Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

dimanche, 09 novembre 2008

Cinquemila anni fa in Europa...

Cinquemila anni fa in Europa...

“Cucuteni-Trypillya. Una grande civiltà dell’antica Europa” è il titolo di una mostra dedicata a quella che è considerata dagli esperti la più antica civiltà del Vecchio Continente fiorita tra il 5000 e il 3000 a.C. in un’area che oggi fa da confine a Romania, Ucraina e Moldavia. Il nome di questa civiltà, estesa su circa 350mila Kmq, è stato deciso dagli archeologi in base ai nomi dei villaggi Cucuteni in Romania, vicino a Iasi, e Trypillya in Ucraina, vicino a Kiev, dove, alla fine del XIX secolo sono state rinvenute per la prima volta ceramiche dipinte e statuette di terracotta.

Nell’insediamento di Nebelivka, vicino a Maydanetsky in Ucraina, gli archeologi portarono alla luce quello che può essere considerato il più antico set di ceramiche dell’Est Europa, con piatti, ciotole e coppe riportanti lo stesso decoro. I metallurgici della civiltà Cucuteni-Trypillya conoscevano diversi metodi di lavorazione del rame, e perfino i metodi per ottenere le leghe metalliche, compresi rame e argento. In proporzione inferiore lavoravano anche l’oro con cui realizzavano gioielli. Gli oggetti di metallo erano accumulati quali tesori (come quelli scoperti a Ariusd, Habasesti, Brad, Carbuna, Horodnica). Il tesoro di Ariusd (Romania) conteneva ben 1.992 oggetti di rame, il tesoro di Carbuna (Repubblica di Moldavia) 444 oggetti di metallo, mentre i tesori di Ariusd e Brad (Romania) contenevano anche oggetti in oro.

Gli insediamenti di Cucuteni-Trypillya (denominati “piccole fortezze” per via della posizione dominante) mostrano sistemi di fortificazione che consistono in fossati, terrapieni e palizzate. Nell’ultima fase di sviluppo della civiltà Trypilliana, le città di tipo proto-urbano dell’area est (Trypillia) estendevano le fortificazioni fino a tutto il perimetro dell’abitato, innalzando, talvolta, anche muri di pietra. Queste fortificazioni avevano lo scopo di difendere gli insediamenti dagli attacchi delle comunità vicine e dalle tribù nomadi infiltrate nell’area attraverso le regioni delle steppe.

Gli archeologi, i fisici e i paleo-botanici, impegnati nello studio della civiltà Cucuteni-Trypillya, presumono (in linea con l’ecologismo odierno più rigoroso) che uno dei fattori che determinarono il declino di questa civiltà agli apici del suo sviluppo fu il progressivo peggioramento della situazione ecologica, sentita in tutta l’area dell’Eurasia. Ma le vere ragioni della scomparsa della civiltà Cucuteni-Trypillya non sono ancora chiare. Né si conosce l’idioma parlato pur se, secondo varie opinioni, è fra la popolazione di Cucuteni-Trypillya che andrebbe cercata l’origine della lingua Indo-Europea.

Gli insediamenti erano di varie dimensioni, proto-città che si sviluppavano su centinaia di ettari, elaborate fortificazioni, abitazioni che variavano da capanne interrate a costruzioni fino a due piani, oggetti in ceramica la cui utilità si abbina in modo armonioso all’aspetto estetico, una religione affascinante le cui tracce sono marcate fra idoli e oggetti cultuali dall’incredibile simbolismo, oggetti rituali la cui funzionalità è ancora in fase di interpretazione. Ma più si conosce su questa cultura, più essa appare misteriosa, soprattutto per ciò che riguarda i luoghi e il suo ruolo ricoperto nella storia universale; vi è anche l’ipotesi che questi luoghi potrebbero essere il punto di partenza della civiltà dei Sumeri se non, addirittura, che a questi luoghi sia riferibile il mito di Atlantide.

Gli scavi archeologici provano l’eccellente grado raggiunto dalla popolazione nell’agricoltura e confermano come non solo vi erano solo villaggi comuni, ma anche centri abitati di dimensioni impressionanti, con superfici che variavano dai 150 fino ai 450 ettari, vere e proprie città preistoriche. In particolare l’insediamento del bacino del Bugo Meridionale mostrava strutture urbane con abitazioni poste in cerchi concentrici oppure disposte in linee parallele o gruppi, tese a formare piazze e luoghi destinati ad attività pubbliche o comunitarie. Alcune abitazioni erano molto grandi, da 300 a 600 metri di lunghezza, composte da molte stanze. I muri ed il soffitto erano decorati con disegni neri e rossi. I letti e altri arredamenti d’interni erano decorati con disegni complicati realizzati con colori brillanti.

Alcune delle statuette ritrovate negli scavi archeologici rappresentavano personaggi importanti che vivevano nelle costruzioni appartenenti a queste città preistoriche. I volti maschili sono allungati, con nasi pronunciati. La maggior parte delle statuette femminili sono aggraziate, con lunghe gambe, alcune nude e altre avvolte in quello che sembra un abito da festa. I corpi delle donne sono tatuati in diversi punti, soprattutto sullo stomaco e sulla schiena. I disegni ornamentali più diffusi erano spirali, rombi e serpentine (l’Albero della Vita). Alcune statuette recano ancora tracce di colore rosso e nero che riprendono i dettagli degli abiti. Tra i culti più sviluppati vi è quello della Madre Terra (che assicurava fecondità e fertilità), del Toro Celeste e del Fuoco (come attributo celeste).

Le occupazioni di base della popolazione di Cucuteni-Trypillya erano l’agricoltura e l’allevamento di suini, ovini e bovini; verosimilmente addomesticavano i cavalli. Gli specialisti di paleo-botanica hanno dimostrato l’esistenza di alcuni tipi di grano, orzo, cereali, legumi, viti, ciliegi e pruni. Usavano aratri a trazione animale e sofisticati forni per cuocere la ceramica. I vasi erano di diversi tipi e stili, decorati in almeno 20 modi diversi.

A questi popoli è dedicata la mostra che si tiene al Palazzo della Cancelleria di Roma fino al 31 ottobre. L’importante rassegna è promossa dall’Ambasciata d’Ucraina presso la Santa Sede, dal ministero della Cultura e degli Affari religiosi di Romania, dal ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Moldavia, dal ministero della Cultura e del Turismo d’Ucraina.


vendredi, 31 octobre 2008

Over Arthur Mahraun en zijn Jungdo

Jungdo.jpg
Over Artur Mahraun en zijn Jungdo

Gevonden op: http://www.jorisvanseveren.org

Piet Tommissen, Ukkel

Wie zijn licentiaatsverhandeling aandachtig gelezen heeft, weet dat het Luc Pauwels (°1940) er om te doen is, een “quasi volledig braakliggend terrein”1 - in casu de ideologische evolutie van het denken van Joris van Severen - in kaart te brengen. Te dien einde bestudeert hij een aantal streng geselecteerde grondbegrippen, daarbij verwijzend naar eventuele bronnen. Wat dit laatste punt betreft deelt hij de mening van professor Eric Defoort (°1943) en beschouwt Charles Maurras (1868-1952) dus niet als een, laat staan als dé leermeester van de stichter en leider van het Verdinaso.2 Hij citeert wel andere auteurs die op Van Severen invloed uitgeoefend hebben, o.m. de markies René de la Tour du Pin de la Charce (1834-1924), Georges Sorel (1847-1922)3, Georges Valois (ps. van Alfred-Georges Gressent; (1878-1945), zelfs - voor mij een complete verrassing - de Duits-Joodse anarchist Carl Landauer (1870-1919), e.a.

Tot mijn verbazing maakt Pauwels geen gewag van Artur Mahraun (1890-1950), ofschoon Van Severen hem, of juister zijn Jungdeutsche Orden (afgekort: Jungdo), tweemaal in De West-Vlaming vernoemt. De eerste keer in 1929 bij wijze van voorbeeld, de tweede keer in 1930 i.v.m. het verschil tussen de begrippen volk en natie.4 Tenzij ik me vergis heeft Arthur de Bruyne (1912-1992) in de secundaire literatuur als allereerste Mahraun vernoemd, helaas zonder nadere toelichting.5 De verdienste de kijker op deze man, zijn ideeën en zijn organisatie te hebben gericht, komt toe aan de heren Jan Creve (°1962) en Maurits Cailliau (°1938).

Eerstgenoemde meent dat “een direct aanwijsbare band tussen Mahraun en Van Severen niet bestaat”, doch voegt er onmiddellijk bij: “bepaalde passages uit Hier Dinaso! lijken soms zelfs woordelijk overgenomen uit Der Jungdeutsche.”6 De heer Cailliau stipt in een voetnoot aan dat het opus 10 Jahre Jungdeutscher Orden in de bibliotheek van Van Severens aanwezig was, “wat er op wijst dat hij Mahrauns beweging volgde.”7

Terwijl Creve niet uitsluit dat Van Severen de Jungdo leerde kennen, hetzij via de dichter Wies Moens (1898-1987), hetzij via priester Maurits Geerardijn (1896-1979), hetzij via de contacten die sinds 1926 bestonden tussen Valois en Barrès (niet Maurice [1862-1923] doch diens zoon Philippe [1896-?]) en de Jungdo.8 Zijnerzijds wijst Cailliau er op dat de Jungdo model heeft gestaan bij de oprichting door priester Robrecht de Smet (1875-1937) van de Jong Vlaamsche Gemeenschap (1928-31). omgedoopt in Jong Nederlandsche Gemeenschap (1931-35), maar rept met geen woord over Van Severen.9

Zelf heb ik in het begin van de zestiger jaren der vorige eeuw een artikel over Mahraun en zijn Jungdo gepleegd, na bij Wolfgang Lohmüller. de toenmalige voorzitter van de in december 1953 in het leven geroepen .Artur-Mahraun-Gesellschaft, mijn licht te hebben opgestoken. Waarschijnlijk was het artikel bestemd voor het door Jan Olsen (°1924) opgericht en tot het laatste nummer toe geleid maandblad Het Pennoen (1950-77). Waarom ik het finaal niet verzonden heb, is me helaas ontgaan. Het ligt ten grondslag aan het thans volgende exposé, als aanloop tot een door jongeren te onderzoeken beïnvloeding van Van Severen door Mahraun.

Mijn proeve doet dus in genen dele afbreuk aan mijn respect voor het degelijk werk van de heren Creve en Cailliau. Integendeel zelfs: het wil me voorkomen dat hun en mijn teksten zich aanvullen i.p.v. zich te overlappen. Het is me overigens opgevallen dat we alle drie wel eens andere bronnen raadplegen!10 Alvorens mijn exposé voor te leggen wens ik de heren Cailliau en Dr. Wim van der Elst nog snel te bedanken voor de vlotte ‘levering’ van enkele fotokopies, resp. een stel levensdata.

De in 1890 in Kassel als zoon van een hogere ambtenaar geboren Artur Mahraun werd in zijn jeugdjaren sterk beïnvloed door de geest van de toenmalige Jugendbewegung. Men mag gerust stellen dat zijn latere opvattingen al grotendeels vervat liggen in datgene wat hij als lid van de jeugdbeweging leerde belijden: de afkeer van de grootstad, de natuurverbondenheid, het primaat van de vriendschap, de belangstelling voor groepsverband op vrijwillige grondslag, en dies meer.

In 1908 nam Mahraun dienst in een infanterieregiment, dat nog het Pruisisch princiep “meer zijn dan schijnen” huldigde. In dat midden kreeg hij tevens inzicht in het dieper wezen van hiërarchie en tucht: die ervaring ligt wellicht aan de basis van het achteraf door hem gehuldigd autoriteitsbeginsel. Tijdens Wereldoorlog I - terloops weze aangestipt dat hij o.m. bij de strijd om Luik in de voorste gelederen streed - kwam daar nog het Kriegserlebnis bij: het vormt de derde bron van zijn toekomstig politiek denken en handelen.

Als hoog gedecoreerde luitenant werd Mahraun in 1918 in Kiel door de matrozenopstand verrast en er tot in het diepst van zijn wezen door geschokt. Hij bleef enige tijd bij de Reichswehr en zwaaide in de rang van kapitein af. In januari 1919 was hij evenwel reeds begonnen met de opbouw van een vrijwilligerseenheid, de Offiziers-Kompanie Kassel, die in zijn geboortestad plunderingen voorkwam en daarna meehielp bij de onderdrukking van de spartakistenopstand in Türingen. Deze eenheid werd evenwel bij besluit van de Rijkskanselier in 1920 ontbonden, net zoals de andere vrijwilligerseenheden (Freikorpse). Voor Mahraun de ideale gelegenheid om op 17 maart 1920 de Jungdeutsche Orden te stichten

Deze piepjonge organisatie, in de wandeling Jungdo genoemd, onderstreepte uitdrukkelijk dat ze geen Verein wenste te zijn naast de talrijke bestaande Vereine en het beklemtonen van haar ‘orde’-karakter is haar succes voorzeker ten goede gekomen: begin 1922 telde men 200 afdelingen en ruim 75.000 leden! Onder hen persoonlijkheden die reeds naam gemaakt hadden, zoals de Germanenvorser Kurt Pastenaci (1894-1961) en een paar generaals, of die het tot een zekere beroemdheid zouden brengen, zoals de staatsrechtsleraar Reinhard Höhn (1904-2000)11 en waarschijnlijk ook Albert Leo Schlageter (1894-1923).

Qua organisatie vertoonde de Jungdo gelijkenis met de middeleeuwse Ritterorden. Immers, Mahraun was de Hochmeister die met zijn commandanten (Komturen) de gewesten (Balleien) en - het laagste echelon - de plaatselijke afdelingen (Bruderschafien) en de in universiteiten geboren groepen (Hochschulgesellschaften) bestuurde. Regelmatig kwamen de leden (Brüder) in algemene ledenvergaderingen (Bruderkonvente), de leidende leden (Meister) in kapittels (Kapitel) samen. In afwijking van wat in vrijwel alle gelijkaardige organisaties niet gebeurde, werden de leden van de Jungdo wèl regelmatig en intensief geschoold (lessen gegeven tijdens politieke avondbijeenkomsten) én getraind (weersportoefeningen). Bovendien kregen ze de afkeer voor uitheemse muziek ingeënt en werd de meisjes het bubikopf-kapsel, het dragen van pullovers en trenchcoats ten zeerste afgeraden. Niet te vergeten dat in een krant, een tijdschrift en brochures de leer tot in den treure uiteengezet en/of gepropageerd werd.

Schone liedjes duren zelden lang. Dat ondervond ook de Jungdo. Kort achter mekaar werd de orde verboden en gedeeltelijk ontbonden; de eerste keer i.v.m. de mislukte Kapp-putsch12, de tweede maal na de moord op minister Walther Rathenau (1867-1920) door rechtse extremisten waaronder de auteur Ernst von Salomon (1902-1972). Doch de leiding zette de werfactie gewoon voort en richtte geheime afdelingen op. In die moeilijke periode ging Mahrauns echtgenote zelfs met de eerste bundeling van jonge vrouwen, de Schwesternschaft, van start. Het duurde tot in 1923 alvorens het Geusenhilfswerk begon te functioneren: alleen al in de maand oktober werd in Kassel aan 7.000 behoeftigen een warme maaltijd aangeboden.13

Pijnlijker was het feit dat men zich ook van katholieke zijde voor het Jungdo-verschijnsel ging interesseren. Het begon in 1924 met een venijnig geschrift van de franciscaan Erhard Schlund (1888-1953)14, weldra gevolgd door banbliksems vanuit de bisschoppelijke zetels Paderborn en Breslau. Deze reacties waren het logisch uitvloeisel van het koketteren van de Jungdo met Duits-religieuze, lees: nieuw-heidense, stromingen én met het oogluikend dulden van de invloed van de anthroposofie van Rudolf Steiner (1861-1925). Wanneer men weet dat het in Westfalen vooral priesters en jonge kapelaans waren die de Jungdo-afdelingen leidden. begrijpt men de bezorgdheid vanwege Mahraun. Die decreteerde zonder dralen het nieuw parool: “Geef het volk wat het volk en God wat God toekomt.”

Bijna gelijktijdig ontstond in de schoot van de orde gemor over Mahrauns Franzosenpolitik. Deze politiek beoogde een Duits-Franse toenadering, ja zelfs samenwerking, en dat zag menig Jungdo-lid niet zitten. Zo min trouwens als het feit dat de potasmagnaat Arnold Rechberg (1879-1947), een rabiate antibolsjewist en om die reden het initiatief van Mahraun genegen, die politiek financieel steunde.15 Wat er ook van zij, Mahraun kondigde deze tegen de in Duitsland overheersende revanchementaliteit in Leipzig ten aanhore van 35.000 leden (overwegend Saksische) aan. De kern van zijn betoog vindt men terug in een interview dat de Franse krant Le Matin op 29 augustus 1925 afdrukte: Mahraun benadrukte dat in zijn optiek de op Duitsland terugslaande bepalingen van het verdrag van Versailles dienden geschrapt en de bezette gebieden ontruimd, en dat de Duits-Poolse grens moest worden herzien.

Volgens Klaus Hornung (°1927) stond noch Mahraun noch Rechberg een kruistocht tegen de Sovjet-Unie voor ogen. Deze kenner interpreteert die Frankrijk-politiek als een poging om “een Europese politiek in de zin van een ‘derde kracht’ tussen Oost en West voor te bereiden” en op die manier het bolsjewisme op vreedzame wijze te weren. Hij onderstreept tevens dat de promotoren van die politiek geen heil zagen in de Volkenbond en evenmin in de zelfs in Frankrijk door invloedrijke politici en intellectuelen gesteunde pan-Europese gedachte van graaf Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972).16

Het feit dat het autoriteitsbeginsel het lager kader de mogelijkheid ontnam dergelijke beslissingen van de centrale leiding van de Jungdo te amenderen, gaf aanleiding tot de desertie van waardevolle elementen en tot sektevorming. Tot die laatste protestuiting nam de latere nazi-minister voor sportaangelegenheden Hans von Tschammer und Osten (1887-1943) zijn toevlucht. Mahrauns Frankrijk-politiek viel overigens evenmin in goede aarde bij de pangermanisten van het genre Heinrich Class (1868-1953), noch bij diens discipel Alfred Hugenberg (1865-1950), eigenaar van een krantenconcern waarin door een sterk anti-Frans ressentiment gedreven oudstrijders het goede weer maakten, noch bij de nationaal-socialisten. Uiteraard evenmin in kringen van de Reichswehr die vlijtig meewerkte aan de door het verdrag van Rapallo (16 april 1922) mogelijk geworden geheime Duits-Sovjetische militaire collaboratie.

Had de Jungdo, in weerwil van de crisis waarin hij verkeerde, toch de wind in de zeilen? Men is geneigd het te geloven wanneer men leest dat de liberale politicus Gustav Stresemann (1878-1929) in 1928 van één miljoen leden gewaagde en het Franse Deuxième Bureau er drie jaar later 500.000 telde.17 In ieder geval achtte Mahraun het ogenblik gekomen om een sinds geruime tijd in het vooruitzicht gesteld Jongduits manifest te lanceren. Dat gebeurde op 18 december 1927 met 4.000 Meister als toehoorders. Het gaat hierbij om de uitgerijpte neerslag van een denken over staat, politiek, economie enz, dat jaar in jaar uit geëvolueerd was.18 In dit manifest wordt geopteerd voor de niet parlementaire sociale volksstaat. bestaande uit zogeheten Nachbarschaften, d.i. groepen van telkens zowat 500 in dezelfde regio wonende staatsburgers, alias kiesgerechtigde mannen en vrouwen. De stamgedachte lag aan de Nachbarschaft ten grondslag: als voorbeelden golden de oud-Griekse agora en de germaanse Thingplatz. De Jungdo verwierp de dictatuur en plaatste de volksstaat boven de economie. Onder volk verstond hij geen gemeenschap van door dezelfde bloedsafstamming verbonden mensen, maar een gemeenschap van door bloedsverwantschap verbonden geslachten: geen sprake dus van ras.19 Het volk moest de staat maken; vandaar een pleidooi voor het referendum en voor onbezoldigde topfuncties: de besten moesten de staat zonder eigen belang en in het belang van het volk besturen.

De publicatie van het manifest verwekte heel wat deining. Niemand betwistte dat het aan oprechte vaderlandsliefde en idealisme ontsproten was. Velen hadden het daarentegen moeilijk met het realiteitsgehalte van de stellingen. Dat de socialisten de ondergeschiktheid van de economie in verband brachten met sterke burgerlijke invloeden is geenszins verwonderlijk. Minder evident is de mening van Alfred Weber (1868-1958): volgens deze gekende socioloog ging de staatsopbouw op nachbarschaftliche grondslag de heerschappij van de middelmatigheid en een veralgemeende vervlakking in de hand werken.20 Edgar Jung (1894-1934), de in 1934 door de nazis vermoorde secretaris en ghostwriter van de politicus Franz von Papen (1879-1969), was het met Mahraun over veel eens, doch vond de idee van de Nachbarschaft ongeschikt als basis voor politiek zelfbestuur.21

Hoe dan ook, in 1928 en 1929 leidde de drang om tot praktische verwezenlijkingen te kunnen komen in april 1929 tot de oprichting van een partijenoverkoepelende Volksnationale Reichsvereinigung waaraan ruim 600 persoonlijkheden hun steun verleenden, o.m. de pedagoog Ernst Krieck (1882-1947). Bij gebrek aan belangstelling kwam het slechts tot een alliantie tussen de Jungdo en de Deutsche Demokratische Partei. Aldus ontstond de Deutsche Staatspartei, die geen lang leven beschoren was, want de verkiezingen van 14 september 1930 vielen falikant uit (20 zetels), die van 6 november 1932 waren gewoon desastreus (nog 2 zetels). Het parlementair experiment bracht heel wat Jungdo-leden in de war en veroorzaakte een nieuwe desertiegolf.22

Het waren hoofdzakelijk hogeschoolstudenten die het verval in een nieuwe opgang ombogen. Zij grepen terug op het in 1924 door Mahraun bepleitte autarkisch princiep van de volksdienstplicht. Weldra registreerde men 300 Arbeitseinsatze, stelde financieminister Klepper 200.000 ha bodem ter beschikking en stichtte Mahraun de Jungdeutsche Siedlungs-GmbH. Er werden indrukwekkende successen geboekt23, maar in 1933 was het amen en uit.

Hitler, in Jungdo-middens Pyrrhus II of ook wel Lodewijk XIV genoemd, duidde het bestaan van de organisatie nog enige tijd. De Jungdo kantte zich tegen de Nazi-partij en Mahraun belegde in Bielefeld een Kapitel, naar hij later gezegd heeft met de bedoeling tot een gewapende weerstand tegen het Nazi-regime te komen. Dat liedje ging niet door: de Jungdo werd in juni 1933 verboden en Mahraun twee weken later aangehouden en door de Gestapo gemarteld; bij gebrek aan harde bewijzen werd hij in september 1933 op vrije voeten gesteld. Belangrijk om weten: Jungdo-leden hebben zich in de Duitse weerstand verdienstelijk gemaakt.24

Mahraun bleef in leven door boeken te schrijven (dichtbundels, romans, toneelstukken) die onder eigen naam of onder zijn schuilnaam Dietrich Kärner verschenen zijn. Toch is hij wel eens schaapsherder geweest om de twee eindjes aan mekaar te kunnen knopen. Tijdens W.O. II werd hij niet gemobiliseerd maar de ironie van het lot heeft gewild dat de Engelsen hem in 1945 andermaal interneerden. Na zijn vrijlating richtte hij de Jungdo opnieuw op (1948) en schreef diverse brochures en een boek.25 De doorstane mishandelingen en ontberingen hadden zijn dood op 59-jarige leeftijd voor gevolg; hij werd in maart 1950 in Gütersloh ten grave gedragen. Medestanders onder de leiding van Wolfgang Lohmüller zetten zijn werk voort en tot op dag van heden bestaat een afleggertje van de gewezen Jungdo onder de naam Artur-Mahraun-Gesellschqft e. V.. Maar de naoorlogse situatie valt buiten het bestek van mijn exposé.

***

Er rest me de hamvraag aan te snijden: heeft Joris van Severen invloed van Mahraun, resp. van de Jungdo ondergaan? Bij gebrek aan documentatie en rekening houdende met de mogelijkheid dat in de niet-gepubliceerde dagboeken indicaties te vinden zijn, verklaar ik me onbevoegd om die vraag te beantwoorden. Toch vallen gelijkenissen niet te loochenen, maar of ze ons berechtigen van invloed te gewagen is minder evident. De kunst bestaat er nu in de gedrukte en de ongedrukte documenten te bestuderen. Wanhopen is alleszins uit den boze.

Noten

1 L. Pauwels, De ideologische evolutie van Joris Van Severen (1894-1940). Een hermeneutische benadering, leper: Studie- en Coördinatiecentrum Joris van Severen, 1999, 272 p., ‘Jaarboek 3’; cf. p. 7.

2 L. Pauwels, op. cit. (vt 1), p. 7.

3 Cf. mijn artikel “Heeft Joris van Severen invloed van Georges Sorel ondergaan?”, deze Nieuwsbrief 9e jg., derde trimester 2005, pp. 11-15.

4 J. van Severen, (a) “Om de zege zo stevig mogelijk te consolideren en uit te baten”, De West-Vlaming (Rumbeke), 22 juni 1929, p. 1; (b) “De vooruitgang van onze zienswijze in de provincie Antwerpen. Volk en natie”, De West-Vlaming (Rumbeke), 26 april 1930, p. 2.

5 A. de Bruyne, Joris van Severen. Droom en daad, Zulte: Oranje Uitgaven, 1961, 341 p.; cf. p. 137. De auteur schrijft ‘Arthur’ i.p.v. ‘Artur’.

6 Balder (= Jan Creve), “Arthur Mahraun”, De Vrjjbuiter (Gent), 7e jg nr. 5-6, juli-aug. 1970, pp. 10-14; cf p. 10. Het moet ‘Artur’ i.p.v. ‘Arthur’ zijn. De krant Der Jungdeutsche begon op 1 juni1924 te verschijnen. Dat De Smet in contact stond met Mahraun signaleert ook Luc Vandeweyer (°1956) in de lemmata ‘Jong Vlaamsche Gemeenschap’ en ‘Jong Nederlandsche Gemeenschap, Nieuwe Encyclopedie van de Vlaamse Beweging (Tielt: Lannoo, 1998), deel II = G-Q, pp. 1578 en 1579.

7 M. Cailliau, “Artur Mahraun en de ‘Jungdeutsche Orden’”, Delta (Ekeren), 26e jg = 1990, nr. 4 pp. 4-6, nr. 6 pp. 6-8, nr. 7 pp. 5-9, nr. 8 pp. 8-10; cf. nr. 8 p. 10 vt 2. Deze auteur presenteert een bruikbare synthese van Mahrauns staatsdenken; hij baseert zich op het mij niet ter beschikking staande boekje van Helmut Kalkbrenner: Die Staatslehre Artur Mahrauns, München: Lohmüller, 1986, 64 p.

8 Balder, art. cit. (vt 6), p. Wat Geerardyn betreft, weze opgemerkt dat hij sympathiseerde met De Smet, zodat hij Van Severen inderdaad over de Jungdo kan geïnformeerd hebben.

9 M. Cailliau, art. cit. (vt 7), nr. 4 p. 4. - Zie voorts het door Romain Vanlandschoot (°1933) geschreven lemma “Smet, Robrecht de”, op. cit. (vt 6). deel 3 = R-Z. pp. 2765 -2767: cf. p. 2766: “… [Josu&eaacute;] de Decker [1879-1953] was weinig opgetogen over deze Duitse contacten, maar De Smet zette door en ontmoette in 1926 te Rotterdam een delegatie van deze Orden [sc. de Jungdo].”

10 Het is vreemd dat noch Creve noch Cailliau de in boekvorm ter beschikking staande dissertatie van de (latere hoogleraar) Klaus Hornung gebezigd hebben: Der Jungdeutsche Orden, Düsseldorf: Droste Verlag, 1958, 160 p., nr. 14 in de reeks ‘Beiträge zur Geschichte des Parlamentarismus und der politischen Parteien’. In zijn brief van 27 juni 1960 werd dit opus door Wolfgang Lohmüller geloofd. Uiteraard dient thans rekening gehouden met recenter bronnenmateriaal; cf. b.v. Cl. Wolfschlag, op. cit. (vt 25).

11 Tot mijn spijt stond een naar ik vernam belangrijk opus van Höhn niet te mijner beschikking: Artur Mahraun, der Wegweiser zur Nation. Sein politischer Weg aus seinen Reden und Aufsatzen, Rendsburg: Schieswig-Holsteinische Verlags-Anstalt, 1929, 143 p.

12 In maart 1920 pleegde de bekende marinebrigade Ehrhardt in Berlijn een staatsgreep, waardoor de hogere ambtenaar Wolfgang Kapp (1858-1922) gedurende vijf dagen (!) als rijkskanselier ambteerde. De putsch mislukte wegens een door de syndicaten gedecreteerde algemene staking.

13 KI. Hornung, op. cit. (vt 10), p. 40.

14 E. Schlund, ofm, Der Jungdeutsche Orden, München: Pfeiffer & Co., 1924, 57 p. De brochure is gebaseerd op opstellen die in de Allgemeine Rundschau verschenen waren. - Deze pater bezorgde me destijds een exemplaar van zijn boek Modernes Gottglauben. Das Suchen der Gegenwart nach Gott und Religion, Regensburg: Habbel, z.j. (= 1939), 307 p; het heeft me toen zeer geholpen.

15 (a) Over deze politiek, cf. o.m. K. Hornung, op. cit. (vt 10), pp. 42-50: “Der nationale Friede am Rhein’: Versailles und die Aussenpolitik”. - (b) Over Rechberg, cf. Eberhard von Vietsch (01912), Arnold Rechberg und das Problem der politischen Westorientierung Deutschlands nach dem ersten Weltkrieg, Koblenz: Staatsarchiv, 1958, nr. 4 in de ‘Schriftenreihe des Bundesarchivs’.

16 KI. Homung, op. cit. (vt 10), pp. 43-45.

17 Georges Castellan (°1920), L’Allemagne de Weimar 1918-1933, Parijs: Colin, 1969, 443 p., in de reeks ‘U - série: Histoire contemporaine’; cf. p. 110.

18 A. Mahraun, Das Jungdeutsche Manifest. Volk gegen Kaste und Geld. Sicherung des Friedens durch Neubau des Staates, Berlin: Jungdeutscher Verlag, 1927, 204 p.

19 Ernst Maste, Die Republik der Nachbarn. Die Nachbarschaft und der Staatsgedanke Artur Mahrauns, Giessen: Walitor-Verlag, 1957, 219 p.

20 Kl. Hornung, op. cit. (vt 10), p. 86.

21 Bernhard Jenschke, Zur Kritik der konservativ-revolutionären Ideologie in der Weimarer Republik? Weltanschauung und Politik bei Edgar Julius Jung, München: Beck, 1971, VIII-200 p., nr. 16 in de reeks ‘Münchner Sudien zur Politik’; cf. pp. 136-137. - Er zijn nog andere interessante auteurs die in hun geschriften te rade gingen bij Mahraun, doch het is hier niet de plaats om op die ‘ontleningen’ nader in te gaan.

22 Alexander Kessler, Der Jungdeutsche Orden auf dem Wege zur Deutschen Staatspartei, München: Lohmüller, 1980, 27 p., nr. 7 in de reeks Beiträge zur Geschichte des Jungdeutschen Ordens. Ook A. Mahraun, Die Deutsche Staatspartei. Eine Selbsthilfeorganisation deutschen Staatsbürgertums. Der Grundungsaufruf und das Manifest der Deutschen Staatspartei. Beantwortung gegnerischer Fragen, Berlijn: Jungdeutscher Verlag, 1930, 48 p.

23 Johann Hille, Mahraun. Der Pionier des Arbeitsdienstes, Leipzig: Kittler, 1933, 90 p.

24 Twee voorbeelden die in 1949 in Gütersloh (Nachbarschaftsverlag) verschenen en te mijner beschikking staan: Der Protest des Individuums, 47 p.; Politische Reformation. Vom Werden einer neuen deutschen Ordnung, 216 p.

25 Voorbeelden geeft Claus Wolfschlag (°1966), Hitlers rechte Gegner. Gedanken zum nationalistischen Widerstand, Engerda: Arun-Verlag. 1995. 214 p.: cf. pp. 65-74 (tekst: “Arthur [sic] Mahraun und der ‘Jungdeutsche Orden’”) en pp. 193-195 (78 vt).

 

mercredi, 29 octobre 2008

1933: la radio devient l'instrument privilégié des propagandes

1933 : La radio devient l'instrument privilégié des propagandes

par Jean-Jacques Ledos

trouvé sur: http://www.gavroche.info


(Gavroche n° 129-130, mai-août 2003, p. 30 à 37)



« La propagande est l'ensemble des méthodes utilisées par un groupe organisé en vue de faire participer activement ou passivement à son action, une masse d'individus psychologiquement unifiés par des manipulations psychologiques et encadrés dans une organisation. » Jacques Ellul définissait ainsi le souci, pour un pouvoir, politique ou affairiste, de transmettre des messages ou des opinions à une collectivité que la radiodiffusion permettait d'atteindre immédiatement. La pratique par les pouvoirs développera la tentation d'un usage discrétionnaire, c'est-à-dire unilatéral et progressivement fermé à la discussion ou à la contestation.
Lénine avait été le premier à évaluer le pouvoir de la radio (1). Dans un autre modèle de société, ce sont les entrepreneurs, soucieux de faire connaître leurs produits à un public étendu, qui, les premiers, au début des années 1920, en saisirent l'efficacité pour diffuser la publicité au moment où les stations de radiodiffusion commençaient d'émettre, aux États-Unis, puis en Grande-Bretagne, à destination d'un public global mais indifférencié. Le même projet, en France, était alors combattu par les défenseurs du service public opposés à une démarche purement commerciale (2).

La naissance de la propagande par la radio
À l'occasion de l'élection présidentielle aux États-Unis, en novembre 1920, un journal de Pittsburgh utilisa une station expérimentale (KDKA) pour diffuser la victoire de Warren Harding, avant la presse imprimée. L'exploitation de l'événement a fait oublier l'initiative d'un ingénieur néerlandais qui diffusait déjà depuis un an des programmes musicaux à la Haye (PCCG). En 1924, une chaîne américaine de radio retransmettra la Convention du parti Démocrate mais, d'une manière générale les pouvoirs politiques manifestent de la méfiance à l'égard d'un moyen de communiquer l'information qu'ils ne contrôlent pas encore.

Grande-Bretagne : une royale démocratie
En Grande-Bretagne, le roi George V s'exprime pour la première fois, en 1924, à la BBC, à l'occasion d'une exposition consacrée à l'Empire britannique. Il prendra l'habitude, à partir de 1932, d'adresser ses vœux à ses vingt millions de sujets par ce même canal. Quatre ans plus tard, c'est à la radio que son fils aîné, appelé à lui succéder sous le nom d'Édouard VIII, annoncera qu'il renonce, par amour, à la Couronne. Aussi, et en particulier grâce à ses stations d'ondes courtes, les cérémonies du couronnement de George VI, deuxième fils du défunt George V, auront les honneurs de la jeune télévision anglaise dont c'est le premier grand reportage en direct. Il s'agit d'entretenir la ferveur nationale à l'égard de l'institution monarchique mais la radio est aussi le lien entre le pouvoir central et les territoires éloignés de l'Empire.

Les hésitations françaises
En France, en 1924, le ministre des finances, Étienne Clémentel, qui avait prévu de présenter sur Radio-Paris un projet d'emprunt, en fut empêché par son collègue des PTT. En 1928, Raymond Poincaré interdit toute intervention politique à la radio pendant la campagne électorale. Le premier homme politique à s'adresser aux Français sera, en 1930, André Tardieu, Président du Conseil ouvert à la modernité. Sa présence jugée excessive par ses adversaires politiques lui vaudra le surnom « d'Homme au micro entre les dents » (3). Deux ans plus tard, l'un de ses successeurs, Gaston Doumergue, s'y exprimera régulièrement pour rendre compte de son action.

1933 : les nazis s'emparent de la radio
Le Traité de Versailles, signé à Versailles en 1919, redécoupait l'Europe et imposait à l'Allemagne vaincue une occupation et des limitations de souveraineté qui eut pour effet d'exacerber le sentiment national. Un habile ambitieux, Adolf Hitler, trouva sur ce terrain l'occasion de développer son désir de pouvoir. Dans Mein Kampf publié en 1925, il exploitait ainsi les frustrations de ses compatriotes et développait ses projets de gouvernement. La propagande serait l'instrument privilégié de la réalisation de ces projets grâce un usage à la fois brutal et répétitif de messages dont le livre constitue le catalogue.
La fonction de la propagande y était décrite en termes simplistes et méprisants voire insultants pour ceux auxquels elle était destinée :
« Ne voit-on pas la tâche d'un dirigeant moins dans la conception d'un plan que dans l'art de faire comprendre à un troupeau de moutons à têtes vides, pour mendier ensuite leur bienveillante approbation ? […] La grande masse d'un peuple se soumet toujours à la puissance de la parole. » (chap. III) … « Toute propagande doit être populaire et placer son niveau spirituel dans la limite des facultés d'assimilation du plus borné parmi ceux auxquels elle doit s'adresser. Dans ces conditions, son niveau spirituel doit être situé d'autant plus bas que la masse des hommes à atteindre est plus nombreuse » [La masse] « a toujours besoin, dans sa lourdeur, d'un certain temps pour se trouver prête à prendre connaissance d'une idée, et n'ouvrira sa mémoire qu'après la répétition mille fois renouvelée des notions les plus simples… »[chap. VI].
L'auteur soulignait ailleurs la « bestialité » des masses.

En janvier 1933, les élections législatives ne donnèrent au Parti nazi qu'une majorité relative. C'était suffisant pour que le vieux Maréchal Hindenburg, Président de la République dite de Weimar, désigne comme Chancelier Adolf Hitler qui avait développé depuis dix ans un parti présenté comme national et socialiste, sur les bases d'un mécontentement populaire amplifié par une crise économique sans précédent. Il est alors aisé de désigner dans le gouvernement social-démocrate l'absence d'une volonté clairement exprimée et d'en imputer la responsabilité, d'une manière non démontrée, aux Juifs dont la présence est loin d'être majoritaire dans les instances de pouvoir. La démagogie ne s'est jamais encombrée d'évidences.

Le projet hitlérien peut être résumé selon deux thèmes essentiels: la propagande intensive et l'antisémitisme. Hitler se disait obsédé par la propagande des Alliés, cause essentielle – pour lui – de la défaite allemande pendant la première guerre mondiale. Pour faire passer son message nationaliste et socialiste, Hitler désigne des coupables : les Juifs, dans un pays où l'antisémitisme est récurrent.
Après la parution de Mein Kampf, les thèmes essentiels seront constamment répétés, parfois édulcorés, dans les assemblées du parti national-socialiste (NSADP ).
Le projet des nazis, dans lequel le cynisme l'emporte sur le simplisme, trouvera son application dans le déploiement d'une propagande qu'on dirait aujourd'hui « multimédia » parmi lesquels la radio va occuper une place essentielle.

L'Allemagne disposait déjà, avant la première guerre mondiale, de puissantes stations radiotélégraphiques intercontinentales. Elle poursuivit, après sa défaite, son équipement dans le domaine de la radiophonie qui permettait de diffuser des messages au plus grand nombre. L'exploitation pratique : puissance des émetteurs, équipement des foyers, était affaire de moyens. Les pays à l'économie la plus avancée s'employèrent à les développer.
Dans le gouvernement du IIIe Reich, l'organisation de la propagande sera confiée à Josef Gœbbels qui, depuis plusieurs années, a déjà désigné à destination d'une opinion inquiète les cibles responsables de tous les désordres, les Juifs et les communistes. Un auteur allemand l'a désigné comme le « cerveau de cette manipulation des âmes » n'hésitant pas à reconnaître en lui l'un des rares hommes intéressants du Troisième Reich. Il s'y révélera comme un maître de la haine dans la pratique du pouvoir exercée dans le mépris des autres.

La radio, dont le réseau couvre déjà la totalité du territoire allemand, Prusse orientale comprise, s'impose comme un moyen de communication de masse que le pouvoir nazi va investir en priorité. Elle est au cœur du dispositif de propagande préparé par Goebbels, organisateur de la propagande du Parti. On sait que les émissions peuvent être reçues sans qu'une dépense importante soit imposée aux auditeurs. La fabrication et la commercialisation à faible prix d'un récepteur populaire (Volksempfänger) favorisera bientôt l'équipement des foyers. Son utilisation discrétionnaire s'inscrit dans une pratique totalitaire entretenue par une propagande constante puis par la terreur. Les élites bourgeoises de la nation ont déjà adhéré au projet d'un rétablissement des valeurs de la nation et de l'ordre. Elles soutiennent un projet qui préserve leurs intérêts et rétablit leur pouvoir sur la sphère économique.

La radio est développée comme un moyen de démocratie directe mais unilatérale. Le Führer s'adresse sans intermédiaire au peuple dont les contestations ne sont pas admises à l'antenne.
Le 1er février, au lendemain de sa désignation comme Chancelier, Hitler prononce sa première déclaration, Aufruf an das deutsche Volk (Proclamation au peuple allemand) à la radio et non devant le Reichstag, comme la tradition et la courtoisie parlementaires l'avaient établi.
Quelques mois plus tard, dans un discours prononcé à Berlin à l'occasion de l'inauguration, en août, de l'exposition annuelle de la radio, Gœbbels désignera la radio comme le « huitième pouvoir ».

Le nouveau directeur de la radio, Eugen Hadamovsky, doit sa nomination à un militantisme récent mais actif au service du Parti nazi plutôt qu'à une expérience acquise dans le domaine de la radiophonie. Il a organisé la diffusion radiophonique des réunions électorales de Hitler. Il est un de ces « hommes nouveaux » qui doivent « bannir toutes les conceptions anciennes de la radio qui doit devenir cent pour cent nationale-socialiste, de manière à ce qu'elle serve à imprégner entièrement la nation de l'esprit nouveau. » Dès l'installation du Führer à la Chancellerie, il publie les « Directives officielles pour les émissions de la Radiodiffusion allemande ».
Il expose également son projet d'une radio mise au service du Parti : « Ein Volk! Ein Reich! Ein Rundfunk! (4) » dans Propaganda und nationale Macht (Propagande et pouvoir national) : il associe habilement à l'encadrement des représentants sélectionnés des auditeurs «…Cette corporation doit englober la radiodiffusion dans sa totalité ; elle sera alors le plus fort élément pour la formation de la volonté nationale. » C'est aussi une mise en pratique d'une propagande active et non plus seulement passive telle que Goebbels l'esquissait en mars : « Nous avons créé un ministère de l'Éducation populaire et de la Propagande. Ces deux titres ne signifient pas la même chose. L'éducation populaire est essentiellement quelque chose de passif ; la propagande, elle, est quelque chose d'actif… »

La parole nazie comme la retransmission des premières grandes manifestations du Parti sont quotidiennement présentes sur les ondes voire diffusées plusieurs fois. « Les nazis ont su utiliser l'incertitude et la paresse [de l'opinion] face aux situations complexes et aux problèmes apparemment insolubles. Le vide se fait alors dans l'opinion publique. On le comble par ces succédanés que sont les slogans dont on martèle inlassablement les esprits. »
Le contenu des programmes quotidiens d'information est décidé au ministère de la Propagande. La vérité officielle est encadrée de telle manière que le recours aux procédés habituels de la désinformation – vérités partielles, omission, comparaisons douteuses – est inutile.

