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mardi, 27 décembre 2011

La riconquista della Libia e la putrefazione morale della sinistra europea

La riconquista della Libia e la putrefazione morale della sinistra europea

di Bahar Kimyonpur

Fonte: aurorasito.wordpress

KADHAFI 03.jpgCome è possibile che il movimento contro la guerra abbia lasciato fare? Come è possibile che degli scaltri attivisti siano arrivati ad inghiottire tutto ciò che Sarkozy, TF1, Le Monde, France 24 e BBC hanno rovesciato su Gheddafi? Come è possibile che esseri dotati di coscienza e di acuta intelligenza non abbiano imparato la lezione della tragedia che tuttora si sta svolgendo sotto i loro occhi in Afghanistan e in Iraq? Come è possibile che l’estrema sinistra europea abbia potuto applaudire la coalizione militare più predatrice al mondo? Come è possibile che il linciaggio di un capo del terzo mondo, torturato a calci, pugni e calci di fucile, sodomizzato con un cacciavite; il supplizio di un nonno di 69 anni, che ha visto quasi tutta la sua famiglia spazzata via, compresi dei neonati, abbia riunito nel medesimo coro gli “Allah o Akbar” dei teppisti jihadisti, il “Mazel Tov” del filosofo Legion d’honore franco-israeliano Bernard-Henri Lévy, il cin-cin dei signori della NATO, l’esplosione di gioia cinica di Hillary Clinton sulla CBS e gli applausi dei pacifisti europei?

 


Ricordiamoci che per evitare l’invasione dell’Iraq, il cui regime era molto più dispotico di quello di Muammar Gheddafi, eravamo  dieci milioni in tutto il mondo. Da Jakarta a New York, da Istanbul a Madrid, da Caracas a New Delhi, da Londra a Pretoria, avevamo messo da parte la nostra ostilità nei confronti della dittatura baathista, per fermare l’atto più irreparabile, più distruttivo, più vergognoso, più terroristico e barbaro, e cioè la guerra.
A parte le molte espressioni di sostegno alla Jamahiriya libica, organizzate nel continente africano e, in misura minore, in America Latina e in Asia, la solidarietà con il popolo libico è stata quasi inesistente. Questo popolo composto da una miriade di tribù, di costumi e di volti, questo popolo che ha commesso il crimine di amare il suo dirigente e “dittatore”, di appartenere alla parte sbagliata, alla tribù cattiva, alla zona sbagliata o al quartiere sbagliato, non ha ricevuto alcuna compassione.

 


I media allineati hanno ignorato l’esistenza di questo popolo che, il 1° luglio, di nuovo, era un milione per le strade di Tripoli a difendere la propria sovranità nazionale, la sua vera rivoluzione autentica, e questo in barba dei cacciabombardieri della NATO. Allo stesso tempo, un altro popolo, quasi identico a quello di Tripoli, un popolo altrettanto innocente, che non aveva raccolto più di poche decine di migliaia di manifestanti, anche con l’appoggio schiacciante dei commandos del Qatar [1], dei propagandisti della Jihad di Egitto, Siria e Giordania [2], anche con le ingannevoli tecniche di ripresa di al-Jazeera per amplificare l’effetto della folla, vennero scelti nel ruolo di “unico popolo.”

 


Questo popolo godette di ogni favori e attenzione. Anche di ogni armi e ogni impunità. L’umanesimo paternalistico e interessato della NATO verso questi poveracci, ha commosso i nostri sinistri, al punto di  fargli dire: “Per una volta, la NATO ha fatto bene a intervenire”.
Non c’è dubbio che il miraggio degli sconvolgimenti sociali, chiamati abusivamente “Primavera araba”, ha contribuito a confondere le acque, probabilmente l’inversione di tendenza (in coincidenza con le dimissioni di molti giornalisti indipendenti), dei canali satellitari arabi come al-Jazeera, che ora sono i giocattoli delle monarchie del Golfo e degli strateghi statunitensi, ha creato confusione, non c’è dubbio che la guerra di propaganda questa volta era meglio preparata, probabilmente le farneticazioni di Muammar Gheddafi e del figlio Saif al-Islam, deliberatamente tradotte male dalle agenzie stampa internazionali, hanno aiutato la propaganda occidentale a rendere questi uomini odiosi. Tuttavia, questo può spiegare l’incredibile silenzio di approvazione dei movimenti alternativi europei, che sostenevano il cambiamento sociale.

 

Difendere i deboli contro i forti

 


Sin dagli albori dell’umanità, è una virtù che da sempre ha sollevato l’uomo, il senso della giustizia. Quando la giustizia è assente, a volte, gli uomini sono presi da una sete inestinguibile e lottano per essa, a costo della loro vita. Nel corso della storia, diversi movimenti filosofici e sociali hanno preso la causa della giustizia.
Oggi e nei nostri paesi, le donne e gli uomini che bruciano per Dame Themis, si dicono spesso di essere di sinistra. Hanno fatto della difesa dei deboli contro i potenti la loro lotta, a volte, il loro scopo. Rifiutano categoricamente la legge della giungla. Scrutando la storia, questi amanti della giustizia si pongono quasi per riflesso dalla parte degli Spartani contro le truppe del re persiano Serse, dalla parte dei Galli e dei Daci contro le legioni romane, dalla parte degli Aztechi o degli Incas contro i conquistadores di Pizarro o Cortes, o dalla parte dei Cheyenne contro la Cavalleria USA del colonnello Chivington o del Generale Custer [3].
Il giusto non si lascia ingannare. Sa che è in nome delle nobili cause come civiltà, modernità o diritti umani, che il colonizzatore ha ridotto i “barbari” in stato di schiavitù e distrutto quasi 80 milioni di indiani americani.

 


Sa anche che difendendo il diritto alla vita degli amerindi, ad esempio, indirettamente avvalla società che erano impegnate in conflitti fratricidi e in guerre di annessione, che praticavano sacrifici umani o lo scalpo. Il Giusto è consapevole che se si opponeva alla guerra in Iraq, riconosceva implicitamente la sovranità nazionale dell’Iraq e, quindi, la continuazione del potere di Saddam Hussein. Questo paradosso non ha impedito la giusta indignazione del trattamento da parte del regime iracheno baathista o dalla Jamahiriya libica, dei loro avversari. Ha giustamente denunciato l’abuso di potere e alcuni privilegi del sistema Gheddafi, a cominciare dalla Guida stessa, dalla sua famiglia e dal suo clan, torture e esecuzioni sommarie perpetrate dai servizi di sicurezza libici, le operazioni di seduzione che il regime aveva lanciato verso le potenze imperialiste corrompendone i capi di Stato.
Ma quando i dissidenti libici si sono compromessi coi peggiori nemici del genere umano, quando divennero dei volgari agenti dell’Impero e si sono a loro volta impegnati in tali atti barbarici contro i lealisti, le loro famiglie, i libici neri e i migranti sub-sahariani, i nostri giusti non hanno fatto marcia  indietro. Non hanno denunciato l’impostura. Avrebbero potuto dire “piuttosto che  fare la guerra in Libia, salviamo il Corno d’Africa sacrificato dai mercati finanziari“.

 


Distruggendo il paese più prospero e più solidale dell’Africa, mentre il Corno d’Africa muore di fame e di siccità, l’Impero ci ha dato un’opportunità unica per schiaffeggiarlo. Ma invece di richiamare la realtà crudele ma anche intelligibile e concreta di un semplice slogan di lotta, il nostro giusto si sono rifugiati nel silenzio, accontentandosi di rivangare gli stessi vecchi luoghi comuni sul regime libico, per sentirsi bene e giustificare la loro codardia.
Eppure il giusto non sta mai zitto con gli stolti, come non ulula mai con i lupi. Non accosta mai indietro il piccolo e il grande tiranno. Non che lui apprezzi il piccolo tiranno, ma sente che in un mondo in cui il Leviatano atlantista è caratterizzato da avidità, violenza e criminosità senza pari, sia indegno di unire le forze con esso per schiacciare il piccolo tirano, in questo caso Gheddafi.

 


Se la resistenza anti-regime, che ha avuto inizio in Cirenaica, roccaforte dei monarchici, dei salafiti e di altri funzionari filo-occidentali, avesse rilevato un qualche slogan anti-imperialista, se fosse un poco patriottico, progressista, onesto, coerente e organizzato, allora la questione del sostegno non si sarebbe postam perché con un tale programma e un tale profilo, non riuscendo a corromperla, la NATO avrebbe almeno cercato di sostenere l’altra parte, cioè quella di Gheddafi.

 


Ma dall’inizio della rivolta, era ovvio che la presenza al suo interno di alcuni intellettuali e cyber-dissidenti vuoti, ricevessero un eccezionale sostegno multimediale (anche se, ovviamente, non rappresentavano che se stessi e i loro protettori occidentali), non ne facevano un movimento democratico e rivoluzionario.

 


Pertanto, in Libia, il Giusto doveva difendere Gheddafi, nonostante Gheddafi. Doveva difenderlo non per simpatia per la sua ideologia o le sue pratiche, ma per realismo. Perché, nonostante alcuni aspetti discutibili delle sue manovre diplomatiche e del suo governo, in Libia, in Africa e nel Terzo Mondo, Gheddafi rappresentava con i suoi investimenti economici, programmi sociali, il suo sistema secolare, il tentativo (anche se senza successo) di creare una democrazia diretta garantita dalla Carta verde del 1988, la sua politica monetaria che sfidava la dittatura del franco CFA e, infine, le sue forze armate, l’unica alternativa reale e pratica al dominio coloniale, in assenza di qualcosa di meglio in una regione dominata da correnti oscurantiste e servili.

 

La stupidità del “né-né”

 


Né la NATO né Slobodan. Né Saddam né gli USA. Né gli Stati Uniti né i taliban. In ogni guerra, ci servono la stessa ricetta. Di fronte a un predatore che l’umanità non ha mai sperimentato prima, che ora controlla terra, mare e cielo, un nemico senza legge che ha giurato di mettere l’umanità in ginocchio e di far dominare il secolo americano, il loro motto è un vibrante “né-né”. Mentre il vaso di ferro ha polverizzato il vaso di coccio, ciò che trovano da dire è semplicemente un “né-né”. Questa posizione di apparente innocenza, serve solo a scoraggiare e a smobilitare le forze della democrazia e della pace. Offre quindi un assegno in bianco alle forze che dirigono le operazioni di conquista della Libia.
Tra i “né-né” alcuni intellettuali che si pretendono trotskisti come Gilbert Achcar, che ha tristemente applaudito la guerra di conquista della NATO. [4]

 


Altri, come il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), hanno adottato un atteggiamento schizofrenico, che va dalla critica “formale” della NATO (quando comunque non passano che per dei pro-imperialisti, in ogni caso) e l’approvazione delle sue missioni per eliminare Gheddafi. [5]

 


Altri attivisti vicini allo stesso movimento [6], sono giunti a chiedere di lanciare armamenti ai mercenari jihadisti al soldo della NATO, quegli stessi fanatici che vogliono combattere il nazionalismo di Gheddafi considerato una minaccia al loro progetto pan-islamico, bruciando il suo Libro Verde, tacciato di essere una “opera perversa”, “comunista e atea“, volta a “sostituire il Corano“.

 


Secondo alcuni membri di una IV Internazionale tanto ipotetica quanto inoffensiva, il CNT sarebbe malgrado tutto ancora una “forza rivoluzionaria”. Poco importa se il CNT è composto da ex torturatori di Gheddafi, da mafiosi e  islamisti sgozzatori di “miscredenti laici”, poco importa che il CNT sia nostalgico del fascismo e del colonialismo italiano [7] e che desideri consegnare la Libia all’Impero su un piatto d’argento, se il CNT è finanziato e armato dalla CIA, dai commandos britannici delle SAS, dai regni del Qatar e dell’Arabia Saudita e anche dal presidente sudanese Omar al-Bashir, perseguito dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, indipendentemente dal fatto che la NATO abbia commesso crimini contro la popolazione civile della Jamahiriya, i nostri amici trotzkisti hanno deciso: il CNT è l’avanguardia rivoluzionaria…

 


Nostalgici della guerra civile spagnola come sempre, alcuni di loro mi hanno detto che bisognava offrire ai ribelli libici delle nuove brigate internazionali. Senza dubbio erano contenti quando il bullo dei salotti, il grande amatore delle tirate anti-franchiste, il rinomato BHL li ha dato ascolto. Brandendo la clava della libertà che riflette la sua sacra immagine e con la bandiera fregiata con l’invincibile rosa dei venti, il Durruti miliardario ha sbaragliato le truppe di Gheddafi battendosi il suo petto glabro. Entrò a Tripoli senza fretta alla testa della sua Brigata Internazionale, a cavallo di un missile Tomahawk …

 


Non è forse alquanto ridicolo, per dei sinistri che non hanno mai toccato una pistola nella loro vita e che sputano su tutti i guerriglieri marxisti del mondo, perché sono stalinisti, fare campagna per la consegna di armi prodotti dalla fabbrica bellica belga FN di Herstal, destinate ai mercenari indigeni al soldo della nostra élite?

 


Compagni trotzkisti, diteci allora quante armi avete inviato ai “vostri” liberatori? Quanti brigatisti avete inviato sul campo di battaglia? Quanti corrieri avete reclutato? Onestamente, tra gli ausiliari barbuti della NATO e i soldati dell’esercito di Gheddafi arruolati sotto la bandiera del panafricanismo, chi assomiglia di più alle Brigate Internazionali? Come una tale cecità, un tale decadimento ideologico e morale si sono potuti verificare tra le forze che si pretendono radicali e progressiste?

 


Dopo averci scioccato e, a volte disgustato, per le sue scappatelle, il suo orgoglio e la sua eccentricità, Muammar Gheddafi, al termine della sua vita, ha almeno avuto il merito di riconnettersi con il suo passato rivoluzionario. Al momento più critico della sua vita, ha resistito alla NATO. E’ rimasto nel suo paese, sapendo che l’esito della battaglia sarebbe stato fatale. Ha visto i suoi figli e i suoi nipoti essere massacrati, e tuttavia non ha tradito le sue convinzioni e il suo popolo.

 


Possiamo sperare che un giorno un terzo del quarto del coraggio, dell’umiltà e della sincerità di Gheddafi, sia nei nostri compagni della sinistra europea, nella loro lotta contro il comune nemico del genere umano?

 

Note
[1] Su ammissione del generale Hamad bin Ali al-Attiya, Capo di Stato Maggiore del Qatar. Fonte: Libération, 26 ottobre 2011
[2] Ribelli “libici” che parlavano dialetti provenienti da diversi paesi arabi, sono stati regolarmente mostrati sui canali satellitari arabi.
[3] In tutti questi casi, tribù in lotta con i loro fratelli nemici hanno chiamato o si sono alleati con gli invasori. L’alleanza CNT-NATO è l’episodio finale della lunga storia di guerre di conquista supportate dai popoli indigeni.
[4] Intervista a Gilbert Achcar di Tom Mills sul sito britannico New Left Project, 26 agosto 2011. Versione in francese dell’intervista disponibile su Alencontre.org
[5] Comunicato della NPA del 21 agosto e 21 ottobre 2011.

[6] Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale (VI Internazionale), Partito Operaio argentino…
[7] L’8 ottobre 2011, il Presidente del Consiglio nazionale di transizione (CNT) libico, Mustafa Abdel Jalil ha celebrato il centenario della colonizzazione italiana della Libia assieme al ministro della difesa italiano Ignazio La Russia, del Movimento sociale italiano (MSI), un partito neofascista. Questo periodo di deportazioni, esecuzioni e saccheggi per Abdel Jalil era l’”era dello sviluppo“. Fonte: Manlio Dinucci, Il Manifesto, 11 ottobre 2011

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora


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La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno

La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]




È quasi incredibile il fatto che neppure la crisi gravissima che le nostre società stanno attraversando abbia sollecitato negli ambienti culturali, oltre che in quelli economici, un serio dibattito sulle origini di essa e sui meccanismi della finanza che consentono di eludere il fisco e di spostare continuamente ingenti capitali al di fuori di qualsiasi controllo; meccanismi così capillari e pervasivi che perfino il più modesto cittadino, attraverso la trasformazione del risparmio in titoli azionari, diventa possessore teorico di proprietà delle quali non conosce assolutamente nulla se non il controvalore, sempre mutevole, in quotazioni borsistiche.
Questa arretratezza culturale quasi inconcepibile o, per dir meglio, questa assordante assenza di riflessione e di dibattito è, in larga misura, uno dei tanti effetti negativi che l’egemonia del marxismo ha avuto nella mentalità occidentale, anche fra coloro che lo hanno avversato e che lo hanno combattuto.
Una volta stabilito, in via definitiva, che Marx indiscutibilmente era un genio dell’economia politica, non restava che prendere per buona la sua analisi e attrezzarsi di conseguenza, sia che si auspicasse la rivoluzione comunista da lui propugnata, sia che la si paventasse; per cui non solo milioni di cittadini comuni, ma anche quasi tutta la schiera degli economisti e moltissimi filosofi dell’economia, sono rimasti letteralmente ipnotizzati dalle sue formule, dai suoi slogan e dai suoi mantra, ripetuti all’infinito con monotona ed esasperante insistenza.
Senonchè, Marx non era, forse, quel genio dell’economia che tutti affermano: la sua analisi dell’economia politica parte dalla realtà storica del 1848, ma vista - come osserva acutamente Oswald Spengler - con gli occhi di un liberale del 1789; in altre parole, le sue basi culturali erano quelle del diciottesimo secolo, e del capitalismo moderno egli aveva compreso poco o nulla, benché la rapida evoluzione di esso fosse proprio sotto i suoi occhi.
In particolare, Marx non si rese conto della crescente, inarrestabile trasformazione del capitale industriale in capitale finanziario e basò la sua riflessione su una figura quasi mitologica, quella del capitano d’industria che sfrutta gli operai della fabbrica, secondo il modello di Charles Dickens, mentre ben altri erano i meccanismi in movimento e ben altre le modalità di accumulazione capitalistica, assai più complesse e meno spettacolari.
E tuttavia, per quasi un secolo e mezzo, le masse occidentali sono rimaste affascinate e incantate da quella mitologia, da quello schema in bianco e nero, che presentava tutto come semplice e chiaro: di qua gli sfruttatori, alcuni loschi individui in cilindro e redingote, di là le masse sfruttate e sofferenti, gli onesti operai dalle mani callose, costretti a farsi schiavi delle macchine per impinguare i forzieri dei loro insaziabili padroni.
Lo stereotipo ingenuamente manicheo ha retto almeno fino al 1968, aiutato dal fatto, invero paradossale, che la cultura egemone in Italia, e in buona parte del mondo, fino a quella data e ancora oltre, è stata quella di matrice marxista, ma senza che praticamente nessuno di quanti la professavano si fosse dato in realtà la pena di leggere i ponderosi, noiosissimi volumi de «Il Capitale», e tanto meno di leggerli con un minimo di spirito critico. Non si legge un testo religioso con spirito critico, specialmente se si è degli apostoli zelanti: e tali si sentivano milioni di giovani e di meno giovai rivoluzionari” di sinistra, che facevano il tifo - oltre che per Marx - per Lenin, Stalin, Mao, Ho-chi-min e “Che” Guevara. I testi religiosi si citano come verità rivelata e si brandiscono come spade, magari per chiudere la bocca a qualche arrogante infedele.
L’immagine marxiana di una semplicistica contrapposizione fra “capitalista” e “proletario” è rimasta inalterata anche quando Engels, e soprattutto Lenin, hanno ripreso il discorso, riprendendolo là dove Marx di fatto lo aveva lasciato e sviluppando l’analisi del capitalismo finanziario, dei trust, dei cartelli e delle forme impersonali del capitale; ed è rimasta inalterata per la buona ragione che è molto più semplice creare un immaginario collettivo a sfondo mitologico, come ben sanno gli ideatori delle varie forme di pubblicità, specialmente televisiva, che non modificarlo o riequilibrarlo, una volta ch’esso si sia imposto.
Scriveva, dunque, Spengler ne «La rigenerazione del Reich» (titolo originale: «Neubau des Deutschen  Reiches», Munchen, 1924; traduzione italiana di Carlo Sandrelli, Edizioni di Ar, Padova, 1992, pp. 92-95):

«L’ideale delle imposte dirette, calcolate in base ad una corretta valutazione fiscale dei propri redditi e pagate personalmente da ogni concittadino, oggi domina così incondizionatamente che la sua equità ed efficacia sembrano evidenti. La critica si rivolge ad aspetti particolari, non al principio in quanto tale. Eppure esso deriva non da considerazioni ed esperienze pratiche, ed ancor meno dalla preoccupazione di sostenere la vita economica, bensì DALLA FILOSOFIA DI ROUSSEAU. Ai crudi metodi degli appaltatori e degli esattori del 18° secolo, volti esclusivamente alla realizzazione di un profitto, esso contrappone il concetto dei diritti umani nati, fondato sulla rappresentazione dello Stato come frutto di un libero contratto sociale - figura, questa, che a sua volta viene contrapposta alle forme statali storicamente sviluppatesi. Secondo questa concezione, è dovere del singolo cittadino e rientra nella sua dignità umana stimare personalmente e pagare personalmente la propria partecipazione al pagamento dei carichi che gravano sull’intera società. Da questo momento la moderna politica fiscale si fonda, dapprima inconsapevolmente poi in modo sempre più chiaro, in corrispondenza con la crescente democratizzazione dell’opinione pubblica, su una Weltanschauung che cede ai sentimenti e agli stati d’animo politici, alla fine escludendo completamente un riflessione spregiudicata sull’adeguatezza dei procedimenti correnti. Quel concetto tuttavia era allora sostenibile. A quell’epoca, la struttura dell’economia era tale che i singoli redditi erano tutti palesi e facilmente accertabili. Essi derivavano dall’agricoltura, da un ufficio oppure dal commercio e dall’industria., dove, in virtù di un’organizzazione corporativa, ognuno poteva conoscere la situazione dell’altro. Non esistevano entrate maggiori da tener nascoste. Inoltre, allora i patrimoni erano un possesso immobile e visibile: terra e campi, case, aziende ed imprese che ognuno sapeva a chi appartenevano. Ma proprio con la fine de secolo è intervenuto nell’ambito economico un sovvertimento che ne ha interamente modificatola struttura interna, il ciclo ed il significato, e che risulta molto più importante di ciò che Marx intende per capitalismo”, ossia l’egemonia dei capitani d’industria. Proprio la dottrina di Marx, poiché parte da una segreta invidia e perciò può scorgere soltanto la superficie delle cose, per un secolo intero ha disegnato con linee false l’immagine riconosciuta dell’economia. L’influenza delle sue formule speciose è stata tanto maggiore in quanto essa ha rimosso i giudizi riferiti all’esperienza, soppiantandoli con i giudizi dettati dal sentimento. È stata così grande che nemmeno i suoi avversari vi si sono sottratti e che la normativa moderna sul lavoro poggia totalmente sui concetti fondamentali interamente marxisti di “prestatore di lavoro”e “datori di lavoro” (come se questi ultimi non lavorassero). Poiché queste formule si riferiscono agli operai delle grandi città, la dottrina rifletteva la svolta decisiva intervenuta verso la metà del XIX secolo con la rapida crescita della grande industria. Ma proprio nell’ambito della grande tecnica lo sviluppo era stato assai regolare. Un’industria meccanica esisteva già dal 18° secolo. Agisce piuttosto da fattore decisivo il progressivo svanire della proprietà intesa come qualità naturale delle cose possedute, con l’introduzione di certificati di valore, quali i crediti, le partecipazioni o le azioni. I patrimoni individuali diventano mobili, invisibili e inafferrabili Essi non CONSTANO più di cose visibili, giacché in queste ultime sono INVESTITI ed in ogni momento possono mutare il luogo e le modalità di investimento. Il PROPRIETARIO delle aziende si è contemporaneamente trasformato in POSSESSORE di azioni. Gli azionisti hanno perduto qualsiasi rapporto naturale, organico con le aziende. Essi nulla capiscono delle loro funzioni e capacità produttive, né se ne interessano: badano solo al profitto. Possono cambiare rapidamente, essere molti o pochi, e trovarsi in qualsiasi luogo; le quote di partecipazione possono essere riunite in poche mani, oppure disperse o addirittura finire all’stero. Nessuno sa a chi realmente appartenga un’azienda. Nessun proprietario conosce le cose che possiede. Conosce soltanto il valore monetario di questa proprietà secondo le quote di Borsa. Non si sa mai quante delle cose che si trovano entro i confini di un Paese appartengono ai suoi abitanti. Infatti, da quando esiste un servizio elettrico di trasmissione delle notizie - che con una semplice disposizione orale consente di cambiare anche la titolarità delle azioni oppure di trasferirle all’estero -, la partecipazioni di azionisti azionali in aziende del nostro Paese può aumentare o ridursi di quantità impressionanti in un’ora di Borsa, a seconda che gli stranieri cedano o acquistino pacchetti azionari, magari in un solo giorno. Oggi in tutte le Nazioni ad economia avanzata oltre la metà delle proprietà è diventata mobile ed i suoi mutevoli proprietari sono disseminati per tutta la terra, avendo perduto ogni interesse che non sia finanziario al lavoro effettivamente compiuto. Anche l’imprenditore è diventato sempre più un impiegato ed un oggetto di questi ambienti. Tutto questo non è riconoscibile nelle aziende medesime e non è accettabile con alcun metodo fiscale. Così però svanisce la possibilità di verificare l’assolvimento del dovere fiscale della singola persona, se il possessore di valori variabili non lo vuole. Lo stesso vale in misura crescente per i redditi. La mobilità, la libertà professionale, la soppressione delle corporazioni sottrae il singolo al controllo dei suoi compagni di lavoro. Da quando esistono ferrovie, piroscafi, giornali e telegrammi, la circolazione delle notizie ha assunto forme che liberano L’acquisto e la vendita dal limite del tempo e dello spazio. La vendita a distanza domina l’economia. Le transazioni a termine superano il semplice scambio tra produttori e consumatori. Il fabbisogno locale per il quale lavorava la corporazione viene ora soddisfatto dalla Borsa merci, che approfitta dei nessi tra la produzione, la distribuzione e il consumo di cose per realizzare guadagni speculativi. Per le banche, al posto delle operazioni di cambio del 18° secolo,la fonte principale di guadagno diventa l’erogazione di crediti, mentre la speculazione con i valori diventati mobili decide da un giorno all’altro nella Borsa valori sull’ammontare del patrimonio nazionale. Così anche i profitti commerciali e speculativi risultano sottratti a qualsiasi controllo ufficiale,  alla fine rimangono soltanto i redditi medio-bassi che, come i salari e gli stipendi, sono così modesti che non è proprio possibile sbagliarsi sulla loro entità.»

