombra Kyme Mogen y el pueblo guaraní Teko Kaui, siguiendo el mandato original de construir la tierra sin mal; en fin, aquello que para los pueblos amazónicos significa Volver a la Maloca, valorando el saber ancestral: es decir, regresar a la complementariedad comunitaria donde lo individual emerge en equilibrio con la colectividad; a la vida en armonía con los ciclos de la naturaleza y del cosmos; a la autosuficiencia; a la paz y a la reciprocidad entre lo sagrado y lo terrenal.
Simone Weil, por tanto, consideró la destrucción del pasado el mayor de los crímenes.
En ausencia de convivencialidad, al contrario, Weil observó que la sociedad se convierte en el reino de la fuerza y de la necesidad. Cuando la sociedad es el mal, cuando la puerta está cerrada al bien –afirmó-, el mundo se torna inhabitable. Los medios que deberían servir a la satisfacción de las necesidades se han transformado en fines, tal como sucede con la economía, con el sistema político, con la educación, con la medicina y con la alimentación industrial. Si esta metamorfosis ha tenido lugar, entonces en la sociedad impera la necesidad.
Una realidad que nos impone, en consecuencia, la obligación absoluta y universal como seres sociales de intentar limitar el mal. Es decir, la obligación absoluta de amar, desear y crear medios orientados a la satisfacción de las necesidades humanas. Medios –según Weil- que solo pueden ser creados a través de lo espiritual, de aquello que ella misma llamó sobrenatural: solo a través del orden divino del universo puede el ser humano impedir que la sociedad lo destruya. En la sociedad moderna –expresó- el orgullo por la técnica –por el progreso- ha permitido olvidar que existe un orden divino del universo.
En ausencia de espiritualidad –afirmó-, no es posible construir una sociedad que impida la destrucción del alma humana.
Lo espiritual en Weil –algo que siempre parece tan difícil de precisar-, la fuente de luz, lo que debería guiar nuestra conducta social, representa la diferencia entre el comportamiento humano y el comportamiento animal: una diferencia infinitamente pequeña que es, no obstante, una condición de nuestra inteligencia -en espera aún de rigurosa definición científica que la concrete-. El papel de lo infinitamente pequeño es infinitamente grande, señaló en una oportunidad Louis Pasteur.
Es a partir de la influencia de esta ínfima diferencia, entones, que es posible limitar el mal en la sociedad, porque esa condición de nuestra inteligencia es justamente la fuente del bien: es decir, es la fuente de la belleza, de la verdad, de la justicia, de la legitimidad y lo que nos permite subordinar la vida a las obligaciones. La misma influencia, pues, que debemos explorar en la experiencia del pasado: en el medioevo cristiano –señaló Weil-, pero también en todas aquellas civilizaciones donde lo espiritual ha ocupado un lugar central y hacia donde toda la vida social se orientaba. Precisar sus manifestaciones concretas, sus metaxu: los bienes que satisfacen nuestras necesidades e imprimen júbilo a la vida social.
*Mailer Mattié es economista y escritora. Este artículo es una colaboración para el Instituto Simone Weil de Valle de Bravo en México y el CEPRID de Madrid.
Fuente: CEPRID
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lundi, 23 septembre 2013
René Guénon and Eric Voegelin on the Degeneration of Right Order
René Guénon and Eric Voegelin on the Degeneration of Right Order
Ex: http://www.brusselsjournal.com
I. Introduction. No area of Western history is quite as recondite as that of the Diadochic empires, the successor-kingdoms that sprang up in the wake of Alexander the Great’s meteoric campaigns (334 – 323 BC) to subdue the world under militaristic Hellenism. One knows that the unity of Alexander’s Imperium, ever tenuous and improvisatory, broke down immediately on his death, when his “companions” fell to bellicose squabbling over bleeding chunks of the whole. Of Ptolemy’s Macedonian Egypt, one knows something – largely because the realm’s newly built Greek metropolis, Alexandria, became culturally the most important polis in the Mediterranean world, even after Octavian conquered Cleopatra and organized her Macedonian rump-state into Rome’s emergent world-federation. To transit from historical fair-certainty to historical incertitude, however, requires only that one switch focus from the Ptolemaic kingdom in the Nile Delta to the Seleucid... Indeed, to the Seleucid what? For Seleucus’ prize in the wars of the successors stretched in geographic space from Syria and Cilicia, and associated insular territories, eastward through portions of Mesopotamia and Asia Minor into the hinterlands of Parthia and Bactria. The Seleucid kingdom’s borders, as distinct from those of the more stable Ptolemaic kingdom in Egypt, remained, like the Heraclitean river, in constant flux; moreover, the Seleucid kingdom steadily withdrew in the direction of the sunrise, sacrificing its westerly regions for the defensibility of its easterly keeps, until in its last act, as the remnant Greco-Bactrian principality, it attempted to perpetuate itself against political mortality by an exodus-through-conquest from Central Asia across the Hindu Kush into Northern India.
One progresses, it seems, from obscurity to super-obscurity, as one might progress from Antioch, a polity known more or less in the annals of Western history (it served Seleucus for a capital city), to Pushkalavati, a polity all but unknown in those annals. These murky events in half-legendary places nevertheless issued in archeologically and literarily documentable consequences. When the Maurya emperor Ashoka (304 – 232 BC) converted to Buddhism around 250 BC and established it as his state religion, for example, he had to promulgate his policy in the northwest provinces of his expansive kingdom in Greek as well as in the indigenous languages. As late the First Century BC, Greek communities – if not actual poleis – still existed in what would today be Pakistan and Afghanistan, the original name of whose second largest city, Alexandria, corrupted itself over the centuries into the barbarism Kandahar. A post-Bactrian dux bellorum, Strato II, controlled a territory in the Indus Valley as late as 10 BC. Under the Seleucids and their heirs, the canons of Greek art influenced local sculpture and painting. The Bamiyan Buddhas, completed around 500 and dynamited by the Taliban in 2001, still reflected stylistic elements of Hellenistic statuary. Finally, it was through the Seleucid kingdom and its sequelae that India and the Mediterranean came into significant communication with one another so that Brahmanism and Buddhism might be known and studied by the Greek-speaking scholars of the Serapeum and something of the dialectical method might be adopted by Hindu philosophy.