Une émission régulière, L'heure de la nation, doit développer le sentiment patriotique par « des chants, discours ou conférences, évocation des épisodes glorieux du passé ». Les programmes exaltant la valeur militaire se multiplient dans le cadre d'un mouvement de « régénération ».
Désormais les manifestations de masse mises en scène par le ministère de Gœbbels sont retransmises. Elles doivent entretenir le sentiment de cohésion nationale qui est l'un des thèmes essentiels de la propagande. Lorsque les grands rassemblements hitlériens seront diffusés, il sera recommandé aux possesseurs de poste d'ouvrir leurs fenêtres et de pousser le niveau sonore d'écoute afin que les voisins ou les promeneurs puissent entendre la voix du Führer. L'écoute de la radio devient un devoir civique. Pour unifier la diffusion, une coordination associe trois stations qui disposaient précédemment d'une certaine indépendance, Cologne, Francfort-sur-le-Main et Stuttgart.

La radio sera aussi un instrument de propagande sinon une arme vers l'étranger. « La radio ne reconnaît pas les frontières créées par la Nature ou par l'Homme. Elle s'insinue dans le territoire des autres peuples » déclarera un dignitaire nazi. Les pays de culture germanique sont visés en premier lieu ainsi que l'affirmera l'un des reponsables : « Nos émissions s'adressent à tous les peuples de langue et de culture allemande où qu'ils soient… »
Dès le 18 mars 1933, une personnalité nazie a adressé par la radio un salut aux « camarades » autrichiens. Les émissions de propagande seront ensuite relayées à Vienne où la police découvre un émetteur clandestin exploité par des nazis autrichiens. En 1938, la radio coordonnera les opérations d'occupation de l'Autriche (Anschluss).

En 1934, une campagne ardente a été dirigée vers le Territoire de la Sarre qui doit se prononcer par référendum sur le rattachement ou non au IIIe Reich. C'est de ce territoire réintégré en 1935 dans le Vaterland que le gouvernement nazi lancera en direction de l'Alsace et de la Lorraine une campagne plus perfide au moyen d'émissions dramatiques, Hörspiele, dans lesquelles les auteurs rappelaient la (pseudo)-« germanité » historique des deux provinces de l'Est français. Deux magazines, l'un, quotidien, Echo de la frontière, l'autre, hebdomadaire, Programme alsacien, constituent l'ordinaire de la propagande.
Après quelques années de pratique, un bilan d'étape établira que « la radio a été complètement politisée et est devenue la voix de la nation ». «C'est la plus moderne, la plus puissante et la plus révolutionnaire arme que nous possédions pour combattre un monde ancien et fini… »

L'Italie fasciste
Benito Mussolini gouverne l'Italie depuis octobre 1922 avec le soutien du Parti national fasciste (Partito Nazionale Fascista, fort de plus de 300 000 adhérents à la fin de 1921). Le Duce a conquis le pouvoir contre un régime démocratique dépourvu d'autorité face aux désordres. La parole démagogique séduit d'emblée par un emprunt provisoire au discours socialiste dont elle dénonce, par ailleurs, l'avatar révolutionnaire circonstanciel. Toutefois, le fascisme ne dispose pas d'un corpus doctrinal ni de partisans nombreux comme le NSDAP hitlérien (5).

Un Service de Presse (Uffizio Stampa) a été créé dès 1922. C'est l'organe de la propagande du gouvernement. La prise de contrôle des moyens d'informations sera plus lente qu'en Allemagne mais stimulée par le modèle nazi à partir de 1933.
Au début des années 30, l'Italie, qui compte à peine 40 millions d'habitants, est un pays en retard de développement. La radiodiffusion, en particulier, ne couvre pas encore l'ensemble du territoire. On compte environ 300 000 postes récepteurs pour une population d'environ 41 millions d'habitants, soit 7,3 postes pour 1 000 habitants. Pour compenser une production insuffisante de l'industrie radioélectrique, l'Italie importe les récepteurs populaires Volksempfänger que l'Allemagne nazie a commencé de fabriquer.

Divers observateurs, italiens et étrangers, s'accordent pour reconnaître que le régime de Mussolini n'a guère utilisé la radio comme instrument de propagande, avant 1930 : « Pendant quelques années, l'Eiar ne fut pas un domaine relevant de l'action de propagande fasciste […] Le gouvernement se contentait de contrôler la radio comme l'une des activités du pays parmi d'autres. »
Le régime fasciste n'en a pas moins encadré la jeune radio. Des fidèles, des proches, mais aussi des représentants de l'industrie électrique ont ainsi été placés aux postes de responsabilité. Ces derniers se sont engagés derrière le Duce dont le programme politique et les méthodes de gouvernement conviennent à leurs intérêts. À la fin des années 20, leur présence fait presque oublier la finalité de la radiodiffusion. Le directeur de l'EIAR, Arnaldo Mussolini, rend public un programme riche de bonnes intentions: « À partir d'aujourd'hui, l'Eiar place dans son vaste programme un nouvel élément qui pourra avoir une grande efficacité dans les domaine de l'idéal et de la morale […] Nous sommes persuadés que la radio-diffusion – cette nouvelle chaire qui vient se placer entre l'école et le journal – et qui va connaître un développement rapide – peut donner des résultats de grande valeur dans la culture, les missions d'éducation, afin d'élever […] en chacun la vie de l'intelligence et de l'esprit (6) »

Le discours sera tout à fait différent lorsque le Duce haranguera les foules depuis le balcon du Palais de Venise (Piazza Venezia, à Rome). On imagine l'impact qu'aurait eue la télévision chargée de retransmettre les gesticulations et les mouvements de menton. Mussolini avait, comme tout dictateur, le sens des effets visuels. À l'époque, seul le micro pouvait répercuter dans une rhétorique caricaturale réduite à de courtes phrases un discours qui exprimait en quelques idées simples mais démagogiques les menaces proférées envers les adversaires ou les ennemis, l'exaltation d'un nationalisme primaire qui séduit les masses.
Des chroniques ciblées seront bientôt diffusées, à destination de la jeunesse, des paysans, des ouvriers et plus généralement des citoyens. Leur titre révèle les objectifs du régime : Dalla civiltà liberale a la civilta facista in Chronache del regime (De la civilisation libérale à la civilisation fasciste, « Programme national », 23 septembre 1936), Politica colonizzatrice del regime (Politique colonisatrice du régime) in Cronache dell'agricolture (28 janvier 1939), Motivi essenziali della difesa della razza (Motifs essentiels de la défense de la race , « Programme national », 22 janvier 1940).

Le régime fasciste est soucieux de faire passer son message politique mais surtout d'imposer une pratique gouvernementale. L'écoute de la radio est un devoir civique, comme en d'autres régimes totalitaires. La radio que Marinetti a désignée comme la « parole électrique » doit former la nouvelle conscience politique. En novembre 1933, une émission de commentaires d'actualité trouve sa place dans les programmes : Cronache del regime ( « Chroniques du régime »)
L'information est, bien entendu, sous le contrôle étroit du pouvoir fasciste. Chaque jour, les stations doivent consacrer deux heures aux communications du gouvernement qui peut aussi intervenir par nécessité. Les interventions sur des sujets politiques, économiques ou financiers sont soumises à autorisation. Le régime a le souci de faire passer son message et sa volonté au plus grand nombre des italiens et, plus tard, aux voisins ou aux colonisés.

Mussolini soulevait l'enthousiasme des foules rassemblées Piazza Venezia, à Rome lorsqu'il annonçait une « Italie fasciste et impériale… » (7). Le projet colonial a l'Éthiopie pour cible. Suivant encore le modèle d'un Reich expansionniste, le Duce occupera l'Albanie en 1939. La propagande radiophonique a préparé l'opinion des pays concernés. C'est la mission de Radio Bari, installée en 1932 sur la côte orientale de l'Italie méridionale. Elle diffuse à partir d'août 1933 un programme d'information en albanais, Gazeta Shqipetare, soutenu par la Chambre de commerce italo-orientale. L'année suivante, la station sera la première, dans le bassin méditerranéen, à émettre en langue arabe à destination de l'Afrique du nord.

Afin d'entretenir le nationalisme, associé dans la conscience itailenne à la primauté de la Ville éternelle, comme centre mondial de la chrétienté, la radio diffuse de nombreuses causeries religieuses. Le pape Pie XI s'est exprimé sur les ondes pour la première fois en 1931. Le Saint-Siège, dont la station radiophonique a été inaugurée en 1931, en developpe les moyens d'émission afin d'assurer la diffusion universelle de sa mission.
Le 1er avril, le début de « l'Année sainte » (d'une durée de six mois) est l'occasion d'une diffusion en plusieurs langues – italien, anglais, français – par un émetteur en ondes courtes inauguré deux mois plus tôt. En juin, la visite d'une délégation de catholiques chinois est l'occasion pour le pape Pie XI de s'adresser à une communauté lointaine.

Espagne : la radio déstabilise la République
La Constitution adoptée en 1931 a mis en place à Madrid un gouvernement républicain. L'événement a été annoncé par la station Unión Madrid de Barcelone. Ce gouvernement de gauche affronte une opposition de droite qu'il tente de contenir par des mesures maladroites de ses responsables. En août 1932, l'un de deux-ci, le général Sanjurjo, tente de soulever ses partisans par un appel à l'insurrection depuis la station de Séville. Sans succès mais quatre ans plus tard, un autre général, Franco, lance un appel radiodiffusé depuis l'une des îles Canaries. C'est le « Manifeste de Las Palmas », première étape d'une conquête qui s'achèvera 7 ans plus tard par l'établissement de la dictature.

États-Unis : un discours « démocrate »
Franklin Delano Roosevelt est élu en novembre 1932 au moment où la dépression engendrée par le crack boursier de 1929 est à son maximum. Son premier souci est de rétablir la confiance, puits de dynamisme des entreprises, du commerce et des consommateurs. La première urgence est de réduire le nombre des chômeurs.
Il a évalué le profit politique de l'usage de la radio à l'occasion de la campagne électorale de 1928 en soutenant la candidature d'Al Smith (battu par le républicain Herbert Hoover) : « J'ai tenté l'expérience d'écrire et de prononcer mon discours pour le seul bénéfice de l'auditoire radiophonique et pour la presse plutôt que pour l'effet qu'il pourrait avoir sur les délégués à la convention… » (8) Élu Gouverneur de l'État de New York, Roosevelt s'adressera à ses concitoyens par l'intermédiaire des stations locales.

Roosevelt installé dans ses nouvelles fonctions le 4 mars 1933 choisit de rendre compte directement à ses concitoyens. En décembre 1932, le réseau NBC a offert au nouveau Président la possibilité de s'exprimer chaque semaine, s'il le souhaite, pendant un quart d'heure. La première intervention est diffusée depuis la Maison Blanche, le 12 mars à 22 heures. Elle a pour objet de redonner confiance aux Américains dans leur système bancaire en leur expliquant sa nécessité et son fonctionnement : « J'ai conscience que les nombreuses déclarations des assemblées des États ou de Washington, la législation, les règlementations du Trésor exprimées le plus souvent en langage bancaire ou législatif doivent être expliquées au citoyen moyen… »
« Différant par le ton des émissions de Hitler et de Mussolini, qui étaient reçues par le public sur un fond de foules hystériques, les causeries de Roosevelt ressemblaient à un échange d'idées dans une sorte de conseil de famille. » En renouvelant la forme de la communication politique, le Président rend compte avec pédagogie des premières décisions qu'il a déjà prises. C'est un succès. un demi-million de lettres parviennent à la Maison Blanche au cours de la semaine suivante. Marshall Mc Luhan dira plus tard que cette nouveauté médiatique avait « forgé une nouvelle unité tribale… ».
C'est le début de la « démocratie directe ». Au moment où il prenait l'habitude de s'adresser directement au pays, Hitler lui rendait cet hommage : « J'ai de la sympathie pour Mr Roosevelt, parce qu'il va droit à son but par-dessus le Congrès, les lobbies et la démocratie… »

Dans une nouvelle intervention, deux mois plus tard, le 7 mai, le Président esquisse une personnalisation du pouvoir que l'urgence des décisions à prendre impose, de son point de vue. Une sorte d'économie organisée est engagée : « La législation adoptée ou en cours de promulgation peut-être vraiment considérée comme la partie d'un plan bien établi… » Dans le cadre de cette nouvelle volonté, les grandes lignes de ce que l'on connaît comme le New Deal sont exposées : « Nous allons demander au Congrès des lois qui permettent au Gouvernement de soutenir des travaux d'intérêt collectif afin de stimuler l'emploi, directement et indirectement. »
Des programmes de soutien au monde agricole (Farm Relief Bill), d'augmentation des salaires ouvriers (a more fair wage return), de limitation de la durée du travail et de la surproduction sont annoncés. Une réorganisation des transports ferroviaires sera envisagée avec l'assistance du Gouvernement mais le Président se défend du soupçon d'interventionnisme : « On aurait grand tort de considérer les mesures que nous avons prises dans le domaine agricole, l'industrie et les transports comme un contrôle gouvernemental. Il s'agit plutôt d'un partenariat, non dans le domaine des profits qui sont réservés aux citoyens, mais plutôt un partenariat dans la programmation et dans la surveillance de son exécution. »

La propagande de guerre
Le Front populaire, en France, n'a pas su – ou voulu – utiliser à son profit la radio dont le socialisme révolutionnaire avait la charge. Un ministre de la propagande, Ludovic-Oscar Frossard, figure pour la première fois sous ce titre dans le deuxième cabinet Blum (mars-avril 1938). En 1939, le gouvernement Daladier confie l'organisation des contenus de l'information radiodiffusée dans une situation de guerre à un jeune écrivain, Paul Vialar qui suggère de confisquer les postes récepteurs pour limiter les effets de la propagande allemande. En 1940, un Haut-commissariat à l'information sera institué et confié à un écrivain illustre, Jean Giraudoux.

À partir de 1933, les stations allemandes ne se contentent plus de diffuser la propagande nazie à usage interne. L'expansionnisme du IIIe Reich utilise ses émetteurs frontaliers pour préparer certains de ses voisins à une guerre de conquête. La station de Stuttgart diffuse en français les interventions pro-nazies de Gabriel Ferdonnet. Correspondant à Berlin de divers journaux depuis 1927, il sera connu, en France, comme le « traître de Stuttgart » pour avoir rédigé les textes de propagande nazie que lisait un speaker sur l'antenne de cette station. Il sera condamné à mort, pour collaboration, par un tribunal français, en 1945.
Depuis 1936, le gouvernement français a mis en place, discrètement, des contre-feux à l'initiative de deux germanophones, Pierre Berteaux et Pascal Copeau dont les émissions sont, depuis Strasbourg, une réponse à celles de Ferdonnet (9). Leur programme doit contrer l'intense propagande nazie.

Les Anglais reçoivent de Hambourg ou de Berlin les harangues d'un américain converti au nazisme, Lord Haw-Haw (William Joyce). La propagande nazie diffuse également depuis le Luxembourg un programme dont le titre Radio-Humanité tente de tromper l'auditoire communiste. Pendant les années de guerre, la BBC organisera la réponse en utilisant les services d'un journaliste également germanophone, Sefton Demler, présenté sous le pseudonyme de Gustav Siegfried Eins. Les Soviétiques, de leur côté, ne manquent pas d'entretenir l'ardeur des anti-nazis en Allemagne.

La déclaration de guerre en 1939 a pour cause immédiate l'invasion de la Pologne par les armées allemandes, le 1er septembre. Une fausse information est à l'origine de cette intervention. Le 31 août, des hommes de main nazis ont investi le studio d'une petite station, Glivice, proche de l'émetteur de Katowice, en Silésie, à proximité de la frontière avec la Tchécoslovaquie, pour diffuser une proclamation anti-allemande qui ne sera pas transmise mais néanmoins relayée par les grandes stations du Reich et dénoncée comme une provocation qui justifie l'attaque de la Pologne.
C'est le début d'une guerre mondialisée pendant laquelle la radio tiendra un rôle essentiel d'information, de désinformation et de contre-désinformation.

La guerre des ondes
Le Maréchal Pétain, Président du Conseil – le dernier de la IIIe République – désigné le 16 juillet 1940 par le Président de la République Albert Lebrun, s'adresse le lendemain à la nation, par la radio, depuis Bordeaux. Il y prononce la fameuse phrase : « je fais à la France le don de ma personne pour atténuer ses malheurs… »
Il n'est pas illogique que chacun des pays engagés dans la guerre diffuse les informations qui servent sa cause nationale. Ce souci sera, à l'occasion, étendu à la necessité de persuader l'auditoire de l'excellence de son action par une propagande dont le monopole ou le champ de diffusion assureront le succès.

Être réellement informé sera, dès lors, affaire de foi ou seulement de crédulité, mais sûrement une question de patience à la recherche de messages venus de loin ou cryptés par un brouillage.
Les émissions de la France Libre, transmises de Londres par la BBC, sont à cet égard exemplaires. L'appel du général de Gaulle, le 18 juin 1940, a été peu entendu. Les rendez-vous répétés que l'équipe française de Londres entretiendra chez les Français au cours des années suivantes entretiendront l'esprit de résistance qui conduira à la défaite du Reich.

La ligne de démarcation entre la zone sud et la zone nord inclut l'un des deux puissants émetteurs en ondes longues d'Allouis, inauguré en 1939. Il sera affecté à partir de 1941 à la diffusion de programmes à destination des pays occupés. Le second émetteur sera utilisé au brouillage des émissions de la BBC. Deux émetteurs diffusent vers l'Angleterre des émissions de propagande habilement noyée dans une programmation où domine la musique de jazz. Certains auditeurs se souviennent de l'annonce : « Hier spricht Calais ! » (Ici Calais).

De la victoire des alliés à la guerre froide
L'armistice de mai 1945, s'il met fin aux combats, introduit l'opposition entre deux modèles de société, le capitalisme et le collectivisme. Chacune des options aura, pendant près de quatre décennies, le souci de persuader l'opinion de sa supériorité. La radio en sera l'instrument.
L'URSS, dans la tradition de la Révolution d'octobre, a développé très tôt les moyens de diffuser l'idéologie communiste dans des programmes émis dans de nombreuses langues. L'émetteur en grandes ondes de Moscou, Radio-Komintern, a été inauguré en 1927. (10)

Après la fin de la deuxième guerre mondiale, les États-Unis ont entretenu et développé les stations que leur logistique avait apportées au profit des armées en campagne pour la libération de l'Europe tel l'AFN – American Forces Network – qui s'installera durablement en Europe pour opposer un modèle à l'autre, communiste. D'autres le complèteront, VOA – Voice of America –, Radio Free Europe et Radio Liberty. À Berlin, les Américains installent une puissante station, RIAS – Radio in American Sektor – émettant en allemand et en anglais. Les programmes, composés de musique de variétés et de jazz, sont attractifs pour les auditeurs des deux Allemagnes (et au-delà…). Ils fournissent au bloc de l'Est les informations dont les populations sont privées. L'écoute de ces stations peut difficilement être interdite quelle que soit la dissuasion tentée par les gouvernements qui la dénoncent comme « crime idéologique ». On n'est pas, alors, avare d'emphase.

Les pays sous obédience communiste ont, de leur côté, installé de nombreuses stations qui diffusent leur propagande. Elle a peu d'effet en Europe, sinon à l'égard des militants crédules. Elle est mieux accueillie par le petit nombre des auditeurs du Tiers Monde qui y trouvent l'encouragement à un changement de nature révolutionnaire.
« En 1948, une enquête de la BBC montrait que les principales émissions internationales provenaient dans l'ordre de leur importance, de : la Grande-Bretagne, les États-Unis, la Russie, la France, l'Australie, la Hollande, la Belgique, le Canada, la Yougoslavie, la Tchécoslovaquie, l'Italie, l'Espagne, le Portugal, la Roumanie, la Turquie, la Bulgarie, la Pologne, l'Albanie. » (11)
À partir de 1950, la Chine populaire aura le souci de brouiller les émissions du camp adverse. Son activité de propagande internationale réjouira, davantage peut-être, les amateurs à la recherche d'une écoute lointaine sur les ondes courtes que les militants maoïstes !
En Amérique centrale, Che Guevara soulignera dès 1959, le rôle mobilisateur de la radio.

La Conférence de Bandoung qui a réuni, en 1955, les pays dit « non-alignés » parce qu'ils ne se réclament d'aucun des deux blocs – capitaliste ou communiste – développe leur souci d'affranchissement à l'égard des puissances anciennement coloniales qui ont conservé des liens économiques dominants. Le Caire, où le général Nasser a renversé la monarchie égyptienne en 1952, devient le centre de ces mouvements indépendantistes. La radio est un instrument essentiel des mouvements de libération. La station à vocation internationale La voix des Arabes est inaugurée en juillet 1953. Elle diffuse des programmes en cinq langues (arabe, anglais, français, grec, italien). En 1960, on en comptera 22, plus que la France n'en diffuse (19) .

Dans la plupart des pays européens, la radio est exploitée par le secteur public qui les préserve alors d'une autre propagande envahissante, la publicité. Le renouveau libéral, à partir des années 70, a fait disparaître ces obstacles à la liberté d'entreprendre… ou de manipuler les consciences. La publicité qui a envahi les « grilles » de programmes est une forme de propagande dont les bonnes intentions restent à démontrer.

La radio bousculée par l'arrivée de la télévision : prééminence de l'image
On peut tenter d'évaluer l'impact des propagandes totalitaires des années 30, si leurs opérateurs avaient disposé de la transmission de l'image et surtout de l'intervention sur les images.
À la veille de la Deuxième Guerre mondiale, la télévision promet de contribuer à la vérité de l'information grâce à la réalité des images diffusées en direct. La transmission du couronnement du roi d'Angleterre, George VI, en 1937 est une mise en scène élaborée entre le protocole de la monarchie et les exigences des techniciens. Elle indique déjà que le reportage peut être mis en scène.

Le nouveau média se développera dans le grand public en Europe à partir des années 50 dans des institutions de service public qui laissent aux majorités de gouvernement le contrôle des programmes. La continuité de la diffusion en direct laisse (théoriquement) peu d'opportunité de dissimulation de l'événement. Seule la présence d'esprit de celui qui choisit les images à transmettre peut occulter certains épisodes. On doit à cette réaction immédiate des opérateurs de n'avoir jamais vu le général de Gaulle, affligé d'une mauvaise vue, trébucher en descendant d'une estrade. En revanche, voir Khrouchtchev frapper le pupitre de l'ONU de son soulier est un événement médiatique spectaculaire sinon diplomatique.

L'enregistrement magnétique à partir de 1960, puis, une décennie plus tard, les moyens d'intervention a posteriori – montage et effets spéciaux (trucages électroniques et post-production) – permettront la diffusion de contenus satisfaisants pour les pouvoirs, politique puis affairiste lorsque la publicité imposera les contraintes de l'entrepreneur commanditaire.
Depuis les dernières années du vingtième siècle, le développement des images virtuelles permet de créer des images dont la conformité ne cessera de se distancier par rapport à la réalité.
Jean-Jacques Ledos


1. Voir « La radio en U.R.S.S. » in Gavroche n° 61, janver-févier. 1992)
2. Nikola Tesla, un grand savant injustement ignoré dans la galerie des célébrités qui ont développé la radio, avait projeté de construire, en 1900, sur la côte est des États-Unis une station de diffusion mondiale.
3. Détournement de « l'homme au couteau entre les dents ».
4. « Un peuple, un Reich, une Radio ! » sur le modèle de « Ein Volk! Ein Reich! Ein Führer »
5. Selon Hannah Arendt, Mussolini « qui aimait tant l'expression d'"État totalitaire", n'essaya pas d'établir un régime complètement totalitaire et se contenta de la dictature et du parti unique. »
6. Mussolini Arnaldo: Gli eroi della volontà (Les héros de de la volonté). Déclaration sur Radio-Milan le 6 février 1930.
7. « Una ora solenne ha scocàtta per l'Italia fascista e impériale… » depuis le balcon d'où jadis Laetizia Bonaparte assistait au triomphe de son fils Napoléon.
8. Déclaration à Walter Lippmann, citée par André Kaspi in Frankin Roosevelt (Fayard, 1988).
9. « Un Allemand hitlérien, speaker à la Radiodiffusion française (1937-1940) » in Gavroche n° 57/58 (Mai-août 1991).
10. « La radio en URSS » in Gavroche n° 61, janv.-fév. 1992.
11. Fouad Benhalla : « La guerre radiophonique » (Revue Politique et Parlementaire, 1984).

samedi, 25 octobre 2008

Flavius Claudius Julianus

Flavius Claudius Iulianus

invia
Luigi Carlo Schiavone (ex: http://www.rinascita.info) stampa
Flavius Claudius Iulianus

La storiografia cattolica non ha mai mancato, nel corso dei secoli, di trattare con dileggio personaggi dall’elevato significato storico, rei solamente di non essersi piegati alla regola temporale e spirituale originata dal soglio di Pietro. Tra le vittime, tra i vari “anticristi” illustri, riconosciuti da quella che Benito Mussolini considerava una setta orientale che aveva avuto la fortuna di assurgere a religione universale solo dopo essersi impiantata a Roma, ricordiamo Flavius Claudius Iulianus assurto alla dignità imperiale nel novembre del 361 d.C.
Ultimo guardiano della tradizione pagana, che fu nerbo dell’istituzione politica dell’Impero romano nel periodo di suo massimo splendore, Giuliano, che noi preferiamo ricordare come “il Filosofo” e retto amministratore anziché come “l’Apostata”, divenne, per gli storici cristiani, la perfetta incarnazione del male e presentato, per tutto il medioevo, come il persecutore di cristiani. Tale affermazione, però, rappresenta già una prima forzatura visto che la visione pagana posta da Giuliano alla base del suo regno fu garanzia di rispetto per tutti i culti presenti nell’Impero al contrario del cristianesimo, che divenne religione di stato con Costantino I, aspramente criticato dall’Imperatore-filosofo attraverso le sue opere.
L’esistenza terrena di Giuliano ebbe inizio nel 331 d.C. a Costantinopoli. Figlio di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino, scampò, grazie alla giovane età, alle epurazioni attuate, alla morte di Costantino, dai figli Costantino II, Costanzo II e Costante che, divenuti imperatori nel 337 d.C., diedero vita a tali misure al fine di estirpare ogni residuo della discendenza di Teodora. Morto Giulio Costanzo, quindi, per i figli Giuliano e Gallo si aprì la strada dell’esilio; per una sottile ironia della sorte e a causa degli obblighi imposti dal rango, il futuro Apostata, in esilio a Nicomedia, fu affidato alle cure del vescovo Eusebio. Qui, il futuro Imperatore conobbe Mardonio, tutore di sua madre Basilina, che, seppur cristiano, adorava la letteratura classica. Nicomedia, tuttavia, risultò essere solo l’inizio del pellegrinaggio del giovane Giuliano; nel 342 d.C., infatti, egli venne trasferito a Macellumm, in Cappadocia, per essere posto sotto la tutela del vescovo di Cesarea, Giorgio. Da Macellum, e dalla biblioteca zeppa di testi neoplatonici del vescovo Giorgio, Giuliano andò via solo nel 348 d.C., anno in cui, col termine dell’esilio, fece ritorno a Costantinopoli. Qui, sotto la supervisione di due maestri, Nicola, pagano, ed Eusebio, cristiano che si convertì al paganesimo nel momento dell’ascesa dell’imperatore salvo far ritorno alla “casa madre” dopo la dipartita dell’allievo, l’ormai sedicenne Giuliano continuò i suoi studi. Il comportamento tenuto da Giuliano a Costantinopoli, però, non risultò gradito alla corte imperiale, che, insospettita dai suoi atteggiamenti, si espresse nuovamente a favore dell’esilio. Tornato a Nicomedia, come molti anni prima, Giuliano fece la conoscenza del filosofo neoplatonico Libanio. A Pergamo, tappa successiva del suo vagare, fu allievo di Edesio, successore di Giamblico alla guida della scuola neoplatonica. Tappa finale del suo pellegrinaggio fu, infine, Efeso dove, in qualità di allievo del filosofo e teurgo Massimo, venne iniziato ai misteri del Dio Mithra.
Una nuova fase della vita di Giuliano stava per avere inizio. Nel 354 d.C., infatti, il fratello Gallo, Cesare d’Oriente dal 348 d.C., venne accusato di cospirazione e giustiziato a Milano; l’imperatore Costanzo II, inoltre, nutrendo sospetti anche su Giuliano decise di imprigionarlo a Como. Liberato per intercessione dell’imperatrice Eusebia, Giuliano conobbe nuovamente il carcere in quanto accusato d’aver ordito un complotto in combutta con il Comandante delle Gallie, Silvano.
Grazie ad una nuova intercessione dell’Imperatrice Eusebia, tuttavia, nella primavera del 355 Giuliano fu di nuovo scarcerato. I favori dell’Imperatrice, però, non erano destinati ad esaurirsi con quest’ultimo atto; fu proprio Eusebia, infatti, a caldeggiare presso l’Imperatore, nel’autunno del 355 d.C., la nomina di Giuliano a Cesare delle Gallie. Questo titolo era sì carico di onori, ma non esente da oneri, visto che a Giuliano ora toccava l’ingrato compito di difendere un territorio costantemente in subbuglio a causa dei continui attacchi degli Alamanni. Non vi era, quindi, redenzione in Costanzo II, ma solo la volontà di veder perire in una impresa difficile un potenziale concorrente verso il quale i sospetti non si erano mai attenuati. Tale ipotesi può trovare facile conferma nel fatto che a Giuliano venne concesso di condurre in Gallia solo quattro collaboratori fidati (tra cui il medico Oribasio, autore, tra l’altro, di un’importante Enciclopedia medica), mentre il resto del seguito del nuovo Cesare era composto da elementi al soldo di Costanzo II col compito di “monitorare” l’attività di Giuliano.
I nemici di Giuliano, tuttavia, s’annidavano anche in settori differenti dalla sua corte; basti pensare che, nel 356 d.C., all’inizio dell’offensiva contro gli Alamanni, Marcello, comandante militare della Gallia fedele a Costanzo II, decise di dare inizio alla riconquista di Colonia informandone Giuliano solo dopo che le sue truppe s’erano messe in marcia. Ma il Cesare delle Gallie decise di non perdersi d’animo e dimostrare di che pasta era fatto; nei pressi di Augustodunum (odierna Autun), infatti, coadiuvato solo da poche centinaia di cavalieri, decise di attaccare le armate germaniche. Una vittoria, questa, che gli consentì d’essere ammesso da Marcello nel suo comando. Nonostante ciò, i dissidi tra i due erano lungi dall’essere appianati. Il dissapore di Marcello verso Giuliano, infatti, divenne palese durante l’assedio di Senonae (odierna Sens). Giuliano, in forte inferiorità numerica, dovette tener testa ad un esercito germanico più numeroso e molto determinato; Marcello, stanziato con le sue forze nelle vicinanze della battaglia decise di non intervenire covando la segreta speranza che Giuliano fallisse. Marcello pagò cara questa sua defezione e venne destituito dal comando, che fu affidato a Severo.
Nel 357 d.C. ad Argentoratum (odierna Strasburgo) si tenne la prima delle battaglie volta a minare definitivamente le speranze germaniche sulla conquista della Gallia. Forte solo di tredicimila uomini contro le molte migliaia di avversari, Giuliano decimò le armate degli Alamanni ed imprigionò il loro Re. Altri tentativi di attaccare la Gallia vi furono negli anni successivi ma sia i Franchi (358) che gli Alamanni (360) vennero fiaccati nelle loro volontà di conquista.
Il periodo che seguì fu, per la Gallia, prospero e felice; Giuliano, insediatosi a Lutetia Parisorium (odierna Parigi) attuò una serie di manovre volte a ridurre la pressione fiscale. Non mancò, inoltre, di perseguire, efficacemente, la corruzione serpeggiante tra i ranghi dei funzionari imperiali.
I suoi successi, però, suscitarono, ben presto, le invidie di Costanzo II. Queste, legate anche a probabili volontà espansionistiche, furono le ragioni che si trovano alla base dell’ordine emesso dall’Imperatore nel gennaio del 360 d.C. in cui chiede, al Cesare delle Gallie, di stanziare metà delle sue truppe, volte a salvaguardare il confine da nuovi attacchi germanici, in Siria da cui avrebbe avuto inizio l’attacco contro la Persia. Tale ordine, però, fu mal accolto dai legionari di Giuliano, i quali erano stai arruolati con la garanzia d’essere impiegati esclusivamente nel territorio d’origine e per questo decisero di ammutinarsi e conferire al loro Cesare, nel febbraio del 360, il titolo di Imperatore. Giuliano, che dapprima si mostrò restio ad una simile ipotesi, decise, in seguito ad un sogno premonitore, di accettare, in assenza di diadema, la corona di ferro barbarica offertagli dalle sue legioni che non mancarono di portarlo in trionfo sugli scudi in omaggio alla tradizione gallica.
Ora non restava che comunicare la decisione a Costanzo II; con due lettere, una ufficiale e l’altra confidenziale, in cui oltre a riconfermare la sua fedeltà all’Imperatore lo accusava apertamente dei massacri sopraggiunti alla morte di Costantino, Giuliano cercò di raggiungere un’intesa con Costanzo II che, mostratosi restio ad accogliere le proposte concilianti presenti nelle missive, da Antiochia fece macchina indietro con le sue truppe lanciandosi a caccia di Giuliano; ma a Mopsucrene, nei pressi di Tarso in Cilicia, Costanzo II fu colpito da una grave malattia che lo condusse alla morte il 3 novembre 361. Come suo legittimo successore indicò Giuliano che, l’11 dicembre 361, all’età di 28 anni poteva fare il suo ingresso trionfale a Costantinopoli.
Memore dell’esperienza come Cesare in Gallia, Giuliano si mostrò un buon amministratore dell’Impero; sebbene avesse instaurato dei tribunali per punire coloro che si erano macchiati di crimini nel corso del regno di Costanzo II, nel gennaio del 362, alla conclusione dei processi che videro come protagonista l’establishment del vecchio Imperatore si poterono contare solo poche condanne a morte. Altre furono le misure che val la pena di menzionare, dall’eliminazione di ogni lusso dalla corte imperiale, alla soppressione, eccezion fatta per il primo giorno dell’anno, di feste e spettacoli dalla corte, alle coraggiose misure in campo fiscale ed amministrativo. Consapevole che le tasse non dovessero essere estorte, ma che fosse necessario affidarsi alla buona volontà dei cittadini, infatti, Giuliano promosse una dilazione per le imposte arretrate oltre a concedere ampia autonomia alle città cui venne affidata la gestione del potere civile e religioso e vennero riconsegnate le terre precedentemente confiscate dallo Stato e dalla Chiesa. Molti poteri, inoltre, furono restituiti al senato di Costantinopoli.
Ma la fama di Giuliano, come accennato in precedenza, va legata indissolubilmente alle manovre attuate in campo religioso. Nel 361 egli si era dichiarato apertamente pagano e, ampiamente convinto che “la verità è unica e allo stesso modo la filosofia è una e tuttavia non c’è motivo di stupirsi se seguiamo strade completamente diverse per raggiungerla”, decise di emanare il 4 febbraio 362, in conformità alla tolleranza propria dello spirito pagano, un editto in cui, oltre ad essere autorizzate tutte le religioni, vennero eliminate tutte le misure restrittive emesse da Costanzo II nei confronti di ebrei, cristiani e pagani che decidevano di non appoggiare la sua linea volta a rilanciare il credo ariano.
Questo documento è di importanza fondamentale in quanto, dopo il regno di Giuliano, l’occidente dovrà attendere più di mille anni prima di poter riparlare di libertà religiosa. Coadiuvato dai maestri neoplatonici Massimo e Prisco decise di riaprire i templi pagani e di ricostruire il tempio di Gerusalemme. Dipinto come il persecutore di cristiani per antonomasia, l’unico atto veramente discriminatorio che Giuliano compì nei confronti di questi fu l’editto del 17 giugno del 362 con cui impediva ai professori cristiani di insegnare la retorica. Questa, infatti, era parte integrante della tradizione classica e per Giuliano, il quale, secondo Libanio, considerava lo studio delle lettere e il culto degli dei come fratelli, era “assurdo che coloro che devono commentare gli autori classici disprezzino gli dei da loro onorati”. A parte ciò il “demoniaco” Giuliano attuò alcuna persecuzione ma si limitò, esclusivamente, ad eliminare qualsiasi sovvenzione concessa alle chiese cristiane e obbligò chiunque si fosse macchiato di aver distrutto chiese avversarie a ricostruirle a proprie spese e permettendo, inoltre, il ritorno in patria a tutti coloro che ne erano stati allontanati in quanto eretici.
Se queste furono le misure adottate contro i cristiani nella veste di Imperatore, maggiormente carichi di significato possono essere considerati i passaggi, in cui, nelle sue opere, Giuliano, vestendo l’abito del filosofo, critica la confessione cristiana. Considerata come religione contraria alla logica e al buon senso e del tutto refrattaria dalla ricerca di verità e rettitudine, Giuliano non manca di identificare tale fede, nell’opera “Contro i Galilei”, come un prodotto spurio opera di una minoranza di ebrei che distaccatisi dalla propria tradizione avevano fatto confluire in essa elementi propri della tradizione greca. Questi “apostati del giudaismo”, infatti, secondo Giuliano: “raccolsero i vizi di entrambe queste religioni: la negazione degli Dei dall’intolleranza ebrea, la vita leggera e corrotta dall’indolenza e dalla volgarità nostra: e ciò osarono chiamare la religione perfetta”.
Ma le accuse mosse da Giuliano riguardavano l’intero complesso di un credo che egli aveva conosciuto a fondo; ne dileggiò le innumerevoli contraddizioni e non mancò di condannare le molteplici manifestazioni di intolleranza verso gli eretici e le divinità pagane a cui i fedeli del “Dio dell’amore” s’erano abbandonati fin dalle origini della loro confessione. Al costrutto delle “finzioni mostruose”, proprie della religione cristiana, l’Imperatore opponeva la bellezza dei vecchi culti. La concezione di un mondo divino “perfettamente bello” fu esaltata da Giuliano negli inni ad Helios Re e alla Madre degli Dei venendo, quindi, a contrapporsi apertamente sia alla misera storia contingente del “profeta crocifisso”, giustamente punito, secondo l’Imperatore, come tutti gli altri perturbatori dell’ordine pubblico, sia alla più povera visione del mondo tipica della concezione cristiana. Non meno vivace, inoltre, fu la polemica che l’Imperatore Giuliano instaurò con i filosofi cinici, da lui osteggiati in quanto considerati, per molti aspetti, simili a cristiani e rei per l’Imperatore, “di non aver saputo riproporre, nell’impero, l’antica cultura greco-romana”, secondo una visione che sarà ripresa anche da Michel Foucalt nel suo “Discorsi e verità”. Nel maggio del 362 Giuliano decise di lasciare Costantinopoli per stabilirsi in Asia Minore cercando di attuare una serie di manovre che dessero corpo al vecchio sogno di Alessandro Magno ossia unire l’Oriente all’Occidente. Antiochia, ancora una volta, venne eletto come il luogo da cui l’Impero avrebbe mosso contro quella Persia ancora scossa dalle recenti azioni intraprese da Costanzo II.
Il 5 marzo del 363, dopo aver diviso l’esercito in due tronconi ed elaborato una strategia che li vedeva muoversi in direzioni differenti, Giuliano mosse da Antiochia verso l’Eufrate; in maggio l’esercito imperiale ottenne, nei pressi della capitale persiana Ctesifonte, una grande vittoria ma Giuliano, assaporando l’idea di una battaglia campale contro il Re Persiano Sapore quale atto ultimo della tenzone, decise di non metterla sotto assedio. Dopo aver risalito il Tigri inflisse, a Manrosa, una nuova sconfitta all’esercito persiano. La sua marcia sembrava inarrestabile finché, il 26 giugno 363, nel corso di un attacco posto in essere dai persiani nei confronti dell’esercito in marcia, Giuliano, che s’era posto frettolosamente al fianco dei suoi uomini dimenticando di indossare la corazza, fu colpito al fegato da una lancia.
Amorevolmente assistito dai filosofi Massimo e Prisco, con cui aveva passato molte ore a discutere di filosofia, l’Imperatore Giuliano perì, serenamente, nella notte. Due le versioni che interessano il destino delle sue spoglie mortali: per alcuni il cadavere dell’Imperatore fu portato a Tarso dove venne bruciato e sepolto di fronte la tomba dell’imperatore Massimo Daia mentre, secondo Libanio la salma fu traslata ad Atene e sepolta accanto a Platone.
“Avrebbe senza dubbio modificato il corso della storia, se il colpo di un arciere sconosciuto non gli avesse trafitto il fianco all’età di trentadue anni, come dimostra lo sforzo accanito con cui, subito dopo la morte immatura, si cercò di demolirne la figura: distrutti i suoi scritti, dichiarate decadute le sue leggi, cancellate a colpi di scalpello le epigrafi che ricordavano le sue imprese. Fu il primo tentativo meditato per radiare un capo di Stato dalla pagine della storia e impedire che le generazioni future ne serbassero memoria. Ma non ebbe successo. La personalità di Giuliano, che si proponeva di rigenerare il politeismo, era troppo spiccata e testimonianze a lui favorevoli vennero di continuo alla luce, così furono sistematicamente falsate le notizie sul suo carattere, i suoi atti, le sue opinioni”. Con questa nota si apre l’edizione italiana della biografia di Giuliano redatta dal francese J. Benoist-Mechin e con essa riteniamo doveroso chiudere questo articolo dedicato all’Imperatore. Condannato alla damnatio memoriae dagli adepti di quella setta per cui è ancora difficile accettare che la terra è tonda e gira intorno al sole, la figura di Giuliano assunse tratti d’attualità durante l’illuminismo quando individui come Voltaire lo innalzarono a simbolo della lotta contro l’oscurantismo religioso.
Vestito, durante il Romanticismo, come un eroe romantico ante litteram l’esempio dell’Imperatore Giuliano merita d’essere ricordato anche in questo mondo contemporaneo sempre più dilaniato da nuovi conflitti dei quali si tende sempre più ad evidenziare i tratti religiosi al solo scopo di giustificare la legittimità di quella torbida teoria dello scontro di civiltà ed alimentare la paura, mentre volutamente si dimenticano e si omettono i reali interessi politici, economici e finanziari che reggono gli attuali teatri di guerra.
Qualunque governante che abbia oggi reale interesse nel tutelare il proprio paese dovrebbe seguire l’esempio dell’amministratore Giuliano e non lasciarsi trascinare in vortici di violenza che hanno il solo scopo di difendere un sistema-mondo ormai desueto e votato al crollo. Crollo che avverrà comunque, anche se benedetto da chi si considera da sempre il custode di una verità nel cui nome molti innocenti sono stati massacrati. Peccato, tuttavia, che nessuno dei moderni gestori del potere sia pronto ad accettare e far sua la lezione dell’Imperatore Giuliano. In attesa di un rinnovamento spirituale e politico, insomma, non ci resta altro da fare che assistere quotidianamente allo sgradevole spettacolo offertoci da tanti emuli di Enrico II incapaci, per compiacenza e convenienza, di sottrarsi alle robuste nerbate inflitte sulle loro flaccide natiche dagli inquilini indesiderati della città di Roma; noi, d’altro canto, incuranti di scomuniche ed anatemi non esitiamo rendere omaggio a Giuliano Imperatore.