Può essere una scoperta, per quanti hanno sempre considerato Spengler semplicemente come un filosofo della storia, scoprire in lui una tale acutezza nell’analisi dell’economia politica e una tale indipendenza di giudizio rispetto a un “mostro sacro” come Marx, del quale coglie tutta l’insufficienza speculativa, nonché i sotterranei meccanismi psicologici (la «segreta invidia» del piccolo borghese declassato rispetto ai ricchi imprenditori; salvo poi vivere senza alcun imbarazzo, si potrebbe aggiungere, sul portafoglio di quegli aborriti signori, tramite l’amico Engels che era, appunto, figlio di un capitano d’industria).
In effetti, la fama - positiva o negativa, questo non importa - de «Il tramonto dell’Occidente» ha messo alquanto in ombra le altre opere di questo filosofo e gli svariati e molteplici aspetti del suo itinerario speculativo.
Ma forse, vi è un’altra ragione per cui il cliché mitologico marxiano del capitalismo ha avuto tanto successo, nonostante la sua palese rozzezza e inverosimiglianza: il fatto che ampliare l’analisi dei meccanismi finanziari speculativi avrebbe recato un colpo decisivo all’immagine del proletario moralmente sano e antropologicamente differente dal bieco capitalista.
La verità è che, nella speculazione finanziaria, il cittadino comune è contemporaneamente vittima e carnefice: vittima, perché i suoi risparmi sono risucchiati in un mostruoso, anonimo meccanismo che li utilizza in modi a lui sconosciuti e, comunque, incomprensibili; carnefice, perché egli stesso si avvantaggia della legge della giungla che domina nelle Borse, e realizza margini di profitto ogni qualvolta si indeboliscono titoli e azioni detenuti da altri piccoli risparmiatori, simili a lui.
Tutto questo, naturalmente, non si accorda con il mito dell’operaio e del “lavoratore” senza macchia e senza paura, versione marxista del roussoiano “buon selvaggio”, perciò andava rimosso: le bandiere della rivoluzione andavano sventolate in omaggio a dei fantasmi ideologici, non alla realtà.


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Chypre et Israël vs Turquie : de l’eau dans le gaz... et le pétrole !

Chypre et Israël vs Turquie : de l’eau dans le gaz... et le pétrole !

Traduit par Laurelou Piguet - ex: http://mbm.hautetfort.com/
Sur la Toile :

 
Leviathan serait le plus important gisement de gaz naturel offshore de Méditerranée, avec 481 milliards de m3, soit 16% de la production annuelle mondiale. Situé dans la mer méditerranée, à 130km au large d’Haïfa, ce gisement fait l’objet d’un important contentieux territorial entre Israël, le Liban et Chypre, les frontières maritimes n’ayant jamais été clairement définies dans le secteur - d’autant que la République turque de Chypre du nord n’entend pas renoncer à sa part...

Mi septembre, la société américaine Noble Energy a commencé ses forages d’exploration à la recherche de gisements en gaz naturel ou en pétrole dans la Zone économique exclusive (ZEE) de la République de Chypre. Ankara a alors immédiatement réagi en annonçant l’accélération du processus de ses propres recherches en hydrocarbures au nord de Chypre.

Vers un accord entre la République de Chypre et Israël

Le gisement concerné par la prospection de Noble Energy ne couvre pas toute la ZEE chypriote, mais passe aussi par la ZEE israélienne. Il faudra donc envisager une exploitation partagée. Dans le cas présent, Chypre procède à des forages sur la plateforme Aphrodite pour savoir s’il y a vraiment un gisement à exploiter, en quelle quantité et quelle qualité. S’ils s’avèrent positifs, Chypre ne pourra pas penser à l’exploiter seule et devra conclure un accord avec Israël, comme prévu à l’article 2 de la Convention sur les ZEE entre deux pays. Selon les précédents internationaux en la matière, une telle action est généralement suivie d’un accord-cadre conclu entre les deux sociétés mandatées par les deux pays concernés.

Selon le gouvernement de Nicosie, l’accord Chypre-Israël pour une exploitation partagée du gisement est d’une exceptionnelle importance stratégique car l’accord bilatéral se doublerait d’un accord de défense. Ainsi, si la Turquie frappe les forages de Noble Egery sur la plateforme Aphrodite, c’est comme si elle frappait Israël au coeur de ses intérêts puisqu’Israël serait un État partenaire dans l’exploitation du gisement. Etant donné que cette première phase de forage sera suivie d’une seconde qui devrait avoir lieu début 2012, l’accord d’exploitation partagée, qui se trouve déjà à un stade avancé d’élaboration, dépendra logiquement des résultats des forages de recherches actuellement en cours et sa signature devrait intervenir après janvier 2012.

La contre offensive d’Ankara

Selon les sources diplomatiques, Ankara est parfaitement au courant d’un possible accord entre Chypre et Israël pour l’exploitation de ce gisement. Conscient de l’importance stratégique de ce projet, le Premier ministre turc Recep Tayyip Erdoğan a annoncé qu’Ankara avait décidé de procéder à des recherches sous-marines en accord avec les autorités de la partie turque de Chypre. Il a déclaré ne pas avoir l’intention de faire arrêter les forages au large de la partie grecque de l’île, mais de soutenir les recherches turques.

La Turquie a effectivement mis sur pied une mission d’exploration, escortée de navires militaires. La ministre gréco-chypriote des Affaires étrangères, Erato Kozakou-Markoulli, a minimisé le rôle et les capacités de cette mission. Il s’agit, selon elle, d’équipements obsolètes qui, s’ils avaient été opérationnels, n’auraient pas nécessité que la Turquie s’adjoigne l’aide d’une société norvégienne (qui a fourni un navire d’exploration à la demande de la Turquie il y a quelques mois).

Pour les autorités gréco-chypriotes, Ankara continue à jouer la carte du bras de fer. Ce qu’a démenti le vice-Président turc Bülent Arınç sur Euronews : « Nous n’avons ni l’intention ni le besoin de faire la guerre à qui que ce soit. J’espère que la partie adverse n’aura pas le front de forcer la Turquie à utiliser la force. Nous n’envoyons pas de bateaux militaires pour nous battre. Ils sont là pour protéger les recherches, mais ils sauront résister, en cas du moindre mouvement qui violerait le droit international. C’est un des moyens que nous aurons à utiliser pour défendre nos droits. »

Bülent Arınç a ensuite ajouté : « L’Union européenne doit se dépêcher de réparer une erreur, qui a été d’accepter le Sud de Chypre en son sein, comme si elle représentait toute l’île. C’est peut-être l’une des plus grandes erreurs historiques de l’UE. Si l’administration gréco-chypriote annonce qu’elle se lance dans ces activités au nom de toute l’île, alors l’UE devra y mettre fin. Il faut qu’elle dise aux Chypriotes grecs qu’ils n’en ont pas le droit. »

Un conflit qui se poursuit devant les Nations unies

À New York, au siège des Nations Unies, le Premier ministre turc Recep Tayyip Erdoğan et le Président turco-chypriote Derviş Eroğlu ont signé fin septembre un accord définissant le statut du plateau continental entre la Turquie et la partie nord de l’île, méprisant ainsi le droit international, les votes de l’Onu sur Chypre, l’inexistence, pour la communauté internationale, d’une entité gouvernementale reconnue dans la partie de l’île occupée par les Turcs, mais aussi le soutien international et varié à la République de Chypre [1] dans sa politique de prospection d’hydrocarbures.

Recep Tayyip Erdoğan a en outre précisé que les sociétés qui collaboreraient avec les Gréco-chypriotes à des recherches sous-marines d’hydrocarbures serait automatiquement exclues de tout appel d’offre en Turquie. Entre temps, Nicosie a vu le doigt d’Ankara dans la réaction exprimée par le Liban concernant les sondages opérés par la partie grecque de Chypre. Le ministre de l’énergie libanais a en effet déclaré que « l’accord entre Chypre et Israël pour ces recherches représente une menace pour ses relations avec le Liban ».

Mais Moscou a apporté son soutien à Nicosie dans sa démarche. « Notre position s’appuie sur le droit international et en particulier sur la convention de 1982 sur le droit de la mer », a déclaré le ministre russe des Affaires étrangères. Les menaces turques contre Chypre ont aussi été au centre des discussions que le Président gréco-chypriote Christofias a eues avec le secrétaire général des Nations Unies Ban Ki Mun, lequel a exprimé son inquiétude. Hillary Clinton a également répété le soutien des États-Unis à la politique énergétique de la République de Chypre.

Qu'y a-t-il de social dans les réseaux sociaux ?

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Qu'y a-t-il de social dans les réseaux sociaux ?

Ex: http://www.huyghe.fr/

L'expression "réseaux sociaux" connaît un incroyable effet de mode à la fois

- pour des raisons pratiques évidentes (nous sommes des millions à "y être" et une bonne part de nos relations avec des amis ou des gens avec qui nous partageons une forme quelconque d'intérêt passe par Facebook, Twitter, Viadeo)

- pour des raisons quasi idéologiques : leurs pouvoirs sont célébrés à la fois par le monde de l'entreprise qui se dit souvent elle-même "en réseaux" (il faut avoir son community manager défendre sa e-réputation par la e-influence et faire le buzz sur le hub pour ne pas être archaïque) et par celui de la politique (les réseaux sont crédités d'avoir "fait" les révolutions arabes et l'année électorale - en France ou aux USA - sera placée sous le signe de la Web-stratégie des candidats, mais aussi de la confrontation avec les protestataires utilisant médias sociaux et self médias..). On peut donc aussi bien évoquer les réseaux sociaux avec le sérieux du manager qu'avec les accents de révolte du libertaire.

De fait les travaux sur les réseaux en tant que systèmes reliant des groupes ou des individus exerçant des interactions et pratiquant des échanges (notamment des échanges d'information) datent de l'après-guerre. Le réseau au sens quotidien (les gens sur qui l'on peut compter pour rendre un service, donner un conseil, ou apporter une forme quelconque de convivialité ou d'intérêt affectif) préexiste, bien entendu à la banalisation des technologies de l'information et de la communication.

Et la notion de réseaux (souvent opposée à celle de pyramide et de hiérarchie) est vraiment entrée dans le Zeitgeist depuis déjà quelques temps. Du reste nous vivons à "L'ère des réseaux", titre d'un livre de Robert Castells date de 1998 et Patrice de Flichy dans "L'imaginaire d'Internet" fait remonter le discours sur les petites communautés fonctionnant démocratiquement grâce à de nouveaux outils de communication des années 70 et 80. Ajoutons que les techniques sur lesquelles reposent les plates-formes des réseaux étaient déjà là potentiellement depuis les débuts d'Internet : de la "page perso" au blog, des bases de données aux sites de partage type Flickr, des forums et réseaux de développement communautaire (BBS, Free Net, Fidonet et autres) aux réseaux au sens actuel, il n'y a pas eu de changement de paradigme.Et le premier "vrai" site de réseau social au sen moderne, sixdegrees.com, au départ sorte de club assez élitiste, date de 1997.

Mais il y a eu, bien entendu, une vraie révolution des usages accompagnée de facilités technologiques : facilités d'expression ou de production (pas besoin de gros budget ou de long apprentissage) et de connexion (s'agréger à un réseau, les faire interférer, beaucoup transmettre à haut débit, trouver des interlocuteurs ou des thèmes d'intérêt, recommander, indexer, commenter, le tout depuis un simple smartphone que l'on porte en permanence, tout cela aussi est devenu enfantin).

Le réseau social en ligne se reconnaît à plusieurs pratiques :

- l'inscription (avec pseudo, anonymement ou pas suivant le site, si invité ou librement),

- le "profil" plus ou moins public et élaboré,

- les listes d'accès, d'invités, de suiveurs et de suivis, de gens autorisés à commenter, modifier, répondre, etc., le contenu, bien sûr

- et la possibilité de lier tous ces éléments (et par exemple d'étendre théoriquement à l'infini son réseau et par le partage de données et par des systèmes de recherche de contenus et de futurs correspondants). Il existe de très fortes variations dans les pratiques ainsi des réseaux où la publicité est la règle et le privé l'exception, des systèmes d'acceptation ou d'exclusion, etc.

En somme un réseau permet deux choses principales :

- s'exprimer (au sens de dire et montrer quelque chose que l'on veut répandre, mais aussi présenter une image de soi dont on est censé avoir la maîtrise et qui peut être falsifiée). Cette expression peut d'ailleurs être purement commerciale : améliorer l'image de son entreprise ou de ses produits, se vendre soi même sur le marché du travail, se faire connaître des clients et prospects. Par ailleurs, le contenu de la communication peut être le réseau lui-même : on montre (publiquement ou de façon semi-publique) l'extension et les composantes de son réseau.

- se relier. Ce lien peut aller de la simple rencontre par écrans interposés de gens avec qui l'on partage un très vague intérêt pour un sujet très commun, jusqu'à un travail d'expertise mené en commun. Les réseaux sociaux ne servent pas seulement à partager de l'information - que ce soit pour sa valeur de connaissance nouvelle ou pour le sentiment communautaire que cela crée-. Ils servent aussi à évaluer en commun, à élaborer, à décider, à voter, à recommander, voire à lutter (organiser des manifestations dans la rue, résister à des tentatives de censure et d'interruption). Ils peuvent aussi s'étendre (et leur extension peut être un objectif en soi, comme pour les usagers de Twitter qui cherchent à se valoriser en ayant un maximum de "followers") : il y a d'ailleurs des dispositifs techniques qui permettent, en cherchant de profil en profil ou de liste en liste, d'étendre le réseaux à tous ceux que l'on vise, pourvu que l'on soit assez habile.

Le lien créé par les réseaux a donc une composante d'affinité (retrouver ceux qui, d'un certain point de vue, sont comme vous, soit parce que vous avez le même profil socioculturel, les mêmes convictions, etc, soit parce que vous avez une passion en commun, depuis le goût pour les vêtements à la mode jusqu'au désir de renverser une dictature et que vous vous découvrez ainsi).

Mais il y a aussi une composante d'intérêt et de réalisation : grâce aux réseaux, on fait et on reçoit.

On fait quelque chose dans la vraie vie ou l'on élabore des travaux en commun (par exemple un encyclopédie de type Wikipedia qui repose sur l'intelligence collective et la "sagesse des foules").

On reçoit quelque chose : il y a toujours un intérêt à être sur un réseau qui vous donne notamment des informations pratiques : conseils, bons tuyaux pour la consommation, bonnes adresses, liens intéressants, documentation précieuse que l'on trouve ainsi de façon bien plus ciblée qu'en recherchant classiquement dans une bibliothèque ou avec un moteur de recherche. Il se peut aussi que ce que l'on reçoit soit de l'ordre des satisfactions psychiques : sentiment d'appartenir à une élite, plaisir de se regrouper avec des gens qui pensent comme vous et vous confirment l'excellence de vos choix, plaisir du nouveau et de la découverte. Les satisfactions narcissiques ("j'ai tant de friends, de fans, de followers...") ne sont pas les plus négligeables

Il peut aussi y avoir des buts pratiques, entre faire et recevoir : trouver une épouse, jouer en ligne, monter un projet, avoir un entretien d'embauche, améliorer sa valeur professionnelle ou marchande, vendre...

Dans un réseau social, il y a un média social (un dispositif de communication) plus une médiation sociale (une communauté sociale à travers laquelle on atteint des objectifs, mais qui nous transforme en retour). Cela en fait un défi pour une réflexion stratégique ou médiologique que nous avons bien l'intention de poursuivre sur ce site.

Jünger et ses dieux...

Jünger et ses dieux...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions Orizons ont publié en début d'année un essai de Michel Arouimi intitulé Jünger et ses dieux. Michel Arouimi est maître de conférence en littérature comparée à l'Université du Littoral de la région Nord-Pas-de-Calais.

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"Le sens du sacré, chez Ernst Jünger, s'est d'abord nourri de l'expérience de la guerre, ressentie comme une manifestation de la violence que le sacré, dans ses formes connues, semble conjurer. D'où le désir, toujours plus affirmé chez Jünger, d'une nouvelle transcendance. Mieux que dans ses pensées philosophiques, ces problèmes se poétisent dans ses grands romans, où revivent les mythes dits premiers. Or, ces romans sont encore le prétexte d'un questionnement des pouvoirs de l'art, pas seulement littéraire. Dans la maîtrise des formes qui lui est consubstantiel, l'art apparaît comme une réponse aux mêmes problèmes que s'efforce de résoudre le sacré. La réflexion de Jünger sur l'ambiguïté du sens de ces formes semble guidée par certains de ses modèles littéraires. Rimbaud a d'ailleurs laissé moins de traces dans son oeuvre que Joseph Conrad et surtout Herman Melville, dont le BillyBudd serait une source méconnue du Lance-pierres de Jünger. La fréquentation de ses " dieux littéraires ", parmi lesquels on peut compter Edgar Poe et Marcel Proust. a encore permis à Jünger d'affiner son intuition de l'ordre mystérieux qui s'illustre aussi bien dans la genèse de l'oeuvre écrite que dans un destin humain."

lundi, 26 décembre 2011

Generation Lovecraft: Die Flucht in den konservierten Raum

Generation Lovecraft: Die Flucht in den konservierten Raum


Geschrieben von: Dietrich Müller   

 Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Meine Generation dankt langsam ab. Sie hat ihren Part gespielt, ihre Aufgabe an der Geschichte vollzogen. Hedonisten ohne Plan, die der großen Symbolzertrümmerung den nötigen Schub gaben, damit alles über die Kante fiel. Es war wohl nötig. Die Kinder der „Generation Kohl“, welche ihre Lektion aus der „geistig-moralischen Wende“ gezogen hatten. Das es nämlich keine Geistigkeit und keine Moral gebe und auch keine Wende, sondern nur einen sinnlosen Trott, dem der Mensch folgt. Wir waren eine materialistische, eine nihilistische Generation. Das Produkt und die Gegenwart waren uns alles, denn alles war im Überfluss vorhanden. Der Westen war Trumpf im drögen Spiel, es galt nur zu kollaborieren und zufrieden zu verwesen. Alles gemacht.

Heute ist nichts mehr im Überfluss vorhanden. Das Wort Freizeit, vorher noch Gebot der Stunde, hat einen schalen Klang bekommen, sogar einen leicht despektierlichen. Von meinen Bekannten und Freunden gleichen Alters sind ungefähr ein Viertel durch Suizid abgetreten, ein großer Teil hat immerhin hart dorthin gearbeitet.

Die Party ist vorbei!

Der Rest wurde eskapistisch oder verschwand in ominösen Berufen fernab der Gegenwart. Eine ganze Generation auf dem Rückzug, in Auflösung begriffen wie eine geschlagene Armee. Was wir der Jugend kurz hinter uns lassen, ist ein zweifelhaftes Geschenk: Das früher alles besser, alles leichter war. Das der beste Teil gelaufen sei und man nicht mehr so einfach durchs Leben komme. Das es nun mühevoll sei. Doch keine Party.

Ich stehe hier ein bisschen zwischen den Stühlen. Ich war nicht richtig meiner Generation angeschlossen, aber ich teilte wohl doch mehr Punkte mit ihr, als mir lieb ist. Freilich lehnte ich den Hedonismus ab. Meine Exzesse hatten immer etwas Verbissenes an sich, zeugten von einer durchaus masochistischen Neigung; sich mit Lust selbst zu zerstörten, weil man keinen Sinn kannte und keine Autorität akzeptierte.

Es war der Schrei, der ein Echo verlangte: Gewaltig, versessen und ohne ein Gefühl von Verantwortung. Pure gegenwärtige Energie. Ein Kraftakt gegen sich selbst und die verlornen Ordnungen. Ein Verlangen nach elementarer Antwort im Ausdruck absoluter Katastrophe. Schön und dumm – wie die Jugend eben ist. Ich vermisse sie nicht.

Die neuen Ordnungshüter kamen wie Phoenix aus der Asche

Heute ist aber eine Generation schneidiger Erneuerer angetreten und hebt sich – scheinbar wie Phoenix aus der Asche – aus den Ruinen einer ruinierten Gesellschaft. Den kaputten Kollektiven wird da mit einem trotzigen Ordnungswahn entgegengegangen, der jeder Beschreibung spottet. Man ist bereit einen Unterschied zu machen und betet einen Katalog an Forderungen und an Leistungswille hinunter: Der Mensch muss arbeiten, er muss glauben, er muss bereit sein sich zu fügen im Großen, in seinem Umfang aber die irre gewordene Welt zur Ordnung rufen.

Lauter selbst ernannte Kreuzritter, die den Katalog der Sekundärtugenden ebenso aufsagen können wie Stellen aus der Bibel. Man hißt alte Symbole: Das Kreuz Christi, die Fahne der BRD, die Fahne Preußens, man hat das „Buch der Bücher“ am Nachttisch und übt sich in früher Monogamie (so gut es geht...). Ausgezogen, aufgezogen den Weltenlauf gerade zu rücken. Konservative Revolution mit dem Ruf nach Autorität; dem Anspruch darauf?

Es regiert Lovecraft und keine Konservative Revolution: Über den negativen Pessimismus

Alles Mumpitz. Was regiert ist das „Prinzip Lovecraft“. Gestorben ist der seltsame, bittere Mann im Jahre 1937 mit gerade mal 46 Jahren. Gelebt hat er nicht, aber viel geschrieben. Eine Ehe geführt, welche wie ein peinlicher Zufall wirkt. Die Migrantenströme im New York der 20er-Jahre besehen und für rassischen Dreck befunden. Zurückgeflohen in die nicht vorhandene Idylle der Provinz, wo er sich vor dem Leben versteckte und von der Epoche abkapselte, die er so sehr hasste. Bis er endlich unter den qualvollen Schmerzen des in ihm wuchernden Krebses verstarb und damit seiner puritanischen Meinung scheinbar nachdrücklich Gewicht gab, dass der Körper, das Fleisch widerlich seien.