This précis of Hellenistic penetration into the Near East and Central Asia in the great age of competing empires that consummated itself in the ascendancy of Rome in the West is by way of introduction to a modest comparative study of René Guénon’s Spiritual Authority & Temporal Power (1929) and Eric Voegelin’s Ecumenic Age (1974), the fourth volume of his five-volume Order and History (incipit 1956, with Israel and Revelation). The “Bactrian” chapter of the Alexandrian Drang nach Osten provides an important object of study in both books. Voegelin (1901 – 1985) could not, of course, have been known to Guénon (1886 – 1951) and it seems relatively unlikely that this particular book by Guénon would have been known to Voegelin, who, however, might have been familiar with The Crisis of the Modern Age (1927) and The Reign of Quantity & the Signs of the Times (1945); Spiritual Authority is something of a sequel to The Crisis, whose topics The Reign of Quantity revisits. Of interest is that Guénon and Voegelin, while quite different in the style of their thinking, nevertheless identify in the phenomenon of the Bactrian episode (including its Indian prequel) the same historical and spiritual significances and see in closely similar ways the relevance of that episode to an understanding of the modern phase of Western history. It goes almost without saying that for both Guénon and Voegelin, modernity is a disorderly and corrupt period in which the dominant elites have betrayed the hard-earned wisdom of philosophy and revelation and believe themselves anointed to remake a wicked world into a rational paradise liberated from superstition and bigotry, a project necessarily entailing the destruction of tradition. Modernity is “Gnostic,” in Voegelin’s term. Gnosticism designates a markedly low order of mental activity, in spiteful rebellion against the difficulties entailed by a contrasting openness to and participation in reality. Following chronology, it is natural to begin with Guénon.
II. Guénon. A student of comparative religion, Guénon took lively interest in Hinduism, Brahmanism, and Buddhism. The Hindu scriptures especially provided him with a rich symbolism, which he found that he could instructively put in parallel with, among other vocabularies, that of the Platonic lexicon. Spiritual Authority & Temporal power draws on Guénon’s knowledge of the Vedas and related documents – a propensity that can at first stymie a reader uninitiated in the specialist vocabulary. (I put myself in the category.) However, Spiritual Authority repays readerly perseverance; the references to Plato give context to the exploration of caste not as an item of sociological but rather as one of metaphysical importance. A central political-philosophical question, who should govern, as Guénon points out, is shared by Hindu religious speculation and Platonic discourse. Guénon declares the topic of his essay to be “principles that, because they stand outside of time, can be said to possess as it were a permanent actuality.” Respecting the debate about the fundamental legitimacy of temporal offices, Guénon asserts, “the most striking thing is that nobody, on either side, seems concerned to place these questions on their ground or to distinguish in a precise way between the essential and the accidental, between necessary principles and contingent circumstances.” The petulant habit of deliberately ignoring first things by itself merely provides “a fresh example [so writes Guénon] of the confusion reigning today in all domains that we consider to be eminently characteristic of the modern world for reasons already explained in our previous works.” Guénon’s phrase for the Twentieth-Century contemporaneity of his book is “the modern deviation.”
Where Voegelin stands out as above all an exegete of symbols, Guénon strikes one as rather more a modern mythopoeic thinker who takes symbols as his main stuff of purveyance, but this is not to say that he lacks analytical ability. Rather, Guénon grasps that symbols and myths – while they might be, as Voegelin would later call them, compact – articulate reality more fully and more truly than the clichés of modern reductive thinking and that therefore one best wrests intoxicated minds from the drug of those clichés by jerking them around (rhetorically, of course) so as to get them to face and contemplate the symbols in their numinous fullness. It belongs to Guénon’s suasory strategy that the strangeness of Hindu or even European Medieval symbols can fascinate the modern subject even when, as usual, that subject diametrically misunderstands them. Get their attention, Guénon seems to say – interrupt the trance; explanations can come later. Guénon’s unblushing references to a primordial tradition, “as old as the world,” can cause him, in the case of a superficial reader, to resemble a Theosophist or a spiritualist. It is worth remembering that the hard-headed Guénon wrote studies exposing Theosophy as a “pseudo-religion” and spiritualism as mountebank hocus-pocus. But if modernity were a “deviation,” then from what would it have deviated? Although Guénon’s first chapter in Spiritual Authority bears the title “Authority and Hierarchy,” the actual topics are caste and hierarchy, two of the range of first principles that modernity has insouciantly rejected.
Caste and authority relate to one another in complex ways. Modernity bristles at one or the other of the two terms with equal righteousness, but whereas traditionalists and reactionaries acknowledge the necessity of authority, they too might nevertheless feel aversion to caste, as it has manifested itself in India since the Muslim conquest. Guénon reminds his sympathetic but possibly skeptical readers that the existing caste-system of the British Raj of his time is itself a latter-day deviation and quite as acute a one as any aspect of the Western deviation into modernity. Guénon finds the true definition of caste in the Sanskrit etymologies. Accordingly, “The principle of the institution of castes, so completely misunderstood by Westerners, is nothing else but the differing natures of human individuals; it establishes among them a hierarchy the incomprehension of which only brings disorder and confusion, and it is precisely this incomprehension that is implied in the ‘egalitarian’ theory so dear to the modern world.” Additionally, “The words used to designate caste in India signify nothing but ‘individual nature,’ implying all the characteristics attaching to the ‘specific’ human nature that [differentiates] individuals from each other.” Finally, “One could say that the distinction between castes… constitutes a veritable natural classification to which the distribution of social functions necessarily corresponds.” Guénon also asserts that caste, even in the moment when it appears, suggests a fallen condition, “a rupture of the primordial unity” by which “the spiritual power and the temporal power appear separate from one another.” The assertion will disturb no one familiar with the Platonic relation between the realm of the ideas and the realm of social action; or with the Augustinian distinction between the City of God and the City of Man.
In classical Indian society, the roles of authority on the one hand and of power on the other fell respectively to the Brahmins, or the priestly caste, and the Kshatriyas, or the warrior caste. What is at first a harmonious functional distinction becomes, however, in the course of time, “opposition and rivalry,” or so Guénon states. The functionaries of the two castes yield to their baser instincts; they commence a struggle for absolute domination in the society. The struggle finds its outcome “in total confusion, negation, and the overthrow of all hierarchy.” Long before the climax, the real functions of the two castes have lapsed in desuetude. “As for the priesthood, its essential function is the conservation and transmission of the traditional doctrine, in which every regular social organization finds its fundamental principles.” In rivalry with the warrior caste, the priesthood abandons “its proper attribute,” which is “wisdom.” As for the warrior caste, its essential function is active policing of right order within the society, including the maintenance of the priesthood, and defense of the society against external predation. In rivalry with the priesthood, the warrior caste repudiates its guidance under wisdom, whereupon its virtues (heroism, nobility, rectitude) become unintelligible. The rebellious warrior caste claims that no power exists superior to its own, a boast brutally plausible once the community has lost sight of transcendence and “where knowledge is denied any value.”