19:39 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : antiquité, antiquité romaine, rome, méditerranée, italie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Dix millions de "Coccinelles"

volkswagen.jpg

 

 

Dix millions de coccinelles

 

 

Il faut bien qu'il y ait beaucoup de choses de pourri dans notre bon monde de “correction politique” pour qu'un romancier comme Saint-Loup connaisse à nouveau un succès d'estime certain auprès d'une fraction grandissante de la jeunesse eu­ropéenne. Quatre ans après sa mort, ses livres continuent à être réédités méthodiquement et les hommes courageux qui s'emploient à cette tâche sont toujours surpris de voir avec quel enthousiasme on se rue sur ces ouvrages.

 

Pour les tenants de l'anti-FRAT (Fascisme-Racisme-Antisémitisme-Totalitarisme: expression forgée par un autre héré­tique des temps modernes le professeur Notin), Saint-Loup restera seulement l'apologiste des réprouvés de la Waffen-SS francaise.

 

Mais son œuvre est bien plus vaste. Il fut aussi un analyste formidable des grands travaux publics et semi-publics de ce vingtième siècle finissant. Et c'est ici l'aventure automobile qui nous est contée. En effet, à la fin des années 60, après avoir achevé sa trilogie sur les derniers défenseurs du bunker de Hitler à Berlin et avant de commencer son cycle sur les patries charnelles, Saint-Loup termine une autre trilogie: après avoir publié les magistrales biographies de Louis Renault (1955) et de Marius Berliet (1962), il écrit Dix millions de coccinelles, l'histoire de la Volkswagen qui, en quelques décennies, va conquérir l'univers.

 

Mais en 1976, c'est 21 millions de “Cox” qui ont été vendues sur la planète depuis sa création. Tous les journaux automo­biles portent aux nues le fer de lance de notre belle société de consommation, en lui rendant aujourd'hui un hommage bien mérité. On la fabrique toujours au Mexique. On ne pouvait plus l'acheter neuve sur le marché européen: là aussi, à force de célébrer son génie sur l'autel consacré au dieu Hermès, elle va effectuer son retour, en star comme une actrice mythique ou un chanteur adulé qui fait sa dernière tournée de chant! Oui, en 1999, fiers nostalgiques de la belle époque, vous pourrez à nouveau l'acheter, flamboyante, en France, en Allemagne, en Italie... Et dire qu'elle a été conçue à la fin des années 30, alors que la France devait attendre près de quinze ans pour avoir sa toute petite réplique de voiture nationale, la 2CV, la “deux pattes”, ou la 4CV de Renault.

 

En premier lieu, soulignons dans cette édition une ambiguité éditoriale assez édifiante: Dix millions de coccinelles,  en page de titre est bien le véritable titre (car en 1968, date de la première publication du livre, seulement 10 millions de ces curieux véhicules ont été vendus); mais ce livre est à la fois non moins significativement sous-titré “l'épopée automobile du Troisième Reich” en “une” de couverture et aussi “l'épopée industrielle du Troisième Reich” en quatrième de couverture. Industrie, automobile, l'un ne va pas sans l'autre, sans l'automobile il n'y aurait pas eu d'épopée industrielle, ni de cocci­nelles, ni par conséquent le succès politique, économique et social fulgurant qu'a connu le Troisième Reich avant la guerre.

 

Pour ce qui est du contenu du livre proprement dit, les partisans de la pensée unique découvriront avec horreur que la voi­ture la plus populaire ayant jamais existé et qui, seule, soixante ans après sa conception, continue à rouler dans le monde entier, a été conçue grâce à la rencontre quasi miraculeuse d'un ingénieur autodidacte de génie Ferdinand Porsche et d'un homme politique un peu particulier, à savoir Adolf Hitler. Comme celui qui lui servira de cornac, Ferdinand Porsche était Autrichien: «c'étaient de toutes petites gens», nous dit Saint-Loup, «mais issus des profondeurs biologiquement intactes des races germaniques et ouverts à ce titre aux plus grandes ambitions créatrices».

 

Porsche  —«Cet homme qui manque totalement de culture, mais dont le cerveau, dans le domaine de la création, valait toutes les équipes de recherche d'une douzaine d'universités»—  est entouré d'ingénieurs exclusivement autrichiens. Et comme le constructeur Enzo Ferrari, qu'admirait également Saint-Loup, il travaille aussi en symbiose avec le monde ou­vrier et c'est bien sûr grâce aux grands projets étatiques qu'il vécut cette grande aventure industrielle, cette véritable chan­son de geste du vingtième siècle, tout de forges et d'enclumes.

 

Jusque dans la construction de la gigantesque ville-usine de 9000 habitants, Adolf Hitler fera confiance à un architecte de trente ans de petite taille, à l'allure de Wandervogel,  les cheveux dressés sur la tête, la chemise ouverte sur la poitrine, culottes en cuir, le visage ouvert, naturellement rieur et bien sûr lui aussi Autrichien! N'en déplaise aux sectateurs du grand métissage universel généralisé, la cohérence ethnique peut aussi donner de bons résultats, tout simplement parce que la cohésion de toute équipe humaine est plus forte quand on partage la même gouaille dialectale (la fameuse tétraglossie du linguiste Gobard!), quand on a aimé les mêmes paysages, connus les mêmes auberges ou les mêmes brasseries, les mêmes écoles et les mêmes bals!

 

Constatons également que des capitaines d'industrie de la sorte existent bel et bien dans cet univers du millénaire qui s'achève mais ceux-ci sont dans une impossibilité totale de s'exprimer et doivent par conséquent croupir dans des postes d'employés à cause d'une société jalonnée d'obstacles en diplômes, administrations, convenances sociales et autres, où, pour un être créatif, tout, absolument tout, est fait pour qu'il n'y parvienne jamais, ceci afin de préserver l'ordre établi, car où irait-t-on si des petits génies de la campagne bousculaient à tout bout de champ les cours en bourse avec leurs satanées in­ventions!

 

Sinon, au-delà de l'aventure extraordinaire des hommes, des expéditions pendant la guerre dans la version militaire de la “Cox”, c'est-à-dire la “Kübelwagen” et la vie quotidienne dans la ville païenne, Stadt des KDF-Wagens, privée d'église, mais surmontée d'une acropole du travail et de la joie, on sent confusément que l'écrivain éprouve un certain scepticisme par rapport à l'univers qui était en train de s'édifier dans la future Wolfsburg, sur les autoroutes du Reich et par cet engoue­ment généralisé pour les machines, les autos et le moteurs.

 

En effet, insistons tout de même sur une des idées-forces de ce récit: malgré l'aventure industrielle et étatique dont il est question ici, l'auteur n'oublie pas son idéal libertaire et écologiste, celui des “copains de la belle étoile”, de l'expérience du Contadour de Jean Giono et de son vieux maître, un des rares écrivains français authentiquement völkisch/folciste, au sens allemand du terme, Alphonse de Chateaubriant: il pense sans doute aux vieux idéaux de liberté germanique, lorsqu'il évoque les contrôleurs des firmes automobiles: «en manteau de cuir noir tombant jusqu'aux chevilles dans ce style mili­taire, qui, lentement et comme à regret, impose à l'Allemagne un nouveau visage...».

 

Et aussi un peu plus loin: «[...] c'est parce que les nationaux-socialistes détestent l'anarchie, prétendent donner un sens à l'histoire, contraindre l'homme à suivre une direction spirituellement et biologiquement préétablie, qu'on verra bientôt s'allonger les premiers fils de fer barbelés, les premiers miradors émerger au dessus des perspectives de sapins et terres grises, les premiers gardiens de camps s'opposer au chaos qui partout et toujours nait des grands bouleversements indus­triels, n'épargnant pas plus Wolfsburg que les autres coins d'Europe [...]».

 

Ainsi, un des axes centraux de ce roman à thèse, comme c'est toujours le cas avec Saint-Loup, est de nous faire prendre conscience des contradictions internes du régime national-socialiste, ballotté entre son désir de préserver les traditions, d'une part, et de sa facilité à céder à l'attraction des miroirs aux alouettes que tend la societé moderne, d'autre part, et qui reste finalement le grand débat qui mérite vraiment d'être tenu en cette fin de siècle. En effet, nous ne prenons pas de grands risques en disant que si le Troisième Reich avait gagné la guerre, les populations, vivant dans cette ville nouvelle et les autres qui, à coup sûr, se seraient multipliées, passé le premier enthousiasme procuré par la société de consommation, auraient souffert, elles aussi, inéluctablement, des pathologies de la civilisation, exactement comme les populations ac­tuelles des grandes villes occidentales. Or, coupé des liens du sol, il n'y a pas de salut. C'est seulement dans un cadre en­raciné que peuvent s'épanouir les hommes. La technique comme fin en soi est une horreur. L'enracinement et le lien avec la nature au sein d'une communauté sont indispensables pour l'équilibre psychologique des populations quel que soit leur sang.

 

Avec cette réalisation mirifique pour l'époque, le régime national-socialiste ne faisait qu'imiter  —avec une perfection supé­rieure toutefois—  le taylorisme américain (voir les usines Ford) ou le productivisme soviétique. Et une forme d'art natio­nal-socialiste a été produite par ce type de civilisation: la Stadt des KDF-Wagens était futuriste comme l'avaient préconisé les architectes des mouvements italiens et soviétiques de cette époque. Et en plus on l'a construite en détruisant une partie de la lande du Lüneburg, si chère à l'écrivain Hermann Löns.

 

Ainsi toute l'ambiguité de ce système apparaît dans sa praxis politique et dans sa difficulté à concilier tradition et modernité. Sur le plan politique, ce sont Albert Speer et Walther Darré qui s'opposent. Du coté du ministre de l'industrie et de la cons­truction, ce sont des réalisations architecturales grandioses, le futurisme des grandes avenues, la Stadt des KDF-Wagens, les automobiles et son corollaire d'industrie, de commerces et de pollution... Du coté du ministre de l'agriculture Darré, il s'agit du Hegehof, la ferme organique de conservation, la préservation de la diversité des espèces végétales et animales de la lande de Lüneburg, une vision de la société organique et écologique... Walther Darré étant peut-être un des premiers hommes politiques à vouloir transcrire dans la réalité sociale un discours écologiste. Il est bien évident qu'après sa démis­sion en mars 1942 par Hitler, les imperatifs industrialo-militaires du Reich en difficulté annihileront toute initiative concrète dans ce sens écologique. Et nous ne parlons même pas de l'après-guerre, où la reconstruction a pris le pas sur toutes autres considérations, a fortiori en matières d'urbanisme et d'écologie...

 

Quant à Saint-Loup, il tranche sans ambages ce débat en faveur des idées du sang et du sol, se rapprochant davantage de Darré que de Speer. Pour s'en convaincre nous ne reproduirons que deux courtes citations du livre: «Les ouvriers de cette usine composent déjà un de ces tableaux dont l'avenir va multiplier les versions: l'homme tombé dans la servitude des ma­chines qu'il a créées pour le meilleur et pour le pire!». Et il conclut son ouvrage de la sorte: «La coccinelle appartient dé­sormais à l'univers déshumanisé des moyens industriels et des techniques qui se suffit presque à lui-même... pour le meilleur ou pour le pire! Le pire fort probablement!».

 

Par cette démonstration littéraire souvent magistrale et au-delà de ce débat plus que jamais d'actualité, le jeune lecteur (et les autres aussi...), passionné par l'automobile, dans ce récit haletant mené sans aucun temps mort, découvrira la fidélité absolue du peuple allemand et des autres peuples de la Terre à cette petite auto toute en rondeurs, au-delà même de la dé­faite de son concepteur, et cette passionnante épopée lui rappelera que “là où il y a une volonté, il y a un chemin”.

 

Pascal GARNIER.

 

SAINT-LOUP, Dix millions de coccinelles, Ed. L'Æncre (12 rue de la Sourdière, F-75.001 Paris), 1996, 366p. + 8 p. de photos hors texte, 185 FF.

vendredi, 24 octobre 2008

Des Corps Francs à la révolution allemande

histoiredunfascismeallemand_v.jpg

 

Des Corps Francs à la révolution allemande

 

 

Le renouveau des idées nationales dans le monde entier semble avoir inspiré l'ancien chef charismatique d'Europe Action:  fini (provisoirement?) les excellents livres sur les armes, il faut dire aussi que son ami intime et spécialiste ès-vennerie François de GROSSOUVRE est maintenant décédé.

 

Par contre, nous avons assisté au lancement avec succès de sa luxueuse et toujours intéressante revue Enquête sur l'histoire, à la publication d'un livre autobiographique Le cœur rebelle  et de plusieurs essais historiques Gettysburg, Histoire critique de la Résistance (voir NdSE n°16) et maintenant cette Histoire d'un fascisme allemand, version remaniée et enrichie de son maître-ouvrage Baltikum paru en 1974. Ce livre d'une grande profondeur philosophique est également une synthèse de bonne facture sur la “Révolution allemande”.

 

L'action se déroule durant la République de Weimar et la situation politique, économique et sociale rappelle la situation d'aujourd'hui: culture cosmopolite et composite, corruption à tous les niveaux, crise économique grave se traduisant par notamment un chômage de masse, la présence humilante pour les citoyens allemands des années 20 des soldats français et sénégalais sur les rives du Rhin, anticipant le phénomène actuel de l'immigration ou de l'occupation américaine...

A mon sens cependant deux différences essentielles:

* Les pathologies de la civilisation étaient bien moins présentes (voir en ce moment la montée de la petite délinquence, de la consommation de psychotropes, et autres divers échappatoires de la société qui se décompose).

* L'inexistence (hormis la presse) du système médiatique qui abrutit les masses en pensant évidemment au premier d'entre eux, la télévision.

Et c'est ce qui explique que les populations ne réagissent plus, n'aient plus cette envie instinctive de se battre les armes à la main afin de pouvoir encore exister en tant qu'entité culturelle et biologique. C'est la raison pour laquelle le lecteur du livre de Venner peut parfois avoir du mal à comprendre que des milliers et des milliers de combattants des Corps Francs aient pu mourir au combat, le plus souvent contre la volonté de leur propre armée et de leurs gouvernants pour défendre leur patrie.

 

Pour l'instant ce phénomène de guerre civile semble nous être épargné dans ses épisodes les plus sanglants et nous ne pouvons que constater que le système médiatique et l'opulence matérielle annihilent la volonté des protagonistes d'en découdre manu militari, le combat se déroulant à “fleurets mouchetés”, de bons nerfs étants plus utiles que le courage physique. De toutes manières, dans de telles époques, l'individu actif conserve son autonomie et son pouvoir pour accroître le désordre, agir dans le sens de la destruction, mais ce pouvoir lui est refusé pour bâtir.

 

Les écrits de ce temps reflètent cette violence et tout cela le Jünger de la période nationale-révolutionnaire l'avait bien compris: Dominique Venner nous rapporte une de ses citations qui le rapproche de l'esprit d'un soldat politique: «L'ordre est l'ennemi commun... La destruction est le seul programme qui remplisse les exigences nationalistes». Le célèbre chef de Corps Francs, Roßbach lui-même, en termes encore plus crus, ne disait pas autre chose: «Rassembler des hommes pour en faire des soldats, se quereller, boire, rugir et casser des fenêtres, détuire et mettre en pièces ce qui doit être détruit. Etre sans scrupules et inexorablement dur. L'abcès doit faire couler beaucoup de sang rouge. Et il faut le laisser couler un bon moment, jusqu'à ce que le corps soit purifié». Et c'est vrai qu'un certain nombre de responsables de la République de Weimar finissent leur vie éxécutés par des groupes armés: Gareis, Rathenau, Erzberger, etc...

 

A la lecture de ce livre, aussi minutieux que vivant, nous comprenons d'une manière très complète l'état d'esprit des Corps Francs: le guerrier de la première guerre mondiale laisse la place à une sorte de lansquenet des temps modernes, influencé par l'image toujours présente des Wandervögel; rarement ils haïssent les communistes et ne les méprisent jamais. En revanche, leur dégoût pour les bourgeois, les politiciens, les intellectuels et les Juifs (Zeitgeist  oblige...) est certain. Ils savent aussi faire preuve d'une grande adaptabilité dans leur comportement. Pour ne citer qu'un seul exemple, certains Corps Francs, lorsque leur existence légale est menacée, se transforment alors en communauté de travail agricole, sorte de phalanstères guerrières mais aussi réponse au penchant germanique pour la colonisation militaire.

 

L'auteur situe la fin de la Révolution des Corps Francs le jour du putsch de Munich, le 9 novembre 1923. Après le temps de ces lansquenets viendra le temps des politiques. En effet, Adolf Hitler veut utiliser la légalité pour arriver au pouvoir. Beaucoup de Corps Francs vont le lui reprocher: ils se perdront irrévocablement dans ce combat politique.

 

Ainsi Venner aime ces périodes troubles et agités qui permettent à des chefs de bande de donner la pleine mesure de leur capacité. Clin d'oeil de l'histoire: comme les Corps Francs se sont levés après l'humiliation du traité de Versailles, la France, après avoir cédé l'Algérie, verra une bande de jeunes gens se dresser face à la décadence: son chef en était Dominique Venner, la bande c'était Europe-Action. Beaucoup d'entre eux continuent une carrière brillante non seulement au sein du mouvement national mais aussi ailleurs. Venner a été d'une certaine manière leur guide spirituel comme Ernst Jünger celui des anciens des Corps Francs. Venner entretient depuis quelque temps une correspondance avec celui, centenaire aujourd'hui, qui a été la conscience politique et philosophique de la “Révolution Conservatrice”.

 

Et aussi comme Jünger l'avait fait à partir de 1929, Venner, dans les années 70, s'est retiré de tout militantisme politique pour se consacrer à son œuvre. Mais le bon grain avait été semé. Il est vrai également que tous les deux éprouvaient le besoin de faire une pause dans ce parcours commencé si tôt par un engagement dans la légion dès l'âge de 15 ans. Etrange parallèle de ces deux destins à un demi siècle de distance.

 

Sans doute, est-ce la raison pour laquelle Venner a rajouté deux très beaux chapitres sur la Révolution Conservatrice, sorte d'espace métapolitique allemand des années 20, et une analyse très fine de l'œuvre de Jünger, hommage de l'élève à son maître.

 

Pascal GARNIER.

 

Dominique VENNER, Histoire d'un fascisme allemand. Les Corps Francs du Baltikum et la Révolution Conservatrice, Pygmalion/Gérard Watelet, Paris,1996, 380 p., 139 FF.

 

R. De Felice et l'histoire du fascisme italien

destr28l.gif

 

Renzo de Felice et l'histoire du fascisme italien

 

 

Dans la nuit du 25 au 26 mai 1996, après une semaine d'agonie, le grand historien italien Renzo de Felice a rendu l'âme. Il avait 67 ans. La maladie le minait depuis quelque temps, mais son caractère naturellement réservé n'avait rien laissé transparaître de son état de santé fort précaire.

 

Avec lui disparaît de la scène culturelle italienne non pas un très grand historien, mais, aux yeux de bon nombre de commentateurs, l'unique historien digne de ce nom de l'après-guerre en Italie. Pour toutes sortes de motifs bien connus  —ceux-là même qui sont à la base de l'immense travail de Renzo de Felice—  ceux qui se sont occupés de l'histoire récente dans notre pays l'ont fait en s'idntifiant à des passions jamais apaisées; ils étaient mus soit par un idéalisme authentique soit par le désir et la néces­sité de se justifier eux-mêmes ou de justifier l'ordre des choses né à Yalta.

 

Comme on avait pu le prévoir, quand Renzo de Felice est mort, il a récolté dans les médias un succès formidable, celui-là même qui lui fut refusé de son vivant: disons que tous, détracteurs compris, ont exalté l'œuvre de de Felice avec cette magnanimité satisfaite et cette condescendance généreuse que l'on accorde volontiers à ceux qui ne pourront plus jamais apporter la réplique.

 

Pourtant, on lui en a reproché des “fautes” à de Felice: il a eu l'audace inouïe de consacrer son existence toute entière à la reconstruction objective, rigoureuse et scientifique d'une période de l'histoire considé­rée par la plupart de nos contemporains comme le “trou noir” de l'histoire italienne depuis l'unification du pays. De Felice a commencé cette reconstruction par une biographie de l'acteur politique principal de cette période controversée. Nous étions en 1965: De Felice n'avait que 36 ans et était déjà en mesure de proposer une approche absolument révolutionnaire de la figure de Mussolini.

 

Né à Rieti en 1929, De Felice s'inscrit dans les années 50 à l'Institut Italien d'Etudes Historiques fondé à Naples par Benedetto Croce après la défaite italienne de 1945. A cette époque, le jeune de Felice était marxiste, en profondeur et avec l'enthousiasme de l'étudiant. Ses premiers textes ont été consacrés au mouvement jacobin en Italie à la fin du 18ième siècle; il a ensuite consacré trois volumes monographiques à cette idéologie de gauche, ainsi qu'une anthologie et une série d'articles fouillés, de notes et d'essais, parus dans diverses revues historiques. Comme le dit Giuseppe Galasso, ce travail sur le jacobinisme “est bien plus important en quantité que ce que la majeure partie des spécialistes de ce domaine ont pu­blié non pas en une quinzaine d'années, comme de Felice, mais en toute une vie de labeur”.

 

Le directeur de l'Institut était alors Federico Chabod (à qui nous devons les remarquables Leçons sur le fascisme, aujourd'hui un peu trop souvent oubliées, et prononcées à la Sorbonne de Paris en 1947; elles sont aujourd'hui publiées chez Einaudi). Chabod était un historien illustre, un anti-fasciste qui a lutté dans les rangs des partisans du “Parti d'Action”; élève de Croce et de Volpe, Chabod fut le premier en Italie à abandonner l'“histoire justicière” pour lancer l'“histoire justificatrice” et réclamer la réconciliation des ad­versaires d'hier. Réalisme lucide! Le marxiste de Felice a saisi au bond la leçon de Chabod et la met en pratique dès 1956, au moment où la révolution hongroise scinde en deux camps les gauches euro­péennes. De Felice développe alors une critique de l'historiographie marxiste, en utilisant les méthodes et les grilles d'interprétation de l'école libérale (de Croce). Il se consacre à un essai fondamental sur "l'histoire des Juifs italiens sous le fascisme” (qui paraîtra chez Einaudi en 1961). Pour la première fois, un historien avance l'hypothèse  —qui s'avèrera par la suite substantiellement exacte—  de la profonde différence entre la politique raciale nationale-socialiste et celle du fascisme italien. De Felice souligne avec courage le silence complice de l'Eglise catholique et publie une liste nominative de politiciens en vue dans cette Italie des années 50 qui, sous le fascisme racisant (à partir de 1938), avaient été des antisé­mites déclarés et actifs. De Felice commence alors une carrière fulgurante mais aussi hérissée de difficul­tés. Le jeune professeur doit affronter les contestations des étudiants et l'ostracisme de ses collègues.

 

Pourtant de Felice ne faisait rien d'autre qu'appliquer à l'étude du fascisme et surtout à la biographie de Mussolini les mêmes critères d'objectivité que l'on acceptait unanimement en milieux académiques, à condition, bien sûr, que l'on ne veuille bien parler que des hérétiques dans la Prague du 15ième siècle, des luddistes anglais ou des suffragettes américaines. En revanche, tout ce qui s'est passé en Europe après 1789 ou en Italie après 1848 demeure rigoureusement tabou et ne peut être étudié selon ces cri­tères modernes de l'objectivité en sciences historiques. Les jeux sont faits une fois pour toutes, nous dit-on, on a déjà bien séparé le bon grain de l'ivraie et, de ce fait, vouloir en revenir aux faits (déjà acquis!) est condamnable et superflu, comme nous l'avait enseigné l'incendiaire de la bibliothèque d'Alexandrie. Il est dès lors préférable de se taire. Renzo de Felice ne l'a pas fait.

 

En Italie, on le sait, on ne peut dire du mal de deux choses seulement: la mamma et la résistance. Et pas nécessairement dans cet ordre. On peut donc imaginer le scandale lorsqu'en 1965 Renzo de Felice publie le premier de ses nombreux ouvrages dédiés à la vie et à l'œuvre de Mussolini. Ce n'était sans doute pas le bon moment, mais, finalement, il n'y aurait jamais eu de bon moment.

 

Pour notre bonheur, Renzo de Felice ne s'est jamais découragé: il a continué avec une objectivité obsti­née à explorer la vie de celui qui fut, pour le bien comme pour le mal, pendant vingt ans et non pendant un seul jour, le Duce des Italiens. Simultanément, de Felice opérait une “vivisection” des coutumes italiennes de cette époque fasciste en appliquant résolument à la recherche historiographique le critère de “falsification” que Popper appliquait en science pure: tout ce qui ne peut être contredit est nécessaire­ment faux, parce qu'“un système empirique doit pouvoir être confronté à l'expérience”.

 

Car telle est bien la “petite grande expérience” de de Felice: elle est petite parce qu'elle est d'une évi­dence déconcertante, mais, en même temps, elle est grande  —très grande—  parce qu'elle est inhérente à ce processus de refoulement collectif à l'œuvre en Italie dès le lendemain du 25 juillet 1943. Nier le fas­cisme, nier la personne de Mussolini en réduisant son rôle à celui d'un sombre hurluberlu: ce sont là des escamotages nécessaires pour légitimer, hier comme aujourd'hui, une république née dans les horreurs d'une guerre civile, mais surtout née de la médiocrité morale d'un roi fugitif, d'un général pusillanime et d'un peuple qu'il n'est pas difficile mais plus simplement inutile de gouverner (comme le disait Mussolini lui-même dans une phrase célèbre).

 

Créer et puis alimenter jusqu'aux limites du ridicule l'impossible mythe d'une Résistance: tel a été le but préconçu d'un Etat qui se débat dans les affres d'une longue agonie, où il ne survivra évidemment pas à lui-même. Renzo de Felice, avec le bistouri aiguisé de la recherche, en abandonnant les clivages parti­sans, avec la seule force d'une bonne connaissance de son immense documentation, faite de textes, té­moignages et preuves inédites et souvent occultées, a redonné une dignité à une période fondamentale de l'histoire italienne, en tenant et en consolidant ses positions; il a redimensionné toute une école de pensée. Ce fut une grande tâche.

 

Parmi ses nombreux élèves, il se peut que quelques-uns surpassent leur maître dans un avenir plus ou moins proche. Pour l'heure, ne nous faisons pas d'illusions: la mort prématurée de Renzo de Felice laisse un vide considérable, “incomblable” dans la vie culturelle. Et pas seulement en Italie.

 

Alessandra COLLA.

(article tiré d'Orion, n°5/1996; trad. franç. : Robert Steuckers).

jeudi, 23 octobre 2008

Les frères Cioran et le passé gardiste

cioran-codreanu.jpg

 

Les frères Cioran et le passé “gardiste”

 

Quand il voulait susciter le scepticisme des Parisiens, Emil Cioran se plaisait à dire que l'une des plus belles villes du monde était Sibiu/Hermannstadt. Et il pensait que Paris était devenue un “garage apoca­lyptique”. De Sibiu, il disait à ses interlocuteurs étonnés: «C'est une ville vraiment extraordinaire». Il ai­mait évoquer le temps où il habitait cette cité transylvanienne, proche de la frontière qui séparait l'empire des Habsbourg du Royaume balkanique de Roumanie: «Il y avait là-bas trois nationalités (l'allemande, la hongroise et la roumaine) qui vivaient en parfaite convivialité. Cet fait m'a marqué pour toute ma vie, car, depuis, je ne parviens pas à vivre dans une ville où l'on ne parle qu'une seule langue, car je m'y ennuie tout de suite».

 

C'est à l'âge de dix ans qu'Emil Cioran arrive à Sibiu/Hermannstadt, après avoir pleuré pendant tout le trajet parce que son père, le Pope orthodoxe Emilian, l'avait arraché au paradis de son enfance, afin qu'il puisse poursuivre des études. Ce paradis, c'était le village de Rasinari. Mais l'écrivain dira plus tard: «Après Rasinari, Sibiu est la ville que j'ai aimée le plus».

 

Le puiné du Pope Emilian Cioran, Aurel, aujourd'hui octogénaire, habite encore à Sibiu. C'est un avocat à la retraite. Mais s'il n'avait pas pu devenir avocat, il serait devenu moine; ce fut son frère Emil qui l'en dis­suada. Un soir, après le repas, Emil l'invita à une promenade dans les bois qui s'étendaient au-delà de la ville de Sibiu et jusqu'à six heures du matin, à force d'arguments de tous genres, il démontra à Aurel qu'il fallait qu'il renonce à cette idée de se faire moine. Plusieurs années plus tard, Emil regretta d'avoir eu cette importante conversation avec Aurel; il confessa qu'en cette circonstance toute l'impureté de son âme s'était manifestée et que son acharnement n'était que le seul fruit de son orgueil. Il dit: «J'avais l'impression que tous ceux qui ne se soumettaient pas à mes argumentations démontraient qu'ils n'avaient rien compris».

 

Donc, au lieu de se retirer dans un monastère, Aurel s'en alla étudier la jurisprudence à Bucarest, dans la même institution où Emil s'était inscrit en philosophie et lettres.

 

Les deux frères se sont retrouvés ensemble sur les bancs des mêmes auditoires, où le philosophe Nae Ionescu donnait ses leçons. C'était une sorte de Socrate pour les générations des années 30 et il a formé des intellectuels qui très vite acquerront une réputation mondiale, comme Mircea Eliade, Constantin Noica et Emil Cioran.

 

Ce dernier, m'a raconté son frère Aurel, se rendait régulièrement aux cours de Nae Ionescu, même après avoir terminé ses études universitaires. Un jour, alors que la leçon était finie, le professeur a demandé aux étudiants: «Voulez-vous que je vous parle encore de quelque chose?». Emil s'est levé et a demandé: «Parlez-nous de l'ennui». Alors Nae Ionescu a appronfondi la thématique de l'ennui pendant deux heures. Une autre fois, le Professeur Ionescu a demandé à Emil Cioran de lui suggérer un thème à développer au cours de sa leçon; Cioran l'invita à parler des anges. Dans une faculté dominée par le rationalisme, seul Nae Ionescu pouvait se permettre de traiter de thèmes spirituels, parce que, comme l'a défini Eliade, il était “un logicien terrible”.

 

Immédiatement après la guerre, Aurel Cioran fut reconnu coupable d'avoir milité au sein du “Mouvement Légionnaire” et condamné à sept années de prison; sa sœur Gica reçut une peine analogue. Contrairement à Emil, qui s'est dissocié publiquement dans les années 60 de son propre passé de sympa­thisant de la Garde de Fer, Aurel revendique avec fierté l'option militante de sa jeunesse. Il a rencontré le “Capitaine” Codreanu dans des camps de travail légionnaires, où les jeunes réalisaient des travaux d'utilité publique négligés par le gouvernement.

 

Emil Cioran lui aussi fut fasciné par la figure de Codreanu; pour la Noël 1940, il écrivit un “profil intérieur” du Capitaine, dont on donna lecture à la radio à l'époque du gouvernement national-légionnaire. Dans ce texte, Cioran disait: «Avant Corneliu Codreanu, la Roumanie était un Sahara peuplé... Il a voulu introduire l'absolu dans la respiration quotidienne de la Roumanie... Sur notre pays, un frisson nouveau est passé... La foi d'un homme a donné vie à un monde qui peut laisser loin derrière lui les tragédies antiques de Shakespeare... A l'exception de Jésus, aucun autre mort ne continue à être présent parmi les vivants... D'ici peu, ce pays sera guidé par un mort, me disait un ami sur les rives de la Seine. Ce Mort a répandu un parfum d'éternité sur notre petite misère humaine et a transporté le ciel juste au-dessus de la Roumanie». Par ailleurs, quelques années auparavant, Emil Cioran avait écrit que “sans le fascisme l'Italie serait un pays en faillite”; ou encore: “dans le monde d'aujourd'hui, il n'existe pas d'homme politique qui m'inspire une sympathie et une admiration plus grande que Hitler”.

 

On peut penser que les prises de position du Cioran de ces années-là, en dépit de ses abjurations ulté­rieures, seront tôt ou tard utilisée pour démoniser son œuvre, pour lui faire en quelque sorte un procès posthume, semblable à celui que l'on a intenté contre Mircea Eliade. Quand j'évoquai cette éventualité, Aurel Cioran a perdu pendant un instant son calme olympien pour manifester une grande indignation et stigmatiser la mafia qui se livrait à de telles profanations. Au cours de ces derniers mois, a-t-il ajouté, une campagne de diffamation s'est déroulée en Roumanie contre la mémoire de Nae Ionescu, précisément parce qu'il fut le maître de toute cette jeune génération intellectuelle qui sympathisait avec le “Mouvement Légionnaire”.

 

De fait, à peine sorti de la maison d'Aurel Cioran, j'ai trouvé sur une échope trois éditions récentes de Nae Ionescu: un recueil de conférences tenues par le professeur en 1938 dans le pénitentier où il était en­fermé avec toute l'élite du “Mouvement Légionnaire”. Parmi les internés, il y avait aussi Mircea Eliade. Emil Cioran était en France depuis un an.

 

Claudio MUTTI.

(article paru dans le quotidien indépendant L'umanità, 22 février 1996; trad. franç. : Robert Steuckers).

 

 

dimanche, 19 octobre 2008

De l'Irlande païenne à l'Irlande chrétienne

Ireland.jpg

 

Historique , de l’Irlande païenne à l’Irlande chrétienne

Trouvé sur: http://scenehurlante.hautetfort.com

La conversion des îles britanniques


A l'aube de l'ère chrétienne, toutes les zones anciennement celtisées ont été conquises ou sont en passe de l'être, que ce soit par les romains ou par d'autres. La Gaule se latinise à grande vitesse, et la Bretagne a déjà vu les premières incursions romaines. Au même moment, à plusieurs centaines de kilomètres de là, un petit juif barbu s'apprête à changer la face du monde. .

Traditionnellement, le 17 mars, jour de la saint Patrick, est fête nationale en Irlande. On attribue à ce fils de fonctionnaire romain (né vers 385, mort vers 461) la conversion au christianisme des Irlandais. Une conversion qui ne s'est pas fait sans difficultés. En effet, après avoir vécu jusqu'à l'âge de seize ans dans un petit village du pays de Galles, saint Patrick est enlevé par des pirates Irlandais qui l'emmènent chez eux où ils le gardent prisonnier pendant six ans. Une fois libéré, saint Patrick regagne l'Angleterre. C'est alors qu'il a des visions dans lesquelles les Irlandais l'implorent de revenir. Dans un premier temps, il passe en Gaule et est ordonné diacre à Auxerre. Après cette première mission, il fait un voyage à Rome, entre 441 et 443, et, de retour en Irlande, établit son siège épiscopal à Armagh - il aurait installé son église dans la grange de son premier fidèle converti. Divisant l'Irlande en diocèses - qui correspondent aux royaumes des rois celtiques -, il fixe les structures de I'Eglise irlandaise. Son histoire s'entremêle avec les légendes irlandaises.

Quoi qu'il en soit sur la réalité historique du personnage, et bien que certains doutent de son existence, la réalité de la conversion - plutôt rapide - de l'Irlande reste indiscutable. Au tournant du Ve siècle, toute l'élite de la vieille Erinn est dévouée au Christ. Comme en Gaule, les masses paysannes mettront plus longtemps à se tourner vers le Dieu d'Abraham. En France, au bas Moyen-Âge, certain adoraient encore sources ou arbres, pierres ou collines, et l'on trouve encore parfois des bas relief d'inspiration païenne, notamment celtique dans certaines constructions des XIe-XIIe siècle, y compris dans des édifices religieux (on peut en voir quelques-uns sur les façades des églises irlandaises, ou en France, dans la chapelle de la nécropole de Saint Floret, dans le Puy de Dome).

0brc95pk.jpg

Le monachisme irlandais


Dès les origines, le clergé Irlandais adopta des rites et des pratiques assez librement inspirées du rite romain, et de manière générale afficha une certaine émancipation par rapport à la puissance tutélaire romaine. Cela lui valu de nombreux rappels à l'ordre qui ne restèrent pas éternellement sans conséquences, puisqu'au XIIe siècle, c'est avec la bénédiction du Pape que les franco-normands (devenus les anglo-normands) prirent pied en terre d'Irlande, avec pour mission - entre autres - de remettre l'Eglise d'Irlande au pas.
On peut peut-être attribuer l'extraordinaire réussite du christianisme dans les pays celtes à la profonde spiritualité de ces peuples, qui les a fait recevoir le dogme chrétien comme conforme à une certaines vision de leurs conceptions métaphysisques. On peut pour mémoire rappeler que le paganisme celtique croyait à l'immortalité des âmes, comme le christianisme. Certes, de nombreux peuples y croyaient, mais sans que cela recouvre la même importance. De même, les celtes partageaient avec le monothéisme juif, et par conséquent chrétien, l'interdiction de la représentation anthropomorphique des Dieux. Et de manière plus concrète, la figure du Druide celte ressemble de près par son importance sociologique à la figure du prêtre chrétien. Dans peu d'autres peuples on ne retrouve une telle prééminence de la fonction religieuse, prééminence qui se prolonge à l'époque chrétienne dans les ministres du culte. Si la conversion de l'île d'Irlande a pu être aussi rapide, c'est que Saint Patrick - ou les séides de l'Eglise, s'il n'a pas existé - a su à qui s'adresser en premier lieu : c'est vers les druides qu'il a tourné ses premiers efforts, entraînant avec eux l'élite aristocratique.

L'exubérance de l'art chrétien irlandais
En outre, l'apparition du christianisme en Irlande coïncide peu ou prou avec le développement d'une certaine forme d'art sacré, qui trouvera son apothéose dans les magnifiques manuscrits des VIIIe-IXe siècles, comme le Livre de Kells (photos à droite et ci dessous), qui reste aux yeux de tous le plus bel exemple de l'enluminure chrétienne, et qui constitue dans l'absolu une oeuvre d'art unique. Cet ouvrage est actuellement détenu par le Trinity College à Dublin. De manière globale, les " siècles obscurs " de l'Europe continentale furent en Irlande ceux d'une apothéose spirituelle qui amena les monastères irlandais à devenir des centres religieux de première importance, parmi lesquels le plus célèbre reste celui de Clonmacnoise (près d'Athlone, en République d'Irlande), dont la réputation et l'influence dépassa de loin les limites étroites de leur île. Nombreux furent les moines irlandais qui se répandirent sur le continent pour fonder ordres monastiques, missions évangélisatrices,... Les magnifiques enluminures des moines irlandais eurent elles aussi une influence artistique que l'on imagine pas : certains chercheurs font des rapprochements entre celles ci et celles des chrétiens d'Egypte, les coptes.

De plus, alors qu'ils enluminaient les plus beaux exemplaires de la Bible, les moines irlandais eurent aussi l'excellente idée de coucher par écrit les légendes et la mythologie irlandaise avant qu'elle ne se transforme en simple conte pour enfant. Ce travail a permis de sauver la trace précise d'une mythologie indo-européenne riche et grandiose. A titre de comparaison, on ne sait rien ou presque des Dieux Gaulois, à l'exception de quelques noms ou de grandes figures. A ce titre, les moines irlandais méritent la reconnaissance, car plus que leurs homologues du continent, ils ont eu à coeur de respecter et de préserver une structure sociale et une civilisation ancienne.

 

Christianisme et spiritualité celte


Mais ce qui a provoqué une certaine renaissance des nations celtes dans les îles, c'est aussi le départ des légions romaines. Leur départ de l'île de Bretagne, notamment, vit l'apparition des épopées arthuriennes, que l'on ne présente plus. Au même moment, le royaume de Bretagne s'étendait au continent, lorsque les iliens retournèrent en nombre s'installer dans la péninsule armoriquaine, donnant ainsi naissance à la Bretagne continentale.

druidesse.jpg

En outre, il ne faut pas se leurrer non plus : si l'apparition du christianisme a pu redonner une certaine vigueur à la société irlandaise, il ne faut pas oublier que ce fut au prix de la disparition de l'antique paganisme celtique, qui avait ses vertus, tout autant -voire plus- que le christianisme. Nous ne reviendrons pas sur les remarques que nous avons déjà formulé sur la nature intrinsèquement exclusive et close du discours monothéiste, en ce sens que le monothéisme ne tolère pas la diversité, quoi que nombreux soient ceux qui l'en défendent. Sur le caractère totalitaire du christianisme, et du monothéisme de manière générale, l'Histoire a été assez éloquente, et il n'est pas nécessaire de multiplier les exemples. Qui plus est, le mode de pensée binaire et manichéen du christianisme (bien/mal ; juste/injuste ; vrai/faux ; ...), qui l'est plus encore sans doute que dans le judaïsme ou l'islam, a aboli un mode de pensée sans doute plus riche et plus subtil sur bien des points. Certes, rien ne dit que la société aurait été meilleure, surtout si l'on considère que la religion elle même n'est qu'une superstructure, et que la forme de la société est essentiellement dictée par le mode de production. Mais en tout cas, on se serait peut être un peu plus amusé...

Ces motifs, pour la plupart sculptés sur des plaques de chancel, sont de pures abstractions. Ils ont un parallèle dans l’enluminure avec ce qu’on appelle les tapis d’ornement. La discussion a été vive pendant longtemps sur la signification implicite de ces panneaux. Leur datation a rejeté l’argument de la crise iconoclaste car bien trop tardive pour en constituer une explication. Bien que ce rejet de l’image figurative ait été latent durant de longues périodes puisque celui-ci existait dans la culture antique perse et se propageait avec les armées arabes islamisées, il ne saurait constituer une réponse suffisante car il a été démontré précédemment que l’entrelacs n’était particulier à aucun pays ni aucune civilisation et qu’on le retrouvait sous différentes formes sur les quatre coins du globe. En fait, tous les arts abstraits fondés sur la géométrie reflètent la science primitive de l’homme en lien avec l’observation des astres. L’astronomie ou la prévision des phénomènes de l’univers a mis en évidence la notion de cycles. Toutes les grandes civilisations se sont penchées sur cette science qui ne se comprenait que par la logique mathématique et son expression schématique : la géométrie. Dans l’art, reflet de l’esprit humain utilisant le schéma de la symbolique, l’astronomie pouvait se résumer dans ces figures religieuses qu’étaient les svastikas, yin et yang, triskels, roues solaires et entrelacs. Toutes mettent en place une idée de mouvement, de cycles et les civilisations qui les ont générées procèdent d’une expérience commune.