Was da nach den ruinösen Resten meiner Generation verglühend vergangenen Träumen hinterherjagt, ist keine Konservative Revolution, denn das bedürfte eines offensiven Gestus, eines aggressiven Optimismus mit Sendungsbewusstsein. Das ist nicht vorhanden, sondern der Wille zur erzwungenen Ordnung im beschränkten Kreis des eigenen Selbst. Es ist kein Aufstand, sondern ein Angstruf gegenüber einer Zeit, die man nicht versteht und nicht kontrollieren kann. Was man vertritt, ist Ruhe und Ordnung beim Tanz auf dem Vulkan. Pardon. Natürlich beim Gleichschritt hin zum Krater.

Die schöne Bundesrepublik, das Altersheim

Man verlangt sich selbst und andere zur Ordnung zu rufen, weil man das Chaos als unerträglich empfindet und die Zeit als Barbarei. Man huldigt der Xenonphobie. Europa als bedrängte Welt und Deutschland als Schlachtfeld zerfallender Kultur, die man quasi im Wohnzimmer konservieren muss.

Reformieren: Ja. Revoltieren: Nein. Das Alte soll bewahrt werden. So schön ist die BRD, wenn nur nicht so viele Idioten und Türken da wären. Sehnsucht nach dem „Eisernen Besen“ in der Stille der musealen Eigentumswohnung. Ruhe muss gewahrt werden durch die leise Reform abseits vom Leben. Sich selbst zügeln, damit man andere hoffentlich zügelt. Und hoffen, dass der große Umbruch an einem selbst noch einmal vorbeizieht. Denn eigentlich will man nur in Ruhe und Frieden leben. Ähnlich wie in einem Altersheim. Niemals aufgeschreckt durch Veränderung oder vitale Energieentladung.

Die konservierenden Konservativen sind in Wahrheit Nihilisten

Das ist kein Konservatismus, das ist ein konservierter Raum, bestückt mit Symbolen und Werten, die man Marken gleich übernommen hat. Es wird eine Scheinwelt konstruiert mittels derer man sich auf der Flucht vor dem Leben befindet. In diesen Raum hinein soll dann die Saat geworfen werden: Die Familienplanung als Keimzelle zur Rettung bedrohter Ordnung. Lächerlich. Versponnen. Feige.

Wie Lovecraft ist diese Generation nicht wirklich konservativ, sondern im Kern nihilistisch. Sie erkennt die Macht der Sinnlosigkeit absolut an und setzt dieser ein Gemälde entgegen, gegenständlich im Ausdruck. Bitte nicht berühren, nicht interpretieren. Bewegungslosigkeit als Kraftprobe. Jesus als Pantomime. Disziplin im Stilstand. Preußen als ewiger Haltbefehl – auf dem Friedhof.

Wie Lovecraft auch, so hat diese Generation etwas nekrophilies an sich. Ghule, die sich an der deutschen und europäischen Geschichte vergreifen und das faulige Fleisch von den alten Knochen ziehen. Schamlos. Peinlich. Neurotisch.

Scham vor der eigenen Lebensunfähigkeit

Deshalb reagieren sie auch aufgeschreckt und verlegen, wenn man ihre Grabschändungen ans Licht zerrt. Sie kümmert die Geschichte nicht, weil sie das Leben und die Menschen lieben, sondern weil sie nach Ausreden suchen, um sich an der Historie zu vergreifen um der Gegenwart zu entgehen. Selbst für einen rauschhaften Totentanz sind sie noch zu träge, darin den leichenfressenden Guhlen, die nicht umsonst die niedrigsten Kreaturen der Nacht darstellen, gleich. Kein deutscher Furor, kein römischer Stoizismus. Nicht Pracht, nicht Herrlichkeit von geistiger Aristokratie. Nur morbide Gärgase einer Bewegung auf mikroskopischer Ebene.

Die Generation Lovecraft. Lovecraft starb am Ende aus Scham ob der eigenen Lebensunfähigkeit.

L'ombra di Washington su Papua

L'ombra di Washington su Papua

di Michele Paris

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

   

La crisi costituzionale che da poco più di una settimana sta tormentando la Papua Nuova Guinea sembra essersi finalmente avviata verso una conclusione. La disputa attorno alla carica di primo ministro tra i due più popolari uomini politici della ex colonia australiana si inserisce nel quadro delle rivalità crescenti in Estremo Oriente e nell’area del Pacifico tra la Cina da un lato e gli Stati Uniti e l’Australia dall’altro.

La crisi in Papua Nuova Guinea era esplosa in seguito alla prolungata permanenza del premier Michael Somare a Singapore, dove si era recato la scorsa primavera per ricevere cure mediche. Con Somare lontano dal paese, il presidente del Parlamento aveva allora dichiarato vacante la carica di primo ministro e, il 2 agosto, una larga maggioranza di deputati aveva proceduto ad eleggere Peter O’Neill a capo di un nuovo governo. La mossa del Parlamento era stata favorita anche dall’annuncio fatto dai familiari di Somare che quest’ultimo aveva intenzione di ritirarsi dalla politica, così come dal conseguente passaggio di molti suoi sostenitori nel campo del rivale O’Neill.

Tornato alla fine in patria, Somare - primo ministro dall’indipendenza nel 1975 al 1980, dal 1982 al 1985 e ancora dal 2002 fino alla sua rimozione qualche mese fa - aveva fatto appello alla Corte Suprema per cercare di riottenere la sua carica. Il 12 dicembre scorso, infatti, il più alto tribunale della Papua Nuova Guinea aveva dichiarato incostituzionale la nomina a premier di O’Neill, poiché il 75enne Somare non aveva rassegnato le proprie dimissioni né era stato formalmente dichiarato incapace a governare.

Anticipando la sentenza della Corte Suprema, Peter O’Neill pochi giorni prima aveva fatto però approvare una legge retroattiva che revocava il congedo temporaneo di Somare per recarsi a Singapore. Lo stesso 12 dicembre, poi, poco prima dell’emissione del verdetto della Corte, era arrivato un provvedimento che dichiarava decaduto qualsiasi membro del Parlamento che fosse rimasto al di fuori dei confini del paese per più di tre mesi. Un’ultima misura, infine, ha imposto il ritiro dalla carica di primo ministro al compimento del 72esimo anno di età.

Somare e O’Neill settimana scorsa si erano così ritrovati a capo di due gabinetti ed entrambi avevano nominato un proprio capo della polizia. In questa situazione, le tensioni nel paese erano salite alle stelle, con l’esercito e le forze di polizia chiamate a presidiare le strade della capitale, Port Moresby, per timore di possibili disordini. Nella serata del 12 dicembre, le inquietudini avevano raggiunto il culmine, quando la polizia fedele a Somare aveva impedito a O’Neill l’accesso al palazzo del Governatore Generale, Michael Ogio.

Proprio quest’ultima figura ha giocato un ruolo chiave nella crisi e nella sua risoluzione. Il Governatore Generale della Papua Nuova Guinea è il rappresentante del capo dello stato, la regina d’Inghilterra, e, pur essendo una carica in larga misura simbolica, secondo la Costituzione del 1975 ha la facoltà di dare l’assenso formale alla nomina di primo ministro. In base ai poteri assegnatigli, il 14 dicembre Ogio aveva fatto giurare i ministri scelti da Michael Somare, restituendogli di fatto la carica di capo del governo.

Per tutta risposta, il Parlamento aveva votato la sospensione dello stesso Governatore Generale, il quale è stato però reinsediato lunedì dopo una clamorosa inversione di rotta. In una lettera al Parlamento, il rappresentante della regina Elisabetta II in Papua Nuova Guinea ha infatti ritrattato la sua precedente presa di posizione, attribuendo il suo appoggio a Somare a cattivi consigli legali che gli sarebbero stati dati, riconoscendo invece la legittimità della nomina a primo ministro di Peter O’Neill.

Ciononostante, Somare non sembra ancora aver desistito dalla battaglia per riavere il suo incarico, anche se a questo punto appare estremamente improbabile che la vicenda possa avere un nuovo rovesciamento di fronte. Non solo perché negli ultimi giorni si sono moltiplicati all’interno del paese e nella comunità internazionale gli appelli ad una risoluzione rapida della crisi, per evitare ripercussioni negative sull’economia di un paese già afflitto da elevatissimi livelli di povertà, ma soprattutto perché a decidere gli esiti della crisi sono state forze esterne riconducibili alle potenze che si contendono l’egemonia nell’intera regione dell’Asia sud-orientale.

A risultare decisiva per la sorte di Michael Somare è stata in particolare la sua politica filo-cinese, che in questi ultimi anni ha complicato non poco i suoi rapporti con l’ex potenza coloniale, l’Australia. Grazie alle aperture di Somare verso Pechino, la Cina ricopre oggi un ruolo importante nel redditizio settore minerario della Papua Nuova Guinea. Uno dei progetti più ambiziosi assegnati ai cinesi è quello da 1,6 miliardi di dollari, che prevede lo sfruttamento della miniera Ramu, dove si estrae nickel e cobalto.

Peter O’Neill, al contrario, appare invece decisamente più vicino all’Australia, come dimostra l’orientamento del suo governo in questi mesi. Lo scorso ottobre, ad esempio, O’Neill ha guidato una delegazione di nove ministri a Canberra dove è stato raggiunto con il governo laburista di Julia Gillard un accordo per far tornare sul territorio della Papua Nuova Guinea un certo numero di militari e poliziotti federali australiani. L’ultimo contingente di ufficiali australiani presenti nella ex colonia era stato allontanato proprio da Michael Somare nel 2005.

La crisi costituzionale in questo paese di 7 milioni di abitanti - situato in una posizione strategica tra Australia e Indonesia e con ingenti risorse naturali . si era sovrapposta all’importante visita dello scorso novembre nella regione da parte del presidente americano Obama, il quale aveva ribadito il ruolo aggressivo del suo paese in quest’area del globo in funzione anti-cinese. Solo qualche giorno prima, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva fatto visita proprio alla Papua Nuova Guinea durante un tour asiatico, segnalando l’interesse prioritario di Washington per un paese dove, tra l’altro, la texana ExxonMobil sta lavorando ad un progetto legato all’estrazione di gas naturale del valore di svariati miliardi di dollari.

Il disegno degli Stati Uniti in Asia sud-orientale e nel Pacifico è condiviso in pieno dal governo australiano, che non a caso nei fatti della Papua Nuova Guinea di questi mesi sembra aver giocato un ruolo decisivo. Con il beneplacito americano, Canberra si è infatti mossa attivamente dietro le quinte per assicurare l’instaurazione a Port Moresby di un governo più benevolo nei confronti degli interessi di USA e Australia, favorendo l’uscita di scena di un ormai ex primo ministro considerato troppo accomodante verso i rivali cinesi.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Gare au clergé de l'idolâtrie financière !

Gare au clergé de l'idolâtrie financière !

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Nous reproduisons ci-dessous un article du criminologue Xavier Raufer , cueilli sur le site du Nouvel Economiste et qui entend casser le discours uniforme et convenu produit par la caste des journalistes économiques et autres suppôts du libéralisme sur ces fameux marchés qui veulent imposer leur loi aux états...

 

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Gare au clergé de l'idolâtrie financière!

“Les marchés par-ci… les marchés par-là…” : lisons, scrutons les médias – ou, devrait-on plutôt dire, suivons la grand-messe médiatique. “Les marchés” : la révérence prosternée de tant de journalistes, de droite ou de gauche d’ailleurs, tout pareil. Une foi d’autant plus brûlante que leur feuille de paye dépend quand même un peu de la ferveur des génuflexions, en un temps où, désormais, maints médias nationaux d’information appartiennent à des milliardaires.

Identique révérence, notons-le, chez nombre de politiciens. “Les marchés” en Dieu jaloux, en Sauveur suprême ! Leur gloire, leur terrible majesté… leur implacable justice. Tels sont, au quotidien, les élans d’une néo-bigoterie médiatique à faire rougir un curé intégriste. Mais au fait, ces fameux “marchés” sont-ils une force, au sens de la physique d’Aristote ? Rappel : on ne perçoit jamais une force, on ne voit que ses effets : le vent et les branches qui bougent, les courants marins et les épaves dérivant même par calme plat, etc.

Non, les marchés ne sont en rien une force : celle-ci est naturelle, indifférente à l’homme – on ne manipule pas un séisme, on ne spécule pas sur un ouragan. Les marchés sont bien plutôt – on rougit de devoir le rappeler – une pure quantité métaphysique, d’essence ni plus ni moins religieuse que “le bon Dieu” ou “la Révolution”. Un de ces phénomènes para-religieux qu’au XVIIIe siècle les libres-penseurs, marquis de Sade en tête, qualifiaient crûment de “dégoûtant fantôme” ou de “superstition gothique”. Or comme tout culte, secte ou religion, une abstraction de type “les marchés”, “le bon Dieu” ou “la Révolution” ne fonctionne que quand on y croit. En son temps, l’Inquisition parlait d’“acte de foi” (autodafé).

Croire, ici au sens d’une crédulité toujours attisée ici-bas par des intercesseurs, par un clergé qui parle aux dieux, interprète leurs décrets ou colporte leurs messages – mais surtout, qui sait les apaiser.

Et là, avertit le criminologue, attention aux brebis galeuses. Dans le champ du religieux, cela va du gourou escroc à l’imam fraudeur, en passant par le rabbin receleur ou le curé pédophile. Certes, des minorités parmi bien de braves gens – des saints, parfois. Mais assez nombreux ces temps-ci pour que cela fasse désordre.

Dans le champ de l’idolâtrie financière, gare au Veau d’or ! Gare à Wall Street, temple dans le genre coupe-gorge. Nous avons récemment abordé ce sujet ici et donc, n’y revenons pas. Au-delà, gare au culte de la DGSI (Davos-Goldman-Sachs-Idéologie) mais surtout, gare à son clergé. Attention, aussi bien à ses grands prêtres à la Madoff qu’à sa prêtraille financière ou médiatique, préposée aux conversions boursières ou à l’agit-prop-encensoir.

Dès 2007, ce clergé-DGSI a montré combien il savait commettre, ou couvrir, les pires fraudes. Depuis lors, la fiévreuse avidité qui ronge ces dangereux zombies n’a pas diminué, au contraire. Ni leur addiction au dollar, d’autant plus maniaque qu’elle est sans doute l’unique antidote à leur vacuité intérieure.

Avidité ? Incontrôlable déferlement ? Qu’on en juge, au vu des récents exploits des prédateurs de Wall Street :

- Encore et de plus belle (International Herald Tribune, novembre 2011) : suite à maintes acrobaties, la société de Bourse MF Global s’effondre ce mois-ci. Les syndics de faillite découvrent alors la “disparition” de 600 millions de dollars de dépôts de ses clients, du fait d’une comptabilité interne “bâclée”. Mais à quoi bon faire soigneux, quand la justice est aux abonnés absents ?

- Impunité (New York Review of Books, novembre 2011) : “Jusqu’à ce jour, les agences fédérales [de répression] n’ont sérieusement inquiété aucun des principaux acteurs de l’effondrement et nul dirigeant de grande banque n’a été inculpé pour fraude criminelle.”

- Incorrigibles (New York Times, novembre 2011) : ces 15 dernières années, 19 grands établissements de Wall Street (Citibank, Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, plus une quinzaine d’autres) ont été condamnés pour malversations financières. Et ont dû jurer devant la justice qu’ils ne violeraient désormais plus les lois financières fédérales de leur pays. Ils ont juré avec effusion – pour copieusement récidiver dans la foulée, 51 serments suivis d’autant de fraudes, de 1995 à 2010.

- Nouveaux territoires de prédation. En novembre 2011 toujours, Paul Volcker, ancien ministre des Finances des Etats-Unis et ex-président de la Réserve fédérale, s’inquiète fort de l’existence d’un “soi-disant ‘système bancaire fantôme’, banques d’affaires, hedge funds, assureurs, marchés monétaires et autres entités peu ou pas réglementées, qui explose vers l’an 2000 et égale en taille, dès juin 2008, le système bancaire traditionnel”.

Cependant, en matière d’aveuglement financier, le pire survient en Europe. Où, alors que perdure la prédation de Wall Street, les dirigeants de Bruxelles décident de confier au loup-DGSI les clés de la bergerie.

Plutôt prudent en matière financière, Le Monde en vient à dénoncer une “franc-maçonnerie de relations” : “Le nouveau président de la Banque centrale européenne, le président du Conseil italien et le nouveau Premier ministre grec”, sont tous des “anciens de chez Goldman Sachs”. On apprend ainsi l’existence d’un “maillage serré, souterrain comme public” d’hommes-liges de la DGSI, qui “cachent cette affiliation quand ils doivent donner une interview ou mènent une mission officielle”. Entre deux entourloupes financières, les mêmes trouvent le temps de se coopter aux postes dirigeants de la “Trilatérale, un des plus prestigieux cénacles de l’élite internationale”.

Minables maniaques de la conspiration ! Pauvres collectionneurs de complots ! Aujourd’hui, en matière de finance pousse-au-crime, les paranoïaques les plus échevelés sont quand même largement au-dessous de la vérité, telle qu’elle s’étale chaque jour dans la presse.

Xavier Raufer (Le nouvel Economiste, 25 novembre 2011)

Carl Schmitt et la théologie politique...

Carl Schmitt et la théologie politique...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Les éditions du Cerf viennent de publier un recueil comportant quatre essais inédits du juriste et philosophe politique allemand Carl Schmitt. Le volume est présenté par Bernard Bourdin, professeur de philosophie et de théologie à l'université de Metz, et préfacé par Jean-François Kervégan, auteur récent d'un essai intitulé Que faire de Carl Schmitt ? (Gallimard, 2011).

 

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"L'expression « théologie politique » n'a jamais été utilisée en tant que telle par les théologiens chrétiens. Elle n'apparaît pour la première fois que dans le titre d'un ouvrage majeur de la philosophie du XVIIe siècle, le « Traité théologico-politique » de Spinoza. L'intention de son auteur était de conjoindre la souveraineté et la liberté de pensée, et par là même de régler le « problème théologico-politique ». Il faut attendre l'anarchiste Bakounine, au XIXe siècle, pour « réhabiliter » la théologie politique à des fins révolutionnaires, puis pour dénoncer le déisme de Mazzini.

En 1922, en rédigeant son premier texte sur la théologie politique, Carl Schmitt prend le contre-pied de l'anarchisme révolutionnaire. Avec le juriste rhénan, la théologie politique est désormais identifiée à la théorie de la souveraineté. C'est par une formule lapidaire, devenue célèbre, qu'il commence son essai : « Est souverain celui qui décide de la situation exceptionnelle. » Dès la fin du IIe Reich, puis dans le context de la république de Weimar, tout le projet intellectuel de Schmitt est d'articuler sa théorie du droit et du politique à une structure de pensée théologico-politique. Le problème de la démocratie libérale est son incapacité à disposer dune véritable théorie de la représentation, en raison de l'individualisme inhérent à la pensée libérale. Face à cette impuissance, le catholicisme, par sa structure ecclésiologique, offre au contraire tous les critères de la représentation politique et de la décision.

Les textes que Bernard Bourdin présente dans ce volume, parus entre 1917 et 1944, sont des plus explicites s'agissant de ces aspects de la théorie schmittienne : institution visible de l'Église, forme représentative et décisionnisme. Ils mettent de surcroît en évidence la double ambivalence de la pensée de Schmitt dans son rapport au christianisme (catholique) et à la sécularisation. En raison de son homologie de structure entre Dieu, État et Église, la nécessité d'une transcendance théologico-politique plaide paradoxalement pour une autre approche d'une pensée politique séculière. Ambivalence qui ne sera pas non plus sans équivoque."

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

La religione ellenica si presenta come un insieme di culti e di riti che intendono trasmettere nella storia e nella vita quotidiana lo stesso impulso spirituale personificato dalla complessa varietà delle figurazioni divine. La sua rappresentazione religiosa è usualmente costituita dalla mitologia, ossia da un complesso di narrazioni di vicende divine che intendono “spiegare” in una prospettiva mito-poetica il significato del mondo o di singoli momenti di esso. I vari cicli mitologici non sono altro che proiezioni drammatizzate di quegli impulsi spirituali, una loro formulazione plastica che tende a restituire una visione “teologica” all’esperienza che i vari aedi, cantori, indovini o estatici hanno contemplato contemporaneamente come vita cosmica e ritmo divino.

 

Questo particolare carattere mitico-rituale ha comportato l’inesistenza di un qualsiasi Fondatore divino dal quale possa essersi originata la religione ellenica o che abbia in qualche modo “riformato” alcuni suoi caratteri fondamenti. Da ciò anche il fatto che la vasta rappresentazione mitologica e il complesso dei rituali non si trovano codificati in un insieme di testi sacri da cui poter sviluppare una dottrina religiosa o presso i quali tale dottrina potesse essere custodita e trasmessa senza alterazione. Tale assenza di libri rivelati ha poi permesso che si sviluppasse nell’Ellade la particolare funzione dei poeti i quali nelle loro opere hanno sostituito ciò che altrove veniva esplicato dagli scribi, esaltando particolarmente ciò che si potrebbe chiamare la “visione mitica” a detrimento di una qualsiasi rivelazione divina che potesse essere codificata e, appunto, “scritta”. Questo carattere fa sì che la religione ellenica si presenti non come un corpus dottrinale al quale aderire o al limite convertirsi, ma come una forma spirituale connaturata naturalmente a quel popolo, una “forma formante” che si invera nelle varie  espressioni di vita e dalla quale si può evadere non con un rifiuto, ma cambiando la stessa identità nazionale.

 

Come ulteriore conseguenza tutto ciò ha comportato il tipico atteggiamento di perpetuazione di usi, costumi e rituali ancestrali, di conservazione di un patrimonio religioso che viene trasmesso come elemento di identità e di custodia di un ordine la cui origine si confonde con quella stessa del popolo ellenico. Da ciò anche il carattere fondamentalmente conservatore di questa religione, presso cui l’aderenza alla tradizione esprimeva l’unico criterio di ortodossia e che rendeva “attuale” e “storica” la lotta per l’ordine tradizionale contro ogni forma di disordine. Questa storicità è una delle peculiarità della religione ellenica ed è determinata dallo stesso scenario mitologico tradizionale. Qui, infatti, la nascita del popolo ellenico va a confondersi con la stessa religione. Le origini nazionali non sono altro che un momento dello svolgimento della genealogia divina, una sua modalità di determinazione storica che ad un certo punto, come sembra indicare in modo specifico il mitologema di Hellenos sul quale torneremo, ha visto il “trapasso” del divino nell’umano di una particolare essenza divina, per di più tesa ad esplicitare la funzione di un ordine cosmico che il nuovo ciclo aperto da Deucalione dovrà realizzare.

 

La funzione del mito all’interno della spiritualità ellenica appare fondamentale. Il termine mythos si ritrova con significati vari all’interno della storia religiosa ellenica con utilizzazioni diverse e spesso persino opposte. Secondo molti esegeti diventa meno evidente rispetto a quanto ritenevano i classicisti dell’Ottocento una derivazione semantica di mythos da myēo, anche se ovviamente tale derivazione continua ad avere una sua forza dimostrativa di non poco rilievo e di forte persuasione. Ultimamente, però, alcuni studiosi appoggiandosi a diverse giustificazioni linguistico-formali, hanno pensato che si possa risalire ad un radicale indoeuropeo *mēudh-, *mudh- col significato speciale di “ricordarsi”, “aspirare a”, “riflettere”. Si avrebbe perciò il mythos quale “pensiero”, ma non riferito al pensare meramente cerebrale che si determina in un discorso logico-esplicativo, quanto piuttosto ad un “pensiero che si rivela”, che viene comunicato da una dimensione superiore a quella del tempo nella quale si consuma la vita umana. In particolare, sarà Omero che in entrambi i suoi poemi ci darà un “pensiero” (= mythos) che viene elaborato, un’idea, un “principio” che deve essere svelato.  Si entra così in un’area sacrale che vede il mito in rapporto strettissimo con il rito, con la dimensione “narrativo-esplicativa” di una condizione spirituale che è possibile esperire nell’atto rituale o nell’ispirazione estatica. E’ l’esperienza del veggente omerico che svela ciò che “ha visto con meraviglia”, quando lo spettatore, la cosa contemplata e l’atto del vedere diventano una thēoria, una “visione” la cui condizione l’aedo omerico esprime sì con la parola (è uno dei significato di mythos), ma con una parola che recita e “rappresenta” l’essere del mondo, tesa più ad incantare l’ascoltatore trasportandolo nel pieno dell’età eroica che a “raccontare” fatti, cosa che dà significato non transeunte all’uso ellenico di recitare brani di Omero durante alcune rappresentazioni rituali.