In addressing the phenomenon of “insubordination,” which as he says modernity instantiates in extremis, Guénon in fact has a particular historical episode in mind, which he treats in the chapters of Spiritual Authority called “The Revolt of the Kshatriyas” and “Usurpations of Royalty and their Consequences.” Guénon cites no dates and names no names, but the episode in question belongs to the career of the Bactrian Greeks in India. A few facts will help to vivify Guénon’s purely abstract account. I take the facts from The Greeks in Bactria and India (1951) by William Woodthorpe Tarn. The chronology runs from the late Third Century to the middle Second Century BC. The main players on the Greco-Bactrian side of the drama are Demetrius I (reigned 200 – 190 or 180 BC); two of his sons, Demetrius II (reigned 175 – 170 BC) and Apollodotus (reigned 174 – 165 BC); and a general, Menander, who soon acquired kingship (reigned 155 – 130 BC). The two sons of the first Demetrius just mentioned, and their sons and grandsons, and Menander, ruled over Indian territories exclusively, the Bactrian Kingdom itself having succumbed by degrees to nomadic invaders (the Yueh-chi) during this period, ceasing to exist after 130 BC. The main players on the Indian side of the drama are the Maurya emperors, who were Buddhists, and their usurper-successors the Sunga emperors, beginning with Pushyamitra (reigned 185 – 149), who were Brahmins. Demetrius II, Apollodotus, and Menander were likely by profession also Buddhists.
When Demetrius I with his sons and Menander as generals invaded India, he was both responding opportunistically to events in Indian politics and acting on the ambition-provoking model of concupiscential militarism, as established by Alexander and the successors. As for Pushyamitra – when he deposed the last Maurya emperor by assassination, he merely continued a long-simmering civil conflict between Brahmins and Buddhists that had been begun by Chandragupta, the first Maurya emperor, who climbed to power by promoting the Buddhist Kshatriyas against the Brahmin overlord class. Tarn notes that in this period “the Brahman was the natural enemy of the Greek,” whom the priestly class categorized under the caste system as Kshatriyas. The corollary of priestly ire against the Greeks was Buddhist (that is, Kshatriya) interest in Greek military support against the Sunga dynasts. Tarn writes, “Both Apollodotus and Menander on their coins… called themselves Soter, ‘the Saviour.’” The discussion will return to the numerous implications of these details in the section on Voegelin, to follow. At this point, we will switch focus back to Guénon and Spiritual Authority.
In the chapter on “The Revolt of the Kshatriyas,” Guénon writes, “Among almost all peoples and throughout diverse epochs – and with mounting frequency as we approach our times – the wielders of temporal power have tried… to free themselves of all superior authority, claiming to hold their power alone, and so to separate completely the spiritual from the temporal.” When the office of the purely temporal order “becomes predominant over that representing the spiritual authority,” Guénon argues, the result will be social chaos masquerading as order under blatantly “anti-metaphysical doctrines.” A doctrine qualifies as “anti-metaphysical” for Guénon when it “denies the immutable by placing… being entirely in the world of ‘becoming.’” To deny first or transcendent principles is equivalent to submitting unconditionally to what Guénon dubs “succession.” The sequence of names in the Bactro-Indian “Who’s Who” – Chandragupta, Pushyamitra, Demetrius, Apollodotus, Menander, and Eucratides – suggests the resounding vanity of mere “succession.” Guénon reminds his readers that: “Modern ‘evolutionist’ theories… are not the only examples of this error that consists in placing all reality in ‘becoming’”; rather, “theories of this kind have existed since antiquity, notably among the Greeks, and also in certain schools of Buddhism.” Let it be noted that Guénon criticizes only the political Buddhism of the Indian Time of Troubles, not the original Buddhism of the Gautama, which “never denied… the permanent and immutable principle of… being.” Guénon implicitly also criticizes the politicized Brahmanism of the same Time of Troubles, which, entangling itself in grossly temporal affairs, forfeited its legitimacy under the law of spiritual immutability.
“Immutable being” is the same as reality; it is a verbal symbol of reality taken as the inalterable nature of the totality of things. To rebel against immutable being is therefore to rebel against reality, with inevitable consequences, the same in every case. As Guénon writes, the Revolt of the Kshatriyas “overshot its mark.” The immediate victors “were not able to stop it at the precise point where they could have reaped advantage from what they had set in motion.” The denial of “Atman,” the Brahmanic First Principle, led to the denial of caste, which led to the usurpation of offices by individuals unsuited to exercise them. It fell out that the Kshatriyas, in dispossessing the Brahmins, made themselves vulnerable to rebellious dispossession by the classes formerly arranged beneath them in the social hierarchy. “The denial of caste opened the door to [one and] every usurpation, and men of the lowest caste, the Shudras, were not long in taking advantage of it.” In fact, “the denial of caste” created a power-crisis in the Indus Valley and adjacent areas that eventually drew in, first, the Persians, then Alexander himself, and then in their turn the Bactrians, who were Alexander’s epigones of the nth degree, and finally a wave of nomadic destroyer-invaders. A familiar theme in Indian politics, foreign occupation, has a history that begins long before the British Empire. Northern India had Greco-Bactrian rulers from the time of Demetrius II, Apollodotus, and Menander until the time of Julius Caesar in the West.
Guénon insists that the Revolt of the Kshatriyas with its aftermath provides only an instance of a general pattern, pedagogically useful in its starkness whose essential features appear, however, in other instances. In the chapter in Spiritual Authority on “Usurpations of Royalty and their Consequences,” Guénon writes of “an incontestable analogy… between the social organization of India and that of the Western Middle Ages,” adding that “the castes of the one and the classes of the other” reveal how “all institutions presenting a truly traditional character rest on the same natural foundations.” Similarly, the Western Middle Ages know parallel experiences to the Revolt of the Kshatriyas. “Long before the ‘humanists’ of the Renaissance, the ‘jurists’ of Philip the Fair were already the real precursors of modern secularism; and it is to this period, that is, the beginning of the Fourteenth Century, that we must in reality trace the rupture of the Western world from its own tradition.” Even before Louis IV, Philip pursued the policy of consolidating all power in France in the kingship. Guénon writes that, “Temporal ‘centralization’ is generally the sign of an opposition to spiritual authority, the influence of which governments try to neutralize in order to substitute their own.”
The analyst may follow the line from Philip in France through the Protestants in Northern Europe, with their national churches, to the secular revolutionary movements that ensue from the Jacobin usurpation of national power in France in the events of 1789 and beyond that to the political-ideological chaos of the Twentieth Century.
III. Voegelin. The fourth volume of Order and History bears the title The Ecumenic Age. The term ecumene functions centrally in Voegelin’s theory that the order of history emerges through the history of order, that is, as successive differentiations of consciousness and the concomitant increases in noetic clarity. But what is the ecumene and what is meant by The Ecumenic Age? Etymologically, the word ecumene refers to any organized district (the English word economy shares the same Greek root); by the time of the historian Polybius (200 – 118 BC), however, ecumene, which Polybius uses, had come to mean any – or rather the – geographical area over which rival empires or empire-builders might compete. Since by Polybius’ day this geographical area included everything that Alexander had conquered or tried to conquer in the East and everything that Rome had conquered in the West through the Third Punic War, the word effectively meant the known world, from Spain and Gaul to Bactria and India. In one of Voegelin’s several definitions in The Ecumenic Age, the ecumene arises when “empire as an enterprise of institutionalized power” becomes (in the phrase) “separated from the organization of a concrete society,” as happened for the first time in the case of Achamaenid expansion beyond the boundaries of the traditional Persian state in the Sixth Century BC. Persian conquests in the Greek field soon enough produced a reaction in the form of Alexander, who subdued Persia on his way to India; on Alexander’s death, as we have noted, his generals tried to wrest his conquests for themselves – the result being the Diadochic kingdoms. Voegelin writes that, “The new empires [beginning with Persia] apparently are not organized societies at all, but organizational shells that will expand indefinitely to engulf former concrete societies.” The ecumene may additionally be defined as, “the fatality of a power vacuum that attracted, and even sucked into itself, unused organizational force from outside”; and which therefore “originated in circumstances beyond control rather than in deliberate planning.”