M. Aflaq y el BAAS

aflaq--140x180.jpg

Michel Aflaq y el BAAS: un cristiano en los orígenes del nacionalismo árabe moderno.

por José Basaburua (Revista Nº 31)

En el nacimiento del moderno nacionalismo árabe, laico y socialista, encontramos a un cristiano sirio: Michel Aflaq.

Michel Aflaq.

 

El partido BAAS (trascrito en castellano también como BAAZ y BA´TH), motor del nacionalismo árabe moderno junto al naserismo, está inseparablemente unido, durante sus primeros 20 años de existencia, a la personalidad de Michel Aflaq.

 

En la fundación de este partido destacan dos personalidades: el cristiano sirio Michel Aflaq, nacido en 1.910, como teórico del partido y Salah Bitar como organizador. Ambos formaban parte de la pequeña burguesía de Damasco. Estudiaron en La Sorbona, donde contactaron con las ideologías en pugna en los años 30 en Europa: marxismo y fascismo.

 

Michel Aflaq regresará a Damasco, donde trabajará de profesor de historia, a la vez que destaca como doctrinario de ideas nacionalistas árabes y anticolonialistas.

 

Conoce la prisión en varias ocasiones. En 1.939 es arrestado por la administración francesa. Participa en la fundación de diversos círculos políticos que darán origen al futuro partido BAAS. En 1.948 es encarcelado, encabezando entonces el gobierno Shukri el Quwatli. En 1.949 es encarcelado de nuevo por Husni El Zaim, autor del primer golpe de estado en Siria tras la independencia de la potencia colonial. Bajo el gobierno de Adib El Shishakli entra otra vez en prisión en 1.952 y posteriormente en 1.954.

 

El partido BAAS.

 

El partido BAAS es fundado por un grupo de intelectuales árabes, fundamentalmente de Damasco, destacando como teórico el mencionado Michel Aflaq. De carácter nacionalista, socializante y panarabista, al partido BAAS (resurgimiento o renacimiento, en árabe) se organiza en casi todos los países árabes, incluso dentro de la OLP con Al Saiqa, alcanzando el poder en Siria e Irak en 1.963. A lo largo de los años, sufre tanto en Siria como en Irak diversas vicisitudes, por lo que las escisiones y los enfrentamientos internos dará lugar a la presencia de numerosos partidos de inspiración baasista en diversos países árabes. Así, por ejemplo, en Líbano llegarán a existir hasta 3 partidos baasistas enfrentados entre sí.

 

Las dos columnas doctrinales sobre las que se asienta, ya en sus orígenes, el partido BAAS son el nacionalismo y el socialismo. Así, cada país árabe formaría parte de la gran nación árabe, por lo que la actual estructura estatal, heredera en parte del colonialismo europeo, debiera desaparecer progresivamente. La segunda columna del edificio teórico del baasismo es el socialismo, poco definido y, en cualquier caso, no marxista. Ambos conceptos estarían inseparablemente unidos dentro de un proyecto revolucionario y de transformación; en palabras de Aflaq:

 

“La identificación que efectuamos entre la unidad (árabe, n.d.a.) y el socialismo consiste en dar cuerpo a la idea de la unidad. El socialismo es el cuerpo y la unidad es el alma, si así puede uno decir” 1 .

 

Las fuentes consultadas señalan cierta confusión en los orígenes y primeros años de la vida del partido.

 

Los orígenes más remotos del BAAS los encontramos hacia 1.941 cuando Michel Afaq y Salah Bitar crean un comité sirio de apoyo a Iraq, para evitar su entrada en la segunda guerra mundial.

 

Según Wahib al Ghanem2, uno de los primeros dirigentes, el BAAS nace de la fusión de dos grupitos: Ihya el Arabi (la reanimación árabe) de Michel Aflaq y Baas el Arabi (la resurrección árabe) de Takri Arzuzi.

 

Es en 1.947 cuando se celebra el primer congreso del mismo, coincidiendo en ello los diversos autores, al que asisten 247 intelectuales procedentes de diversos países árabes. Los asistentes tenían orientaciones ideológicas muy distintas, lo que le llevó a un acuerdo programático final de compromiso, muy genérico. Esa aparente debilidad ideológica inicial permitió, en el futuro, un amplio margen de flexibilidad táctica y doctrinal. En dicho congreso se nombra a Aflaq presidente y Salah Bitar como secretario general. El primer comité ejecutivo lo formarán Salah Bitar, Yalal As – Sayid y Wahib al Ghanem.

 

El BAAS desde su nacimiento, en parte por lo genérico de su programa en diversos aspectos, es un partido realista y flexible en sus alianzas con otras fuerzas políticas, por lo que pactará con nasseristas o comunistas, por pura conveniencia en aras de alcanzar el poder.

 

Sus principales ideas originarias eran:

 

1. Los pueblos árabes forman una unidad política y económica a la que denominarán: nación árabe, expresión que logrará gran fortuna.

 

2. La nación árabe también es una unidad cultural.

 

3. Sólo los árabes, como habitantes de la nación árabe, tienen derecho a determinar su futuro. De ahí su inicial posicionamiento frente al colonialismo y su neutralismo doctrinal.

 

El partido sufrió diversas transformaciones, incorporándose al mismo otros partidos socialistas y nacionalistas que ensancharían su base sociológica, muy estrecha en sus orígenes (intelectuales, básicamente). Así, en 1.954, el BAAS se fusiona con el partido Arabe Socialista de Akram Hurani, por lo que desde entonces adopta el socialismo como seña de identidad, si bien para otros autores, su denominación de “socialista” figuró ya desde 1.947

 

El objetivo fundamental del BAAS era la unidad de la nación árabe y el partido se definirá en su constitución, por ello, como árabe, nacionalista, socialista, democrático y revolucionario.

 

Ideología de Michel Aflaq.

 

Durante su estancia en París, inicialmente ambos fundadores simpatizarán con el nacionalsocialismo alemán, por haber conseguido a su juicio, una síntesis entre ambos conceptos, que ellos quieren aplicar al mundo árabe. Como causa de su debilidad diagnosticarán la fragmentación territorial y del poder de los árabes. En concreto, algunos autores se remiten al teórico alemán Alfred Rosenberg como inspirador de ambos3.

 

Nacionalismo y socialismo son las columnas fundamentales sobre las que se sostiene la ideología de Aflaq y que trasladará al BAAS.

 

Dada su confesión cristiana, greco – ortodoxo en concreto, veamos su posición frente al islamismo. Algunos autores, egipcios especialmente, considerarán que nacionalismo e Islam eran incompatibles. Tal pretensión se intenta desmentir desde las altas instancias del partido. Lógicamente, Michel Aflaq, como principal teórico del partido, ya en 1.943 señalará que:

 

“El Islam presenta la imagen más brillante de su lengua y de su literatura (árabes, n.d.a.), y la parte más importante de su historia nacional es indisociable de él, porque el Islam en su esencia y en su verdad es un movimiento árabe que representa la renovación y la culminación de la realidad, porque descendió a su suelo y en su lengua, porque el apóstol (Mahoma) es árabe y los primeros héroes que lucharon por el Islam y lo hicieron triunfar fueron árabes, porque su visión de la realidad se identificaba con el espíritu árabe, las virtudes que fomentó eran virtudes árabes, implícitas o explícitas, y los defectos que fustigó eran defectos árabes en vías de desaparecer” 4 .

 

Para Michel Aflaq el Islam se había regenerado en la época moderna en el nacionalismo árabe.

 

En cualquier caso, pese a tales afirmaciones, el BAAS siempre ha sido sospechoso de laicismo para los movimientos islámicos, enfrentándose a los mismos en numerosas ocasiones.

 

La búsqueda de un nacionalismo socialista le llevó a una neutralidad teórica en política exterior, no alineándose a las corrientes europeas.

 

Michel Aflaq, ante occidente, se opone resueltamente, por ser sus potencias coloniales las que un día explotaron a los árabes, impidiendo su unidad. Tampoco se identificará con los países comunistas, pues el marxismo, su base ideológica, es contrario a los nacionalismos y, por ello, antiárabe.

 

Ante el comunismo, Aflaq muestra un absoluto desacuerdo que concretará en tres aspectos:

 

1. Frente al determinismo marxista, considera la revolución como un acto explosivo de libertad.

 

2. Frente al internacionalismo proletario, afirma el nacionalismo árabe.

 

3. Respecto al papel de la religión, Aflaq, en contra de lo afirmado por el marxismo, considera que moral y religión son valores fundamentales y eternos5.

 

Ello le llevará a que el partido BAAS en los años 40 y 50 sea profundamente anticomunista. Después, ya en el poder, establecerá algunas alianzas temporales con partidos comunistas, siguiendo la política de Frente Nacional. Pero dado que occidente apoya tradicionalmente a Israel, en particular los Estados Unidos, Aflaq considerará ya en 1.956 como lógica la convergencia con la Unión Soviética, al coincidir en su lucha contra el Estado de Israel y precisar de apoyos exteriores en ese sentido.

 

Ya en 1.971, Bitar analiza la situación del partido de forma muy crítica, afirmando que los jóvenes del mismo estudian al marxismo leninismo, no por convicción comunista, sino por la necesidad de una formación ideológica que el partido no había sido capaz de proporcionar6.

 

El BAAS en Siria.

 

Tras la independencia de Siria, se suceden numerosos gobiernos y golpes de estado.

 

Ya hemos visto que el BAAS nace en 1.947, de la mano de unos intelectuales y de una estrecha base humana de unos pocos cientos de militantes en toda Siria. Sin embargo, el BAAS logrará la adhesión de diversos oficiales del joven ejército sirio, en particular pertenecientes a la minoría alauita.

 

El dictador Shishakli cae en 1.954. Merced una alianza con diversos partidos, algunos baasistas entran en el gobierno, caso de Bitar.

 

De 1.958 a 1.961, tiene lugar la unión con Egipto en la R.A.U., lógica consecuencia del panarabismo preconizado.

 

A partir de 1.963, a raíz del golpe de estado que lleva al BAAS al poder, la influencia de los militares dentro del partido se hace patente.

 

En 1.964 Aflaq y Salah El Yedih se unen, eliminando a la corriente marxista encabezada por Saadi.

 

En 1.966 el ala de izquierda del BAAS encabezado por un militar, Salah El Yedih, mediante un golpe de estado retoma el poder en Siria. Aflaq y el resto de los fundadores históricos desaparecen del ejercicio del poder real. Los nuevos dirigentes, denominados neobaasistas al revisar algunos de sus planteamientos originales, se aproximan a la Unión Soviética en el plano exterior y en el plano ideológico, lo harán al socialismo científico. Pero, de forma paralela, se establece la alianza con la minoría alauita.

 

En 1.970 Yedih es desplazado en el poder por el actual presidente Hafed El Assad, quien desarrollará una política internacional de búsqueda de nuevos acuerdos.

 

Con la evolución política interior de Siria que ya hemos señalado, el BAAS arraiga fundamentalmente entre la minoría religiosa alauita. Se trata de una rama del chiísmo ismaelita a la que pertenecen en Siria menos del 20% del total de su población. Apoyados por la potencia colonial, Francia, mientras permaneció en Siria, reclutará entre esa minoría tropas aguerridas, que engrosarían fuerzas de choque. El ejército sirio, con la independencia, se apoyará en esta minoría, de la que forma parte el actual presidente Hafez Al Assad. Lógicamente, los Hermanos Musulmanes, sunitas, acogieron con absoluta desconfianza al nuevo gobierno. Pronto comenzarían los incidentes entre ambas fuerzas sirias7, especialmente en la ciudad de Hama, en la que se vivieron alzamientos ya en 1.963; también protagonizaron diversos atentados en diversas zonas del país, lo que en todo caso acarreó gravísimas represalias gubernamentales. La acción más grave tuvo lugar en 1.979, al producirse un atentado de los Hermanos Musulmanes contra la escuela de artillería de Alepo, que causó la muerte de 83 alumnos oficiales, alauitas. El régimen respondió con la práctica del terror. En 1.982 se vuelve a sublevar Hama, dominando toda la ciudad tras una dura lucha que generó varios miles de muertos.

 

El BAAS en Iraq.

 

El BAAS iraquí tiene su origen en otros grupos políticos anterirores: el Islah (reforma), que había apoyado al régimen pronazi de de Rashid Alí, Al Istiqlal (independencia), y el Partido Socialista Nacional de Salih Yaber8.

 

En febrero de 1.963 un golpe de estado lleva al poder al BAAS, que se encontraba dividido en varias fracciones. Pero el presidente de la República Aref, logra eliminar a los baasistas del gobierno.

 

En 1.968 el BAAS vuelve al poder de la mano de unos militares no baasistas. Se suceden las crisis dentro del gobierno y del partido BAAS. En 1.979, alcanza el poder Saddam Hussein, quien acumulará todos los cargos con poder real del gobierno, ejército y partido, logrando un poder absoluto hasta hoy.

 

Iraq se alineó inicialmente con los países árabes moderados, constituyendo un polo de atracción y muro de contención de los árabes ante el radicalismo chiíta del Irán. Dicho enfrentamiento generó una cruenta guerra con cientos de miles de víctimas de ambas nacionalidades. Pero, años después con la invasión de Kuwait, perdió el apoyo de casi todos los gobiernos árabes, salvo Jordania y Libia, y otros países musulmanes como Sudán..

 

Al igual que en Siria, el BAAS iraquí enraiza en una minoría, en concreto en el clan familiar de Sadam Huseim, de creencias sunitas. También encontraremos a algunos cristianos, como es el caso del muchos años ministro de asuntos exteriores Tarik Aziz (católico de rito caldeo).

 

Michel Aflaq en el ostracismo.

 

Hemos visto ante que el nacionalismo socialista del BAAS le llevará a vagas afirmaciones ideológicas, por lo que desarrollará gran movilidad táctica. Esta vía le permite rechazar toda asimilación a modelos occidentales, capitalistas o marxistas, optando por ello en el plano exterior con la no alineación, si bien por motivos tácticos, se aproximó en los años 70 al bloque soviético, lo que favoreció también el apoyo occidental al estado de Israel. Posteriormente, con los complejos avatares de la política nacional de Siria e Irak, y con un creciente protagonismo en ambos de los militares, los dos partidos BAAS en el poder se convierten en instrumentos de poder de dos personas y sus clanes familiares: Hafed el Assad en Siria y Saddam Husseim en Irak. En la actualidad, pese al origen ideológico común, ambos países se encuentran alineados en el plano internacional de forma diferente, habiendo desempeñado un papel muy distinto en ese sentido. Siria ha jugado la baza del radicalismo árabe frente Israel, intentando dominar al movimiento palestino, lo que no ha logrado, pero si que ha conseguido fraccionarlo, merced a la creación en su día del Frente de Rechazo ante la OLP de Arafat. Por otra parte, ha jugado la baza del Líbano en un doble sentido: el control del mismo a modo de protectorado y su utilización frente a Israel. Irak jugó inicialmente la baza de la moderación y de la contención del chiísmo persa. Pero evolucionó al radicalismo como una huida hacia delante a raíz de la aludida invasión de Kuwait.

 

Michel Aflaq es postergado en 1.966 en Siria a raíz de las diversas oscilaciones del poder en Damasco y de la radicalización que triunfó en la fracción baasista en el poder. Por ello, se trasladará a Irak, al formar parte de la Dirección Internacional del BAAS y al radicar allí un régimen baasista inicialmente moderado. Hemos visto que el BAAS iraquí tiene, en sus orígenes, varias tendencias. Una de ellas, la más derechista, es apoyada de alguna manera por Aflaq, pero en el futuro desarrollo del curso político en Iraq en los años siguientes, esa corriente es progresivamente desplazada por otros protagonistas. Con ello, la estrella de Aflaq dejó de brillar.

 

Pierde, con todo ello, protagonismo real en la dirección del BAAS.

 

Todavía en 1.977, el intelectual francés Jacques Benoist-Méchin, entrevista a Aflaq para su libro “Un printemps arabe”, pues constituyó una figura clave para entender el moderno nacionalismo árabe.

 

Muere en París el 23 de junio de 1.989. Su muerte pasó desapercibida para los medios oficiales sirios. Su camarada Salah Bitar había muerto, también en París donde se había exiliado, pero asesinado, hacía 9 años.

 

Michel Aflaq es producto de una época hiperideologizada. A raiz de sus estudios en Europa entra en contacto con las diversas ideologías en pugna. Nacionalista por su origen familiar, considerará que el socialismo es imprescindible para la superación del atraso social árabe, si bien pospondrá tal objetivo a la consecución de la unidad nacional. Sin una base ideológica muy firme (su socialismo era de formulación muy genérica y un tanto demagógica), por causas tácticas pactará con aliados ocasionales diversos, incluso con comunistas ortodoxos pro-soviéticos. En cualquier caso, intentó una síntesis ideológica original en la que, sin duda, pesó sus orígenes cristianos.

 

Y dada su postura moderada, dentro de la evolución histórica del BAAS, quedará marginado ante la evolución sufrida por dicho partido tanto en Siria como en Irak, que caerá bajo el control de minorías vinculadas al poder militar en ambos países, lo que supone un fracaso al ser contradictorio con las pretensiones populares del baasismo. De hecho, las luchas intestinas dentro del partido y la represión de los opositores políticos, generará en ambos países miles de víctimas.

 

Con todo, es de destacar un logro importante, consistente en que las minorías religiosas no musulmanas han disfrutado de cierta libertad de acción, tanto en Siria como en Irak, en comparación a las restricciones absolutas impuestas en otros países musulmanes como Arabia Saudita. Sin duda, ello es producto de la tendencia no confesional original del Baas.

 

El baasismo ha sido considerado como uno de los episodios más importantes acaecidos en la historia del mundo árabe a lo largo del siglo XX9. Incluso hoy día, la postura internacional de Irak ha sido tomada como referencia para diversos movimientos progresistas de toda esa área internacional, postura que es en buena medida coherente con los postulados doctrinales originales que contribuyó a estructurar Michel Aflaq.

 

•- •-• -••••••-•
José Basaburua (Revista Nº 31)

 



1 Michel Aflaq. “El combate del destino unido”. 2ª edición. Beirut. 1.959. Pág. 53.

2 Así lo recoge Zidane Zeraoui. “Siria – Iraq. El Ba’th en el poder”. Universidad Nacional Autónoma de Méjico. 1.986. Pág. 7.

3 Hichem Djaït. “Europa y el Islam”. Ediciones libertarias. Madrid. 1.1.990. Pág. 116.

4 Michel Aflaq. “Selecciones de textos del pensamiento del fundador del partido Baas”. Madrid. 1.977. Pág. 12.

5 Según recoge Zidane Zeraoui. Obra citada. Pág. 12.

6 Según cita recogida por Zidane Zeraoui. Obra citada. Pág. 6.

7 Sobre la ideología de los Hermanos Musulmanes: “El despertar del Islam”. Roger du Pasquier. Desclee de Brouwer”.Bilbao. 1.992. Se recoge en dicho texto también el enfrentamiento con el baasismo en Siria.

8 Según Samir Amin en “La nación árabe. Nacionalismo y lucha de clases”. Citado por Zidane Zeraoui en el texto mencionado.

9 Hichem Djaït. Obra citada. Página 190.

mardi, 14 octobre 2008

le Grand Mufti et le nationalisme palestinien

Haj%20Amin%20el-Husseini.jpg

Ecole des cadres - SYNERGIES EUROPEENNES - Octobre 2008 - Lectures

Louis DENISTY :
Le grand mufti et le nationalisme palestinien
Hajj Amin al-Hussayni, la France et la Grande-Bretagne face à la révolte arabe de 1936-1939
préface de : Daniel Rivet
L'Harmattan , Paris - collection Comprendre le Moyen-Orient

Résumé

En 1936, éclate la première révolte arabe en Palestine, alors sous mandat britannique. Ce mouvement, entraîné par Hajj Amin al-Hussayni, revendique la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. En s'appuyant sur les archives diplomatiques françaises et britanniques dont il fait une lecture croisée, l'auteur donne un éclairage sur cette période cruciale de l'histoire de la région.

Quatrième de couverture

En avril 1936 éclate la première grande révolte des Arabes de Palestine, qui revendiquent la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. A la tête de ce mouvement s'impose un personnage, Hajj Amin al-Hussayni, Grand Mufti de Jérusalem. Celui-ci, banni par les Britanniques, trouve refuge au Liban où les Français le laissent jouir d'une liberté suffisante pour tenter de faire entendre la voix du peuple palestinien. Les querelles de personnes et l'incapacité des puissances dominant la région à s'entendre enfoncent la Palestine dans des années tragiques et ensanglantées. L'objet de cet ouvrage est de faire la lumière sur cette période peu connue et pourtant si cruciale de l'histoire de la Palestine, en questionnant les archives diplomatiques françaises et britanniques. Pour comprendre, pour expliciter, et non pour juger. Durant les années 1936/1939, avec la connaissance des soixante-dix années qui ont suivi, il apparaît que se mettent irrémédiablement en place tous les éléments dramatiques qui ont plongé, jusqu'à aujourd'hui encore, un peuple dans un abîme de malheur infini.

lundi, 13 octobre 2008

Hiroshima: la décision fatale

hiroshima1.gif

Hiroshima: la décision fatale selon Gar Alperovitz

 

Si on examine attentivement l'abondante littérature actuelle sur l'affrontement entre le Japon et les Etats-Unis au cours de la seconde guerre mondiale, on ne s'étonnera pas des thèses que vient d'émettre Gar Alperovitz, un historien américain. Son livre vaut vraiment la peine d'être lu dans sa nouvelle version alle­mande (ISBN 3-930908-21-2), surtout parce que la thématique de Hiroshima n'avait jamais encore été abordée de façon aussi détaillée. Alperovitz nous révèle une quantité de sources inexplorées, ce qui lui permet d'ouvrir des perspectives nouvelles.

 

Il est évidemment facile de dire, aujourd'hui, que le lancement de la première bombe atomique sur Hiroshima le 6 août 1945 a été inutile. Mais les contemporains de l'événements pouvaient-ils voir les choses aussi clairement? Qu'en pensaient les responsables de l'époque? Que savait plus particulière­ment le Président Truman qui a fini par donner l'ordre de la lancer? Alperovitz nous démontre, en s'appuyant sur de nombreuses sources, que les décideurs de l'époque savaient que le Japon était sur le point de capituler et que le lancement de la bombe n'aurait rien changé. Après la fin des hostilités en Europe, les Américains avaient parfaitement pu réorganiser leurs armées et Staline avait accepté d'entrer en guerre avec le Japon, trois mois après la capitulation de la Wehrmacht. Le prolongement de la guerre en Asie, comme cela avait été le cas en Europe, avait conduit les alliés occidentaux à exiger la “capitulation inconditionnelle”, plus difficilement acceptable encore au Japon car ce n'était pas le chef charismatique d'un parti qui était au pouvoir là-bas, mais un Tenno, officiellement incarnation d'une divi­nité qui gérait le destin de l'Etat et de la nation.

 

Alperovitz nous démontre clairement que la promesse de ne pas attenter à la personne physique du Tenno et la déclaration de guerre soviétique auraient suffi à faire fléchir les militaires japonais les plus en­têtés et à leur faire accepter l'inéluctabilité de la défaite. Surtout à partir du moment où les premières at­taques russes contre l'Armée de Kuang-Toung en Mandchourie enregistrent des succès considérables, alors que cette armée japonaise était considérée à l'unanimité comme la meilleure de l'Empire du Soleil Levant.

 

Pourquoi alors les Américains ont-ils décidé de lancer leur bombe atomique? Alperovitz cherche à prouver que le lancement de la bombe ne visait pas tant le Japon mais l'Union Soviétique. L'Amérique, après avoir vaincu l'Allemagne, devait montrer au monde entier qu'elle était la plus forte, afin de faire valoir sans con­cessions les points de vue les plus exigeants de Washington autour de la table de négociations et de tenir en échec les ambitions soviétiques.

 

Le physicien atomique Leo Szilard a conté ses souvenirs dans un livre paru en 1949, A Personal History of the Atomic Bomb;  il se rappelle d'une visite de Byrnes, le Ministre américain des affaires étrangères de l'époque: «Monsieur Byrnes n'a avancé aucun argument pour dire qu'il était nécessaire de lancer la bombe atomique sur des villes japonaises afin de gagner la guerre... Monsieur Byrnes... était d'avis que les faits de posséder la bombe et de l'avoir utilisé auraient rendu les Russes et les Européens plus conci­liants».

 

Quand on lui pose la question de savoir pourquoi il a fallu autant de temps pour que l'opinion publique américaine (ou du moins une partie de celle-ci) commence à s'intéresser à ce problème, Alperovitz répond que les premières approches critiques de certains journalistes du Washington Post ont été noyées dans les remous de la Guerre Froide. «Finalement», dit Alperovitz, «nous les Américains, nous n'aimons pas entendre dire que nous ne valons moralement pas mieux que les autres. Poser des questions sur Hiroshima, c'est, pour beaucoup d'Américains, remettre en question l'intégrité morale du pays et de ses dirigeants».

 

Le livre d'Alperovitz compte quelques 800 pages. Un résumé de ce travail est paru dans les Blätter für deutsche und internationale Politik (n°7/1995). Les points essentiels de la question y sont explicités clai­rement.

 

(note parue dans Mensch und Maß, n°7/1996; adresse: Verlag Hohe Warte, Tutzinger Straße 46, D-82.396 Pähl; résumé de Robert Steuckers).

 

 

mardi, 07 octobre 2008

Kurt Schumacher, socialiste prussien

HBGFApraWcb_Pxgen_r_400xA.jpg

 

Kurt Schumacher, socialiste prussien

 

«Aujourd'hui, la sociale-démocratie voit comme grand objectif national l'unité allemande dans la paix et la liberté. Elle s'opposera à toute tentative de fondre des parties du territoire national allemand dans d'autres peuples et combattra tous ceux qui préfèreront de telles solutions à l'unité allemande. Nous voulons la Communauté. Mais toute communauté commence pour nous par une Communauté avec les habitants de la zone soviétique d'occupation et de la Sarre». Ces paroles fortes de Kurt Schumacher ont eu valeur de programme pour la SPD, qui se positionnait comme le “parti de la réunification”. Elles sont extraites d'un long discours de Schumacher, président de la SPD dans l'immédiat après-guerre, prononcé à Dortmund en 1952, lors d'un congrès destiné à donner les mots-d'ordre aux militants de base. Mais que reste-t-il de ce nationalisme social et intransigeant en 1989/90? Rien. Absolument rien. Les soixante-huitards du pou­voir actuel, liquidateurs de la SPD, avaient encore plaidé en 1989, à la veille de la chute du Mur, pour que l'on abroge les phrases récla­mant explicitement le retour à l'unité allemande dans le préambule de la loi fondamentale de la RFA. Cet aveuglement et cette trahison font qu'ils courent le risque, aujourd'hui, d'être balayés par l'histoire. Mais le premier Président des sociaux-démocrates de notre après-guerre, Kurt Schumacher, demeurera dans les mémoires, précisément parce qu'il a été clairvoyant, nationaliste et intransigeant. Son œuvre a été pa­triotique et le peuple allemand doit lui en être reconnaissant.

 

Un mutilé de 1914-1918

 

Comme l'immense majorité des jeunes Allemands, Schumacher, après avoir passé son Abitur [équivalent du “bac”], s'engage dans l'armée en août 1914. Il était né le 13 octobre 1895 à Kulm en Prusse occiden­tale. Envoyé sur le front de l'Est, contre les Russes, le jeune homme, qui ne cache pas ses sympathies socialistes, demande à servir en première ligne, pour contribuer personnellement à arrêter le “danger tsa­riste”, que dénonçaient la SPD et August Bebel. Mais l'euphorie de l'été 1914 sera de courte durée pour Kurt Schumacher; elle finira tragiquement. Le 2 décembre 1914, le volontaire Schumacher est très griè­vement blessé lors de la bataille de Lodz. Il faut lui amputer le bras droit. En 1915, après avoir transité dans de nombreux hôpitaux de campagne, il est démobilisé, avec la Croix de Fer de 2ième classe au re­vers de son Waffenrock. Il se console en étudiant le droit, l'économie et les sciences politiques à Halle, Leipzig et Berlin. 1918 est, pour lui, l'année d'une terrible césure; au printemps, il s'était affilié à la MSPD, une aile de la so­ciale-démocratie qui entendait “construire la communauté nationale dans la responsabilité” et visait un ré­formisme socialiste à forte structuration étatique. Quand éclate la “révolution de novembre”, il devient membre du “Conseil des Ouvriers et des Soldats” du Grand-Berlin. Il y représentait la voie parlementaire au sein du Reichsbund der Kriegsbeschädigten [= Fédération Impériale des mutilés de guerre].

 

Les bouleversements de la “révolution de novembre” obligent le jeune Schumacher à abandonner l'idée de faire une carrière de fonctionnaire et à se jeter corps et âme dans la politique. Il s'installe dans le Wurtem­berg en décembre 1920, pour servir son parti pendant quatre ans à la rédaction de la Schwäbische Tag­wacht de Stuttgart. En 1924, il est élu à la Diète du Land de Wurtemberg, où il gagne rapidement ses lau­riers de chef de l'opposition sociale-démocrate. En 1930, Chef de la SPD du Wurtemberg et de sa milice, le Reichsbanner, il entre au Reichstag comme député. Mais il est jeune, et le présidium des députés socialistes, composé de vieillards têtus et bornés, le relègue sur les arrière-bancs. Ce n'est que le 23 février 1932 que le militant Schumacher va pouvoir donner de la voix et déployer sa rhétorique tranchante et virulente, et étaler son nationalisme; Goebbels venait de diffamer gravement la sociale-démocratie en la désignant comme le “parti des déserteurs”. Schumacher, le mutilé de guerre, a bondi à la tribune, prêt à prononcer un discours au vitriol, où il a rappelé que les socialistes avaient payé l'impôt du sang et perdu leurs biens au même titre que les autres citoyens pendant la guerre et que leur politique n'était pas moins “nationale” que celle de Goebbels. Schumacher donne ensuite la liste des députés socialistes mutilés, décorés et anciens combattants. Une liste plus longue que celle des nationaux-socialistes... Ensuite, plus dur, il traite Goeb­bels de “petit mal-foutu, rédacteur de mauvais feuilletons” et l'agitation nationale-socialiste d'“appel cons­tant au cochon qui sommeille dans l'intériorité de tout homme”. Inutile de dire qu'il devint ainsi la bête noire des nazis.

 

Cette polémique, l'engagement de Schumacher pour l'unité allemande de 1945 à 1952, reposaient sur une vision bien précise du socialisme, qui était un “socialisme prussien”. Dans sa thèse de doctorat, présen­tée en 1926, et intitulée Der Kampf um den Staatsgedanken in der deutschen Sozialdemokratie [La lutte pour l'idée d'Etat dans la sociale-démocratie allemande], Schumacher, ressortissant de Prusse occiden­tale, se montre rigoureusement “étatiste” et réclame l'avènement d'une nouvelle doctrine de l'Etat. Il écrit: «La spécificité toute particulière de la germanité, reliée au rôle tout particulier de la sociale-démocratie, montre bien que nous manquons cruellement d'une doctrine socialiste de l'Etat». Sans ambiguités, Schu­ma­cher ne cache pas ses sympathies pour “l'organisation étatique prussienne”, héritage d'une vision las­sal­lienne de l'Etat, qui accordait le primat à cette instance parce qu'elle était un instrument d'intervention dans les forces économiques du libre marché et du capitalisme, alors qu'elle était démonisée et com­battue par les marxistes.

 

Quand les nationaux-socialistes prennent le pouvoir en 1933, la carrière de Schumacher prend fin abrup­tement. Délibérément, il refuse d'émigrer et, à partir de juillet 1933, commence son long périple dans les camps de concentration: Heuberg, Kuhberg et surtout Dachau, où les souffrances du coprs et de l'esprit s'accumulent. Son internement durera dix ans. Ce n'est qu'en 1943 que le mutilé de 1914, manchot mais intact intellectuellement, peut quitter Dachau et revenir à la vie civile. Comme il ne peut plus mettre les pieds à Stuttgart, il s'installe à Hannovre avec sa sœur et son beau-frère. C'est de son bureau dans cette ville qu'il amorcera la reconstruction de la SPD dans les zones d'occupation occidentales. Malgré une santé déficiente, il parvient en quelques semaines ou en quelques mois à devenir le fer de lance de la SPD ressuscitée. Ce retour étonnant, il le doit à son charisme, à ses talents de chef et à sa rhétorique hâchée, dure, sans compromis. Schumacher sait parler et organiser, son passé de souffrances, d'abnégation, qui ne l'ont pas abattu, font de lui l'incarnation de la prusséité protestante et lui attirent des centaines de mil­liers de sympathisants et des millions d'électeurs, des anciens sociaux-démocrates, des soldats revenus du Front, des anciens des jeunesses hitlériennes... Les jeunes, qui n'ont connu que le national-socia­lisme, sont fascinés par son credo à la fois nationaliste et social-démocrate. Ensuite, dans un discours, Schumacher leur promet que “la plupart des soldats allemands rentreront dans une nouvelle patrie et en deviendront rapidement les piliers porteurs”.

 

Après avoir conclu un accord avec son homologue de la zone soviétique, Grotewohl, Schumacher devient le représentant de la SPD-Ouest (en octobre 1945), accède à la dignité de Président du parti en mai 1946, et reste jusqu'à sa mort en 1952 le chef de l'opposition sociale-démocrate au Bundestag. Dans cette car­rière, il a eu bien des mérites. Par son influence et sa faculté de persuader ses camarades, il a mis un terme à la politique de “bolchevisation” entreprise par les Soviétiques et leurs complices allemands. Celle-ci n'a réussi qu'à l'Est de l'Elbe. Schumacher a opposé une résistance farouche à toutes les tentatives des “communistes unitaires” d'installer des structures de la SED (est-allemande) à l'Ouest et à Berlin-Ouest.

 

Maxime de la politique: l'unité

 

Toute en résistant aux pressions des communistes et de leurs alliés, Schumacher modernise le parti, lui impose une politique et un programme de rénovation, l'ouvre aux classes moyennes. Schumacher rompt avec la dogmatique marxiste et ses justifications sonnent encore assez justes aujourd'hui: «C'est égal, si quelqu'un devient aujourd'hui social-démocrate parce qu'il est un adepte des analyses économiques marxistes, ou s'il vient à nous pour des motifs philosophiques ou éthiques ou s'il adhère à notre socia­lisme parce qu'il croit aux principes évangéliques du Sermont sur la Montagne. Chacun a les mêmes droits dans le parti d'affirmer sa personnalité spirituelle ou intellectuelle, d'annoncer ses motivations». Mais Schumacher ne tombait pas dans le libéralisme: il restait inébranlablement fidèle aux théories de la macro-planification en économie et à une socialisation partielle. Cette fidélité provenait de sa conception lassal­lienne de l'Etat qu'il articulait dans le contexte de la reconstruction allemande et de l'alternative socialo-communiste que proposaient les dirigeants de la zone soviétique d'occupation.

 

Mais le message le plus important de Schumacher a été le suivant: l'insistance sur la réunification. Il a im­posé aux chefs de la sociale-démocratie, il a communiqué au peuple de part et d'autre du Rideau de Fer, l'idée que la réunification devait demeurer la “mesure de toute chose” en politique allemande. «Au contraire d'Adenauer, il n'a jamais cessé de plaider pour la réunification, de mobiliser les efforts de son parti pour l'unité. Il en a fait la maxisme supérieure de la politique allemande», écrit l'historien Rainer Zitelmann (in Adenauers Gegner. Streiter für die Einheit, Straube, Erlangen, 1991).

 

Le 20 août 1952, Kurt Schumacher, le patriote de la sociale-démocratie allemande, meurt après une longue et pénible maladie. Mais le message qu'il a laissé avant de mourir en 1952 reste plus actuel que jamais: «Il faut donner au peuple allemand une nouvelle conscience nationale, à égale distance entre l'arrogance du passé et la tendance actuelle, de voir dans tous les souhaits des Alliés, la révélation d'un sentiment européen. Seul un peuple qui s'affirme lui-même pour ce qu'il est peut devenir un membre à part entière d'une communauté plus vaste».

 

Christian HARZ.

(Article paru dans Junge Freiheit, n°41/1995; trad. franç. : Robert Steuckers).

00:20 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, socialisme, spd, allemagne, prusse, unité allemande, politique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 05 octobre 2008

La diplomatie de Staline

stalin-molotov.jpg

 

Robert Steuckers:

 

La diplomatie de Staline

 

L'histoire de notre siècle est enseignée du point de vue américain. Il en va ainsi de la seconde guerre mondiale, de la Guerre Froide et de la Guerre du Golfe. Dans l'optique américaine, le XXième siècle est le “siècle américain”, où doit s'instaurer et se maintenir un ordre mondial conforme aux intérêts américains, qui est simultanément la “fin de l'histoire”, le terminus de l'aventure humaine, la synthèse définitive de la dialectique de l'histoire. Francis Fukuyama, à la veille de la guerre du Golfe, affirmait qu'avec la chute du Rideau de fer et la fin de l'“hégélianisme de gauche” que représentait l'URSS, un seul modèle, celui du libé­ralisme américain, allait subsister pour les siècles des siècles. Sans que plus un seul challengeur ne se pointe à l'horizon. D'où la mission américaine était de réagir rapidement, en mobilisant le maximum de moyens, contre toute velleité de construire un ordre politique alternatif.

 

Quelques années avant Fukuyama, un auteur germano-américain, Theodore H. von Laue, prétendait que la seule véritable révolution dans le monde et dans l'histoire était celle de l'occidentalisation et que toutes les révolutions politiques non occidentalistes, tous les régimes basés sur d'autres principes que ceux en vogue en Amérique, étaient des reliquats du passé, que seuls pouvaient aduler des réactionnaires per­vers que la puissance américaine, économique et militaire, allait allègrement balayer pour faire place nette à un hyper-libéralisme de mouture anglo-saxonne, débarrassé de tout concurrent.

 

Si l'hitlérisme est généralement considéré comme une force réactionnaire perverse que l'Amérique a con­tribué à éliminer d'Europe, on connaît moins les raisons qui ont poussé Truman et les protagonistes atlan­tistes de la Guerre Froide à lutter contre le stalinisme et à en faire également un croquemitaine idéolo­gique, considéré explicitement par von Laue comme “réactionnaire” en dépit de son étiquette “pro­gres­siste”. Cette ambiguïté envers Staline s'explique par l'alliance américano-soviétique pendant la seconde guerre mondiale, où Staline était sympathiquement surnommé “Uncle Joe”. Pourtant, depuis quelques années, de nombreux historiens révisent intelligemment les poncifs que quarante-cinq ans d'atlantisme forcené ont véhiculé dans nos médias et nos livres d'histoire. L'Allemand Dirk Bavendamm a démontré dans deux ouvrages méticuleux et précis quelles étaient les responsabilités de Roosevelt dans le déclen­che­ment des conflits américano-japonais et américano-allemand et aussi quelle était la duplicité du Président américain à l'égard de ses alliés russes. Valentin Faline, ancien ambassadeur d'URSS à Bonn, vient de sortir en Allemagne un ouvrage de souvenirs historiques et de réflexions historiogra­phiques, où ce brillant diplomate russe affirme que la Guerre Froide a commencé dès le débarquement anglo-américain de juin 1944 sur les plages de Normandie: en déployant leur armada naval et aérien, les puissances occi­den­tales menaient déjà une guerre contre l'Union Soviétique et non plus contre la seule Allemagne mo­ri­bonde.

 

Une lecture attentive de plusieurs ouvrages récents consacrés aux multiples aspects de la résistance allemande contre le régime hitlérien nous oblige à renoncer définitivement à interpréter l'histoire de la se­conde guerre mondiale et de l'alliance anglo-américano-soviétique selon le mode devenu conventionnel. L'hostilité à Staline après 1945 provient surtout du fait que Staline entendait pratiquer une diplomatie gé­nérale basée sur les relations bilatérales entre les nations, sans que celles-ci ne soient chapeautées par une instance universelle comme l'ONU. Ensuite, après avoir appris que les deux puissances anglo-saxonnes avaient décidé seules à Casablanca de faire la guerre à outrance au Reich, de déclencher la guerre totale et d'exiger la capitulation sans condition de l'Allemagne nationale-socialiste, Staline s'est senti exclu par ses alliés. Furieux, il a concentré sa colère dans cette phrase bien ciselée, en apparence anodine, mais très significative: «Les Hitlers vont et viennent, le peuple et l'Etat allemands demeurent». Staline ne concevait pas le national-socialisme hitlérien comme le mal absolu ou même comme une es­sence impassable, mais comme un accident de l'histoire, une vicissitude contrariante pour la Russie éternelle, que les armes soviétiques allaient tout simplement s'efforcer d'éliminer. Mais, dans la logique diplomatique traditionnelle, qui est restée celle de Staline en dépit de l'idéologie messianique marxiste, les nations ne périssent pas: on ne peut donc pas exiger de capitulation inconditionnelle et il faut toujours laisser la porte ouverte à des négociations. En pleine guerre, les alliances peuvent changer du tout au tout, comme le montre à l'envi l'histoire européenne. Staline se borne à réclamer l'ouverture d'un second front, pour soulager les armées soviétiques et épargner le sang russe: mais ce front n'arrive que très tard, ce qui permet à Valentin Faline d'expliquer ce retard comme le premier acte de la Guerre Froide entre les puissances maritimes anglo-saxonnes et la puissance continentale soviétique.

 

Cette réticence stalinienne s'explique aussi par le contexte qui précéda immédiatement l'épilogue de la longue bataille de Stalingrad et le débarquement des Anglo-Saxons en Normandie. Quand les armées de Hitler et de ses alliés slovaques, finlandais, roumains et hongrois entrent en URSS le 22 juin 1941, les Soviétiques, officiellement, estiment que les clauses du Pacte Molotov/Ribbentrop ont été trahies et, en automne 1942, après la gigantesque offensive victorieuse des armées allemandes en direction du Caucase, Moscou est contrainte de sonder son adversaire en vue d'une éventuelle paix séparée: Staline veut en revenir aux termes du Pacte et compte sur l'appui des Japonais pour reconstituer, sur la masse continentale eurasiatique, ce “char à quatres chevaux” que lui avait proposé Ribbentrop en septembre 1940 (ou “Pacte Quadripartite” entre le Reich, l'Italie, l'URSS et le Japon). Staline veut une paix nulle: la Wehrmacht se retire au-delà de la frontière fixée de commun accord en 1939 et l'URSS panse ses plaies. Plusieurs agents participent à ces négociations, demeurées largement secrètes. Parmi eux, Peter Kleist, attaché à la fois au Cabinet de Ribbentrop et au “Bureau Rosenberg”. Kleist, nationa­liste allemand de tra­dition russophile en souvenir des amitiés entre la Prusse et les Tsars, va négocier à Stockholm, où le jeu diplomatique sera serré et complexe. Dans la capitale suédoise, les Russes sont ou­verts à toutes les suggestions; parmi eux,  l'ambassadrice Kollontaï et le diplomate Semionov. Kleist agit au nom du Cabinet Ribbentrop et de l'Abwehr de Canaris (et non pas du “Bureau Rosenberg” qui envisageait une balkanisa­tion de l'URSS et la création d'un puissant Etat ukrainien pour faire pièce à la “Moscovie”). Le deuxième protagoniste dans le camp allemand fut Edgar Klaus, un Israëlite de Riga qui fait la liaison entre les Soviétiques et l'Abwehr (il n'a pas de relations directes avec les instances proprement natio­nales-socia­listes).