 

Fra i tanti mitologhemi più antichi dell’Ellade un interesse particolare può avere la constatazione che assieme ad Helios, quali figlie di Iperion e di Tia (“la divina”) troviamo anche Selene ed Eos, l’Aurora celeste. Va detto subito che i miti relativi ad Helios sono giunti in modo frammentario a tal punto che si è autorizzati a pensare che ci si trovi di fronte a cicli diversi intersecantisi e confusi l’un l’altro. Tale per es. la curiosa storia riportata da Ateneo che raccontava del viaggio di Helios fatto al tramonto in una coppa d’oro fino a raggiungere la mitica Etiopia. Quello che può interessare è che etimologicamente “etiopia” deriva dalla radice *aith- col significato di “bruciare” e di ”risplendere”, dato che qui tale radice include il senso di “fuoco che brucia” e perciò “risplende”. Si allude perciò ad una terra dove sì la luce risplende, ma di uno splendore di tipo vespertino, occidentale, evidenziato dal fatto che il viaggio di Helios si svolge al tramonto e che il popolo etiope era ritenuto essere non di razza nera, ma rossa, posta dal simbolismo tradizionale sempre ad occidente, al crepuscolo del percorso del sole.

 

Ancora più ricco di significati è il mito riportato da Omero nell’Odissea, là dove si fa menzione delle due figlie di Helios: Lampetia, “colei che illumina” e Faetusa, “colei che risplende”, le due divinità che custodiscono i 350 buoi del sole nell’isola di Trinacria. Secondo Bâl G. Tilak qui si ha una precisa allusione ad un antico anno di 350 giorni che verosimilmente doveva essere seguito da una notte cosmica di 10 giorni, ossia la durata dell’anno propria ad alcune regioni circumpolari, “là dove si compiono le rivoluzioni del sole”, ricorda ancora Omero (Od. XV, 403 e sgg.). E l’ipotesi acquista maggiore luce ove si consideri che queste due figlie di Helios presentate da Omero come le custodi dell’anno artico, personificano rispettivamente la luce che ne “illumina” l’inizio e la luce che “risplende” al suo compimento, ossia la luce dei due solstizi, quello estivo e quello invernale. Nel mitologhema le due sorelle si trovano ad esplicare la loro funzione di custodia nell’isola di Trinacria che è stata sempre concepita come la proiezione della mitica “terra del sole”. Persino lo stesso simbolo del triskel che graficamente la definisce, secondo le pittografie studiate da Dechélette, non esprime altro che lo stesso movimento del sole considerato nella prospettiva del suo rivelarsi secondo modalità cicliche che si srotolano attorno ad una divisione triadrica dell’anno che ha sostituito quella binaria risalente ad epoche molto più antiche, e ancora non si è stabilizzato nella divisione quaternaria, quella propria all’anno del periodo “classico” dell’Ellade. In un suo aspetto la Trinacria appare come il simbolo della potenza cosmica creativa che si dispiega nel tempo, la sua forza di manifestazione, perciò come uno dei simboli stessi che rivelano come tale potenza si sia inverata in una “terra primordiale”, una “terra originaria”, “solare”.

 

I miti relativi ad Eos, l”’Aurora” o la “luce aurorale”, sono molto più poveri e già risentono dell’influsso della leggenda eroica. Un altro nome della dèa dell’aurora fu Emera, “il Giorno”, che forse vuole esprimere l’idea di un’intera epoca umana. E sono note le storie di questa dèa della luce aurorale in connessione alla Syria, “la terra del sole” di Omero, oppure quelle relative ai suoi rapporti con Kephalonia, “la terra del centro” dove Kephalos, il Caput celeste, il “punto” cosmico di orientamento di una carta stellare molto antica (e comunque precedente  i rivolgimenti celesti cui accennava Aristotele per spiegare il passaggio del sole dal suo primordiale percorso sulla Via Lattea a quello attuale), si era “sposato” con l’Orsa celeste. Secondo questi miti alle origini gli sposi Kephalos e la Grande Orsa (con i suoi septem triones che trascinano il Grande Carro e lo fanno girare perpetuamente attorno al “perno” del cielo, il polo) si trovavano congiunti nello stesso quadrante cosmico secondo una direttrice che doveva risultare perpendicolare all’asse dell’osservatore allocato nella Kephalonia.

 

Dalle confraternite degli aedi itineranti, dei thēologoi e dei cosmologi arcaici, quelli che Aristotele radunava sotto la dizione di prōtoi thēologesantes (“i primordiali thēologoi”), probabilmente sono emerse tutti quei veggenti che si esprimevano attraverso il canto e la poesia sacra e, dunque, anche i due massimi cantori dell’antica Ellade, Omero ed Esiodo. Il caso di Esiodo è molto particolare. Non solo trasmette tutta una serie di elementi mitologici di un passato che rimanda ad epoche difficili da determinare, ma il personaggio appare pienamente consapevole del proprio ruolo di Aedo sacro, un cantore ispirato al quale era stato concesso il dono della poesia (= sapienza) che lo scettro d’oro donatogli dalle Muse sembra aver sanzionato in modo definitivo, dato che è detto che sono proprio loro che gli hanno insegnato “uno splendido canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona”, e addirittura in una gara poetica vince l’insegna dell’ispirazione apollinea, il sacro tripode che egli poi dedicherà alle Muse. E’ tutto un mondo che può essere ricondotto a forme di conoscenza ispirate che permettono di risalire oltre il transeunte, al “principio”, là dove le varie figurazioni divine hanno preso forma.

 

Lo stesso Omero può darci indicazioni importanti in questa direzione. Il suo nome, infatti, nel dialetto eolico cumano fu spesso interpretato come “il cieco” e rimanda più che ad un epiteto individuale, ad una attività più generale legata alle ispirazioni divine e alle estasi arcaiche. “Omero” personifica la funzione sacra dell’archegeta delle confraternite degli Aedi, colui che ha ricevuto la capacità di “vedere” oltre i limiti delle apparenze e, come gli indovini guardano al futuro, egli sotto l’ispirazione del dio canta il tempo passato, l’età eroica, “creandone” le espressioni, le gesta, lo scenario. La sua attività rimanda ad una funzione demiurgica tesa ad ordinare la visione ricevuta in uno stato di ispirazione divina e la rivela agli uomini, esattamente come hanno fatto gli Omeridi dell’isola di Chio, quella straordinaria confraternita di cantori la cui fisionomia rimanda agli aedi ispirati che hanno percorso la Grecia in ogni tempo e la cui qualificazione più importante era quella di essere “discendenti” di Omero, più esattamente gli eredi della tradizione dei veggenti omerici.

 

Esiodo ha conservato anche altri mitologhemi che possono essere fuorusciti da una cosmologia arcaica. Nell’enunciazione delle ère che descrivono il processo di impoverimento che dalla pienezza della spiritualità primordiale conclude nell’età del ferro, egli ci dà il senso di un loro rapporto non meramente cronologico, di successione temporale, ma quale espressione di “qualità” storiche, quali cicli che per la loro completezza, per il loro riflettere un determinato tipo di spiritualità rivelatasi in un tempo preciso, “storico”, in sé non sono legati ai cicli successivi. Questo fondamentale disegno unitario delle ère esiodee è rilevabile anche da un altro punto di vista che riconduce il mito riportato da Esiodo alle più arcaiche speculazioni indoeuropee sulle origini del cosmo. Se, infatti, si considera la successione delle età e delle varie razze che incarnano via via i valori spirituali delle singole ère, avremo il seguente quadro. Prima di tutto si avrà la razza aurea caratterizzata da una pienezza biologica propria al tipo di spiritualità di quel “tempo-fuori-del-tempo”, a-cronico, che in sé delinea la condizione di perfezione originaria cui devono tendere tutte le altre razze da lui individuate come specifiche dei diversi cicli temporali che si svilupperanno dopo la scomparsa della razza aurea. Questa razza primordiale appare perciò come una “totalità” all’interno della quale si realizza l’armonia e la giustizia, mentre la sua perfezione  in modo eminente consente l’espressione piena delle tre attribuzioni classificate da Georges Dumézil come funzioni cosmico-sociali [sacerdozio, forza guerriera e fecondità] che nella prospettiva esiodea sintetizzano ogni gerarchia sociale: gli uomini dell’età aurea saranno “buoni”, “guardiani giusti” e “dispensatori di ricchezza” (Erga, vv. 123-126).

 

Dopo la fine dell’età aurea e della razza che ne aveva incarnato l’essenza di luce, si succedono altre ère in una progressione che scivola sempre più verso il disordine e una onnipervadente empietà. Dall’età argentea a quella ferrea si ha perciò la delineazione di uno svolgimento progressivo che inizia da uno stato fanciullesco e puerile, poi diventa una dura e spietata giovinezza (gli uomini dell’età del bronzo nascevano “con una grande forza e mani invincibili spuntavano dagli omeri al loro corpo gagliardo”; Erga, vv. 143-149), si stabilizza per un po’ come l’equilibrata maturità degli Eroi e si conclude infine con l’età del ferro, l’èra della vecchiaia (“quando verranno al mondo gli uomini con le tempie candide fin dalla nascita”; v. 181), il crepuscolo del tempo cosmico ed umano. Dall’alba al tramonto dell’essere cosmico. La figura delineata appare quella di un Macrantropo, il prototipo mitico dell’esistenza che in sé contiene in principio le varie possibilità che si svilupperanno nel corso del tempo. Dal suo sacrificio rituale, ossia dalla sua “scomposizione” in ère cosmiche, si determina l’essere del mondo e degli uomini, mentre le razze che secondo Esiodo si susseguono l’una all’altra appaiono come le modalità diversificate di un tutto unitario, le “membra” dell’essere cosmico che si distende nel tempo e i suoi quattro stadi di esistenza.

 

La concezione di Esiodo non deve essere considerata una sua creazione originale ed individuale, ma va collocata all’interno di teorie cicliche di grande importanza e variamente articolate. La tradizione ellenica, infatti, ci parla di tre successivi cataclismi relativi alla sparizione di Ogygia, al diluvio di Deucalione e a quello di Dardano che avrebbero via via distrutto terre o continenti sui quali regnava l’empietà più profonda. Prescindendo da quelli di Ogygia e di Dardano sui quali ci siamo intrattenuti altrove, qui interessa soffermarci sul diluvio di Deucalione per gli accostamenti e gli sviluppi cui può dar luogo. Esso, infatti, ci riporta al ciclo dei titani per il semplice fatto che Deucalione risulta essere il figlio di Prometeo il quale, a sua volta, era stato concepito dal titano Giapeto e dall’oceanina Climene. Da questa unione era nato anche un secondo figlio di Giapeto, un fratello di Prometeo,  il famoso Atlante considerato il padre delle Esperidi, di Maia e della Plèiadi, ossia tutto un gruppo di esseri divini che si appoggiavano a precise costellazioni celesti poste sempre ad Occidente, mentre la tradizione ci dice che Zeus, a chiusura del ciclo spirituale precedente, pose entrambi i fratelli a presiedere i due poli opposti del mondo. Atlante presidiava l’Occidente e Prometeo l’Oriente, secondo un asse equinoziale che sostituisce il più antico asse solstiziale nord-sud e costituisce una precisa indicazione sull’esistenza nell’Ellade arcaica di dottrine sui cicli cosmici formulate secondo una narrazione che interpretava in termini mito-poetici un’antica tradizione sacra sulla strutturazione dei movimenti celesti.

 

Alla fine dell’età del bronzo, a causa della tracotanza ed empietà di quella razza Zeus volle un diluvio che ne cancellasse ogni traccia. Su consiglio del padre Deucalione e sua moglie Pirrha costruirono un’arca nella quale posero ciò che doveva essere salvato dal diluvio. Dopo nove giorni e nove notti durante i quali il diluvio distrusse la civiltà della razza bronzea, approdarono finalmente sul Parnaso dove finalmente sacrificarono a Zeus e così diedero inizio ad un nuovo ciclo. La titanessa Themis, la stessa che sarà soppiantata da Apollo a Delfi, enuncia in forma di enigma un oracolo che, avveratosi, costituirà l’origine stessa del genere umano. Gli elementi fondamentali del mito si possono considerare:

 

  1. L’arca che custodisce i germi della sapienza dei cicli spirituali precedenti;
  2. Deucalione e Pirrha che per la loro genealogia perpetuano in qualche modo anche aspetti importanti dell’età primordiale e perciò impediscono che ci sia una vera e propria rottura col mondo precedente;
  3. Il sacrificio a Zeus sul monte, l’axis mundi che diventa il luogo originario della nuova civiltà;
  4. L’oracolo di Themis, che permetterà la nascita del genere umano;
  5. La forma di enigma dell’oracolo.

 

Secondo la forma più conosciuta del mito, il figlio della coppia Deucalione-Pirrha (= il “Bianco” e la “Rossa”) scampata al diluvio sarà Hellenos il cui nome etimologicamente può essere ricondotto a “splendere”, “luce”, che secondo Jean Haudry darà come significato “colui che ha il viso solare” e perciò la sua discendenza, quella che formerà il nucleo essenziale delle diverse tribù greche, sarà propriamente il “popolo del sole”. Se ora poniamo mente al fatto che Helios è spesso rappresentato con sette raggi e che in India il settimo Aditya è Surya, il sole, ci si accorgerà che il parallelismo India-Ellade arcaica ha più di un punto di contatto e trova la sua ragione d’essere probabilmente nelle condizioni spirituali originarie dalle quale ha preso forma l’Ellade come noi la conosciamo in piena epoca del ferro.

 

Nell’ambito di questi cicli mitologici antichissimi può porsi anche l’orfismo la cui struttura misteriosofica ricalca forme di spiritualità cosmica del tipo che è possibile rinvenire per es. anche nell’India vedica o in certi aspetti della soteriologia tantrica. Le dottrine orfiche appaiono strutturate già a partire dal VII-VI sec., quando il bìos orphikòs costituirà un riferimento costante nel patrimonio speculativo dei filosofi e persino dei molti ciarlatani, ed è facile trovare quei thēologoi e quegli orfeotelesti accennati da Platone che ci documentano una massiccia presenza orfica nel mondo religioso e nella società dell’Ellade storica.

 

Una versione delle tante cosmogonie orfiche ci presenta quale entità primordiale la Notte dalla quale scaturiscono gli esseri divini, perciò in qualche modo una sorta di originaria scaturigine del tutto. E’ da questo principio che procede l’Uovo cosmico che, simile al Brahmanda indù, col suo scomporsi rende manifesti il cielo e la terra e, soprattutto, Phanes, l’Essere Primordiale “luminoso”, lo “splendente”, l’archetipo universale da cui promana ogni esistente, il Protogonos colui che contiene in sé la stesso i germi della manifestazione universale. Lo straordinario di questa struttura teo-cosmogonica estremamente arcaica è il fatto che tali concezioni furono concepite come supporti di una elaborata misteriosofia che affascinò personaggi come Platone e che appare piuttosto distante dalle usuali convinzioni elleniche sugli dèi olimpici e sulla relativa loro vita rituale. Ma c’è di più. Un’antica testimonianza riportata da Otto Kern (fr. 21a) e sviluppata nelle sue implicazioni escatologiche da Richard Reitzenstein, ci dice che secondo gli orfici l’universo era ritenuto il “corpo visibile” di Zeus, il quale perciò era ritenuto l’inizio, il mezzo e il fine del cosmo. Tale figurazione orfica di Zeus (che evidentemente non ha nulla dello Zeus olimpico) è contemporaneamente “uomo e donna”, un principio androginico dal quale si origina autonomamente per autogenesi il cielo, la terra e gli elementi fondamentali della vita cosmica, il vento, l’acqua, il fuoco, il sole, la luna. Come ha fatto notare Ugo Bianchi, questa concezione deve riflettere idee molto antiche se ancora nel VII sec. Terpandro testimonia la loro vitalità, forse come idee scaturite da forme rituali da riferirsi addirittura al passato indoeuropeo ove si accetti l’ipotesi di Anders Olerud, poi sviluppata da Geo Widengren nel capitolo sul panteismo del suo poderoso manuale di fenomenologia religiosa, sull’arcaicità dell’idea di microcosmo e di macrocosmo e sulla corrispondenza simbolica di queste due sfere in una struttura formale che abbia ben chiari i diversi stati molteplici dell’essere.

 

E’ la dottrina del Macrantropo dal cui sacrificio rituale si origina il cosmo, la stessa che abbiamo visto serpeggiare anche nella visione esiodea dei cicli cosmici e che, formulata in vario modo, si ritrova nelle cosmogonie e nelle dottrine sacrificali di molti popoli indoeuropei. Ma questo è un altro discorso che si intende riprendere in un apposito studio.

 

Per approfondire:

 

F. Vian, La guèrre des Geants. Le mythe avant l’èpoque hellènistique, Paris 1952.

 

N. D’Anna, Da Orfeo a Pitagora. Dalle estasi arcaiche all’armonia cosmica, Simmetria, Roma 2011.

 

N. D’Anna, Il Gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006.

 

[Tratto, col gentile consenso dell’Autore, da “Atrium” 2/2011].

dimanche, 25 décembre 2011

Sexe et dévoiement

Sexe et dévoiement

Les éditions du Lore viennent de publier Sexe et dévoiement, un nouvel essai de Guillaume Faye.

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Figure de la Nouvelle Droite dans les années 70-80, auteur d'essais importants, servis par un style étincellant, comme Le système à tuer les peuples (Copernic, 1981) ou L'Occident comme déclin (Le Labyrinthe, 1984), Guillaume Faye est revenu au combat idéologique en 1998 avec L'archéofuturisme (L'Æncre, 1998), après dix années d'errance dans les milieux de la radio et du show-businness. Dans cet essai, premier d'une nouvelle série d'écrits de combat, il a su développer des idées stimulantes telles celles d'archéofuturisme, de constructivisme vitaliste et de convergence des catastrophes. Par la suite, l'auteur s'est enfermé, au nom d'un anti-islamisme rabique, dans une surenchère dans la provocation qui semble lui avoir fait perdre de vue l'ennemi principal et l'avoir amené à opérer des rapprochements surprenants. On lira donc avec intérêt, mais non sans circonspection, cet essai qu'il consacre au thème de la sexualité, thème qu'il avait déjà abordé de façon percutante, il y a plus de vingt-cinq ans, dans Sexe et idéologie (Le Labyrinthe, 1983).

 

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"Dans son nouvel essai, comme toujours, Guillaume Faye brouille les pistes. Véritable électron libre de la Nouvelle Droite européenne, aussi inquiétant que controversé, il sévit à nouveau autour d’un sujet devenu sulfureux : le voici traitant de la sexualité, thème central à la croisée de tous les chemins. Est-il judicieux de préciser que ce livre fera polémique ?...

Pornographie, famille, amour, homosexualité, métissage, mariages, natalité, féminisme, érotisme, morale chrétienne, islam, prostitution, manipulations génétiques, surhomme, intelligence artificielle : tous ces thèmes d’une brûlante actualité sont abordés ici par Faye de son point de vue archéofuturiste. Parfois excessives, totalement décomplexées car impeccablement documentées, les théories de l’auteur nous amènent à réfléchir armés notamment de munitions aristotéliciennes.

Voici une remarquable étude sociologique exécutée par un homme de terrain ; il convient de la lire à la manière d’un roman, mais un roman qu’on ne saurait mettre entre toutes les mains."

Réflexion sur la révolution des neiges en Russie

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Réflexion sur la révolution des neiges en Russie

Alexandre LATSA

Ex: http://fr.rian.ru/

Les événements politiques et citoyens qu’a connu la Russie ces derniers jours ont sans doute une fois de plus été traités par le mainstream médiatique de façon excessive et erronée. Printemps russe, révolution des neiges, craquement du régime Poutine, révolution arabe a Moscou...

Les qualifications excessives et souvent obsessionnellement dirigées contre la figure du premier ministre sont certes en adéquation totale avec quelques slogans que j’ai pu entendre lors de cette manifestation mais semblent bien loin de la réalité du terrain tout autant que de ce que pensent a ce jour la grande majorité des Russes. Cette fois-ci, le mainstream médiatique francophone n’a pas égalé le mainstream anglophone, dont une des principales chaînes de télévision a commenté les manifestations en Russie en utilisant des images d’émeutes en Grèce. On sait pourtant que les palmiers sont rares dans les rues de Moscou :), et que la police russe ne porte pas d’uniformes grecs. Tout commentaire est inutile, il suffit de regarder le reportage.

Reprenons depuis le début. Suite aux élections législatives du 4 décembre, des cas de fraudes électorales ont été mis en évidence. Pour autant une analyse sérieuse et non émotionnelle montre que des différences entre les sondages, les sondages d’après votes, les estimations et les résultats ne seraient palpables que dans le Caucase ou éventuellement à Moscou, comme je l’avais mentionné ici. Il a été rappelé que la structure traditionnelle et conservatrice tchétchène (rôle des teïps par exemple) peut être un facteur de vote difficile à comprendre. Les autres fraudes dénoncées concerneraient donc essentiellement Moscou ou le score de Russie Unie aurait été gonflé, comme l’a affirmé en cours de dépouillement un sondage de sortie des urnes publié par l’institut FOM et qui a mis le feu aux poudres. Très curieusement ce sondage n’est plus en ligne aujourd’hui sur leur site, mais il a été repris sur de nombreux blogs. Quoi de plus simple à manipuler qu’un sondage d’après vote par un institut? Les mouvements de protestations n’ont donc concerné essentiellement que Moscou et Saint-Petersbourg, qui ont rassemblé les ¾ des manifestants du pays.

Qu’en est-il, en réalité,  de la fraude dénoncée et propagée sur la toile, via les réseaux sociaux ou Youtube, et que les journalistes occidentaux citent sans relâche depuis les élections? 7.664 incidents de diverses natures ont été recensés sur l’ensemble des bureaux de vote durant ces élections (en Russie et à l’étranger). Parmi ces incidents, les cas récencés qui concernent des plaintes pour fraude au niveau de la comptabilisation des voix sont 437. Regardons maintenant ce que dit le site de l’association "indépendante" GOLOS, spécialisée dans la surveillance des élections: 66 cas recensés de différence entre les décomptes des observateurs et les résultats finaux, qui portent chaque fois sur des écarts de 100, 200 ou 300 voix, selon les cas. Même analyse pour Vedemosti qui publie une analyse détaillée de Moscou dans laquelle une 30aine de cas a été recensés par les observateurs d’Iabloko (parti d’opposition) pour toute la capitale. Peut-on imaginer que ces 20.000 voix en litige (estimation haute) ont permis à Russie Unie de doubler son score à Moscou? A-t-on remarqué que les observateurs "indépendants" ou ceux de GOLOS ou d’Iabloko n’ont pu observer à ce jour quelque fraude que ce soit dans le reste des 3.374 bureaux de vote de la capitale? Peut- on imaginer que ces quelques cas de fraudes dans tous le pays aient pu inverser totalement le résultat du scrutin? On peut sérieusement en douter. Depuis les élections, personne n’a contesté les irrégularités, fraudes et  dysfonctionnements systémiques relevés par les différents observateurs de partis politiques et des associations. Mais on ne peut pas encore comparer Moscou à Chicago, ou 100.000 voix avaient disparu lors d’une élection en 1982. En outre, beaucoup d’observateurs internationaux ont eux validé les élections, que l’on regarde par exemple ici, la, ici ou la.