Again in The Ecumenic Age, Voegelin writes how, in distinction to the polis, which organizes itself on the lines of a subject, the ecumene “is an object of organization rather than a subject.” This geographical-political phenomenon of the ecumene appears moreover not as “an entity given once and for all as an object for exploration,” the way the earth was given to Eratosthenes or Strabo; “it rather was something,” Voegelin writes, “that increased or diminished correlative with the expansion or contraction of imperial power” radiating from an “imperial center.” Working up to a striking phrase, “The ecumene… was not a subject of order but an object of conquest and organization; it was a graveyard of societies, including those of the conquerors, rather than a society in its own right” (emphasis added). As for the Ecumenic Age – it is the datable period, beginning with Persian expansion and ending with the disintegration of the Roman Empire in the West during which, amidst the destruction of the traditional, concrete societies, the actors of the drama forgot how to heed received wisdom while the victims of their agency had to rethink basic questions about the meaning of existence. In this way, ironically, “the Ecumenic was the age in which the great religions had their origin, and above all Christianity,” but including Buddhism, which had a Greek phase.
It will perhaps have begun to be apparent why Voegelin should take an interest in the Bactrian episode. The Bactrian episode runs its course at the farthest end of the Western ecumene, as defined by the imperial expansions of Darius and Alexander; and in the campaign of Demetrius and his sons it replicates in miniature the concupiscential exodus that Darius and Alexander enacted in setting forth to subdue the world. In the Bactrian episode, the Western ecumene comes into contact with the Indian and the Chinese ecumenes. This contact affected India more than the West, and China hardly at all, but the episode remains instructive. “In the wake of Alexander’s campaign in the Punjab,” Voegelin writes, “the scene of imperial foundations expands to India.” In exploring the significance of the Bactrian episode, Voegelin promises to “refrain from drawing the all-too-obvious parallels with the phenomenon of imperial retreat and expansion we can observe in our own time,” a statement that naturally directs readerly attention to those very parallels. Concerning Chandragupta, whom we have already encountered in our discussion of Guénon’s Spiritual Authority, Voegelin records that, “Among other Indian princes he had come to the camp of Alexander at Patala, 325 B.C.” When the last Macedonian governor departed the Punjab in 317, the ambitious prince “established himself in the new power vacuum with the help of the northwestern tribes and then descended on the kingdom of Maghada,” whose ruling dynasts he ruthlessly exterminated – man, woman, and child. Chandragupta with deft diplomacy avoided conflict when Alexander’s successor Seleucus revisited “Asia.” Concluding a treaty to fix the frontier, Chandragupta received from Seleucus one of the Macedonian’s daughters for a princess-bride; Seleucus received from Chandragupta a squadron of war-elephants.
What seemed a brilliant stroke of self-interested negotiation on the Indian’s part illustrates, in fact, Voegelin’s contention: The ecumene, despite its weird ontology, has the real power to draw in those who inhabit its periphery. The attraction exerted itself reciprocally: Indians were drawn into the Seleucid and Bactrian spheres and Seleucids and Bactrians were drawn into the Indian sphere; every conqueror-usurper generated his own conqueror-usurper, and the degeneration reached its nadir in barbarian incursions and desertification of whole provinces. In Voegelin’s description, “When a general of the last Maurya ruler, Pushyamitra Sunga, assassinated his master… an imperial power vacuum was created, comparable to the earlier one, after the death of Alexander”; and “as the earlier vacuum had attracted the Maurya Chandragupta, so the present one invited Demetrius, the king of Bactria, to conquering action.” Demetrius found success in his venture partly because of the Brahmin-Buddhist split; he could appeal to the Kshatriya caste as their Soter – their “liberator” or “savior” – against the Brahmin caste. Saving and liberating belong, in Voegelin’s analysis, to a “new symbolism of the Ecumenic Age,” with the codicil that its newness equates to its degeneracy. “An age of ecumenic imperialism throws up of necessity… the curious phenomenon which is today called ‘liberation,’ i.e., the replacement of an obnoxious imperial ruler by another one who is a shade less obnoxious.”
Voegelin’s account points up the existential ironies of the Bactrian episode – naturally, because he is dealing in historical specifics – more than Guénon’s account. Demetrius having conquered India, the Seleucids saw in his absence from Bactria the ripe opportunity to reincorporate that former province. Antiochus IV sent Eucratides to complete the task; when Demetrius returned from his Indian triumph to confront the invader, he succumbed in the engagement. Voegelin speculates that Eucratides, who came with only a small army, found crucial support among the Macedonian faction in Bactria that resented Demetrius’ policy of fusion with the native Bactrians. Voegelin characterizes Eucratides as “another Savior, this time of Macedonians and Greeks from a ruler who favored the native barbarians.” While Bactria reverted temporarily to the by-now-much-truncated Seleucid kingdom, northern India found itself under Greek domination in the kingdom of Menander, who, consolidating the work of Demetrius and his sons, declared independence. In a final blow of absurdity, the Parthians invaded the re-Seleucized Bactria and Eucratides fell battling them in 159 BC.
The sequence of events that constitutes the Bactrian episode resembles the plot of one of those operas of the Late Baroque or Early Classical periods, like the Zoroastre (1749) of Jean-Philippe Rameau or the Mitridate (1770) of Wolfgang Mozart: It has five acts, plays for three hours, and boasts so many characters that the audience can hardly keep track of them while struggling to extract the meaning. The spectators leave the performance feeling dazed and disoriented. We recall that the Bactrian episode is merely a recapitulation, and to some extent an anticipation, in miniature, of the entirety of the Ecumenic Age. Voegelin writes: “During the Ecumenic Age itself… the violent diminution, destruction, and disappearance of older societies, as well as the embarrassing search, by the conquering powers, for the identity of their foundations, was the bewildering experience that engendered the ‘ecumene’ as the hitherto unsuspected subject of the historical process.” Overlooking Voegelin’s use of the term “subject” in this sentence (one of his few lapses in ambiguity) while remembering that the ecumene is an object rather than a subject it is worth examining the paradoxes that stem from the question, already posed, how to define the Polybian lexeme. “For,” as Voegelin writes, “the ecumene was not a society in concretely organized existence, but the telos of a conquest to be perpetrated.” In addition, “one could not conquer the non-existent ecumene without destroying the existent societies, and one could not destroy them without becoming aware that the new imperial society, established by destructive conquest, was just as destructible as the societies now conquered.”