 

Dans ce jeu plus ou moins triangulaire, les Soviétiques veulent le retour au status quo ante de 1939. Hitler refuse toutes les suggestions de Kleist et croit pouvoir gagner définitivement la bataille en prenant Stalingrad, clef de la Volga, du Caucase et de la Caspienne. Kleist, qui sait qu'une cessation des hostili­tés avec la Russie permettrait à l'Allemagne de rester dominante en Europe et de diriger toutes ses forces contre les Britanniques et les Américains, prend alors langue avec les éléments moteurs de la résistance anti-hitlérienne, alors qu'il est personnellement inféodé aux instances nationales-socialistes! Kleist con­tacte donc Adam von Trott zu Solz et l'ex-ambassadeur du Reich à Moscou, von der Schulenburg. Il ne s'adresse pas aux communistes et estime, sans doute avec Canaris, que les négociations avec Staline permettront de réaliser l'Europe de Coudenhove-Kalergi (sans l'Angleterre et sans la Russie), dont rê­vaient aussi les Catholiques. Mais les Soviétiques ne s'adressent pas non plus à leurs alliés théoriques et privilégiés, les communistes allemands: ils parient sur la vieille garde aristocratique, où demeure le sou­venir de l'alliance des Prussiens et des Russes contre Napoléon, de même que celui de la neutralité tacite des Allemands lors de la guerre de Crimée. Comme Hitler refuse toute négociation, Staline, la résistance aristocratique, l'Abwehr et même une partie de sa garde prétorienne, la SS, décident qu'il doit disparaître. C'est là qu'il faut voir l'origine du complot qui allait conduire à l'attentat du 20 juillet 1944.

 

Mais après l'hiver 42-43, les Soviétiques reprennent pied à Stalingrad et détruisent le fer de lance de la Wehrmacht, la 6ième Armée qui encerclait la métropole de la Volga. La carte allemande des Soviétiques sera alors constituée par le “Comité Allemagne Libre”, avec le maréchal von Paulus et des officiers com­me von Seydlitz-Kurzbach, tous prisonniers de guerre. Staline n'a toujours pas confiance dans les com­mu­nistes allemands, dont il a fait éliminer les idéologues irréalistes et les maximalistes révolution­naires trotskistes, qui ont toujours ignoré délibérément, par aveuglement idéologique, la notion de “patrie” et les continuités historiques pluri-séculaires; finalement, le dictateur géorgien ne garde en réserve, à toutes fins utiles, que Pieck, un militant qui ne s'est jamais trop posé de questions. Pieck fera carrière dans la future RDA. Staline n'envisage même pas un régime communiste pour l'Allemagne post-hitlé­rienne: il veut un “ordre démocratique fort”, avec un pouvoir exécutif plus prépondérant que sous la République de Weimar. Ce vœu politique de Staline correspond parfaitement à son premier choix: parier sur les élites militaires, diplomatiques et politiques conservatrices, issues en majorité de l'aristocratie et de l'Obrig­keits­staat prussien. La démocratie allemande, qui devait venir après Hitler selon Staline, serait d'idéolo­gie conservatrice, avec une fluidité démocratique contrôlée, canalisée et encadrée par un sys­tème d'é­du­ca­tion politique strict.

 

Les Britanniques et les Américains sont surpris: ils avaient cru que l'“Oncle Joe” allait avaliser sans réti­cence leur politique maximaliste, en rupture totale avec les usages diplomatiques en vigueur en Europe. Mais Staline, comme le Pape et Bell, l'Evêque de Chichester, s'oppose au principe radicalement révolu­tionnaire de la reddition inconditionnelle que Churchill et Roosevelt veulent imposer au Reich (qui demeu­rera, pense Staline, en tant que principe politique en dépit de la présence éphémère d'un Hitler). Si Roosevelt, en faisant appel à la dictature médiatique qu'il tient bien en mains aux Etats-Unis, parvient à réduire au silence ses adver­saires, toutes idéologies confondues, Churchill a plus de difficulté en An­gle­terre. Son principal adversaire est ce Bell, Evêque de Chichester. Pour ce dernier, il n'est pas ques­tion de réduire l'Allemagne à néant, car l'Allemagne est la patrie de Luther et du protestantisme. Au jusqu'au-boutisme churchillien, Bell op­pose la notion d'une solidarité protestante et alerte ses homo­logues néer­lan­dais, danois, norvégiens et suédois, de même que ses interlocuteurs au sein de la résis­tance allemande (Bonhoeffer, Schönfeld, von Moltke), pour faire pièce au bellicisme outrancier de Churchill, qui s'exprima par les bombardements mas­sifs d'objectifs civils, y compris dans les petites villes sans infrastructure industrielle importante. Pour Bell, l'avenir de l'Allemagne n'est ni le nazisme ni le com­munisme mais un “ordre libéral et démocratique”. Cette solution, préconisée par l'Evêque de Chichester, n'est évidemment pas acceptable pour le nationa­lisme allemand traditionnel: il constitue un retour subtil à la Kleinstaaterei, à la mosaïque d'états, de prin­cipautés et de duchés, que les visions de List, de Wagner, etc., et la poigne de Bismarck avaient effacé du centre de notre continent. L'“ordre démocratique fort” suggéré par Staline est plus acceptable pour les nationalistes allemands, dont l'objectif a toujours été de créer des insti­tu­tions et une paedia  fortes pour protéger le peuple allemand, la substance ethnique ger­manique, de ses pro­pres faiblesses politiques, de son absence de sens de la décision, de son particula­risme atavique et de ses tourments moraux incapa­citants. Aujourd'hui, effectivement, maints observa­teurs nationalistes constatent que le fédéralisme de la constitution de 1949 s'inscrit peut-être bel et bien dans une tradition ju­ridico-constitutionnelle allemande, mais que la forme qu'il a prise, au cours de l'histoire de la RFA, révèle sa nature d'“octroi”. Un octroi des puissances anglo-saxonnes...

 

Face aux adversaires de la capitulation inconditionnelle au sein de la grande coalition anti-hitlérienne, la résistance allemande demeure dans l'ambiguïté: Beck et von Hassell sont pro-occidentaux et veulent poursuivre la croisade anti-bolchevique, mais dans un sens chrétien; Goerdeler et von der Schulenburg sont en faveur d'une paix séparée avec Staline. Claus von Stauffenberg, auteur de l'attentat du 20 juillet 1944 contre Hitler, provient des cercles poético-ésotériques de Munich, où le poète Stefan George joua un rôle prépondérant. Stauffenberg est un idéaliste, un “chevalier de l'Allemagne secrète”: il refuse de dia­lo­guer avec le “Comité Allemagne Libre” de von Paulus et von Seydlitz-Kurzbach: “on ne peut pas ac­cor­der foi à des proclamations faites derrière des barbelés”.

 

Les partisans d'une paix séparé avec Staline, adversaires de l'ouverture d'un front à l'Est, ont été immé­diatement attentifs aux propositions de paix soviétiques émises par les agents en place à Stockholm. Les partisans d'une “partie nulle” à l'Est sont idéologiquement des “anti-occidentaux”, issus des cercles con­servateurs russophiles (comme le Juni-Klub  ou les Jungkonservativen  dans le sillage de Moeller van den Bruck) ou des ligues nationales-révolutionnaires dérivées du Wandervogel ou du “nationalisme solda­tique”. Leur espoir est de voir la Wehrmacht se retirer en bon ordre des terres conquises en URSS et se replier en-deçà de la ligne de démarcation d'octobre 1939 en Pologne. C'est en ce sens que les exégètes contemporains de l'œuvre d'Ernst Jünger interprètent son fameux texte de guerre, intitulé “Notes cauca­siennes”. Ernst Jünger y perçoit les difficultés de stabiliser un front dans les immenses steppes d'au-delà du Don, où le gigantisme du territoire interdit un maillage militaire hermétique comme dans un paysage centre-européen ou picard-champenois, travaillé et re-travaillé par des générations et des générations de petits paysans opiniâtres qui ont maillé le territoire d'enclos, de propriétés, de haies et de constructions d'une rare densité, permettant aux armées de s'accrocher sur le terrain, de se dissimuler et de tendre des embuscades. Il est très vraisemblable que Jünger ait plaidé pour le retrait de la Wehrmacht, espérant, dans la logique nationale-révolutionnaire, qui avait été la sienne dans les années 20 et 30, et où la russo­philie politico-diplomatique était bien présente, que les forces russes et allemandes, réconciliées, allaient interdire à tout jamais l'accès de la ”forteresse Europe”, voire de la “forteresse Eurasie”, aux puissances thalassocratiques, qui pratiquent systématiquement ce que Haushofer nommait la “politique de l'ana­con­da”, pour étouffer toutes les velleités d'indépendance sur les franges littorales du “Grand Continent” (Eu­ro­pe, Inde, Pays arabes, etc.).

 

Ernst Jünger rédige ses notes caucasiennes au moment où Stalingrad tombe et où la 6ième Armée est anéantie dans le sang, l'horreur et la neige. Mais malgré la victoire de Stalingrad, qui permet aux Sovié­ti­ques de barrer la route du Caucase et de la Caspienne aux Allemands et d'empêcher toute manœuvre en a­mont du fleuve, Staline poursuit ses pourparlers en espérant encore jouer une “partie nulle”. Les So­vié­ti­ques ne mettent un terme à leurs approches qu'après les entrevues de Téhéran (28 no­vembre - 1 dé­cem­bre 1943). A ce moment-là, Jünger semble s'être retiré de la résistance. Dans son cé­lèbre interview au Spie­gel en 1982, immédiatement après avoir reçu le Prix Goethe à Francfort, il déclare: «Les attentats ren­forcent les régimes qu'ils veulent abattre, surtout s'ils ratent». Jünger, sans doute comme Rommel, refusait la logique de l'attentat. Ce qui ne fut pas le cas de Claus von Stauffenberg. Les décisions prises par les Alliés occidentaux et les Soviétiques à Téhéran rendent impossibles un retour à la case départ, c'est-à-dire à la ligne de démarcation d'octobre 1939 en Pologne. Soviétiques et Anglo-Saxons se mettent d'accord pour “déménager l'armoire Pologne” vers l'Ouest et lui octroyer une zone d'occupation perma­nen­te en Silésie et en Poméranie. Dans de telles conditions, les nationalistes alle­mands ne pouvaient plus négocier et Staline était d'office embarqué dans la logique jusqu'au-boutiste de Roosevelt, alors qu'il l'a­vait refusée au départ. Le peuple russe paiera très cher ce changement de poli­tique, favorable aux A­méricains.

 

Après 1945, en constatant que la logique de la Guerre Froide vise un encerclement et un containment  de l'Union Soviétique pour l'empêcher de déboucher sur les mers chaudes, Staline réitère ses offres à l'Allemagne exsangue et divisée: la réunification et la neutralisation, c'est-à-dire la liberté de se donner le régime politique de son choix, notamment un “ordre démocratique fort”. Ce sera l'objet des “notes de Staline” de 1952. Le décès prématuré du Vojd  soviétique en 1953 ne permet pas à l'URSS de continuer à jouer cette carte allemande. Khrouchtchev dénonce le stalinisme, embraye sur la logique des blocs que refusait Staline et ne revient à l'anti-américanisme qu'au moment de l'affaire de Berlin (1961) et de la crise de Cuba (1962). On ne reparlera des “notes de Staline” qu'à la veille de la perestroïka, pendant les mani­festations pacifistes de 1980-83, où plus d'une voix allemande a réclamé l'avènement d'une neutralité en dehors de toute logique de bloc. Certains émissaires de Gorbatchev en parlaient encore après 1985, no­tamment le germaniste Vyateslav Dachitchev, qui prit la parole partout en Allemagne, y compris dans quelques cercles ultra-nationalistes.

 

A la lumière de cette nouvelle histoire de la résistance allemande et du bellicisme américain, nous devons appréhender d'un regard nouveau le stalinisme et l'anti-stalinisme. Ce dernier, par exemple, sert à ré­pandre une mythologie politique bricolée et artificielle, dont l'objectif ultime est de rejeter toute forme de concert international reposant sur des relations bilatérales, d'imposer une logique des blocs ou une lo­gique mondialiste par le truchement de cet instrument rooseveltien qu'est l'ONU (Corée, Congo, Irak: toujours sans la Russie!), de stigmatiser d'avance tout rapport bilatéral entre une puissance européenne moyenne et la Russie soviétique (l'Allemagne de 1952 et la France de De Gaulle après les événements d'Algérie). L'anti-stalinisme est une variante du discours mondialiste. La diplomatie stalinienne, elle, était à sa façon, et dans un contexte très particulier, conservatrice des traditions diplomatiques européennes.

 

Robert STEUCKERS.

 

Bibliographie:

- Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Weg zum Krieg. Amerikanische Politik 1914-1939, Herbig, München, 1983.

- Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Krieg 1937-45 und das Rätsel von Pearl Harbour, Herbig, München, 1993.

- Valentin FALIN, Zweite Front. Die Interessenkonflikte in der Anti-Hitler-Koalition,  Droemer-Knaur, München, 1995.

- Francis FUKUYAMA, La fin de l'histoire et le dernier homme, Flammarion, 1992.

- Klemens von KLEMPERER, German Resistance Against Hitler. The Search for Allies Abroad. 1938-1945,  Oxford University Press/Clarendon Press, 1992-94.

- Theodore H. von LAUE, The World Revolution of Westernization. The Twentieth Century in Global Perspective,  Oxford University Press, 1987.

- Jürgen SCHMÄDEKE/Peter STEINBACH (Hrsg.), Der Widerstand gegen den National-Sozialismus. Die deutsche Gesellschaft und der Widerstand gegen Hitler,  Piper (SP n°1923), München, 1994.

jeudi, 02 octobre 2008

Le Livre noir de la Révolution française

Ex : 33.royaliste.com

"Nous remercions l'écrivain et journaliste Jean SÉVILLIA qui nous a accordé un entretien expliquant la portée du "Livre noir de la Révolution Française" qui vient de paraître et qui constitue l'ouvrage de référence pour comprendre cette déchirure de l'histoire de notre pays.


1) Quelle est votre contribution à ce livre ?21b456a777c91e54d4eaf3e1b844a4e8.jpg

Il y a deux ans, lorsque j’ai rencontré le père Renaud Escande, maître d’œuvre du futur Livre noir de la Révolution française, il m’a demandé quelle contribution je pourrais apporter à l’ouvrage. J’ai tout de suite eu l’idée que j’ai mise en œuvre avec un texte esquissant la réponse à cette question : « Fêtera-t-on le tricentenaire de la Révolution ? ». A l’époque, j’étais plongé dans la préparation de mon livre paru en 2007, Moralement correct, et j’étais hanté par l’ampleur des changements de la société et des mentalités que nous avons connus au cours des dernières décennies. En projetant le même espace-temps non plus vers le passé, mais vers l’avenir, je me suis dit qu’il serait intéressant de s’interroger sur ce qui restera de la Révolution française en 2089. Question qui peut s’entendre à double sens : que restera-t-il de la Révolution, mais que restera-t-il aussi de la France ? La prospective est un exercice à risque : tant de prédictions, heureuses ou malheureuses, ont été déjouées… Mais il n’est pas interdit de s’interroger dès lors que l’on sait que certains faits ont des conséquences inéluctables.

2) Quelle continuité existe-t-il avec vos ouvrages précédents ?

Je suis à la fois journaliste, essayiste et historien. Ma contribution au Livre noir de la Révolution française s’inscrit dans cette perspective : l’historien a travaillé sur 1889, le journaliste a plongé dans ses souvenirs de 1989, et l’essayiste a tenté de réfléchir à 2089.
0e78a7c22b0fc772d92f8238a1085554.jpg
3) Quelle est l'idée qui est à la base de ce livre ?

En dépit du fait que tous les historiens sérieux, fussent-ils ardemment républicains, conviennent que la Révolution française pose un problème, l’imagerie officielle, celle des manuels scolaires du primaire et du secondaire, celle de la télévision, montre les événements de 1789 et des années suivantes comme le moment fondateur de notre société, en gommant tout ce qu’on veut cacher : la Terreur, la persécution religieuse, la dictature d’une minorité, le vandalisme artistique, etc. Aujourd’hui, on loue 1789 en reniant 1793. On veut bien de la Déclaration des Droits de l’homme, mais pas de la Loi des suspects. Mais comment démêler 1789 de 1793, quand on sait que le phénomène terroriste commence dès 1789 ?
Pour répondre à votre question, l’idée de base du Livre noir de la Révolution est de montrer cette face de la réalité qui n’est jamais montrée, et rappeler qu’il y a toujours eu une opposition à la Révolution française, mais sans trahir l’Histoire. Qu’on le veuille ou non, qu’on l’aime ou non, la Révolution, c’est un pan de l’Histoire de la France et des Français. On ne l’effacera pas : au moins faut-il la comprendre.

4) Ce livre, auquel plusieurs professeurs ont participé, montre-t-il que le monde universitaire est en train de changer ?

Le monde universitaire a changé depuis longtemps. Rappelez-vous le Bicentenaire : de Pierre Chaunu à Jean Tulard, de Reynald Secher aux historiens étrangers que l’on découvrait alors, tel Alfred Cobban, tous les grands noms de la recherche historique se situaient, à des degrés divers, dans une position critique à l’égard de la Révolution française. Il faut rappeler le rôle essentiel et paradoxal de François Furet : cet homme de gauche, rallié au libéralisme mais jamais à la contre-révolution, a fortement participé au naufrage du mythe révolutionnaire dans les milieux intellectuels. Mais il ne s’est pas fait que des amis ! Depuis 1989, cependant, une génération a passé. D’où l’idée, avec ce Livre noir, de reprendre la question à nouveaux frais, avec des signatures en partie nouvelles.

5) En quoi un ouvrage sur la Révolution peut-il encore intéresser les Français d'aujourd'hui ?

Dans une société qui subit une véritable dépression culturelle, il existe encore un public cultivé, et qui lit. Si le Livre noir touche ce public, ce sera déjà bien. On observe, depuis des années, un véritable engouement autour du Moyen Age. A travers la foule qui déambule dans les châteaux de la Loire ou à Versailles, ou dans la vogue de la musique ancienne, on trouve un intérêt pour la civilisation pré-révolutionnaire. Il faudra bien arriver à ce que ce public regarde en face l’histoire de la Révolution. Quitte à être dérangé dans ses certitudes. Mais si j’en crois l’accueil rencontré par mon livre Historiquement correct, un ouvrage qui frise sans doute le demi-million de lecteurs, il y a du monde, en France, qui est prêt à remettre en cause quelques mythes historiques établis. J’espère que Le Livre noir de la Révolution française, dont je ne suis qu’une des multiples voix, y contribuera."

                                                   ***

Dans ce livre collectif, réalisé sous la direction de Renaud Escande, Jean Sévillia signe une contribution intitulée : "Fêtera-t-on le tricentenaire de la Révolution ?"

Les autres auteurs : Jacques Alibert, Pascale Auraix-Jonchière, Michaël Bar-Zvi, Henri Beausoleil, Christophe Boutin, Jean-Pierre et Isabelle Brancourt, Jean des Cars, Bruno Centorame, Pierre Chaunu, Jean Charles-Roux, Jean-Sylvestre Coquin, Stéphane Courtois, Marc Crapez, Dominique Decherf, Ghislain de Diesbach, Bernard Fixes, Alexandre Gady, Jean-Charles Gaffiot, Pierre Glaudes, Jacques de Guillebon, Fabrice Hadjadj, Trancrède Josseran, Philippe Lauvaux, Emmanuel Le Roy Ladurie, Xavier Martin, Frédéric Morgan, Alain Néry, Arnaud Odier, Paul-Augustin d'Orcan, Dominique Paoli, Jean-Christian Petitfils, Jean-Michel Potin, Pierre-Emmanuel Prouvost d'Agostino, Frédéric Rouvillois, Jonathan Ruiz de Chastenet, Reynald Secher, Jean Sévillia, Renaud Silly, Rémi Soulié, Sarah Vajda, Jean Tulard, Jean de Viguerie et Grégory Woimbee. 
Ainsi que de nombreux textes et documents inédits.

Editions
Les Editions du Cerf, 2008.
 
 
Quelques commentaires sur ce livre

 

Il était logique qu'après un Livre noir du communisme, paru en 1997, suivit un Livre noir de la Révolution française, onze ans plus tard, livre noir rédigé par plus de quarante collaborateurs. N'en attendons pas un réquisitoire passionné contre dix ans de notre histoire, mais une remise en perspective de faits dont la violence parle d'elle-même et la réhabilitation d'idées qui ont été jusqu'à ces dernières années soigneusement occultées.

Jean Tulard
Valeurs actuelles, 1er février 2008

 

 

Si les articles sont d'une valeur parfois inégale, ce beau travail se caractérise par sa richesse et sa hauteur de vue.

Jean-Marc Bastière
Le Figaro Magazine, 9 février 2008

samedi, 20 septembre 2008

Les oppositions américaines à Roosevelt

roosevelt.jpg

 

 

Les oppositions américaines à la guerre de Roosevelt

 

 

Robert STEUCKERS

 

Analyse : Ronald RADOSH, Prophets on the Right. Profiles of Conservative Critics of American Globalism, Free Life Editions, New York, 1975 (ISBN : 0-914156-22-5).

 

L’histoire des oppositions américaines à la seconde guerre mondiale est très intéressante. Elle nous initie aux idées des isolationnistes et neutralistes des Etats-Unis, seuls alliés objectifs et fidèles que nous pouvons avoir Outre-Atlantique, mis à part, bien en­tendu, les patriotes d’Amérique hispanique.

 

Aborder ce sujet implique de formuler quelques remarques préliminaires.

-          L’histoire contemporaine est é­valuée sous l’angle d’une propa­gande. Laquelle ? Celle qui a été orchestrée par les bellicistes a­mé­ricains, regrou­pés autour du Président Roosevelt. La tâche de l’his­toire est donc de retrouver la réalité au-delà du rideau de fumée propagandiste.

-          L’histoire contemporaine est dé­terminée par la perspective roose­veltienne où

a)       les Etats-Unis sont l’avant-gar­de, la terre d’élection de la liber­té et de la démocratie ;

b)       les Etats-Unis doivent agir de fa­çon à ce que le monde s’ali­gne sur eux.

c)       Via leur idéologie messianique, interventionniste et mondialiste, les Etats-Unis se posent comme le bras armé de Yahvé, sont appelés à unir le monde sous l’au­torité de Dieu. Leur président est le vicaire de Yahvé sur la Terre (et non plus le Pape de Rome).

 

Mais, pour s’imposer, cette idéologie messianique, interventionniste et mon­dia­liste a eu des ennemis inté­rieurs, des adversaires isolationnistes, neutralistes et différentialistes. En effet, dans les années 30, 40 et 50, deux camps s’affron­taient aux Etats-Unis. En langage actualisé, on pourrait dire que les partisans du « village universel » se heurtaient aux partisans de l’ « au­to-centrage ».

 

Quels ont été les adversaires du mon­­dialisme de Roosevelt, outre le plus célèbre d’entre eux, le pilote Lind­­bergh, vainqueur de l’Atlan­tique. Nous en étudierons cinq :

1)       Oswald Garrison VILLARD, é­di­teur du journal Nation, ancré à gauche, libéral et pacifiste.

2)       John T. FLYNN, économiste et éditorialiste de New Republic, é­galement ancré à gauche.

3)       Le Sénateur Robert A. TAFT de l’Ohio, chef du Parti Républicain, surnommé « Mr. Republican».

4)       Charles A. BEARD, historien pro­­gressiste.

5)       Lawrence DENNIS, intellectuel éti­queté « fasciste », ancien di­plo­mate en Amérique latine, no­tamment au Nicaragua et au Pérou.

 

Tous ces hommes avaient une biographie, un passé très différent. Dans les années 38-41, ils étaient tous iso­lationnistes. Dans les années 43-50, ils sont considérés com­me « con­ser­vateurs » (c’est-à-dire adversaires de Roosevelt et de l’al­liance avec l’URSS) ; de 1948 à 1953, ils refusent la logique de la Guerr­e Froide (dé­fendue par la gauche sociale-dé­mo­crate après guerre).

 

Pourquoi cette évolution, qu’on ne comprend plus guère aujourd’hui ?

-          D’abord parce que la gauche est favorable au « globa­lis­me » ; à ses yeux les isolation­nistes sont passéistes et les interventionnistes sont inter­natio­nalistes et « progres­sis­tes ».

-          Dans le sillage de la Guerre du Vietnam (autre guerre interventionniste), la gauche a changé de point de vue.

 

En effet, l’interventionnisme est synonyme d’impérialisme (ce qui est moralement condamnable pour la gauche hostile à la Guerre du Vietnam). L’isolationnisme relève du non-impérialisme américain, de l’anti-colonialisme officiel des USA, ce qui, dans le contexte de la Guerre du Vietnam, est moralement acceptable. D’où la gauche militante doit renouer avec une pensée anti-impérialiste. La morale est du côté des isolationnistes, même si un Flynn, par exemple, est devenu macchartyste et si Dennis a fait l’apologie du fascisme. Examinons les idées et les arguments de chacun de ces cinq isolationnistes.

 

Charles A. BEARD

 

Charles A. Beard est un historien qui a écrit 33 livres et 14 essais importants. Sa thèse centrale est celle du « déterminisme économique » ; elle prouve qu’il est un homme de gauche dans la tradition britannique de Mill, Bentham et du marxisme modéré. La structure politique et juridique, pour Beard, dérive de la stratégie économique. La complexification de l’éco­nomie implique une complexification du jeu politique par multiplication des acteurs. La Constitution et l’appareil légal sont donc le reflet des desidera­ta des classes dirigeantes. La complexification postule ensuite l’in­tro­duc­tion du suffrage universel, pour que la complexité réelle de la société puisse se refléter correcte­ment dans les re­pré­sentations.

 

Beard sera dégoûté par la guerre de 1914-18.

1.        Les résultats de cette guerre sont contraires à l’idéalisme wilsonien, qui avait poussé les Etats-Unis à intervenir. Après 1918, il y a davantage de totalitarisme et d’autoritarisme dans le monde qu’auparavant. La première guerre mondiale se solde par un recul de la démocratie.

2.        Ce sont les investissements à l’étranger (principalement en France et en Grande-Bre­ta­gne) qui ont poussé les Etats-Unis à intervenir (pour sauver leurs clients de la défaite).

3.        D’où le véritable remède est celui de l’autarcie continentale (continentalism).

4.        Aux investissements à l’étran­ger, il faut opposer, dit Beard, des investissements intérieurs. Il faut une planification natio­nale. Il faut construire une bonne infrastructure routière aux Etats-Unis, il faut aug­menter les budgets pour les écoles et les universités. Pour Beard, le planisme s’oppose au militarisme. Le militarisme est un messianisme, essen­tiel­le­ment porté par la Navy League, appuyée jadis par l’Amiral Mahan, théoricien de la thalassocratie. Pour Beard, l’US Army ne doit être qu’un instrument défensif.

 

Beard est donc un économiste et un théoricien politique qui annonce le New Deal de Roosevelt. Il est donc favorable au Président américain dans un premier temps, parce que celui-ci lance un gigantesque plan de travaux d’intérêt public. Le New Deal, aux yeux de Beard est une restructuration complète de l’économie domestique américaine. Beard raisonne comme les continentalistes et les autarcistes européens et japonais (notamment Tojo, qui parle très tôt de « sphère de co-prospérité est-asiatique »). En Allemagne, cette restructuration autarcisante préconisée par le pre­mier Roosevelt suscite des enthousiasmes et apporte de l’eau au mou­lin des partisans d’un nouveau dialogue germano-américain après 1933.

 

Le programme « Big Navy »

 

Mais Roosevelt ne va pas pouvoir appliquer son programme, parce qu’il rencontrera l’opposition des milieux bancaires (qui tirent plus de dividendes des investissements à l’étranger), du complexe militaro-in­dustriel (né pendant la première guerre mondiale) et de la Ligue Na­vale. Pour Beard, le programme « Big Navy » trahit l’autarcie promise par le New Deal.

 

Le programme « Big Navy » provoquera une répétition de l’histoire. Roosevelt prépare la guerre et la militarisation des Etats-Unis, déplo­re Beard. En 1934, éclate le scandale Nye. Une enquête menée par le Sénateur Gerald Nye prouve que le Président Wilson, le Secrétaire d’Etat Lansing et le Secrétaire d’Etat au Trésor Gibbs McAdoo, le Colonel House et les milieux bancaires (notamment la J.P. Morgan & Co) ont délibérément poussé à la guerre pour éviter une crise, une dépression. Résultat : cette dépres­sion n’a été postposée que de dix ans (1929). Donc la politique raison­nable serait de décréter un em­bargo général à chaque guerre pour que les Etats-Unis ne soient pas entraînés aux côtés d’un des belligérants.

 

En 1937, Roosevelt prononce son fameux « Discours de Quarantai­ne », où il annonce que Washington mettra les « agresseurs » en quarantaine. En appliquant pré­ventivement cette mesure de ré­torsion aux seuls agresseurs, Roo­sevelt opère un choix et quitte le terrain de la neutralité, constate Beard. En 1941, quand les Japonais attaquent Pearl Harbour, le matin du 7 décembre 1941, Beard révèle dans la presse que Roosevelt a délibérément obligé le Japon à commettre cet irréparable acte de guerre. De 1941 à 1945, Beard ad­mettra la nature « expansion­niste » de l’Allemagne, de l’Italie et du Ja­pon, mais ne cessera d’exhorter les Etats-Unis à ne pas suivre cet ex­emple, parce que les Etats-Unis sont « self-suffisant » et que l’a­gressivité de ces Etats n’est pas directement dirigée contre eux. Ensuite, deuxième batterie d’argu­ments, la guerre désintègre les institutions démocratiques améri­cai­nes. On passe d’une démocratie à un césarisme à façade dé­mo­cratique.

 

Beard accuse le gouvernement américain de Roosevelt de chercher à entrer en guerre à tout prix contre le Japon et l’Allemagne. Son accusation porte notamment sur quatre faits importants :

1.        Il dénonce l’échange de destroyers de fabrication américaine contre des bases militaires et navales anglaises dans les Caraïbes et à Terre-Neuve (New Foundland).

2.        Il dénonce la « Conférence de l’Atlantique », tenue entre le 9 et le 12 août 1941 entre Churchill et Roosevelt. Elles ont débouché sur un acte de guerre au détriment du Portugal neutre : l’occupation des Açores par les Américains et les Britanniques.

3.        Il dénonce l’incident de septembre 1941, où des navires allemands ripostent aux tirs de l’USS Greer. Beard prétend que Roosevelt monte l’incident en épingle et il appuie son argumentation sur le rapport de l’Amiral Stark, prouvant l’inter­vention du navire aux côtés des Anglais.

4.        En octobre 1941, un incident similaire oppose des bâtiments de la Kriegsmarine à l’USS Kearny. Roosevelt amplifie l’événement avec l’appui des médias. Beard rétorque en s’appuyant sur le rapport du Secrétaire de la Navy Knox, qui révèle que le navire américain a pris une part active aux combats opposants bâtiments anglais et allemands.

 

Une stratégie de provocation

 

Beard conclut que la stratégie de Roosevelt cherche à provoquer dé­libérément un incident, un casus belli. Cette attitude montre que le Président ne respecte pas les institutions américaines et ne suit pas la voie hiérarchique normale, qui passe par le Congrès. La dé­mo­cratie américaine n’est plus qu’une façade : l’Etat US est devenu cé­sa­riste et ne respecte plus le Con­grès, organe légitime de la nation.

 

Il est intéressant de noter que la gauche américaine récupèrera Beard contre Johnson pendant la guerre du Vietnam. De Roosevelt à Johnson, la gauche américaine a en effet changé du tout au tout, modifié de fond en comble son argumentation ; elle était favorable à Roosevelt parce qu’il était l’im­pulseur du New Deal, avec toutes ses facettes sociales et dirigistes, et qu’il fut le leader de la grande guerre « anti-fasciste ». Elle cesse de soutenir l’option présidentialiste contre le démocrate Johnson, redevient favorable au Con­grès, parce qu’elle s’oppose à la guerre du Vietnam et à l’emprise des lob­bies militaro-industriels. En fait, la gauche américaine avouait dans les années 60 qu’elle avait été autoritaire, bouclier de l’autocratie rooseveltienne et anti-parlemen­taire (tout en reprochant aux fas­cistes de l’être !). Pire, la gauche avouait qu’elle avait été « fasciste » par « anti-fascisme » !

 

Dans une première phase donc, la gauche américaine avait été interventionniste. Dans une seconde, elle devient isolationniste. Cette contradiction s’est (très) partiellement exportée vers l’Europe. Cette mutation, typiquement américaine, fait la spécificité du paysage politique d’Outre-Atlantique.

 

Mettre le Japon au pied du mur…

 

Intéressantes à étudier sont également les positions de Beard sur la guerre américaine contre le Japon. Beard commence par constater que le Japon voulait une « sphère de co-prospérité est-asiatique », incluant la Chine et étendant l’in­fluence japonaise profondément dans le territoire de l’ex-Céleste Empire. Pour cette raison, croyant contrarier l’expansion nippone, Roo­sevelt organise l’embargo con­tre le Japon, visant ainsi son asphyxie. En pratiquant une telle politique, le Président américain a mis le Japon au pied du mur : ou périr lentement ou tenter le tout pour le tout. Le Japon, à Pearl Harbour, a choisi le deuxième terme de l’alternative. L’enjeu de la guerre américano-japonaise est donc le marché chinois, auquel les Etats-Unis ont toujours voulu avoir un accès direct. Les Etats-Unis veulent une politique de la « porte ouverte » dans toute l’Asie, comme ils avaient voulu une politique iden­tique en Allemagne sous Weimar. Dans la polémique qui l’op­pose à Roosevelt, Beard se range du côté de Hoover, dont la critique à du poids. Beard et Hoover pensent que l’action du Japon en Chine n’enfreint nullement la sou­veraineté nationale américaine, ni ne nuit aux intérêts des Etats-Unis. Ceux-ci n’ont pas à s’inquié­ter : ja­mais les Japonais ne par­viendront à japoniser la Chine.

 

Après la deuxième guerre mondia­le, Beard ne cessera de s’opposer aux manifestations de bellicisme de son pays. Il critique la politique de Truman. Il refuse la bipolarisation, telle qu’elle s’incruste dans les ma­chines propagandistes. Il critique l’intervention américaine et britanni­que en Grèce et en Turquie. Il critique la recherche d’incidents en Méditerranée. Il rejette l’esprit de « croisade », y compris quand il vise le monde communiste.

 

En conclusion, Beard est resté pen­dant toute sa vie politique un par­tisan de l’autarcie continentale amé­ricaine et un adversaire résolu du messianisme idéologique. Beard n’était ni anti-fasciste ni anti-com­muniste : il était un autarciste amé­ricain. L’anti-fascisme et l’anti-com­munisme sont des idées internationalistes, donc désincarnées et ir­réalistes.

 

Oswald Garrison VILLARD

 

Né en 1872, Oswald Garrison Vil­lard est un journaliste new-yorkais très célèbre, offrant sa prose pré­cise et claire à deux journaux, Post et Nation, propriétés de son père. L’arrière-plan idéologique de Villard est le pacifisme. Il se fait membre de la Ligue anti-impérialiste dès 1897. En 1898, il s’oppose à la guerre contre l’Espagne (où celle-ci perd Cuba et les Philippines). Il estime que la guerre est incom­patible avec l’idéal libéral de gau­che. En 1914, il est l’un des prin­cipaux avocats de la neutralité. De 1915 à 1918, il exprime sa déception à l’égard de Wilson. En 1919, il s’insurge contre les clauses du Trai­té de Versailles : la paix est in­ju­ste donc fragile, car elle sanction­ne le droit du plus fort, ne cesse-t-il de répéter dans ses colonnes. Il s’oppose à l’inter­ven­tion américaine contre la Russie so­viétique, au mo­ment où Wa­shing­ton débarque des troupes à Arkhan­gelsk. De 1919 à 1920, il se félicite de l’éviction de Wilson, de la non-adhésion des Etats-Unis à la SdN. Il apporte son soutien au néo-isolationnisme.

 

De 1920 à 1930, Villard modifie sa philosophie économique. Il évolue vers le dirigisme. En 1924, il soutient les initiatives du populiste La­Follette, qui voulait que soit inscrite dans la constitution américaine l’obligation de procéder à un réfé­ren­dum avant toute guerre voire avant toute opération militaire à l’étranger. Villard souhaite également la création d’un « Third Par­ty », sans l’étiquette socialiste, mais dont le but serait d’unir tous les progressistes.

 

En 1932, Franklin Delano Roosevelt arrive au pouvoir. Villard salue cette accession à la présidence, tout comme Beard. Et comme Beard, il rompra plus tard avec Roo­sevelt car il refusera sa politique extérieure. Pour Villard, la neutralité est un principe cardinal. Elle doit être une obligation (compulsory neutrality). Pendant la Guerre d’Espagne, la gauche (dont son journal Nation, où il devient une exception) soutient les Républicains espagnols (comme Vandervelde au POB). Lui, imperturbable, plaide pour une neutralité absolue (comme Spaak et De Man au POB). La gauche et Roosevelt veu­lent décréter un embargo contre les « agresseurs ». Villard, à l’instar de Beard, rejette cette position qui in­terdit toute neutralité absolue.

 

Plus de pouvoir au Congrès

 

Les positions de Villard permettent d’étudier les divergences au sein de la gauche américaine. En effet, dans les années 30, le New Deal s’avère un échec. Pourquoi ? Parce que Roosevelt doit subir l’oppo­si­tion de la « Cour Suprême » (CS), qui est conservatrice. Villard, lui, veut donner plus de pouvoir au Congrès. Comment réagit Roosevelt ? Il augmente le nombre de juges dans la CS et y introduit ainsi ses créatures. La gauche applaudit, croyant ainsi pouvoir réaliser les promesses du New Deal. Villard refuse cet expédient car il conduit au césarisme. La gauche reproche à Villard de s’allier aux conservateurs de la CS, ce qui est faux puisque Villard avait suggéré d’aug­menter les prérogatives du Con­grès.

 

Dans cette polémique, la gauche se révèle « césariste » et hostile au Con­grès. Villard reste fidèle à une gauche démocratique et parlemen­taire, pacifiste et autarciste. Villard ne « trahit » pas. Ce clivage conduit à une rupture entre Villard et la ré­daction de Nation, désormais dirigée par Freda Kirchwey. En 1940, Villard quitte Nation après 46 ans et demi de bons et loyaux services, accusant Kirchwey de « pro­stituer » le journal. Cette « pro­stitution » con­siste à rejeter le principe autarcique et à adhérer à l’universalisme (messianique). Villard va alors con­tre-attaquer :

1.        Il va rappeler qu’il est un avo­cat du Congrès, donc qu’il est démocrate et non philo-fasci­ste.

2.        Il va également rappeler qu’il s’est opposé aux conservateurs de la CS.

3.        Il va affirmer que c’est l’ama­teurisme de Roosevelt qui a conduit le New Deal à l’échec.

4.        Il démontre qu’en soutenant Roosevelt, la gauche devient « fasciste » parce qu’elle con­tribue à museler le Congrès.

 

Ni le Japon ni l’Allemagne n’en veulent aux Etats-Unis, écrit-il, donc nul besoin de leur faire la guerre. L’objectif raisonnable à pour­suivre, répète-t-il, est de juxtaposer sur la planète trois blocs modernes autarciques et hermétiques : l’Asie sous la direction du Japon, l’Europe et l’Amérique. Il re­joint l’America-First-Committee qui affirme que si les Etats-Unis interviennent en Asie et en Europe, le chaos s’étendra sur la Terre et les problèmes non résolus s’ac­cu­mu­leront.

 

Villard n’épargnera pas la politique de Truman et la criblera de ses cri­ti­ques. Dans ses éditoriaux, Tru­man est décrit comme un « po­li­ti­cien de petite ville incompétent », monté en épingle par Roosevelt et sa « clique ». Villard critiquera le bom­bardement atomique de Hiro­shima et de Nagasaki. Il s’opposera au Tribunal de Nuremberg, aux Amé­ricains cherchant à favoriser la mainmise de la France sur la Sarre, à tous ceux qui veulent morceler l’Allemagne. Villard sera ensuite un adversaire de la Guerre Froide, s’in­surgera contre la partition de la Corée et contre la création de l’OTAN.

 

Robert A. TAFT

 

Le père de Robert A. Taft fut pendant un moment de sa vie Président de la CS. Le milieu familial était celui des Républicains de vieil­le tradition. Robert A. Taft exerce ses premières activités po­litiques dans le sillage de Herbert Hoover et collabore à son « Food Programm ». En 1918, il est élu en Ohio. En 1938, il devient Sénateur de cet Etat. Dès cette année, il s’engage à fond dans le combat pour la « non-intervention ». Toute politique, selon lui, doit être défensive. Il fustige les positions « idéa­listes » (c’est-à-dire irréalistes), des messianistes démocrates. « Il faut défendre du concret et non des abstractions », tel est son leitmotiv. La guerre, dit-il, conduirait à museler le Congrès, à faire reculer les gouvernements locaux, à renforcer le gouvernement central. Même si l’Allemagne gagne, argumente-t-il, elle n’attaquera pas les Etats-Unis et la victoire éventuelle du Reich n’arrêterait pas les flux commerciaux. D’où, affirme Taft, il faut à tout prix renforcer le « Neutrality Act », empêcher les navires américains d’entrer dans les zones de combat, éviter les incidents et décréter un embargo général, mais qui permet toutefois le système de vente « cash-and-carry » (« payer et emporter »), à appliquer à tous les belligérants sans restriction. Taft est réaliste : il faut vendre tous les produits sans exception. Nye, Sénateur du North Dakota, et Whee­ler, Sénateur du Montana, veulent un embargo sur les munitions, les armes et le coton.

 

« Lend-Lease » et « cash-and-carry »

 

Taft ne sera pas candidat républicain aux élections présidentielles car l’Est vote contre lui ; il ne bénéficie que de l’appui de l’Ouest, hostile à la guerre en Europe. Il s’opposera à la pratique commerciale du « Lend-Lease », car cela implique d’envoyer des convois dans l’Atlantique et provoque immanquablement des incidents. En juillet 1941, la nécessité de protéger les convois aboutit à l’occu­pation de l’Islande. Taft formule une contre-proposition : au « Lend-Lea­se », il faut substituer le « cash-and-carry », ce qui n’empêche nul­le­ment de produire des avions pour la Grande-Bretagne. En juin 1941, la gauche adhère à une sorte de front international anti-fasciste, à l’instigation des communistes (vi­sibles et camouflés). Taft maintient sa volonté de neutralité et constate que la majorité est hostile à la guerre. Seule une minorité de financiers est favorable au conflit. Taft martèle alors son idée-force : le peuple travailleur de l’Ouest est manipulé par l’oligarchie financière de l’Est.