A propos d’Amérique: l’association GOLOS, très en pointe pour dénoncer les fraudes en Russie, est financée par les très puissantes associations américaines USAID et NED.  GOLOS vient d’être pris la main dans le sac, si je puis dire, puisque la presse russe vient de publier un échange mail entre la responsable de GOLOS et des responsables de l’USAID, leur demandant combien l’association pourrait facturer (lors de précédentes élections en Russie) pour… Des dénonciations de fraudes et d’abus.

Mais le Buzz informatique sur des élections massivement truquées à bien fonctionné et ce sont sans doute environ 35.000 personnes qui se sont rendus à une grande manifestation samedi dernier à Moscou (j’y ai assisté)  afin de demander de nouvelles élections. La manifestation s’intitulait la révolution des neiges, et les participants portaient des œillets blancs mais également des fleurs. Cette association de symboles fait étrangement penser aux symboles des révolutions de couleurs (appelées également révolutions des fleurs) qui ont eu lieu en Serbie en 2000, en Géorgie en 2003 ou en Ukraine en 2004. Plus étrange encore, le site de la mystérieuse et nouvelle association qui organisait le mouvement s’intitulait de la même façon BelayaLenta. C’est un nom de domaine internet qui a été déposé aux Etats-Unis en octobre 2011...

Cette manifestation était extrêmement intéressante à mon sens. Elle réunissait une galaxie très hétérogène de mouvements politiques et d’associations. Une partie des gens était venu voir ce qui se passait et étaient surpris de l’ampleur du rassemblement. Je décrirais le participant moyen comme un moscovite de la classe moyenne supérieure, jeune et plutôt de sexe masculin, présent car convaincu de s’être fait voler ses voix, lorsqu’il n’était pas simplement hostile au premier ministre Vladimir Poutine. Le meeting était co-organisé par les éternels opposants libéraux Boris Nemtsov, Michael Kassianov et Vladimir Milov, fédérés au sein du Parnas, ainsi que par Serguei Udaltsov, le leader du mouvement d’extrême gauche Front de gauche, également ancien membre de la coalition libérale/communiste "l’Autre Russie", qui rassemblait ultras d’extrême-gauche, nationaux-bolcheviques et libéraux pro-occidentaux.

Les associations libérales et pro-occidentales étaient présentes. Le parti-communiste et Russie Juste étaient aussi représentés, ainsi que divers mouvements d’extrême gauche: des anarchistes , le front de gauche et des mouvements tiers-mondistes. Mais il faut ajouter un autre élément tout à fait inattendu pour un observateur étranger, la présence en force de représentants de l’extrême droite la plus dure, néo-nazis , nationalistes ou encore monarchistes. Les francophones qui liront ce texte se demanderont sans doute comment des gens aussi différents ont pu défiler côte à côte sans heurts. Il y a eu beaucoup de slogans anti-Poutine, mais pas de casseurs en fin de manifestation. Cette animosité à l’égard du premier ministre, dans les slogans, s’est donc exprimée dans des domaines très différents. Pour certains, c’est un autocrate, pour d’autres au contraire il n’est pas assez nationaliste, trop libéral ou pas assez à gauche. Un symbole était absent de cette manifestation, le blogueur Alexeï Navalny, qui semble parfaitement représenter cette synthèse inattendue entre libéraux et radicaux d’extrême droite. Ce blogueur très populaire à l’ouest (plus qu’en Russie), ancien du mouvement libéral Iabloko, est à l’origine du slogan "Russie unie parti des escrocs et des voleurs" qui est repris par les opposants à Vladimir Poutine. C’est aussi Navalny qui a lancé le slogan "vote pour n’importe qui sauf pour Russie Unie". Il a aussi participé cette année à la marche russe, cette marche de l’extrême droite, se "félicitant de pouvoir éduquer cette jeunesse radicale". Mais il s’est également fait pirater sa boite mail, ce qui a permis de mettre en évidence qu’il était (tout comme Golos cité plus haut) salarié de l’association américaine NED (une des structures essentielles de soutien aux révolutions de couleur durant ces dernières années dans l’espace postsoviétiques), mais également en lien étroit avec Alexandre Belov, le représentant d’une structure d’extrême-droite viscéralement anti Kremlin: l’ex-DPNI.

A part l’influence de GOLOS et Navalny, il faut noter que les Etats-Unis ont promis récemment d’augmenter les aides aux associations qui opèrent en Russie, en affirmant que ces aides ne viseraient pas à miner la stabilité politique du pays. Ce dont on peut très sincèrement douter.

J’ai assisté à cette manifestation et deux réflexions principales me viennent à l’esprit.

D’abord le meeting s’est terminé dans le calme: c’était une démonstration de maturité de la société russe, tant au niveau des manifestants que de l’état. Désormais le mythe de l’état répressif sans cesse mis en avant n’est plus valide. Les manifestants ont respecté le cadre légal, tout s’est déroulé sans incidents notables.

Ensuite les revendications sérieuses et constructives de beaucoup de manifestants (médecine gratuite et reforme de l’éducation par exemple), semblaient correspondre aux demandes d’un électorat proche du parti communiste ou de Russie Juste, les partis du nouveau bloc de gauche. Ce bloc de gauche qui va occuper environ 1/3 de la nouvelle assemblée semble donc être la réelle force d’opposition qui a émergé des élections du 4 décembre, bien plus qu’une hypothétique et fantasmatique coalition orange/brune/rouge, réunie dans un meeting organisé par d’éternels perdants ou par des leaders de groupuscules. Il est plausible que désormais la vie politique russe puisse se structurer autour de deux grands blocs: un centre droit autour de Russie Unie et un grand courant de gauche.

Ces deux réflexions me font penser que la vie politique russe devrait ainsi garder sa stabilité, en renvoyant les projets américains de révolution de couleur en Russie aux oubliettes de l’histoire.

L’opinion de l’auteur ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction.

 

* Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie". Il collabore également avec l'Institut de Relations Internationales et Stratégique (IRIS), l'institut Eurasia-Riviesta, et participe à diverses autres publications.

La France mise en garde par la Turquie à propos de sa loi sur le génocide arménien

 

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La France mise en garde par la Turquie à propos de sa loi sur le génocide arménien

La France a été alertée par la Turquie des graves conséquences qu’entraînerait l’adoption par le sénat français d’un projet de loi, aujourd’hui (19 décembre), qui pénaliserait le déni du massacre de plus d’un million d’Arméniens par l’Empire ottoman en 1915.

Speaking in Libya on Saturday, Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdoğan urged France to face its own history before judging the history of others, the Turkish press reports.

Erdoğan's strong reaction came in response to a vote by the French Senate to criminalise denial in France of the so-called Armenian genocide of 1915 and make it punishable by a maximum one-year prison sentence and a €45,000 fine – a punishment that would bring denial of the alleged genocide up to par with denial of the Holocaust.

"Today, nobody talks about the 45,000 Algerian deaths in 1945 or the role of France in the massacre of 800,000 people in Rwanda in 1994,” Erdoğan said.

Turkish officials have warned France of grave consequences should the bill be passed by the French Senate. Erdoğan sent a letter to the French President Nicolas Sarkozy on Friday, warning him of the damage the bill would cause to bilateral relations.

“This bill directly targets the state of the Turkish Republic, the Turkish nation and the Turkish community in France and is seen as hostile,” Erdoğan was quoted as saying in the letter, seen by the Anatolia news agency.

Speaking in a joint press conference with Mustafa Abdul-Jalil, chairman of the Libyan National Transitional Council (NTC), Erdoğan repeated Turkey's official stance regarding the Armenian deaths of 1915 as an historical matter that calls for the judgement of historians and academics rather than as a matter of politics to be voted on in parliaments.

French election strategies?

Ankara has also raised doubts regarding Sarkozy's motives in changing his stance regarding the Turkish-Armenian conflict, speculating that the French president might be seeking votes from the strong Armenian community in France to gain an advantage over his Socialist Party rival, François Hollande.

 

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The Socialist candidate is also a known defender of the “Armenian genocide” and said that he would support a law to make genocide denial punishable by French courts.

“The bill is completely against common sense. The toll [in the case the bill passes into law] will be on French firms conducting business in Turkey,” Turkey's EU Affairs Minister Egemen Bağış said on Saturday (17 December).

Business to suffer

Two days before, Turkish Foreign Minister Ahmet Davutoğlu had invited executives from French firms in Turkey to his ministry to discuss the possible results of such a law for French investment in the country.

Apparently unmoved by Ankara's warnings, Sarkozy's ruling party reaffirmed its faith in the bill, expressing support for its passage. Lawmakers interviewed by AFP said that they were “determined at this time” that the bill should not return from the Senate, as it did back in 2006 during a first attempt.

France had previously brought the same bill to the agenda five years ago, but the French Senate refused to discuss it even though France recognised the Armenian deaths of 1915 as genocide in 2001.

EurActiv.com

Ein neuer kalter Krieg in Asien?

Ein neuer kalter Krieg in Asien? Obama bedroht China – Das Energie-Kalkül

Michael Klare

Gerät die Regierung Obama bei ihrer Chinapolitik direkt vom Regen in die Traufe? In dem Versuch, das Kapitel zweier verheerender Kriege im Mittleren Osten und darüber hinaus zu schließen, hat die amerikanische Regierung möglicherweise einen neuen kalten Krieg in Asien losgetreten – wobei wieder einmal Erdöl als der Schlüssel zur weltweiten Vormachtstellung gesehen wird.

 

Diese neue Politik wurde von Präsident Obama persönlich am 17. November in einer Rede vor dem australischen Parlament, in der er eine kühne – und extrem gefährliche – geopolitische Vision darlegte, vorgestellt. Im Mittelpunkt des außen- und machtpolitischen Interesses der Vereinigten Staaten stehe nicht länger die Großregion des Mittleren Ostens, wie dies in den letzten zehn Jahren der Fall gewesen sei, sondern man wolle sich nunmehr auf Asien und die Pazifik-Region konzentrieren. »Meine Orientierung ist eindeutig«, erklärte Obama in Canberra.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/michael-klare/ein-neuer-kalter-krieg-in-asien-obama-bedroht-china-das-energie-kalkuel.html

 

Jünger, una vita vissuta come esperienza primordiale

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Jünger, una vita vissuta come esperienza primordiale

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Quando nelle conversazioni con il vecchio Jünger si toccava l’immancabile motivo della Grande Guerra, sul suo volto imperturbabile si disegnava una leggera espressione di insofferenza. Con gli interlocutori più giovani, digiuni di esperienze militari, essa volgeva rapidamente in benevola comprensione.

Perché ­ ecco la domanda che la mimica del volto bastava a esplicitare ­ ridurre l’opera di una vita al suo primo episodio? Perché, nonostante egli avesse continuato a pensare e a scrivere per oltre mezzo secolo, la critica incollava così pervicacemente la sua immagine all’attivismo eroico degli inizi?

La fama precoce ottenuta con i diari di guerra lo ha effettivamente inseguito come un’ombra. E se in origine essa contribuì a dare la massima visibilità alla sua intera produzione, letteraria e saggistica, in seguito ne ha pesantemente condizionato la ricezione, ostacolando una più attenta considerazione delle profonde trasformazioni, di contenuto e di stile, avvenute nel corso degli anni. Perfino il raffinato Borges ricordava di lui soltanto Bajo la tormenta de acero, e nient’altro. Il tenente Sturm, un racconto in gran parte autobiografico, pubblicato a puntate nel 1923 e ora tradotto da Alessandra Iadicicco per Guanda, ci riporta a quel primo Jünger, offrendo uno splendido condensato dei motivi che resero così incisiva la sua elaborazione letteraria della guerra. Di nuovo ammiriamo il talento con cui il giovane scrittore avvince anche il lettore più distratto e, con la sola forza della descrizione, lo porta a toccare quell’esperienza limite. Di nuovo la sua prosa, così scandalosamente indifferente a carneficine e distruzioni, evoca le “battaglie di materiali” in cui il valore del combattente è ridotto a zero e ciò che conta è solo la potenza di fuoco “per metro quadro”. La prospettiva di Jünger scardina le tradizionali interpretazioni della guerra per esibirci il fenomeno allo stato puro. Dove altri vedevano allora la lotta per la patria, gli interessi del capitalismo o le rivendicazioni dello chauvinismo, egli coglie l’esperienza primordiale in cui la vita scopre le sue carte, in cui, nel suo pericoloso sporgersi verso l’insensato nulla, essa manifesta la sua essenza più profonda e contraddittoria. Fino all’assurdo caso, evocato nel racconto, del “camerata” che viene spinto dal terrore della morte a suicidarsi. Dal suo lungo stare in tali situazioni limite la letteratura di Jünger trae indubbiamente la sua forza: da inchiostro, si fa vita. Ma sarebbe riduttivo costringerla lì. Sulle scogliere di marmo, per esempio, per lo scenario fantastico, il timbro stilistico e la tensione narrativa va ben oltre la diaristica di guerra. E così pure altri testi, primo fra tutti lo stupendo Visita a Godenholm del 1952, che attende ancora di essere tradotto.

* * *

Tratto da Repubblica del 2 novembre 2000.

 

samedi, 24 décembre 2011

La Turquie, alliée de toujours des Etats-Unis et nouveau challenger

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La Turquie, alliée de toujours des Etats-Unis et nouveau challenger

Par Dorothée SCHMID*, 

 
Ex: http://mbm.hautetfort.com/

* Spécialiste des politiques européennes en Méditerranée et au Moyen-Orient, est actuellement responsable du programme « Turquie contemporaine » à l’Ifri. Ses travaux portent sur les développements de la politique interne en Turquie et sur les nouvelles ambitions diplomatiques turques

Membre de l’OTAN depuis 1952, la Turquie est un allié traditionnel des États-Unis, malgré des désaccords sur des dossiers comme Chypre ou l’Irak. Depuis la fin de la guerre froide, et particulièrement après l’arrivée de l’AKP au pouvoir, les relations entre les deux pays se sont toutefois tendues. Il va désormais falloir trouver un équilibre entre le besoin de reconnaissance d’une Turquie toujours plus ambitieuse à l’échelle régionale et les impératifs de sécurité américains.

Dans le cadre de ses synergies géopolitiques, le Diploweb.com est heureux de vous présenter cet article de Dorothée Schmid publié sous ce même titre dans le n°3:2011 de la revue Politique étrangère (Ifri), pp. 587-599.

L’INTENSE activité de la diplomatie turque, particulièrement au Moyen-Orient, embarrasse depuis quelques années plus d’une puissance établie. Si les Français s’inquiètent de la présence croissante des Turcs sur leurs terrains d’influence arabes, les États-Unis éprouvent quelque difficulté à s’accommoder des ambitions retrouvées d’un allié qui leur fut toujours précieux, mais également de la volatilité nouvelle de ses positions.

Ankara avait en effet habitué Washington à plus de retenue et de régularité. Ayant intégré dès 1952 la communauté disciplinée de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN) comme puissance régionale d’appui, elle y rendait aux États-Unis des services intermittents mais rarement négociables, en échange d’un rattachement souple à la sphère de protection américaine. Pilier oriental de l’Alliance, la Turquie assurait la surveillance de sa frontière sud-est, Washington ne se permettant que rarement de commenter les accidents politiques intérieurs turcs, entre coups d’État à répétition et répression des minorités.

Ce gentlemen’s agreement stratégique a duré près de 40 ans, malgré quelques désaccords importants sur Chypre ou l’Irak. Mais la fin de la guerre froide et le 11 septembre 2001 ont créé les conditions de l’émancipation de la diplomatie d’Ankara, au moment même où son rôle central se confirmait au Moyen-Orient. Assumant d’une manière différente sa vocation de pays pivot, la Turquie entame alors une reconversion imprévue : longtemps plate-forme avancée de l’Occident au Moyen-Orient, elle se pose depuis quelques années en porte-parole auprès de l’Occident d’un monde arabo-musulman qui n’en finit pas de se décomposer et de se recomposer, et échappe de plus en plus à la maîtrise de Washington. L’équation stratégique américaine doit intégrer cette échappée orientale, avec des incertitudes majeures : il est en effet encore difficile d’évaluer si la Turquie a les moyens de ses ambitions dans la région et jusqu’à quel point ses intérêts y divergent de ceux des États-Unis.

Une Turquie toujours centrale

L’histoire et la géographie ont assigné à la Turquie une fonction centrale dans le système de la guerre froide : république laïque façonnée par Mustafa Kemal Atatürk sur le modèle des États-nations européens, elle est la sentinelle de l’Occident à sa frontière orientale. Cette fonction de rempart reste essentielle dans le calcul stratégique américain, mais évolue et se complexifie avec le temps.

Les fonctions géopolitiques d’un pays pivot

Les fondements du rapport turco-américain sont d’ordre sécuritaire. La situation géographique de la Turquie définit son importance dans la perception stratégique des États-Unis : le pays est au carrefour de deux continents et de plusieurs zones d’influence historique – russe, iranienne, etc. ; le Bosphore et les Dardanelles sont des verrous ; les principales routes énergétiques désenclavant les ressources de la Caspienne et du Moyen-Orient passent par le territoire turc ; et les sources du Tigre et de l’Euphrate se situent également en Turquie, ce qui en fait le château d’eau du Moyen-Orient. Fardeaux ou atouts, ces éléments offrent à la Turquie un choix de positionnement stratégique : elle peut être frontière, ou intermédiaire. Les décideurs américains tentent, depuis la fin du XXe siècle, de jouer sur ces deux vocations, selon leurs propres objectifs dans la région. La Turquie est pour eux un pays pivot, à même d’articuler des ensembles géopolitiques indépendants, mais aussi vulnérable car exposé, dans une région parcourue de tensions [1]. Le contrôle de la charnière turque est essentiel pour maîtriser la problématique moyen-orientale, en bonne harmonie avec l’ensemble européen. Pendant toute la guerre froide, la Turquie a été le poste avancé de surveillance de l’Occident à l’est, face à l’ennemi soviétique ; dans la décennie qui suit la chute du Mur, elle a été pensée comme bouclier contre l’islam radical.

La Turquie n’était donc pas, jusqu’à l’ouverture de l’ère AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi, Parti de la justice et du développement, d’origine islamiste, actuellement au pouvoir) en 2002, un enjeu stratégique en elle-même, mais bien un partenaire pour les dossiers géopolitiques régionaux. La relation bilatérale turco-américaine est fondée sur des intérêts stratégiques partagés, le niveau des relations économiques est faible, le dialogue politique existe, mais apparaît, jusqu’à une période récente, dénué de relief et de complicité. Cependant, Washington sait que la fonction d’intermédiaire géopolitique assignée à la Turquie est fragile et craint aujourd’hui plus que jamais que l’allié ne passe dans l’autre camp. Ancrer la Turquie à l’ouest est donc le premier objectif poursuivi par toutes les Administrations américaines depuis les années 1940. Cela passe, dans un premier temps, par le bénéfice du plan Marshall et par l’intégration à l’Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE) – alors que la Turquie n’est pas entrée dans la Seconde Guerre mondiale ; par son admission à l’OTAN en 1952, en même temps que la Grèce, pour participer à la guerre de Corée ; puis par le lobbying en faveur du rapprochement de la Turquie avec la Communauté économique européenne (CEE) puis de son adhésion à l’Union européenne (UE). Les États-Unis entérinent ainsi sans état d’âme la double appartenance géographique et identitaire de la Turquie, contrairement à une Europe qui doute encore de ses frontières et dont l’imaginaire collectif reste marqué par des a priori négatifs, héritages des « turqueries » d’un Empire ottoman autrefois menaçant [2].

Un allié traditionnellement remuant

Partenaire stratégique, allié, mais pas forcément ami : c’est ainsi que la Turquie elle-même perçoit les États-Unis, une grande partie de l’opinion turque cultivant un antiaméricanisme de principe qui s’exprime par crises face aux grands événements internationaux. Les sondages d’opinion le démontrent : le sentiment antiaméricain se renforce étonnamment en Turquie au fil des décennies, nourri d’incidents objectifs et de représentations fantasmées, qui heurtent le nationalisme turc [3]. Imprégnées de culture politique européenne, voire française, les élites kémalistes traditionnelles n’ont jamais considéré les États-Unis comme un modèle de société ou d’organisation politique [4]. Ce sentiment antiaméricain est partagé par la gauche turque, sur fond d’anti-impérialisme, et par une bonne partie de l’armée et de la classe politique, qui se sentent négligées par Washington et lui prêtent régulièrement des intentions malveillantes à l’égard de la Turquie ; nombre de théories du complot circulent ainsi, attribuant la paternité des coups d’États militaires successifs à l’intervention occulte des Américains [5].

Seul le président Turgut Özal a fait preuve, dans la classe politique turque, d’une américanophilie réelle, coïncidant dans le temps, heureusement pour Washington, avec la première guerre du Golfe. Cette méfiance traditionnelle vis-à-vis des États-Unis se résorbe cependant en partie depuis l’arrivée de l’AKP aux affaires, ce dernier s’appuyant davantage sur de nouvelles élites anglophones, que leurs origines anatoliennes n’empêchent pas d’être plus en phase avec la mondialisation, et qui prisent surtout le modèle américain de liberté religieuse.

En pratique, la relation stratégique turco-américaine n’a jamais fonctionné de façon impeccable au-delà des années 1950. La Turquie est restée un allié compliqué et les accrocs n’ont pas manqué. La substance de la relation étant d’ordre sécuritaire, l’Administration américaine a longtemps fermé les yeux sur les petits accommodements de la Turquie avec la doxa démocratique occidentale. Les épisodes de confrontation sont en revanche réguliers dans le cadre de l’OTAN. Les Turcs ont ainsi gardé le souvenir très vif de plusieurs désaccords historiques où la puissance américaine a imposé ses vues contre les priorités nationales turques, d’où une amertume persistante. Les États-Unis se sont opposés à la Turquie sur la question chypriote en 1964 et en 1974, décrétant à l’époque un embargo sur les armes à destination de la Turquie ; dans les années 1980, l’aide militaire à la Turquie sera calibrée sur celle accordée à la Grèce, avec un ratio de sept pour dix. Mais les difficultés s’accumulent surtout du côté de l’Irak, où la préférence américaine pour les Kurdes inspire aux Turcs un malaise persistant. Fin 1991, une no-fly zone est établie dans le nord de l’Irak par les États-Unis, la France et le Royaume-Uni pour protéger les insurgés kurdes irakiens de la vengeance programmée de Saddam Hussein. Les Turcs se résolvent à contrecœur aux opérations Provide Comfort et Poised Hammer, mises en œuvre à partir de la base d’Incirlik, construite près d’Adana, au sud de la Turquie, aux premiers temps de la guerre froide. Les Turcs acceptent également les sanctions prévues contre l’Irak, malgré la perte économique manifeste que cela implique pour eux. Ils assistent surtout à partir de ce moment-là avec inquiétude à l’autonomisation progressive du Kurdistan irakien, où la guérilla du Parti des travailleurs du Kurdistan (Partiya Karkerên Kurdistan, PKK), active en Turquie depuis 1984, commence à installer ses bases. L’ensemble de ces concessions marque durablement les esprits, et explique bien des réactions turques pour la suite de l’histoire irakienne.

1991-2001 : la décennie du basculement

La Turquie a pu craindre d’être marginalisée par la fin de la guerre froide ; elle s’est au contraire trouvée libérée d’une partie de ses obligations anciennes, tout en gagnant la possibilité de jouer d’autres rôles. La décennie 1991-2001, qui s’ouvre avec la première guerre du Golfe et s’achève avec le 11 septembre, apparaît ainsi a posteriori comme la décennie du basculement de la relation turco-américaine. Pour des raisons tenant à la fois aux circonstances régionales et à la trajectoire nationale des deux partenaires, l’équilibre des forces, traditionnellement très favorable aux Américains, bascule insensiblement du côté de la Turquie.

Dès les années 1990, l’alliance turco-américaine se consolide en se diversifiant ; la Turquie devient un partenaire multifonctions, pouvant contribuer à la résolution de bon nombre des difficultés diffuses posées par un système international instable. Elle est ainsi pleinement intégrée à l’équation de stabilisation de l’Europe balkanique et participe aux forces de maintien de la paix en Bosnie, au Kosovo, en Macédoine. Mais c’est le 11 septembre 2001 et ses suites qui la poussent au devant de la scène, en faisant un protagoniste essentiel des plans de Washington au Moyen-Orient. Les États-Unis considèrent à l’époque qu’une Turquie laïque, encore largement sous l’emprise des militaires, peut servir de digue contre la vague islamiste. Ce schéma de défense se double après le 11 septembre du fantasme d’une Turquie modèle politique, incarnant la démocratie musulmane avancée que l’Administration américaine rêve de répandre au Moyen-Orient.