The instigators of concupiscential conquest think no such thoughts; in abandoning wisdom for the purely pragmatic adventure of the conquistador they bring about the divorce in their home societies between wisdom and action – the very same divorce whose exemplar Guénon discovers in the Revolt of Kshatriyas. Voegelin’s way of describing this spiteful repudiation of wisdom and even of knowledge is the formula, “humanity contracted to its libidinous self.” Such humanity condemns itself to endure the reduction of being to becoming – to the endless and meaningless temporal succession that it instigates. And what is most wicked is that it drags the rest of humanity along with it. Voegelin sketches a phenomenology of the conqueror: “These imperial entrepreneurs of the Ecumenic Age understood the meaning of life as success… in the expansion of their power” and in no other way; worse – and tellingly – they experienced any checks against their ambitions as instances of outrageous “victimization.” They and their rhetorical sycophants also invented “the games by which the power-self makes itself the fictitious master of history,” for example, as a “Savior.” Who does think the thoughts that lead to the identification of the ecumene as existentially meaningless and intolerable?
The answer to the question of who thinks those thoughts is, obviously, the ecumene’s non-sympathetic survivors, who, however, avoid thinking of themselves in selfishly victimary terms. They are those who remember wisdom or at least remember that such a thing as wisdom exists and may be sought for even in the spiritual desert of wrecked civilizations. The meaning of history, and therefore the meaning of human existence, emerges only by exodus from the ecumene; this will be a spiritual exodus aimed at reclaiming wisdom and restoring transcendence, either to the society, should it be extant, or for the sake of a new society not yet founded, which might arise from the wreckage and accord itself with reality. Indeed, in Voegelin’s words, “the relation between the concupiscential and the spiritual exodus is the great issue of the Ecumenic Age.”
IV. Guénon, Voegelin, and the Modern Crisis. Responding to the Siren Song of the ecumene to conquer and possess it qualifies as Voegelin’s privative exodus in at least two senses. Pragmatically, the conqueror in going forth leaves home; he generally leaves it, moreover, with the cream of the young men and a significant portion of the collective wealth in the forms of his provisions and armaments. Very likely he leaves behind him a vacuum of confusion, and a fat opportunity for mischief. Philosophically or metaphysically, the conqueror in going forth demonstratively exempts himself from the wisdom that, like his homeland, he leaves behind; under the pomp and color of his banners he declares himself indeed the prime mover of reality, a gesture of hubris in the highest degree. For in declaring himself such, he declares nothing less than the abolition of reality, as though it were his prerogative to guarantee what is possible and what is not and so to make patent his success before it occurs. Homer knew this at the beginning of the polis civilization. Agamemnon goes forth to conquer but brings about only the reduction to rubble of the heroic world, including his own murdered corpse; Odysseus, involuntarily alienated from home, struggles back to purge his household of uninvited mischief-makers. One sign of the rebellion against reality by the conquistadors of the Ecumenic Age, which entails the abolition of actually existing “concrete societies,” is their insistence on auto-apotheosis, as when Seleucus or Demetrius or Menander identifies himself on his coinage with Helios Aniketos, “The Unvanquished Sun,” or the equivalent. To paraphrase Voegelin: The ecumene is not only a graveyard of societies, but it is also a graveyard of the Helioi Aniketoi; and thus, amid the debris left by their late passage, of their innumerable victims.
In its dumb absurdity, the myriad of tombs affirms reality against concupiscential insouciance by pointing back to the violated wisdom as its cause. Guénon in Spiritual Authority puts it this way: “All that is, in whatever mode it may be, necessarily participates in universal principles, and nothing exists except by participating in these principles, which are eternal and immutable essences contained in the permanent actuality of the divine Intellect; consequently, one can say that all things, however contingent they may be in themselves, express or represent these principles in their own manner and according to their own order of existence, for other wise they would only be a pure nothingness.” Voegelin would recognize in Guénon’s balanced phrases one of the essential differentiations of consciousness with which his Order and History is concerned. The concupiscential campaigner can begin in only one way, by blanking out the knowledge of his own contingency; and if anyone should remind him of his contingency, he must blank out that person. He would not be stymied, or as he sees it, victimized.
Voegelin argues generally that differentiations of consciousness are irreversible, that they remain available after they occur; but he admits into his theory the concession that “diremptions” and “derailments” can also prevail during which the old symbols of wisdom no longer effectively signify and new symbols have not yet achieved full articulation. When Christianity emerges against the background of meaningless imperial succession, for example, it includes in its peculiar differentiations all the previous differentiations achieved in revelation and philosophy, from Moses to Plato. Nevertheless between the decline of philosophy and the consolidation of Christianity, there falls a long, anxiety-ridden stretch of ad hoc syncretism, thaumaturgy, Gnosticism, orgiastic enthusiasm, and general disorientation. The mental disorder of such things is the spiritual counterpart of the destruction of concrete societies under the ecumenic empires. People can for a time repudiate or lose touch with the luminous articulations that, formerly, reconciled them to reality; they either die off or recover something of clairvoyance. It happens that in The Ecumenic Age, Voegelin repeatedly references one of the earliest of the Western, reality-reconciling articulations, the one in respect of which the “Saviors” of the Ecumenic wars behaved with conspicuous heedlessness. Anaximander (610 – 546 BC, a contemporary of the Buddha) wrote: “The origin (arche) of things is the Apeiron… It is necessary for things to perish into that from which they were born; for they pay one another penalty for their injustice (adikia) according to the ordinance of Time.” Whether it is the Kshatriyas repudiating the Brahmins or Alexander repudiating Aristotle – payment of the Anximandrian “penalty” falls due and the interest on the debt begins to build up.
Both Guénon in Spiritual Authority and Voegelin in The Ecumenic Age take care to avoid topicality. Guénon writes of his intention “to remain exclusively in the domain of principles, which allows us to remain aloof from all those discussions, polemics, and quarrels of school or party in which we have no wish to be involved, directly or indirectly, in any way or to any degree.” In Voegelin’s terminology, Guénon’s authorship, at least where it concerns Spiritual Authority, corresponds to the positive exodus by which the man in search of wisdom withdraws in contemplation from the endless pragmatic exodus of the ecumene. Guénon adds, however, that “we leave everyone free to draw from these conclusions whatever application may be deemed suitable for particular cases.” Voegelin is less strict than Guénon in this respect, but in The Ecumenic Age he does mainly isolate his topical asides in his introductory and concluding chapters. These asides are nevertheless provocative, wherever they occur in the text. One will be sufficient to indicate the meaning of the Bactrian episode, which occupies the structural center of The Ecumenic Age, with respect to the modern crisis. We have previously cited Voegelin’s remark on “the games by which the power-self makes itself the fictitious master of history.” In a brief continuation of the same remark, Voegelin adds that those games “are still played today.”
It will undoubtedly have impressed those who have followed the argument so far that, simply at the level of descriptive phraseology, many of Guénon’s constructions and Voegelin’s suggest their own application to the contemporary state of affairs in the incipient Twenty-First Century. Guénon in Spiritual Authority mentions the origins of étatisme, with its relentless centralization of political power, in Fourteenth Century France. Voegelin in The Ecumenic Age refers to the ecumenic empires as “organizational shells that will expand indefinitely to engulf former concrete societies.” The centripetal and centrifugal movements might seem opposite to one another and therefore non-compossible, but they are in fact simultaneous and complementary. They describe in structural terms the libidinous process by which the bearers of “moral apocalypse” – that is, the Gnostic reformers of society – progressively obliterate the concrete societies that come under their imperial-entrepreneurial sway. Whether it is the arrogantly self-aggrandizing Federal Government in the United States of America or the inhumanly bureaucratic Brussels Parliament of the European Union in Western Europe, the attitude of the reigning elites towards the world is none other than the attitude of the auto-apotheotic conquistador toward the ecumene.
The goal of the new concupiscential exodus does not end with conquest, however; it has the jurisdictional goal beyond conquest of what it calls transformation or “change” but what can only be experienced by those who do not elect it as annihilation in the mode of total undifferentiation.
The point of view of the resistors is the true one: The mantra of “change,” so dear to the Left, is Newspeak (“disorder,” writes Guénon, “is nothing but change reduced to itself”); and the celebratory invocation by the Left of “difference” or “diversity” is likewise Newspeak. It requires only a smidgen of acuity to notice that the endless parade of “diverse people” who witness on behalf of “change” all say the same thing and tell the same stereotyped story; the “diversity” of the propagandists never exceeds the categories of skin-color, number of skin-piercings, peculiarity of dress, or deflected erotic interest because mentally they are all already completely assimilated to the narrow gnosis on the basis of which the regime claims its legitimacy. The succession of speakers in the lecture-calendar replicates in small the meaningless temporal succession of titled eminences in the ecumene. One might also notice that the ceaseless doctrinal self-justification of the modern rebellious elites resembles the soteriological propaganda of the ancient ecumenic campaigners; for in annihilating tradition the regime through its spokesmen claims to be engaging in a vast program of salvation or redemption. For ten years they have been redeeming the place formerly called Bactria.
The difference between the “Saviors” of the Ecumenic Age and those of today consists in this: Whereas the men of the Alexandrian succession did not intend to wreck the societies that they left behind and whereas that wreckage came about as an unintended side effect of campaigning elsewhere (“backwash,” in modern jargon); the modern “Saviors” by distinction explicitly intend to wreck the societies from which they have treacherously defected. That is their main motivation. They say so unashamedly, over and over. They have captured education from the kindergartens to the doctoral programs and they train new cohorts every year to carry out the project of calling forth a new ecumene and perpetrating Ausratiertung on everything in it. To convince themselves and others that their toxic whimsies stand free of any ethical or practical limitation, they have developed a baroque anti-epistemology that they call, appropriately, Deconstruction which would obliterate logic itself and even knowledge. This makes their obsession with “change” all the more pernicious. In Spiritual Authority, Guénon reminds his readers that, “Change would be impossible without a principle from which it proceeds and which, by the very fact that it is the principle of change, cannot itself be subject to change.” In a parallel comment, Guénon adds that, “Action, which belongs to the world of change, cannot have its principle in itself.” Yet the modern “Saviors,” through their “Action Committees,” invariably claim to be champions of principle. We all live in Bactria now and may not fire back.
The Gnostic rebellion against reality denies limitations, but it is, of course, subject to them because it is subject to reality; the rebellion is moreover radically maladapted to reality (denying logic and repudiating knowledge are bad bets in the Darwinian game) and it will eventually have to pay its penalty to Anaximander’s “Unlimited.” Or, we might say, to God. When the rebellion will reach its limit, however, only God knows. The instruments of torture with which O’Brien threatens Smith in 1984 are old and rusty; the regime has been in place for a long time, dragging the whole of Anglo-Saxon humanity with it into the Big-Brother nightmare. In The Ecumenic Age, Voegelin has these wise words: “A ‘modern age’ in which the thinkers who ought to be philosophers prefer the role of imperial entrepreneurs will have to go through many convulsions before it has got rid of itself, together with the arrogance of its revolt, and found the way back to the dialogue of mankind with its humility.”
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dimanche, 22 septembre 2013
Rechtsphilosophie nach ’45
Rechtsphilosophie nach ’45
von Günter Maschke
Ex: http://www.sezession.de
Zwar können Skizzen stärker anregen als penibel ausgeführte Gemälde, doch auch sie benötigen ihr Maß. Der Versuchung, sie allzu kärglich ausfallen zu lassen, widerstehen nur wenige.
Auch ein so umsichtiger und kenntnisreicher Rechtshistoriker wie Hasso Hofmann, dessen oft ungerechtes Buch Legitimität und Legalität – Der Weg der politischen Philosophie Carl Schmitts (1964) für immer aus dem Ozean der Carl-Schmitt-Literatur herausragt, ist dieser Gefahr erlegen. Wer die nunmehr 67 Jahre umfassende Geschichte der deutschen Rechtsphilosophie und -theorie seit dem Kriegsende auf 61 Seiten abhandelt (die Seiten 62–75 enthalten eine relativ stattliche Bibliographie), übertreibt den löblichen Willen, sparsam mit Papier umzugehen. Doch eine Taschenlampe ist nur eine Taschenlampe und ersetzt nicht einmal eine Notbeleuchtung.
Hofmanns asthenische Schrift (Rechtsphilosophie nach 1945 – Zur Geistesgeschichte der Bundesrepublik Deutschland, Berlin: Duncker&Humblot 2012. 75 S., 18 €), auf einem Vortrag vom Oktober 2011 bei der Siemens-Stiftung beruhend, beginnt mit der berühmten »Naturrechtsrenaissance« nach 1945. Ein eher behauptetes denn durchgeformtes aristotelisch-thomistisches Naturrecht, sich legierend mit der Soziallehre des politischen Katholizismus, bestimmte damals bis in die fünfziger Jahre die juristischen und rechtstheoretischen Debatten der frühen Bundesrepublik. Wie schon 1918 ließen sich die Geschlagenen vom sonst gerne ignorierten katholischen Gedanken anleiten. Zum großen Schuldigen am Desaster der Justiz unterm Nationalsozialismus wurde der »Rechtspositivismus« ernannt. Daß die deutschen Juristen sich zwischen 1933 und 1945 so willfährig zeigten, lag angeblich am hergebrachten »Gesetz-ist-Gesetz«-Denken, mit dem man das die Menschenwürde und die Menschlichkeit achtende Naturrecht ignorierte. Jetzt aber sollte der Vorrang der Lex naturalis (des durch die Vernunft allgemein erkennbaren Teils eines angeblich »ewigen Gesetzes«) gegenüber dem Jus positivum durchgesetzt werden; letzteres hatte sich ersterem unterzuordnen.
Aber der Skandal der Jurisprudenz während des Nationalsozialismus findet sich (zumal wenn man die damals eher geringe Produktion neuer Gesetze bedenkt!) nicht in einem knechtischen Rechtspositivismus, sondern in der Tendenz zur »unbegrenzten Auslegung« (Bernd Rüthers) schon lange bestehender Gesetze. Dabei darf man auch daran erinnern, daß diese sinistre Kunst der Auslegung sich nicht selten auf ein angebliches nationalsozialistisches Naturrecht stützte. Man begann also 1945 mit einer Legende – mit der Legende von der Schuld des Rechtspositivismus; Hofmann spricht hier triftigerweise von »Bewältigungsliteratur«. Diese Legende barg auch ein beachtliches destruktives Potential: Jetzt konnte man den Staat diffamieren und ihn bzw. das, was von ihm noch übriggeblieben war, demontieren. Der den Rechtspositivismus durchsetzende Leviathan wurde zerschnitten. Mittels der Legende vom Rechtspositivismus fälschte man den radikalen Nicht-Staat des Nationalsozialismus, einen wahren Behemoth, zu einem Staat, nein: zu einem extremen Hyper-Staat um. So wurde der Staat, die wehrhafte Relation von Schutz und Gehorsam, ein weiteres Mal, diesmal von einer anderen Seite her, attackiert. Im endlich vollendeten Großtrizonesien weihten sich schließlich auch die Juristen der vermeintlich so menschenfreundlichen Staatsfeindschaft.
Tatsächlich setzte diese Entwicklung, heute offen zutageliegend, 1945 mit den Leerformeln des Naturrechts ein. In einer sich beschleunigt säkularisierenden, partikularisierenden, an der Oberfläche pluralisierenden Gesellschaft wurde ein ewiges Sittengesetz verkündet, von dem man bekanntlich rasch gehörige Abstriche machen mußte. Der Einfluß des – wie seine Geschichte beweist! – so wandelbaren Naturrechts führte zu Absurditäten wie der, daß der Bundesgerichtshof 1954 den Verlobtenbeischlaf zur »Unzucht« erklärte. Die Meinung machte die Runde, daß das Recht dazu da sei, die Bevölkerung zu einer bestimmten Moral anzuhalten, – zu einer Moral, in der sich das wahre Wesen und die wahre Bestimmung des Menschen ausdrücken sollten. Im Rückblick verwundert es nicht, daß die mit Aplomb vorgetragenen Naturrechtsfragmente bald in einer Wertphilosophie des Rechts ihre Erbin fanden, einer Wertphilosophie, die mittlerweile das Staats- und Verfassungsrecht mit moralisierenden Suggestionen und Gesinnungseinforderungen zersetzt und die eine schreckliche Tochter gebar: die political correctness. Hier fehlt auch ein kritischer Blick auf das Surrogat einer Verfassung, auf das politisch wie intellektuell defizitäre Grundgesetz, das eher ein Oktroi der Besatzer war als eine eigene Schöpfung, – Hofmann rafft sich bei dieser Gelegenheit immerhin dazu auf, etwas spöttisch dessen »Sakralisierung« zu vermerken.
Gewiß hat sich der ideologische Überbau der Jurisprudenz seit den Jahren 1945 bis ca. 1955 beträchtlich verwandelt. Geblieben aber ist die Tendenz zur Abschaffung der Freiheit mittels der »Werte«. Zuweilen spürt man, daß Hofmann gegenüber einigen Aspekten dieser Entwicklung Einwände hegt, doch er spitzt nur mit großer Dezenz die Lippen und verbietet sich das Pfeifen. Die sich gemäß den hastigen Zeitläuften rasch ändernde Melange aus suggestiv sein sollenden Naturrechtselementen, aus dem Staate vorgelagerten »Werten« und aus einer eklektisch-vagen Humanitätsphilosophie, die zu unerbittlichen Exklusionen fähig ist, angereichert mit etwas Orwell und etwas Huxley – all diese so wandelbar scheinenden Ideologeme, die doch nur modernisierte Versionen der Melodie von 1945 sind, kommen zum immergleichen Refrain: Wen diese Worte nicht erfreuen, der verdienet nicht, ein Mensch zu sein.
Hofmann geht auch auf die Debatte zur analytischen Rechtsphilosophie, zur Rechtslogik und zur Topik ein, sowie auf die in den sechziger und siebziger Jahren Terrain gewinnende Rechtssoziologie. Man darf aber annehmen, daß sowohl das Rechtsbewußtsein der Bevölkerung als auch die juristische Praxis von dieser Art theoretischer Erörterungen wenig beeinflußt wurden. Bedeutsamer scheint da wohl der bald die Verfassungsebene erreichende Weg vom Rechtsstaat zum sozialen Rechtsstaat zu sein. Wir möchten hier aber Hofmanns so knappe Skizze nicht mittels einer noch kürzeren abschildern und reflektieren.
Zum Schluß wirft Hofmann noch einen Blick auf die allüberall kundgetane »Ankunft in der Weltgesellschaft«. In dieser wird angeblich die »Frage nach Zukunft« (Hofmann) unabweisbar. Doch die Forderung Kants, daß die »Rechtsverletzung an einem Platz der Erde an allen gefühlt« werde, ist nur eine trügerische, dazu noch intellektuell peinliche Hoffnung. Ein Weltbürgerrecht als Recht von Individuen, das an die Stelle des internationalen zwischenstaatlichen Rechts tritt, führt nur zu einem zügellosen Pan-Interventionismus und Menschenrechtsimperialismus, dessen »Vorgriffe« auf das Weltbürgerrecht uns in den letzten Jahren einige entsetzliche Blutbäder bescherten. Der Träger des Friedenspreises des Deutschen Buchhandels, Jürgen Habermas, hielt den Kosovo-Krieg, in dem die NATO alle bisherigen Rekorde in der Disziplin »Propagandalüge« brach, für einen derartigen »Vorgriff« auf die von ihm geliebte schwarze Utopie des Weltbürgerrechts, – wenn auch, wie es einem kritischen Intellektuellen bei uns ziemt, aus Naivität und nicht aus Bosheit.
Soll man zum Ewigen Frieden durch den Ewigen (dazu noch Gerechten) Krieg gelangen? Es gibt einige alte, sich immer wieder bestätigende Wahrheiten: Wer Menschheit sagt, will betrügen, und Ordnung kann nur auf Ortung beruhen. An diesen Wahrheiten festzuhalten, wäre die ehrenvolle Aufgabe eines Rechtsdenkens, das, um seine fast ausweglose Schwäche wissend, die furchtbaren Tatsächlichkeiten beim Namen nennt und diese weder ganz oder partiell beschweigt, verharmlost, noch, nachdem man sich zum Hans Wurst des Gerechten Krieges machte, mit etwas Bedauern rechtfertigt. Dazu sollte man auch verstehen, daß das Recht nicht den Frieden schaffen kann, sondern – im Glücksfall! – der Frieden das Recht.
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vendredi, 20 septembre 2013
Cioran, le flâneur aux idées noires
Archives - 1995
Cioran, le flâneur aux idées noires
Notre plus illustre moraliste s'est choisi sa vie. En adoptant la langue française comme une patrie, en décidant de ne jamais travailler, en veillant quand le monde dort...
Cioran est peut-être notre dernier écrivain légendaire. Grâce à son refus des projecteurs et à son indifférence aux honneurs, il a conservé une part de mystère - d'autant qu'il ne s'est jamais donné la peine de corriger les erreurs qui courent à son propos. Ainsi, les dictionnaires sont unanimes à le prénommer Emil Michel. La réalité est tout autre: comme Emil lui paraissait ridicule pour des oreilles françaises, il a adopté les initiales E.M., autrement dit les deux premières lettres de son prénom, en songeant au romancier anglais E.M. Forster.
Emil Cioran, donc, est né en 1911 à Rasinari, village de Transylvanie, alors sous domination austro-hongroise. Son enfance est enchantée: il galope dans les collines en toute liberté et écoute les bergers dont les histoires proviennent de la nuit des temps. En 1921, ce bonheur prend fin brutalement. Son père, un prêtre orthodoxe, le conduit au lycée de Sibiu, la grande ville voisine où se côtoient Roumains, Hongrois et Allemands. Sept ans plus tard, il part étudier la philosophie à Bucarest. La rupture qui va déterminer toute son existence date de cette époque: le sommeil le fuit. Tenté un moment par le suicide, il préfère suivre le conseil de Nietzsche et transformer ses insomnies en un formidable moyen de connaissance: "On apprend plus dans une nuit blanche que dans une année de sommeil." Etudiant brillant, il écrit son premier livre, Sur les cimes du désespoir, à l'âge de vingt-deux ans. Beaucoup le considèrent comme un des espoirs de la jeune littérature roumaine, aux côtés d'Eugène Ionesco ou du déjà illustre Mircea Eliade.
Après un séjour à Berlin, le voici professeur de philosophie au lycée de Brasov durant l'année scolaire 1936-1937. Expérience mouvementée, si l'on en juge par son surnom dans l'établissement: "le Dément". A l'en croire, le directeur "se saoule la gueule" le jour de son départ! Mais il doit laisser un sacré souvenir à ses élèves, car certains viendront encore lui rendre visite au bout de plusieurs décennies. C'est en tout cas une expérience unique: il n'exercera plus jamais la moindre activité professionnelle.
En 1937, une bourse de l'Institut français de Bucarest lui permet d'aller préparer sa thèse à Paris. Non seulement il n'en écrit pas le premier mot, mais il est même incapable d'imaginer un titre... Les années suivantes sont consacrées à d'immenses lectures, à des randonnées à vélo dans les provinces françaises, à la poursuite de son ?uvre en roumain. Cioran vit comme il l'entend: pauvrement, mais sans contraintes, libre de déambuler des nuits entières dans les rues et d'approfondir ses obsessions. Pourtant, il se rend compte qu'il s'est engagé dans une impasse. Il vaudrait mieux, prétend-il, être un auteur d'opérettes que d'avoir écrit six livres dans une langue que personne ne comprend!
Selon son propre témoignage, il aurait décidé d'adopter le français alors qu'il traduisait Mallarmé en roumain. D'autres épisodes ont sans doute joué un rôle important, en particulier un cours au Collège de France durant lequel un mathématicien étranger effectue une démonstration au tableau noir sans avoir besoin d'ouvrir la bouche. Cette mue linguistique est aussi capitale que l'abandon du russe par Nabokov au profit de l'anglais. Désormais, le français - et qui plus est, le français du XVIIIe siècle - va lui servir de "camisole de force"; la langue de Chamfort va corseter le lyrisme balkanique d'un désespéré qui ne jure que par Thérèse d'Avila et Dostoïevski. De là vient ce ton unique: cette invraisemblable synthèse entre la fièvre et la sagesse, entre le délire mystique et l'ironie des moralistes classiques.
En 1947, Gallimard accepte la première mouture du Précis de décomposition. Cioran retravaille son manuscrit, qui est publié deux ans plus tard. Les critiques sont excellentes, mais le public ne suit pas. Et cette situation va se prolonger pendant près de trente ans. Il faut dire que Cioran est aux antipodes de Jean-Paul Sartre, qui fait alors la pluie et le beau temps, et qu'il éprouve une haine inexpiable envers le communisme. Les nouveaux maîtres roumains ont emprisonné son frère et certains de ses amis, et ses livres sont interdits de l'autre côté du rideau de fer. Cependant, plusieurs éléments lui donnent la force de surmonter les humiliations, les échecs, les volumes pilonnés. Ses amis, d'abord, qui se nomment Ionesco, Eliade, Beckett, Michaux ou Gabriel Marcel. Ses lecteurs, ensuite, très rares mais généralement fanatiques: "Les gens qui s'intéressent à moi ont forcément quelque chose de fêlé..."
Et puis, peu à peu, le couvercle se soulève. En 1965, François Erval publie le Précis de décomposition en édition de poche. Une nouvelle génération découvre Les syllogismes de l'amertume et La tentation d'exister. Des traductions paraissent en Allemagne, aux Etats-Unis, en Espagne; les articles se multiplient; les chiffres de vente décollent enfin du plancher.
Obscur ou fameux, Cioran demeure tel qu'en lui-même. Il continue à fuir les médias et à décliner les prix littéraires. Il brode inlassablement, dans un style d'une élégance glaciale, sur les thèmes qui le hantent depuis l'adolescence: le vertige du temps, la mort, "l'inconvénient d'être né", le mysticisme chrétien, l'essoufflement de la civilisation occidentale, Bouddha, Shakespeare, Bach. Sans doute considère-t-il cette célébrité tardive comme un malentendu; lorsqu'il plaint Borges, c'est à lui-même qu'il songe: "La consécration est la pire des punitions (...) A partir du moment où tout le monde le cite, on ne peut plus le citer, ou, si on le fait, on a l'impression de venir grossir la masse de ses ''admirateurs", de ses ennemis."
Aveux et anathèmes est publié en 1987. C'est son dernier livre. Si les bruits qui courent en avril 1988 sur une éventuelle tentative de suicide sont infondés, en revanche, il est exact qu'il renonce définitivement à écrire. Atteint par une maladie grave, Cioran vit aujourd'hui dans un hôpital parisien. Cinquante-huit ans après avoir quitté la Roumanie pour jeter l'ancre au Quartier latin, il a toujours le statut d'apatride.
Ce que je sais à soixante, je le savais aussi bien à vingt. Quarante ans d'un long, d'un superflu travail de vérification...
(De l'inconvénient d'être né)
Ma vision de l'avenir est si précise que, si j'avais des enfants, je les étranglerais sur l'heure.
(De l'inconvénient d'être né)
Cioran
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