 

Dans le cadre du parti Républicain, Taft lutte également contre la fraction interventionniste. Son adversaire principal est Schlesinger qui prétend que les isolationnistes provoquent un schisme à l’intérieur du parti, qui risque de disparaître ou d’être exclu du pouvoir pendant longtemps. Dans cette lutte, que s’est-il passé ? Les interventionnistes républicains, rangés derrière Wendell Willkie, chercheront l’al­lian­ce avec la droite démocratique de Roosevelt, pour empêcher les Républicains de revenir au pouvoir. De 1932 à 1948, les Républicains seront marginalisés. Une telle con­figuration avait déjà marqué l’his­toire américaine : le schisme des Whigs en 1858 sur la question de l’esclavage (qui a débouché ensuite sur la Guerre de Sécession).

 

Pour Schlesinger, les capitalistes, les conservateurs et la CS sont hostiles à Roosevelt et au New Deal, qu’ils estiment être une forme de socialisme. Taft rétorque que les ploutocrates et les financiers se sont alliés aux révolutionnaires, hostiles à la CS, car celle-ci est un principe étatique éternel, servant la cause du peuple, celui de la majorité généralement silencieuse. Les ploutocrates sont favorables au bel­licisme de Roosevelt, parce qu’ils espèrent conquérir des marchés en Europe, en Asie et en Amé­rique la­tine. Telle est la raison de leur bell­i­cisme.

 

Tant Schlesinger que Taft rejettent la responsabilité sur les capitalistes ou les financiers (les « plouto­cra­tes » comme on disait à l’époque). La différence, c’est que Schlesinger dénonce comme capitalisme le ca­pital producteur enraciné (investis­se­ments), alors que Taft dénonce le capital financier et vagabond (non-investissement).

 

Contre l’idée de « Croisade »

 

Quand les Japonais bombardent Pearl Harbour le 7 décembre 1941 et y détruisent les bâtiments de guerre qui s’y trouvent, la presse, unanime, se moque de Taft et de ses principes neutralistes. La stratégie japonaise a été de frapper le port hawaïen, où ne stationnaient que de vieux navires pour empêcher la flotte de porter secours aux Philippines, que les Japonais s’apprêtaient à envahir, avant de foncer vers les pétroles et le caoutchouc indonésiens. Taft rétorque qu’il aurait fallu négocier et accuse Roosevelt de négligence tant aux Iles Hawaï qu’aux Philippines. Il ne cesse de critiquer l’idée de croisade. Pourquoi les Etats-Unis se­raient-ils les seuls à pouvoir dé­clencher des croisades ? Pourquoi pas Staline ? Ou Hitler ? L’idée et la pratique de la « croisade » con­duit à la guerre perpétuelle, donc au chaos. Taft dénonce ensuite comme aberration l’alliance entre les Etats-Unis, la Grande-Bretagne et l’URSS (chère à Walter Lipp­mann). A cette alliance, il faut sub­stituer des plans régionaux, regrou­per autour de puissances hé­gé­mo­niques les petits Etats trop faibles pour survivre harmonieusement dans un monde en pleine mutation d’échelle.

 

Taft s’opposera à Bretton Woods (1944), aux investissements massifs à l’étranger et à la création du FMI. Il manifestera son scepticisme à l’endroit de l’ONU (Dumbarton Oaks, 1944). Il y est favorable à condition que cette instance devienne une cour d’arbitrage, mais refuse tout renforcement de l’idéo­logie utopiste. Après la guerre Taft s’opposera à la Doctrine Truman, à la création de l’OTAN, au Plan Marshall et à la Guerre de Corée. En 1946, Churchill prononce sa phrase célèbre (« Nous avons tué le mauvais cochon », celui-ci étant Hitler, le « bon cochon » sous-entendu et à tuer étant Staline) et déplore qu’un « rideau de fer » soit tombé de Stettin à l’Adriatique, plongeant l’Ostmitteleuropa dans des « régimes policiers ». Taft, conservateur « vieux-républicain », admet les arguments anti-com­mu­nistes, mais cette hostilité légitime sur le plan des principes ne doit pas conduire à la guerre dans les faits.

 

Taft s’oppose à l’OTAN parce qu’elle est une structure interventionniste, contraire aux intérêts du peuple américain et aux principes d’arbitrage qui devraient être ceux de l’ONU. En outre, elle sera un gouffre d’argent. Vis-à-vis de l’URSS, il modifie quelque peu son jugement dès que Moscou se dote de la Bombe A. Il appuie toutefois Joe Kennedy (père de John, Robert/Bob et Ted) quand celui-ci réclame le retrait des troupes américaines hors de Corée, de Berlin et d’Europe. Taft est immédiatement accusé de « faire le jeu de Moscou », mais il reste anti-com­muniste. En réalité, il demeure fi­dè­le à ses positions de départ : il est un isolationniste américain, il con­sta­te que le Nouveau Monde est sé­paré de l’Ancien et que cette sé­paration est une donnée naturelle, dont il faut tenir compte.

 

John T. FLYNN

 

John T. Flynn peut être décrit com­me un « New Dealer » déçu. Beard et Villard avaient également ex­pri­mé leurs déceptions face à l’échec de la restructuration par Roosevelt de l’économie nord-américaine. Flynn dénonce très tôt la démarche du Président consistant à se don­ner des « ennemis mythique » pour dévier l’attention des échecs du New Deal. Il critique la mutation des communistes américains, qui deviennent bellicistes à partir de 1941. Les communistes, dit-il, tra­hissent leurs idéaux et utilisent les Etats-Unis pour faire avancer la politique soviétique.

 

Flynn était proche malgré lui des milieux fascisants (et folkloriques) américains (Christian Front, German-American Bund, l’American Destiny Party de Joseph McWilliams, un antisémite). Mais le succès de Lindbergh et de son America-First-Committee l’intéresse. Après la guerre, il critiquera les positions de la Fabian Society (qu’il qualifie de « socialisme fascisant ») et plai­dera pour un gouvernement po­pulaire, ce qui l’amène dans le silla­ge de McCarthy. Dans cette opti­que, il fait souvent l’équation « com­­munisme = administration », arguant que l’organisation de l’ad­ministration aux Etats-Unis a été introduite par Roosevelt et para­chevée par Truman. Mais, malgré cette proximité avec l’anti-commu­nisme le plus radical, Flynn reste hostile à la guerre de Corée et à toute intervention en Indochine, con­tre les communistes locaux.

 

Lawrence DENNIS

 

Né en 1893 à Atlanta en Géorgie, Lawrence Dennis étudie à la Philips Exeter Academy et à Harvard. Il sert son pays en France en 1918, où il accède au grade de lieutenant. Après la guerre, il entame une carrière de diplomate qui l’emmène en Roumanie, au Honduras, au Ni­caragua (où il observe la rébellion de Sandino) et au Pérou (au moment où émerge l’indigénisme pé­ru­vien). Entre 1930 et 1940, il joue un rôle intellectuel majeur. En 1932, paraît son livre Is Capitalism Doomed ? C’est un plaidoyer planiste, contre l’extension démesurée des crédits, contre l’exportation de capitaux, contre le non-investis­se­ment qui préfère louer l’argent que l’investir sur place et génère ainsi le chômage. Le programme de Dennis est de forger une fiscalité cohérente, de poursuivre une politique d'investissements créateurs d’em­ploi et de développer une autarcie américaine. En 1936, un autre ou­vra­ge suscite le débat : The Coming American Fascism. Ce livre con­state l’échec du New Deal, à cause d’une planification déficiente. Il constate également le succès des fascismes italien et allemand qui, dit Dennis, tirent les bonnes con­clusions des théories de Keynes. Le fascisme s’oppose au communisme car il n’est pas égalitaire et le non-égalitarisme favorise les bons techniciens et les bons gestionnaires (les « directeurs », dira Burnham).

 

Il y a une différence entre le « fas­cis­me » (planiste) tel que le définit Den­nis et le « fascisme » roose­vel­tien que dénoncent Beard, Villard, Flynn, etc. Ce césaris­me/fas­­cisme roo­seveltien se dé­ploie au nom de l’anti-fascisme et agresse les fascismes européens.

 

En 1940, un troisième ouvrage de Dennis fait la une : The Dynamics of War and Revolution. Dans cet ouvrage, Dennis prévoit la guerre, qui sera une « guerre réactionnaire ». Dennis reprend la distinction des Corradini, Sombart, Haushofer et Niekisch, entre « nations prolétariennes » et « nations capita­listes » (haves/havenots). La guer­re, écrit Dennis, est la réaction des nations capitalistes. Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne, nations ca­pi­talistes, s’opposeront à l’Alle­magne, l’Italie et l’URSS, nations prolétariennes (le Pacte germano-soviétique est encore en vigueur et Dennis ignore encore qu’il sera dissous en juin 1941). Mais The Dynamics of War and Revolution constitue surtout une autopsie du monde capitaliste américain et occi­dental. La logique capitaliste, explique Dennis, est expansive, elle cherche à s’étendre et, si elle n’a pas ou plus la possibilité de s’é­ten­dre, elle s’étiole et meurt. D’où le capitalisme cherche constamment des marchés, mais cette recherche ne peut pas être éternelle, la Terre n’étant pas extensible à l’infini. Le capitalisme n’est possible que lors­qu’il y a expansion territoriale. De là, naît la logique de la « frontière ». Le territoire s’agrandit et la population augmente. Les courbes de profit peuvent s’accroître, vu la né­ces­sité d’investir pour occuper ou coloniser ces territoires, de les équiper, de leur donner une infrastructure, et la nécessité de nourrir une population en phase d’explo­sion démographique. Historiquement parlant, cette expansion a eu lieu entre 1600 et 1900 : les peuples blancs d’Europe et d’Amérique avaient une frontière, un but à at­teindre, des territoires à défricher et à organiser. En 1600, l’Europe in­vestit le Nouveau Mon­de ; de 1800 à 1900, les Etats-Unis ont leur Ouest ; l’Europe s’étend en Afrique.

 

L’ère capitaliste est terminée

 

Conclusion de Dennis : l’ère capitaliste est terminée. Il n’y aura plus de guerres faciles possibles, plus d’injection de conjoncture par des expéditions coloniales dotées de faibles moyens, peu coûteuses en matières d’investissements, mais rapportant énormément de dividendes. Cette impossibilité de nouvelles expansions territoriales explique la stagnation et la dépression. Dès lors, quatre possibilités s’offrent aux gouvernants :

1.        Accepter passivement la sta­gnation ;

2.        Opter pour le mode communis­te, c’est-à-dire pour la dicta­ture des intellectuels bourgeois qui n’ont plus pu accé­der au capitalisme ;

3.        Créer un régime directorial, corporatiste et collectiviste, sans supprimer l’initiative pri­vée et où la fonction de con­trôle politique-étatique con­siste à donner des directives efficaces ;

4.        Faire la guerre à grande é­chelle, à titre de palliatif.

 

Dennis est favorable à la troisième solution et craint la quatrième (pour laquelle opte Roosevelt). Dennis s’oppose à la seconde guerre mon­diale, tant dans le Pacifique que sur le théâtre européen. Plus tard, il s’opposera aux guerres de Corée et du Vietnam, injections de con­jonc­ture semblables, visant à dé­truire des matériels pour pouvoir en reconstruire ou pour amasser des dividendes, sur lesquels on spéculera et que l’on n’investira pas. Pour avoir pris de telles positions, Dennis sera injurié bassement par la presse du système de 1945 à 1955, mais il continue imperturbablement à affiner ses thèses. Il commence par réfuter l’idée de « péché » dans la pratique politique internationale : pour Dennis, il n’y a pas de « péché fasciste » ou de « péché communiste ». L’obsession américaine de pratiquer des politiques de « portes ouvertes » (open doors policy) est un euphémisme pour désigner le plus implacable des impérialismes. La guerre froide implique des risques énormes pour le monde en­tier. La guerre du Vietnam, son en­lisement et son échec, montrent l’inutilité de la quatrième solution. Par cette analyse, Dennis a un impact incontestable sur la pensée contestatrice de gauche et sur la gauche populiste, en dépit de son étiquette de « fasciste ».

 

En 1969, dans Operational Thinking for Survival, Dennis offre à ses lecteurs sa somme finale. Elle con­siste en une critique radicale de l’A­merican Way of Life.

 

Conclusion

 

Nous avons évoqué cinq figures d’opposants américains à Roosevelt. Leurs arguments sont similaires, en dépit de leurs diverses provenances idéologiques et politiques. Nous aurions pu comparer leurs positions à celles de dissidents américains plus connus en Europe comme Lindbergh ou Ezra Pound, ou moins connus comme Hamilton Fish. Nous aurions pu également analyser les travaux de Hoggan, historien contemporain non conformiste, soulignant les res­ponsabilités britanniques et américaines dans le deuxième conflit mon­dial et exposant minutieux des positions de Robert LaFollette. En­fin, nous aurions pu analyser plus en profondeur l’a­venture politique de cet homme politique populiste des années 20, leader des « pro­gres­sistes ». Leur point commun à tous : la volonté de maintenir une ligne isolationniste, de ne pas inter­venir hors du Nouveau Monde, de maximiser le dé­veloppement du territoire des Etats-Unis. 80% de la population les a suivis. Les intellectuels étaient partagés.

 

L’aventure de ces hommes nous montre la puissance de la manipulation médiatique, capable de re­tour­ner  rapidement l’opinion de 80% de la population américaine et de les entraîner dans une guerre qui ne les concernait nullement. Elle démontre aussi l’impact des principes autarciques, devant con­duire à une juxtaposition dans la paix de grands espaces autonomi­sés et auto-suffisants. En Europe, ce type de débat est délibérément ignoré en dépit de son ampleur et de sa profondeur, l’aventure intellectuelle et politique de ces Américains non conformistes est désormais inconnue et reste inexplorée.

 

Une étude de cette problématique interdit toute approche manichéen­ne. On constate que dans la gauche américaine (comme dans une certaine droite, celle de Taft, p. ex.), l’hostilité à la guerre contre Hitler et le Japon implique, par une logique implacable et constante, l’hostilité ultérieure à la guerre con­tre Staline, l’URSS, la Corée du Nord ou le Vietnam d’Ho Chi Minh. Dans l’espace linguistique francophone, il semble que les non-con­formismes (de droite comme de gau­che) n’aient jamais tenu compte de l’opposition intérieure à Roosevelt, dont la logique est d’une clarté et d’une limpidité admirables. Navrante myopie politique…

 

Robert STEUCKERS.

(Conférence prononcée à Ixelles à la Tribune de l’EROE en 1986, sous le patronage de Jean E. van der Taelen ; texte non publié jusqu’ici).

dimanche, 14 septembre 2008

La reconquête normande de la Sicile (1061-1091)

144557552_1eb208c1d8.jpg

 

 

La reconquête normande de la Sicile (1061-1091)

 

Histoire de la reconquête d’une île, préalablement envahie par les Musulmans, devenue italienne aujourd’hui, mais après avoir été pendant quelques siècles dans l’orbite espagnole.

 

Trouvé sur le site de la revue catholique espagnole “ARBIL”: http://www.iespana.es/revista-arbil/(59)sici.htm

 

Par Marco TANGHERONI & T. Angel EXPOSITO

 

La conquête musulmane

 

La conquête musulmane de la Sicile a été commencée en 827, par le débarquement à Mazara de troupes mixtes, composées d’Arabes, de Berbères et de musulmans hispaniques. Cette opération est la résultante d’une longue guerre contre l’Empire romain d’Orient, ou Empire byzantin. Les étapes décisives sont la conquête de Palerme, en 830, la capitulation des places fortes d’Enna, position éminement stratégique en 859, puis la conquête sanglante de Syracuse en 878, accompagnée de massacres et de déportations, après une résistance héroïque et désespérée. Par la suite, les autres centres de la partie orientale de la Sicile résisteront assez longtemps. Au fur et à mesure que la conquête se complétait, les musulmans appliquèrent aux vaincus les conditions que dicte le Coran à l’endroit des “gens du livre”, c’est-à-dire des chrétiens et des juifs, qui deviennent ipso facto des citoyens non musulmans au sein d’un Etat régi par la loi islamique. Ces citoyens sont des “dhimmi”, des  “protégés”: ils sont exemptés de payer la “zakat”, soit la dîme, mais  doivent payer la “khizya”, un impôt de protection qui leur permet de vivre en paix et de participer à la vie sociale et administrative de l’Etat, mais sans pouvoir occuper de position politique. Dans certaines circonstances particulières, ou sous la férule  de certains chefs, ces conditions n’ont pas été respectées. Le sort des “gens du livre” a alors été peu enviable. L’islamisation de l’île devint quasi complète dans sa  partie occidentale, tandis que la population demeurait chrétienne, de rite grec, dans de vastes régions de la Sicile orientale, où survivaient de nombreux monastères. Les conversions de toutes formes et conditions ont été nombreuses chez les vassaux et les serfs.

 

A la dynastie des Aghlabides, fondée par l’émir Ibrahim al-Aghlab et disparue en 812, succède, en 910, celle des Fatimides, d’observance chiite, qui fait remonter ses origines à Fatima, la fille du prophète Mohamet (570-632). Cette dynastie fut obligée de faire face aux rébellions internes, surtout en pays berbère. Entre 948 et 1053, la dynastie des Kalbides s’impose en Sicile, issue de la tribu des Kalb et jouissant d’une forte autonomie. Elle est à l’origine d’une civilisation brillante. Mais la fin de l’unité politique des musulmans en Sicile est marquée, vers 1053, par les luttes acharnées entre chefs militaires. A la suite de ces querelles, la Sicile est divisée entre quatre caïds, dont deux étaient berbères. Cette division politique contrastait avec un développement économique important, suite à l’introduction de nouvelles techniques agricoles et artisanales et par un bon usage commercial de la position centrale de la Sicile en Méditerranée.

 

L’héritage des Normands

 

Au 9ième siècle, les Sarazins, forts de leur supériorité maritime, réussirent à conquérir la Sicile et à ravager la Sardaigne, à fonder un émirat à Bari (de 840 à 870), à s’installer à l’embouchure du Garigliano et dans le bas Latium, position à partir de laquelle ils purent faire quelques incursions dans Rome même. Ils attaquèrent ainsi les basiliques de Saint-Pierre et de Saint-Paul extramuros en 846 et, enfin, à s’installer pendant assez longtemps en Provence. Malgré cette démonstration de forces et ces victoires musulmanes, la reconquête des pays chrétiens commencent immédiatement.

 

Tandis que le processus de reconquête de la péninsule ibérique, occupée par les Maures au 8ième siècle a été amorcé par les habitants eux-mêmes, en Sicile, il convient plutôt de parler de “conquête normande”. Les Normands, qui  envahiront la Sicile musulmane, étaient à l’origine des Scandinaves mais qui n’avaient pas conservé leurs traditions et leurs modes de vie, celles des terribles incursions vikings des 8ième et 9ième siècles. Les Normands de Sicile venaient du Duché de Normandie, où ils s’étaient établis, s’étaient christianisés et avaient adopté la langue française. Ils arrivent en Italie, au départ comme pèlerins, et deviennent mercenaires, dès la première moitié du 9ième siècle, car on connaît leur valeur militaire, qui combine astuce et violence. Ils s’immiscent dans la réalité du Sud de l’Italie, fort complexe à l’époque. En effet, cette partie de la péninsule italique est divisée en duchés tyrrhénéens (Naples, Gaeta et Amalfi. Ces duchés étaient à l’origine sous la suzeraineté de Byzance, mais étaient devenus autonomes de facto. Ensuite, il y avait des  principautés lombardes (Bénévent, Salerne et Capoue) et des territoires sous administration byzantine comme l’Apulie et la Calabre. Toutes ces entités politiques étaient continuellement agitées de rébellions, où les indigènes se révoltaient contre leurs maîtres étrangers et par les contre-offensives impériales.

 

Parmi les chefs normands, une figure se dégage, celle de Robert de Hauteville (1015-1085), alias le Guiscard. Il affirme de manière définitive son autorité sur les autres chefs militaires, dont chacun commandait des hommes fidèles et détenait des terres conquises. Il avait simplement besoin d’une légitimité, que seule une autorité universelle pouvait lui procurer: soit l’Empire d’Occident avec ses empereurs germaniques, mais qui ne s’intéressaient guère à toutes ses agitations d’Italie méridionale, soit la Papauté, avec qui Robert Guiscard entretiendra bien vite des relations privilégiées. De leur côté, les Papes qui régnèrent vers la moitié du 11ième siècle et dans les décennies suivantes, étaient fort préoccupés par la situation politique, surtout celle de Rome et de l’Italie du Sud. Ils entendaient mener à bien les réformes ecclésiastiques, qualifiées improprement de “grégoriennes” à cause de leur principal protagoniste le Pape Grégoire VII (1073-1085). Ces réformes voulaient affirmer le “liberta Ecclesiae”, la liberté de l’Eglise, contre toute ingérence laïque, y compris celle des empereurs qui, avec Henri III (1017-1056) avaient imposé des pontifes  réformateurs à l’aristocratie romaine, pourtant récalcitrante.

 

Le Pape Léon IX (1048-1054) organise, pour sa part, une armée anti-normande, qui fut mise en déroute totale à Civitate, en Apulie, en 1053. Cette bataille, pourtant, fut le prélude d’un dialogue entre les “hommes du Nord” et la curie romaine, qui prit une forme plus concrète, après l’élection du Pape Nicolas II (1059-1061), lors des accords de Melfi en août 1059. Selon ces accords, le Pape absout les Normands Richard de Capoue (mort en 1078) et Robert Guiscard et lève leur excommunication. Il reconnait ensuite les conquêtes qu’ils ont effectuées. Il octroie à Robert le titre de “Duc d’Apulie et de Sicile”, “par la grâce de Dieu et de Saint Pierre”, et, “avec l’aide des deux, celui de futur Duc de Sicile”. En contrepartie, les Normands doivent jurer fidélité au Pape et à l’Eglise et s’engager à défendre non seulement les territoires pontificaux mais aussi les nouvelles modalités d’élection pontificale par les cardinaux, fruits de la réforme ecclésiastique.

 

La reconquête commence

 

Ces accords constituent les prémisses du projet de reconquête de la Sicile. Il commence par la conquête des villes byzantines de Reggio et de Squillace en 1059 puis par un accord entre Roger de Hauteville (mort en 1101), rapidement connu sous le titre de “Grand Comte”, et un des  émirs de l’île, Ibn al-Thumma (mort en 1062). Les opérations  militaires commencent en 1061 par un assaut audacieux, par terre et par mer, lancé contre Messines, qui est enlevée sans  que les Normands ne rencontrent de résistance sérieuse. Mais les péripéties ultérieures de la reconquête ne seront pas aussi faciles: la forteresse de Centuripe, qui contrôle d’un point culminant toute la plaine autour de Catania, opposent une résistance opiniâtre. A Castrogiovanni, l’émir Ibn al-Hawas (mort en 1063 ou en 1064) dirige la défense de la vallée d’Enna. Enfin, Roger participe aux campagnes d’Apulie que mène son frère Robert.

 

Une armée venue d’Afrique intervient dans l’île, mais elle est annihilée par une victoire normande à Cerami pendant l’été de 1063, au cours de laquelle les représentants d’une nouvelle dynastie berbère, les Zirides, auparavant lieutenants des Fatimides, renoncent à appuyer la présence musulmane en Sicile. Après cette bataille, les  Normands ne contrôlent directement que Messines et Val Demone, tandis que les chefs musulmans, plus ou moins liés à eux, gouvernent Syracuse, Catania et la Vallée de Noto; Ibn al-Hawas, pour sa part, continue à dominer Caltanissetta, Girgenti et la Vallée  de Mazara, tandis que Palerme, où s’est affirmé un gouvernement autonome, devient, avec Trapani, le centre de la résistance anti-normande. Dans ce contexte, Palerme subit en 1064 une attaque des Pisans, sans qu’il n’y ait eu un accord entre ceux-ci et Roger. La ville sicilienne et son port sont pillés: les Pisans utiliseront le butin pour construire chez eux une grande cathédrale.

 

La reconquête de la Sicile ne peut se faire définitivement qu’après l’achèvement de la politique d’unification de l’Italie méridionale, réalisé par la conquête de Bari, le 16 avril 1071. En août de la même année, les Normands, qui disposent désormais d’une flotte propre, qui ont perfectionné les techniques de siège et utilisent des machines, des tours et des échelles de meilleures qualité, assiègent Palerme, qui capitule le 10 janvier 1072, suite à une attaque coordonnée des forces de Robert et de Roger. Robert fait son entrée solenelle dans la  ville, où la mosquée devient l’Eglise Sainte-Marie. On y dit la messe en grande pompe. L’archevêque récupère ses biens et son autorité, alors que les Sarrazins l’avaient relégué dans la petite église de San Ciriaco (Saint Cyriaque), où il avait maintenu le culte chrétien. C’était pourtant un homme “timide et grec de nationalité”, notait le bénédictin Geoffroy Malaterra, chroniqueur normand du 11ième siècle.

 

Mazara capitule également mais demande la garantie, comme pour Palerme, que les nouveaux sujets des Normands, que deviendront ipso facto les habitants de la ville, puissent conserver leur religion et la vivre en suivant ses préceptes. Robert retourne ensuite dans la péninsule d’où il essaie de s’étendre à l’Albanie actuelle; débarque dans l’île de Corfou avec son frère Roger et des forces réduites. Il poursuit la guerre en évitant des affrontements directs en rase campagne, déployant deux types de stratégies, tout en respectant les musulmans de l’île, les unes visant à semer la terreur par la destruction des récoltes, par la capture de troupeaux de bétail et de chevaux, par l’élimination physique de groupes de résistants; les autres stratégies visant à faire montre de tolérance, comme frapper des monnaies portant des citations du Coran.

 

Il visait ainsi à étendre son autorité à toute l’île, en tenant compte des réalités ethniques et religieuses, compliquées et entremêlées. Dans cette optique, il crée un diocèse de rite latin et d’obédience romaine, tout en favorisant aussi les institutions ecclésiales grecques, bien établies dans la région, notamment en Sicile orientale. Le Pape accepte cette politique, mais entend faire savoir qu’il veut donner des bases nouvelles aux institutions ecclésiastiques latines, en décidant lui-même des investitures, alors qu’en l’occurrence, c’était Roger qui les avait mises en place lors de ses conquêtes en nommant personnellement les autorités religieuses. Le Pape les ratifia généralement a posteriori, jugeant préférable de faire renaître sans trop de heurts un réseau ecclésial lié à Rome, qui diffuserait les principes de la réforme dite “grégorienne”. Les souverains pontifs successifs et la curie romaine savaient que la renaissance de l’Eglise de rite latin en Sicile revêtait un caractère particulier, que l’historien Paolo Delogu a défini correctement en disant qu’elle était “une église de frontière”.

 

A partir de 1077, les entreprises militaires normandes reprennent vigueur, avec une victoire retentissante devant Trapani, cité dans l’est de la Sicile. Or, dans cette région, à partir de Syracuse, un chef musulman, Ibn Abbad, dit “Benavert”, tente une ultime contre-offensive. Il reprend Catania et saccage le Sud de la Calabre. En mai 1086, il est toutefois battu définitivement par Roger, à la suite d’une expédition décisive. Benavert meurt au combat en tentant de prendre à l’abordage le navire du comte. Après cinq mois de siège, Syracuse capitule, puis vient le tour des autres cités comme Girgenti, Castrogiovanni et Noto. En 1091, les Normands prennent Malte.

 

Une reconquête chrétienne

 

Les historiens modernes et contemporains ont beaucoup discuté pour savoir quelles avaient été les motivations réelles qui avaient poussé les Normands à conquérir la Sicile. Et quel avait été le poids des motivations strictement religieuses. Selon Malaterra, les oppositions et contrastes ethniques et religieux ont été très importants et ne se sont pas réduits à un simple conflit binaire entre chrétiens et musulmans: pour ce moine chroniqueur, les musulmans sont certes “la lie de la terre”, mais les Grecs de Sicile et de Calabre sont d’une “engeance des plus perfides”; quant aux Lombards du Mezzogiorno, “ils sont toujours prompts à faire de mauvaises guerres”; les Pisans, eux, “ne s’intéressent qu’au lucre et n’ont aucune valeur humaine”; les Romains “sont vénaux et toujours prêts à verser dans la simonie”. Malaterra sait que les motivations qui animent Roger, au moment où il s’apprête à venir en Sicile, sont dictées par ses ambitions personnelles: “[...] il considérait deux choses utiles en soi, c’est-à-dire pour l’âme et pour le corps : ramener au culte de Dieu une terre qui avait basculé dans l’idolâtrie et prendre possession temporelle des usufruits et rentes qui avaient été usurpés par une engeance déplaisant à Dieu”. Malgré cette motivation bien temporelle, au fur et à mesure que la guerre sicilienne se simplifiera et perdra sa complexité du début, où des forces musulmanes étaient alliées aux Normands, l’opposition religieuse binaire entre chrétiens et musulmans sera nette et Roger subira en quelque sorte une conversion spirituelle, devenant un modèle de “roi chrétien”: “[...] pour ne pas perdre la grâce de Dieu, il se mit à vivre entièrement à l’écoute du souverain de l’univers, à aimer les jugements justes, à faire dire la justice, à embrasser la vérité, à fréquenter les églises avec dévotion, à écouter les chants sacrés, à payer à l’Eglise une dîme sur toutes ses rentes, à consoler les veuves et les orphelins”.

 

Marco Tangheroni & T. Angel Expósito (D.P.F.)

 

Pour approfondir la question : cf. Salvatore Tramontana, La monarchia normanna e sveva, en Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, vol. III de la Storia d´Italia dirigida por Giuseppe Galasso, Utet, Turín 1983, págs. 435-810.

 

En français:

-        Pierre Aubé, Les empires normands d’Orient, Perrin, Paris, 1991.

-         Eric Barré, Les Normands en Méditerranée, Les éditions du Veilleur de Proue, Rouen, 1998 (ISBN 2-912363-15-2).

 

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : normandie, normands, sicile, italie, reconquista, méditerranée, islam | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 08 septembre 2008

Une critique visionnaire du dérèglement économique mondial

standardoil.jpg

Une critique visionnaire du

dérèglement économique mondial

George FELTRIN-TRACOL

sur: http://www.europemaxima.com/

Au début de la décennie 1930, quand la crise de 1929 commençait à toucher la France, deux jeunes penseurs courageux et originaux, Robert Aron et Arnaud Dandieu, rédigèrent Le cancer américain.

Ces deux noms ne sont pas inconnus pour qui s’intéressent à cet extraordinaire foisonnement intellectuel de la France de l’Entre-Deux-Guerres que Jean-Louis Loubet del Bayle désigna dans un livre magistral et fondateur sous le terme générique de « non-conformistes des années 1930 ». Avec Denis de Rougemont et Alexandre Marc, Robert Aron et Arnaud Dandieu animèrent la revue L’Ordre Nouveau et le groupe éponyme. Situé entre la revue personnaliste Esprit d’Emmanuel Mounier, de sensibilité « progressiste » (ou au moins « humaniste intégral »), et la Jeune Droite d’extraction maurrassienne, L’Ordre Nouveau ne cessa de dialoguer avec elles, occupant ainsi un espace central de la pensée française d’alors sans pour autant renoncer à sa radicalité intrinsèque.

Cette radicalité se manifeste pleinement dans Le cancer américain que L’Âge d’Homme vient enfin de rééditer. À la différence des écrits des autres non-conformistes qui traitent de philosophie, de politique, de moral, Robert Aron et Arnaud Dandieu nous livrent une réflexion économique sur la transformation profonde, capitale, du monde à laquelle ils assistent horrifiés. « Nous voici au changement des temps où il nous faudra choisir entre les routines oppressives d’une tradition faussée et le travail révolutionnaire qui mène à un ordre nouveau. Ce livre sans portée constructive et sans valeur doctrinale, n’a été écrit que pour inviter à ce choix. »

Le cancer américain critique en des termes fort rudes les politiques déflationnistes de l’Étatsunien Hoover et du Français Tardieu. Mais, par delà cette critique conjoncturelle implacable, l’ouvrage dénonce impitoyablement la diffusion de nouveaux modes de production standardisés, la rationalisation des méthodes de travail qui ne se limite pas au seul secteur industriel, le taylorisme et le fordisme qui envahissent les esprits. Il s’en prend aussi au principe de l’assurance et à l’idéal philanthropique des sociétés occidentales qui minent et sapent les communautés humaines. Il en résulte que « pour tous ceux, Français ou étrangers, Américains ou Asiatiques, qui sentent, au sens le plus médiocre comme au plus élevé du mot, leur “ avenir ” menacé et leur existence compromise par des crises qu’ils subissent sans parvenir à les comprendre, pour les peuples qui voient disparaître leurs traditions essentielles, — pour les individus opprimés dans leur bien-être et dans leurs joies — ce livre est un cri d’alarme ». Les auteurs se révoltent donc contre le monde moderne puisqu’ils estiment « le mal dans lequel se débat le monde moderne est bien, comme un cancer, lié à la nature même de ce monde ». En observateurs lucides et soucieux, ils constatent que « le cancer du monde moderne a pris naissance bien loin des charniers de la guerre, en un terrain bien abrité, mieux même qu’on ne le croit souvent. C’est le cancer américain ».

Ce livre, on s’en saurait douté, vitupère contre le système yankee d’autant que « les États-Unis doivent apparaître comme un organisme artificiel et morbide » ! Cependant, les auteurs se nuancent et précisent que « les U.S.A. que nous mettons en cause, c’est une méthode, ce n’est pas un peuple, encore moins une terre. Méthode qui a bien pu se greffer sur tout un groupe humain, comme une maladie ; mais qui n’en garde pas moins sa liberté de propagation et son existence indépendante… ».

Considérant néanmoins que « l’impérialisme américain à base économique et mystique, est l’héritier direct de la tradition coloniale européenne », que « l’esprit américain [est] cancer et détournement de l’esprit véritable » et qu’il « se ramène à une double crise : crise de conscience d’abord, et crise de virilité », Robert Aron et Arnaud Dandieu, doués de prescience, s’indignent de la mise en tutelle des banques européenne par la Federal Reserve Banks via la Banque des Règlements Internationaux, et s’élèvent contre la mise en place d’un système monétaire international qui préfigure et annonce les accords calamiteux de Bretton Woods en 1944.

Comme leurs « homologues » révolutionnaires-conservateurs allemands, Robert Aron et Arnaud Dandieu déplorent le plan Dawes et rejettent le scandaleux plan de remboursement Young qui fragilise les économies européennes. On a tendance à l’oublier aujourd’hui : si les États-Unis ne ratifièrent pas en 1920 le traité de Versailles et choisirent l’isolationnisme, Washington n’en continua pas moins d’exiger de ses débiteurs le paiement complet des prêts de guerre et de leurs intérêts… L’isolationnisme politique yankee s’accorda sans problème avec une solide attention financière intéressée au Vieux Monde. C’est par ce biais que les États-Unis parviennent à s’imposer. « Cette colonisation américaine de l’Europe est évidemment que plus elle devient dangereuse, moins elle est apparente. Et ici se confirme une fois de plus le caractère profondément abstrait de cette colonisation. C’est sur le terrain financier et particulièrement celui du crédit que cette constatation se montre la plus éclatante. À ce titre, et bien qu’il soit bousculé par les événements, le plan Young demeure un objet d’études particulièrement révélateur : son importance subsiste entière et 1929 apparaît comme une étape particulièrement grave dans la colonisation de l’Europe par l’Amérique. Pour la première fois, au moyen d’un organisme bancaire, un protectorat secret sur l’ancien monde était établi de façon assez discrète, pour que nul ne s’en aperçût. Machine admirablement montée, mais encore mieux camouflée, et sur laquelle il faut nous arrêter quelque peu. Véritable charte du colonialisme américain ! » Cette invasion subtile et insidieuse prend des formes surprenantes, que « de la colonisation concrète ayant un but matériel, voire territorial, elle est passée progressivement à ce que l’on pourrait appeler la colonisation abstraite, c’est-à-dire à la colonisation par le commerce, puis par le crédit, puis enfin par le prestige ».

Les auteurs du Cancer américain considèrent par conséquent que la prospérité étatsunienne des « Années folles » s’est bâtie sur les ruines et la reconstruction de l’Europe meurtrie. Or la crise de Wall Street et ses conséquences ne font qu’accentuer ce parasitisme d’une manière dangereuse, car, « que l’Amérique le veuille ou non, c’est à la guerre que mènent inévitablement sa prospérité et ses crises, à la guerre… en Europe », avertissent-ils prophétiquement.

Ils récusent toutefois la solution belliciste. « Ce livre n’est pas un appel à l’on ne sait quelle guerre sainte. La guerre ne peut rien contre les maux de l’esprit, et le cancer américain est avant tout un cancer du spirituel. Ce n’est pas à la guerre contre l’Amérique qu’au-dessus des nationalités il faut appeler l’Europe ; non seulement les canons ne peuvent rien contre le cancer, mais la guerre est un contact plus dangereux que n’importe quel autre, et l’on s’américanise contre l’Amérique plus vite encore que pour elle. Nous n’appelons donc à la guerre, mais à la conjuration. » Ce complot, cette insurrection des cultures populaires enracinées doit aller à l’encontre de l’air du temps et de ses engouements superficiels. Déjà « le rôle que nous nous assignons, dépassant les questions de frontière ou le problème même de race, est d’écrire le Discours contre les excès de la Méthode (1), c’est-à-dire contre les abus d’une méthode jadis bienfaisante, le Discours contre la technique qu’attend notre génération ». Comment ? « Contre l’esprit américain, ce cancer du monde moderne, il n’est aujourd’hui qu’un remède. Pour échapper à l’engloutissement dont nous menacent les déterminismes matérialiste et bancaire, c’est avant tout le mythe de la production qu’il faut attaquer et détruire : c’est avant tout une révolution spirituelle qu’il est de notre devoir de susciter. » MM. Aron et Dandieu suggèrent donc de décoloniser les imaginaires…

Cette « révolution spirituelle » nécessaire, indispensable, vitale même, ne peut que se fonder sur l’idée européenne. Et on comprend mieux tout ce qui sépare la Jeune Droite, restée nationaliste, de L’Ordre Nouveau, véritablement européiste, qui perçoit l’Europe en rempart salutaire au déferlement destructeur de la modernité. « Dans sa Révolution nécessaire, elle rejettera avec indignation tous les colonialismes étrangers ou internes, qui partout, dans les métropoles comme dans les terres d’outre-mer, ne cherchent qu’à brimer les modes d’existence et de pensée indigènes au profit d’autres cancers conçus à l’instar de l’Amérique. » Mieux, l’Europe, pour les auteurs, ne dément pas la juste affirmation des peuples à préserver leurs identités, bien au contraire ! « Diversité et unité peuvent en elles s’appuyer l’une sur l’autre, parce que c’est la diversité des patries et des cultures qui y a lentement, contre la volonté des États et des diplomates, promu au rang de valeur suprême la puissance d’un esprit créateur, spécifiquement humain. Puisque aujourd’hui on s’en prend à ta diversité comme à ton unité, à ta peau comme à ton âme, Europe, réveille-toi ! » Le propos résonne d’une tonalité singulièrement actuelle.

Sorti après Décadence de la nation française (qu’il serait bien que l’éditeur le republie) et avant La Révolution nécessaire (2), Le cancer américain étudie en temps réel la mainmise du système bankstère sur les vieilles nations européennes. Trois quarts de siècle avant la « mondialisation », cet essai signale que loin d’apporter le bonheur et la plénitude individuels entiers, le dérèglement volontaire du capitalisme libéral et sa généralisation virale plongeraient le monde dans un chaos dont l’homme du début du XXIe siècle pâtit encore des affres. Saluons donc L’Âge d’Homme pour cette réédition et méditons les avertissements visionnaires de Robert Aron et d’Arnaud Dandieu afin d’édifier au final cet ordre nouveau souverain, libérateur et européen.

Notes

1 : En 1974, Robert Aron publia chez Plon Discours contre la Méthode, préfacé par Arnaud Dandieu.

2 : La Révolution nécessaire, Grasset, 1933, réédition, Jean-Michel Place, 1993, préface de Nicolas Tenzer.

• Robert Aron et Arnaud Dandieu, Le cancer américain, L’Âge d’Homme, préface de Pierre Arnaud, coll. « Classiques de la pensée politique », 2008, 141 p., 24 €.

lundi, 01 septembre 2008

Les Indo-Européens dans la Chine antique

loubeaut2.jpg

 

Reconstitution d'une des momies d'Urumtchi

 

Les Indo-Européens dans la Chine antique

Dans le livre troisième de son fameux Essai sur l'inégalité des races humaines, publié dans les années 50 du 19ième siècle, Arthur de Gobineau décrivait les flux migratoires des peuples indo-européens en Orient et relevait que «vers l'année 177 av. J. C., on rencontrait de nombreuses nations blanches à cheveux clairs ou roux et aux yeux bleus, in­stal­lées sur les frontières occidentales de la Chine. Les scribes du Céleste Empire, auxquels nous devons de connaître ce fait, citent cinq de ces nations… Les deux plus connues sont le Yüeh-chi et les Wu-suen. Ces deux peuples habitaient au nord du Hwang-ho, aux confins du désert de Gobi… De mê­me, le Céleste Empire avaient pour sujets, au sein de ses provinces du Sud, des nations aryennes-hindoues, immi­grées au début de son histoire» (1).

Arthur de Gobineau tirait ses informations des études de Ritter (Erdkunde, Asien) et de von Humboldt (Asie centra­le); tous deux se basaient sur les annales chinoises de la dynastie han, dont les premiers souverains ont commencé leur règne en 206 av. J. C. De fait, nous savons aujourd'hui que, dès le 4ième siècle avant J.C., les documents histo­riques du Céleste Empire évoquaient des peuples aux che­veux clairs, de mentalité guerrière, habitant sur les confins du territoire, dans ce que nous appelons aujourd'hui le Tur­kestan chinois ou le Xinjiang. Selon Gobineau, ces faits at­testaient de la puissance expansive et implicitement civi­lisatrice des populations "blanches". Mais, au-delà des in­ter­prétations unilatérales et, en tant que telles, inac­cepta­bles de l'écrivain français, presque personne n'a pris en con­sidération la signification que ces informations auraient pu revêtir pour retracer l'histoire de la culture et des in­fluences culturelles, sur un mode moins banal et linéaire que celui qui était en vogue au 19ième siècle.

On a plutôt eu tendance à rester incrédule quant à la fia­bilité des annales, parce qu'on était animé par un in­décrottable préjugé euro-centrique, selon lequel les peu­ples de couleurs étaient en somme des enfants un peu fan­tas­ques, incapables de saisir l'histoire dans sa concrétude. En outre, à l'époque, il était impossible de vérifier la pré­sence de ces populations "blanches" : même en admettant qu'elles aient existé, personne ne pouvait dire depuis com­bien de temps elles avaient disparu, noyées dans la mer mon­tante des populations asiatiques voisines. Cette zone géographique, jadis traversée par la légendaire "route de la soie" et devenue depuis longtemps en grande partie dé­sertique, était devenue inaccessible aux Européens, qui ne pouvaient évidemment pas y mener à bien des études ar­chéologiques sérieuses et approfondies.