L’impact du 11 septembre sur la Turquie est cependant ambigu. Traditionnellement en quête de réassurance identitaire, elle se trouve à l’époque mise en scène comme pays de l’entre-deux par des décideurs occidentaux devenus huntingtoniens, dans un monde découpé en zones antagonistes. Pensée comme « pont » entre les civilisations, ou comme instrument du dialogue avec un monde musulman hostile aux États-Unis, elle prépare dès ce moment sa reconversion et le réveil de sa vocation orientale assoupie.

Le pacte imprécis : la dérive de la relation turco-américaine

La relation turco-américaine traverse manifestement aujourd’hui une phase de réajustement houleux. Depuis le déclenchement de la seconde guerre du Golfe, accidents, désaccords et mésententes s’accumulent entre la première puissance mondiale et l’aspirant challenger qui a fait du Moyen-Orient le laboratoire de son renouveau économique et diplomatique. Cette dérive inquiète Washington, tandis qu’elle semble nourrir une forme d’exaltation à Ankara : la Turquie a cessé d’être un faire-valoir et fait comprendre qu’elle travaille désormais avant tout pour son propre compte.

La crise de 2003, tournant ou révélateur ?

La première crise de confiance significative entre les deux alliés a lieu le 1er mars 2003. Elle prend tout le monde par surprise et laisse le champ libre à des interprétations multiples. Ce jour-là, la Grande Assemblée nationale turque refuse le passage et le stationnement en Turquie de 62 000 militaires américains en route vers l’Irak. Les leaders de l’AKP, qui disposent pourtant d’une solide assise au Parlement, n’ont pas réussi à réunir la majorité absolue des voix ; la discipline de parti n’a vraisemblablement pas été strictement respectée, face à une opinion publique turque massivement opposée à la guerre en Irak. Le lendemain, le chef d’état-major de l’armée turque affirme pourtant qu’il apporte son soutien à l’opération américaine. Le secrétaire d’État américain adjoint à la Défense Paul Wolfowitz qualifie la prise de position turque de « grosse erreur », et les États-Unis agitent des menaces de rétorsion financière [6].

La crise est progressivement surmontée. La Turquie rejoint la coalition du côté des pays fournissant un appui logistique aux opérations, et obtiendra une compensation pour services rendus. Depuis 2003, la moitié des avions cargos militaires à destination de l’Irak sont bien partis de la base d’Incirlik. Mais le vote de 2003, qui a définitivement remis en cause la fiction d’un soutien turc automatique aux décisions de Washington, concentre toute la complexité d’un rapport empoisonné par le ressentiment turc. Pour compenser les brimades subies depuis 1991 sur le dossier kurdistanais, les Turcs ont donné libre cours à leurs divergences internes, et l’anarchie chronique de leur système de décision, que les Américains rebaptisent traditionnellement « instabilité », a accouché d’un blocage. La Turquie a infligé aux États-Unis un traumatisme majeur : elle cesse dès ce moment d’être considérée comme un allié fiable. La relation turco-américaine s’intensifie cependant, car les difficultés bilatérales impliquent de multiplier les consultations, mais tout se joue désormais sur le mode du rapport de forces. Les deux États entrent dans un système de marchandage permanent. La question irakienne devient le baromètre de la relation pendant quelques années de tâtonnements, désaccords et accusations mutuelles de traîtrise – les Turcs accusent les Américains de soutenir le PKK et mènent des opérations au Kurdistan irakien pour y traquer la guérilla, tandis que les Américains soupçonnent les Turcs de faciliter le passage d’Al-Qaida. Tout s’apaise progressivement à partir de 2008 : l’Irak devient le lieu privilégié du redéploiement de la puissance turque, au point qu’elle s’y impose comme relais politique naturel au moment du retrait américain.

Le modèle politique turc, entre « islam modéré » et « islamisme »

Un nouveau paramètre essentiel entre maintenant en jeu pour façonner la perception américaine de la Turquie. Celle-ci est gouvernée depuis 2002 par un parti d’origine islamiste, très préoccupé cependant durant ses premières années tests de démontrer son attachement à la modernité occidentale. L’AKP, que sa sociologie rend plus américanophile que les élites turques classiques, devrait en principe être l’ami de Washington ; il semble a priori être le candidat idéal pour incarner le fantasme américain d’un « islam modéré », ennemi de l’islam radical djihadiste que Washington combat ouvertement depuis le 11 septembre.

La place et l’influence réelle des islamistes dans le système politique turc ont pourtant toujours préoccupé les Américains, et l’État ami musulman a déjà failli basculer du mauvais côté en un moment de l’histoire récente. Parvenu au pouvoir en 1996 grâce à l’une de ces péripéties électorales dont la Turquie est coutumière, Necmettin Erbakan, le leader du Refah Partisi (Parti de la prospérité), parti islamiste ancêtre de l’AKP, s’était rapidement embarqué dans une surenchère islamique en interne comme en politique étrangère. Lorsque l’armée turque le persuada, moins d’un an plus tard, de démissionner, Washington se contenta d’affirmer à la fois son attachement au sécularisme et à la démocratie – deux préférences malaisément démontrables par un coup d’État militaire, fût-il qualifié par les analystes de soft, en comparaison de ceux qui avaient rythmé les décennies précédentes [7].

L’installation de l’AKP aux affaires ouvre une autre période ambiguë. Lorsque ce parti néo-islamiste, qui se décrit volontiers comme « musulman démocrate », à l’instar des démocrates chrétiens européens, gagne largement les élections de 2002 et se retrouve au Parlement en tête-à-tête avec les sécularistes du vieux parti kémaliste, le Parti républicain du peuple (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), beaucoup d’observateurs craignent une islamisation rapide de la Turquie. Quelques années plus tard, et malgré les gages d’ouverture donnés par l’AKP sur certains dossiers intérieurs qui s’avèrent fondamentaux au moins pour faire avancer le processus d’adhésion à l’UE (droits des Kurdes, place de l’armée dans le jeu politique, etc.), le soupçon d’un « agenda caché » islamique demeure [8].

Le contenu des télégrammes diplomatiques américains récemment révélés par WikiLeaks en dit long sur le malaise américain face à l’expérience AKP. On y lit des descriptions peu flatteuses du Premier ministre Recep Tayyip Erdogan, que l’ambassade américaine à Ankara perçoit comme un fondamentaliste islamique peu cultivé et peu ouvert, obsédé par le pouvoir et développant une tendance à l’autocratie, évoluant de surcroît dans un milieu très corrompu. L’appartenance d’une partie de son entourage à une confrérie islamique dérange les diplomates américains, de même que ses largesses envers des banquiers islamistes et son obstination à ne s’informer que par des journaux islamistes. En bref, le biais religieux imprègne les analyses des décideurs américains, également très inquiets de la montée de l’antisémitisme en Turquie [9].

L’échappée orientale de la diplomatie turque

Si l’évolution du paysage politique turc intéresse désormais plus sérieusement l’Amérique, c’est qu’elle a un impact évident sur les choix de politique étrangère du pays. L’activité diplomatique incessante et tous azimuts de la Turquie fascine beaucoup d’observateurs : puissance montante incontestée dans son environnement régional, elle s’impose sur de nombreux dossiers qui intéressent les États-Unis. À leur arrivée aux affaires, les cadres dirigeants de l’AKP n’avaient, à l’exception du président Abdullah Gül, qu’une faible expérience de l’international. Une décennie plus tard, le bilan diplomatique de l’équipe est impressionnant, mais les nouvelles options turques au Moyen-Orient sont une source régulière d’inquiétude pour Washington.

La politique étrangère turque est menée tambour battant depuis presque trois ans par le ministre Ahmet Davutoglu, ancien universitaire ayant développé une vision originale et turco-centrée du système international. Si ses premiers écrits le rattachent clairement à une généalogie islamiste, sa rhétorique actuelle insiste sur la portée du soft power et met en scène la Turquie comme une puissance bienveillante, acteur majeur dans son environnement régional immédiat mais désireuse d’intervenir bien au-delà [10]. Le Moyen-Orient est devenu le laboratoire d’action privilégié de ce ministre atypique, dont les ambitions ont rapidement été décrites aux États-Unis comme « néo-ottomanes », car se déployant dans les anciens espaces d’influence de l’Empire [11].

La présence turque au Moyen-Orient se renforce de plusieurs façons et embarrasse les États-Unis pour diverses raisons. Pour concrétiser son ambition de soft power, Ankara signe des accords de libre-échange et de libre circulation avec plusieurs pays arabes, dont la Libye et la Syrie, et se confirme comme acteur économique de premier plan sur des terrains encore difficilement praticables pour les entreprises occidentales, comme l’Irak. Sa diplomatie de médiation cherche à se rendre indispensable dans toutes les configurations de conflit : elle intervient comme médiateur entre la Syrie et Israël en 2008, s’interpose régulièrement entre les factions palestiniennes rivales du Fatah et du Hamas, ou entre les parties libyennes après mars 2011 ; défendant le principe d’une solution politique sur le dossier du nucléaire iranien, elle tente, en tandem avec le Brésil, de retarder l’adoption de nouvelles sanctions internationales contre Téhéran. Sa capacité à gérer des relations parallèles avec les différents centres de pouvoir en Irak, de Bagdad au gouvernement régional kurdistanais, tout en défendant les intérêts de la minorité turkmène, montre aussi que la Turquie sait organiser son influence dans le jeu politique interne de ses voisins quand ses intérêts vitaux (énergétiques, mais aussi politiques dans le cas des Kurdes) sont en jeu. La brouille est en revanche consommée avec Israël après l’épisode du Mavi Marmara au printemps 2010 ; la mort de neuf militants turcs lors de l’assaut des forces spéciales israéliennes contre le navire qui tente de forcer le blocus de Gaza propulse la Turquie comme héraut de la cause palestinienne.

Toutes ces avancées confortent le désir d’indépendance de la Turquie et lui permettent de marchander sa coopération avec les États-Unis sur des dossiers essentiels. Si elle s’est immédiatement jointe à la coalition en Afghanistan en 2001, elle s’y met en scène comme seul membre musulman de l’Alliance, n’y a pas envoyé de troupes combattantes et refuse d’y renforcer ses effectifs quand les États-Unis le lui demandent. Son positionnement dans l’OTAN apparaît d’ailleurs de plus en plus décalé. Au printemps 2009, la crise de la nomination du secrétaire général – Ankara bloquant dans un premier temps la candidature de Anders Fogh Rasmussen, l’ancien Premier ministre danois ayant soutenu en 2005 le quotidien Jyllands Posten dans l’affaire des caricatures de Mahomet –, a marqué le début d’une série de coups d’éclat destinés à valoriser son statut d’allié à part. Au sommet de Lisbonne de décembre 2010, la Turquie se rallie au projet de bouclier antimissile, mais obtient que l’OTAN ne désigne pas nommément l’Iran comme menace. Lors de la crise libyenne, la Turquie commence par s’opposer à l’intervention alliée, avant de rentrer tardivement dans le rang. Toutes ces manifestations d’autonomie incitent certains à prédire un possible retrait turc de l’OTAN ; par le passé, des analystes américains ont déjà pu suggérer que le pays n’y avait plus sa place [12]. C’est en tout cas dans cette enceinte multilatérale que se cristallisent le plus violemment les désaccords turco-américains, mais c’est aussi là, désormais, que se redéfinit en permanence le sens de la relation.

Le contenu précis des ambitions turques au Moyen-Orient est difficile à mesurer, de même que la capacité du pays à tenir ces ambitions dans un environnement qui se dégrade chaque jour, mais la rhétorique officielle reste impressionnante. Au soir de son nouveau triomphe électoral du 12 juin 2011, le Premier ministre Erdogan a ainsi prononcé à Ankara un « discours du balcon » illustrant la dimension identitaire de sa nouvelle politique étrangère et le désir de leadership des Turcs dans la région [13]. Dans un élan inédit remarqué des observateurs turcs et internationaux, le Premier ministre turc y affirmait que le résultat des élections turques était salué « à Bagdad, à Damas, à Beyrouth, à Amman, au Caire, à Tunis, à Sarajevo, à Skopje, à Bakou, à Nicosie », citant aussi Ramallah, Naplouse, Jénine, Jérusalem et Gaza, avant de parler de « victoire de la démocratie, de la liberté, de la paix, de la justice et de la stabilité ».

Un effacement américain programmé : quelles responsabilités pour la Turquie au Moyen-Orient ?

Cette confiance retrouvée de la Turquie dans son destin oriental ne devrait pas forcément inquiéter une Amérique qui peine de plus en plus à mettre seule de l’ordre dans la région. La Turquie étant maintenant en position de négocier sa contribution, il faut comprendre si elle est prête à jouer le rôle de puissance d’appui pour accompagner le retrait américain du Moyen-Orient, ou si elle souhaite s’imposer comme une puissance alternative, défendant une vision du monde différente.

S’accommoder de la nouvelle Turquie

L’émancipation rapide de l’allié jusqu’ici docile rend évidemment les calculs américains beaucoup plus complexes que par le passé. C’est, au fond, la réussite turque au sens large qui nourrit le dilemme américain. Washington a longtemps considéré que le pays était doté d’un fort potentiel économique et diplomatique, tout en notant que ses difficultés intérieures l’empêchaient de valoriser ce potentiel. Morton Abramowitz, ancien ambassadeur américain en Turquie sous l’ère Özal et conseiller de Bill Clinton, reprenait en 2000 l’éternelle interrogation américaine – quand ce pays tellement doté allait-il enfin décoller ? –, soulignant que la Turquie était encore plombée par sa dette extérieure, son instabilité politique et ses blocages identitaires, otage d’une classe politique corrompue et enfoncée dans le sous-développement [14]. Dix ans plus tard, l’étoile montante turque, libérée de bien des contraintes et de la plupart de ses tabous, affiche une baraka exceptionnelle et pose finalement bien plus de problèmes à l’ami américain.

Le diagnostic qui s’impose, au vu des accrocs de plus en plus fréquents entre les deux partenaires, est que les États-Unis et la Turquie sont entrés dans une zone de négociation continue afin de trouver un nouvel équilibre qui satisfasse à la fois le besoin de reconnaissance turc et les impératifs de sécurité américains. En dépit de son caractère moins stable, la relation turco-américaine n’a rien perdu de sa qualité stratégique ni de sa portée globale, même si elle se recompose autour de chaque dossier commun. La Turquie ne peut en effet être tenue à l’écart d’aucun des dossiers essentiels sur lesquels les États-Unis sont impliqués au Moyen-Orient. Depuis 30 ans, de l’Irak à l’Afghanistan, elle a aussi démontré qu’elle est un partenaire indispensable pour faire face aux crises imprévues [15]. Lorsque les objectifs concordent, elle demeure un auxiliaire ponctuel indispensable aux États-Unis. De son côté, Ankara ne peut évidemment pas davantage tourner le dos aux États-Unis, car elle ne peut assumer seule des fardeaux stratégiques multiples et dépend beaucoup de l’industrie américaine en matière d’armement [16]. Plus qu’en challenger, elle souhaite s’imposer comme partenaire à égalité.

La relation n’a donc rien perdu de son importance, mais elle a perdu ses automatismes. Rien ne coïncide plus de façon spontanée, en termes de besoins, d’intérêts et de priorités : la fin de l’alignement est/ouest et la diversification du portefeuille diplomatique turc ont introduit de nombreux décalages, que les deux partenaires doivent apprendre à gérer aussi bien que leurs convergences. La conduite de la relation requiert donc désormais une ingénierie humaine et technique exigeante. L’Administration américaine a pris acte de la volatilité nouvelle des Turcs et de leur désir d’être réévalués comme alliés, et se montre prête à mobiliser des compétences et du temps. Les canaux de communication entre les deux pays sont aujourd’hui très nombreux et actifs. Washington a beaucoup élargi son spectre d’interlocuteurs au-delà de l’armée et a appris à prendre au sérieux la classe politique et certains piliers de la société civile turque, comme les multiples think tanks nés ces dernières années. Les visites d’officiels américains se succèdent en Turquie, du président Obama à Hillary Clinton, en passant par le directeur de la Central Intelligence Agency (CIA), Leon Panetta, ou les délégations de parlementaires américains – qui doivent gérer, à leur niveau, un autre point de désaccord potentiel, autour de la question de la reconnaissance du génocide arménien.

Des dilemmes aux responsabilités partagées : une Turquie relais ?

La principale inquiétude concerne finalement les velléités des Turcs de promouvoir un nouvel ordre international allant à l’encontre des intérêts et des valeurs américains. De ce point de vue, la prétention des Turcs à s’ériger en porte-parole du monde musulman, ou à défendre la place des pays émergents dans le système de gouvernance mondial (notamment via le G20), ébranle régulièrement le cadre de discussion bilatéral. Son crédit étant notoirement affaibli au Moyen-Orient dans ce qui est aujourd’hui le périmètre d’influence des Turcs, Washington est évidemment contraint de prendre en compte les messages que la Turquie y diffuse. Le rôle majeur de la Turquie face à l’Iran dans le contexte irakien et sa capacité de médiation en Afghanistan sont des éléments essentiels dans l’équation de stabilisation régionale. S’il ne leur est pas toujours possible de travailler ensemble, la base d’une bonne entente doit en tout cas être maintenue, car la Turquie pourrait servir de relais modérateur sur tous ces terrains [17].

La diplomatie turque semble elle-même au bord d’un syndrome d’overstretch à l’américaine. Présente et active sur tous les terrains à sa portée, du Caucase aux Balkans, elle peine à maintenir sa cohérence et ne déploie pas une vision politique claire. À ce titre, la crise du printemps arabe constitue un test à grande échelle de la capacité des Turcs à assumer leurs responsabilités nouvelles de puissance. La Turquie est apparue absente face aux événements tunisiens, assez distante face à la révolution égyptienne, exagérément hésitante sur les dossiers libyen et syrien. Il est donc trop tôt pour dire si les essais diplomatiques en cours ouvrent des perspectives nouvelles au service d’une stabilité régionale mise à mal par l’expérience néoconservatrice. Les avancées turques au Moyen-Orient semblent encore souvent dictées par un désir de revanche sur l’histoire : reste à définir un projet viable pour l’avenir.

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La revue Politique étrangère

 

Politique étrangère est une revue trimestrielle de débats et d’analyses sur les grandes questions internationales. Elle est la plus ancienne revue française dans ce domaine. Son premier numéro est paru en 1936, sous l’égide du Centre d’études de politique étrangère. Depuis 1979, elle est publiée par l’Ifri.

Son ambition est de mettre en lumière l’ensemble des éléments du débat en matière de relations internationales, de proposer des analyses approfondies de l’actualité et d’être un instrument de référence sur le long terme pour les milieux académiques, les décideurs et la société civile. Chaque numéro comporte au moins deux dossiers concernant un événement ou une dimension du débat international, ainsi que plusieurs articles s’attachant à décrypter les questions d’actualité.

Politique étrangère consacre en outre une large place à l’actualité des publications françaises et étrangères en matière de relations internationales.

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[1] Cette notion de géopolitique classique est régulièrement appliquée à la Turquie par les stratèges américains ; voir l’analyse de P. Marchesin, « Géopolitique de la Turquie à partir du Grand échiquier de Zbignew Brzezinski », Études internationales, vol. 33, n° 1, 2002, p. 137-157. Le concept d’une Turquie pivot est régulièrement développé dans des ouvrages publiés aux États-Unis après le 11 septembre 2001 ; cf. S. Larrabee et I. O. Lesser, Turkish Foreign Policy in an Age of Uncertainty, Santa Monica, CA, Rand, 2003.

[2] Z. Önis et S. Yilmaz, « The Turkey-EU-US Triangle in Perspective : Transformation or Continuity ? », The Middle East Journal, vol. 59, n° 2, 2005.

[3] Pour une analyse sur plusieurs années des données du Pew Research, voir S. Cagaptay, « Persistent Anti-Americanism in Turkey », Soner’s Desk, 10 janvier 2010, disponible à l’adresse suivante :. On y suit l’impressionnante plongée américaine post-11 septembre, jusqu’à 14 % seulement d’opinions favorables après l’élection de Barack Obama.

[4] « La République : visions franco-turques », interview réalisée par Dorothée Schmid avec Baskin Oran, Paris, Ifri, « Note franco-turque », n° 6, mai 2011.

[5] Ce contexte psychologique très tendu est finement analysé sur plusieurs décennies par C. Candar, « Some Turkish Perspectives on the United States and American Policy Toward Turkey », in M. Abramowitz, Turkey’s Transformation and American Policy, New York, Century Foundation Press, 2000, p. 128. Pour une actualisation du malaise turc après la crise de 2003, voir H. Bozarslan, « L’anti-américanisme en Turquie », Le Banquet, vol. 2, n° 21, 2004, p. 61-72.

[6] « Wolfowitz Says Turkey Made “Big, Big Mistake” In Denying Use of Land », The Turkish Times, avril 2003, n° 317.

[7] S. Arsever, « L’adieu turc à l’ami des Frères musulmans », Letemps.ch, 1er mars 2011.

[8] Mentionnant expressément ce danger, un éditorial récent de la presse anglo-saxonne a fait couler beaucoup d’encre en Turquie avant les dernières élections législatives : « One for the opposition », The Economist, 2 juin 2011.

[9] N. Bourcier, « WikiLeaks : Erdogan jugé autoritaire et sans vision », Lemonde.fr, 30 novembre 2010.

[10] Dans sa thèse de doctorat, le ministre A. Davutoglu proposait une lecture islamisante du système international qui suscita tardivement des commentaires inquiets outre-Atlantique : Alternative Paradigms : The Influence of Islamic and Western Weltanschauung on Political Theory, Lanham, University Press of America, 1994 ; voir M. Koplow, « Hiding in Plain Sight », Foreign Policy, 2 décembre 2010. L’ouvrage majeur d’A. Davutoglu, Stratejik derinlik : Türkiye’nin uluslararasi konumu [Profondeur stratégique : la position internationale de la Turquie], Istanbul, Küre Yayinlari, 2001, dans lequel il expose sa vision du monde à 360 degrés à partir du territoire turc, n’a pas été traduit en anglais.

[11] O. Taspinar, « Turkey’s Middle East Policies : Between Neo-Ottomanism and Kemalism », Washington, DC, Carnegie Endowment for International Peace, Middle East Center, septembre 2008, « Carnegie Paper », n° 10.

[12] B. Badie, « L’appartenance de la Turquie à l’OTAN est devenue plus coûteuse qu’utile », Lemonde.fr, 15 juin 2011 ; D. Pipes, « Does Turkey Still Belong in NATO ? », Philadelphia Bulletin, 6 avril 2009.

[13] J.-P. Burdy, « Retour sur le “discours du balcon” et sur la victoire d’un nouveau leader régional », Observatoire de la vie politique turque (OVIPOT), 26 juin 2011, disponible à l’adresse suivante : < ovipot.hypotheses.org/5873>.

[14] M. Abramowitz, op. cit., introduction.

[15] Entretien avec Kadri Gürsel, éditorialiste au quotidien Milliyet, juillet 2011.

[16] R. Weitz, « Whither Turkey-US Arms Sales ? », Turkey Analyst, vol. 4, n° 11, 2011.

[17] E. Alessandri, « Turkey and the West Address the Arab Spring », The German Marshall Fund of the United States (GMF), « Analysis », 8 juin 2011.

Ist Krieg gegen Terror Schwindel?

Ist Krieg gegen Terror Schwindel? Wie Amerika mit Massen-Paranoia infiziert wurde

Mike Adams

 

Was wäre, wenn es überhaupt keine echten Terroristen gäbe, die Amerika bedrohen, und das Ganze nur eine Erfindung zur Rechtfertigung militärischer Absichten wäre? Ein rational denkender Mensch würde sagen: Wenn wir alle unsere Rechte und den Vierten Zusatzartikel zur Verfassung [der die amerikanischen Bürger vor staatlichen Übergriffen schützt] aufgeben müssen und wenn US-Soldaten Kontrollpunkte an den Straßen errichten sollen, dann wäre es doch nur logisch zu erwarten, dass es zumindest Beweise dafür gebe, dass Amerika von Terroristen infiltriert wird, oder? Das heißt, genauer gesagt, Beweise von einer zuverlässigen Quelle, die nicht in der Vergangenheit bei der Verbreitung von Lügen über den Terrorismus ertappt wurde – womit also die Regierung in Washington bereits ausgeschlossen wäre.

 

Schauen Sie sich doch heute einmal um: Sehen Sie irgendwelche Terroristen? Irgendwelche »Towelheads« [zu deutsch »Handtuchköpfe«, eine abwertende Bezeichnung für Araber], die eine Waffe auf Ihre Familie richten? Irgendjemanden, der mit einer Sprengstoffweste herumläuft? Nein.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/mike-adams/ist-der-krieg-gegen-den-terror-ein-voelliger-schwindel-paul-craig-roberts-enthuellt-wie-amerika-mi.html

BERNARD LUGAN CENSURE SUR I-TELE !

BERNARD LUGAN CENSURE SUR I-TELE !

9782729870836.jpgAprès un véritable psychodrame, la direction d’I-Télé a censuré un entretien que Robert Ménard avait enregistré avec l’africaniste Bernard Lugan dans le cadre de son émission quotidienne « Ménard sans interdit ». Bernard Lugan avait été invité pour présenter son essai « Décolonisez l’Afrique » qui vient de paraître chez Ellipses.
 
Cette décision relève de la censure et de l’atteinte à la liberté d’expression dont se réclament pourtant les journalistes. Une telle mesure montre que ceux qui se permettent de donner des leçons de démocratie, de tolérance et de « droits de l’homme » au monde entier ne supportent pas le parler vrai.
 
Quelle était donc la teneur des propos « scandaleux » tenus par Bernard Lugan ? Robert Ménard, avait posé à ce dernier quatre grandes questions :
 
1) Dans votre livre vous écrivez que les Africains ne sont pas des « Européens pauvres à la peau noire » ; selon vous, c’est pourquoi toutes les tentatives de développement ont échoué en Afrique ?
 
Le refus de reconnaître les différences entre les hommes fait que nous avons imposé à l’Afrique des modèles qui ne lui sont pas adaptés. Nous l’avons fait avec arrogance, comme des jardiniers fous voulant greffer des prunes sur un palmier et noyant ensuite le porte-greffe sous les engrais. C’est ainsi que depuis 1960, 1000 milliards de dollars d’aides ont été déversés sur l’Afrique, en vain. De plus, nous avons voulu européaniser les Africains, ce qui est un génocide culturel. De quel droit pouvons-nous en effet ordonner à ces derniers de cesser d’être ce qu’ils sont pour les sommer d’adopter nos impératifs moraux et comportementaux ? L’ethno-différentialiste que je suis refuse cette approche relevant du plus insupportable suprématisme. Contre Léon Blum qui déclarait qu’il était du devoir des « races supérieures » d’imposer la civilisation aux autres races, je dis avec Lyautey qu’il s’agit de pure folie car les Africains ne sont pas inférieurs puisqu’ils sont « autres ».
 
2) Dans votre livre vous proposez de supprimer l’aide.
 
Oui, car l’aide, en plus d’être inutile, infantilise l’Afrique en lui interdisant de se prendre en main, de se responsabiliser. Dans la décennie 1950-1960, les Africains mangeaient à leur faim et connaissaient la paix tandis que l’Asie subissait de terribles conflits et d’affreuses famines. Un demi siècle plus tard, sans avoir été aidées, la Chine et l’Inde sont devenues des « dragons » parce qu’elles ont décidé de ne compter que sur leurs propres forces, en un mot, de se prendre en charge. Au même moment, le couple sado-masochiste composé de la repentance européenne et de la victimisation africaine a enfanté d’une Afrique immobile attribuant tous ses maux à la colonisation.
 
3) Vous dénoncez l’ingérence humanitaire que vous définissez comme un hypocrite impérialisme et une forme moderne de la « guerre juste », mais n’était-il pas nécessaire d’intervenir en Libye pour y sauver les populations ?
 
Parlons-en. Nous sommes en principe intervenus pour « sauver » les populations civiles de Benghazi d’un massacre « annoncé ». En réalité, nous avons volé au secours de fondamentalistes islamistes, frères de ceux que nous combattons en Afghanistan. Cherchez la logique ! Violant le mandat de l’ONU et nous immisçant dans une guerre civile qui ne nous concernait pas, nous nous sommes ensuite lancés dans une entreprise de renversement du régime libyen, puis dans une véritable chasse à l’homme contre ses dirigeants. Or, le point de départ de notre intervention reposait sur un montage et nous le savons maintenant. Que pouvaient en effet faire quelques chars rouillés contre des combattants retranchés dans la ville de Benghazi ? On nous a déjà « fait le coup » avec les cadavres de Timisoara en Roumanie, avec les « couveuses » du Koweït ou encore avec les « armes de destruction massive » en Irak. A chaque fois, la presse est tombée dans le panneau, par complicité, par bêtise ou par suivisme.
 
Mais allons plus loin et oublions un moment les incontournables et fumeux « droits de l’homme » pour enfin songer à nos intérêts nationaux et européens, ce qui devrait tout de même être la démarche primordiale de nos gouvernants. Nos intérêts étaient-ils donc menacés en Libye pour que nos dirigeants aient pris la décision d’y intervenir ? Etaient-ils dans le maintien au pouvoir d’un satrape certes peu recommandable mais qui, du moins, contrôlait pour notre plus grand profit 1900 kilomètres de littoral faisant face au ventre mou de l’Europe ? Nos intérêts étaient-ils au contraire dans la déstabilisation de la Libye puis son partage en autant de territoires tribaux livrés aux milices islamistes ? Sans parler des conséquences de notre calamiteux interventionnisme dans toute la zone sahélienne où, désormais, nos intérêts vitaux sont effectivement menacés, notamment au Niger, pays qui fournit l’essentiel de l’uranium sans lequel nos centrales nucléaires ne peuvent fonctionner…
 
4) Votre conception du monde n’a-t-elle pas une influence sur vos analyses et prises de positions ?
 
J’ai une conception aristocratique de la vie, je dis aristocratique et non élitiste, la différence est de taille, et alors ? Depuis 1972, soit tout de même 40 ans, je parcours toutes les Afriques, et cela du nord au sud et de l’est à l’ouest, ce qui me donne une expérience de terrain unique dans le monde africaniste ; c’est d’ailleurs pourquoi mes analyses ont du poids. Dès le mois de décembre 2010, dans ma revue, l’Afrique Réelle, j’ai annoncé ce qui allait se passer en Egypte trois mois plus tard. De même, dès le début, j’ai expliqué que le « printemps arabe » n’était qu’un mirage, un miroir aux alouettes autour duquel tournaient les butors de la sous-culture journalistique cependant que, méthodiquement et dans l’ombre, les Frères musulmans préparaient la construction du califat supranational qui est leur but ultime.
 
Voilà les propos que les téléspectateurs d’I-Télé n’ont pas eu le droit d’entendre.
 
Comment riposter à cette censure ?
 
1) En rejoignant les centaines de milliers d’internautes qui ont visité le blog officiel de Bernard Lugan : cliquez là
2) En s’abonnant à la revue mensuelle par PDF L’Afrique Réelle, la seule publication africaniste libre.
3) En achetant « Décolonisez l’Afrique » (Ellipses, novembre 2011).
4) En faisant savoir autour de vous que dans la « Patrie des droits de l’homme », un directeur de chaîne de télévision peut impunément censurer un universitaire auteur de plusieurs dizaines de livres consacrés à l’Afrique, conférencier international et expert de l’ONU.

The Myth of the Rule of Law and the Future of Repression

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The Myth of the Rule of Law and the Future of Repression

By Keith Preston

Ex: http://www.alternativeright.com/

Richard's post, "Obama's Ennabling Act," raises some interesting questions regarding the significance of the recently passed National Defense Authorization Act, and its probable impact, that I believe merit further discussion. The editorial issued on December 17 by the editors of Taki’s Magazine, “The Government v. Everyone,” represents fairly well the shared consensus of critics of the NDAA whose ranks include conservative constitutionalists and left-wing civil libertarians alike. While I share the opposition to the Act voiced by these critics, I also believe that Richard is correct to point out the questionable presumptions regarding legal and constitutional theory and alarmist rhetoric that have dominated the critics’ arguments.

Wholesale abrogation of core provisions of the U.S. Constitution is hardly rare in American history. The literature of leftist or libertarian historians of American politics is filled with references to the Alien and Sedition Act, Lincoln’s assumption of dictatorial powers during the Civil War, the repression of the labor movement during WWI, the internment of the Japanese during WW2 and so forth. Mainstream liberal critics of these aspects of American history will lament the manner by which America supposedly strays so frequently from her high-minded ideals, whereas more radical leftist critics will insist such episodes illustrate what a rotten society America always was right from the beginning.

Meanwhile, conservatives will lament how the noble, almost god-like efforts of the revered “Founding Fathers” have been perverted and destroyed by subsequent generations of evil or misguided liberals, socialists, atheists, or whomever, thereby plunging the nation into the present dark era of big government and moral decadence. These systems of political mythology not withstanding, a more realist-driven analysis of the history of the actual practice of American statecraft might conclude that such instances of the state stepping outside of its own proclaimed ideals or breaking its own rules transpire because, well, that’s what states do.

Carl Schmitt considered the essence of politics to be the existence of organized collectives with the potential to engage in lethal conflict with one another. Max Weber defined the state as an entity claiming a monopoly on the legitimate use of violence. Schmitt’s dictum, “Sovereign is he who decides on the state of exception,” indicates there must be some ultimate rule-making authority that decides what constitutes “legitimacy” and what does not, and that this sovereign entity is consequently not bound by its own rules. This principle is descriptive rather than prescriptive or normative in nature. Schmitt’s conception of the political is simply an analysis of “how things work” as opposed to “what ought to be.”

Like all other political collectives, the United States possesses a body of political mythology whose function is to convey legitimacy upon its own state. For Americans, this mythology takes on the form of what Robert Bellah identified as the “civil religion.” The tenets of this civil religion grant Americans a unique and exceptional place in history as the Promethean purveyors of “freedom,” “democracy,” “equality,” “opportunity,” or some other supposedly noble ideal. According to this mythology, America takes on the role of a providential nation that is in some way particularly favored by either a vague, deist-like divine force (Jefferson’s “nature’s god”) in the mainstream politico-religious culture, or the biblical god in the case of the evangelicals, or the progressive forces of history for left-wing secularists. The Declaration of Independence and the Constitution are the sacred writings of the American civil religion. It is no coincidence that constitutional fundamentalists and religious fundamentalists are often the same people. Prominent “founding fathers” such as Washington or Madison assume the role of prophets or patriarchs akin to Moses and Abraham.

In American political and legal culture, this civil religion and body of political mythology becomes intertwined with the liberal myth of the “rule of law.” According to this conception, “law” takes on an almost mystical quality and the Constitution becomes a kind of magical artifact (like the genie’s lantern) whose invocation will ostensibly ward off tyrants. This legal mythology is often expressed through slogans such as “We should be a nation of laws and not men” (as though laws are somehow codified by forces or entities other than mere mortal humans) and public officials caught acting outside strict adherence to legal boundaries are sometimes vilified for violation of “the rule of law.” (I recall comical pieties of this type being expressed during the Iran-Contra scandal of the late 1980s.) Ultimately, of course, there is no such thing as “the rule of law.” There is only the rule of the “sovereign.” The law is always subordinate to the sovereign rather than vice versa. Schmitt’s conception of the political indicates that the world is comprised first and foremost of brawling collectives struggling on behalf of each of their existential prerogatives. The practice of politics amounts to street-gang warfare writ large where the overriding principle becomes “protect one’s turf!” rather than “rule of law.”

 As an aside, I am sometimes asked how my general adherence to Schmittian political theory can be reconciled with my anarchist beliefs. However, it was my own anarchism that initially attracted me to the thought of Schmitt. His recognition of the essence of the political as organized collectives with the potential to engage in lethal conflict and his understanding of sovereignty as exemption from the rule-making authority of the state have the ironic effect of stripping away and destroying the systems of mythology on which states are built. Schmitt’s analysis of the nature of the state is so penetrating that it gives the game away. Politics is simply about maintaining power. Period.

Another irony is that Schmitt helped to clarify my anarchist beliefs considerably. I adhere to the dictionary definition of anarchism as the goal of replacing the state with a confederation or agglomeration of voluntary communities (while recognizing a certain degree of subjectivity to the question of what is “voluntary” and what is not). Theoretically, anarchist communities could certainly reflect the values of ideological anarchists like Kropotkin, Rothbard, or Dorothy Day. But such communities could also be organized on the model of South Africa’s Orania, or traditionalist communities like the Hasidim or Amish, or fringe cultural elements like UFO true-believers. Paradoxically, such communities could otherwise reflect the “normal” values of Middle America (minus the state).

The concept of fourth generation warfare provides a key insight as to how political anarchism can be reconciled with the political theory of Carl Schmitt. According to fourth generation theory as it has been outlined by Martin Van Creveld and William S. Lind, the state is in the process of receding as the loyalties of populations are being transferred to other entities such as religions, tribes, ideological movements, gangs, cults, paramilitaries, or whatever. Scenarios are emerging with increasing frequency where such non-state actors engage in warfare with states or in the place of states. Lebanon’s Hezbollah, which has essentially replaced the Lebanese state as both the defender of the nation and as the provider of necessary services on which the broader population depends, is a standard model of a fourth generation entity. In other words, Hezbollah has replaced the state as the sovereign entity in Lebanese society.

Another example is Columbia’s FARC, which has likewise dislodged the Colombian state as the sovereign in FARC-controlled territorial regions. The implication of this for political anarchism is that for the anarchist goal of autonomous, voluntary communities to succeed, a non-state entity (or collection of entities) must emerge that is capable of protecting the communities from conquest or subversion and possesses the will to do so. In other words, for anarchism to work there must be in place the equivalent of an anarchist version of Hezbollah  that replaces the state as the sovereign in the wider society, probably in the form of a decentralized militia confederation similar to that organized by the Anarchists of Catalonia during the Spanish Civil War…in case anyone was wondering.

The Future of Repression

Dealing with more immediate questions, the passage of the National Defense Authorization Act raises the issue of to what level repression carried out by the American state in the future will be taken, and of what particular form this repression will assume. I agree with Richard that it is improbable that NDAA represents any significant change of direction or dramatic acceleration in these areas. Therefore, it is highly unlikely that American political dissidents (the readers of AlternativeRight.Com, for instance) will be subject to mass arrests and indefinite detention without trial. Such tactics are likely to be reserved for individuals, primarily foreigners, genuinely involved or believed to be involved in the planning of acts of actual terrorism against American targets. There is at present very little of that within the context of domestic American society.

However, the unwarranted nature of Alex Jones-style alarmism does not mean there is no danger on the horizon. What is needed is a healthy medium between panic and complacency. Richard has argued that our present systems of soft totalitarianism that we find in the contemporary Western world may well give way to hard totalitarianism as Cultural Marxism/Totalitarian Humanism continues to tighten its grip. While this is a concern that I share and a prophecy that I regrettably think has a considerable chance of fulfillment, the question arises of what form “hard” totalitarianism might take in the future of the West.

It is unlikely we will ever develop states in the West that are organized on the classical totalitarian model complete with over the top pageantry and heads of states with strange uniforms and facial hair, given the way in which these are inimical to the universalist ideology, globalist ambitions, commercial interests, and aesthetic values of Western elites. Rather, I suspect the future of Western repression will take on either one of two forms (or perhaps a combination of both).

One of these is a model where repression rarely involves long term imprisonment or state-sponsored lethal action against dissidents. Instead, such repression might take on the form of persistent and arbitrary harassment, or the ongoing escalation of the use of professional and economic sanctions, targeting the families and associates of dissidents, or the petty criminalization of those who speak or act in defiance of establishment ideology. Richard has discussed the recent events involving Emma West and David Duke, and well as his own treatment at the hands of the Canadian authorities, and I suspect it is state action of this type that will largely define Western repression in the foreseeable future.

The state may not murder you or put you in prison for decades without trial, but you may lose your job, have your professional licensees revoked or the social service authorities threaten to remove your children from your home, or be subject to significant but brief harassment by legal authorities. You man find yourself brought up on minor criminal charges (akin to those that might be levied against a shoplifter or a pot smoker) if you utter the wrong words. Likewise, the state will increasingly look the other way as the use of extra-legal violence by leftist and other pro-system thugs is employed against dissenters. Indeed, much of what I have outlined here is already taking place and it can be expected that such incidents will become much more frequent and severe in the years and decades ahead. What I have outlined in this paragraph largely defines the practice of political repression as it currently exists in the West, particularly outside the United States, where traditions upholding free speech do not run quite as deeply.

However, this by no means indicates that Americans are off the hook. An even greater issue of concern, particularly for the United States, involves the convergence of four factors within contemporary American society and statecraft. These are the decline of the American empire in spite of the continuation of America’s massive military-industrial complex, mass immigration and radical demographic transformation, rapid economic deterioration and the disappearance of the conventional American middle class, and the growth of the general apparatus of state repression over the last four decades (the prison-industrial complex frequently criticized by the Left, for instance).

The combination of mass Third World immigration and ongoing economic decline, if continued uninterrupted, will have the effect of replicating the traditional Third World model class system in the U.S. (and perhaps much of the West over time). A class system organized on the basis of an opulent few at the top and impoverished many among the masses (the Brasillian model, for instance) will likely be accompanied by escalating social unrest and political instability. Such trends will be ever more greatly exacerbated by growing social, cultural, and ethnic conflict brought about by demographic change.

The American state has at its disposal an enormous military industrial complex that, frankly, wants to remain in business even as foreign military adventures continue to become less politically and economically viable. Likewise, the ongoing domestic wars waged by the American state against drugs, crime, gangs, guns, et. al. have generated a rather large “police industrial complex” with American borders. Libertarian writers such as William Norman Grigg have diligently documented the ongoing process of the militarization of American law enforcement and the continued blurring of distinctions between the rules of engagement involving soldiers on the battlefield on one hand and policemen dealing with civilians on the other. The literature of libertarian critics is filled with horror stories of, for instance, small town mayors having their household pets blown away by SWAT team members during the course of bungled drug raids.

The point is that as economic and social unrest, along with increasingly intense demographic conflict, continues to arise as it likely will in the foreseeable American future, the state will have at its disposal a significant apparatus for the carrying out of genuinely brutal repression of the kind normally associated with Latin American or Middle Eastern countries. Recall, for example, the “disappeared” of Latin America during the 1970s and 1980s. It is not improbable that we dissidents in the totalitarian humanist states of the postmodern West will face a dangerous brush with such circumstances at some point in the future.

 

vendredi, 23 décembre 2011

Syrien: Wie westliche Medien einen Dritten Weltkrieg entfachen

Syrien: Wie westliche Medien einen Dritten Weltkrieg entfachen

Eva Herman

Ein unverantwortliches Kapitel der Pressegeschichte wird derzeit von fast allen deutschen und internationalen Medien über Syrien geschrieben. Es ist ein Kapitel mit politischen Auswirkungen, mit weltpolitischen Dimensionen. Es sind ganz ähnliche Mechanismen, wie jene, die bereits den Irak-krieg und den Libyenkrieg auslösten und nun auch den Iran bedrohen und damit unseren Weltfrieden. Es geht um gezielte weltweite Falschmeldungen über die Lage in Syrien. Diese erreichen den Zeitungsleser und Fernsehzuschauer ebenso wie den Internet-Nutzer in der täglichen Berichterstattung, ohne dass ihm dies auf den ersten Blick auffallen könnte.  Vor allem gestern und heute berichten nahezu alle westlichen Mainstream-Medien wieder über »neue Brutalitäten des Assad-Regimes«. Doch was steckt wirklich dahinter?

In der aktuellen Berichterstattung von heute und gestern heißt es praktisch unisono, der syrische Präsident Assad lasse massenhaft vermeintliche Deserteure erschießen. Bei Angriffen seien in der Provinz Idlib inzwischen rund 220 Deserteure getötet oder verletzt worden, so der Wortlaut, unter anderem auch bei Spiegel online, bei der Nachrichtenagentur afp wird von hundert Getöteten berichtet, Focus berichtet, das Handelsblatt, Welt-Online, zahlreiche österreichische und Schweizer Medien und viele andere. Wie gesagt, fast alle Medien berichten in diesem Tenor.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/eva-herman/syrien-wie-westliche-medien-einen-dritten-weltkrieg-entfachen.html

GEOPOLITIEKE CONSEQUENTIES VAN DE DEMOGRAFISCHE ONTWIKKELINGEN IN RUSLAND:

GEOPOLITIEKE CONSEQUENTIES VAN DE DEMOGRAFISCHE ONTWIKKELINGEN IN RUSLAND:

"De demografische ontwikkeling kan ook geopolitieke gevolgen krijgen. Niet alleen door de immigratie van mensen uit voormalige deelrepublieken van de Sovjet-Unie, die vestigen zich namelijk vooral in de stedelijke gebieden en moeten zich noodgedwongen enigermate integreren in de Russische samenleving. Veel Russen maken zich echter zorgen over Siberië. Dit Aziatische deel van Rusland (...) is rijk aan grondstoffen maar dunbevolkt en maar weinig ontwikkeld. (...)

Sinds 1989 is de Russische bevolking van Siberië met een zesde afgenomen en deze ontwikkeling zet zich voort. Siberië is al met al erg aantrekkelijk voor het dichtbevolkte en economisch sterk groeiende China. Sommige Russische wetenschappers voorspellen dat de Chinezen deze regio wel eens in ontwikkeling zouden kunnen brengen en op den duur over zouden kunnen nemen. (...) Nu is het risico dat veel Chinezen zich in Siberië zullen vestigen gezien het klimaat en de onherbergzaamheid van het gebied niet erg groot, het is echter een kwestie van tijd voor het delven van allerlei Siberische grondstoffen interessant wordt":
http://www.novini.nl/geopolitieke-consequenties-van-de-demografische-ontwikkeling-in-rusland/

Tekos nr. 144

 

 

 

Tekos nr. 144

INHOUDSOPGAVE

Editoriaal

De wereld op zijn kop
vertaald door Peter Logghe

Populisme: what’s in a name?
door Francis Van den Eynde

Er bestaan in de politiek zoals ze dagelijks bedreven wordt, voorgekauwde volzinnen die dermate weinigzeggend zijn dat ze altijd en in om het even welke omstandigheden gebruikt kunnen worden. En dit door om het even wie die plots vaststelt dat hij of zij geen argumenten meer heeft om zijn of haar gelijk aan te tonen of die meent het aan zich zelf verplicht te zijn, iets te moeten zeggen terwijl er in feite niets meer te vertellen valt. Het gaat om “passe-partout” zinnen. Een voorbeeld van wat hier bedoeld wordt: want ergens dacht ik toch dat het de mens is die centraal in onze bekommernissen moet staan. Deze uitspraak kan je overal opdienen, zowel op een gouden huwelijksjubileum als op een begrafenis of in een politiek debat. Veel zal je niet gezegd hebben, maar niemand zal je hierop kunnen tegenspreken en je zal alvast weer wat tijd gevuld hebben…

Naast die passe-partout zinnen bestaan er in de politiek ook passe-partout woorden die je steeds weer boven kan halen als je argumenten te kort komt.
Enkele voorbeelden:
- Fascisme: Op enkele specialisten na weet niemand nog wat het fascisme in de realiteit was en wat het betekende. Het fascisme is immers al sinds 1945 van de aardbodem verdwenen en is dus een louter historisch begrip geworden. Het is zelfs zo weinig bekend dat de meesten het verkeerd uitspreken. In het Nederlands hoort het met een “s” te worden uitgesproken en niet zoals doorgaans gebeurt, met een uit het Italiaans overgenomen “sj “ klank. Precies het feit dat niemand echt weet wat het woord inhoudt, maakt het uitermate geschikt om als scheldwoord te gebruiken. Wie kan zich tenslotte verdedigen tegen een aantijging waarvan niemand precies weet wat er mee bedoeld wordt? Het komt bovendien nog altijd beleefder over iemand een fascist te noemen dan hem gewoon voor smeerlap uit te schelden en toch is het even beledigend.

- Extremisme: ook al een woord dat voor politiek gebruik zeer handig uitvalt. De betekenis ervan is bijzonder relatief. Elke ideologie die geen deel uitmaakt van het politieke centrum, zal altijd voor diegenen die zich ‘politiek correct’ opstellen onder de noemer extremisme thuis horen. Maar in feite komt het er ook op neer dat voor de meeste mensen iemand een extremist is wanneer hij precies het tegenovergestelde predikt van wat zij zelf denken. Zo zal een Vlaams separatist in de ogen van een vurig aanhanger van de Belgische eenheid ongetwijfeld een extremist zijn, maar is het omgekeerde even waar. In de loop van de jaren is het begrip echter sterk pejoratiever geworden. Rond het woord extremisme hangt tegenwoordig een sterke geur van geweld en zelfs van terrorisme. M.a.w. de beschuldiging van extremisme is vandaag de dag veel minder onschuldig dan in de zestiger jaren toen het begrip in het politiek jargon van dit land doorbrak om het tegen de toenmalige Volksunie te gebruiken. Deze partij was immers toen op electoraal vlak een geduchte concurrent aan het worden ....


Het populisme doorheen de geschiedenis
vertaald door Björn Roose

Politieke wetenschappen en populisme
door Mario Tarchi
vertaald door Peter Logghe

Het concept ‘populisme’, het favoriete thema – de misbruiken ervan incluis – van journalisten, allerlei commentatoren en allerhande opiniemakers, heeft zich met veel moeite een plaats weten te veroveren in het wetenschappelijke wereldje. Het probleem om vooral de essentie ervan te definiëren en zijn toepassingsveld correct te omschrijven deed politicologen, sociologen, filosofen en historici tegengestelde standpunten innemen ten over staan van het begrip ‘populisme’. Dienaangaande werden onverwachte opstoten van belangstelling afgewisseld met lange periodes van totale onverschilligheid, met daartussen kritische beoordelingen die eerder naar scepticisme neigden. Nochtans, terwijl discussies desbetreffend binnen de academische wereld blijkbaar talrijker worden – en niet slechts inzake de pertinentie van de term alleen – komt het fenomeen zelf regelmatig opnieuw en vooral ter sprake op de politieke scene, zodat elke poging om het begrip alsdusdanig buiten spel te zetten tot mislukken gedoemd is. Tot dus ver heeft de notie populisme op het einde van de 20ste eeuw een rijke oogst aan studies opgeleverd. Hetgeen trouwens in scherp contrast staat met het verminderen van de interesse voor alles wat ideologie betreft.
Dat populisme werkelijk te maken heeft met ideologie is inderdaad twijfelachtig. Desniettemin heeft een synthese van de onderzoeksresulaten over het begrip ‘populisme’ vanuit de hoek van de politieke wetenschappen een aantal punten van overeenstemming kunnen vinden op basis van de analyse van andere ‘politieke’ termen, zoals ‘democratie’ en ‘autoritarisme’.

Ideologie, politieke stijl of mentaliteit?

Het meerduidige karakter van het fenomeen waar men het etiket ‘populisme’ aan vastkleeft, liep tot nu toe uit op een teleurstelling zowel bij hen, die zich hadden voorgenomen het te analyseren in zijn empirische uitingen, als bij hen die zich als het ware ertoe gedwongen achtten om uit dit fenomeen een soort kern van eenheidstheorie af te leiden. Zijn geografische (er is bijna geen land op deze wereld waar men er niet aan gedacht heeft om naar sporen van het populisme te zoeken) en chronologische verspreiding (de meeste specialisten hebben de neiging om zijn ontstaan te plaatsen op het einde van de 19de eeuw, en prototypes ervan te ontwaren in de Amerikaanse People’s Party en de Russische narodnichestvo. Maar in het onderzoek naar de wortels van het populisme zou men de boerenopstanden in de Middeleeuwen reeds als ‘protopopulistisch’ kunnen bestempelen) hebben opnieuw het heterogene karakter ervan, meer dan de gemeenschappelijke bronnen, in de kijker geplaatst. Men weet dat het populisme zich onder steeds weer nieuwe vormen manifesteerde, dat het opdook in bewegingen, in regimes, in de stijl van redevoeringen en retorische strategieën, in cultuurfilosofische en allerlei psychologische benaderingen, zodat men het soms de eigenschappen van een kameleon toedichtte, de capaciteit dus om zich aan een breed gamma van situaties aan te passen, waarbij het regelmatig de demarcatielijn tussen links en rechts overschreed. Om een idee te geven van diens paradoxale synthetische aard, die geïnterpreteerd werd als een symptoom van conceptuele ongepastheid, volstaat het de even gevarieerde als belangrijke lijst op te roepen van personen die door de ene of de andere wetenschapper als populist werden beschouwd. Deze lijst ondergraaft op zichzelf elke pretentie om een plausibele typologie of een systeem van terminologisch classificatie te geven, als men weet dat als populist volgende personen worden omschreven: Chirac, Le Pen, Berlusconi, Castro, Peron en Haider, Pim Fortuyn en Chavez. En bij de auteurs die het kader van het begrip poogden te definiëren, vroegen bepaalden zich zelfs af of het niet pertinent zou zijn te stellen “dat ‘de populist’ slechts een fictieve entiteit is, en dat het geen zin heeft naar eenvormigheid te speuren”. Er werd daarenboven ook geschreven dat de definities “slechts toevallige formuleringen zijn, tot groot geluk van de studenten, terwijl de specialisten eraan twijfelen om ze te gebruiken”. Het populisme is zonder twijfel “beter te vatten in tijd en ruimte, dan door middel van een intellectuele en ongetwijfeld noodzakelijkerwijze té vereenvoudigende synthese” ....


Eugene Terre’blanche en de
Afrikaner Weerstandsbeweging (deel 6)
door Peter Van Windekens

Het Vlaams Belang heeft toch wel enigszins gelijk
geredigeerd door Peter Van Windekens

In TeKoS 142 lanceerde JAN SERGOORIS een opmerkelijke aanval tegen de partij Vlaams Belang. Hij was van oordeel dat het VB bepaalde verkeerde politieke keuzes heeft gemaakt, alleszins op tactisch en strategisch vlak. In deze korte bijdrage wil een mandataris van de partij - die zelf anoniem wenst te blijven - het een en ander weerleggen met betrekking tot het standpunt van de auteur inzake de islamisering van onze gewesten.

Stelling

JAN SERGOORIS schrijft dat het Vlaams Belang de culturele ontworteling van de (jonge) moslims in Vlaanderen verkeerdelijk gelijkschakelt met de gevolgen van hun godsdienstbeleving, zijnde de Islam. Volgens de auteur is die ontworteling volledig te wijten aan de secularisering van de allochtone jongeren. Hun (van religie doordrongen, nvda) cultuur komt immers in botsing met de westerse cultuur, hetgeen een normaal verschijnsel is bij migratie. Echter, met de Islam als religie zelf zou dit niets van doen hebben. Nog steeds volgens JAN SERGOORIS hadden de moslims van de 2e en 3e generatie geen enkel probleem om zich aan te passen (aan onze normen en waarden). Hij spreekt dan ook in hun geval over “vrome moslims”.

Immigranten van de 2e en 3e generatie

Nochtans (en meer bepaald) dient men de situatie van de ‘ouderen’ meer genuanceerd te bekijken op basis van een recente film getiteld “Niet zijn thuis” van regisseur SAÏD AGHASSAIY (Show Arma Productions i.s.m. Erfgoed Mechelen) waarin de situatie van de Marokkaanse gastarbeiders aan het eind van de jaren 1960 wordt geschetst,. De grootste motivatie van een immigrant van de 2e en 3e generatie om naar België te komen was de garantie op een woning en voldoende eten voor zijn gezin. In dergelijke strikte moslimgezinnen waren tradities erg belangrijk. Van integratie was geen sprake. Men zat met zijn hart in Marokko, maar lijfelijk vertoefde men in België. Daar de opvang en de sociale voorzieningen voor immigranten toen nog niet op het hedendaagse peil stonden, moesten deze laatsten echter meer op hun tellen letten dan nu. Uitspattingen vanwege ‘jongeren’ zoals wij die elke dag meemaken waren in die tijd gewoonweg ondenkbaar. Vergeleken met de aanvangsperiode van de immigratie naar België is de arbeidsmarktsituatie van de immigranten (van buiten de EU) en hun nakomelingen verontrustend. In 2010 had bij de immigranten slechts 46 procent van de mannen en 37 procent van de vrouwen een betaalde baan. Hetgeen in belangrijke mate te herleiden is tot de onderwijskloof. En sommigen die geen werk hebben, gaan dikwijls op zoek naar geld op een minder voor de hand liggende manier….


De groene hoek
door Guy de Maertelaere

Schrijvers en Lezers
door Peter Logghe en Bert Dekeyzer

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L'Afrique réelle n°24

Ex:
 
 
L'Afrique Réelle n°24
Décembre 2011

SOMMAIRE :
 
Actualité :
- L'année 2011 en Afrique
- Egypte : la grande misère des Coptes

Dossier : 
Les tragiques conséquences de la départementalisation de Mayotte

Repentance :
Le procès de Tintin au Congo

Opinion :
L'immigration choisie cette détestable forme moderne de la Traite des Africains
 
EDITORIAL :
 
Derrière la victoire des islamistes en Tunisie, en Libye et en Egypte, se cache une réalité ignorée de la plupart des observateurs qui en sont encore à opposer islam « radical » et islam « modéré », ne voyant pas que depuis le XXe siècle, deux grands courants parcourent le monde arabo-musulman sunnite[1] :
 
1) Synthèse du socialisme et du panarabisme, le « nassero-baassisme » a un temps prôné l’union du monde arabe avant de se fragmenter en plusieurs nationalismes sous l’influence de leaders charismatiques comme Gamal Abd-el Nasser en Egypte, Saddam Hussein en Irak ou même d’une certaine manière Hafez el-Hassad en Syrie. Alors que la realpolitik commandait aux Occidentaux de s’appuyer sur ces Etats, ils les ont au contraire combattus et l’échec du « nassero-baassisme » dont ils sont largement responsables, a créé un vide désormais comblé par l’islamisme politique.
 
2) L’islamisme politique a la même aspiration supranationale que le « nasserobaassisme », mais pour lui, c’est la religion islamique et non la langue arabe qui doit être l’élément fédérateur.
 
Durant des années, les Occidentaux se sont comportés à la manière des alouettes devant un miroir : attirés par la nébuleuse Al-Qaïda, ils sont partis à sa recherche en Irak et en Afghanistan, laissant ainsi le terrain libre à cet islamisme politique que BHL qualifie de « modéré ». Or, ce courant a pour objectif, non pas de faire sauter des bombes en Europe, mais de prendre appui sur la population immigrée musulmane pour y imposer son contre-pouvoir. En France, cela est déjà clairement le cas dans plusieurs émirats de la périphérie de villes comme Paris, Marseille ou Lyon, où les populations vivent de fait selon la loi islamique et où il ne reste plus à l’islamisme politique qu’à faire élire des municipalités - ce qui ne saurait tarder - afin de légitimer démocratiquement sa conquête territoriale.
 
Le moteur de cette gigantesque subversion qui se déroule sous nos yeux et que la bienpensance interdit de voir est l’Organisation des Frères musulmans, mouvement né en 1928 en Egypte et qui a reçu deux grandes idées de ses deux principaux fondateurs, Hassan Al-Banna et Sayyed Qutb.
 
1) Pour Hassan Al-Banna le panarabisme était une vision politique ethnoréductrice car tous les musulmans ne sont pas des Arabes. En revanche, l’arabe est bien la langue liturgique commune à tous les musulmans. Cette vision non raciale fait de l’organisation un modèle universel pour tous les croyants.
 
2) Pour Sayyed Qutb exécuté par Nasser en 1965, le monde était divisé en deux, d’une part le dar el-Islam et d’autre part le monde de l’ignorance (de Dieu) ou jahaliyya.
Le but des Frères musulmans est l’instauration d’un Etat islamique mondial, mais le réalisme commandant de procéder par étapes, la priorité est de renverser les régimes arabes nationalistes ou bien alliés de la jahaliyya ; si possible d’ailleurs avec l'aide de cette dernière, comme cela vient d’être réalisé en Tunisie, en Egypte, en Libye et demain en Syrie. Plus tard, une fois l’unification du dar el-Islam réalisée, la guerre sera menée contre la jahaliyya afin d’établir l’Etat islamique universel. Mais avant de passer à cette étape finale, il est nécessaire de la désarmer mentalement et de la rassurer en lui tenant les discours lénifiants qu’elle attend et dont sa lâcheté, autant que son masochisme, se satisferont avec à la fois soulagement et gourmandise.
 
Les cocus d’Occident qui rêvaient de démocratie en se pâmant devant le « printemps arabe » ont donc offert le pouvoir à leurs pires ennemis. Il est minuit moins cinq, docteur Schweitzer…
 
Bernard Lugan
 
[1] Pour ce qui concerne les chiites, la clé de compréhension est différent

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L'Iran et le drone d'Obama

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L'Iran et le drone d'Obama

"Des services de renseignements européens affirment que l’Iran a stupéfait l’Occident en réussissant à neutraliser un satellite espion de la CIA grâce à une technologie de brouillage de pointe au laser, qui aurait rendu le satellite complètement aveugle. C’est la première fois qu’un incident de ce type est enregistré. Ce constat pourrait indiquer que l’Iran a désormais accès à une technologie capable de détecter des véhicules automatiques aériens":
http://allainjules.com/2011/12/18/iran-2-usa-0-apres-le-drone-liran-neutralise-un-satellite-de-la-cia/

jeudi, 22 décembre 2011

Il ciclo dell’anno e l’avvento del solstizio d’inverno

Il ciclo dell’anno e l’avvento del solstizio d’inverno

I.

Il ciclo dell’anno dalla primavera al culmine dell’estate

Wintersonnenwende.JPGDopo la morte invernale della vegetazione, a primavera la Vita Universale risorge.

A Primavera una forza ascensionale pervade tutta la Natura:

la linfa vitale dalle radici sotterranee ha cominciato a circolare e a creare nuova vita verso l’alto,

dalla terra è spuntata nuova erba, i fiori si sono schiusi al Sole e si sono innalzati, gli alberi crescono, i rami si protendono: le foglie sopra i rami, i fiori sopra le foglie, i frutti sopra tutto.

Le forze tendono verso l’alto, verso la rinascita.

21 Marzo il Sole entra nell’Ariete. La forza di fuoco, che con slancio in avanti, produce una nuova messe primaverile.

A primavera, la Celebrazione del Dio che muore e risorge (Morte e resurrezione di Adone, di Attis, di Dioniso, di Baldur).

21 Aprile: il Sole entra nel Toro. La potenza della natura feconda.

Nei mesi successivi, la celebrazione dell’Ascensione: il Sole si innalza altissimo e rischiara il mondo (vedi anche l’interpretazione di Giuliano Augusto del solstizio d’estate: il Sole che quasi esorbita verso l’eccelso).

La Pentecoste: le fiamme dello Spirito di Fuoco che accende l’Aura degli uomini.

21 Luglio. Il Sole entra nella costellazione del Leone. Il Solleone dell’Estate.

L’Assunzione: innalzamento della Madre a Regina dei Cieli.

II.

Dalla caduta delle foglie alla neve d’inverno

Per tutta la Primavera la Natura è fiorita, si è ramificata, si è ricoperta di foglie, si è ramificata.

Per tutta l’Estate la Natura ha fruttificato. I frutti sono spuntati sui rami. Sono maturati al calore del Sole. Al termine dell’Estate  gli alberi offrono all’uomo i frutti più dolci, più succosi, quelli che più a lungo sono maturati al Calore del Sole.

Al termine dell’Estate la Terra si è impregnata di tutto il calore e il calore ha arso i frutti sugli alberi.

Un processo di combustione cosmica ha avvolto i frutti, ma anche gli animali e l’uomo, rendendo questo ultimo risplendente di luce astrale.

A conclusione di ogni combustione: la cenere.

La cenere cade dalla fiamma che arde e dalla materia della combustione.

La cenere cade a terra, estinguendo ogni vitalità.

In Autunno le forze in atto sono le forze discendenti.

I frutti maturi già pendono dagli alberi appesantiti dalla gravità.

Poi le foglie ingialliscono e cadono verso il basso.

Gli insetti smettono di ronzare, di volteggiare, quasi abbattuti a terra.

Cade la pioggia.

E cade la cenere del mondo, arsa dal processo di combustione dell’estate.

La coscienza umana all’approssimarsi dell’autunno avverte il senso della caducità dei fenomeni terreni.

Samsara, impermanenza.

15 settembre, Festa dell’Addolorata. Maria il cui cuore è raffigurato come trafitto da sette spade: i sette dolori. Naturalisticamente interpretati come i sette faticosi mesi freddi-invernali. Ma il Dolore della Madre è più arcaicamente il dolore di Demetra, che cerca sua figlia Kore rapita dal Dio degli Inferi e trasportata nel mondo sotterraneo, esattamente come sulla soglia di settembre la vita vegetativa della natura è rapita, sequestrata, sottratta alla luce del giorno e ricondotta al mondo degli Inferi, lungo la via discendente indicata dalle radici degli alberi.

La coscienza stessa dell’uomo avverte il senso della caducità della vita umana: è la cosiddetta malinconia dell’autunno, che si ricollega facilmente alla malinconia della vecchiaia.

E tuttavia la coscienza deve reagire a questo sentimento elementare, deve aver chiaro il fatto che laddove la Natura appassisce e decade, in quello stesso momento lo Spirito si innalza e si fortifica.

Quando le foglie in autunno cadono e l’aria diventa più fresca, proprio allora il pensiero si rischiara e la volontà si corrobora.

Il 29 settembre la Festa dell’Arcangelo guerriero. L’Arcangelo che con la sua spada di ferro abbatte le schiere degli angeli traditori e li respinge nelle profondità della terra.

La forza del Ferro di Michele, in autunno discende dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra per orientare le volontà degli uomini che agiscono in armonia col Divino.

La Cenere: simbolo di ciò che cade dopo essersi innalzato verso l’alto, di ciò che per il fatto stesso di esser nato sulla terra è destinato alla morte.

Il manto di neve che in inverno ricopre la Terra, le conferisce un candore immacolato.

La Terra acquista la purezza di una donna che sta per diventare Madre, che sta per partorire il Figlio.

 

La Terra sta per generare il Fanciullo Solare  e nello stesso tempo è purissima, ora è scevra da ogni sensualità: è Vergine e Madre.

V Ecloga di Virgilio.

La Neve è candida come la Luna: la Terra si ricopre di forze lunari, di forze che appartengono all’ambito della generazione, all’ambito di ciò che produce nuova nascita.

Il Solstizio d’Inverno è festa di Natale. Nasce il Sole Fanciullo, il nuovo Sole di Giustizia.

La lastra di ghiaccio, di purissima neve crea sulla Terra un immenso specchio che attira i raggi solari e li riflette.

La Luce Solare viene riflessa dalla Terra e si incarna in essa.

Il periodo invernale  è anche il periodo del forte pensiero.

Infatti la mente è lunare e riflette la Luce delle Idee. Come la Terra ricoperta di neve che riflette la Luce del Sole.

La mente concepisce il Pensiero, esattamente come la Madre concepisce il Figlio/Logos Universale.

L’immagine della Madre: purissima, lunare, coronata di dodici stelle.

L’immagine del Figlio Divino: essere solare irradiante luce, con la corona radiata solare sul capo.

III.

Le feste del calendario sacro

wintersonnenwende_suedbrandenburg.jpgL’immagine gradualmente sorge nel passaggio dall’autunno all’inverno, attraverso le date che scandiscono il calendario sacro.

21 Agosto, il Sole entra nella costellazione della Vergine. Cessa il Solleone, l’Estate più ardente gradualmente si ritrae, ma nello stesso tempo maturano i frutti più dolci. Ermeticamente la bilancia regge la regione dello stomaco, dove avviene il metabolismo (nella pancia della donna, si custodisce anche il frutto di una nuova nascita).

8 Settembre. Nel bel mezzo del periodo di congiunzione tra Sole e Vergine si celebra la festa della Natività della Vergine. La natura a questo punto si spoglia della sua sensualità, diventa più casta. Le foglie cadono e si rafforza il sentimento dello Spirito Eterno che si innalza al di sopra del ciclo delle stagioni.

21/29 settembre: equinozio d’autunno e festa di San Michele Arcangelo. Il Ferro siderale che respinge lo Zolfo estivo. La spada dell’arcangelo solare respinge le forze oscure legate alla incoscienza e dunque alla ottusa materia, a ciò che tende al tradimento dello Spirito.

Il Sole entra nella Bilancia: le due coppe del giorno e della notte si bilanciano perfettamente nel giorno dell’equinozio. Questo equilibrio tra luce e oscurità, diventa anche equilibrio psicologico, impulso alla calma dell’anima, al senso di giustizia (Bilancia = Giustizia) e di armonia. L’Arcangelo che nella mano destra ha la spada, nella sinistra ha la bilancia. Ermeticamente la Bilancia regge la regione dei fianchi che si bilanciano continuamente nel movimento del corpo.

21 ottobre: il Sole entra in Scorpione. Lo Scorpione segno freddo e liquido. Esso rimanda alla morte. Il pungiglione che colpisce  a morte (ma il pensiero va anche alla Forza Divina che vince la morte: “O morte, dove è il tuo pungiglione?”). Sotto il segno dello Scorpione un ciclo di vegetazione definitivamente muore: la natura vecchia va “al macero” così come le foglie ingiallite e cadute a terra marciscono una volta che sono inzuppate di acqua. Ma il momento estremo della morte è anche quello in cui si prepara la ri-generazione: si pongono nella terra feconda i semi di nuove nascite. In questo momento gli uomini si avvicinano alla regione dei Morti. Ermeticamente lo Scorpione regge la regione dei genitali.

30 ottobre/2 novembre: il Samain celtico, perpetuato nella attuale festa dei Santi e dei Morti. La morte della natura vegetante ci ricollega spontaneamente al mondo dei Morti, il ritrarsi della vita nelle radici sotterranee spontaneamente ci riconduce al Regno di Plutone, all’Ade. Che però è anche il Regno dell’Occulto, dunque di conoscenze invisibili e di ricchezze nascoste. In questi giorni è fortissima la comunione tra i Vivi e i Morti.

Il 21 di Novembre il Sole entra in Sagittario. Segno di Fuoco, legato al forte Volere.  Ermeticamente il Sagittario governa la regione delle cosce che spingono la mobilità dell’uomo.

Alla fine di Novembre l’Avvento del Sole Invitto si percepisce sempre più forte. Nel buio precoce che avvolge il giorno, si rafforza il sentimento del mistico Sole dell’Interiorità: Luce che splende nelle Tenebre, Sole che nasce a Mezzanotte. La ruota del mese, con i suoi quattro assi rotola verso la più sacre delle feste: il Solstizio d’Inverno, Natale del Sole Invincibile.

Due festività consacrate a figure femminili precedono l’evento:

8 Dicembre: festa dell’Immacolata (“Anahita”, l’Immacolata presso i Persiani). La Terra si ricopre del manto di neve, ogni sensualità si spegne, il pensiero si illumina nella interiorità. L’Astrale si predispone a generare l’Io, libero da ogni impulso animale. L’Anima Mundi si prepara a sciogliere la nascita dello Spirito Solare.

13 Dicembre: festa di Santa Lucia. Presso gli Svedesi è la festa della Luce. Si accendono nelle case le lampade. Una luce flebile ma inestinguibile illumina le giornate quasi completamente avvolte nelle Tenebre esteriori.

La Triade di Donne Divine nella Divina Commedia di Dante: Maria – Lucia – Beatrice.

Le forze cosmiche discendenti che caratterizzano l’Autunno e i mesi d’Inverno puntano alla incarnazione nel grembo della Madre del Fanciullo Divino (Dios-Nysos): il nuovo Sole.

Al Solstizio d’Inverno la nascita del Sole Fanciullo avviene nella Caverna del Mondo.

Dalla caverna del mondo si irradia il Fanciullo Solare.