Latin, irlandais ancien et tokharien

Comme l'a souligné Colin Renfrew, célèbre pour ses recher­ches sur les migrations indo-européennes, ce n'est qu'au dé­but du 20ième siècle que les premiers érudits ont pu s'a­ven­turer dans la région, en particulier dans la dépression du Ta­rim et dans diverses zones avoisinantes (2). Ils ont trou­vé de nombreux matériaux, bien conservés grâce à l'ex­trême aridité du climat désertique qui règne là-bas. Il s'agit essen­tiellement de textes en deux langues, écrits dans une lan­gue jusqu'alors inconnue, qui utilisait cependant un al­pha­bet du Nord de l'Inde; à côté du texte en cette langue, fi­gurait le même texte en sanskrit. Ce qui a permis de la com­prendre et de l'étudier assez rapidement. Cette langue a été appelée par la suite le "tokharien", dénomination que l'on peut juger aujourd'hui impropre. Elle se présentait sous deux formes légèrement différentes l'une de l'autre, qui ré­vélaient "diverses caractéristiques grammaticales les liant au groupe indo-européen" (3). Notons le fait que les res­sem­blances les plus frappantes liaient cette langue au cel­tique et au germanique, plutôt qu'aux groupes plus proches de l'iranien et des autres langues aryennes d'Asie. A titre d'exemple, nous comparerons quelques mots fondamentaux que l'on retrouve respectivement en latin, en irlandais an­cien et en tokharien. "Père" se dit "pater", "athir" et "pa­cer"; "Mère" se dit "mater", "mathir" et "macer"; ""Frère" se dit "frater", "brathir" et "procer"; "Sœur" se dit "soror", "siur" et "ser"; "Chien" se dit "canis", "cu" et "ku" (4). A titre de cu­riosité, signalons une autre correspondance: le nombre "trois" se dit "tres" en latin, "tri" en irlandais ancien et "tre" en tokharien.

Les affinités sont donc plus qu'évidentes. «Les documents remontent aux 7ième et 8ième siècles après J. C. et com­pren­nent des correspondances et des comptes rendus émanant de monastères… Des deux versions de la langue tokharien­ne, la première, nommée le "tokharien A" se retrouve éga­lement dans des textes découverts dans les cités de Ka­rashar et de Tourfan, ce qui a amené certains savants à l'ap­peler le "tourfanien". L'autre version, appelée "tokha­rien B", se retrouve dans de nombreux documents et textes trouvés à Koucha et donc baptisée "kouchéen" (5).

Processus endogène ou influence exogène? 

Aujourd'hui, on tend à penser que ces langues ont été par­lées par les Yüeh-chi (ou "Yü-chi"), le peuple mentionné dans les annales antiques, peuple qui avait entretenu des contacts prolongés avec le monde chinois. C'est là un point fondamental, qui est resté longtemps sans solution. En fait, sur la naissance de la civilisation chinoise, deux opinions s'affrontent : l'une entend privilégier un processus entiè­rement endogène, sans aucune influence extérieure d'au­tres peuples; l'autre, au contraire, met en évidence des apports importants, fondamentaux même, venus d'aires cul­turelles très différentes. La première thèse est na­tu­rellement la thèse officielle des Chinois, mais aussi celle de tous ceux qui s'opposent à toute conception de l'histoire qui pourrait donner lieu à des hypothèses "proto-colonialistes" vo­yant en l'Occident la matrice de tout progrès. Les dé­fenseurs les plus convaincants de la thèse "exogène" —c'est-à-dire Gobineau, déjà cité, mais aussi Spengler, Kossina, Gün­ther, Jettmar, Romualdi, etc.—  sont ceux qui souli­gnent, de manières très différentes, le rôle civilisateur des peuples indo-européens au cours de leurs migrations, par­ties de leur patrie primordiale, pour aboutir dans les con­trées lointaines auxquelles ils ont donné une impulsion bien spécifique. Bien sûr, dans certains cas, ces auteurs ont con­staté que l'apport culturel n'a pas été suffisamment fort pour "donner forme" à une nouvelle nation, vu le nombre réduit des nouveaux venus face aux populations indigènes; néanmoins, la simple présence d'une influence indo-euro­péenne a suffit, pour ces auteurs, pour imprimer une im­pul­sion vivifiante et pour animer un développement chez ces peuples avec lesquels les migrants indo-européens en­traient en contact. Ce serait le cas de la Chine avec les Tokhariens.

Par exemple, Spengler (6) souligne l'importance capitale de l'introduction du char de guerre indo-européen dans l'évolution de la société chinoise au temps de la dynastie Chou (1111-268 av. J. C.). D'autres auteurs, comme Hans Gün­ther, plusieurs dizaines d'années plus tard, avait avancé plusieurs hypothèses bien articulées et étayées de faits importants, attribuant à cette pénétration de peuples indo-européens l'introduction de l'agriculture parmi les tributs nomades d'Asie centrale, vers la moitié du deuxième millé­naire; il démontrait en outre comment l'agriculture s'était répandue en Asie centrale, parallèlement à l'expansion de populations de souche nordique.

Bronze et chars de guerre

De même, l'introduction du bronze en Chine semble, elle aussi, remonter aux invasions indo-européennes; ensuite, on peut supposer qu'aux débuts de l'histoire chinoise, il y a eu l'invasion d'un peuple équipé de chars de guerre, venu du lointain Occident. Par ailleurs, on peut dire que les sinologues actuels reconnaissent tous l'extrême importance du travail et du commerce du bronze dans le dévelop­pe­ment de la société en Chine antique (7). La même impor­tance est attribuée aujourd'hui, par de plus nombreux sino­logues, à l'introduction de certaines techniques agricoles et du char hippo-tracté.

Les études de Günther sur le parallélisme entre la présence de peuples aux cheveux clairs et la diffusion de la culture indo-européenne en Asie ont d'abord été diabolisées et os­tracisées, mais, aujourd'hui, au regard des apports nou­veaux de l'archéologie, elles méritent une attention nou­velle, du moins pour les éléments de ces études qui de­meu­rent valables. Peu d'érudits se rappellent que, dans l'oasis de Tourfan, dans le Turkestan chinois, où vivaient les To­khariens, on peut encore voir des fresques sur lesquelles les ressortissants de ce peuple sont représentés avec des traits nettement nord-européens et des cheveux clairs (8). C'est une confirmation de la fiabilité des annales du Céleste Em­pire. On ne peut donc plus nier un certain enchaînement de faits, d'autant plus que l'on dispose depuis quelques années de preuves plus directes et convaincantes de cette in­stallation très ancienne d'éléments démographiques indo-européens dans la zone asiatique que nous venons d'évo­quer. Ces installations ont eu lieu à l'époque des grandes mi­grations aryennes vers l'Est (2ième millénaire avant J. C.), donc avant que ne se manifestent certains aspects de la ci­vilisation chinoise.

Ces preuves, disions-nous, nous n'en disposons que depuis quelques années…

Les traits europoïdes des momies d'Ürümtchi

En 1987, Victor Mair, sinologue auprès de l'Université de Pennsylvanie, visite le musée de la ville d'Ürümtchi, capita­le de la région autonome du Xinjiang. Il y voit des choses qui provoquent chez lui un choc mémorable. Il s'agit des corps momifiés par cause naturelle de toute une famille : un homme, une femme et un garçonnet de deux ou trois ans. Ils se trouvaient dans une vitrine. On les avait dé­couverts en 1978 dans la dépression du Tarim, au sud du Tian Shan (les Montagnes Célestes) et, plus particu­lière­ment, dans le désert du Taklamakan (un pays peu hos­pi­ta­lier à en juger par la signification de son nom : "on y entre et on sort plus!").

Plusieurs années plus tard, Mair déclare au rédacteur du men­­suel américain Discover : «Aujourd'hui encore, je res­sens un frisson en pensant à cette première rencontre. Les Chinois me disaient que ces corps avaient 3000 ans, mais ils semblaient avoir été enterrés hier» (9). Mais le véritable choc est venu quand le savant américain s'est mis à ob­ser­ver de plus près leurs traits. Ils contrastaient vraiment avec ceux des populations asiatiques de souche sino-mon­gole; ces corps momifiés présentaient des caractéristiques soma­tiques qui, à l'évidence, étaient de type européen et, plus précisément, nord-européen. En fait, Mair a noté que leurs cheveux étaient ondulés, blonds ou roux; leurs nez étaient longs et droits; ils n'avaient pas d'yeux bridés; leurs os é­taient longs (leur structure longiligne contrastait avec cel­le, trapue, des populations jaunes). La couleur de leur épi­derme —maintenu quasi intact pendant des millénaires, ce qui est à peine croyable—  était typique de celle des po­pu­lations blanches. L'homme avait une barbe épaisse et drue. Toutes ces caractéristiques sont absentes au sein des po­pulations jaunes d'Asie.

Les trois "momies" (il serait plus exact de dire les trois corps desséchés par le climat extrêmement sec de la région et conservés par le haut taux de salinité du terrain, qui a empêché la croissance des bactéries nécrophages) consti­tuaient les exemplaires les plus représentatifs d'une série de corps —à peu près une centaine— que les Chinois avaient déterrés dans les zones voisines. Sur base des datations au radiocarbone (10), effectuées au cours des années précé­den­tes par des chercheurs locaux, on peut dire que ces corps avaient un âge variant entre 4000 et 2300 ans. Ce qui nous amène à penser que la population, dont ils étaient des ressortissants, avait vécu et prospéré pendant assez long­temps dans cette région, dont la géologie et le climat de­vaient être plus hospitaliers dans ce passé fort lointain (on y a d'ailleurs retrouvé de nombreux troncs d'arbre dessé­chés).

Spirales et tartans

Le matériel funéraire et les vêtements de ces "momies", eux aussi, se sont révélés fort intéressants. Par exemple: la présence de symboles solaires, comme des spirales et des swastikas, représentés sur les harnais et la sellerie des che­vaux, relie une fois de plus ces personnes aux Aryens de l'antiquité, sur le plan culturel.

L'étoffe utilisée pour fabriquer leurs vêtements était la lai­ne, qui fut introduite en Orient par des peuples venus de l'Ouest. Le "peuple des momies" connaissait bien l'art du tis­sage: on peut l'affirmer non seulement parce que l'on a re­trouvé de nombreuses roues de métier à tisser dans la ré­gion mais aussi parce que les tissus découverts sont d'une excellente facture. Pour attester des relations avec le Cé­leste Empire, on peut évoquer une donnée supplémentaire: la présence d'une petite composante de soie dans les effets les plus récents (postérieurs au 6ième siècle av. J. C.), qui ont de toute évidence été achetés aux Chinois. Les autres éléments vestimentaires, dans la majeure partie des cas, dé­montrent qu'il y avait des rapports étroits avec les cul­tu­res indo-européennes occidentales; le lot comprend notam­ment des vestes ornées et doublées de fourrure et des pan­talons longs.

Plus révélateur encore: on a retrouvé dans une tombe un fragment de tissu quasi identique aux "tartans" celtes (11) dé­couverts au Danemark et dans l'aire culturelle de Hall­statt en Autriche, qui s'est développée après la moitié du 2ième millénaire avant J. C., donc à une époque contempo­rai­ne de celle de ces populations blanches du Xinjiang. Si l'on pose l'hypothèse que les Celtes d'Europe furent les an­cêtres directs de ces Tokhariens (ou étaient les Tokhariens tout simplement), cette preuve archéologique s'accorde bien avec ce que nous disions plus haut à propos des simi­litudes entre la langue celtique et celle des Indo-Européens du Turkestan chinois : les deux données, l'une linguistique, l'autre archéologique, se renforcent l'une l'autre.

Chapeau à pointe et coquillages

Autre élément intéressant : la découverte d'un couvre-chef à pointe, à larges bords, que l'on a défini, avec humour, comme un "chapeau de sorcière"; il était placé sur la tête de l'une des momies de sexe féminin, remontant à environ 4000 années. Ce chapeau ressemble très fort à certains cou­vre-chef utilisés par les Scythes, peuple guerrier de la step­pe, et qu'on retrouve également dans la culture ira­nien­ne (on pense aux chapeaux des Mages). Ces populations étaient des populations d'agriculteurs, comme le prouve la présence de semences dans les bourses. Elles avaient éga­lement des rapports avec des populations vivant en bord de mer, vu que l'on a retrouvé près des momies ou sur elles de nombreux coquillages de mollusques marins.

L'intérêt extrême de ces vestiges a conduit à procéder à quel­­ques études anthropologiques (principalement d'an­thro­­­po­métrie classique), sous la direction de Han Kangxin de l'Académie Chinoise des Sciences Sociales (Beijing). Ces études ont confirmé ce que le premier coup d'œil déjà per­mettait d'entrevoir : dans de nombreux cas, les proportions des corps, des crânes et de la structure générale du sque­lette, ne correspondent pas à celles des populations asia­tiques jaunes, tandis qu'elles correspondent parfaitement à celles que l'on attribue habituellement aux Européens, sur­tout aux Européens du Nord.

Par le truchement de l'archéologie génétique, on pourra obtenir des données encore plus précises, pour élucider ultérieurement les origines et la parenté de ce peuple my­stérieux. La technique, très récente, se base sur la com­pa­raison de l'ADN mitochondrial (12) des diverses populations, que l'on veut comparer, afin d'en évaluer la distance gé­nétique. L'un des avantages de cette technique réside dans le fait que l'on peut aussi analyser l'ADN des individus dé­cé­dés depuis longtemps, tout en restant bien sûr très at­ten­tif, pour éviter d'éventuelles contaminations venues de l'en­vironnement (par exemple, les contaminations dues aux bactéries) ou provoquées par la manipulation des échan­tillons. L'archéologie génétique s'avère utile, de ce fait, quand on veut établir un lien, en partant des molécules, entre l'anthropologie physique et la génétique des popu­la­tions.

Les premiers tests ont été effectués par un chercheur ita­lien, le Professeur Paolo Francalacci de l'Université de Sassari. Ils ont confirmé ultérieurement l'appartenance des in­dividus analysés aux populations de souche indo-euro­péenne, dans la mesure où l'ADN mitochondrial, qui a été extrait et déterminé, appartient à un aplotype fréquent en Europe (apl. H) et pratiquement inexistant au sein des po­pulations mongoloïdes (13). Les autorités de Beijing n'ont autorisé l'analyse que d'un nombre réduit d'échantillons; beaucoup restent à étudier, en admettant que les autorisa­tions soient encore accordées dans l'avenir.

Traits somatiques des Ouïghours

Enfin, il faut également signaler que les habitants actuels du Turkestan chinois, les Ouïghours, présentent des traits so­matiques mixtes, où les caractéristiques physiques euro­poï­des se mêlent aux asiatiques. On peut donc dire que nous nous trouvons face à une situation anthropologique où des ethnies de souches diverses se sont mélangées pour former, en ultime instance, un nouveau peuple. Ce n'est donc pas un hasard si les autorités de Beijing craignent que la démonstration scientifique de l'existence de tribus blan­ches parmi les ancêtres fondateurs de l'ethnie ouïghour con­tribue à renforcer leur identité culturelle et qu'au fil du temps débouche sur des aspirations indépendantistes, vio­lem­ment anti-chinoises, qui sont déjà présentes. Cette si­tua­tion explique pourquoi les Chinois boycottent quasi ou­ver­tement les recherches menées par Mair et ses colla­bo­ra­teurs.

En conclusion, l'ampleur, la solidité et la cohérence des don­nées obtenues contribuent à confirmer les intuitions de tous les auteurs, longtemps ignorés, qui ont avancé l'hy­po­thèse d'une contribution extérieure à la formation de la ci­vilisation chinoise. Cette contribution provient de tribus ar­yennes (ndlr: ou "proto-iraniennes", selon la terminologie de Colin McEvedy que nous préférons utiliser), comme sem­ble l'attester les découvertes effectuées sur les "momies", et permet d'émettre l'hypothèse que le bronze et d'autres acquisitions importantes ont été introduites directement, et non plus "médiatement", par ces tribus dans l'aire cul­turelle de la Chine antique.

Par exemple, Edward Pulleyblank a souligné récemment qu'il «existait des signes indubitables d'importations venues de l'Ouest : le blé et l'orge, donc tout ce qui relève de la cul­ture des céréales, et surtout le char hippo-tracté, …, sont plus que probablement des stimuli venus de l'Ouest, ayant eu une fonction importante dans la naissance de l'âge du bronze en Chine» (14).

Bien sûr, cette découverte ne conteste nullement la for­midable originalité de la grande culture du Céleste Empire, mais se borne à mettre en évidence quelques aspects fon­damentaux dans sa genèse et dans son évolution ultérieure, tout en reconnaissant à juste titre le rôle joué par les no­ma­des antiques venus d'Europe.

Giovanni MONASTRA.

(e mail: g_monastra@estovest.org ; texte paru dans Per­corsi, anno III, 1999, n°23; le texte original italien est sur:

http://www.estovest.org/identita/indocina.html... ; trad. franç.: Robert Steuckers).

Notes :

[1] Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 443.

[2] Colin Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, Bari 1989, p. 77.

[3] ibidem, p. 79.

[4] Les Chinois, pour désigner le chien, utilisent le terme "kuan", qui est quasiment le seul et unique mot de leur langue qui ressemble au latin "canis" ou à l'italien "cane", sans doute parce que le chien domestique à été introduit dans leur société par des populations indo-européennes, qui ont laissé une trace de cette transmission dans le nom de l'animal.

[5] Colin Renfrew, Archeologia ecc.cit., pp. 78-9.

[6] Oswald Spengler, Reden und Aufsätze, Monaco 1937, p. 151.

[7] Jacques Gernet, La Cina Antica, Luni, Milano 1994, pp. 33-4.

[8] Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, Popoli e Lingue, Adelphi, Milano 1996, p. 156.

[9] Discover, 15, 4, 1994, p. 68.

[10] La méthode du radiocarbone (14C) se base sur le fait que dans tout organe vivant, outre l'atome de carbone normal (12C), on trouve aussi une certaine quantité de son isotope, le radiocarbone, qui se réduit de manière constante, pour devenir un isotope de l'azote. Tandis que le rapport entre 14C et 12C reste stable quand l'organisme est en vie, cet équilibre cesse d'exister à partir du moment où il meurt; à partir de cette mort, on observe un déclin constant qui implique la disparition du radiocarbone, qui diminue de moitié tous les 5730 ans. De ce fait, il suffit, dans un échan­tillon, de connaître le rapport entre deux isotopes pour pouvoir calculer les années écoulées depuis la mort de l'organisme. La mé­thode connaît cependant une limite : elle ne peut pas s'utiliser pour des objets d'investigation de plus de 70.000 ans. 

[11] Archaeology, Marzo 1995, pp. 28-35. Le "tartan" est une étoffe typique du plaid écossais. Pour se documenter plus précisément sur les divers éléments liés aux textiles et aux vêtements de ce peuple, nous recommandons la lecture d'un ouvrage excellent et exhaustif, comprenant de nombreuses comparaisons avec les équivalents en zone européenne : Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, W. W. Norton & Company, Inc., New York, 1999.

[12] Les mitochondries sont des organites présents dans les cellules des eucaryotes (tous les organismes vivants, des champignons aux mammifères) à des dizainesde milliers d'exemplaires. Seules ces structures, mis à part le noyau cellulaire, contiennent de l'ADN, molécule base de la transmission héréditaire, mais leur ADN est de dimensions beaucoup plus réduites que celui du noyau (200.000 fois plus court) : il sert uniquement pour la synthèse des protéines né­cessaires à ces organites. Il faut se rappeler qu'au moment de la fécondation, il semble que seule la mère transmet les mitochon­dries à sa progéniture.

[13] Journal of Indo-European Studies, 23, 3 & 4, 1995, pp. 385-398.

[14] International Rewiew of Chinese Linguistics, I, 1, 1998, p. 12. Voir aussi: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, op. cit.

 

 

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasie, eurasisme, indo-européens, chine, asie, histoire asiatique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 24 août 2008

Société "Thulé": mythe, légende et réalité

sebottendorff_r.jpg

 

La société Thule: légende, mythe et réalité

Il n'y a pas une organisation qui a autant fait spéculer et autant alimenter les imaginations fertiles que la “Thule-Gesellschaft”. Selon leur provenance politique ou idéologique, les auteurs, qui en traitent, disent tantôt qu'elle est un ordre occulte, une secte, tantôt qu'elle a été l'avant-garde intellectuelle, voire le moteur secret qui téléguidait en coulisses la marche en avant de la NSDAP hitlérienne. La littérature consacrée à cette organisation est désormais assez importante, mais, malgré cette ampleur relative, on peut dire que le mystère et/ou le flou qui entourent cette organisation défunte n'ont pas été dissipés. Les affects des auteurs (favorables ou défavorables) oblitèrent encore et toujours la recherche sur cette question et empêchent tout jugement serein.

Detlev Rose, auteur du livre Legende, Mythos und Wirklichkeit der Thule-Gesellschaft, peut revendiquer, pour lui-même, d'avoir enfin comblé, de manière convaincante, une lacune dans l'historiographie contemporaine relative à ces questions. Son écriture est analytique et précise, ses jugements sur les faits sont prudents, on ne peut pas lui reprocher de prendre parti ou de fantasmer.

Pour ce que l'on allait appeler plus tard la “Société Thule”, un homme revêt une importance capitale: Theodor Fritsch, que l'on décrit généralement comme “le principal antisémite allemand avant Hitler”. Il fait irruption sur la scène politico-intellectuelle de son pays à une époque que Detlev Rose décrit comme “le début d'un tournant stratégique définitif” pour le mouvement nationaliste et folciste (völkisch) en Allemagne.  Concrètement, Rose désigne l'année 1912, où les sociaux-démocrates deviennent la faction la plus forte du Reichstag et où les premiers symptômes d'une grave crise internationale pointent à l'horizon. Cette époque est celle où l'Allemagne se sent menacée et encerclée par les puissances voisines.

“Un puissant mouvement extra-parlementaire”

Cette constellation crée un climat propice à l'éclosion de toutes sortes de théories du complot, qui ont dès lors connu une haute conjoncture. Du point de vue folciste (völkisch), ce sont surtout les francs-maçons et les juifs qui auraient soi-disant comploté contre l'Allemagne. Fritsch, dans ce contexte, était un élément moteur de l'antisémitisme. Son objectif était d'établir l'antisémitisme comme “un puissant mouvement extra-parlementaire”. Il voulait réformer la société allemande en se basant sur les données raciales. Concrètement, cela signifiait que les Juifs ne pouvaient plus avoir de place dans la vie publique allemande. La pensée de Fritsch était influencée par les théories biologiques sur les races, notamment celles que propageait le philosophe Houston Stewart Chamberlain.

Logique avec lui-même, Fritsch a tenté de rassembler en un seul mouvement tous les activistes antisémites.  Ce projet, le maître ès-étalonnage Hermann Pohl de Magdebourg le réalisera. L'objectif principal du programme du Germanen-Orde (L'Ordre des Germains), qu'il avait fondé, était de surveiller et de combattre les Juifs en Allemagne. Seules des “natures germaniques” pouvaient être acceptées comme membres au sein de cet Ordre, c'est-à-dire des hommes et des femmes que la nature avait pourvu d'yeux bleus et de cheveux blonds. La situation de l'Ordre est vite devenue problématique pendant la première guerre mondiale, lorsque la moitié des membres sont mobilisés et envoyés à la guerre. L'Ordre a connu dès 1914 de sérieuses difficultés financières. Le Grand-Maître Pohl, vu cette situation financière déplorable, subit des critiques de plus en plus sévères et finit par être démis de ses fonctions.

Glauer, alias “Sebottendorf”

Pohl réagit à cette exclusion en provoquant une scission dans l'Ordre. A cette époque, survient un homme qui se fera un nom en tant que président et fondateur de la Société Thule: Rudolf von Sebottendorf, né Adam Glauer (1875-1945). La place nous manque, dans le cadre de ce bref article, pour évoquer toutes les vicissitudes de la vie mouvementée de cet homme. En résumé: Sebottendorf se met à déployer un zèle étonnant dans ses activités au bénéfice de l'aile demeurée fidèle à Pohl dans le Germanen-Orde. Cette aile acquiert dès lors une importance sans cesse croissante.

A la fin de la première guerre mondiale, la situation devient critique: la révolution spartakiste provoque une hémorragie de membres. Dans cette situation, Sebottendorf décide, pour des raisons de camouflage, de prendre le nom de “Société Thule”. L'emblème de cette “nouvelle” société est une croix gammée aux branches arrondies avec épée.

Pour l'extérieur, on essayait de donner l'impression que la société existait uniquement pour favoriser des recherches scientifiques sur l'histoire allemande et pour promouvoir de toutes manières jugées opportunes le peuple allemand (la race germanique) en tant que tel. En réalité, cette Société Thule se concevait comme le fer de lance d'une contre-révolution, qui, aux yeux de ses membres, s'avérait nécessaire, car la situation sociale et politique, dans l'Allemagne vaincue de 1918 et 1919, s'éloignait de jour en jour des objectifs jadis fixés par le Germanen-Orde.

Quand le publiciste israélite Kurt Eisner devient Premier Ministre de Bavière pour le compte de l'USPD (les sociaux-démocrates radicaux qui s'étaient désolidarisés de la SPD), et cherche à fusionner système parlementaire classique et républicanisme des conseils de facture bolchevique, en coulisses, la faction des “ennemis du peuple”, appartenant à la Société Thule, semblaient prendre le contrôle de la situation. En effet, les efforts de la société pour abattre la république des conseils de Munich avaient été considérables; sa stratégie n'était toutefois pas la “terreur à objectif précis”, comme le constate Rose. Malgré toutes les suppositions qui ont été énoncées, rien de clair ne peut être dit sur la participation éventuelle de la Société Thulé dans l'attentat qui a coûté la vie à Kurt Eisner.

Une fois la république des conseils de Munich abattue, la Société Thule semble effectivement avoir atteint son objectif, accomplie la mission qu'elle s'était donnée, et ne s'occupe plus que d'activités fort modestes. Ce qui permet d'affirmer que le développement ultérieur du national-socialisme ne lui doit vraiment pas grand chose et que ce mouvement politique a suivi sa logique et ses dynamiques propres, sans la tutelle d'une société à vocation ésotérique.

Une signification marginale

Dès lors, pour en arriver au cœur de la problématique et du “mythe” qui s'y accroche, posons la question: quel rôle cette Société a-t-elle joué en tant qu'élément précurseur du national-socialisme? Rose nous brosse un tableau bien moins coloré et fantasmagorique que celui que nous font miroiter les interprétations habituelles (ndlr: néo-nazies exaltées ou anti-fascistes tourmentées par de nouvelles théories du complot) . Il constate: «Nous ne pouvons parler ni d'une idéologie unitaire ni d'une Weltanschauung originale dans le cas de la Société Thule».  Pour Rose, la Société Thule ne revêt qu'une signification marginale dans le processus général d'émergence du national-socialisme.

A propos de la Société Thule, on ne peut nullement parler d'une “influence téléguidée, dûment planifiée, aux objectifs précis, visant à piloter la NSDAP”. Bon nombre d'auteurs se sont laissé piéger par Sebottendorf, qui a donné trop d'importance à la Société Thule dans son livre Bevor Hitler kam  (= Avant que Hitler n'arrive). Sebottendorf, notamment, exagère et extrapole en écrivant que certains membres en vue de la NSDAP, comme Rudolf Hess ou Hans Frank, étaient membres de la Société Thule.

Les élucubrations de Rauschning

Rose a également abordé la question cruciale des racines soi-disant occultes du national-socialisme; évoquons rapidement ses arguments: avec des phrases claires, Detlev Rose écrit que les cent conversations que Hermann Rauschning aurait, paraît-il, eues avec Hitler, ne sont que des élucubrations, notamment quand Rauschning parle des “tendances occultistes” de Hitler («Hitler aurait été l'instrument de “forces mystérieuses”»). Pourtant, ces conversations, vraisemblablement fausses, ont été décrites par l'historien Theodor Schieder, décédé en 1984, comme des “documents attestant de sources indubitables et de grande valeur”. A la lumière des recherches de Rose, on peut dire désormais que Schieder a malheureusement répandu et consolidé, par son autorité, une “grossière falsification de l'histoire”.

Tentons une synthèse: l'écriture claire et précise de Rose, qui évite toute jactance et toute grandiloquence, rend son livre indispensable pour tous ceux qui veulent jeter un regard critique ou s'informer sur les racines soi-disant occultes ou ésotériques du national-socialisme.

Michael WIESBERG.

(article paru dans Junge Freiheit, n°3/1995; trad. franç.: Robert Steuckers).

Detlev ROSE, Die Thule-Gesellschaft. Legende, Mythos, Wirklichkeit, Grabert Verlag, Tübingen, 1994, 224 pages, DM 32.  

 

 

 

vendredi, 22 août 2008

Die Memoiren von Jaruzelski

340x.jpg

 

Die Memoiren von Jaruzelski: bemerkenswerte Notizen über die Rolle des Staatsmannes

 

Analyse: Wojciech Jaruzelski, Hinter den Türen der Macht. Der Anfang vom Ende einer Herrschaft,  Militzke Verlag, Leipzig, 1996, 479 S., ISBN 3-86189-089-5.

 

Im Frühsommer 1992 publizierte der polnische General Jaruzelski ein Buch, wo er seine politische Erinnerungen darstellte. Er schilderte die Ereignisse in Polen ab dem 13. Dezember 1981, wenn das Kriegsrecht ausgerufen wurde. Moskau fürchtete, daß das destabilisierte Polen das sowjetische Herrschaftssystem wankeln ließ. Deshalb sollte die kommunistische Moskau-treue Ordnung wiederherstellt werden. Jaruzelski hatte als Aufgabe bekommen, sein Land sowjettreu zu erhalten, eben durch Mittel der Gewalt, wenn nötig. Die Kapitel seines Buches enthüllen wenig bekannte Sachlagen der polnischen Zeitgeschichte in den Jahren 1980-1985. Obwohl “Sozialist” und Anhänger des damals “realexistierenden” Sozialimus sowjetischer Prägung, erscheint uns nach diesen tumultvollen Ereignissen der Militär Jaruzelski als eine Art konservativer “Katechon”, d. h., um die Definition von Carl Schmitt zu wiederholen, als ein Staatsmann, der als Aufgabe hat, die Ordnung zu herstellen und sein Staatswesen vom Chaos und Zerfall zu retten.

 

Selbstverständlich bleibt in unseren Augen der Kommunismus ein Fremdkörper am Leibe der polnischen Nation und die Solidaritätsbewegung Walesas ein spontaner Ausdruck des Volkzornes. Nichtdestoweniger muß heute der neutrale Beobachter doch wohl annehmen, daß fremde Geheimdienste “Solidarnosc” manipuliert haben, genau um das schon morsche Sowjetsystem zu sprengen, am Ort wo es am weichsten war, d. h. zwischen dem sowjetischen Großraum und der DDR (Thüringisches Bollwerk und Speerspitze der Warschauer-Pakt-Verbände). Konservative und militärische Kräfte innerhalb des Sowjetsystems konnte eine solche zwar demokratische aber doch “abenteuerische” Entwicklung in den damaligen Kräftenverhältnissen nicht dulden. Jaruzelski wurde als Retter der Lage eingesetzt: als Militär hat er den Befehlen seiner politischen Vorgesetzten gefolgt. Die Geisteshaltung von Jaruzelski wird im Buch deutlich dargelegt. Sie kann eigentlich als konservativ-erhaltender bzw. katechonischer (im Schmittschen Sinn) Art betrachtet werden. Folgende Aussagen zeugen davon: “Geschichte und Geographie sucht man sich nicht aus. In meiner Generation findet man kaum Menschen, die aus einem Stück Holz geschnitzt sind. Das Leben hat uns aus den Splittern des Schicksals und den Abschnitten des Weges geformt. Wir waren Kinder unserer Zeit, unseres Milieus,  unseres Systems. Jeder ist auf seine Weise aus diesem Rahmen ausgebrochen. Nicht jeder, dem das schnell gelang, verdient Achtung. Und nicht jeder, dem das erst später gelang verdient Verachtung. Das Wichtigste ist, wovon der einzelne Mensch sich leiten ließ, wie er das tat, was er tat, und was für ein Mensch er heute ist”  (S. 8).

 

“Als Soldat weiß ich, daß ein militärischer Führer und überhaupt jeder Vorgesetzte für alles und alle verantwortlich ist. Das Wort ‘Entschuldigung’ mag nichtssagend klingen, aber ein anderes Wort kann ich nicht finden. Ich möchte deshalb um eines bitten: Wenn es Menschen gibt, bei denen die Zeit die Wunden nicht geheilt, den Zorn nicht zum Erlöschen gebracht hat, dann mögen sie diesen Zorn vor allem gegen mich richten, nicht aber gegen diejenigen, die unter den gegebenen Bedingungen, erhlich und in gutem Glauben, viele Jahre lang ihre ganze Arbeitskraft dem Aufbau unseres Vaterlandes geopfert haben”  (S. 9).

In seinem Schluß, äußert sich Jaruzelski in einem klaren “katechonischen” Stil: “Außergewöhnliche Situationen und Maßnahmen führen oft zu Blutvergießen. Wir wissen, daß in vielen Ländern der Ausnahmezustand Tausende und Abertausende von Menschenleben gekostet hat. Wir dagegen trafen diese dramatische Entscheidung eben deshalb, damit es nicht zu einer solchen Tragödie komme. Dies ist uns in hohem Maße gelungen. Hunderprozentig leider nicht. Im Bergwerk “Wujek” kam es zum Schußwaffengebrauch, neun Bergleute kamen ums Leben. Dieses schmerzliche Ereignis wirft bis heute seinen Schatten auf die Gesamtbewertung der damaligen Vorgänge”  (S. 465). 

 

Seine nüchtere Beobachtung der menschlichen Kräfte in der Politik erweisen sich erstaunlich dem konservativ-katechonischen Gedankengut von Denkern wie Donoso Cortés, Joseph de Maistre oder Constantin Franz nah: “Im Machtapparat gab es viele nachdenkliche, gebildete und erfahrene Menschen. Leider führt eine Summe von klugen Köpfen nicht automatisch zu einem Zuwachs an Klugheit. Oftmals wird man von den Dümmeren hinabgezogen, die durch Fanatismus, Demagogie und Schneid dafür sorgen, daß selbst die besten Absichten mit falschem Zungenschlag vorgetragen werden. Sowohl aus objektiven als auch aus subjektiven Gründen ließ sich die Regierungsbasis nicht wesentlich erweitern. Sehr viele wertvolle Menschen, die sich auf keiner der beiden Seiten klar engagieren wollten, gerieten ins Abseits”  (S. 466).

 

Der Unterscheid zwischen Mythologie und Pragmatismus in der Politik sieht der polnische General auch klar: “Die Mythologie ist ein untrennbarer Bestandteil des Gesellschaftsleben. Diese Färbung hat auch der Begriff “Ethos der ‘Solidarnosc’”, obwohl er heute schon merklich an Lebenskraft verliert. Wahrscheinlich war es Pilsudski, der gesagt hat, daß die Polen “nicht in Tatsachen, sondern in Symbolen denken”. Der Pragmatismus hat in der Politik ungeheure Vorteile und sollte eigentlich Wegweiser für alle Führungsmannschaften sein. Aber Pragmatismus allein reicht nicht. Er ist dürr und grau, wenn seine Vertreter nicht gleichzeitig an die emotionalen Grundlagen des kollektiven und des individuellen Bewußtseins appellieren” (S. 469).  Skeptisch bleibt Jaruzelski, wenn er die totale Wirtschafts-Liberalisierung der ehemaligen Ostblokstaaten observiert: “Ich fürchte, daß verschiedene Racheparolen, die zur “Dekommunisierung” aufrufen, unsere Aufmerksamkeit von den wesentlichen Zielen ablenken und zu einer Zersplitterung der Anstrengungen unserer Gesellschaft führen könnten. Das wäre für Polen im wahrsten Sinne des Wortes mörderisch. Es kann den Interessen unseres Landes nur schaden, wenn man sich in dieser von Rivalität, Wettlauf und Konkurrenz geprägten Welt Ersatzziele sucht und die Energie der Gesellschaft darauf verschwendet”  (S. 470).

Jaruzelski hat einen sowjetgeprägten Staat verteidigt und gerettet, ohne anscheinend ein Anhänger der kommunistischen Ideologie zu sein. Warum hat er dann so gehandelt? Kapitel 28 des Buches gibt uns eine sehr detaillierte und interessante Antwort. Hauptsache für den General ist es, die Souveränität Polens zu bewahren: “Gab es für Polen nach dem Zweiten Weltkrieg die Chance, als vollkommen unabhängiger Staat zu existieren, ohne sowjetischen Einfluß? (...) Teheran, Jalta und Potsdam gehören zu jenen Knotenpunkten in der neuzeitlichen Geschichte, über die die Historiker endlos diskutieren werden. (...) Die Mehrheit der damaligen Politiker mußte das Abkommen von Jalta wohl oder übel als gegebene Realität (...) hinnehmen (...). Die existierende Ordnung zwang auch Polen ihre Spielregeln auf und bestimmete seinen Handlungsspielraum. Als Militär konnte ich nicht so tun, als ob ich das nicht wüßte”  (S. 302-303).

Jaruzelski erinnert seine Leser an einen Brief, den er an seine Mutter und seine Schwester 1945 geschrieben hatte: “Ich bin verpflichtet für Polen zu dienen und zu arbeiten, ganz gleich, wie Polen auch aussehen mag und welche Opfer von uns auch gefordert werden mögen”  (S. 304). Der junge damalige Offizier wollte sein Land als ein real-existierende polnischer Staat, für Polen “wie es auch aussehen mag”, und dieses Pflicht allem anderen überordnen. Die nationalen Deutsche werden sehr wahrscheinlich eine solche Bekenntnis als dubiös und unhaltbar betrachtet, sie ist trotzdem wihl oder übel eine typische Haltung des polnischen Offizierentum, wo Dienst und Pflicht wichtiger erscheinen als etwa ethnische oder historische Fakten oder ideologische Konstruktionen. Jaruzelski skizziert in diesem 28. Kapitel die Auseinandersetzungen zwischen den Londoner-Polen um General Anders und den Moskauer-Polen.

 

Die westliche Mächte haben die neue Westgrenzen Polens nie garantiert, im Gegenteil zu Moskau. In den Augen Jaruzelskis, erscheint also die Sowjetunion als ein treuer Garant und ein fester Bundgenosse. Nur Moskau garantierte dem polnischen Staat eine feste und klare Gestalt. Die Londoner-Polen wollten die Grenzen von 1939, was die Sowjets nie akzeptiert hätten, weil Polen Riesengebiete Weißrußlandes und der Ukraine 1921 annektiert hatte, so lief Polen die Gefahr, an der Gestalt des früheren Kongreß-Polen reduziert zu werden, d. h. ein Land, das zergliederte Grenzen gehabt hätte, die nicht zu verteidigen waren.  So wurde das Schicksal der Ostdeutschen besiegelt: das mit der Sowjetunion verbündete Polen mußte seine eigene Ostgebiete abgeben und nach Westen als Kompensation erweitert werden.

Die Feinde Jaruzelskis betonen, Polen war im Warschauer Pakt versklavt. Dazu antwortet der General, daß es zwei Formen der Souveränitätsbeschränkung gibt: 1) Die freiwillige Beschränkung im Interesse des Staates oder einer verbündeten Staatengruppe; 2) Die Beschränkung, die Protektoratscharakter hat. Jaruzelski gibt zu, Polen war ein Protektorat bis 1956, danach war seine Souveränität nur “beschränkt” im Rahmen des Warschauer-Paktes. Funktionsfähigkeit des Staates und Vermeidung des sozialen und wirtschaftlichen Chaos sind die beiden Hauptaufgaben, die Jaruzelski sich gesetzt hatte.

Jaruzelski zitiert noch die Appelle von den Kanzlern Kreisky und Schmidt, die Ordnung zu retten, damit Polen seine vertragliche Verpflichtungen gegenüber anderen Staaten erfülle, und Vernunft und Mäßigung zu pflegen. Weiter finden man den kompletten Wortlaut eines Berichts des polnischen Außenministers Jozef Czyrek über seinen Besuch beim Papsten (S. 353-354), und auch einen Bericht des General Kiszczaks über die sowjetischen, ostdeutschen und tschechischen Manöver an den polnischen Grenzen in Herbst 1981 oder durch Mittel von Geheimdienst-Agenten innerhalb der polnischen Grenzen selbst. Hätte Jaruzelski das Kriegsrecht nicht am 13. Dezember 1981 ausgerufen, wären die Warschauer-Pakt-Verbündeten am 16. einmarschiert, um Polen “vom Wurg der Konterrevolution” zu retten. Genauso wie in Prag 1968.

Die Aktion Jaruzelskis war also, wie der amerikanische antikommunistische “Falke” Zbigniew Brzezinski es geschrieben hat, die Übergang vom “kommunistischen Autoritarismus” zum “postkommunistischen Autoritarismus”. Solidarnosc ist nicht verboten worden, wie auch der Papst es Czyrek gebeten hatte, sondern einfach gezügelt, damit man Polen von einer sowjetischen Invasion, von Chaos und Bankrott bewahren konnte. Man kann skeptisch bleiben, aber die Lektüre dieses Buches ist hoch interessant, nicht weil es uns die Gedankenwelt eines sowjetfreundlichen polnischen Generals, sondern weil es sehr genau das Pflichtbewußtsein eines Militärs in der Politik enthüllt. Militärs, Katholizismus, Russophilie und Kommunismus mischen sich erstaunlicherweise in den Memoiren Jaruzelskis. All diese Ingredienten sind letzter Hand eine unstabile Mischung und entsprechen ganz genau die real-existierende polnische Identität (Robert STEUCKERS).

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : pologne, europe, stratégie, militaria, politique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 20 août 2008

Sur les Ossètes

georgie-ossetieS-drap.gif

 

Sur les Ossètes

 

 

INTRODUCTION: Le 5 septembre 2004, immédiatement après la tragédie qui a frappé l'école de Beslan en Ossétie du Nord, nous avions envoyé un long communiqué de presse, où nous faision allusion à l'histoire et la culture ossète. Voici l'extrait de notre communiqué:

 

"La tragique affaire de l’école de Beslan nous amène tout naturellement à expliquer qui sont les Ossètes, ce peuple indo-européen du Caucase, parlant une langue proche de l’iranien ancien et du patchoune actuellement parlé en Afghanistan. Les Ossètes sont les 300.000 descendants  des peuples cavaliers indo-européens de la haute antiquité, les Scythes, les Sarmates, les Sakes et les Alains, dont les sources du Bas-Empire romain font souvent mention. On sait que ces peuples cavaliers indo-européens ont été balayés par les envahisseurs hunno-turco-mongols, venu d’une région sibérienne située au nord de la Mandchourie, leur patrie initiale. Les Alains ont été repoussés vers les montagnes du Caucase, l’actuelle Ossétie du Nord ou “Alanie”. Les autres Alains ont rejoint, dans leur fuite en 370, les tribus germaniques et les ont accompagnées jusqu’en Espagne et en Afrique du Nord (cf. http://www.neohumanism.org/a/alans.html ). Leur roi Respendial est ainsi arrivé dans la péninsule ibérique. Des éléments de son peuple se sont éparpillés dans toute l’Europe occidentale, en Rhénanie et dans les Iles Britanniques, générant là-bas les légendes arthuriennes (nous y reviendrons, sur base de publications officielles et toutes récentes, émanant des armées polonaise et britannique). Après un affrontement avec les Wisigoths, la couronne des Alains passe aux Vandales, que les cavaliers alains accompagneront en Afrique du Nord. Ils introduisent également une “arme” nouvelle, les chiens de combat, que leurs descendants espagnols utiliseront contre les Maures et dans leurs guerres en Amérique. Les Ossètes, réfugiés dans le Caucase, donneront aussi à Byzance un “Magister militium”, Aspar. En 1767, ils seront libérés par les Russes. Leur langue sera codifiée par le poète Kosta Xetagurov (1859-1906). L’Académicien français Georges Dumézil sera le plus grand spécialiste des traditions et de la littérature épique des Ossètes (cf. G. Dumézil, “Romans de Scythie et d’alentour”, Payot, 1978). Toute l’œuvre de Dumézil sur les peuples indo-européens dérive de sa découverte des traditions ossètes, tant celles-ci avaient gardé intact le fonds de notre identité la plus profonde : on mesure pleinement l’importance de ce peuple en suivant la démarche et en étudiant les travaux de Dumézil. Le folklore ossète est proprement époustouflant de beauté et de charme (cf. http://www.ifrance.com/folkloriades/gr2003/ossetiedunord.htm ). C’est donc ce peuple admirable que la vermine tchétchène essaie, avec la complicité des Turcs, des Américains, des islamistes et des journalistes  comme ceux du “Soir”, de génocider, car c’est une démarche proprement génocidaire de tuer de la sorte des enfants, une démarche génocidaire qui se place dans la suite logique du génocide turc contre les Arméniens. Nous lançons un appel solennel à lutter, dans toute l’Europe, de Dublin à Vladivostock, contre ce génocide pluriséculaire perpétré contre les Indo-Européens du Caucase.

 

A la tenacité turco-tchétchène dans ses entreprises de mort, il convient d’opposer des principes stratégiques clairs : dire par exemple que le Caucase dans son ensemble est soit aborigène (Ibériens, Géorgiens) soit indo-européen (Ossètes, Alains, Arméniens), soit de religion native soit de religion orthodoxe. Les autres peuplements et confessions y sont illégitimes. Cela ne signifie pas que nous refusions le droit de vivre à ces peuplements et confessions; nous affirmons haut et clair qu’ils n’ont tout simplement aucun droit à y déterminer la politique ou à y imposer d’autres lignes de projection géostratégiques et géopolitiques que celles, éternelles, des Scythes, de Rome, de Byzance, des Arméniens, des Croisés et des Tsars russes. Les poussées géopolitiques doivent s’élancer là-bas du Nord vers le Sud et non du Sud vers le Nord ou de l’Est vers l’Ouest. Pour les peuples européens, c’est une question de vie ou de mort : ceux qui, parmi nous, disent le contraire sont des traîtres ou des fous. Parce que le triomphe d’une géopolitique turque impliquerait l’étouffement définitif des Européens dans leur presqu’île ou des Russes dans la zone peu écouménique des forêts et des toundras. En tant qu’Européen, on ne peut être à la fois sain d’esprit et vouloir cet étouffement, cette mort lente".

mardi, 19 août 2008

Les stratégies des belligérants pendant la seconde guerre mondiale

or6esdzx.jpg

 

Dr. Heinz MAGENHEIMER:

 

Les stratégies des belligérants pendant la seconde guerre mondiale

 

Introduction: Le Dr. Heinz Magenheimer est historien militaire et enseigne à l’Académie de Défense Nationale à Vienne et à l’Université de Salzbourg. L’article qui suit est une présentation de son livre le plus récent, “Kriegsziele und Strategien der grossen Mächte – 1939-1945”, paru à Bonn en 2006 chez l’éditeur Osning (27 euro).

 

Contrairement aux thèses qu’affirment certains historiens, le but de guerre de l’Allemagne, immédiatement après le 1 septembre 1939, se limitait à soumettre la Pologne et à organiser la défense de l’Ouest du pays (et de la Ligne Siegfried) contre les alliés occidentaux. Il me semble passablement exagéré d’attribuer à Hitler un “plan par étapes” car la stratégie allemande dépendait entièrement des vicissitudes de la situation, que l’on ne pouvait évidemment pas prévoir. La stratégie allemande ressemble bien plutôt à de l’improvisation, car la production de guerre, à l’époque, ne suffisait pas pour faire face à une belligérance de longue durée.

 

Les puissances occidentales, elles, avaient d’abord développé une stratégie défensive sur le long terme, visant l’isolement et l’exténuation de l’Allemagne. L’exigence des alliés à l’endroit de Berlin, soit la restitution de la souveraineté de la Pologne dans ses frontières, n’avait plus de sens, après l’occupation soviétique de la moitié orientale du pays, à partir du 17 septembre 1939. Les grandes puissances extérieures, soit les Etats-Unis et l’Union Soviétique, attendaient leur heure et espéraient tirer le maximum d’avantages de la guerre en Europe occidentale. Moscou ne pouvait qu’y gagner, si les deux camps s’épuisaient mutuellement. Les Etats-Unis pourraient, eux, satelliser complètement la Grande-Bretagne et la France, si la guerre durait longtemps. Les deux grandes puissances extérieures suivaient une “stratégie de la main libre”.

 

La victoire rapide de la Wehrmacht en Europe occidentale à partir du 10 mai 1940 a certes renforcé la position du Reich mais n’a pas atteint le but de guerre espéré: forcer une paix de compromis avec l’Angleterre. Une prolongation de la guerre n’allait pas dans le sens de l’Allemagne. Les dirigeants britanniques ont rejeté toutes les propositions allemandes de paix et ont opté pour la lutte à outrance. Churchill suivait en cela une stratégie irrationnelle, car il mettait en jeu l’existence de l’Empire britannique. Son but de guerre était dès lors de briser une fois pour toutes la prépondérance allemande en Europe centrale, en ne craignant aucun sacrifice, ce qui, de manière inattendue, rendit la belligérance encore plus âpre. Le président américain Franklin D. Roosevelt soutenait la Grande-Bretagne, dans la mesure de ses moyens, mais son objectif final était d’absorber la puissance britannique aux profit des Etats-Unis et de la soumettre.

 

C’est alors que la deuxième grande puissance extérieure, l’URSS, qui n’avait pas escompté une victoire aussi rapide de la Wehrmacht, se mit à préparer la guerre contre l’Allemagne. Dans ce but, elle étendit son glacis dans le Nord-Est et dans le Sud-Est de l’Europe en juin et en juillet 1940. Staline abandonna sa politique de prudence, qu’il avait suivie jusqu’à ce moment-là, se mit à préparer la guerre à grande échelle et donna son aval à un déploiement offensif de l’armée rouge, car une guerre avec l’Allemagne lui semblait inévitable.

 

Comme la stratégie directe de l’Allemagne contre la Grande-Bretagne avait échoué, à la suite de la bataille aérienne pour la maîtrise du ciel anglais et que la liberté de mouvement dont le Reich bénéficiait sur ses arrières grâce au pacte germano-soviétique semblait de plus en plus menacée, Hitler décida, pendant l’hiver 40/41, de changer de stratégie: il ne fallait plus donner priorité au combat final à l’Ouest mais d’abord abattre l’Union Soviétique. Il y avait certes d’autres options stratégiques possibles mais elles n’auraient pas été moins risquées. C’est ainsi que l’Allemagne se sentit contrainte d’ouvrir une guerre sur deux fronts, pour échapper à un plus grand danger encore, celui d’une attaque directe de l’Armée Rouge à moyen terme. A l’Ouest, les Allemands devaient s’attendre tôt ou tard à l’intervention des Etats-Unis car Roosevelt, malgré le conflit qui l’opposait au Japon, considérait que l’Allemagne était l’ennemi principal.

L’attaque de la Wehrmacht contre l’URSS, le 22 juin 1941, ruinait tous les principes de la stratégie allemande antérieure mais offrait à Churchill une alliance avec Staline. Les dirigeants de l’Allemagne ont sous-estimé leur adversaire, qu’ils voulaient seuls et sans l’aide du Japon abattre en un bref laps de temps. C’était là une faute stratégique des Etats du Pacte Tripartite,  que Hitler a fort regretté rétrospectivement car, disait-il, les Etats-Unis ne seraient jamais entrés en guerre si l’URSS s’était effondrée.

 

Au Japon, on considérait que les Etats-Unis étaient l’ennemi principal. Après que Washington ait décrété l’embargo économique contre le Japon le 1 août 1941, l’Empire du Soleil Levant se retrouvait face à un dilemme: faire la guerre ou accepter le diktat américain. La stratégie japonaise a misé sur la destruction totale de la flotte ennemie et sur la conquête d’une solide base de matières premières dans le Sud-Est asiatique, conditions pour arriver à une paix de compromis avec les Etats-Unis. Le but de guerre de Roosevelt était d’abattre l’Allemagne et d’ôter toute puissance réelle à la Grande-Bretagne. Il prit le risque d’affronter également le Japon pour se retrouver, par une voie indirecte, en état de guerre avec l’Allemagne.

 

Avec l’enlisement de la Wehrmacht devant Moscou en décembre 1941 et avec l’attaque japonaise contre Pearl Harbour, la guerre prit des dimensions mondiales. La deuxième puissance extérieure était désormais pleinement impliquée dans la guerre mais concentrait, dans cette première phase du conflit, l’essentiel de ses efforts contre le Japon. La déclaration de guerre de l’Allemagne aux Etats-Unis résultait de l’analyse suivante: tôt ou tard le Reich se trouverait tout de même en guerre avec les Américains; pour l’instant toutefois, c’était le Japon qui subissait la pression américaine maximale. 

 

Les Etats du Pacte Tripartite commirent une deuxième erreur stratégique en 1942: ils n’ont pas coordonné leurs efforts, mais ont mené des guerres parallèles, où l’Allemagne passait à l’offensive en Russie et le Japon dans l’espace du Pacifique. Ce que l’on a appelé le “Grand Projet” de guerre maritime en février 1942, de concert avec le Japon, avait pour objectif d’attaquer les positions britanniques en Egypte et au Moyen-Orient. Mais il ne fut pas réalisé car les chefs allemands ont renoncé à déménager vers ces régions le gros de leurs forces massées sur le front principal en Russie.

 

La Wehrmacht a dû changer d’objectif à l’Est pendant l’été 1942 et passer d’une stratégie d’abattement de l’ennemi à une stratégie d’épuisement de ses forces, tandis que la stratégie japonaise n’avait quasiment plus aucune chance de concrétiser ses buts après sa défaite navale à Midway le 4 juin. Les deux pays, à partir de ce moment-là, n’ont plus fait autre chose que de lutter pour conserver leurs acquis, ce qui est l’indice d’une faiblesse stratégique. Les chefs de guerre allemands n’ont pas voulu reconnaître l’aggravation de leur situation à l’automne 1942, alors que la fortune de la guerre allait manifestement changer de camp à Stalingrad, dans le Caucase et devant El Alamein. Ils ont malgré cela envisagé des objectifs offensifs, alors que le sort leur était devenu défavorable.

 

Le but de guerre de l’Union Soviétique était simple au départ: la direction soviétique voulait tout simplement assurer la continuité du régime et de l’Etat. Ce n’est qu’après l’échec allemand devant Moscou que leurs buts de guerre se sont lentement modifiés; d’abord, on a voulu à Moscou récupérer les territoires qui avaient été soviétiques avant le 22 juin 1941. Mais on se réservait aussi l’option d’une paix séparée avec l’Allemagne, parce que les dirigeants  soviétiques estimaient que leur pays subissait à titre principal tout le poids de la guerre. Mais lorsque la situation a réellement changé au profit des Soviétiques et que les alliés occidentaux tardaient à ouvrir le fameux “second front” en Europe occidentale, Staline a clairement envisagé d’étendre ses objectifs de conquête territoriale aussi loin à l’Ouest que possible, sans tenir compte de l’avis des “nations libérées”.

 

Au début de l’année 1943, les alliés occidentaux modifient fondamentalement leurs buts de guerre, dans la mesure où ils ne visent plus à simplement affaiblir l’Allemagne et à ramener l’Europe à la situation qui prévalait avant le 1 septembre 1939 mais à soumettre et à détruire leur adversaire allemand, à le punir de manière rigoureuse. Les chefs de guerre anglo-saxons donnèrent alors à la belligérance un caractère nettement moralisant. L’exigence d’une capitulation inconditionnelle et les directives données pour mener une guerre des bombes à outrance excluaient toute possibilité d’une paix négociée. Si les puissances de l’Axe voulaient poursuivre la guerre, elles auraient alors à encaisser de terribles coups. La guerre des bombes connut effectivement une escalade à partir du printemps de l’année 1943 et tourna véritablement, en de nombreux endroits, à une guerre d’extermination contre la population civile. Le haut commandement des forces aériennes britanniques envisageait même d’infliger à l’Allemagne des destructions si terribles que les alliés pourraient gagner la guerre sans même devoir débarquer en France.

545513~Posters-de-la-seconde-guerre-mondiale-Affiches.jpg

 

Après la victoire des alliés dans l’Atlantique au printemps 1943 et le début de leur offensive contre la “Forteresse Europe”, on s’aperçoit clairement que les puissances de l’Axe ne sont passées que bien trop tard à la défensive. La bataille autour de la ville russe de Koursk en juillet 1943, perdue par les Allemands, ruina définitivement leurs espoirs en une victoire limitée. Malgré quelques succès défensifs, la Wehrmacht, à la suite de cette bataille de Koursk, n’a plus subi que des revers sur le Front de l’Est, si bien que toute idée de “partie nulle” devenait impossible. Les dirigeants allemands n’ont pas exploité la possibilité de conclure une paix séparée avec Staline.

 

Du côté des alliés occidentaux, on avait, au départ, des points de vue divergents quant à la stratégie à adopter. Les Américains voulaient une attaque directe contre l’Europe occidentale, en organisant un débarquement, tandis que l’état-major général britannique refusait cette option par prudence; les Britanniques plaidaient pour une invasion de l’Italie d’abord, pour un débarquement dans le Sud ensuite. Finalement, on déboucha sur un compromis en postposant le débarquement en France et en le prévoyant pour le début de l’année 1944. Compromis qui rendit plus difficiles les relations avec Staline. Le débarquement de Normandie, en juin 1944, mené avec une écrasante supériorité en forces et en matériels, et les défaites catastrophiques subies par l’armée de terre allemande à l’Est pendant l’été 1944 firent en sorte que la guerre était définitivement perdue pour l’Allemagne. Dans le Pacifique, les Américains l’emportèrent définitivement contre le Japon après la bataille des Philippines au cours de l’automne 1944.

 

La dernière offensive allemande dans les Ardennes mit une nouvelle fois toutes les cartes dans une seule donne, en négligeant les autres fronts. L’attaque, qui fut un échec, eut pour conséquence que l’offensive générale de l’armée rouge de janvier 1945 se heurta à un front dégarni et affaibli, qui s’effondra très rapidement, ce qui, simultanément, favorisait les plans de guerre de Staline.

 

En résumé, on peut dire, et c’est frappant, que les buts de guerre des Etats belligérants, à l’exception du Japon, se sont modifiés pour l’essentiel au fil des vicissitudes. L’attitude qui a joué le plus fut incontestablement l’esprit de résistance inconditionnelle, adopté par la Grande-Bretagne à partir de l’été 1940, attitude intransigeante qui a étendu automatiquement le théâtre des opérations. Cette extansion n’allait pas dans le sens des intérêts allemands; pour la puissance extérieure à l’espace européen que sont les Etats-Unis, cette intransigeance britannique constituait une aubaine. Beaucoup d’historiens actuels prêtent aux dirigeants de Berlin de l’époque des prétentions à l’hégémonie mondiale, alors que la stratégie allemande n’envisageait ni la destruction de l’Empire britannique ni une attaque contre les Etats-Unis.

 

Alors que la stratégie britannique avait pour objectif final de défaire complètement l’Allemagne,la stratégie allemande fit une volte-face et se tourna contre l’Union Soviétique car elle percevait une menace plus grande encore dans son dos. L’Allemagne a cherché ainsi à échapper à une double pression en déclenchant une guerre sur deux fronts, sans créer pour autant les conditions organisationnelles et matérielles nécessaires pour la mener à bien. L’arrêt de l’avancée de la Wehrmacht devant Moscou marque la fin d’une stratégie qui visait l’élimination de l’Union Soviétique. Les Allemands optèrent ensuite pour une stratégie d’épuisement de leur adversaire soviétique en conquérant d’énormes territoires en Ukraine et au-delà, en direction de la Volga et du Caucase. L’Allemagne s’est alors épuisée dans la défense de ces territoires conquis en 1942. De plus, les Allemands se sont payé le luxe de mener une “guerre parallèle” à celle de leurs alliés japonais.

HBv1S1uh_Pxgen_r_467xA.jpg

 

Face à cette situation, les buts de guerre des alliés occidentaux, auxquels se joignait l’URSS avec quelques restrictions, ont subi une modification essentielle: il ne s’agissait plus de forcer les Allemands à rendre les territoires qu’ils occupaient ou à payer des réparations; la guerre, dès le début de 1943, prit toutes les allures d’une croisade dont le but était la soumission totale de l’adversaire. Tous les belligérants ont commis de sérieuses erreurs stratégiques, mais celles des alliés ont été beaucoup moins prépondérantes.

 

Les Allemands ont réussi, pendant assez longtemps, à compenser leurs désavantages ou leurs revers par leur valeur militaire et par une gestion de la guerre souple au niveau opérationnel dans  l’espoir de transformer ces atouts en une victoire stratégique. Mais finalement, les décisions erronées du commandement eurent des conséquences fatidiques et la supériorité en nombre et en matériels des adversaires eut le dessus. Les décisions qui mènent à la victoire ou à la défaite se font d’abord au niveau intellectuel, bien avant qu’elles ne deviennent tangibles sur le théâtre des opérations.

 

Dr. Heinz MAGENHEIMER.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°23/2006; trad. franç.: Robert Steuckers).

L'Union Soviétique et l'économie allemande dans l'entre-deux-guerres

traincox2mb3.jpg

ORIENTATIONS (Bruxelles) - Juillet 1988

L'Union soviétique et l'économie allemande dans l'entre-deux-guerres

Recension: Rolf-Dieter MÜLLER, Das Tor zur Weltmacht.. Die Bedeutung der Sowjetunion für die deutsche Wirtschafts- und Rüstungspolitik zwischen den Weltkriegen,  Harald Boldt Verlag, Boppard am Rhein, 1984, 420 S., DM 54.

L'époque qui s'étend de la révolution russe d'octobre 1917 à la signature du pacte germano-soviétique entre Hitler et Staline est l'une des plus passionnantes et des plus riches de l'histoire contemporaine. Les relations germano-soviétiques tissées pendant ces vingt années ont été le plus souvent étudiées sous l'angle de la diplomatie ou alors les historiens ont cherché à cerner l'importance que revêtait l'accord d'août 1939 dans les stratégies personnelles de Hitler ou de Staline. Ont été dès lors négligés les aspects économiques et la politique d'armement. Le travail de Müller vise à combler cette lacune, en explorant méthodiquement les archives de l'époque et en tentant de cerner les constantes de la politique allemande envers la Russie, constantes où se mêlent étroitement les ambitions impériales et les intérêts économiques. Ces constantes se sont appliquées jusqu'au 22 juin 1941, date à laquelle les armées allemandes entrent en Russie. L'objectif de ce travail d'investigation minutieux, c'est aussi d'éclairer le présent sur les éventualités d'une future politique allemande à l'Est. Müller démontre ainsi que le tandem germano-russe a pris le pas sur les projets pan-européens élaborés à l'Ouest entre 1925 et 1932 et que l'Allemagne a gardé une stricte neutralité dans le conflit anglo-russe de 1927, attitude qui favorisait la Russie. Müller étudie ensuite les variations de la politique russe du régime national-socialiste, d'abord allié à la Pologne de Pilsudski et spéculant sur un démembrement de la Russie avec l'appui de l'Angleterre et du Japon, puis lié économiquement à la Russie, laquelle ne devient plus une zone d'exploitation potentielle mais un espace détenu par un allié tacite où l'on achète des matières premières. En 1941, c'est la première option qui reprend le dessus, mais sans l'alliance anglaise. Une somme capitale pour comprendre les mécanismes d'une politique qui a déterminé l'histoire européenne.

 

(Robert STEUCKERS).

 

 

 

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, économie, urss, russie, allemagne | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 18 août 2008

Hommage à E. Delvo

flandre.1199370982.jpg

 

Hommage à Edgard Delvo pour son 90ième anniversaire

 

Edgard Delvo: une quête sans repos de la justice sociale

 

Peter LEMMENS

 

Dans le paysage intellectuel flamand, on rencontre peu de personnages de ce format, peu de personnalités qui, mues par une pulsion intérieure, partent en quête de la vérité sans jamais plus s'arrêter. Ce sont généralement des personnalités qui se mettent en travers de toutes les valeurs et de toutes les idoles conventionnelles, de tous les systèmes jugés éternels et de tous les concepts abstraits; elles suivent l'ordre de leur conscience en dépit de tout et de tous, elles s'avancent sur leur propre chemin. Au beau milieu d'une réalité qui ne cesse de changer, elles sont souvent obligées de redéterminer leurs positions, avec le risque de ne plus être comprises par leur entourage, doté de capacités intellectuelles moindres.

 

Parmi ces rares personnalités en Flandre: Edgard Delvo. L'idée directrice, pour laquelle il a voué sa vie entière, est l'idée de justice sociale. A partir de cette idée, Delvo a toujours cherché à donner des fondements idéologiques solides à sa pensée et à son action. Il était essentiel pour lui de faire concorder doctrine et action. Toujours, Delvo est parti du réel, hic et nunc, et su que ce réel formait toujours l'ultime pierre angulaire sur laquelle reposait l'expérience personnelle, aussi riche soit-elle.

 

Au beau milieu de ce XXième siècle effervescent, cette option pour un réel toujours mouvant l'a contraint à arpenter des che­mins très différents les uns des autres et à mener une existence des plus hasardeuses...

 

Edgard Delvo est né le 20 juin 1905 à Gand dans une famille d'ouvriers pauvres et socialistes. Son milieu familial le prédispo­sait donc à devenir, très jeune, un ouvrier, comme son père et son grand-père. Mais la nature l'a doté d'une intelligence assez vive. Avec l'aide d'une bourse pour élève doué, il peut aller au-delà de l'école primaire et, comme on le disait à l'époque, «faire ses moyennes». Plongé dès le foyer familial dans une ambiance socialiste, son enthousiasme pour cette idéologie ouvrière fut ravivé par l'homme de poigne, le génie du verbe, du socialisme gantois, Edouard Anseele. Plus tard, Delvo témoignera et dira que c'est surtout les dimensions humaines d'Anseele qui l'ont séduit et attiré. L'étape suivante dans l'évolution du jeune Delvo se déroule rapidement: au départ de ses prédispositions naturelles pour le travail intellectuel, Delvo, à partir de l'âge de 16 ans, approfondit ses connaissances du marxisme et devient un socialiste bien écolé et formé.

 

Après avoir obtenu son diplôme d'instituteur, il s'en va travailler dans l'“imprimerie populaire” (Volksdrukkerij), une entreprise appartenant au parti socialiste, qui fonctionnait pourtant pratiquement comme une pure entreprise capitaliste. Delvo s'est alors rapidement aperçu que bien que le socialisme se réclame de la doctrine marxiste (détruire le capitalisme par la lutte des classes et libérer le travailleur par le biais de la dictature du prolétariat), le socialisme belge, en pratique, visait la création, par la voie du réformisme, d'un capitalisme ouvrier, où les travailleurs seraient ipso facto transformés en de “petits bourgeois” de seconde zone. Il y avait donc une profonde césure entre la théorie socialiste et la pratique. Delvo en déduit immédiatement que les théories marxistes ne correspondent pas à la réalité sociale, comme il peut s'en apercevoir de visu dans sa propre entre­prise socialiste.

 

Mais il est encore trop tôt pour tirer toutes les conclusions de ce constat. Le jeune homme Delvo doit encore accumuler de l'expérience. Mais la direction de la Volksdrukkerij  lui donne rapidement l'occasion d'élargir ses horizons: il reçoit l'autorisation de suivre les cours de l'Université d'Etat de Gand à titre d'étudiant libre. Reconnaissant, Delvo, en autodidacte, acquiert un vaste savoir dans une quantité de sciences sociales et humaines, telles la psychologie, la pédagogie, la sociologie et aussi l'économie.

 

En même temps, Delvo s'engage à fond dans le mouvement de jeunesse socialiste. En toute connaissance de cause, il n'opte pas pour la Jonge Wacht  (la “Jeune Garde”), très inféodée au parti, mais pour la SAJ (Socialistische Arbeidersjeugd;  Jeunesse Ouvrière Socialiste), qui s'inspirait davantage des Wandervögel  allemands et prônait, dans ses programmes, une sphère indépendante de la jeunesse dans la société, l'épanouissement culturel de ses membres, un vécu communautaire so­cialiste et une sorte de retour à la nature.

 

Delvo accumule du savoir à l'Université, son intelligence vive est rapidement remarquée par les dirigeants du parti: dès 1928, il occupe le poste de secrétaire flamand de la Centrale d'Education Ouvrière. C'est la première fois qu'un homme aussi jeune  —23 ans—  est appelé à diriger l'écolage des cadres socialistes en Flandre. Une tâche dont Delvo s'acquittera parfaitement, au point d'être hissé au poste de Secrétaire général quatre ans plus tard.

 

Par son expérience quotidienne de la réalité sociale et en approfondissant sans cesse ses idées, Delvo finit par avoir des pro­blèmes de conscience; la doctrine marxiste lui apparaît de moins en moins idoine à servir de fondement idéologique à ses sentiments et ses aspirations socialistes. Heureusement, il trouve un livre qui lui permet de sortir de cette impasse: Psychologie van het socialisme (traduit en français sous le titre d'Au-delà du marxisme), ouvrage publié en 1926 par Henri De Man. Ce livre lui ouvre des perspectives entièrement nouvelles; remotive son engagement socialiste et étaye ses idées.

 

D'après De Man, le socialisme n'était rien d'autre que l'expression d'une idée éternelle de justice sociale, ancrée en l'homme, qui lui permettait d'agir selon sa propre conscience, en tant qu'être responsable, guidé par la raison, et de rechercher juste­ment cette justice sociale. De cette façon, le socialisme apparaissait comme lié indissolublement à une vision humaniste glo­bale. C'est la raison pour laquelle De Man a saisi la nécessité de dégager le socialisme de la doctrine marxiste et d'opposer au marxisme un socialisme à fondement éthique. Au lieu de considérer la question ouvrière et le socialisme comme des phé­nomènes déterminés par l'histoire et la matière, De Man et ses adeptes en viennent à la percevoir comme une problématique essentiellement d'ordre psychologique. Il ne s'agissait plus de réaliser l'émancipation ouvrière par le biais de la lutte des classes et de la dictature du prolétariat; ni de reprendre à son compte les valeurs et la culture du monde bourgeois et capita­liste, comme le socialisme politique l'avait fait en pratique. Non: l'émancipation ouvrière devait être réalisée en donnant au travailleur une valeur propre, en créant pour lui un système de valeurs qui lui soit spécifique. Il s'agissait donc de faire advenir un nouveau type humain, qui n'aurait plus rien à voir avec les vertus bourgeoises, mais développerait ses propres valeurs et ses propres normes, une culture nouvelle, comme bases d'une société socialiste. Le socialisme ne visait donc pas la pure et simple matérialité (rôle du “socialisme-beafsteak”), mais se posait essentiellement comme un souci éthique, culturel et spiri­tuel. Il ne s'agissait plus d'acquérir toujours davantage de biens matériels, mais de mettre au centre de l'éthique des travail­leurs la joie au travail.

 

A la suite de leur vision humaniste intégrale et de leur désir de généraliser la justice sociale, leur souci socialiste ne pouvait plus se limiter à une seule classe sociale, mais devait nécessairement s'élargir à toute la réalité ambiante, où vivaient les hommes de chair et de sang: c'est-à-dire embrasser l'ensemble de la “communauté populaire”. Dès qu'ils eurent opéré leur “renversement copernicien”, De Man et Delvo, sur base de leur postulat d'élargissement, commencèrent à s'intéresser au nationalisme. Cela amena De Man à publier en 1931 une brochure, Nationalisme en Socialisme,  où il accorde une valeur positive au “nationalisme de libération”, concept que nous considérerions comme synonyme de notre “nationalisme populaire” (volksnationalisme).  Mais contrairement à son maître-à-penser, Henri De Man, qui, ultérieurement, s'égarera dans les eaux du “nationalisme d'Etat” (staatsnationalisme), Delvo va approfondir ce concept au cours des années 30, ce qui le conduira à dire que tout sentiment socialiste véritable doit être indissolublement lié à une conscience nationale-populaire (et vice-versa). Sentiment socialiste et conscience nationale convergent tous deux vers un seul et unique but: la construction de la commu­nauté populaire (volksgemeenschap).

 

Delvo est également devenu un protagoniste enthousiaste et convaincu du planisme de De Man. La vision planiste impliquait que toute la vie économique devait contribuer à un équilibre entre les besoins de la consommation et les capacités de produc­tion, où il fallait tabler et utiliser toute la créativité qui résidait en l'homme. Pour les planistes, cet équilibre et ce pari pour la créativité humaine n'étaient possibles que si l'on avançait une vision beaucoup plus nuancée de la propriété que les marxistes. Au lieu de nationaliser purement et simplement les moyens de production et la propriété, il fallait, disaient-ils, partir des di­verses formes de propriété et voir si elles apportaient des avantages ou des incon­vénients au peuple en tant que communauté. Sur base de ce tri, les planistes finirent par juger que les monopoles et les puissances d'argent devaient être freinées dans leurs initiatives et leur expansion, tandis que les initiatives privées qui donnaient des avantages au peuple devaient être stimu­lées. L'idéal consistait donc à construire une économie mixte avec secteurs nationalisé et privé. Mais il était essentiel, dans la vision planiste, que l'autorité et non la propriété soit transférée à l'Etat. Le contrôle de la gestion de la propriété a donc été con­sidéré comme prioritaire par rapport à la possession de l'entreprise.

 

Pour réaliser un tel “Plan”, il fallait, pensaient les planistes, réformer de fond en comble la démocratie, afin de dégager l'Etat de l'emprise des puissances d'argent et des groupes de pression. Pour accéder au stade de cette planification rationnelle, le système démocratique manquait d'une réelle direction, d'auto-discipline et surtout de responsabilité personnelle. Les planistes formulent une série de propositions, afin d'incorporer ces “vertus” dans le système démocratique et de rendre ainsi la démo­cratie plus forte. Le résultat aurait du être, pour De Man, Delvo et les planistes belges, le “socialisme démocratique”. Bien en­tendu, les adversaires de ce planisme socialiste et démocratique n'ont pas hésité à accuser De Man et Delvo de plaider pour une “démocratie autoritaire”. Ce reproche était injuste: les deux hommes sont restés des démocrates convaincus; ils se re­connaissaient pleinement dans le principe des élections libres et du contrôle parlementaire, mais ils voulaient biffer les dys­fonctionnement et les débordements du système, afin de le sauver et non pas de le torpiller définitivement.

 

En 1934, De Man et ses collaborateurs réussissent à mettre le parti socialiste officiellement sur la ligne du planisme et du “socialisme démocratique”. Cela ne signifie pas, évidemment, que les instances du parti ont été convaincues de la justesse des thèses planistes au point de s'y convertir; plus exactement, elles ont dû avouer leurs impuissance à résoudre la crises économiques des années 30 à l'aide des recettes marxistes, devenues au fil du temps, étrangères au monde et inefficaces. Tant à l'intérieur qu'à l'extérieur du parti, l'opposition au projet planiste s'est rapidement organisée pour barrer la route à toute amorce de réalisation des idées de De Man et de Delvo. Les adversaires du planisme ont, en fin de compte, réussi à empê­cher toute réforme graduelle et rationnelle de la démocratie belge.

 

Vers la fin des années 30, certains nationalistes flamands commencent à manifester un vif intérêt pour les aspirations socia­listes de De Man et de Delvo. Et ceux-ci commencent, pour leur part, à s'intéresser de plus près au nationalisme flamand. Une fraction des intellectuels nationalistes et une fraction des intellectuels socialistes se rapprochaient. A la tête des socia­listes rénovateurs et d'esprit ouvert, Edgard Delvo. En 1939, il entre en contact avec le nationaliste flamand Viktor Leemans et avec le “national-solidariste” Joris Van Severen. Ces rencontres permettent à ces hommes venus d'horizons fort différents de constater qu'au fond ils sont très proches les uns des autres. Ils envisagent de fonder une revue, à laquelle ils collaboreraient tous et où ils confronteraient leurs points de vue dans un but constructif, mais la guerre éclate et ce projet ne peut pas se con­crétiser.

 

Quand les Allemands entrent en Belgique le 10 mai 1940, le régime démocratique et la machine de propagande française suscite au sein de la population belge une psychose de terreur, en décrivant l'armée allemande comme une horde de barbares massacrant tout sur son passage, poussant des centaines de milliers de réfugiés sur les routes et les exposant aux risques de la guerre. Delvo prend cette propagande au mot et décide de combattre l'Allemagne et se présente comme volontaire, d'abord dans un bureau de recrutement de l'armée belge, puis de l'armée française. Mais Delvo ne rencontre que le chaos. Après l'effondrement des armées alliées, il s'aperçoit de la fausseté des propagandes belge et française, constate que les atrocités radiodiffusées ont été inventées de toutes pièces. Cette révélation le dégoûte des régimes démocratiques et il perd toute foi en eux.

 

Delvo décide de réaliser ses aspirations socialistes-démocratiques dans le cadre de l'“Ordre Nouveau”, plus précisément dans le giron du parti nationaliste flamand, le VNV. Deux éléments l'ont pousser à cette option. D'abord, ce fut Viktor Leemans qui le contacta en premier lieu à son retour de France. Plus fondamentalement, c'est un projet du VNV qui le séduit: celui de se transformer en un vaste mouvement d'unité flamande. Cette tentative de dépassement des étroits contingentements politiques de l'avant-guerre et de construction d'un vaste mouvement populaire surplombant les clivages politiciens en Flandre était, pour Delvo, l'occasion rêvée de concrétiser ses visions socialistes et nationales-populaires. Delvo est immédiatement intro­duit dans le “Conseil de Direction” du VNV, où il devient responsable de la formation des militants et membres, de l'école des cadres et de la propagande. Le fait que de telles responsabilités aient été déléguées à un dirigeant important du parti socialiste d'avant-guerre prouve que le VNV prenait effectivement cette opération au sérieux. Mais le projet de mouvement unitaire ne débouche pas sur les résultats escomptés. D'abord, la base, contrairement à la direction, ne souhaite pas dépasser aussi ra­pidement les clivages idéologiques d'avant-guerre et ne propose pas de nouvelle synthèse. Ensuite, les circonstances de la guerre n'autorisaient pas la réalisation d'un tel projet; les Allemands accordaient la priorité aux opérations de guerre, avant toutes autres considérations. En cas de nécessité, ils sacrifiaient d'abord les objectifs de nature idéologique.

 

Cette réticence allemande a conduit Delvo à plaider en faveur d'une collaboration inconditionnelle avec l'Allemagne. Car, à ses yeux, à ce moment-là de la guerre, seule une victoire définitive du Reich national-socialiste permettrait aux Flamands de réaliser chez eux les aspirations socialistes et nationales-populaires, théorisées par Delvo. C'est en voulant joindre les actes à la parole que Delvo s'est présenté un jour comme volontaire pour combattre sur le Front russe, après l'entrée des troupes de Hitler en URSS. Mais Staf De Clercq, chef du VNV, a estimé que la présence de Delvo était plus utile en Flandre que dans les plaines de Russie; il a donc refusé l'engagement de Delvo et l'a obligé à rester au pays.

 

En avril 1942, Delvo devient le chef de l'UTMI/UHGA (Union des Travailleurs Manuels et Intellectuels), une organisation syndicale calquée sur le modèle du “Front du Travail” allemand et destinée à devenir un mouvement syndical unitaire en Belgique selon les modèles préconisés par l'“Ordre Nouveau”. Delvo reçoit donc entre les mains un instrument potentielle­ment puissant, lui permettant de réaliser à terme ses objectifs socialistes et nationaux-populaires. La guerre l'oblige à se limi­ter et à n'ébaucher qu'idéellement la société qu'il appelait de ses vœux.

 

Quand les dernières troupes allemandes évacuent la Belgique, Delvo se replie en Allemagne, bien décidé à s'engager jusqu'au bout pour ses idéaux. Il trouve tout de suite une place dans le gouvernement flamand en exil, le Vlaamse Landsleiding,  où l'on tente, selon Delvo, de faire l'unité de toutes les tendances de la collaboration flamande encore prêtes à combattre aux côtés de l'Allemagne, dans l'espoir de réaliser leurs idées nationalistes, nationales-socialistes ou autres. Delvo devient le “plénipotentiaire” des Affaires Sociales et élabore un programme social, bien dans la ligne de ce qu'il avait suggéré dès le dé­part au VNV.

 

Après l'effondrement définitif du IIIième Reich, Delvo connaîtra des années fort sombres. En 1945, un tribunal militaire belge le condamne à mort par contumace. Sans cesse repéré et poursuivi, il n'avait plus qu'une solution: errer à travers l'Allemagne sous plusieurs fausses identités, séparé de sa femme et de ses enfants. Il exerça toutes sortes de petits boulots pour gagner maigrement sa vie. En 1965, il est frappé d'un infarctus, est dans l'incapacité de travailler et obligé de se livrer aux autorités allemandes. Mais comme il est persécuté pour des raisons politiques, les autorités allemandes le relâchent immédiatement et refusent de le livrer à la Belgique. En 1972, sa condamnation est ramenée à 20 ans de prison, si bien qu'il pourra rentrer au pays après 30 ans d'exil. En 1974, il est de retour en Flandre, mais sous le statut d'apatride.

 

Delvo a survécu à toutes ses années de misère, de difficultés matérielles, physiques et émotionnelles, parce qu'il a approfondi ses idées et ses réflexions, a lu, a continué à se former politiquement et philosophiquement. Le feu sacré qui brûlait dans le cœur du jeune militant socialiste de 1920 ne s'est finalement jamais éteint. Dès son retour, avec l'appui de la grande presse flamande (notamment le quotidien De Standaard), de la très sérieuse maison d'édition De Nederlandse Boekhandel,  des mi­lieux nationalistes de droite et de gauche (Voorpost, VUJO, etc.) et de l'hebdomadaire anversois 't Pallieterke, il tente une dernière fois d'éveiller l'intérêt des intellectuels flamands pour son socialisme populaire et national. Il publie coup sur coup trois ouvrages théoriques et autobiographiques. Delvo était convaincu, à son retour d'exil, que ses conceptions avaient gardé un certain degré d'actualité, tout en comprenant parfaitement que les circonstances avaient changé de fond en comble. Il est dès lors curieux de constater qu'un homme comme Delvo, qui a toujours mis l'accent sur la nécessité de bien coupler pensée et action et de se référer à la réalité actuelle, a limité ses ouvrages d'après-guerre à un regard rétrospectif sur l'histoire et ne nous a pas livré une analyse de la réalité nouvelle.

 

Mais Delvo, dans la seconde moitié des années 70 a été un conférencier fort demandé, surtout dans les milieux nationalistes flamands. Mais lorsque l'on relit aujourd'hui les textes de ces interviews et de ces conférences, on a le sentiment, un peu amer, que ce retour de Delvo dans le milieu nationaliste ou, du moins, chez les nationalistes qui avaient la volonté de suggérer un projet de société nouvelle, a finalement été peu fécond et que les formations nationalistes flamandes qui l'ont invité et écouté, n'ont pas mis à profit ses enseignements.

 

Cette année, Edgard Delvo a fêté son 90ième anniversaire. Il est devenu aveugle, mais son esprit est resté intact, toujours animé par ce formidable feu sacré. Il reste à l'écoute des grands débats par la radio, la télévision, des cassettes audio, des conversations, mais sa cécité l'empêche quand même de juger notre réalité trop changeante, trop effervescente, dans toutes ses nuances. La troisième révolution industrielle a modifié en profondeur la société dans laquelle nous vivons. Par la diminu­tion du temps de travail, par l'attention croissante que portent nos contemporains à leurs loisirs, par le changement des men­talités, le concept de “travail” a perdu bon nombre de ses significations d'antan. La mécanisation et la robotisation croissantes ont produit une nouvelle armée de chômeurs et une nouvelle société duale. Tout cela, et beaucoup d'autres choses encore, font que toute la problématique sociale doit être totalement repensée. Indubitablement, bon nombre d'idées, de méthodes et de structures que Delvo a analysées ont succombé aujourd'hui. Mais l'essentiel de la pensée de Delvo, c'est-à-dire sa volonté de lutter pour une véritable justice sociale et pour un ancrage du sentiment socialiste dans l'humus national, doit demeurer pour nous un leitmotiv. Dans notre travail de re-penser la société, la question sociale et le statut de l'ouvrier, ce fil conducteur est indispensable pour aboutir à une NOUVELLE SYNTHESE.

 

Peter LEMMENS.

(adaptation française: Robert Steuckers)

 

Bibliographie:

- Edgard DELVO, In dienst der arbeidersopvoeding. Handboek voor medewerkers van de Opvoedingscentrale, Deurne, 1937, 244 p.

- E.D., De Belgische arbeidersbeweging. Geschiedkundige studie, Deurne, 1938, 47 p.

- E.D., Hedendaagsch humanistisch streven: democratisch socialisme en zijn beteekenis voor de BWP, Antwerpen, 1939, X-91 p.

- E.D., Arbeiders, mijn Kameraden! Ons geleidt de nieuwe tijd, Brussel, [1940], 31 p.

- E.D., Arbeid en arbeider in de volksche orde, Brugge, 1941, 42 p.

- E.D., Sociale collaboratie. Pleidooi voor een volksnationale sociale politiek, Antwerpen, 1975, 266 p.

- E.D., De mens wikt. Terugblik op een wisselvallig leven, Antwerpen, 1978, 189 p.

- E.D., Democratie in stormtij. Democratisch socialisme in de crisisjaren dertig,  Antwerpen, 1983, 205 p.

00:07 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : théorie politique, politique, socialisme, flandre, belgique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook