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samedi, 03 octobre 2009

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia

La mafia e lo sbarco alleato in Sicilia (9 luglio, 1943)

  

 

Alberto Bertotto - http://www.rinascita.info/



Tra gli storici è ancora aperta la diatriba sul ruolo avuto dalla mafia siciliana nella preparazione dello sbarco alleato. Tale diatriba è certamente sostenuta dagli apparati mafiosi perché tendono ad assumersi un merito e un potere che in realtà non potevano ricoprire in quel lontano 1943. In Sicilia, grazie al Prefetto Mori, buona parte delle forze di mafia erano state confinate o incarcerate. Anche se i capi erano rimasti liberi, gran parte della manovalanza mafiosa era stata neutralizzata. A tal proposito molti studiosi tra i quali Francesco Renda e Salvatore Lupo sgomberano subito il campo da ogni possibile equivoco. Scrive il Lupo: “La storia di una mafia che aiutò militarmente gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è l’aiuto che Lucky Luciano propose ai Servizi Segreti della marina americana per far cessare alcuni sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione ‘Husky’. Lo sbarco in Sicilia non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in Sicilia è da scartare (ne dubito fortemente, ndr), è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata. E’ fuori discussione anche il fatto che il boss americano Vito Genovese, nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, il capo del comando militare alleato (AMGOT).


“Certamente gli alleati non conoscevano la realtà siciliana e di volta in volta, di Paese in Paese, cercavano l’interlocutore di maggior prestigio sul piano del potere locale che era rappresentato invariabilmente dalla mafia, dall’aristocrazia terriera e dalla Chiesa che spesso erano tra loro legate da comuni interessi. Non a caso il nome di Calogero Vizzini fu suggerito agli angloamericani da suo fratello Vescovo e dal “Movimento indipendentista siciliano” (MIS) nelle cui fila militavano fianco a fianco i rappresentanti dell’aristocrazia terriera come Lucio Tasca, nominato Sindaco di Palermo e capimafia come Vizzini, Navarra, Genco Russo e l’allora giovanissimo Tommaso Buscetta. Immediatamente dopo lo sbarco degli alleati prese corpo e spessore inoltre il MIS. Mentre ancora nell’isola si combatteva, il 28 luglio del 1943 già volantini separatisti, che invitavano a proclamare l’indipendenza della Sicilia, cominciarono a circolare e il giorno dopo l’entrata a Palermo delle truppe americane i separatisti chiesero e ottennero di essere ricevuti dal tenente colonnello Poletti, capo dell’ufficio affari civili del Governo militare alleato per presentare formale richiesta di poter informare i Governi inglese e Usa che la Sicilia intendeva essere indipendente. Intanto, secondo quanto deciso a Casablanca su suggerimento di W. Churcill, il Governo militare di occupazione doveva evitare qualsiasi collaborazione con i partiti politici isolani, anche con quelli che si dichiaravano anti-fascisti. Gli alleati si affidarono, pertanto, ai suggerimenti del clero e dei maggiorenti locali per nominare i nuovi Sindaci che così furono in buona parte scelti tra i mafiosi o i separatisti: il conte Lucio Tasca, il capo dei separatisti, a Palermo e Genco Russo, boss mafioso, a Mussomeli. Col passare dei mesi vista l’impossibilità di rifornire con proprie scorte la popolazione, gli alleati puntarono sulla riorganizzazione degli ammassi, affidandone la gestione ai grandi proprietari, agli aristocratici ed ai mafiosi per indurre i piccoli proprietari, che in prevalenza alimentavano il mercato nero, a contribuire all’ammasso. Si rafforzava così la posizione delle élite agrarie nel quadro istituzionale del Governo d’occupazione. Da qui l’impressione che gli alleati tendessero a favorire i separatisti. In realtà le nomine erano avvenute nella logica stessa del Governo d’occupazione: gli unici esponenti della ristretta classe dirigente nei piccoli Paesi erano proprio i mafiosi e, nei grandi centri urbani, i sostenitori del separatismo. Appare invece priva di fondamento la ipotesi di un pactum sceleris tra mafia e alleati per l’occupazione della Sicilia. Il rinnovato potere della mafia, nella magmatica società del dopoguerra, avrebbe però fornito al potere politico un alleato fedele alle istanze filo-occidentali di cui probabilmente gli americani si avvalsero d’allora in poi” (F. Misuraca, A. Grasso. Lo sbarco in Sicilia. www.ilportaledelsud.org).


Quali oscure operazioni di spionaggio si celavano dietro lo sbarco angloamericano in Sicilia nell’estate del 1943? La conquista dell’isola fu sostenuta dalla collaborazione della mafia con i Servizi Segreti americani? E chi furono i protagonisti di questo accordo? Chi erano gli agenti segreti sbarcati con le truppe del generale Usa G. Patton? E perché migliaia di soldati italiani si arresero già al primo giorno dell’invasione e la popolazione civile accolse con esagerata festosità gli alleati? Sul Web si legge: “Il libro Mafia & Alleati racconta le vicende che dal 1941 al 1943 hanno come protagonisti i boss mafiosi americani, i padrini siciliani e i Servizi Segreti degli Stati Uniti. Ripercorre l’inchiesta del commissario investigativo dello Stato di New York, William Herlands, condotta nel 1954, e alla luce della documentazione di recente declassificata dagli Archivi statunitensi, rende di facile comprensione la miriade di informazioni e di controinformazioni che la stimolante questione ha prodotto negli anni. Sullo sfondo dell’occupazione angloamericana della Sicilia, l’operazione ‘Husky’ (10 luglio-17 agosto del 1943), Lucky Luciano, Calogero Vizzini, gli agenti segreti Corvo, Scamporino, Marsloe, il capo dell’Amgot Charles Poletti e tanti altri, sono le figure che popolano le pagine di questo lavoro. Nel libro vengono anche pubblicati, per la prima volta in Italia, i nomi e le fotografie di numerosi agenti segreti arruolati nelle file dell’OSS (Office of Strategic Services, il precursore della Cia) con il compito di spianare la strada in Sicilia all’esercito del generale Patton e ristabilire la democrazia in Italia dopo la caduta del fascismo. Altri argomenti che Ezio Costanzo, l’autore del saggio, affronta riguardano il ruolo avuto dall’Amgot, il Governo militare alleato, nella rinascita della mafia, le biografie di Lucky Luciano e di Calogero Vizzini, la nascita della nuova mafia, il fronte anti-comunista costituitosi con l’aiuto dell’Intelligence statunitense, le azioni di spionaggio condotte dai Servizi Segreti alleati durante l’operazione Husky”.


Il libro è stato di recente presentato alla Fiera Internazionale del Libro di Torino. Sono intervenuti Gian Carlo Caselli, magistrato, Procuratore generale di Torino, Procuratore capo anti-mafia a Palermo dal 1993 al 1999; Gianni Oliva, storico e scrittore, Carlo Romeo, direttore Segretariato sociale Rai (che ha organizzato la presentazione), Tiziana Guerrera, editrice de Le Nove Muse, che ha pubblicato il volume. “Con un linguaggio semplice e diretto, ha affermato lo storico Gianni Oliva nel suo intervento, indirizzato anche ai lettori meno esperti di storia, l’autore mette in luce, con particolare documentazione frutto della sua ricerca negli Stati Uniti, gli accordi tra il Naval Intelligence americano (i Servizi Segreti della marina) e la malavita organizzata italoamericana per favorire lo sbarco in Sicilia e per liberare il porto di New York dalle spie nazifasciste (operazione Underwold), riportando numerose testimonianze dei protagonisti rilasciate durante l’inchiesta Herlands e poco note al grande pubblico. Il libro di Costanzo è un ottimo lavoro di analisi di quel momento storico che affronta anche le conseguenze
sociali e politiche che il riemergere della mafia provoca nell’immediato dopoguerra in Sicilia”.


Ha affermato Gian Carlo Caselli: “Si tratta di un libro che si legge tutto d’un fiato e che offre una serie di particolari di quegli anni dell’occupazione angloamericana della Sicilia rimasti fino ad oggi poco chiari. Costanzo offre ai lettori la possibilità di addentrarsi nelle intrigate maglie dell’organizzazione dei Servizi Segreti americani e nelle operazioni condotte per l’occupazione della Sicilia nell’estate del 1943. La pubblicazione di una serie documenti redatti dagli stessi agenti segreti durante la loro permanenza in Sicilia rende questo lavoro di grande attualità e permette di comprendere come gli intrecci tra mafia e politica abbiano trovato nella Sicilia occupata
dell’estate del ‘43 il loro humus ideale per svilupparsi ed accrescersi nella società siciliana del dopoguerra”.

Le testimonianze e i racconti dei protagonisti hanno fatto emergere dati incontrovertibili sull’esistenza di tale accordo e su come la mafia americana sia stata determinante per garantire sia la sicurezza delle navi in partenza per l’Europa, sia la minuziosa ricerca di notizie in vista dell’occupazione della Sicilia”.
Alcuni documenti dell’Office of Strategic Services hanno fornito anche un’utile chiave di lettura del momento immediatamente successivo della conquista della Sicilia e del periodo dell’amministrazione alleata dell’isola; carte che attestano che gli interventi occulti del Governo americano negli affari interni dell’Italia sono andati oltre il pur sincero e legittimo spirito di libertà e di democrazia, per incunearsi nelle scelte politiche ed economiche della Nazione come quelle dirette ad impedire ai comunisti di vincere le prime elezioni del dopoguerra. L’alleanza con i ceti conservatori dell’isola, realizzata attraverso la mediazione della mafia, è servita agli alleati non solo per amministrare l’isola durante la loro permanenza siciliana, ma ancor più per porre le basi di un futuro politico-sociale dell’Italia senza i comunisti, mal visti sia dai cattolici-liberali che dai mafiosi. Dopo lo sbarco americano, la mafia ebbe così, per la prima volta nella sua storia, l’onore di essere portata sulla scena come legittima organizzazione politico-amministrativa, garantita da un esercito di occupazione. Alla robustezza della tradizione i vecchi padrini poterono aggiungere il
piacevole prestigio che procurava loro la protezione dei conquistatori. Alcuni studiosi, nel riprendere l’argomento, continuano a definire il rapporto tra mafia e Servizi Segreti alleati “una leggenda” o, nella migliore delle ipotesi, ne danno una spiegazione che strizza l’occhio agli
americani, sostenendo che esso scaturì da necessità dapprima militari e, successivamente, amministrative per controllare i territori occupati. Insomma, una scelta “sfortunata” i cui risultati (la riorganizzazione del potere mafioso nell’isola) non erano stati previsti. Un po’ quanto ha
dichiarato, in una delle sue ultime interviste rilasciate alla BBC londinese, Anthony Marsloe, ufficiale dei Servizi Segreti della marina americana sbarcato in Sicilia assieme alle truppe del generale Patton: “...Bisognava sfruttare qualunque cosa per difendere l’America e favorire
ciò che si stava facendo e si poteva fare...Alcune delle persone contattate erano mafiose? Non me ne poteva fregar di meno di quello che erano se potevano fornire una qualsiasi informazione che avrebbe contribuito allo sforzo bellico”. In realtà, la collaborazione tra Servizi Segreti americani e mafia fu pianificata nei suoi particolari. A conferma di ciò, una testimonianza ufficiale di un altro agente del Naval Intelligence Usa, sbarcato assieme a Marsloe a Gela, Paul Alfieri, che conferma l’accordo con i mafiosi dell’isola: “...Nella stragrande maggioranza dei casi, questi contatti furono frutto della collaborazione con il boss Lucky Luciano. Le informazioni avute si sono rivelate assai utili” (E. Costanzo. Mafia e Alleati. Servizi Segreti americani e sbarco in Sicilia.
www.controstoria.it).


Sempre per restare in tema: Abrogati nel 1942 i “decreti Mori” parecchi mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli alleati che incominciarono ad arruolare uomini d’origine siciliana. A mezzo dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell’isola, la dislocazione e la consistenza delle truppe dell’Asse in Sicilia. Del resto perché gli alleati iniziarono l’invasione dell’Europa meridionale dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica, dalle quali sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana, in Liguria o in Provenza? La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero sbarcate costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati: fu scelta la Sicilia con la certezza di poter contare sull’appoggio della mafia. Fu quest’ultima ad ospitare, dal 1942, oltre al colonnello Charles Poletti, futuro Governatore militare dall’aprile 1943, anche il colonnello britannico Hancok e un buon numero d’infiltrati italoamericani. Nella relazione conclusiva della Commissione anti-mafia presentata alle Camere il 4 febbraio del 1976 si legge: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell’esercito americano furono inviati nell’isola per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l’occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò una apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della preparazione psicologica della Sicilia.

Fu così predisposta una fitta rete informativa che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia e mandò nell’isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori”.
Ma l’episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell’infiltrazione alleata in Sicilia prima dell’occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia e per preparare le popolazioni locali all’occupazione imminente dell’isola. Luciano venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”. E’ un fatto che quando il 10 luglio del 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...E’ storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsterismo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro...”. Ancora la Commissione anti-mafia: “La mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”.


Scrisse Lamberto Mercuri: “Fu in quei mesi che la mafia rinacque e non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non era mai morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche repressioni del Prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo ardore e vigoria e fugato all’estero i capi più rappresentativi e più spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con l’onorata società dell’isola”. Nella confusione seguita all’invasione e alla caduta del fascismo, la mafia vide l’opportunità di riorganizzare il vecchio potere, di insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano Sindaco di Villalba; nella cerimonia d’insediamento, fu salutato da grida di “Viva la mafia!”. “Vito Genovese, ha scritto Mack Smith, benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l’omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a restaurarne l’autorità...”.

Don Vito divenne il braccio destro indigeno del Governatore Poletti, ma una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli, li riempiva di farina e di zucchero (pure sottratti agli alleati) per poi venderli nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti, divennero interpreti o “uomini di fiducia” degli alleati, i neo padroni dell’isola sicula. L’atteggiamento del Governo militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però, che quest’apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l’antica ed indiscussa influenza. Aveva sempre cercato l’alleanza con il potere (anche con quello fascista, agl’inizi), ma per la prima volta le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva d’identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo Usa nel periodo tra le due guerre. Il seguito della vicenda dimostra come, grazie agli angloamericani, la seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l’occasione d’oro per una rigogliosa rinascita. I fatti l’hanno dimostrato ampiamente. Si suole dire oggi, da chi intende sminuirne il successo, che il fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse all’inazione, tant’è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se fu poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo risultato? Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la mafia si ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola segreta che non darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno” (V. Martinelli. Il ritorno della mafia in Sicilia. Un regalo degli alleati. Volontà, n. 12, Dicembre, 1993).


Facciamo un passo in dietro per dare i giusti meriti a chi gli sono dovuti. Un altro “grande successo” del regime fascista, messo dalla propaganda nel conto attivo insieme alla “battaglia del grano”, alle trasvolate e alla bonifica dell’Agro Pontino, fu la lotta contro la mafia. Protagonista di questa impresa (che si sviluppò fra il 1925 ed il 1929) fu Cesare Mori, il cosiddetto “Prefetto di Ferro”. Mori nel ‘21 era Prefetto di Bologna e fu il solo Prefetto d’Italia a opporsi alle orde dilaganti dei fascisti. Quando Mussolini salì al potere trovandosi tra l’altro ad affrontare il problema del banditismo e della mafia siciliana, gli venne fatto il nome di Mori. Mussolini disse: “Voglio che sia altrettanto duro coi mafiosi così come lo è stato coi miei squadristi bolognesi”. Così Mori partì per la Sicilia come uno sceriffo mediterraneo dell’epoca moderna. Arruolerà uomini, guardie giurate e truppe regolari per le sue battaglie campali, ma non si sottrarrà anche a epici inseguimenti e duelli a cavallo. Nessuno come lui arrivò ad umiliare tanto la mafia. Se non riuscì fino in fondo nel suo intento, ciò dipese dal potere politico, che fermò la sua azione quando stava per travolgere le più alte e vitali strutture della “onorata società”. La vera mafia, la cosiddetta “alta mafia”, non è dunque debellata, ma il regime si vanta ugualmente di averla distrutta e tale tesi sarà unanimemente accettata anche dagli storici. In effetti il fascismo, dopo la grande retata di “pesci piccoli” realizzata da Cesare Mori, viene a patti con l’ “alta mafia”. Nel 1929 richiama a Roma il “Prefetto di Ferro” (verrà nominato Senatore, ndr) e, in un certo senso, “restituisce” la Sicilia ai capi mafiosi ormai fascistizzati. Infatti, i condoni e le amnistie, subito concesse dal Governo dopo il richiamo di Mori, hanno favorito molti pezzi da novanta che, appena tornati in libertà, si sono subito schierati fra i sostenitori del regime anche se, dopo il 1943, gabelleranno i pochi anni di carcere o di confino come prova del loro anti-fascismo. I più avvantaggiati dal nuovo corso politico sono tuttavia gli esponenti dell’ “alta mafia” che, ormai al sicuro da ogni sorpresa, aderirono in blocco al fascismo e i grandi proprietari terrieri che, grazie alle leggi liberticide del regime, non ebbero più bisogno delle “coppole storte” per tenere a freno i braccianti o i fittavoli più irrequieti. Anche questi gruppi sociali fecero pressione sul Governo affinché liberasse l’isola dall’incubo di Mori. Col ritorno della normalità, poterono nuovamente dedicarsi ai loro affari e ai loro traffici senza più correre il rischio di essere colpiti dagli imprevedibili fulmini dell’intransigente Prefetto Mori (Il fascismo e la mafia. www.ilduce.net).

Hiroshima: la décision fatale

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES  - 1996

 

 

Hiroshima: la décision fatale selon Gar Alperovitz

 

Si on examine attentivement l'abondante littérature actuelle sur l'affrontement entre le Japon et les Etats-Unis au cours de la seconde guerre mondiale, on ne s'étonnera pas des thèses que vient d'émettre Gar Alperovitz, un historien américain. Son livre vaut vraiment la peine d'être lu dans sa nouvelle version alle­mande (ISBN 3-930908-21-2), surtout parce que la thématique de Hiroshima n'avait jamais encore été abordée de façon aussi détaillée. Alperovitz nous révèle une quantité de sources inexplorées, ce qui lui permet d'ouvrir des perspectives nouvelles.

 

Il est évidemment facile de dire, aujourd'hui, que le lancement de la première bombe atomique sur Hiroshima le 6 août 1945 a été inutile. Mais les contemporains de l'événements pouvaient-ils voir les choses aussi clairement? Qu'en pensaient les responsables de l'époque? Que savait plus particulière­ment le Président Truman qui a fini par donner l'ordre de la lancer? Alperovitz nous démontre, en s'appuyant sur de nombreuses sources, que les décideurs de l'époque savaient que le Japon était sur le point de capituler et que le lancement de la bombe n'aurait rien changé. Après la fin des hostilités en Europe, les Américains avaient parfaitement pu réorganiser leurs armées et Staline avait accepté d'entrer en guerre avec le Japon, trois mois après la capitulation de la Wehrmacht. Le prolongement de la guerre en Asie, comme cela avait été le cas en Europe, avait conduit les alliés occidentaux à exiger la “capitulation inconditionnelle”, plus difficilement acceptable encore au Japon car ce n'était pas le chef charismatique d'un parti qui était au pouvoir là-bas, mais un Tenno, officiellement incarnation d'une divi­nité qui gérait le destin de l'Etat et de la nation.

 

Alperovitz nous démontre clairement que la promesse de ne pas attenter à la personne physique du Tenno et la déclaration de guerre soviétique auraient suffi à faire fléchir les militaires japonais les plus en­têtés et à leur faire accepter l'inéluctabilité de la défaite. Surtout à partir du moment où les premières at­taques russes contre l'Armée de Kuang-Toung en Mandchourie enregistrent des succès considérables, alors que cette armée japonaise était considérée à l'unanimité comme la meilleure de l'Empire du Soleil Levant.

 

Pourquoi alors les Américains ont-ils décidé de lancer leur bombe atomique? Alperovitz cherche à prouver que le lancement de la bombe ne visait pas tant le Japon mais l'Union Soviétique. L'Amérique, après avoir vaincu l'Allemagne, devait montrer au monde entier qu'elle était la plus forte, afin de faire valoir sans con­cessions les points de vue les plus exigeants de Washington autour de la table de négociations et de tenir en échec les ambitions soviétiques.

 

Le physicien atomique Leo Szilard a conté ses souvenirs dans un livre paru en 1949, A Personal History of the Atomic Bomb;  il se rappelle d'une visite de Byrnes, le Ministre américain des affaires étrangères de l'époque: «Monsieur Byrnes n'a avancé aucun argument pour dire qu'il était nécessaire de lancer la bombe atomique sur des villes japonaises afin de gagner la guerre... Monsieur Byrnes... était d'avis que les faits de posséder la bombe et de l'avoir utilisé auraient rendu les Russes et les Européens plus conci­liants».

 

Quand on lui pose la question de savoir pourquoi il a fallu autant de temps pour que l'opinion publique américaine (ou du moins une partie de celle-ci) commence à s'intéresser à ce problème, Alperovitz répond que les premières approches critiques de certains journalistes du Washington Post ont été noyées dans les remous de la Guerre Froide. «Finalement», dit Alperovitz, «nous les Américains, nous n'aimons pas entendre dire que nous ne valons moralement pas mieux que les autres. Poser des questions sur Hiroshima, c'est, pour beaucoup d'Américains, remettre en question l'intégrité morale du pays et de ses dirigeants».

 

Le livre d'Alperovitz compte quelques 800 pages. Un résumé de ce travail est paru dans les Blätter für deutsche und internationale Politik (n°7/1995). Les points essentiels de la question y sont explicités clai­rement.

 

(note parue dans Mensch und Maß, n°7/1996; adresse: Verlag Hohe Warte, Tutzinger Straße 46, D-82.396 Pähl).

 

vendredi, 02 octobre 2009

Guerre civile entre histoire et mémoire

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

 

 

Guerre civile entre histoire et mémoire

 

Ouest-Editions a publié les actes du colloque La guerre civile entre histoire et mémoire organisé par le “Centre de re­cherches sur l'Histoire du Monde Atlantique” de l'université de Nantes. Dans son introduction, Jean-Clément Martin écrit à propos de la dénomination “guerre civile”: «Ce que les Américains ont qualifié de “Civil War”, à savoir les événements qui ont déchiré leur pays au XIXième siècle, nous l'appelons “guerre de Sécession”, en reprenant une version “nordiste” qui se serait sans doute transformée en “guerre de Libération” si les Sudistes avaient gagné. Nous prenons usuellement le soulè­vement du général Franco comme départ de la guerre civile espagnole, nonobstant les multiples affrontements meurtriers qui avaient émaillé les années précédentes. En revanche, nous parlons, en France, de “la Commune”, de “la révolution de Juillet”, voire de “la Révolution Française” ou de “la Résistance”, pour évoquer des étapes dramatiques de notre passé, hors du recours à la catégorie “guerre civile”». Nous citerons encore un court extrait: «Car la notion de guerre civile permet aussi de comprendre la fascination que celle-ci possède. Elle représente —encore aujourd'hui!— une forme de conflits dans laquelle, à l'opposé des conflits “déshumanisés” par les machines et surtout par l'atome, les individus trouvent des responsabilités véritables, des opportunités personnelles et des engagements réels, sans compter la possibilité de se con­fronter à la mort, dans une perspective romantique —ce qui, au-delà de tout jugement politique, semblait ne pas déplaire à Malraux— ou désespérée. La guerre civile devient la chance des aventuriers et des paumés, la revanche des exclus et des déclassés, la seule voie des plus démunis et des intellectuels radicaux. Sous cet aspect, elle ne se confine pas aux seules confrontations militaires, armées, mais elle s'exerce aussi bien dans les rivalités familiales que dans les querelles intellec­tuelles. L'Espoir de Malraux et Gilles de Drieu La Rochelle, indépendamment des liens entre les deux auteurs, constituent des exemples de cette façon de continuer la guerre sous, apparemment, d'autres formes» (Pierre MONTHÉLIE).

 

C.R.H.M.A., La guerre civile entre histoire et mémoire, Ouest Editions (1, rue de la Noë, F-44.071 Nantes Cedex 03), 1995, 250 p., 150 FF. La dernière publication du C.R.H.M.A. intitulée Le Maroc et l'Europe présente les communications faites lors d'une table ronde qui s'est tenue au «Centre d'études stratégiques de Rabat», 143 p., 120 FF.

jeudi, 01 octobre 2009

Le blocus allié de 1914-1919: un million de morts en Allemagne

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Dag KRIENEN:

Le blocus allié de 1914-1919: un million de morts en Allemagne

 

Dans le “Lexikon der Völkermorde” (= “Le dictionnaire des génocides”) de 1999, que nous devons au travail de Gunnar Heinsohn, nous trouvons une entrée sur “les victimes allemandes du blocus de 1917/1918” (1). Elle nous apprend qu’environ un million de civils sont morts en Allemagne et en Autriche de malnutrition, “parce que le blocus des denrées alimentaires, organisé par les Alliés, a fonctionné de manière incroyablement efficace”. L’entrée nous apprend toutefois que ce blocus a été prolongé jusqu’en mars 1919, avant d’être progressivement assoupli.

 

La malnutrition et la famine, phénomène de masse en Allemagne à la suite du blocus allié, sont généralement évoquées dans les ouvrages historiques sur la première guerre mondiale. En revanche, on ne nous dit guère que ce blocus, qui interdisait aussi l’importation de denrées alimentaires pour les hommes et pour le bétail, a duré encore de longs mois après l’armistice de novembre 1918. La mort a donc fait son oeuvre, à grande échelle, dans le pays, après l’avoir fait sur le front.

 

Pendant la première guerre mondiale et dans les années qui s’ensuivirent, bien au contraire, on en parlait beaucoup. Pratiquement chaque Allemand a subi les conséquences de ce “blocus de la faim”, commencé en 1914 et suspendu en 1919, ce qui a eu pour effet que d’innombrables articles, publications et écrits existent sur ce thème. Aux yeux des Allemands  de l’époque, s’il y avait bien un événement, dans cette guerre, qui signifiait un “ébranlement de la civilisation”, c’était cette pratique alliée du blocus qui a entraîné une sous-alimentation généralisée au cours de la seconde moitié de la guerre et dans les mois qui ont suivi l’armistice; cette sous-alimentation a provoqué directement ou indirectement la mort d’innombrables civils, surtout les plus faibles, les enfants et les femmes; elle a également provoqué des sequelles durables chez beaucoup de survivants (turberculoses, rachitisme, etc.). Beaucoup d’Allemands ont cru qu’ils étaient délibérément les victimes d’un génocide planifié, notamment en prenant pour argent comptant les tirades de la propagande alliée (“Il y a vingt millions d’Allemands de trop”). 

 

Suspecter les puissances occidentales d’avoir délibérément planifié un génocide est sans nul doute une exagération. Le blocus faisait partie d’une grande stratégie générale, principalement élaborée par les Britanniques; elle visait la soumission rapide des Allemands, non leur extermination. Un blocus maritime généralisé devait  nuire à l’économie allemande, très dépendante du commerce extérieur, et miner défnitivement les capacités du Reich à mener la guerre. Cette stratégie n’était en aucune façon une innovation car les puissances maritimes ont toujours, et de tous temps, eu tendance à étrangler l’économie de leurs adversaires en bloquant  les voies maritimes. Détail piquant: avant 1914, les Britanniques avaient soutenu les démarches visant à codifier les règles du droit international qui limitaient, en cas de guerre sur mer, les droits des parties belligérantes et permettaient, quasiment sans aucune restriction, le transport de denrées alimentaires sur navires neutres. C’est dans cette codification du droit des gens, et dans les pratiques qu’elle autorisait, que l’Allemagne a cherché, dès qu’éclata la guerre en 1914,  à conserver et à exploiter ses relations commerciales internationales, d’une importance vitale pour elle.

 

Les Britanniques et leurs alliés se sont donc efforcés, en toute logique, de barrer les voies d’accès à l’Allemagne et de contrecarrer les commerce intermédiaire  entre les puissances neutres et le Reich. Ils ont accepté  le fait que leurs mesures et leur blocus enfreignaient le droit des gens en temps de guerre dans des proportions considérables, notamment parce qu’ils ont rapidement étendu leurs mesures aux denrées alimentaires et aux aliments pour bétail. Comme les forces armées allemandes se sont longtemps avérées invincibles sur tous les fronts, les Britanniques ont décidé de porter leurs efforts de guerre dans le parachèvement du blocus pour avoir le “front intérieur” à l’usure. Ils perdirent tous scrupules au fur et à mesure qu’ils s’apercevaient que la famine, qui s’installait en Allemagne, était un moyen adéquat pour faire fléchir le peuple allemand. Le blocus, qui entraîna aussi les pays neutres d’Europe dans la même misère que celle que subissaient les Allemands, est devenu plus efficace encore à partir de 1916; après l’entrée en guerre des Etats-Unis en avrl 1917, le blocus était devenu presque totalement étanche; la famine ainsi provoquée est devenue le principal instrument de guerre des Alliés pour précipiter l’effondrement de la résistance allemande.

 

Après l’armistice du 11 novembre 1918, les Alliés ont justifié le maintien du blocus, en évoquant qu’il s’agissait d’un armistice et non pas d’un traité de paix: pour cette raison, l’ennemi ne pouvait pas recevoir l’occasion de retrouver sa combattivité. En pratique, les Alliés ont maintenu le blocus pour obliger les Allemands à accepter les conditions de paix qu’on entendait leur imposer. Le traité instituant l’armistice, signé à Compiègne, prévoit d’ailleurs dans son article 26 que le blocus serait maintenu jusqu’à la conclusion d’un traité de paix.

 

Après plusieurs interventions du chef de la délégation allemande, Matthias Erzberger, les Alliés ont toutefois accepté de compléter l’article 26 en disant “qu’ils prendraient en considération, pendant toute la durée de l’armistice, la nécessité de fournir l’Allemagne en denrées alimentaires dans les proportions estimées nécessaires”. Cette vague promesse est d’abord restée sans suite. La situation désespérée de l’Allemagne s’est encore accentuée après l’armistice parce que le blocus s’est étendu à la Mer Baltique et parce que les commandants des flottes britanniques ont interdit la pêche dans ses eaux. 

 

Certes les Américains, surtout dans le cadre des mesures d’aide prises par Herbert Hoover, futur président des Etats-Unis, ont demandé dès décembre 1918 d’offrir aux Allemands la possibilité d’importer des denrées alimentaires, mais cette pétition est d’abord restée lettre morte. Les responsables britanniques ont commencé à changer d’avis et à assouplir leurs positions intransigeantes, après avoir lu les rapports émanant de leurs troupes d’occupation dans certaines parties de l’Allemagne. Vers la mi-janvier 1919, les Britanniques acceptent que l’Allemagne achète certaines quantités de denrées alimentaires à l’étranger. Mais il fallait d’abord qu’ils livrent leur flotte marchande aux Alliés. Les Allemands ont accepté ce marché et se sont montrés prêts à payer ces importations nécessaires avec leurs réserves d’or, déjà considérablement réduites. Mais les Français avaient déjà envisagé de s’emparer de ces réserves d’or pour se faire payer partie des réparations allemandes. Les chefs de la délégation française ont bloqué tout progrès dans les négociations pendant deux mois entiers en refusant que l’Allemagne paie ses importations de nourriture en or. 

 

Il a fallu attendre mars pour qu’ils cèdent aux pressions croissantes de leurs alliés. A Bruxelles, à la mi-mars, les négociateurs arrivent à un accord dans les pourparlers visant à compléter le traité d’armistice: les Allemands, après avoir livré leur flotte marchande, obtiennent le droit d’importer des denrées alimentaires, à condition de les payer d’avance. Le blocus ne fut pas pour autant complètement levé car cette disposition particulière permettait certes d’importer des denrées alimentaires dans des quantités importantes mais limitées à des cargaisons mensuelles dûment contingentées. En pratique, les assouplissements décidés à Bruxelles ont considérablement soulagé la situation de la population civile allemande. Le 28 mars 1919, quatre mois et demi après la fin des hostilités, le premier navire transportant des denrées alimentaires entre dans un port allemand. La totale liberté d’importer des denrées alimentaires fut rétablie le 12 juillet 1919 seulement, lorsque le blocus dans son ensemble est levé par les Alliés, le jour après la ratification du Traité de Versailles par le Reichstag.

 

Reste la question de savoir combien de victimes supplémentaires a fait le prolongement après l’armistice du blocus, totalement inutile sur le plan militaire. Il n’est plus possible d’en établir le décompte. Pour le Reich allemand (sans l’Autriche), on estime généralement que le blocus a fait quelque 750.000 morts jusqu’à la fin de l’année 1918; ce chiffre ne compte donc pas les victimes de la famine après la signature de l’armistice. Ce nombre de victimes est déduit des calculs statistiques de la mortalité civile pendant la durée du conflit, comparées à celles des années de paix qui ont immédiatement précédé les hostilités. Dans les recherches récentes des historiens allemands, on a tendance à minimiser les effets du blocus allié et de la famine qu’il a provoquée, de même de ne tenir guère compte des mesures prises par les Allemands eux-mêmes ou de leurs négligences: ainsi, les autorités allemandes ont soustrait de la main-d’oeuvre à l’agriculture en mobilisant les hommes dans l’armée; c’est sans compter d’autres facteurs comme l’égoïsme des paysans ou la mauvaise organisation de la distribution de vivres ou encore le rationnement. 

 

Tous ces facteurs ont indubitablement joué un rôle. On peut aussi dire qu’en Grande-Bretagne, pays qui n’était guère touché par la raréfaction des denrées alimentaires, la mortalité civile a augmenté du fait de la guerre, mais cette mortalité est restée bien en-dessous de celle qui a frappé l’Allemagne. Objectivement, il est devenu impossible de distinguer clairement aujourd’hui qui, parmi les victimes civiles allemandes de la Grande Guerre et des mois qui ont suivi l’armistice, est décédé véritablement et uniquement des suites du blocus et de la famine. On peut cependant dire que le nombre de victimes aurait été nettement moindre dans un pays qui aurait pu importer des denrées alimentaires et de la nourriture pour bétail, via les pays neutres. Voilà qui est incontestable. De même, le prolongement des souffrances de la population civile allemande jusque tard dans l’année 1919 a été totalement inutile et insensé.

 

Les historiens allemands contemporains ont tendance à relativiser les aspects les plus détestables de la belligérance alliée. C’est pourquoi l’histoire du maintien du blocus après la cessations des combats n’éveille guère leur intérêt. Ce sont surtout des historiens américains qui ont rassemblé preuves et matériaux sur la question, comme par exemple C. Paul Vincent, dans “The Politics of Hunger”, dont on ne trouve d’exemplaire que dans fort peu de bibliothèques allemandes. En cultivant sa réticence à aborder cette thématique, la recherche historique allemande loupe l’opportunité d’étudier attentivement les conséquences à plus long terme de ce blocus. Elle ne devrait même pas aller aussi loin dans ses hypothèses que l’Américain Vincent, pour qui il existe une corrélation entre la psychologie des enfants sous-alimentés de 1915 à 1919 et la loyauté ultérieure des nationaux-socialistes membres des SS. La sous-alimentation de cette génération a-t-elle eu des répercussions en psychologie profonde, qui disposait ces tranches d’âge à adhérer au national-socialisme? Les réponses que l’on peut apporter à cette question relèvent toutefois de l’ordre de la spéculation. 

 

Cependant, l’expérience à grande échelle de la sous-alimentation et de la famine, éprouvée par la génération née entre 1910 et 1918, a dû nécessairement avoir des répercussions profondes et graves sur les mentalités, quand ces jeunes sont arrivés à l’âge adulte dans les années 30. Dans l’introduction au présent article, je citais l’entrée du “Lexikon der Völkermorde” où on peut lire aussi que Hitler a justifié plus tard sa guerre pour conquérir un “espace vital” (“Lebensraum”), en évoquant justement le blocus allié et la famine qu’il avait provoquée.

 

Dag KRIENEN.

(article publié dans “Junge Freiheit”, n°10/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Note:

(1) “Deutsche Opfer / Hungerblockade 1917/1918”.

mercredi, 30 septembre 2009

L'expédition de Werner Otto von Hentig en Afghanistan (1915-1916)

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Walter RIX:

L’Expédition de Werner von Hentig en Afghanistan (1915-1916)

 

En mars 1915, le Sous-Lieutenant Werner von Hentig, qui combat sur le front russe, reçoit l’ordre de se rendre le plus rapidement possible à Berlin pour se présenter auprès du Département 3b de l’état-major général. Ce Département est un département politico-militaire. Comme il l’écrira plus tard dans ses souvenirs (“Mein Leben – eine Dienstreise” / “Ma vie – un voyage en service commandé”), il s’était distingué, au sein de son unité, en peu de temps, comme un “spécialiste des patrouilles stratégiques, pour la plupart derrière les lignes ennemies”. Cette audace le prédisposait, aux yeux de ses supérieurs hiérarchiques, à l’aventure qu’ils allaient lui suggérer.

 

Werner Otto von Hentig était le fils d’un juriste bien connu à l’époque de Bismarck, qui avait occupé le poste de ministre d’Etat dans l’entité de Saxe-Cobourg-Gotha. En fait, Werner Otto von Hentig était diplomate de formation. Sa promotion était toutefois récente et il n’était encore qu’aux échelons inférieurs de la carrière. Mais, malgré cette position subalterne, il incarnait déjà, avant 1914, une sorte de rupture et surtout il personnifiait une attitude différente face au monde, celle de sa jeune génération. Celle-ci ne considérait plus que le service diplomatique était une sinécure agréable pour l’aristocratie. Déjà lors de sa période de probation, comme attaché à la légation d’Allemagne à Pékin, il avait pu sauver beaucoup de vies lors des troubles de la guerre civile chinoise, grâce à ses interventions, répondant à une logique du coeur. Dans les postes qu’il occupa après la Chine, notamment à Constantinople et à Téhéran, il se distingua par ses compétences. Ce n’est pas sans raison que l’ambassadeur d’Espagne à Paris, Léon y Castillo, Marquis de Muni, porte-paroles de tous les diplomates accrédités dans la capitale française, avait évoqué, dès le 3 janvier 1910, dans les salons de l’Elysée, une “ère nouvelle de la diplomatie”.

 

En 1915, on avait donc choisi Hentig pour une mission tout-à-fait spéciale. Comme tous les experts ès-questions orientales, y compris le futur célèbre indologue Helmuth von Glasenapp, avaient déjà reçu une mission, c’était lui que l’on avait sélectionné pour mener une expédition politique en Afghanistan. Les sources disponibles ne nous rendent pas la tâche facile: sur base de celles qui sont encore disponibles, nous ne pouvons guère décrire avec précision le but exact de cette mission ni définir quelle fut la part dévolue aux Turcs. Hentig écrit dans ses mémoires: “Après que le front occidental se fût figé, on songea à nouveau à frapper l’Angleterre par une opération politique au coeur de son Empire, l’Inde. Ce fut la visite du Kumar d’Hatras et de Mursan Mahendra Pratap au ministère allemand des affaires étrangères, puis au quartier général impérial, qui constitua le déclic initial”. De plus, l’idée avait reçu l’appui d’un docte juriste musulman, Molwi Barakatullah.

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Au départ de Kaboul, les Allemands voulaient soulever contre l’Angleterre toute la région instable (et qui reste instable aujourd’hui) entre l’Afghanistan et l’Inde de l’époque. De Kaboul également, ils voulaient introduire l’idée d’indépendance nationale dans le sous-continent indien. Les alliés indiens dans l’affaire étaient deux personnalités vraiment inhabituelles, décrites de manières fort différenciées selon les rapports que l’on a à leur sujet. Mursan Mahendra Pratap, quoi qu’on ait pu dire de lui, était un patriote cultivé; il appartenait à l’aristocratie indienne et avait consacré toute sa fortune à soulager les pauvres. Il voulait créer une Inde indépendante qui aurait dépassé l’esprit de caste. Barakatullah s’était rendu à Berlin en passant par New York, Tokyo et la Suisse. Au départ de la capitale prussienne, il voulait amorcer le combat contre la domination impérialiste anglaise.

 

Hentig posa une condition pour accepter la mission: il voulait que celle-ci soit menée comme une opération purement diplomatique et non pas comme une action militaire. Pour attirer le moins possible l’attention, le groupe devait rester petit. Outre les deux amis indiens, Hentig choisit encore deux “hodjas”, des dignitaires islamiques, et, parmi les 100.000 prisonniers de guerre musulmans de l’Allemagne, dont la plupart avaient d’ailleurs déserté, il sélectionna cinq combattants afridis très motivés, originaires de la région frontalière entre l’Afghanistan et le Pakistan actuel. Ces hommes se portèrent volontaires et ne posèrent qu’une seule condition: être équipés d’un fusil allemand des plus précis. A l’expédition s’ajoutèrent le médecin militaire Karl Becker, que Hentig avait connu à Téhéran, et un négociant, Walter Röhr, qui connaissait bien la Perse. L’officier de liaison de l’armée ottomane était Kasim Bey, qui avait le grade de capitaine. Le groupe partit avec quatorze hommes et quarante bêtes de somme. A Bagdad, ils rencontrèrent un autre groupe d’Allemands, dirigé, lui, par un officier d’artillerie bavarois, Oskar von Niedermayer. Ces hommes-là, aussi, devaient atteindre Kaboul, mais leur mission était militaire (cf. “Junge Freiheit”, n°15, 2003).

 

En théorie, l’Iran était neutre mais sa partie septentrionale était sous contrôle russe tandis que le Sud, lui, se trouvait sous domination anglaise. Hentig, pour autant que cela s’avérait possible, devait progresser en direction de l’Afghanistan en évitant les zones contrôlées par les Alliés de l’Entente. Cette mesure de prudence l’obligea à traverser les déserts salés d’Iran, que l’on considérait généralement comme infranchissables. Les souffrances endurées par la petite colonne dépassèrent les prévisions les plus pessimistes. Elle a dû se frayer un chemin dans des régions que Sven Hedin, en tant que premier Européen, avait explorées dix ans auparavant. Il faudra encore attendre quelques décennies pour que d’autres Européens osent s’y aventurer. Même si les Russes et les Britanniques mirent tout en oeuvre pour empêcher la colonne allemande d’accomplir sa mission, celle-ci parvint malgré tout à franchir la frontière afghane le 21 août 1915. Dès ce moment, les autorités afghanes agirent à leur tour pour empêcher tout contact entre Hentig et ses hommes, d’une part, et la population des zones montagneuses du Nord du pays, d’autre part. Hentig constata bien vite l’absence de toute structure de type étatique en Afghanistan et remarqua, avec étonnement, que les tribus du Nord, qui ne pensaient rien de bon du pouvoir de Kaboul, voyaient en lui le représentant de leurs aspirations. En tout, le pays comptait à l’époque au moins trente-deux ethnies différentes et quatre grands groupes linguistiques.

 

Hentig ne disposait que d’une faible marge de manoeuvre sur le plan diplomatique. Les Anglais, pourtant, en dépit de pertes considérables, ne s’étaient jamais rendu maîtres du pays, ni en 1839 ni en 1879 mais ils avaient appliqués en Afghanistan le principe du “indirect rule”, de la “domination indirecte”, et avaient transformé le roi en vassal de la couronne britannique en lui accordant des subsides: l’Emir Habibullah recevait chaque année des sommes impressionnantes de la part des Anglais. En même temps, le vice-roi et gouverneur général des Indes, Lord Hardinge of Penthurst, veillait à ce que le roi afghan n’abandonne pas la ligne de conduite pro-anglaise qu’on lui avait suggérée. Enfin, les services secrets britanniques, que Rudyard Kipling a si bien décrits dans son roman “Kim”, étaient omniprésents. Dans un tel contexte, le roi ne songeait évidemment pas à pratiquer une politique d’équilibre entre les puissances, a fortiori parce que l’Italie avait quitté la Triplice, parce que la Russie avait lancé une offensive dans le Caucase et parce que les succès de l’armée ottomane se faisaient attendre.

 

Hentig décida alors d’appliquer le principe qu’utilisaient les Britanniques pour asseoir leur domination: obtenir l’influence politique en conquérant les esprits de la classe sociale qui donne le ton. L’Allemagne n’était pas entièrement dépourvue d’influence en Afghanistan à l’époque. A Kaboul, dans le parc des pièces d’artillerie de l’armée afghane, Hentig découvre de nombreux canons de montagne fabriqués par Krupp, avec, en prime, un contre-maître de cette grande firme allemande, un certain Gottlieb Fleischer. Celui-ci aurait été tué par des agents britanniques tandis qu’il quittait le pays, selon la légende. 

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Systématique et habile, Hentig parvint à obtenir l’oreille des décideurs afghans, en jouant le rôle du conseiller bienveillant. Il fut aider dans sa tâche par un groupe d’hommes de l’entourage d’une sorte de chancelier , Nasrullah Khan, un frère de l’Emir. Ce groupe entendait promouvoir l’idée d’une indépendance nationale. En très peu de temps, Hentig a donc réussi à exercer une influence considérable sur ce groupe nationaliste ainsi que sur le jeune prince Habibullah. Finalement, l’Emir lui accorda à son tour toute son attention. Celui-ci, selon une perspective qualifiable de “féodale”, considérait que le pays était sa propriété privée. Hentig tenta de lui faire comprendre les principes d’un Etat moderne. Sans s’en rendre compte, il jeta les bases du combat afghan pour l’indépendance nationale. L’Emir s’intéressa essentiellement au principe d’un budget d’Etat bien ordonné car cela lui rapporterait davantage en impôts que tous les subsides que lui donnaient les Anglais.

 

Le roi trouvait particulièrement intéressante la recommandation de dissimuler tous ses comptes au regard des Anglais, de soustraire sa fortune à la sphère d’influence britannique. Rétrospectivement, Hentig notait dans ses mémoires: “Nous ne subissions plus aucune entrave de la part de l’Emir, bien au contraire, il nous favorisait et, dès lors, notre influence s’accroissait dans tous les domaines sociaux, politiques et économiques de la vie afghane”. En esquissant les grandes lignes d’un système fiscal, en insistant sur la nécessité d’un service de renseignement et en procurant aux Afghans une formation militaire, Hentig parvint à induire une volonté de réforme dans le pays. Les connaissances qu’il a glanées restent pertinentes encore aujourd’hui. Ainsi, sur le plan militaire, il notait: “Nous considérions également qu’une réforme de l’armée s’avérait nécessaire. Dans un pays comme l’Afghanistan (...), on ne peut pas adopter une structure à l’européenne, avec des corps d’armée et des divisions, mais il faut, si possible, constituer de petites unités autonomes en puisant dans toutes les armes; de telles unités sont les seules à pouvoir être utilisées dans ces zones montagneuses sans voies praticables. L’Afghanistan doit également envisager des mesures préventives contre les bombardements aériens, qui ont déjà obtenu quelques succès dans les régions frontalières”.

 

La pression croissante de l’Angleterre obligea Hentig à se retirer le 21 mai 1916. Une nouvelle marche à travers la Perse lui semblait trop dangereuse. Il choisit la route qui passait à travers l’Hindou Kouch, le Pamir, la Mongolie et la Chine. Sur cet itinéraire, il fut une fois de plus soumis à de très rudes épreuves, où il faillit mourir d’épuisement. A la première station télégraphique, il reçut des directives insensées de la légation allemande de Pékin, qui n’avaient même pas été codées! Hentig s’insurgea ce qui le précipita dans une querelle de longue durée avec le ministère des affaires étrangères.

 

En février 1919, l’Emir Habibullah fut tué de nuit dans son sommeil, dans sa résidence d’hiver de Djalalabad. Son frère, Nasrullah Khan, fut problablement l’instigateur de cet assassinat. Le Prince Amanullah, qui avait été très lié à Hentig, pris la direction des affaires. En mai 1919 éclate la troisième guerre d’Afghanistan qui se termina en novembre 1920 par la Paix de Rawalpindi, qui sanctionna l’indépendance du pays. Dès 1921, Allemands et Afghans signent un traité commercial et un traité d’amitié germano-afghan.

 

En février 1928, Amanullah, devenu roi, est en visite officielle à Berlin. Le ministère des affaires étrangères en veut toujours à Hentig et tente par tous les moyens d’empêcher une rencontre entre le souverain afghan et le diplomate allemand. Pour contourner cette caballe, la firme AEG suggère à Hentig de  participer à une visite par le roi des usines berlinoises du consortium. Pendant sa visite, le roi découvre tout à coup son ancien hôte et conseiller, quitte le cortège officiel, se précipite vers lui et le serre dans ses bras devant tout le monde. Le roi insiste pour que Hentig reçoive une place d’honneur dans le protocole. Le Président du Reich, Paul von Hindenburg, exige du ministère des affaires étrangères qu’il explique son comportement étrange. 

 

En 1969, lorsque Hentig avait quatre-vingt-trois ans, il fut invité d’honneur du roi Zaher Shah à l’occasion des fêtes de l’indépendance. Hentig profita de l’occasion pour compulser les archives des services secrets de l’ancienne administration coloniale britannique, qui étaient restées au Pakistan. Ce fut pour lui un plaisir évident car les Américains s’étaient emparé de ses propres archives après la défaite allemande de 1945 et ne les ont d’ailleurs toujours pas rendues. Dans les dossiers secrets de l’ancienne puissance coloniale britannique, Hentig découvrit bon nombre de mentions de sa mission; toutes confirment ce qui suit: l’expédition allemande a créé les prémisses du mouvement indépendantiste afghan et donné une impulsion non négligeable aux aspirations indiennes à l’indépendance.

 

Walter RIX.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°39/2009; trad. française: Robert Steuckers). 

Die Vorgeschichte des deutschen Volkes

Schröcke, Helmut (Hg.)
Die Vorgeschichte des deutschen Volkes

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€ 34,80


816 Seiten
gebunden
Leinen
ca. 600 Abbildungen
ISBN-13: 978-3-87847-239-1
sofort lieferbar!

Kurztext:

In diesem Werk zu 7000 Jahren der Ur- und Frühgeschichte Deutschlands behandelt Helmut Schröcke die Entstehung und Entwicklung der Indogermanen, Germanen, der deutschen Stämme und der Slawen, ihre Kultur, Wirtschafts- und Siedlungsgeschichte und Kunst nach der wissenschaftlichen Originalliteratur bis 1000 n. d. Zt. Das deutsche Volk ist das einzige große Volk der gesamten indogermanischen Völkerfamilie, das bis heute überlebte. Um ein Drittel erweiterte Neuauflage des 2003 unter demselben Titel erschienenen Buches.

Langtext

Nach Jahrzehnten erfolgreicher Ausgrabungen und der überaus ertragreichen Anwendung moderner archäologischer Methoden liegt hiermit eine zusammenfassende Darstellung der mittel- und osteuropäischen Vor- und Frühgeschichte vor, die viele neue Erkenntnisse vermittelt und mit alten Vorurteilen – zum Beispiel der Meinung des ›ex oriente lux‹ – aufräumt. Insbesondere lassen statistische Auswertungen aus großen Gräberfeldern Änderungen in der Zusammensetzung der jeweiligen Bevölkerung erkennen. Seit den Zeiten der Indogermanen läßt sich damit für Mitteleuropa eine in ihrer Art gleichbleibende Bevölkerung feststellen.

Die Geschichte der einzelnen aufeinander folgenden Kulturen wird über mehr als 7000 Jahre ebenso ausführlich dargestellt wie das spätere Schicksal der einzelnen Germanenstämme von der römischen Zeit bis ins Mittelalter. Kunst und Religion, Waffentechnik und Führungshierarchien, Siedlungsformen und Wirtschaftsarten werden behandelt, wobei viele Abbildungen – auch in Farbe – die Beschreibung ergänzen. Das deutsche Volk erweist sich als einziges großes Volk Europas, das in seiner Geschichte nie biologisch überfremdet wurde und seine Sprache aus dem Indogermanischen über das Germanische zur deutschen Hochsprache ohne Bruch entwickeln konnte.

Klappentext:

Seit der Mitte des vergangenen Jahrhunderts haben moderne archäologische Forschungsweisen wie die Radiocarbon- und Lumineszenz-Methode, die Dendrochronologie oder die statistische Anthropologie unser Bild von der Vor- und Frühzeit Mitteleuropas wesentlich erweitert. Viele neue Ausgrabungen in Rußland und im übrigen Osteuropa brachten wertvolle Funde. Zusammen haben sie überraschende Ergebnisse gebracht, zum Beispiel: Die Großsteingräber Nordwesteuropas haben sich als viel älter als die des Vorderen Orients erwiesen, die ältesten Wagen und Räder sind in Norddeutschland gefunden worden, und die früher nach dem Motto ›Ex oriente lux‹ angenommenen Kulturübermittlungen aus Vorderasien nach Mitteleuropa haben ihre Richtung gewechselt.

Das vorliegende Werk des Münchener Ordinarius faßt aus den verschiedenen Wissenschaftsbereichen die neuen Ergebnisse zur Vor- und Frühgeschichte Mit- tel- und Osteuropas, zu denen wesentlich auch die Sprachforschung gehört, in umfassender Weise zusammen. Dabei werden auch eingehend die aussagekräftigen Meßergebnisse aus der vor allem von der Arbeitsgruppe um die verdiente Anthropologin Ilse Schwidetzky erstellten Mainzer anthropologischen Datei statistisch ausgewertet. Auf überzeugende Weise kann dadurch mit Methoden der exakten Naturwissenschaften nachgewiesen werden, daß seit dem Ende der jüngeren Steinzeit die Landschaften zwischen Rhein und Oder, die Urheimat der Indogermanen, stets von artgleichen Menschen besiedelt wurden, daß also insbesondere für das Gebiet Deutschlands seit den Zeiten der Ur-Indogermanen Bevölkerungskontinuität bestand.

Diese frühe Entwicklung der aufeinanderfolgenden, heute greifbaren und von ihren Nachbarn absetzbaren Kulturen wird im einzelnen geschildert, insbesondere die kulturelle Revolution am Ende des Neolithikums mit dem Beginn der Seßhaftigkeit und intensiver landwirtschaftlicher Wirtschaftsmethoden. Schon vor der Bronzezeit, einem kulturellen Höhepunkt für Nordeuropa, war mit der Bildung der Germanen und der Abtrennung deren Sprache vom Indogermanischen ein weiterer wichtiger Schritt getan.

In den Jahrhunderten v. d. Ztw. erfolgt dann die Ausbreitung der Germanen nach Süden und Südosten bis zum Schwarzen Meer, die in die eigentliche Völkerwanderung ab 375 n. d. Ztw. einmündet. Für diese Zeiten werden die einzelnen germanischen Stämme auch namentlich und mit ihren Anführern und Königen durch Überlieferung antiker Schriftsteller greifbar. Wie diese Stämme – auch in Auseinandersetzungen mit Rom – zu Völkern werden und Staaten gründen – zum Teil in der Fremde, wo sie nach Jahrhunderten untergehen –, wird ausführlich beschrieben.

Insbesondere wird nach einer Darstellung der gesamten historischen Entwicklung bis ins Mittelalter das Schicksal jedes einzelnen der dabei auftretenden germanischen Stämme untersucht. Dabei ergeben sich neue Erkenntnisse, etwa zur Bildung des späteren Stammes der Baiern oder zur Herkunft der heute als ›Slawen‹ bezeichneten Völker. Mit den anthropologischen Forschungsergebnissen aus der Auswertung von Funden aus frühen Friedhöfen sowie aus der Betrachtung alter Schrift- Quellen wird überzeugend bewiesen, daß die noch immer meist als eigene Sprachgruppe neben den Germanen angesehenen ›Slawen‹ später nach Westen eingedrungene Nachkommen der lange Zeit abgetrennt von der übrigen germanischen Welt im Osten lebenden Ostvandalen sind.

Somit beruht der im vergangenen Jahrhundert zu den furchtbaren Auseinandersetzungen zwischen Deutschen und den Ostvölkern bis hin zur Vertreibung der Deutschen aus Ostdeutschland führende Panslawismus mit seinen Gegensätzen zwischen ›Slawen‹ und Germanen auf einem geschichtlichen Irrtum über die Herkunft der Slawen. Für die Deutschen ergibt sich unter anderem, daß sie mindestens bis 1945 das einzige große Volk Europas waren, das sich jahrtausendelang ohne Überfremdung in eigener Art erhalten und seine Sprache ohne Bruch weiterentwickeln konnte.

Über den Autor:

HELMUT SCHRÖCKE, Prof., wurde 1922 in Zwickau geboren.

mardi, 29 septembre 2009

Pourquoi Patrick Buchanan a été si rapidement évincé...

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

 

 

Pourquoi Patrick Buchanan a été si rapidement évincé...

 

Avant les primaires déjà, j'ai reçu une dépêche de Lucera, dans laquelle Siegfried Ostertag présentait une vision d'horreur: en Amérique, Patrick Buchanan pourrait bien rassembler sous sa bannière tant de nouveaux électeurs qu'en automne 1996, il deviendrait le concurrent républicain direct de Bill Clinton et chasserait peut-être celui-ci de son mandat.

 

En effet, lors des premières pré-élections, Buchanan a engrangé des résultats spectaculaires. Les intellectuels de la Côte Est se sont mis à hurler. Leurs satellites européens, avec les Allemands en tête, ont pâli. Josef Joffe appelle Buchanan “le marchand de peur” dans les colonnes de la Süddeutsche Zeitung, le 6 mars. Mais qui a peur dans le scénario? L'établissement d'Outre-Atlantique! Il a peur, grand'peur, de perdre ses pouvoirs.

 

Un flot d'injures s'est déversé sur Buchanan, flot qui n'a cessé de croître pour s'amplifier et devenir une véritable campagne diffamatoire. Hier on l'accusait d'être un “extrémiste de droite”; aujourd'hui, on le traite de “Jirinovski américain”. Ce qui est assurément plus sulfureux... A peine cette comparaison avait-elle été prononcée, que l'homme-qui-fait-un-malheur-à-Moscou la reprend à son compte et nomme Buchanan son “frère d'arme”. L'homme qui parodie la renaissance du nationalisme projette son ombre jusqu'au-delà de l'Atlantique... Et la campagne a continué: Buchanan est évidemment devenu un national-socialiste qui marchait dans les pas d'Adolf Hitler.

 

Le trouble-fête, d'élections anticipées en élections anticipées, a été systématiquement refoulé, battu, évincé. Mais les médias ont voulu être bien sûrs que cette éviction était définitive: même battu, Buchanan a encore été victime de manipulations savamment orchestrées. Dès les primaires de New York, le 7 mars, Buchanan avait des difficultés à se placer sur une liste. Son propre parti, qui prétend défendre la “vraie liberté américaine” face aux Démocrates, ne s'est pas géné pour faire passer le mot d'ordre bizarre “to stop Pat” avec des moyens totalitaires.

 

Cette attitude est pour le moins bizarre, car en stoppant Buchanan, les Républicains ont arrêté leur propre progression. Quelques jours après ces efforts pour éliminer leur candidat le plus populaire, plus aucun pronostic n'annonçait leur victoire. Mais ces prévisions pessimistes ne sont pas dues à l'absence de profil défini de Bob Dole, qui jouit apparemment de l'augmentation du nombre de ses électeurs et ne leur dit que des banalités: «Je ne suis pas un bavard. Je suis un homme d'action». Effectivement, Dole n'est pas un bavard, son discours ne reflète aucune verve, mais il n'est pas davantage l'homme d'action qu'il prétend être.

 

Les Républicains ont connu un succès retentissant il y a dix-huit mois en arrachant la majorité au Sénat et dans la Chambre des représentants: ce fut un séisme politique, mais il ne fut pas exploité car les Républicains ne sont pas parvenus à se faire entendre à l'assemblée et à exercer les pressions nécessaires sur l'établissement. Bob Dole et Newt Gingrich ont canalisé les flots protestataires émanant du peuple américain en direction de leur parti, mais ils les ont ensuite laissé stagner et mourir. Le porte-paroles le mieux profilé de cette protestation était Patrick Buchanan; aujourd'hui, réduit au silence, il ne pourra plus profiter des contestations et des protestations du peuple pour porter son parti au pouvoir.

 

Buchanan incarne aujourd'hui aux Etats-Unis un large front composé de mouvements de citoyens réagissant vigoureusement contre la décadence de l'Amérique, qui, le soir de la Saint-Sylvestre, a nommé, par la voix du Washington Post, Gengis Khan “homme du siècle”! L'impulsion fondamentale de cette profonde vague de protestation conservatrice est dirigée contre Wall Street et contre le pouvoir fédéral de Washington. Elle allie le “mouvement des culs-terreux” (les fermiers), d'une part, à celui des “Knights of Labor” (= “Les Chevaliers du Travail”) présents dans les grandes villes, d'autre part, dans un combat général contre les menaces que font peser la grande industrie et l'oligarchie financière sur la simple existence quotidienne de millions de citoyens modestes. A cette lutte contre la misère menaçante s'associe un autre combat, plus fondamental celui-là, contre l'abrutissement généralisé et la dépravation morale qu'apportent l'industrie des loisirs et les mass-media, ainsi qu'une lutte contre la libanisation du pays, due à la faillite totale du modèle multiculturel: aujourd'hui, effectivement, toutes les catégories sociales ou raciales de la population se sentent d'une façon ou d'une autre discriminées.

 

Cette Amérique frustrée lutte aujourd'hui pour avoir un accès direct à l'espace publique-médiatique, qui n'est finalement pas aussi solidement verrouillé qu'en Allemagne [et dans le reste de l'Europe]. Et cette Amérique frustrée est armée. Les “Sovereign Citizens” (= les Citoyens Souverains) s'exercent désormais à la résistance armée contre la violence “légale” de l'Etat.

 

Le mélange de frustration et de combativité qui s'observe actuellement aux Etats-Unis est explosif. Mais si Buchanan a voulu apporter des remèdes aux maux intérieurs de l'Amérique, il a également voulu changer sa politique extérieure, et de façon radicale. Le 19 février 1990, il avait publié un article sur la questions des frontières orientales de l'Allemagne dans le Washington Times  (et 250 journaux américains et canadiens l'avait reproduit!); le 22 octobre 1990, dans les pages de The New Republic, il se rapprochait dangereusement des révisionnistes, en niant quelques aspects de la culpabilité allemande dans le génocide. Certes, l'objectif de Buchanan n'était pas de déployer une politique anti-polonaise ou d'intervenir dans les débats en faveur des révisionnistes, mais, plus précisément, de changer de stratégie planétaire, d'abandonner les anciens alliés russes, français et britanniques de la seconde guerre mondiale, et de renforcer considérablement les liens qui unissent Washington à ses “demi-alliés”, aux ennemis d'hier, l'Allemagne et le Japon. Peut-être se souvient-on subitement dans certains cercles politiques américains que les bons rapports entre les Etats-Unis et la Prusse, de Frédéric II à Bismarck, ont bénéficié aux deux partenaires.

 

Cette mutation potentielle des alliances a fait frémir les gardiens de l'ordre d'après 1945: ils ont conjugué tous leurs efforts pour bloquer l'ascension vertigineuse de Buchanan. Mais cela ne signifie pas pour autant que les forces innovatrices des Etats-Unis ont connu un échec durable. Le Parti Républicain n'a pas été capable de digérer les revendications de la base populaire, mais il est le seul à leur avoir donné momentanément une tribune. Aux dernières nouvelles, Buchanan songerait à se présenter comme candidat indépendant face à Dole et à Clinton. La rénovation de l'Amérique est retardée de quatre ans, sauf si le chaudron bouillonnant que sont devenus les States n'explose pas avant. Le XXIième siècle frappe à la porte...

 

Hans-Dieter SANDER.

(ex Staatsbriefe, Nr. 2-3/96).

mercredi, 23 septembre 2009

Aspects économiques de la révolution française

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Aspects économiques

de la Révolution Française

par Bernard NOTIN

 

«La Révolution fut provoquée par les abus d'une classe revenue de tout, même de ses privilèges, auxquels elle s'agrippait par automatisme, sans passion ni acharnement, car elle avait un faible ostensible pour les idées de ceux qui allaient l'anéantir. La complaisance pour l'adversaire est le signe distinctif de la débilité, c'est à dire de la tolérance, laquelle n'est en dernier ressort qu'une coquetterie d'agonisants».

Cioran, Ecartèlement, Gallimard, 1979, p. 30.

Tout découpage dans le déroulement continu du temps global peut paraître arbitraire, et plus arbi­traire encore celui qui se désintéresse des dates "historiques". Le mouvement de la pensée nous offre l'ensemble du XVIIIième siècle pour com­prendre la formation économique des révolu­tionnaires. La périodisation des faits ne peut s'appuyer sur le commencement de la Révo­lu­tion, mais plutôt sur 1778, date à laquelle in­ter­viennent d'une part la guerre d'Amérique et les dépenses qu'elle occasionne, d'autre part la fer­me­ture de certains marchés (surtout pour les vins), l'ouverture de la plupart des ports es­pa­gnols au commerce d'Amérique, ce qui vivifie l'activité économique de la péninsule ibérique. Tout cela contribue à expliquer la gêne écono­mique française à la veille de 1789. De plus, les figures de proue disparaissent dans ce laps de temps: Rousseau (1712-1778), Voltaire (1694-1778), Diderot (1884). Après que la pièce eut été écrite, le spectacle pouvait commencer. On est aussi tenté de se référer à une trinité solide. Avant la Révolution, l'agriculture périclite: c'est une période de stagnation et de baisse des prix qui dure jusqu'en 1787. Le marasme unit les difficultés des rentiers et des entrepreneurs, des bourgeois et des petits propriétaires, aux mi­sères de la masse (1). Ensuite, la Révolution qui perturbe les conditions générales de l'activité économique. Enfin, les lendemains qui chan­tent ou déchantent: ruine du grand commerce, stagnation du secteur agricole et... première pha­se de la révolution industrielle. La Révo­lu­tion crée aussi un lien entre ceux qui ont tra­ver­sé la même tourmente et rapproche la pen­sée d'hom­mes assez différents. La distance semble très gran­de entre les scolastiques, les mer­canti­listes, la "secte" physiocra­ti­que. Or, ce triple sceau marquera les consensus et dissen­sus éco­nomiques des révolution­naires.

Le modèle newtonien

La Révolution, au sens le plus large, est d'abord dans l'esprit: elle est dans l'intelligibilité du monde à partir du mo­dèle Newtonien et dans la méthode d'analyse des faits socio-économiques. Elle est aussi l'irruption et l'éruption de forces souterraines obscurément en travail, rassem­blées dans la formule du "double corps" de l'E­tat. Enfin, de près comme de loin, car c'est la même chose, le bilan matériel s'inscrira tout en nuance. Comme Fabrice del Dongo, nous n'y ver­rons ni victoire, ni défaite, mais, contraire­ment à lui, des laissés pour compte et des profi­teurs.

I. Les principes de la pensée économique

Au milieu du XVIIIième siècle a été atteint un seuil critique: des idées qui flottaient dans l'espace mental atterrissent et s'imposent. La pensée théorique s'incarne de plus en plus dans la réalité concrète des hommes. L'originalité du siècle tient à cette tentative de faire déboucher la réflexion dans l'action, sous la direction de mo­narques "éclairés" par la lumière philoso­phi­que. Louis XVI en était lorsqu'il confia le pou­voir à Turgot, imbibé d'encyclopédie et de phy­siocratie. Les essais de réforme se heurtent aux privilégiés qui évoluent cependant au sein du même univers mental, le paradigme newto­nien: les divergences ne s'étaleront qu'au mo­ment d'ar­ticuler contenu politique et fonction­nement économique.

L'Europe des Lumières rassemble sans distinc­tion de frontières un grand nombre d'esprits au­tour d'idées communes: l'invocation de Newton. G. Gusdorf insiste sur l'absence de Des­cartes qui ne compte que "quelques défen­seurs au XVIIIiè­me siècle, le plus souvent en dehors de monde scien­tifique" (2). Le développement du savoir privilégie la physique et la biologie car les mathématiques sont en retrait pour deux rai­sons: elles ne paraissent pas ouvrir la voie à la connaissance expérimentale et détournent des recherches sur l'origine de nos idées, traitées comme des évidences intrinsèques. Sur ce socle physico-biologique germera une nouvelle ap­proche de la société, accordant à l'économie un grand rôle. Les intérêts sont rehaussés au ni­veau des passions et, ensemble, préoccupent le siècle, puis partagent les révolutionnaires selon une ligne inspirée de Quesnay d'un côté et de Rousseau et Necker d'autre part.

Consensus newtonien

La science newtonienne a été diffusée en France par Voltaire. L'Anglais John Locke, dont l'œu­vre a si fortement influencé les révolution­nai­res, était un ami de Newton. L'Ecossais David Hume, en 1739, dans son Traité de la na­ture hu­maine, affirmait que la science de l'homme se­rait une science au sens newtonien du terme. Or, Hume a eu un ascendant sur Condillac, Adam Smith, les "Idéologues" (ceux-ci traduiront l'œu­vre d'Adam Smith excellem­ment résumée par Condorcet) (3). James Bentham (1748-1832) se proposait de devenir le Newton du monde moral. Tout ce petit monde, essentiel pour com­prendre la formation intellec­tuelle des révolu­tion­naires, est donc newtonien. Il semble que ce dernier ait ouvert la voie au pro­grès de la con­naissance en dégageant la phy­sique de la simple imagination. Surtout, il a af­firmé l'existence d'un monde composé de ma­tière et de mouve­ment. Par l'attraction, une in­telligibilité unique embrasse l'ensemble de réel. L'autorité de cette synthèse lui vaudra d'être uti­lisée à tout propos. Bon nombre d'auteurs en re­tiennent la distinc­tion entre causes et lois, et la possibilité d'une expression mathématique sans fondements mé­ta­physico-théologiques. Newton rend possible la recherche de formes d'intelligibilité hors de la transcendance et permet de fonder les sciences de l'homme sur le modèle de la science des cho­ses. De manière très générale, la compré­hen­sion doit passer par les stades successifs de l'ob­servation, de l'expérimentation, et de la théorie mathéma­tique. La science expérimentale trouve ici droit de cité, jusqu'à devenir un véritable phénomène d'époque et à servir d'amusement à la veille de la Révolution. Le désir d'enseigner la physique expérimentale une fois les jésuites expulsés (1762), sera décisif dans la création des écoles techniques, où se formera une élite de la compé­tence, qui trouvera dans la Révolution un moyen d'exprimer ses capacités. Saint-Simon, prophète de l'aristocratie scientifique, fut un grand ad­mirateur de Newton. En cette seconde partie du XVIIIième siècle, la cause est enten­due: les règles de la vraie méthode ont été for­mu­lées une fois pour toutes. La question est alors de savoir s'il faut interpréter cette certitude au seul niveau de la connaissance du monde ou si elle s'étend à la réalité elle-même. Y-a-t-il dualité ou unité des causes physiques et des causes mo­rales? Si Turgot admet la dualité, c'est parce que le do­maine humain est soumis au progrès. Mais les physiocrates cherchent à déduire toute l'or­ga­nisation économique et sociale d'un prin­cipe unique et A. Smith étudie et enseigne la "phi­lo­sophie morale", véritable science des mœurs con­çue sur le modèle de celle de la na­ture. Il n'est pas jusqu'à la franc-maçonnerie qui, pour se donner l'illusion de penser, publie sous la plume de son réformateur le plus illustre, Dé­sa­guliers (1683-1742), un dithyrambe newto­nien en 1728. La philosophie de la nature (qui dé­signe alors la science) s'infiltrera aussi dans le rêve d'une "philosophie" de l'histoire, connais­sance susceptible de permettre aux hommes la maîtrise de leur destinée. Les têtes pensantes de la Ré­vo­lution en étaient imbibées.

Priorité des faits sur les idées

La conversion générale à la science incite, en tous domaines, à donner priorité aux faits sur les idées. La conséquence en est un découragement spéculatif et une priorité reconnue à l'analyse sur la synthèse. La notion de système doit donc subir une reformulation pour ne pas se discrédi­ter. Turgot fournira les moyens lors de l'éloge de V. de Gournay, précurseur des physiocrates. Il existe un mauvais sens du mot système, "sup­po­sitions arbitraires par lesquelles on s'efforce d'expliquer tous les phénomènes, et qui, effecti­ve­ment, les explique tous également, parce qu'ils n'en expliquent aucun" (4). Il y op­pose un sens plus favorable, où "un système si­gnifie une opinion adoptée mûrement, appuyée sur des preu­ves et suivie de ses conséquences". De contem­pla­tive, la science se fait opérative et technique: elle doit servir les utilités de l'homme et re­grou­per, pour être effective, les énergies. Peu à peu, la civilisation tradition­nelle incarnée par la pen­sée scolastique et l'autorité royale tournée vers la puissance et la gloire se disloque, le para­dig­me newtonien œu­vrant pour transformer le mi­lieu. Pendant des siècles, l'univers mental a­vait reposé sur la su­bordination de l'Eglise à Dieu, du fidèle à l'Eglise, du citoyen au service de l'Etat. A la fin du XVIIIième siècle, cette pers­pective se trouve inversée. Les ré­vo­lu­tion­nai­res légitimeront en droit un ordre social qui s'ins­talle au cours du siècle, et dont la dimension éco­nomique ne prend de relief que dans le contexte global d'une nouvelle morale, d'une autre spi­ri­tualité, d'une anthropologie différente.

La triade pré-révolutionnaire

L'attitude caractéristique des philoso­phes du XVIIIième siècle est de traiter tous les docteurs scolastiques de "casuistes" avec le plus profond mépris. R. de Roover (5) précise que la doctrine de l'usure, en particulier, est fortement attaquée par Turgot, Condillac, les physiocrates. En Fran­ce, la loi qui légalisera les clauses contrac­tuelles autorisant le versement d'intérêts ne ver­ra le jour que le 12 octobre 1789: la Révolution mar­quait la fin d'un monde.

Les scolastiques ne diabolisaient pas le com­merce, mais lui préféraient l'agriculture car la tentation de succomber à l'usure y était moindre. Les mercantilistes avaient adopté le point de vue inverse: le commerce est la plus noble des pro­fessions. Alors que l'éco­nomie scolastique s'af­fir­mait universel­le en ce qu'elle cherchait les lois assurant la justice, les mercantilistes ne disposèrent jamais d'une doctrine ou d'une mé­thode unifiées. En France, le terme de colber­tisme résume correctement la politique écono­mique inspirée par l'idée d'une plus grande res­ponsabilité du pouvoir dans la gestion du pays. Pourtant, cette action fut fermement critiquée par Vauban (1646-1714) et surtout son cousin Boisguillebert (1646-1714) dont la réflexion fis­cale et la conception de l'économie comme sys­tème annoncent les physiocrates et la nouvelle perception de l'Etat. Boisguillebert écrit du point de vue souverain tout en critiquant les idées mercantilistes. Il existe donc, en ce début du XVIIIième, une possibilité de réflexion écono­mique sans référence ni à l'univers scolastique ni au libre-échange et qui s'infiltrera dans les mentalités jusqu'à la fin du siècle.

L'idée d'ordre naturel relie la pensée scolas­tique aux hommes de la Révolution. "De concept éthico-juridique, la loi naturelle devient pro­gres­sivement concept analytique" (6).

L'essor de la science expérimentale et de l'intel­li­gibilité analytique autorise les physio­crates à proposer un schéma conforme à la na­ture. En même temps, l'économie acquiert une auto­no­mie que lui déniait les docteurs scolas­tiques: elle cesse d'être partie d'un ensemble plus vaste pour devenir, avec les mercantilistes, une col­lection de règles pratiques d'enrichissement. Les fondements de l'intervention sur les prix, les critiques fiscales, s'inspirent tout autant de l'héritage intellectuel scolastique que d'une vo­lonté de servir l'Etat. Incarné par son souverain depuis que la pensée politique s'est émancipée du religieux, promou­vant dans le mouvement un nouveau concept de pouvoir. Selon Louis Dumont (7), il en est résulté l'idée d'une consistance des activités produc­tives et commerciales, de sorte que la formation des équilibres et des désé­qui­libres de quantités ne devait plus s'expliquer par la volonté d'en haut, divine ou étatique, ni par le hasard, mais par des mécanismes qu'il fallait observer et analyser. Il a fallu la réunion de deux condi­tions: la dissociation du politique et de l'économique et la transition d'une attitude normative à une attitude positive. Au XVIIIième siècle, l'in­di­vidu a suffisamment droit de cité pour rendre possible la théorie économique, mais à condition de rester subsumé dans un en­sem­ble. On décèle dans la pensée économique l'é­man­cipation de l'individu "tandis que réap­pa­raît, sous une forme souvent anodine et dégui­sée, le point de vue de la totalité sociale" (8).

Cosmopolitisme contre

tradition scolastique

Ce tout réapparaît dans le débat sur la citoyen­neté au cours duquel s'affrontent la version cosmopolite (des idées communes suffisent) et la tradition scolastique qui, à travers Tho­mas d'A­quin, perpétue l'univers latin: la re­ligion est un patriotisme car elle n'appartient pas à la vertu théologale de la foi, mais à la vertu morale de la justice qui consiste à rendre à l'autre ce qui lui est dû. La religion est la justice si la dette ne peut être rendue, ce qui concerne les ancêtres et Dieu. Ainsi Thomas d'Aquin ensei­gnait que le patrio­tisme est le culte des morts, c'est-à-dire une for­me de la religion.

La présence simultanée d'indi­vi­dua­lisme et de holisme est frappante chez Quesnay, inspirateur de réformes fiscales, mais surtout figure exem­plaire des futurs débats sur les fondements de l'in­tervention étatique en économie. Vincent de Gournay avait proposé de "laissez faire, laissez passer" affirmant l'autonomie économique. Ques­nay, négligeant les sommes de réflexion sur la valeur développées dans deux directions, le travail ou l'utilité, s'en remet à la terre pour engendrer toute richesse. Un tel privilège ne s'ex­plique, selon Dumont, que par la forme spé­ciale de propriété qui s'attache à la terre. La pro­priété immobilière subordonne l'économie à d'au­tres instances (politique, morale, reli­gieu­se) et ne sépare pas la relation aux choses de re­lations entre hommes. Quesnay appartient en­core à l'idéologie holiste lorsqu'il confie le pou­voir politique aux propriétaires immobiliers qui payeront seuls les impôts, mais il récuse l'in­tervention de l'Etat dans l'activité écono­mique, s'affirme anti-mercantiliste en défen­dant la liberté des échanges et la propriété pri­vée. Sou­lignons aussi, en reprenant le commen­taire de G. Haarscher (9), que Quesnay met l'accent sur la production, la création des va­leurs, alors que les mercantilistes s'intéressaient à la circu­la­tion, au commerce. La préoccupation productive est en effet un trait général de l'époque: Con­dillac (1714-1780) ac­cordait une attention par­ti­culière au travail, principale source de valeur car l'idéal d'une as­cèse contemplative a cédé la place au désir d'affronter le monde pour le met­tre en valeur. Le travail créateur à la façon de R. Crusoé est mis en honneur, même s'il en résulte des incompati­bilités avec d'autres vertus.

La Fable des Abeilles de Mandeville

Le succès de la Fable des Abeilles (1705) de Ber­nard de Mandeville (1670-1733) fut lié au scan­dale et aux protestations qu'elle suscita. L'hu­ma­nité est comparée à une ruche dans la­quelle chaque homme a le droit et le devoir de pour­suivre son intérêt car il contribuera le plus ef­ficacement au bien commun, les "vices pri­vés" devenant des "bienfaits publics". La pensée de Mandeville développe une psychologie qui sera celle des morales fondées sur l'intérêt, mais in­siste surtout sur l'activité tout en oppo­sant la sim­ple diligence à l'esprit d'industrie défini par la soif de gagner et le désir infati­gable d'amé­liorer notre condition. L'accent mis sur l'acti­vi­té, de Mandeville à Quesnay, puis A. Smith ins­tillera le discours révolutionnaire sur la pau­vreté.

Dernière caractéristique des principes fonda­teurs de la pensée économiques pour l'époque ré­volutionnaire: le traitement de la composition des intérêts privés. Lorsque l'individu devient le sujet élémentaire, l'atome de la réflexion, la pensée économique doit réfléchir sur l'harmo­ni­sa­tion des actes. La conscience d'une désa­gré­gation se traduit chez Quesnay par un recours à l'ordre naturel qui soumet l'homme à la nature. Mais la notion d'individu ou d'agent (terme ul­térieur) se spécifie au moyen d'attributs: les in­térêts et les passions. La Révolution française, en effaçant les statuts d'une société d'ordres, dé­finit la Nation comme l'ensemble des individus identiques sous l'angle du dénombrable et du lé­gislatif et résoud le problème d'agrégation par la volonté géné­rale. G. Haarscher affirme que Nec­ker et Rousseau sont les deux figures de l'op­position à Quesnay en ce qu'ils brident l'écono­mie, à la­quelle Quesnay aurait conféré une trop grande liberté pour la soumettre aux règles du pacte so­cial, à la "volonté générale". Les deux instances (politique et économique), libérées de l'ordre re­ligieux peuvent entrer en conflit viru­lent: l'économie autonomisée proteste contre l'in­terventionnisme étatique, tandis que le poli­tique du contrat social récuse le mouvement au­tonome de l'économie.

Ainsi, le débat se situe-t-il tout entier à la char­nière de deux mondes sur la ligne de partage du holisme et de l'individualisme. Les tenants de la théorie du contrat social plaident en faveur de l'individualisme politique et critiquent tout ce qu'il entrave: l'ordre naturel de Quesnay, élé­ment traditionnel, mais aussi l'économie é­man­cipée susceptible de déstabiliser l'univers contractuel. La position de Locke, dans la pers­pective de Dumont, est essentielle pour com­prendre la suite. Locke affirme que la relation entretenue par l'individu avec les choses passe simplement par la propriété à condition d'être lé­gitimée par le travail. En conséquence, le point de vue holiste pourra déclarer illégitime cer­tai­nes formes de propriété: les révolution­naires use­­ront de l'argument. Dire que le tra­vail doit cons­tituer le critère de la propriété, c'est aussi af­firmer que sa qualité mesure la valeur des biens et poursuivre avec Grotius, Hobbes, Pufendorf, une réflexion sur la valeur "objective". L'oubli des débouchés est révéla­teur: la marchandise doit trouver acheteur, ré­pondre à une demande, quelle que soit la nature de cette dernière. Il appartiendra à Galiani (1728-1787), Condillac (1715-1780), Turgot, de dé­velopper la théorie "sub­jec­tive" de la valeur em­pruntée aux sco­lastiques de l'école de Salamanque.

A l'aube de la Révolution, un creuset culturel avait façonné les acteurs, leur suggérant des in­terprétations et des solutions aux questions éco­nomiques. Ils disposaient de trois repères: la dé­marche de la physique et la méthode analy­tique, la nécessité d'agréger et de réguler les in­térêts privés, la dévalorisation du passé, inutile lors­que tout repose sur le travail ou l'ordre natu­rel. Il faut donc soit en revenir à l'antique, soit créer des schémas abstraits dans lesquels la lo­gique des origines se substitue à l'histoire des origi­nes. Munis de ce bagage, ils s'efforceront de trai­ter deux questions fondamentales: le prix des subsistances et son corollaire, la pauvreté; le budget de la république qui suppose de choisir les dépenses et de justifier les ressources.

II. Le double corps

de l'Etat

 

Empruntée à P. Rosanvallon qui désigne ainsi l'œu­vre de Boisguillebert, l'ap­pelation décrit par­fai­tement le dilemme dans lequel nagera la Ré­vo­lution: le tout et la partie. L'Etat, assimilé au Sou­verain, n'est qu'une partie du corps social et politique, ayant une fonction spécifique: défense et sûreté. En contre-partie, il perçoit l'impôt dont les caractéristiques sont à débattre. En même temps, l'Etat est l'ensemble du corps social; le sou­verain se confond avec ses peuples: il est le tout. L'Etat doit donc remplir un double rôle. En tant que simple partie, il offre la sécurité "ex­té­rieu­re". En tant que tout, il a deux devoirs: main­tenir le corps social en bonne santé (la cir­culation des biens ou consommation), assurer la concorde intérieure ou paix sociale (maintenir le "corps uni"). En particulier "les pauvres, dans le corps de l'Etat sont les yeux et le crâne, et par con­sé­quent les parties délicates et faibles"(9). La ques­tion des subsistances et de la pauvreté était donc à traiter en priorité.

La menace de l'indigence

La question sociale en 1789 renvoyait au problème de la pauvreté. La mauvaise récolte de 1788 avait fait bondir le prix du grain dans des proportions oubliées depuis 1709. Les premières enquêtes de la Révolution constatent que onze millions de Fran­çais sont dans l'indigence, souvent con­traints d'er­rer à la recherche d'un moyen d'existence (12). De mai à juillet 1789, les émeutes de chô­meurs se conjuguent aux pillages des con­vois de grains. Comment analyser la cherté du blé et que faire? La question est ancienne: depuis 1764, les économistes polémiquent sur le sujet. Convient-il de laisser agir vendeurs et acheteurs? Faut-il in­ter­venir pour améliorer le ravitaille­ment? Le dé­bat n'est pas futile car les milieux po­pulaires con­sacrent en moyenne la moitié de leurs revenus à l'achat de pain, base de l'alimentation. F. Afta­lion (13) cite les travaux de G. Rudé qui fixe à huit livres quotidiennes (de pain), la quantité néces­saire (en moyenne) à une famille de quatre per­sonnes. Pour des rémunéra­tions journalières de 20 à 50 sous, selon les activi­tés, il ne fallait pas que le prix du pain de quatre livres montât au dessus de huit ou neuf sous. Necker avait publié en 1775 un ouvrage (Essai sur la législation et le commerce des grains)  dans lequel il montrait une claire compréhension du phénomène, sans qu'il nous soit possible de préci­ser s'il connais­sait l'étude de Gregory King (1648-1714), premier auteur à avoir relié les fluc­tuations du prix du blé au volume des récoltes. Turgot aussi préconisait la libre circulation des grains comme moyen d'as­surer la compensation régionale des surplus et déficits. Condorcet, en­fin, dans ses Réflexions sur le commerce des blés (1776) prend parti pour Turgot. Il existait donc de bonnes analyses des mou­vements de prix, suscep­tibles de fonder une po­litique d'approvisionnement. 

La politique de l'Ancien Régime reposait sur une réglementation des marchés, le stockage, et un système d'approvisionne­ment pour Paris. Une mau­vaise récolte, en poussant les prix à la haus­se, enrichit les producteurs qui peuvent at­tendre et spéculer: mais le résultat est le même en cas de stockage préventif. Les révolution­naires n'ont pas su trancher: Robes­pier­re utilise l'édit du ma­ximum et adhère à la thèse des saboteurs et des accapa­reurs... Mais le débat économique était sou­mis aux pressions des sans-culottes, ensemble de salariés et de propriétaires dont les maîtres et compagnons for­maient l'ossature: ils ont joué un grand rôle de l'été 1791 à l'été 1794. Leurs préoc­cupations, en matière d'économie, n'al­laient pas au-delà d'une revendication en faveur d'un ni­veau de vie décent. Il existe plusieurs méthodes pour en arriver là. Or, les sans-culottes préfé­raient le contrôle des salaires, car ils raison­naient dans le cadre d'une nature, en bute aux mé­chants riches: "Les pauvres étaient naturel­le­ment patriotes et vertueux, tandis que les riches, qui avaient été trop longtemps habitués à ne con­sidérer que leurs propres intérêts, étaient inca­pables de générosité républicaine" (14). La nature fournit des aliments dont les prix ne montent qu'après spéculation. Cette perversion de la na­ture justifie un châtiment que les circonstances ren­dront exemplaire.

Que faire, alors, vis-à-vis des indigents? L'As­sem­blée Constituante a formulé des prin­cipes éla­borés en projets de décrets par le comité de men­dicité, qui sera transformé en Comité des Secours publics, par la Législative et la Con­vention. Ce co­mité de mendicité rassemble de nobles âmes: le Duc de La Rochefoucauld-Liancourt, le Comte de Virieu, Boncerf (auteur d'une brochure sur les in­convénients des droits féodaux), Barère, Guillo­tin. Il affirme le droit de chacun à sa subsistance et propose de substituer le secours public à l'au­mô­ne par des versements for­faitaires des départe­ments.

«Les secours publics

sont une dette sacrée»

Dans le préambule de la Constitution de 1793, Ro­bes­pierre réaffirme: «Les secours publics sont une dette sacrée. La société doit la subsistance aux citoyens malheureux, soit en leur procurant du tra­vail, soit en assurant les moyens d'exister à ceux qui sont hors d'état de travailler» (15). Les lois qui se succèdent de mars 1793 à Floréal An II traitent des pauvres hors d'état de travailler et des pauvres sans travail, chômeurs ou "fainéants". Pour ces derniers, la Révolution se coulera dans l'esprit de l'Ancien Régime, ne changeant que les modalités. Adieu fouets, galères et vieux dé­pôts, place à l'incarcération dans une maison d'ar­rêt pour toute personne demandant de l'ar­gent ou du pain sur la voie publique. Dans ce "lieu de vie", le travail est obligatoire, le salaire retenu aux 2/3 pour les frais de séjour. Ce n'est rien de plus que le traditionnel "renfer­me­ment". Une in­novation cependant: les récidivistes «de ni­veau trois» partent peupler, huit années au moins, une colonie. Dans le même temps, la lé­gislation ne peut ignorer les anciens ateliers de charité. Elle les transforme en travaux publics ou grands travaux, payés les trois quarts du prix moyen de la journée de travail. La quintessence de la pen­sée révolutionnaire charitable s'exprime dans un texte de Barère, au moment de présenter la nou­vel­le loi sur proposition du Comité de salut public (22 floréal an II): «La mendicité est... une dénon­cia­tion vivante contre le gouvernement... Le ta­bleau de la mendicité n'a été jusqu'à présent sur la terre que l'histoire de la conspiration des pro­priétaires contre les non-propriétaires... Si l'a­gri­culture est la première et la véritable ri­chesse d'un Etat, nous devons prouver au­jourd'hui que l'intérêt du législateur est de favo­riser les cul­ti­vateurs avant toutes les classes de la Société...». Res­ponsabilité du gouvernement, di­chotomie pro­priét­ai­res/non-pro­prié­tai­res, priorité à la pau­vre­té campagnarde: tous les ingrédients ré­vo­lu­tion­naires sont rassemblés sans qu'une analyse nou­velle rompe avec les pratiques de l'Ancien Ré­gi­me.

Recettes et dépenses

L'historiogaphie des finances à la fin du XVIIIiè­me siècle met l'accent sur deux dimen­sions com­plémentaires: le point de vue budgétaire strict qui évalue les revenus et les dépenses, le rapport entre l'Etat et les milieux financiers. De façon géné­rale, l'Etat doit satisfaire les besoins et désirs pu­blics par opposition aux besoins person­nels. Dans un article publié en 1918 (La crise de l'Etat fiscal), Joseph Schumpeter indiquait que «les finances pu­bliques constituent l'un des meil­leurs points de départ pour une étude approfondie de la société» (16). L'Etat fiscal apparut au XVIième siècle pour payer les dépenses de guerre. Le sociologue N. E­lias affirme que la période axiale se situe au cours de la Guerre de Cent Ans, lorsque des prélè­vements occasionnels destinés à des usages pré­cis et bien déterminés se sont trans­formés en une institution permanente, puisque le Roi a toujours besoin d'argent pour mener à bien les conflits (17). En toutes hypothèses, il apparait que les dé­penses passèrent avant les recettes puis, après que l'Etat eut acquis une solide structure, on leva des im­pôts pour des raisons qui étaient autres que la raison initiale. Jusqu'en 1788, où un édit crée le Trésor royal (naissance du principe d'un trésor public), les finances du Roi ne sont pas vraiment des finances publiques. Alain Guéry rappelle: «Les financiers qui sont chargés de leur gestion sont des officiers. Leurs revenus sont des gages et non des salaires. Ils ne gèrent pas des caisses pu­bliques, mais leurs caisses privées, dans les­quel­les les fonds qui appartiennent au Roi sont en comp­te, avec d'autres fonds d'origines diverses» (18). Les dépenses sont d'abord militaires quoi­qu'il soit impossible de mener de longs conflits par insuffisance de res­sources. L'endettement con­si­dérable limite l'effort qui, nécessairement, retombe. Les dé­penses consacrées directement au commerce et à l'économie ne dépassent pas 1% du total des dé­penses. Le dernier budget pour 1788 est assez bien connu et n'est pas considéré comme a­ty­pique: la dette absorbe plus de la moitié (50,5%), la guerre et la diplomatie 26,3% (guerre: 16,8%; marine et co­lonies: 7,2%; affaires étrangères: 2,3%), les dé­penses civiles 23,2% (la cour: 5,7%; ad­ministra­tion générale: 3%; secours: 2,8%; éco­nomie: 3,7%; ins­truc­tion et assistance: 1,9%). La po­li­tique budgétaire est tournée exclusivement vers la recherche de l'argent nécessaire pour cou­vrir les dépenses engagées et "l'idée que les dé­penses et les revenus de la cour puissent être uti­lisés dans le sens d'une action sur la vie éco­no­mique et so­ciale du pays, échappe aux habi­tu­des, aux attitudes et aux mentalités, non seu­le­ment des respon­sables de l'administration royale des fi­nances, mais aussi des publicistes et écono­mi­stes du temps" (19). Les révolutionnaires se pré­oc­cupè­rent aussi de trouver des recettes, mais après qu'ils eurent mis à bas le système fiscal sans étu­dier sérieusement les effets du financement sur l'économie. Après les décisions et les débats théo­riques, le personnel et ses réseaux.

La structure du financement

Le système fiscal jusqu'à la Révolution s'or­ga­ni­sait autour de quatre prélève­ments (20). Les droits d'ori­gine féodale, qui n'étaient pas les plus in­sup­portables: Alfred Cobban (21) a montré que l'at­taque contre les droits seigneuriaux de­vaient s'interpréter comme une contestation de leur com­mercialisation croissante et que la ré­volte pay­sanne était tournée contre la bourgeoisie pro­prié­taire de ces droits. La dîme d'Eglise, se­cond prélèvement, était bien vivante: 10%. Les impôts in­directs, perçus par la ferme générale, regrou­paient la gabelle, les aides (frappant sur­tout les boissons), les traites (droits de douane). Enfin, les impôts directs: taille, capitation.

Ce système fiscal souffrait d'au moins deux ta­res: il était anti-économique et son recouvre­ment coûtait cher. Les états généraux, convoqués pour résoudre le problème financier, le contestè­rent rapidement (13 juin), car il n'était point fondé sur le consentement national. Lorsque s'ouvre le grand débat, en mars 1790, les positions de l'as­sem­blée oscillent, d'après R. Schnerb (22), entre la condamnation sans réserve des droits de con­sommation (chef de file: Roederer), et le com­pro­mis nécessaire à l'alimentation des caisses pu­bli­ques. Dupont de Nemours, rapporteur du co­mité des impositions, s'inscrit dans le second courant. Le 11 mars 1790, il propose de supprimer la gabelle et les droits de marque sur les cuirs, les fers, les ami­dons, et suggère de relever les droits de doua­ne, de maintenir le produit du tabac, ainsi que les droits sur les boissons. Il justifie ses pro­positions par la pensée physiocratique et affirme vouloir créer en faveur des propriétaires les con­ditions d'u­ne meilleure rentabilité. Ultérieurement, pen­se-t-il, il sera possible de sup­primer tous les im­pôts indirects.

Les adversaires sont "infatigables à rappeler que l'impôt indirect, volontaire, convient à l'homme libre" (23). En vain. Les impôts indirects suc­com­bèrent... temporairement. La Révolution n'est en fait qu'un accident au milieu d'une ten­dance à l'aménagement des impôts indirects. Ca­lonne et Necker s'en étaient déjà préoccupés: les droits indirects com­blaient 43 % des res­sources budgétaires en 1788. En les supprimant, on posait le problème du fonctionnement normal de l'Etat. La béance budgétaire paniqua le groupe de la Mon­tagne dont l'obsession devint la quête de res­sources: les assignats y pourvoieront. La ten­ta­tion pour les constituants était d'autant plus gran­de qu'ils raisonnaient selon la causalité an­gé­lique: un bon régime lève de bons impôts (i.e.: équi­tables) dont s'acquitteront avec allé­gresse tous les citoyens. "C'est pourquoi le sys­tème fis­cal de la constituante est caractérisé par l'absence à peu près totale de moyens de con­trainte (24). Les constituants ont créé trois contri­butions directes: la "foncière" sur le revenu de la terre; la "mo­bi­lière" sur les revenus industriels et les rentes; la "patente" pour le commerce. La contribution fon­cière, impôt de répartition, fut votée le 17 mars 1791 pour être perçue la même année. Pas de ca­dastre, des responsables dépar­tementaux sans for­mation, le résultat ne fut pas à la hauteur des besoins, alors que tout paraissait réglé depuis qu'une Trésorerie Nationale complé­tait le dispo­si­tif. Bilan de 1791, 100 millions de dé­ficit. Aug­menter les impôts? La pression fiscale épousait la norme pré-révolutionnaire. L'innovation finan­ciè­re s'imposait. Assignats... vous voilà...

Le personnel des finances

De l'Ancien Régime à l'Empire, le même per­son­nel gère les finances (25). L'assemblée consti­tuante avait innové sur trois points: réduire au ma­ximum les fonctionnaires des finances et con­fier aux contribuables la collecte des impôts; ce­pendant, il fallait du personnel pour centraliser les sommes, payer les dépenses, répartir les fonds. Trois catégories de fonctionnaires en na­quirent: receveurs (par districts), payeurs géné­raux (un par département), commissaires du Tré­sor. Au nombre de six (recette, liste civile, dette publique, guerre, marine, comptabilité), ils exa­mi­naient les demandes des ministères et ren­daient compte à un bureau de comptabilité com­po­sé de quinze membres nommés par le roi. Cette belle architecture va fonctionner selon une double logique: montée en puissance du pouvoir admi­nis­tratif d'un côté, affairisme de l'autre. L'insta­bilité ministérielle et l'obsession des ré­formes fa­cilitent l'exercice du pouvoir par les hommes des bureaux. Citons pour l'exemple la situation de la trésorerie. Dans ces cadres, elle ressemble com­me une sœur à l'ancien trésor royal. La diversité des attributions et la partition en six secteurs jus­ti­fiaient une coordination mi­nimale assurée par un secrétaire. Ce poste essen­tiel conserva le mê­me titulaire de fin 1792 à... 1822. Les intitulés du poste changèrent, les ré­gimes passèrent, le sieur Lefèvre demeura, trente années durant, inamo­vible.

La dimension affairiste décourage les tentatives de compréhension globale. Pour M. Bruguière, l'ex­­trême compli­cation de ces opérations variées rend illusoire un tel projet. Pourtant, "les activi­tés financières conduites sous la convention a­vant et après le 9 thermidor représentent une ex­périence fort exceptionnelle de contrôle universel par l'Etat. Elles contiennent en outre la clé de nombreux destins individuels... C'est là, si l'on o­se s'exprimer en termes peu élégants, que gît le "pla­card aux cada­vres" de notre histoire contem­po­rai­ne (26). La trésorerie, dès sa création en 1791, récupère une partie du personnel de l'An­cien Régime, puis une partie des commis­saires nommés par Louis XVI resteront en place après sa disparition. En 1795, à la chute de Robespierre, quatre d'entre eux sont toujours en fonction. La Convention laissa carte blanche aux com­mis­sai­res de la Trésorerie pour réaliser deux objectifs: approvisionner les armées; nourrir les po­pu­la­tions civiles. La fonction remplie mettait à l'abri des vicissitudes politiques le personnel admi­nistra­tif. Le Directoire n'eut qu'un respon­sable fi­nancier: Ramel, qui, en conflit avec la tré­so­re­rie pour l'extinction des mandats territo­riaux, sor­tit vainqueur à l'occasion du coup d'Etat du 4 septembre 1797 (18 fructidor). La Trésorerie na­tio­nale rentra alors dans le rang en obéissant mieux au responsable politique.

Par delà ce phénomène bureaucratique, la vraie Révolution, pour Sédillot (27), est dans le domaine financier: le passage de la primauté du sang à la primauté de l'argent. Aux nobles succèdent les no­tables et «les droits de la naissance ne pourront rien contre ceux de la finance» (28). Cette explo­sion du capitalisme se traduit par une promotion du banquier et du spéculateur. Les grands finan­ciers de l'Ancien Régime n'étaient pas très popu­laires et certains payèrent même leur gloire pas­sée de leur vie. Ils furent remplacés par de nou­veaux spéculateurs, entretenant des liens étroits avec des nobles cupides et des responsables révo­lutionnaires. Pour Cobban, "les financiers cons­tituaient le secteur de la société le moins engagé politiquement. Toutes les politiques et tous les gou­vernements apportaient du grain à leur mou­lin" (29). Cela vaut certainement pour une classe de spéculateurs "modestes" car les circonstances sont propices à toutes sortes de trafics: "On mon­naye l'élargissement d'un détenu, la délivrance de certificats de civisme, la mise aux enchères privilégiée des biens nationaux, le vote de cer­tains décrets" (30). Mais l'appartenance à un ré­seau caractérise les plus grands corrupteurs et des corrompus: l'occultisme et la franc-maçonnerie émergent pour la première fois à côté d'autres ré­seaux plus traditionnels d'ordre géopolitique.

Robert Darnton a retracé l'ambiance intellec­tuel­le de la fin du XVIIIième. Dans La fin des lu­miè­res  (31), il expose le rôle du mesmérisme, fron­tiè­re entre science et pseudo-science ou occul­tisme. Avant la Révolution, Marat se consacre à l'étude de la lumière, de la chaleur et rédige des traités complètement farfelus. La première appa­rition de Robespierre sur la scène nationale date de ses é­crits sur la science et le paratonnerre en par­ti­cu­lier. Mesmer recrute ses parti­sans chez les futurs chefs révolution­nai­res: La Fayette, Brissot, Ber­gas­se, Ro­land... Par l'intermédiaire de la "so­cié­té de l'harmonie universelle", les esprits é­clai­rés rencontrent les âmes sensibles et les hom­mes d'affaires. Bergasse est membre d'une riche famille de commerçants lyonnais. Kornmann vient des milieux bancaires stras­bourgeois. Cette société, insiste Darnton, n'est pas une cellule ré­vo­lutionnaire, mais un cercle pour gens riches et distingués où se côtoient bourgeoi­sie et aristo­cra­tie. Cet occultisme est compatible avec le thème du "pur amour", diffusé par le pié­tisme et les sociétés franc-maçonnes dont le déve­loppement fut très rapide à partir de 1773.

Le pouvoir financier, après le déclenchement de la Révolution, a été exercé pendant trente mois par des praticiens issus de l'administration pré­cédente (ex.: Lambert). Les vingt-sept mois sui­vants sont dominés par les figures des banquiers protestants: Necker et Clavière. Pendant cinq ans et quatre mois, le groupe principal est lié au commerce, au bois, aux étoffes. C'est l'époque de Cla­vière, Ramel. Le Directoire remet en selle des spécialistes: Gaudin, Mollien, en vérifiant qu'ils entretiennent des accointances utiles (Mollien est lié à des agents de change). Durant onze années, un point commun transcende ces personnes: leur appartenance à la maçonnerie, seule association à s'étendre sur toute la France. Solidarités per­sonnelles et géographiques renforcées par cette appartenance, voire carte de visite facilitant des contacts en Angleterre, en Belgique, on ne peut parler de complot "explicite". Mais nous suivrons l'appréciation de Bruguière qui conclut au triple rôle de ce mouvement: cadre commode et discret de filet protecteur ou d'échelle de corde. Le tout dans une atmosphère d'exaspération de l'occul­tis­­­me qui déboucha, à la Révolution, sur "la trans­­mu­tation du papier en or, ou de l'argent en domaines nationaux, bien plus sûrement que ne l'eût permis le Grand Œuvre" (32).

III. Décollage du

capitalisme en France

Au sortir de l'épopée napoléonienne se répand le sentiment de l'existence d'un retard français par rapport à l'Angleterre. F. Caron ouvre son his­toire économique de la France (33) en rappe­lant que la traversée de la Manche était néces­sai­re pour s'initier aux techniques nouvelles, pour y embaucher des ouvriers. Le retard a donc un sens précis: l'écart technologique qui s'est creusé pendant la Révolution et l'Empire, "catastrophe na­tionale" d'après M. Lévy-Leboyer. Mais l'é­co­nomie française a finale­ment progressé au XIXiè­me siècle avant les Etats-Unis et l'Alle­ma­gne. Ne faut-il pas alors nuancer le qualificatif et en réévaluer d'autres aspects? D'abord parce que les démarrages sont inimitables; l'obsession du retard oublie que le comparatisme est un art délicat. Nous en mon­trerons les embûches. En­sui­te, les transforma­tions importan­tes ne sont pas souvent le résultat d'une action précise, mais ré­sultent d'effets per­vers. Nous relèverons ceux dont le rôle est incon­testable.

Des démarrages inimitables

Le capitalisme n'est pas universel et n'émerge pas automatiquement par simple accumulation de capital. A. Caillé (34) insiste sur l'aplanisse­ment nécessaire de trois disjonctions pour for­mer le capitalisme indissociable du marché. La disjonction spatiale: le prix d'une denrée doit être identique sur les marchés villa­geois; dis­jonc­tion temporelle: refus du crédit gé­néralisé (avec le crédit apparait la dépendance des com­mu­nautés par rapport à l'échange); dis­jonction entre grand commerce (réservé à l'Etat et aux grou­pes dominants) et commerce local. Le grand commerce (d'aventure, à longue distance) existe de tous temps un peu partout. Il procure des profits élevés, mais incertains. Par contraste, le capita­lis­me suppose un commerce de marchés, portant sur des biens courants reproductibles en grande quantité. Les prix se fixent alors sur ces marchés qui intéressent les classes moyennes, regrou­pe­ment hétéroclite d'artisans, mar­chands, fonc­tion­naires, laboureurs à l'aise.

Dans l'histoire du développement, l'Angleterre a ouvert la voie par la réunion d'un ensemble de conditions non programmables a priori (35). Au début du XVIIième siècle, elle se tailla un empire dans le nouveau monde. La Révolution anglaise donna le pouvoir au parlement après 1688 et le Roi n'eut plus l'initiative fiscale. Les victoires contre les Hollandais lui ouvrirent le marché mondial. Enfin, les enclosures  dégonflè­rent peu à peu les actifs du secteur primaire qui, affluant dans les villes, engendrèrent des relations nou­velles entre producteurs ruraux et centres ur­bains. Tout cela n'était pas original et ne garan­tissait aucune supériorité définitive. Le bascu­le­ment se produisit après 1780: l'innovation tech­ni­que matérialisée par la machine à vapeur ap­pliquée à l'industrie textile et à la métallurgie. L'ac­croissement de puis­san­ce fut tel que Man­chester fabriqua des cotonnades à meilleur prix que les ar­tisans de l'Inde (Madras, Calcutta). Les Français, comme les autres, ont été surpris par ce changement qui mettait le monde à la por­tée des Anglais, aptes à ruiner, à pastoraliser quel­que pays que ce soit... Il fallait que ces mar­chés fus­sent libres d'accès, ce que la Révolution française, involontairement, a favo­risé. Les au­teurs français, frappés par l'in­dustrilisation, né­gligent les éléments complé­mentaires. Pourtant, la technique est insuffi­sante à assurer un dé­ve­lop­pement cumulatif. Il faut tout d'abord une structure de la population active, liée à l'orga­ni­sation sociale et aux ren­dements agricoles, or il n'y a pas de "Révolution alimentaire" en France jusqu'en 1840, moment où les rendements des cé­réales s'accroissent sans retour (36). La Révo­lu­tion de 1789 a provo­qué une dégradation du ni­veau alimentaire, comme toutes crises de subsis­tance depuis des siècles. Rien d'original donc, si ce n'est, d'après Morineau, que les mauvaises ré­coltes ne don­nent plus lieu à des envolées de prix aussi specta­culaires qu'au siècle précédent car l'approvisionnement s'est fluidifié. Deu­xiè­me ingrédient: les marchés extérieurs, dans plu­sieurs branches du commerce international.

La France avait su conquérir ou garder une ex­cellente position. Domination des marchés d'Ita­lie et du Levant; premier fournisseur de l'Espa­gne en articles manufacturés, extension du com­mer­ce d'entrepôt des denrées coloniales par Saint-Domingue (où la productivité des cul­tures de la canne et du café en autorisait la vente à vil prix). La France ne concurrençait pas réel­le­ment la Grande-Bretagne, car la part de l'indus­trie y était faible (2/5). L'essentiel portait sur le café, le sucre, le vin et, point faible que la Révo­lu­tion balaiera, il dépendait étroitement de Saint-Domingue. Enfin, l'industrie; elle a montré beau­­coup de vitalité au XVIIIième siècle, en par­ti­culier: la laine, les toiles, le coton, la soie. L'in­dustrie minière a démarré (charbon) et, avec elle, la production de fonte.

Résumons encore, si cela est possible sans cari­caturer. La Grande-Bretagne a moins de main-d'œuvre agricole, domine des marchés et a, la première, utilisé la technique pour produire des biens destinés à des classes moyennes. Elle n'est pas organisée selon le modèle royal français. La comparaison selon le seul critère industriel est in­suffisante. L'appréciation doit porter sur une configuration de structures (sociales et écono­miques) dans un environnement où la guerre im­pose ses contraintes matérielles, ce que nous montrerons ci-dessous, après que les éléments peu liés au conflit eurent été envisagés.

Une main-d'œuvre surabondante qu'il faut o­rien­ter vers l'industrie et qui, vivant en ville, doit acquérir peu à peu de nouvelles normes de consommation. Ce premier passage obligé (dans le contexte socio-historique du XVIIIième siècle) dans la longue marche du développe­ment s'était ouvert au milieu du siècle dans le grand mou­ve­ment en faveur de l'éducation. Le despotisme é­clairé avait reçu l'assentiment de tous les pen­seurs fran­çais, à l'exception de Rousseau, pour mettre en œuvre une politique de réformes inspi­rées par la raison, en vue de bien commun. Il y eut donc des tentatives pour créer des établisse­ments pilotes: école des Ponts et Chaussées (1744), école royale militaire (1751). De plus, certaines régions disposaient d'une population alphabéti­sée. Alors qu'en 1790, le taux moyen n'atteignait pas 50%, le Nord-Est de la France était alphabé­tisé à 68%. Enfin, il existait une tradition corpo­ratiste qui formait des artisans dans les écoles techniques. La Révolution a accéléré l'in­tro­duc­tion des sciences dans les études, œuvre couron­née par l'université napoléo­nienne. Mais l'idée d'instruction publique ou d'éducation nationale n'est pas "révolutionnaire" et la Révolution ne se dote pas des moyens nécessaires à la réa­li­sa­tion concrète de son slogan: l'instruction gra­tui­te pour tous. Le développement économique de la France, fondé en partie sur une main-d'œuvre re­lativement qualifiée, ne sera pas affecté par la Révolution.

La montée des classes moyennes, deuxième ver­rou à débloquer pour permettre le capitalisme, est à l'évidence une conséquence du nouvel ordre des valeurs quoique la temporalité du processus soit très étalée. Tous les économistes s'accordent à reconnaître les nocivités d'une fiscalité trop lourde. La redistribution de la charge fiscale et les transferts de richesse engendrés par l'infla­tion des assignats ont modifié le jeu et fa­vorisé ces classes moyennes. L'organisation d'Ancien Régime recelait aussi deux moyens ef­ficaces pour étouffer l'esprit d'entreprise: la vente de char­ges, la hiérarchie de corps. Rappelons que "la monarchie absolue des XVIIième et XVIIIiè­me siècles ne se différencie pas tellement de l'em­pire romain, dont l'essentiel des dépenses était militaire. L'Etat est incapable de mener une guerre longue sans s'endetter outre-mesure. Cet­te situatiion est celle de tous les pays européens (38). Ces difficultés fi­nancières incitent à ven­dre des charges pour éviter les remboursements ultérieurs massifs. Les "riches" les achètent et sous­crivent aux em­prunts d'Etat. Une fois la char­ge acquise, ils ne demandaient plus qu'à en jouir en toute tranqui­lité: les entreprises capita­listes étaient étouffées par cette pratique. Plus gé­néralement, la montée en puissance de l'éco­no­mie de marché a été pos­sible en incitant les hom­mes de profit à investir ailleurs que dans les char­ges. Perception certes à nuancer car la mise en vente de multiples patri­moi­nes (biens com­mu­naux, d'Eglises et de cer­tains émigrés) a mo­bilisé des capi­taux détournés ainsi de l'in­dus­trie; donc la Révolution, au lieu de régler le pro­blè­me agraire, accéléra la ten­dance de l'his­toire française à la conquête bour­geoi­se de la terre.

La disparition de la hiérarchie des corps eut d'au­tres conséquences plus fondamentales à mo­yen terme. La Révolution a affirmé que la sou­ve­raineté résidait dans les citoyens dont le travail sur la nature justifiait la propriété. Or, à cette époque, on désignait par le mot "industrie" la di­ligence ou l'assiduité (i.e.: le travail sur la na­tu­re). Avec la Révolution française, "le tra­vail ou l'industrie n'était plus que cette vile acti­vité re­léguée exclusivement à ces groupes de la popu­lation jugés indignes de plus hautes fonc­tions; il représentait au contraire la substance même de l'existence humaine et se trouvait à l'origine de tout ordre social" (39). Une telle réé­valuation de l'activité humaine signifiait que produire ou dis­tri­buer des richesses devenait un acte exemplaire pour la Nation. La nouvelle vertu attachée à la production couvrait aussi les formes d'organi­sa­tion. Il n'était pas convenable, avant la Révo­lu­tion, d'en­frein­dre à grande échelle les régle­men­­ta­tions qui fixaient l'organisation du tra­vail. Par exemple: la pro­ductivité de biens stan­dar­disés et de médiocre qua­lité, ou d'emploi d'ou­vriers non qualifiés dans le métier, voire recourir à des sous-trai­tants, était interdit, ce qui en limitait la portée pratique. La fin des corpora­tions et la redéfini­tion des droits de pro­priété ont autorisé ce qui avait été pro­hibé. Donc, au début du XIXième siècle, "l'organisation de la pro­duc­tion artisa­na­le fut autant la conséquence des chan­­gements de statuts juridique que connut l'in­dustrie au cours de la révolution que d'un dé­veloppement du marché" (40).

En définitive, aucun progrès spectacu­laire n'a été accompli dans la formation de la main-d'œu­vre ou dans l'émergence d'une classe moyenne. Inversément, rien n'a été entrepris qui put dis­sua­der les nouveaux entrepreneurs. Les fac­teurs décisifs, industrie et commerce, ne prennent leur dimension que dans le con­texte des conflits qui, vingt années du­rant, marquant l'histoire des pays européens.

Guerre et blocus

"Les guerres de la Révolution et de l'Empire (...) sont la plus longue période d'hostilités que l'Eu­ro­pe ait connue depuis le début du XVIIIième sièc­le; comme elles coïncidèrent avec une étape im­por­tante de son développement écono­mique, alors que la Révolution indus­triel­le venait de com­men­cer en Angle­ter­re et que ses premiers symp­tômes se manifestaient dans plusieurs ré­gions du continent, leur facteurs principaux ont pertur­bé les économistes: le blocus ma­ri­time des Bri­tan­niques, l'autoblocus im­posé au continent par Napoléon, le bou­le­ver­sement de la carte poli­tique de l'Eu­rope.

Le traité de commerce franco-anglais de 1786, à vocation libre-échangiste, est ren­du caduc fin 1792, par la prise d'An­vers. Une fois la guerre com­mencée, les navi­res marchands et le com­merce maritime français ne sont plus protégés. La ma­rine de guerre avait été inférieure à la Royal Navy au cours du siècle et la Ré­volution désorganise totalement l'insti­tu­tion. Des offi­ciers émigrent et la disci­pli­ne se relache. Com­me après une pre­miè­re décision dracon­nienne, prescri­vant de capturer les navires neutres en re­lations avec les colonies françaises, la Grande-Bre­tagne, sous l'influence améri­caine, se con­ten­te d'interdire le commerce des neutres en li­gne directe France-Colo­nies, jusqu'en novembre 1807; le com­mer­ce colonial s'effondre en moins de quin­ze ans. On ne sait pas très bien ce que sou­haitaient les révolution­naires dans le domaine du commerce interna­tio­nal. A. Cobban soutient que les fac­tions propo­saient des politiques diffé­ren­­tes. La première vague, dite giron­dine (Bris­sot, Clavière) souhai­tait une législa­tion très ou­ver­te, "libérale". La seconde va­gue, montagnar­de, fit voter en octobre 1793, une loi sur la navi­ga­tion. Le fac­teur décisif est donc la guerre qui pro­dui­sit un effondrement irréversible et trans­for­ma durablement la géo­graphie écono­mi­que de la France. Les zones in­dus­triel­les portuaires décli­nè­rent aus­si et l'ac­­tivité industrielle démarra sur le con­tinent. Le type de produit qui enri­chis­­­­sait les ports atlan­tiques corres­pon­dait à la tra­di­tion du grand commerce, sans probabilité élevée de se trans­former en commerce de biens de pro­duc­tion ou de consommation pour un vaste mar­ché. Ce déclin a été certai­ne­ment bénéfique au développement de l'économie de mar­ché en Fran­ce.

L'effet sur l'industrie n'est pas dissociable de l'au­toblocus imposé par l'Empereur. Les révolu­tionnaires étaient plutôt tournés vers la terre, ap­te à engendrer de bons citoyens, ou vers l'austé­ri­té du modèle spartiate, mais peu versés dans la technique ; et les hommes éclairés prati­quaient la physique amu­san­te. La relève de l'élite tra­di­tionnelle par la nouvelle élite des promoteurs de la civilisation industrielle (que Saint-Simon ap­pelle de ses vœux) sensibilise surtout Sieyès qui distingue nettement deux caté­gories de citoyens: les passifs, les actifs, car il assimile la nation à un grou­pe­ment de produc­teurs. Mais les révolu­tionnaires, peu motivés, n'ont pas mis en place de politique spécifique. Les con­séquences in­dus­trielles de la Révolution se ramènent à un effet de tenaille décrit dans un texte présenté et com­men­té par François Crouzet (42). La première piè­ce soude une forte rentabilité agricole (bais­se du prix des terres) et une hausse des matières pre­mières et des salaires à prix de vente bloqué. Ce "manche" joue le rôle d'une pompe à finances au détriment de l'industrie. La seconde pièce écrase les profits ou pousse les prix à la hausse réduisant la demande. Mais l'histoire ne s'arrête pas là et H. Bonn affirme, par exemple, que l'esprit d'en­tre­prise n'en fut qu'anesthésié car les fourni­tu­res aux armées donneront une impulsion à ceux qui avaient compris la nouvelle règle du jeu: être classé dans le groupe des tra­vailleurs pour éviter les exac­tions. Si, en 1800, le niveau d'activité res­te en deça de celui atteint en 1789, la poussée indus­triel­le démarrera peu après avec l'auto-blo­cus du continent face aux Anglais, mesure pro­tection­niste visant à rempla­cer les importations par des produits con­tinentaux. Le résultat est probant dans le textile, principale filière indus­tria­li­sante, où la filature mécanique connaît un es­sor spectaculaire. Ce dyna­misme, suggère Fran­­çois Crouzet, s'ap­précie par rapport aux deux données de base de l'Europe: la guerre et ses mul­tiples contraintes (prix élevés des ma­tiè­res pre­mières, taux d'intérêt élevés, pénurie de capital); la su­prématie abso­lue de l'Angleterre qui pasto­ra­li­sait les pays situés dans son orbite. Si l'Em­pi­re est une conséquence directe de la Révolution, l'industrialisation de la France en recevra une aide imprévue.

Les révolutions sont interminables. Quand s'ar­rê­te la Révolution française ? En 1791, comme le croyait Barnave? A la chute de Robespierre, selon les lamen­ta­tions du léniniste moyen? Au Di­rec­toi­re, installation de la clique bourgeoise et des penseurs «troisième répu­blique»? Ne se­rait-ce pas plutôt Bonaparte qui y mit un terme, puisqu'il le dit? Ou la restau­ra­tion au bourgeoisisme toni­truant? L'éco­no­mie fran­çaise en a finalement res­senti des effets tout au long du XIXième siècle, car la Révolution a rendu honorable le commerce et les affaires, a encouragé l'acquisition des ri­ches­ses et enclen­ché, en liaison étroite avec les contraintes mili­taires, l'industrialisaton du con­ti­­nent.

 

Bernard NOTIN.

 

(1) Schéma d'Ernest Labrousse, résumé par Pier­re Vilar, Or et monnaies dans l'histoire, Flam­ma­rion, champs, 1974, P.375.

(2) Georges Gusdorf, Les principes de la pensée au siècle des lumières,  Payot, 1971, p.152.

(3) François Hincker, «Les révolutionnaires et l'économie», Les cahiers de Decta III, N° 4, 1989, pp. 43-61.

(4) Georges Gusdorf, op. cit. p. 266.

(5) Raymond de Roover, «Scolastic Economics: Survival and lasting influence from the six­teenth Century to Adam Smith», Quarterly Jour­nal of Economics,  mai 1955, 161-190.

(6) Gérard Cazenave-Gabriel, «Population, Mer­can­tilisme et libre-échange: note sur un pa­ra­do­xe apparent», Revue d'économie politique, N° 5, 1979, 606-622.

(7) Louis Dumont, Homo aequalis, Gallimard, 1977.

(8) Vincent Descombes, «Pour elle un Français doit mourir», Revue européenne des sciences so­ciales, XXII, 1984, N° 68, 67-94.

(9) Guy Haarscher, «Louis Dumont et la genèse de l'iudéologie moderne», Revue européenne des sciences sociales,  XXI, 1984, N° 68, 127-148.

(10) Pierre Rosanvallon, «Boisguillebert et la ge­nèse de l'Etat moderne», Esprit,  janvier 1982, 32-52.

(11) Cité par Pierre Rosanvallon, op. cit., p.51, no­te 40.

(12) Cité par Pierre Vilar, Or et monnaies dans l'histoire,  p. 375.

(13) Florin Aftalion, L'économie de la Révo­lu­tion française,  Hachette pluriel, 1987.

(14) William H. Sewell, Gens de métier et Révo­lu­tions,  Aubier, 1983, p. 151.

(15) Cité par Ernest Labrousse, «Garantisme de la Révolution française et garantisme de Sis­mon­di», dans Croissance, échange et mon­naie en économie internationale. Mélanges en l'hon­neur de Jean Weiller,  Economica, 1985, pp. 69-80.

(16) Cité par Daniel Bell, Les contradictions cul­turelles du capitalisme, Presses Universitaires de Rrance, 1979, p. 237.

(17) Norbert Elias, La dynamique de l'Occident, Calmann-Lévy, 1975 p. 160.

(18) Alain Guéry, «Les finances de la monarchie française sous l'ancien régime», in Les An­na­les, 1977, pp. 216-239.

(19) Alain Guéry, op.cit, 231.

(20) René Sédillot, Le coût de la Révolution fran­çaise,  Perrin, 1987.

(21) Alfred Cobban, Le sens de la Révolution française,  Julliard, 1984.

(22) Robert Schnerb, «Les vicissitudes de l'impôt direct de la constituante à Napoléon», dans Jean Bouvier, Jacques Wolff (éd.), Deux siècles de fis­calité française, 19e-20e, histoire, économie, poli­tique,  Mouton, 1973, PP. 57-70.

(23) Robert Schnerb, op.cit, 63.

(24) Jacques Godechot, Les institutions de la France sous la Révolution et l'Empire, Presses Universitaires de France, 1985, p.163.

(25) Michel Bruguière, Gestionnaires et profi­teurs de la Révolution,  Olivier Orban, 1986.

(26) Michel Bruguière, op.cit, 74.

(27) René Sédillot, op.cit, 242.

(28) René Sédillot, op.cit, 243.

(29) Alfred Cobban, op.cit, 93.

(30) René Sédillot, op.cit, pp. 248-249.

(31) Robert Darnton, La fin des lumières: le mes­mérisme et la Révolution,  Perrin, 1984.

(32) Michel Bruguière, op.cit, 170.

(33) François Caron, Histoire économique de la France: XIXe-XXe siècles,  Armand Colin, 1981.

(34) Alain Caillé, Splendeurs et misères des scien­ces sociales, Droz, 1986, chapitre 4, 2eme partie, pp. 172-200.

(35) Michel Morineau, «Des origines de l'iné­ga­li­té de développement», dans Pour une histoire éco­nomique vraie, Presses Universitaires de Lil­le, 1985, pp.391-411.

(36) Michel Morineau, «Révolution agricole, ré­vo­­lution alimentaire, révolution démogra­phi­que», dans Pour une histoire économique vraie, Presses Universitaires de Lille, 1985, pp.241-276.

(37) François Crouzet, De la supériorité de l'An­glet­erre sur la France, Perrin, 1985 chapitre 2, pp. 22-49.

(38) Jean Meyer, Le poids de l'Etat, Presses Uni­ver­sitaires de France, 1983, p.50.

(39) William H. Sewell, op.cit, 201.

(40) William H Sewell, op.cit, 219.

(41) François Crouzet, op. cit, 280.

(42) François Crouzet, op. cit, chapitre 10, «Les conséquences économiques de la Révolution française, vues de Londres».

 


 

 

 

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lundi, 21 septembre 2009

Les articles de Jean Paul Roux sur clio.fr

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Les articles de Jean-Paul Roux sur Clio.fr
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Sinan, un ingénieur-artiste au XVIe siècle
Si la vie de Sinan nous est mal connue, son œuvre magistrale, en revanche, témoigne à sa place. Jean-Paul Roux nous invite à découvrir les nombreuses mosquées que conçut et bâtit cet ingénieur, chrétien d’origine grecque, qui vécut au XVIe ... Lire l'article
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Malgré leur puissance, peut-être plus apparente que réelle, les Mamelouks, maîtres de l’Égypte et de l’Arabie, n’avaient pu empêcher les Portugais d’assurer leur domination dans l’océan Indien et d’interdire pratiquement l’accès de la mer Rouge ... Lire l'article
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Peu de civilisations ont laissé un tel souvenir dans la mémoire des hommes et d’aussi maigres témoins de leur existence, que celle des Omeyyades d’Espagne. Nés à l’issue d’un drame, ils ont régné pendant deux cent soixante-quinze ans, dont cent ... Lire l'article
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Le Proche-Orient arabe sous domination ottomane
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Les Séfévides, fondateurs de l’Iran moderne (1501-1736)
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La miniature iranienne, un art figuratif en terre d’islam
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La miniature moghole, éclectique et raffinée
La peinture moghole, contrairement à la peinture ottomane de manuscrits, connut très tôt une large audience et conquit la faveur des historiens de l’art et du grand public. L’intervention des Portugais aux Indes, puis l’occupation française et ... Lire l'article
La Horde d’or et la Russie
En ce début du XIIIe siècle, rien ni personne ne semblait pouvoir résister à la déferlante des cavaliers mongols et les villes russes tombèrent les unes après les autres. Pendant près de deux cent cinquante ans, la Russie fit le dos rond ... Lire l'article
Les Grands Seldjoukides
Les pères luttent pour la conquête, leurs fils règnent, parfois avec sagesse, leurs petits-fils essaient, sans toujours y parvenir, de défendre des territoires convoités par d’autres conquérants : si toutes les dynasties sont mortelles, ... Lire l'article
Quand l'Afghanistan était l'un des centres du monde
Vers 1950, l’Afghanistan, figé sur ses traditions, sur un islam pur et dur, sur une farouche xénophobie, demeurait, malgré quelques tentatives d’ouverture sur le monde, un des pays les plus inaccessibles et les plus retardataires. Il n’y avait ... Lire l'article
L'épopée du monde turc
La langue turque est connue depuis le VIIIe siècle par des inscriptions écrites en Mongolie septentrionale, mais elle présente déjà, alors, des phénomènes d’usure qui prouvent son antiquité : elle nous a livré son premier mot dans un ... Lire l'article
Secte ou religion : les Druzes du Proche-Orient
De toutes les formations religieuses hétérodoxes qui émaillent le monde de l’islam, l’une des plus célèbres, pour ne pas dire la plus célèbre, est celle des Druzes. Cela provient peut-être de ce qu’elle a des liens anciens avec l’Europe ; ... Lire l'article
L’islam des partisans d’Ali : le chiisme
Une étude du chiisme doit tenir compte de plusieurs faits : il n’est pas spécifiquement iranien ; il a une longue histoire ; loin d’être unifié, il se subdivise en maints rameaux ; tous les mouvements religieux ou toutes les ... Lire l'article
L’Empire mongol, de l’art de la conquête
En 1164 peut-être – les dates ne sont pas sûres – au nord du pays qui deviendra la Mongolie, un homme et un garçon de neuf ans, Temüdjin, séjournent chez un chef de tribu des Qonggirat. Ils sont bien accueillis, et, comme on se plaît, on décide ... Lire l'article
La miniature ottomane
Des trois écoles classiques de la miniature islamique – celles d’Iran, de l’Inde moghole et des Ottomans – la dernière est la moins connue. Cela découle de trois faits : ses œuvres, moins dispersées que les autres, sont mal représentées ... Lire l'article
Les sept villes de Delhi
Ce n’est pas à Delhi que l’on peut voir les plus beaux monuments de l’islam en Inde. Il ne s’y trouve ni le Taj Mahal ni les délicats écrans de marbre ciselé. On peut préférer la Grande Mosquée de Fatehpur Sikri ou d’Agra à celle de la ville ... Lire l'article
L'empire éblouissant des Grands Moghols
Si, officiellement, la dynastie des Moghols régna de 1526 à 1857, seuls six, parmi eux les premiers, furent véritablement « grands » et apportèrent à l’Inde puissance, prospérité et unité, tolérance et raffinement esthétique. ... Lire l'article
Akbar et Fatehpur Sikri
Fatehpur Sikri, où tant d’influences artistiques se font sentir, est l’expression architecturale de l’idéal d’Akbar : la fusion en un ensemble unique, aussi harmonieux que possible, de toutes les tendances religieuses et culturelles de son ... Lire l'article
Le Caire islamique
Qui visite Le Caire islamique ? On ne va pas en Égypte pour l’art de l’islam, mais pour l’Antiquité pharaonique, et c’est dommage. Peu de cités au monde possèdent autant de monuments anciens, aussi beaux, aussi variés, et ... Lire l'article
Le harem de Topkapi : mythe et réalité
Dans l’imaginaire occidental, le harem des sultans a longtemps entretenu la vision d’un Orient de luxe et de volupté. Mais quand et pourquoi fut-il édifié ? Quelle en était l’organisation et comment vivaient, au quotidien, les femmes que ... Lire l'article
Les palais des caravanes : Les caravansérails seldjoukides
Au XIIIe siècle les routes de Cappadoce se jalonnèrent de caravansérails qui accueillaient gratuitement bêtes et gens. On y parlait toutes les langues, on priait, on négociait, on se soignait, et l’on repartait vers la halte suivante. Ils ... Lire l'article
La civilisation omeyyade et les châteaux du désert
Quelques années seulement après l’émergence de l’Empire arabe en 632, les Omeyyades imposèrent leur autorité et, de Syrie où ils s’installèrent, tout en perpétuant les traditions léguées tant par l’Antiquité que le christianisme, ils surent imposer ... Lire l'article
Istanbul, métamorphoses et séduction
D’où vient cette fascination qu’exerce l’antique capitale des basilei byzantins et des padichah ottomans ? Pourquoi, dans son incessante métamorphose, Istanbul nous donne-t-elle ce gage de fidélité ? Telles sont les questions ... Lire l'article
La Grande Mosquée d'Ispahan : Histoire et civilisation de l'Iran islamique
Auteur de nombreux ouvrages, Jean-Paul Roux est spécialiste du monde musulman. Ses études et observations concernant la Grande Mosquée d’Ispahan nous révèlent aujourd’hui à quel point ce monument est le plus important et le plus significatif ... Lire l'article
Le mazdéisme, la religion des mages
Dans l’Iran ancien était vénéré le dieu Ahura Mazda, le Seigneur sage, omniscient ; d’où le nom mazdéisme donné à cette religion traditionnelle, la plus ancienne à s’être pérennisée – parfois sous la dénomination de zoroastrisme, ... Lire l'article
Le christianisme en Asie centrale
L’Asie centrale, de tout temps terre de passage, d’invasion, de rencontre des civilisations venues des quatre points cardinaux, est le lieu de la diversité anthropologique, linguistique et culturelle par excellence. Comment, et sous quelle forme ... Lire l'article

dimanche, 20 septembre 2009

"La conquista del Estado - El primer semanarion nacional-sindicalista espanol (1931)

"La conquista del Estado. El primer semanario nacional-sindicalista español (1931)»

Gabriela Viadero Carral

Ex: http://urioste.eu/

«La Conquista del Estado. El primer semanario nacional-sindicalista español (1931)»

Gabriela Viadero Carral

Orientaciones

«No estamos ante un libro cualquiera. Lo que el lector va a encontrar en esta obra es algo poco corriente: un estudio serio sobre una revista histórica y política, La Conquista del Estado. Si la historia es una de las disciplinas que se han abordado con mayor subjetividad, la historia política ha sido objeto de las más infames tergiversaciones. La figura de Ramiro Ledesma Ramos -como la de otros tantos ideólogos- ha sufrido todo tipo de interpretaciones, desde la muerte bibliográfica del silencio académico hasta las biografías apasionadas de sus detractores y sus supuestos partidarios.

El estudio que usted tiene en sus manos es de un gran valor cultural por dos motivos fundamentales. Primero, porque no es una obra literaria de un amante o detractor de La Conquista del Estado, donde se verían reflejadas más las filias y fobias del autor que el objeto estudiado, sino un trabajo universitario serio y responsable que ha pasado con solvencia los filtros de la corrección y calificación académica. Es decir, su calidad está avalada por expertos en la materia.

Segundo porque la autora, Gabriela Viadero Carral, no tenía ninguna opinión formada sobre Ramiro Ledesma Ramos o La Conquista del Estado antes de comenzar su investigación. Su aproximación, por lo tanto, ha estado libre de apasionamiento, lo que ha contribuido a la objetividad del trabajo. Esta mirada limpia y pura le ha permitido plasmar con magnificiencia y certera intuición la realidad del filósofo español y del “semanario de lucha y de información política” que él mismo impulsó.

Esto no quiere decir que la investigadora, desde el punto de vista humano, no fuese sintiendo un especial y sincero afecto por la figura de Ramiro Ledesma Ramos conforme desarrollaba su trabajo: viendo como aquel joven filósofo (discípulo de Ortega y Gasset y estudioso de Martin Heidegger, colaborador de La Gaceta Literaria y la Revista de Occidente) dejaba una prometedora y cómoda carrera intelectual para dedicarse de pleno a la lucha política radical en plena transición republicana, prescindiendo hasta de comer para poder pagar la impresión y distribución de su revista. Sin olvidar su triste pero heroica muerte. Una empatía sana y natural, nacida del estudio directo, que no ha restado ni un ápice la credibilidad de este trabajo.

¿Por qué era necesario un trabajo de investigación sobre esta publicación?

Pese a su temprana muerte -asesinado con poco más de treinta años-, Ramiro Ledesma Ramos encarnó los valores éticos, filosóficos y políticos de una generación europea que buscaba una alternativa a un mundo que se precipitaba al abismo entre el liberalismo y el marxismo. Esa alternativa, que conjugaba lo social y lo nacional, tuvo diversas manifestaciones a lo largo y ancho de Europa. La Conquista del Estado es, sobre el papel, la expresión española de esa corriente de vanguardia que, lamentablemente, ha sido poco y mal estudiada.

Además, como ya he comentado, su figura ha sido manipulada de tal modo que, en ocasiones, resulta irreconocible. Sus detractores le han presentado -cuando no silenciado- como un joven acartonado, fanático entusiasta del nacionalsocialismo y del fascismo -siempre de forma peyorativa- y sin ninguna originalidad o dimensión ideológica más allá de los prejuicios y clichés de los “bienpensantes”. Otros, supuestos seguidores, le han utilizado interesadamente para renovar su imagen y hacerla más atractiva, sin asumir los valores y postulados que él defendía. Estos ultraderechistas han construido un Ramiro Ledesma Ramos ficticio, valedor de causas que él combatió. Son estos últimos los que más daño han hecho a su recuerdo.

Así mismo, esta obra se hace imprescindible para comprender mejor aún una época, la de la II República, sobre la que mucho se habla y más se miente. Si bien es cierto que La Conquista del Estado -y las posteriores JONS- no tuvieron demasiada importancia en aquel momento, sí supusieron una vía política distinta. Vía que, en otros países, tuvo mucha fuerza y esperanzó a pueblos enteros. Tal vez la prematura muerte de la II República no permitió percibir el potencial de esta nueva alternativa, que podría haberse proyectado de otra forma si hubiese tenido más tiempo para difundirse.

En conclusión, era necesario, y por fin se ha hecho realidad, un trabajo que estudiara con claridad y transparencia no sólo los posicionamientos ideológicos de una época histórica concreta, sino una forma de ver y sentir la política que hoy en día sigue inspirando. Libre de prejuicios, heterodoxa, valiente y arriesgada… Así fue La Conquista del Estado, así fue Ramiro Ledesma Ramos.»

[Prólogo de Diego Urioste]

Enlace Ediciones Nueva República

dimanche, 13 septembre 2009

Gerbert l'Européen

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996

Gerbert l'Européen 

 

En 1996, un colloque consacré à Gerbert, le pape de l'an Mil, Sylvestre II, a eu lieu à Aurillac. Les actes de ce colloque viennent d'être publiés sous le titre de Gerbert l'Européen.  Pierre Riché écrit en introduction à propos de Gerbert, alors archevêque de Reims: «Il attire de nombreux élèves venus de toutes les régions de l'Europe. Son école rayonne même en Lotharingie, en Italie, en Germanie. Un écolâtre de Magdebourg étonné par ce succès, envoya un de ses étudiants saxons pour prendre des notes au cours de Gerbert à Reims. Malheureusement, il n'était pas compétent et fit à son maître un rapport inexact. Gerbert devait prouver sa supériorité à Ravenne en 981. Pour son élève Otton III, il écrivit un traité de logique. Ses connaissances sur l'astrolabe à partir de 983 sont l'objet de discussions mais sa lettre à Lobet de Barcelone, traducteur d'un traité arabe, prouve qu'il s'intéresse à la question. La construction de son abaque fait penser qu'il connaît l'existence des chiffres arabes. Sa science musicale est indéniable . Après sa mort, les disciples de Gerbert ont vanté ses mérites et de nombreux manuscrits contenant ses œuvres authentiques ou non ont été diffusés. Gerbert a si bien redonné vigueur à l'enseignement de la dialectique et des sciences qu'il inquiète les clercs de son époque. En cela, il rappelle Boèce qui était son modèle, et dont il connaît les œuvres. Comme lui, Gerbert est un homme de science, son Dieu n'est pas tellement celui d'Abraham, d'Isaac et de Jacob, mais le Dieu des philosophes et des savants. Comme Boèce, il croit que Dieu est le Bien suprême, celui qui régit le monde, qui organise l'harmonie des sphères et détient les Idées; comme Boèce, la philosophie est sa consolation: “La philosophie est le seul remède que j'ai trouvé... J'ai préféré les loisirs de l'étude qui ne trompent jamais aux incertitudes et aux hasards de la guerre”. C'est à ses amis d'Aurillac qu'il écrit cette lettre à une époque de difficultés, car Gerbert l'Européen qui connaît la Catalogne, Rome, Reims, Ravenne, la Saxe, les pays slaves, est resté fidèle à son monastère d'Aurillac et trouve auprès de ses anciens maîtres un réconfort. C'est en pensant à ses maîtres d'Aurillac qu'il a écrit: “La gloire du maître, c'est la victoire du disciple”». Les actes regroupent vingt-trois interventions d'universitaires et chercheurs français et étrangers (JdB).

 

Gerbert l'Européen, Comité d'expansion économique du Cantal, Hôtel du Département , F-15.000 Aurillac. 364 pages. 195 FF.

 

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samedi, 05 septembre 2009

Joris van Severen en Charles Baudelaire

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Joris van Severen en Charles Baudelaire


Ex: http://www.jorisvanseveren.org/

Joris de Deurwaerder (Brugge), vestigde terecht onze aandacht op de studie ‘Baudelaire, het Baudelairisme – hun nawerking in de Nederlandse Letterkunde’ door dr. Paul de Smaele (1906-1965) (Koninklijke Vlaamse Academie voor Taal- en Letterkunde, reeks VI, nr. 54, XII-199 p., Brussel, 1934). De auteur zou vanaf 1937 docent neerlandistiek worden aan de Université Libre de Bruxelles. In zijn Gentse dissertatie uit 1930 (promotor prof. Frank Bauer (1887-1969) wordt (pp. 151-153) aandacht besteedt aan de wijze waarop Joris van Severen de Franse schrijver benaderde in zijn tijdschrift ‘Ter Waarheid’.

Charles Baudelaire (1821-1867) was het Dandyisme toegedaan en huldigde “de godsdienst van de heldhaftige elegantie” en het beginsel van “l’art pour l’art” (Lectuurrepertorium).

Merkwaardig is de lijn die De Smaele trekt van Joris van Severen naar Gerard Bruning (1898-1926), de jong gestorven oudere broer van Henri Bruning (1900-1983), die later één van de intellectuele krachten van het Verdinaso in Nederland zou worden.

Reden waarom we in onderstaand excerpt (vertaald in de hedendaagse spelling) ook de alinea’s overnemen over de Brunnings. Ter oriëntatie in de tijd, hebben we er de levensdata van de vernoemde auteurs tussen [-] aan toegevoegd. In de zinsneden tussen aanhalingstekens is Joris van Severen aan het woord.

Maurits Cailliau

In 1921 werd door bewuste jonge katholieke Vlamingen een eerste poging gedaan om Baudelaire voor zich op te eisen.1 Deze gebeurtenis is op zich zelf merkwaardig genoeg om er een ogenblik bij stil te staan. Bedoelde sympathieën voor de figuur Baudelaire kwamen het klaarst tot uiting in een programmatisch artikel Charles Baudelaire door Georges van Severen, verschenen in het tijdschrift Ter Waarheid. 2 Daaruit neem ik een paar van de meest typische zinsneden over. (Het schijnt me toe dat we hier voor een sprekend voorbeeld staan van hetgeen Gossaert [1884-1958] bezielde retoriek noemt.)

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“Voor zeer velen, voor de meesten helaas, die ‘t geluk hebben deze naam te kennen, roept hij geen andere gedachten op dan van ziekelijke zedeloosheid, perversiteit, cynisme, duivelachtigheid, enz. Voor ons een der allergrootste, allerechtste, allerdiepste, allermenselijkste dichters van alle tijden. Een katho1iek dichter, essentieel. Inderdaad. In deze ziel klaagt en vloekt het ‘Irrequietum’ met een zo wrange hevige smart, dat het leven van deze rampzalige mens er door gebroken werd en vernield.”

Wat volgens Van Severen Baudelaire tot een specifiek katholiek dichter stempelt, is de heftigheid en de bestendigheid, met dewelke in hem de strijd tussen Goed en Kwaad gewoed heeft.

“Zo geweldig, zo machtig, met de macht van zo’n triomfantelijke christene menselijkheid, roept en hunkert deze ziel naar almachtige schoonheid, dat dit hunkeren haar potentieel bevrijdt van al het demonische van het lichaam en haar zuiver weet te behouden midden de meest schrijnende geestelijke nederlagen, in den strijd tegen de subtiele magie van het vlees. Baudelaire, een der smartelijkste bewusten van het aardse ballingschap, een der hartstochtlelijkste, diepgefolterde zoekers naar het verloren Paradijs, een waarlijk Koninklijke ziel. Geen macht, maar hoogste adel...”

Men ziet het, uit deze bladzijde klinkt hartstocht genoeg; deze jonge 20e-eeuwer voelt zich met Baudelaire geestelijk verwant, en hij is de woordvoerder van een goed deel der katholieke “avant-garde” in Vlaanderen. Zoals in soortgelijke gevallen meer gebeurt, wil Van Severen zijn bewondering ook op theoretische basis grondvesten En de waarde van Baudelaire’s verzen aan de esthetische beschouwingen van zijn geloofsgenoot de thomist Jacques Maritain [1882-1973]. En triomfantelijk wordt medegedeeld dat, krachtens de bepaling, gegeven door de schrijver van Art et Scolastique de gedichten van Baudelaire echte, hoge kunst mogen heten. Des te beter. Het artikel wil bovendien zijn een “inleiding tot Baudelaire”, een aansporing tot kennismaking voor die lezers, welke met Baudelaire niet of onvoldoende zouden vertrouwd zijn.

Immers, men vindt er achtereenvolgens:

1. brokstukken uit Gautier over Baudelaire;

2. een korte levenskarakteristiek van Baudelaire;

3. marginalia uit zijn werk;

4. L’Esthetique de Baudelaire, een onvertaald stuk van G. de Reynold [1880-1970] - (deze keuze spreekt boekdelen) - overgenomen uit l’Esprit Nouveau (1920; nr. 15).

Dat Baudelaire - en als lyrisch dichter en als estheticus - een rol speelt in het geestelijk leven van de jongeren van Ter Waarheid, het kan, na dit stuk, niet meer betwijfeld worden. Deze overtuiging wordt versterkt door de herhaalde aanhalingen uit zijn werk, welke in de twee jaargangen van het tijdschrift te vinden zijn.3

Een zelfde belangstelling voor Baudelaire kan men tijdens de jongste jaren waarnemen in vooruitstrevende middens van jonge Hollandse katholieken. Hun organen waren - en zijn nog steeds - de tijdschriften Roeping (1922; dee Nijmegse groep) en De Gemeenschap (1925).

En hier beschikken we over een merkwaardig document. Het is een onvoltooid gebleven studie over Baudelaire, van de hand van de jonggestorven essayist (er bestaat van hem ook scheppend proza) Gerard Bruning.4

Dat in zijn kritisch werk niet de minste aanspraak gemaakt wordt op objectiviteit, Bruning heeft het zelf getuigd (zijn strijdleuze luidde “catholique avant tout”, ook in de kunst), en dit is niet de enige reden waarom men hem het best met Karel van den Oever [1879-1926] (in zijn tweede stadium) vergelijken kan; hij rekent zich zijn fanatiek subjectivisme tot deugd en tot plicht. Ziehier trouwens hoe zijn vriend Marsman [1899-1940] de inleiding tot het Nagelaten Werk besluit: “Gij kunt dit werk, deze beginselen en deze mens natuurlijk verwerpen, of aannemen, gij kunt hem zelfs, als gij hem eren wilt, alleen maar óf verwerpen óf aanvaarden…” - Wanneer nu een jong criticus als deze, fanatiek als E. Hello [1828-1885], star dogmatisch als H. Massis [1886-1970], heftig pamflettisch als L. Bloy [1846-1917] (van deze is hij, in Holland. de volgeling), woorden van bewondering voor de kunstenaar, maar vooral woorden van devotie en medelijden voor de mens Baudelaire spreekt – bij wie hem, aan de oppervlakte verwijlend, zoveel moest afstoten – dan moet men aannemen dat deze bewondering en deze devotie zeer oprecht en diep zijn.

Ik aarzel bovendien niet te zeggen dat G. Bruning in de jongste Nederlandse letterkunde een bij uitstek Baudelairiaanse verschijning geweest is, De antinomie tussen Goed en Kwaad is hem tot een geestesfolterende dwangvoorstelling geworden.

Men doorbladere zijn werk: aanhoudend wordt. in de meeste opstellen, Baudelaire aangehaald of komt hij althans ter sprake, bijna uitsluitend in hetzelfde verband.

Noten

1 In die richting was Frankrijk Vlaanderen reeds voorgegaan. Daarvan biedt een typisch voorbeeld de uitvoerige en ernstige studie van G. de Reynold, Parijs, Crès, 1920). De schrijver heeft al zijn eruditie en niet minder zijn spitsvondigheid in het werk gesteld om van Les F1eurs du Mal een zuiver katholieke interpretatie te geven. Zeer belangwekkend, oorspronkelijk vooral is dit werk, - ofschoon naar mijn bescheiden mening, niet vrij - welke Baudelaire-kenner zal er zich over verbazen? - van een aantal gevallen van “Hineininterpretierung”. Op hetzelfde gebied is me nog bekend het boek van St. Fumet (1896-1983) -  met de welsprekende titel. Notre Baudelaire (Parijs, Le Roseau d’Or, 1926). Op talrijke plaatsen kan ik zijn betoog niet anders dan zeer “spécieux” [= schijnbaar correct] noemen.

2 Ter Waarheid, jg. II, p. 53 vlg.

3 Men zie vooral Ter Waarheid, 1921, p. 487,

4 De Prijs der Schoonheid, fragment uit de inleiding op een studie over Baudelaire - in Nagelaten Werk van G. Bruning; samengesteld en ingeleid door H. Bruning en H. Marsman, Nijmegen, 1927, Men kan de studie insgelijks vinden in de letterkundige almanak Erts voor het jaar 1927, p. 4 vlg.

mardi, 01 septembre 2009

Der Zweite Weltkrieg hatte viele Väter

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Der Zweite Weltkrieg hatte viele Väter

Die Kriegsursachen waren komplexer, als es die gängige Schwarzweißmalerei erscheinen lässt

Ex: http://www.ostpreussen.de

Wir nähern uns dem 1. September und damit einem für unser Volk sehr bedeutsamen Tag, dem 70. Jahrestag des Kriegsbeginns. Jedem Deutschen ist dieses Datum durch Schulbücher, eine umfangreiche Geschichtsliteratur sowie durch Film- und Fernsehproduktionen ein Begriff. Das Bild, das sich dabei in den Jahrzehnten dieser Geschichtspräsentationen in unseren Köpfen festgesetzt hat, ist so eingängig und „schwarz-weiß“ wie es verzerrt ist und in Teilen falsch.

Dieses Bild zeigt ein Deutschland, das 1939 über Polen herfällt, eine Sowjet­union, die sich die Hälfte Polens raubt, und ein Polen, das dabei nur Opfer ist. Was diese Darstellungen der Geschichte in aller Regel auslassen, sind die Gründe, die zur Kriegseröffnung führten, die sich fast ein Jahr hinziehenden Bemühungen der damaligen deutschen Regierung, die deutsch-polnischen Probleme auf dem Kompromisswege zu lösen, sowie die intensiven und frühen Kriegsvorbereitungen auch in Polen.

Der Vertrag von Versailles hatte dem Deutschen Reich und Polen drei Problembereiche hinterlassen. Zum ersten wurde die zu 97 Prozent deutsch bewohnte Hansestadt Danzig von Deutschland abgetrennt und zur teilsouveränen Republik „Freie Stadt Danzig“ erklärt. Damit wurde sie zu einem eigenen Staat gemacht. Die Hypothek, die die Sieger den Danzigern dabei mitgegeben hatten, bestand darin, dass sie der Republik Polen besondere Zoll-, Post-, Bahn- und Handelsrechte in Danzig eingeräumt sowie die außenpolitische Vertretung Danzigs übertragen hatten. Ansonsten stand die Freie Stadt unter dem Protektorat des Völkerbunds, also der Siegermächte selbst.

Die Republik Polen begann alsbald, eine Vielzahl von Behörden im Freistaat einzurichten. Die Mischung polnischer und Danziger Behörden in den Bereichen Post, Bahn, Zoll und Wasserstraßen erzeugte ein endloses Kompetenzgerangel. Als der Staat Polen in den Folgejahren versuchte, sich Danzig in einer Serie vieler kleiner Schritte einzuverleiben und den Hohen Kommissar des Völkerbundes mit immer neuen Forderungen bombardierte, um den in Versailles erhobenen Anspruch auf Danzig doch noch durchzusetzen, erwies sich, dass dieses Konstrukt eines selbständigen Kleinstaats mit vielen ihm entzogenen Hoheitsrechten auf Dauer so nicht lebensfähig war.

Polen musste sich in den 20er Jahren wiederholte Male vom Völkerbund belehren lassen, dass es keine Oberherrschaft über Danzig auszuüben habe. Der Rat des Völkerbunds in Genf musste sich bis 1933 106mal mit Streitfällen zwischen Polen und der Freien Stadt befassen. Die Streitigkeiten zwischen Danzig und der Republik Polen nahmen bis zum Kriegsbeginn kein Ende.

Das zweite Faktum war, dass der größte Teil Westpreußens mit immerhin 70 Prozent deutscher Bevölkerung und der Provinz Posen mit noch 38 Prozent Deutschen sowie ein Teil Oberschlesiens von Deutschland abgetrennt und Polen zugesprochen worden waren. Damit waren rund zwei Millionen deutsche Bürger gegen ihren Willen polnische Staatsbürger geworden.
Als 1938 erst Österreich und dann die Sudetengebiete mit dem Deutschen Reich vereinigt wurden, stieg die Angst der Polen, Deutschland könnte auch von ihnen Land und Menschen aus dem Bestand des alten Deutschen Reichs zurückverlangen. Die Feindschaft der Polen gegen ihre deutsche Minderheit nahm wieder einmal scharfe Formen an. Terrorakte gegen Deutsche, die Zerstörung deutscher Geschäfte, die Schließung deutscher Firmen und die Brandstiftungen an deutschen Bauernhöfen nahmen 1939 ständig zu. Die Lage wurde unerträglich. Im Sommer 1939 schwoll die Zahl der Volksdeutschen, die dem entkommen und Polen „illegal“ verlassen wollten, ständig an. Bis Mitte August waren über 76000 Menschen ins Reich geflohen und 18000 zusätzlich ins Danziger Gebiet. Die Berichte über den Umgang der Polen mit ihrer deutschen Minderheit und die Schilderungen der Geflohenen waren Öl aufs Feuer des deutsch-polnischen Verhältnisses in den letzten Wochen und Tagen vor dem Kriegsausbruch.

Die dritte deutsch-polnische Belastung ergab sich ebenfalls aus der erzwungenen Abtretung Westpreußens an Polen. Damit entstand ein polnischer Landstreifen zwischen dem Kern des Deutschen Reichs und der von nun an von Deutschland abgetrennten Provinz Ostpreußen. Es entstand der „polnische Korridor“. Auf diese Weise hingen Ostpreußens Wirtschaft und besonders seine Energieversorgung auf einmal von den Verkehrswegen durch nun polnisches Gebiet ab. 1920 war dazu vertraglich festgelegt worden, dass die Verkehrsverbindungen nach Ostpreußen für Personen, Waren und vor allem Steinkohle aus Oberschlesien über acht Eisenbahnstrecken durch Polen laufen sollten, und dass die Transitgebühren dafür in Zloty zu entrichten wären. Während und nach der Weltwirtschaftskrise nahm Deutschland im Außenhandel jedoch nicht mehr genug Zloty ein. Um die Gebühren zu entrichten, überwiesen die deutschen Behörden die an Zloty fehlenden Beträge monatlich in Reichsmark. Doch Polen sah darin einen Vertragsbruch, was es streng nach dem Vertragstext ja auch war, und schloss zur Strafe ab 1936 eine Bahnverbindung nach der anderen. 67 Prozent der Eisenbahntransporte jedoch dienten der Energieversorgung Ostpreußens. Sie fuhren Kohle aus Oberschlesien für Industrie, Gewerbe, den Hausbrand und die Stromerzeugung in die abgeschnittene Provinz. Schließlich drohte die polnische Seite damit, bei weiterhin unvollständigen Zloty-Überweisungen auch die letzten Strecken zwischen Ostpreußen und dem Reichsgebiet zu schließen. Damit wäre Ostpreußen von seiner Energieversorgung abgeschnitten und dem wirtschaftlichen Ruin preisgegeben worden. So kam im Reichswirtschaftsministerium die Idee auf, mit den Polen statt über Zloty-Zahlungen über exterritoriale Verkehrsverbindungen von Pommern nach Ostpreußen in deutscher Hoheit und Regie zu sprechen.

Mit den drei Problemen, der Gründung eines eigenen Staates Danzig, mit der Zwangsunterstellung von zwei Millionen Deutschen unter Polens Herrschaft und mit der territorialen Abtrennung des Landesteiles Ostpreußen vom deutschen Kernland hatten die Siegermächte in Versailles so viel Konfliktstoff für Deutschland und für Polen aufgetürmt, dass ein gedeihliches Nebeneinander der zwei Nachbarstaaten ohne spätere Korrekturen fast ausgeschlossen war.

Nachdem Adolf Hitler Warschau im September 1938 im Streit mit Prag um das Gebiet von Teschen unterstützt hatte, sah er den Zeitpunkt als günstig für eine deutsch-polnische Verständigung an. Er ließ Verhandlungen mit Polen um Danzig, die Transitwege durch den Korridor und die Einhaltung der Minderheitenrechte der Deutschen in Polen eröffnen. Sein erstes Angebot: die Anerkennung der polnischen Gebietserwerbungen seit 1918 und die Verlängerung des deutsch-polnischen Freundschaftsvertrages von zehn auf 25 Jahre. Im Januar 1939 legte Hitler noch einmal nach. Er schlug vor: „Danzig kommt politisch zur deutschen Gemeinschaft und bleibt wirtschaftlich bei Polen.“

Am 14. März 1939 beging Hitler seinen großen Fehler. Er erklärte die Tschechei entgegen früher gegebenen Versprechen zum deutschen Protektorat und ließ sie besetzen. Nun brauchten die Briten Verbündete gegen Deutschland. Sie boten Polen einen Beistands­pakt an. Polen schloss Ende März 1939 einen Vertrag mit England, machte seine Truppen teilweise mobil und verdoppelte seine Truppenstärke, stellte sieben Armeestäbe auf und ließ Truppen in Richtung Ostpreußen aufmarschieren. Das alles im März 1939.

Hitler reagierte. Er gab am 3. April 1939 der Wehrmacht erstmals den Befehl, einen Angriff gegen Polen vorzubereiten.
Nun herrschte Eiszeit zwischen Deutschland und Polen. Die polnische Regierung erklärte, der Status der Freien Stadt Danzig beruhe ja nicht auf dem Vertrag von Versailles, sondern auf der jahrhundertelangen Zugehörigkeit Danzigs zu Polen, und Posen und Westpreußen gehörten de jure und de facto längst zu Polen. Die angebotene deutsche Anerkennung sei keine Gegenleistung.

Hitler bat danach die englische Regierung, für Deutschland bei den Polen zu vermitteln. Am 30. August 1939 machte Hitler Polen einen 16-Punkte-Vorschlag. Er schlug als wesentliche Punkte vor: „Die Bevölkerung im Korridor soll in einer Volksabstimmung unter internationaler Kontrolle selbst entscheiden, ob sie zu Polen oder zu Deutschland gehören will. Der Wahlverlierer bekommt exterritoriale Verkehrswege durch den Korridor. Bleibt der Korridor bei Polen, erhält Deutschland exterritoriale Verkehrswege nach Ostpreußen; geht der Korridor an Deutschland, bekommen die Polen exterritoriale Verkehrswege zu ihrem Hafen an der Ostsee, nach Gdingen.“ Und – auch das gehört zum Vorschlag – „der Hafen und die Stadt Gdingen bleiben unabhängig vom Wahlausgang bei Polen, damit Polen einen Ostseehafen hat. Und Polen behält außerdem seine Handelsprivilegien in Danzig.“ Das war der letzte deutsche Vorschlag vor dem Krieg.

Es bleibt noch nachzutragen, dass Polen seinen Kriegsaufmarsch mit der Mobilmachung am 23. März 1939 eingeleitet hatte, während die ersten neun deutschen Heeresdivisionen erst drei Monate danach, am 26. Juni 1939 an die deutsch-polnischen Grenzen verlegt worden waren. Soweit zum deutschen „Überfall“ auf Polen.

Wenn Polen Hitlers Kompromissvorschlag vom Januar 1939, „Danzig kommt politisch zur deutschen Gemeinschaft und bleibt wirtschaftlich bei Polen“, akzeptiert hätte, hätten sich wahrscheinlich auch die andern zwei deutschen Differenzen mit Polen überwinden lassen. Dann wäre Europa der furchtbare Zweite Weltkrieg vielleicht erspart geblieben. 
 Gerd Schultze-Rhonhof

Der Autor dieses Beitrages ist Verfasser des Buches „1939 – Der Krieg, der viele Väter hatte – Der lange Anlauf zum Zweiten Weltkrieg“, 6., verbesserte und erweiterte Auflage, Olzog, München 2007 gebunden, 608 Seiten.

von Gerd Schultze-Rhonhof

Veröffentlicht am 28.08.2009

dimanche, 30 août 2009

Short note on the Pacts of August 1939

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Short note on the Pacts of August 1939

(The Pact of Mutual Help between UK  and  Poland

and the Molotov-Ribbentrop Pact)

Tiberio Graziani *

Considering the alliances signed by the insular Great Britain in the frame of their secular anti-European power politics, finalized at containing and defeating the aims of friendship and / or integration among the nations of the European Continent, it is worth mentioning - as an illustrative example - the Pact of  Mutual Help between the UK and Poland, signed in London on 25 August 1939.

As known, the Anglo-Polish Friendship Treaty, signed by Lord Halifax and Count Rczynski, was a deliberate violation (1) of the similar Treaty that Germany and Poland had signed on 26 January 1934, and, above all, an explicit interference in the delicate relations between the National Socialist Reich and USSR; Berlin and Moscow, in fact, just two days earlier, on 23 August, had signed a non-aggression treaty, known to history as the Molotov-Ribbentrop Pact, named after their respective foreign ministers.

 

In this case, the United Kingdom intended  to use - as part of a diplomatic-military device, theoretically equal, -  the strategic position of Poland as a "splitter" between two continental powers in order to affect, simultaneously, both the creation of a potential axis Moscow -Berlin and the German-Polish agreements, and thereby removing any future potential perspective of welding / integration between the European Peninsula and the Asian continental mass.

The disturbing action devised by London, through a fine texture of diplomatic activities, which U.S. were involved (2), was perfectly consistent with British geopolitical doctrine, whose exploitation of the tensions between the continental nations constituted a key pillar of  its equilibrium policy (balance of power).

 

 

1. Some months before, on 19 May 1939, a Mutual Help Agreement between France and Poland (probably on U.S. and U.K. request) was signed in Paris by Polish ambassador Juliusz Lukasiewicz  and French Minister of Foreign Affairs, Georges Bonnet. For Berlin, and under some aspects for Moscow too, the  two Mutual Help Agreement constituted a sort of threat for the continental peace.

 

2.  We refer to meetings among U.S. Ambassador William Christian Bullitt, Jr. and the Polish Ambassadors Potocki and Lukasiewicz, which occurred in France in November 1938 and February 1939;  see  Giselher Wirsing, Roosevelt et l'Europe (Der Kontinent Masslose), Grasset, Paris, 1942, p. 266.

 

 

* Eurasia. Rivista di studi geopolitici (Eurasia. Journal of Geopolitical Studies – Italy)

www.eurasia-rivista.org

direzione@eurasia-rivista.org

 

mercredi, 12 août 2009

Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

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Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

« Dans les temps de crise que nous vivons, en ce début d’année 2009, il est agréable de se dire qu’à un moment de leur histoire des hommes ont été heureux… » Nous sommes au IIe siècle. Les Antonins ont fait de Rome une puissance insurpassable. La stabilité politique des institutions d’essence monarchique assure aux peuples de l’Empire, au moins jusqu’à Commode (180-192), sécurité et prospérité. La « Pax romana » règne partout. Elle dispose d’un instrument de fer : de 350.00 à 400.000 soldats, dont quelques 150.000 légionnaires postés pour l’essentiel aux frontières, face aux Barbares. Et c’est pourtant en pleine gloire, au faîte de sa puissance, que l’Empire romain va être touché au cœur.

Crise militaire, crise globale

La crise du monde romain au IIIe siècle est avant tout militaire. C’est l’affaiblissement de l’institution centrale de l’empire qui provoque en chaîne, et se nourrit par la même occasion, des crises politique, économique, financière, sociale et même religieuse – la « quête de sens » étant une constante des périodes troublées. Si tous les historiens s’accordent sur cet enchaînement des causes et des conséquences, rares sont les chercheurs à avoir tenté d’expliquer « comment un corps aussi solidement bâti que l’armée romaine a pu recevoir des coups aussi violents, être secoué dans d’aussi terribles difficultés ». C’est à ce choc initial, cette matrice de toutes les crises, que s’attache Yann Le Bohec avec le talent, l’érudition et l’humour qu’on lui connaît. Son ouvrage, pour être savant, est passionnant parce qu’il s’agit d’une véritable enquête dont la victime – l’Empire romain – et les auteurs – Germains et Iraniens pour l’essentiel – sont connus, mais les faits trop souvent ignorés à force d’être considérés comme acquis, et donc secondaires.

En s’attachant à proposer « une explication militaire pour une crise militaire », jusque dans les soubresauts des nombreuses « guerres civiles » induites, Le Bohec renouvelle en profondeur notre vision de cette époque, et n’hésite pas au passage à bousculer quelques certitudes historiographiques trop facilement admises.

Surtout, Le Bohec va à l’essentiel. Il ausculte, assume et revendique la gravité de la crise étudiée en réhabilitant « les trois conceptions du temps, court, moyen et long » de l’enseignement de Braudel, « ainsi que les liens qui unissent l’histoire à la géographie ». Son ouvrage est donc politique. Parce que l’essence même du politique réside finalement dans les questions de défense, comme l’ont bien compris depuis des générations les historiens anglo-saxons et l’illustre plus près de nous De Gaulle : « Quand on ne veut pas se défendre, ou bien on est conquis par certains, ou bien ou est protégés par d’autres. De toute manière, on perd sa responsabilité politique… ».  Et parce que l’essence même du politique, parfaitement illustrée par Carl Schmitt cette fois, réside dans la désignation – et donc la connaissance – de l’ennemi. Et c’est l’apport principal de cette « armée romaine dans la tourmente » que de s’attacher aux ennemis de celle-ci, en soulignant leur nombre, leur diversité, la nouvelle puissance issue de leur vitalité démographique, de leurs systèmes d’alliance (Quinquegentanei en Afrique, Pictes en Ecosse, Francs, Alamans et Goths en Europe continentale), et des progrès accomplis sur le plan militaire surtout, dans les domaines de l’armement et de la tactique face à des légions dont l’apogée capacitaire est définitivement atteint sous Septime Sévère (193-211).

Quand l’histoire éclaire le présent

L’ouvrage de Le Bohec est ainsi d’une criante actualité. Les analogies sont nombreuses avec les temps de confusions qui sont aussi les nôtres.

Il est certes tenant d’esquisser un parallèle entre les empires romain et étatsunien. Et il sera sans doute un jour daté que la fin de l’empire américain a débuté dans les villes d’Irak, comme autrefois l’empire romain dans les sables de Mésopotamie. « Rome ne s’interdisait jamais de passer à l’offensive, pour mener une guerre préventive ou de représailles, ou pour affaiblir un ennemi potentiel, ou encore tout simplement pour piller. Au cours du IIIe siècle, l’offensive n’eut jamais cours qu’en réaction contre une agression ; on ne connaît que des contre-offensives »…

Mais le choc du IIIe siècle reste, à l’image de l’Empire romain lui-même, une pièce maîtresse et indéfectible de l’histoire européenne. Il annonce les formidables mutations que vont affronter les peuples d’Europe, et les ruses dont l’Histoire aime à user : « Après avoir atteint le fond du gouffre, l’armée romaine a su s’en sortir. L’explication est sans doute double. Les ennemis sont devenus moins agressifs, parce qu’ils étaient fatigués de la guerre et parce que de nouveaux problèmes se posaient à eux, avec d’autres arrivées de barbares. L’armée romaine s’est mieux adaptée à la situation. Ce fut, si l’on en croit la critique, l’œuvre des empereurs illyriens ». La sortie de la crise est en effet attestée sous Dioclétien (284-305), mais l’Empire ne s’en remettra jamais. Au point de s’effondrer définitivement à peine un siècle et demi plus tard. La crise, aussi violente que profonde, apparaît dès lors comme une première alerte.

Une histoire à méditer. Parce que c’est la nôtre. Et que nous ne sommes qu’au IIe siècle…

GT
14/07/2009

Source: Polémia

©Polémia

L’armée romaine dans la tourmente. Une nouvelle approche de la crise du IIIe siècle, Yann Le Bohec, Editions du Rocher, collection L’Art de la Guerre, mars 2009, 315 p., 21 euros.

mardi, 11 août 2009

Les communistes belges dans la collaboration jusqu'au 22 juin 1941

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Les communistes belges dans la collaboration jusqu'au 22 juin 1941

 

Beaucoup plus important avant la guerre et dans l'immédiat après- guerre que dans les années 50, 60 et 70, le PCB, aujourd'hui disparu, qui n'a plus ni journaux ni parlementaires, était, comme son «grand frère» français, totalement inféodé à la politique de Moscou. C'était Bereï, délégué à Bruxelles de l'URSS, qui commandait, qui décidait, qui dictait les lignes de conduite. Dès la signature du pacte Ribbentrop-Molotov d'août 1939, l'anti-nazisme est mis au placard. De l'Allemagne, les militants journalistes ne disent plus ni du bien ni du mal. Le Professeur Jacques Willequet a repéré, dans son livre (1), toutes les tirades en faveur du bloc germano-russe qu'ont publiées les organes communistes La Voix du Peuple, Uilenspiegel, Clarté, Espoir, Temps Nouveaux, Jeunesse Nouvelle, Drapeau Rouge, Liberté, De Strijd, Het Vlaamsche Volk. «Commencer la guerre pour anéantir l'hitlérisme, c'est accepter une politique de sottise criminelle» (Het Vlaamsche Volk, 14 oct. 39). Les alertes de novembre 39 et de janvier 40, où les Allemands testent les capacités de l'armée belge et de sa DCA, sont qualifiées «d'invention des services secrets britanniques». La Finlande, qui résiste héroïquement aux armées de Staline pendant l'hiver 39-40, est la «patrie des gardes blancs» et sa défaite, une victoire du prolétariat. Les journaux communistes accueillent la victoire allemande de mai-juin 1940 comme une délivrance. Le député communiste liégeois Julien Lahaut circule dans le sud de la France, dans une grosse voiture prêtée par les services allemands, pour récupérer les Belges dispersés par l'exode ou internés dans les camps français, après avoir été arrêtés par la Sûreté du Royaume (parmi eux: anarchistes, communistes, rexistes et nationalistes flamands, ces derniers étant largement majoritaires). A ceux qui l'écoutent, Julien Lahaut déclare, d'après Léon Degrelle, lui-même détenu, et selon l'historien officiel de l'Ecole Royale Militaire, Henri Bernard: «Le national-socialisme réalise toutes nos aspirations démocratiques» (dans un discours prononcé à Villeneuve-sur-Lot, fin juin 40). Le journal La Voix du Peuple, organe des communistes bruxellois, ressuscite dès le lendemain de la prise de Bruxelles, mais est interdit le 23 juin; à Anvers, Uilenspiegel paraît dès le 2 juin 1940 et ne disparaît que le 1er mars 1941. La spécialité des jounraux communistes, fidèles aux clauses du pacte germano-soviétique, sera de fulminer contre les Anglais. Le gouvernement exilé en Angleterre est un ramassis de «laquais de la Cité de Londres et des 200 familles», qui, de srucroît, «ont souillé le blason du Roi» (ce qui, sous la plume d'un militant communiste, est assez étonnant, puisque les communistes s'opposeront avec la dernière énergie au retour du monarque après 1945 et que Julien Lahaut criera «Vive la République!», au moment de la prestation de serment de Baudouin 1er; Lahaut sera mystérieusement assassiné par des inconnus, sur le pas de sa porte, quelques semaines plus tard...). Le 16 juin 1940, Uilenspiegel se félicite de l'entrée des troupes de Mussolini dans les Alpes françaises: «cela hâtera la débâcle des impérialistes». Le même journal, le 21 juillet 40, applaudit aux propositions de paix de Hitler, en concluant: «Plus vite les boutefeux occidentaux seront battus, mieux cela vaudra». En septembre 1940, La Vérité se félicite du fait que l'URSS ait supprimé «ce foyer de guerre né de Versailles qu'était la Pologne des seigneurs»; et il ajoute: «Les fauteurs de guerre anglo-français et leurs valets, les chefs de la social-démocratie, rejetèrent dédaigneusement les propositions allemandes appuyées à l'époque par l'URSS». Le 15 janvier 1941, Clarté insulte les troupes belges recrutées à Londres: c'est une «Légion Etrangère» destinée à servir «les magnats britanniques auxquels [le gouvernement Spaak-Pierlot de Londres] a déjà livré le Congo» (et voilà les communistes défendant le colonialisme belge, pourtant ultra-capitaliste dans ses pratiques!). Liberté et Drapeau Rouge se félicitent de la révolte anti-britannique de Rachid Ali en Irak, des mouvements indépendantistes indiens qui sabotent le recrutement de troupes aux Indes, de la disparition de la Yougoslavie, et de l'occupation de la Grèce (qui avait eu le tort d'abriter des troupes britanniques «menaçant l'URSS»!) (éditions de mai 1941).

 

Mais ces vigoureuses tirades pro-allemandes et anti-britanniques se feront moins enthousiastes pour plusieurs motifs: 1) les autorités d'occupation sont conservatrices et refusent toutes concessions d'ordre social; 2) les Allemands se servent des stocks belges de vivres et de matières premières, accentuant la précarité dans les couches les plus pauvres de la population; 3) les divergences entre Allemands et Soviétiques se font sentir; ce qui conduit certains chefs communistes à suivre les mots d'ordre consignés dans un article prémonitoire, paru avant mai 40, de Temps Nouveaux (n°2, 1940), où on lit: «Ce qu'il faut souhaiter, c'est une paix juste et durable, par un accord entre les deux plus fortes puissances du globe: les Etats-Unis et l'URSS». Finalement, la presse communiste affirmera que «l'avenir n'appartient ni à Hitler ni à Churchill». Ou, comme l'exprime un titre sans ambigüité de Liberté (14 avril 41): «Churchill ou Hitler? Les travailleurs ne choisissent pas entre la peste et le choléra»; 4) Les communistes, tout comme les socialistes de l'UTMI, sont furieux de voir que les Allemands donnent les postes-clef aux militants des partis autoritaires de droite, Nationalistes flamands du VNV et Rexistes de Degrelle. Les Rouges se sentent floués.

 

Le 22 juin 1941, le pacte germano-soviétique a vécu. Les communistes poursuivront dès lors les mots d'ordre parus dans Temps Nouveaux: alliance avec Roosevelt et Staline, contre les vieilles puissances européennes.

 

Raoul FOLCREY.

   

 

lundi, 10 août 2009

La gauche et la collaboration en Belgique: De Man, les syndicats et le Front du Travail

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De Man (debout) avec Emile Vandervelde avant la guerre

La gauche et la collaboration en Belgique

De Man, les syndicats et le Front du Travail

 

par Raoul FOLCREY

 

 

La collaboration de gauche en Belgique? Elle prend son envol avec le manifeste que Henri De Man, chef de file du Parti Ouvrier Belge (POB), publie et diffuse dès le 28 juin 1940. De Man (1885-1953) a été agitateur socialiste dès l'âge de 17 ans, polyglotte, correspondant en Belgique de la social-démocratie allemande et des travaillistes britanniques avant 1914, volontaire de guerre, diplomate au service du Roi Albert 1er, professeur à Francfort avant le nazisme, initiateur du mouvement planiste en Europe dans les années 30, ministre, président du POB; avec une telle biographie, il a été sans conteste l'une des figures les plus marquantes du socialisme marxiste européen. Hérétique du marxisme, sa vision du socialisme n'est pas matérialiste, elle repose sur les mobiles psychologiques des masses frustrées, aspirant à la dignité. Le socialisme, dans ce sens, est une formidable revendication d'ordre éthique. Ascète, sportif, De Man, issu de la bonne bourgeoisie anversoise, n'a jamais aimé le luxe. Le socialisme, déduit-il de cette option personnelle, ne doit pas embourgeoiser les masses mais leur apporter le nécessaire et les rendre spartiates.

 

Avec son fameux Plan du Travail de Noël 1933, De Man donne au socialisme une impulsion volontariste et morale qui séduira les masses, les détournera du communisme et du fascisme. Les intellectuels contestataires français, ceux que Loubet del Bayle a nommé les «non-conformistes des années 30», s'enthousiasmeront pour le Plan et pour ses implications éthiques. Pour l'équipe d'Esprit (regroupée autour d'Emmanuel Mounier), d'Ordre Nouveau (Robert Aron et A. Dandieu), de Lutte des Jeunes (Bertrand de Jouvenel), de l'Homme Nouveau (Roditi), De Man devient une sorte de prophète. Côté socialiste, en France, ce sera surtout le groupe «Révolution Constructive» (avec Georges Lefranc, Robert Marjolin, etc.) qui se fera la caisse de résonnance des idées de Henri De Man. Pierre Ganivet, alias Achille Dauphin-Meunier, adopte également le planisme demanien dans sa revue syndicaliste révolutionnaire L'Homme réel. Au sein du parti, Léon Blum craint le Plan du Travail:

- parce qu'il risque de diviser le parti;

- parce qu'il implique une économie mixte et tend à préserver voire à consolider le secteur libre de l'économie;

- parce qu'il crée une sorte de «régime intermédiaire» entre le capitalisme et le socialisme;

- parce que la critique du parlementarisme, implicite chez De Man, rapproche son socialisme du fascisme.

 

Pour Déat, les idées planistes, exposées notamment par De Man à l'Abbaye de Pontigny (septembre 1934), reflètent un pragmatisme de la liberté, une approche de l'économie et de la société proche du New Deal de Roosevelt, et ne relèvent nullement du vieux réformise social-démocrate. Le planisme, avait affirmé Déat dans l'Homme Nouveau (n°6, juin 1934), n'impliquait aucune politique de compromis ou de compromissions car il était essentiellement révolutionnaire: il voulait agir sur les structures et les institutions et les modifier de fond en comble. Presqu'au même moment, se tenait un Congrès socialiste à Toulouse: la plupart des mandats de «Révolution Constructive» s'alignent sur les propositions de Blum, sauf deux délégués, parmi lesquels Georges Soulès, alias Raymond Abellio, représentant le département de la Drôme. Georges Valois, proudhonien un moment proche de l'AF, est hostile à De Man, sans doute pour des motifs personnels, mais accentue, par ses publications, l'impact du courant para-planiste ou dirigiste en France.

 

Or, à cette époque, pour bouleverser les institutions, pour jouer sur les «structures», pour parfaire un plan, de quelque nature qu'il soit, il faut un pouvoir autoritaire. Il faut inaugurer l'«ère des directeurs». Pratique «directoriale», planification, etc. ne sont guère possible dans un régime parlementaire où tout est soumis à discussion. Les socialistes éthiques, ascètes et spartiates, anti-bourgeois et combatifs, méprisaient souverainement les parlottes parlementaires qui ne résolvaient rien, n'arrachaient pas à la misère les familles ouvrières frappées par le chômage et la récession. Dans son terrible livre, La Cohue de 40, Léon Degrelle croque avec la férocité qu'on lui connaît, un portrait du socialisme belge en déliquescence et de De Man, surplombant cet aréopage de «vieux lendores adipeux, aux visages brouillés, pareils à des tartes aux abricots qui ont trop coulé dans la vitrine» (p. 175). De Man, et les plus jeunes militants et intellectuels du parti, avaient pedu la foi dans la religion démocratique.

 

Dès le déclenchement des hostilités, en septembre 1939, De Man opte personnellement contre la guerre, pour la neutralité absolue de la Belgique, proclamée par le Roi dès octobre 1936. Fin 1939, avec l'appui de quelques jeunes militants flamands, dont Edgard Delvo, il fonde une revue, Leiding (Direction), ouvertement orientée vers les conceptions totalitaires de l'époque, dit Degrelle. Il serait peut-être plus juste de dire que le socialisme planiste y devenait plus intransigeant et voulait unir, sans plus perdre de temps, les citoyens lassés du parlementarisme en un front uni, rassemblé derrière la personne du Roi Léopold III.

 

Après l'effondrement de mai-juin 1940, De Man publie un «manifeste aux membres du POB», où figurent deux phrases qui lui ont été reprochées: «Pour les classes laborieuses et pour le socialisme, cet effondrement d'un monde décrépit, loin d'être un désastre, est une délivrance»; «[le verdict de la guerre] est clair. Il condamne les régimes où les discours remplacent les actes, où les responsabilités s'éparpillent dans le bavardage des assemblées, où le slogan de la liberté individuelle sert d'oreiller à l'égoïsme conservateur. Il appelle une époque où une élite, préférant la vie dangereuse et rapide à la vie facile et lente, et cherchant la responsabilité au lieu de la fuir, bâtira un monde nouveau».

 

Ces phrases tonifiantes, aux mâles accents, étaient suivies d'un appel à construire le socialisme dans un cadre nouveau. Cet appel a été entendu. De toutes pièces, De Man commence par créer un syndicat unique, l'UTMI (Union des Travailleurs Manuels et Intellectuels), officiellement constitué le 22 novembre 1940, après d'âpres discussions avec le représentant du Front du Travail allemand, le Dr. Voss. De Man, ami du Roi, voulait sauvegarder l'unité belge: son syndicat serait dès lors unitaire, ne serait pas scindé en une aile flamande et une aile wallonne. Le Dr. Voss, visant l'éclatement du cadre belge en deux entités plus facilement absorbables par le Reich, impose la présence des nationalistes flamands du VNV dans le comité central composé de socialistes, de démocrates-chrétiens, de syndicalistes libéraux. Edgard Delvo, ancien socialiste, auteur d'un ouvrage préfacé par De Man et paru à Anvers en 1939, collaborateur de Leiding, la revue neutraliste hostile à toute participation belge aux côtés des Anglais et des Français, théoricien d'un «socialisme démocratique» ou plutôt d'un populisme socialiste, est l'homme du VNV au sein de ce comité. En 1942, poussé par les services du Front du Travail allemand, Delvo deviendra le maître absolu de l'UTMI. Ce coup de force des nationalistes provoque la rupture entre De Man et son syndicat: l'ancien chef du POB quitte Bruxelles et se réfugie en Haute-Savoie, grâce à l'aide d'Otto Abetz. Il sera désormais un «cavalier seul». Les socialistes, les libéraux et les jocistes quittent l'UTMI en 1942, laissant à Delvo les effectifs nationalistes flamands et wallons, peu nombreux mais très résolus.

 

En Wallonie, dès la parution du Manifeste du 28 juin 1940, plusieurs journalistes socialistes deviennent du jour au lendemain des zélotes enragés de la collaboration. Ainsi, le Journal de Charleroi, organe socialiste bon teint depuis des décennies, était édité par une société dont l'aristocratique famille Bufquin des Essarts étaient largement propriétaire. Dès les premiers jours de juin 40, un rédacteur du journal, J. Spilette s'empare du journal et le fait paraître dès le 6, avant même d'avoir créé une nouvelle société, ce qu'il fera le 8. En novembre 1940, Spilette, avançant ses pions sans sourciller, s'était emparé de toute la petite presse de la province du Hainaut et augmentait les ventes. Els De Bens, une germaniste spécialisée dans l'histoire de la presse belge sous l'occupation, écrit que l'influence de De Man était prépondérante dans le journal. Spilette défendait, envers et contre les injonctions des autorités allemandes, les positions de De Man: syndicat unique, augmentation des salaires, etc. Spilette baptisait «national-socialisme» la forme néo-demaniste de socialisme qu'il affichait dans son quotidien. Ensuite, rompant avec De Man, Spilette et ses collaborateurs passent, non pas à la collaboration modérée ou à la collaboration rexiste/degrellienne, mais à la collaboration maximaliste, regroupée dans une association au nom évocateur: l'AGRA, soit «Amis du Grand Reich Allemand». L'AGRA, dont le recrutement était essentiellement composé de gens de gauche, s'opposait au rexisme de Degrelle, marqué par un héritage catholique. Les deux formations finiront par s'entendre en coordonnant leurs efforts pour recruter des hommes pour le NSKK. Le 18 octobre 1941, le Journal de Charleroi fait de la surenchère: il publie un manifeste corsé, celui du Mouvement National-Socialiste wallon, où il est question de créer un «Etat raciste» wallon. Spilette appelle ses concitoyens à rejoindre cette formation «authentiquement socialiste». 

 

A Liège, le quotidien La Légia, après avoir été dirigé par des citoyens allemands, tombe entre les mains de Pierre Hubermont, écrivain, lauréat d'un prix de «littérature prolétarienne» à Paris en 1931, pour son roman Treize hommes dans la mine. Les Allemands ou Belges de langue ou de souche allemandes, actionnaires de la société ou rédacteurs du journal, entendaient germaniser totalement le quotidien. Pierre Hubermont entend, lui, défendre un enracinement wallon, socialiste et modérément germanophile. Cette option, il la défendra dans une série de journaux culturels à plus petit tirage, édités par la «Communauté Culturelle Wallonne» (CCW). Parmi ces journaux, La Wallonie, revue culturelle de bon niveau. Dans ses éditoriaux, Hubermont jette les bases idéologiques d'une collaboration germano-wallonne: défense de l'originalité wallonne, rappel du passé millénaire commun entre Wallons et Allemands, critique de la politique française visant, depuis Richelieu, à annexer la rive gauche du Rhin, défense de l'UTMI et de ses spécificités syndicales.

 

Fin 1943, les services de la SS envoient un certain Dr. Sommer en Wallonie pour mettre sur pied des structures censées dépasser le maximalisme de l'AGRA. Parmi elles: la Deutsch-Wallonische Arbeitsgemeinschaft, en abrégé DEWAG, dirigée par un certain Ernest Ernaelsteen. Ce sera un échec. Malgré l'appui financier de la SS. DEWAG tentera de se donner une base en noyautant les «cercles wallons» de R. De Moor (AGRA), foyers de détente des ouvriers wallons en Allemagne, et les «maisons wallonnes», dirigée par Paul Garain, président de l'UTMI wallonne, qui pactisera avec Rex.

 

Quelles conclusion tirer de ce bref sommaire de la «collaboration de gauche»? Quelles ont pu être les motivations de ces hommes, et plus particulièrement de De Man, de Delvo et d'Hubermont (de son vrai nom Joseph Jumeau)?

 

La réponse se trouve dans un mémoire rédigé par la soeur d'Hubermont, A. Jumeau, pour demander sa libération. Mlle Jumeau analyse les motivations de son frère, demeuré toujours socialiste dans l'âme. «Une cause pour laquelle mon frère restait fanatiquement attaché, en dehors des questions d'humanisme, était celle de l'Europe. Il était d'ailleurs Européen dans la mesure où il était humaniste, considérant l'Europe comme la Patrie de l'humanisme (...) Cette cause européenne avait été celle du socialisme depuis ses débuts. L'internationalisme du 19° siècle n'était-il pas surtout européen et pro-germanique? L'expérience de 1914-1918 n'avait pas guéri les partis socialistes de leur germanophilie (...). ... la direction du parti socialiste était pro-allemande. Et, au moment de l'occupation de la Ruhr, ..., [mon frère] a dû aligner son opinion sur celle de Vandervelde (ndlr: chef du parti socialiste belge) et de De Brouckère (ndlr: autre leader socialiste), qui étaient opposés aux mesures de sanctions contre l'Allemagne. Le peuple (ndlr: journal officiel du POB), jusqu'en 1933, c'est-à-dire jusqu'à la prise du pouvoir par Hitler, a pris délibérément et systématiquement fait et cause pour l'Allemagne, dans toutes les controverses internationales. Il a systématiquement préconisé le désarmement de la France et de la Belgique, alors que tout démontrait la volonté de l'Allemagne de prendre sa revanche. Mon frère (...) n'avait pu du jour au lendemain opérer le retournement qui fut celui des politiciens socialistes. Pour lui, si l'Allemagne avait été une victime du traité de Versailles avant 1933, elle l'était aussi après 1933 (...). Et si la cause de l'unité européenne était bonne avant 1933, lorsque Briand s'en faisait le champion, elle l'était toujours après 1933, même lorsque les Allemands la reprenaient à leur compte (...). [Mon frère] partait de l'idée que la Belgique avait toujours été le champ de bataille des puissances européennes rivales et que la fin des guerres européennes, que l'unification de l'Europe, ferait ipso facto la prospérité de la Belgique».

 

Tels étaient bien les ingrédients humanistes et internationalistes des réflexes partagés par De Man, Delvo et Hubermont. Même s'ils n'ont pas pris les mêmes options sur le plan pratique: De Man et Hubermont sont partisans de l'unité belge, le premier, ami du Roi, étant centraliste, le second, conscient des différences fondamentales entre Flamands et Wallons, étant fédéraliste; Delvo sacrifie l'unité belge et rêve, avec ses camarades nationalistes flamands, à une grande confédération des nations germaniques et scandinaves, regroupées autour de l'Allemagne (ce point de vue était partagé par Quisling en Norvège et Rost van Tonningen aux Pays-Bas). Mais dans les trois cas, nous percevons 1) une hostilité aux guerres inter-européennes, comme chez Briand, Stresemann et De Brinon; 2) une volonté de créer une force politique internationale, capable d'intégrer les nationalismes sans en gommer les spécificités; une inter-nationale comportant forcément plusieurs nations solidaires; Delvo croira trouver cet internationalisme dans le Front du Travail allemand du Dr. Ley; 3) une aspiration à bâtir un socialisme en prise directe avec le peuple et ses sentiments.

 

De Man connaîtra l'exil en Suisse, sans que Bruxelles n'ose réclamer son extradition, car son procès découvrirait la couronne. Delvo sera condamné à mort par contumace, vivra en exil en Allemagne pendant vingt-cinq ans, reviendra à Bruxelles et rédigera trois livres pour expliquer son action. Hubermont, lourdement condamné, sortira de prison et vivra presque centenaire, oublié de tous.

 

Raoul FOLCREY.   

 

 

dimanche, 09 août 2009

El genocidio de Hiroshima

El genocidio de Hiroshima

Hace 64 años el presidente Truman ordeno lanzar la primera bomba atomica contra la humanidad, cometiendo un genocidio que aun no se ha juzgado en ningun tribunal internacional

El 6 de agosto de 1945 Estados Unidos asesino a mas de 200.000 civiles en la ciudad de Hiroshima, lanzando contra ella la primera bomba nuclear utilizada como arma de guerra en la historia de la humanidad, y tres dias despues sucedio lo mismo en Nagasaki. Se estima que hacia finales de 1945, las bombas habían matado a 140.000 personas en Hiroshima y 80.000 en Nagasaki, aunque solo la mitad había fallecido los días de los bombardeos y el resto por heridas incurables o enfermedades atribuidas al envenenamiento por radiación.

El presidente Harry S. Truman, quien ordeno el bombardeo, no lo hizo para acabar con la guerra y la escasa resistencia de Japon. Los mismos japoneses estaban intentando negociar la paz, y habian pedido la mediacion a Stalin. Antes de que la URSS pudiera aceptarla, EE.UU. se encargo de que las negociaciones de paz no tuvieran lugar y Japon se entregara a una rendicion incondicional. Japon ya estaba practicamente vencido, y la escusa de que la bomba se lanzo para evitar “mas muertes de civiles”, como cinicamente aseguro Truman, se desarma cuando miramos los miles de japoneses inocentes que murieron con los lanzamientos. En ningun caso hubieran muerto tantos si la guerra hubiera durado dos meses mas.


Estados Unidos demostro con el uso de la bomba atomica la calidad humana de sus dirigentes, su personalidad genocida. La Segunda Guerra Mundial pasara a la historia no solo por el holocausto perpetrado por los nazis, contra judios, gitanos, comunistas y homosexuales (entre otros), sino tambien por la extrema crueldad de Estados Unidos, que entonces demostro que la vida humana no le importa lo mas minimo, actitud que ha continuado de diversas formas asesinas hasta hoy dia.

El genocidio de Hiroshima y Nagasaki no ha sido juzgado por ningun tribunal internacional todavia, porque los genocidas fueron los vencedores en esta ocasion. No hubo Tribunal de Nuremberg para Truman y sus secuaces. Pero la historia, a pesar de las justificaciones que han inventado los medios de comunicacion actuando de silenciador moral, no deja de mostrarnos lo horrible de los actos de los que son capaces de utilizar cualquier metodo para lograr sus fines materiales.

Con una hipocresia que hiela toda capacidad de sentimiento, que indigna hasta a las piedras, los EEUU han venido acusando a todos sus enemigos de asesinos, crueles genocidas, o tiranos, mientras que ellos, tras el silenciador de la opinion publica, creada por los escribanos y voceros del sistema, muy bien pagados, continuan orgullosos de sus crimenes y ejecutándolos, de una manera u otra, hasta el presente y a lo largo de todo el planeta.

Aunque de sus horrendos y continuos crimenes el asesinato de 220.000 japoneses de un golpe, (sin contar las secuelas radioactivas producidas en los pocos supervivientes), el genocidio producido por el lanzamiento de las dos unicas bombas nucleares lanzadas hasta hoy contra la humanidad, es, si cabe, el mas ilustrativo de la verdadera naturaleza criminal del imperio yankee y del corazon podrido de sus primeros peones, los presidentes de Estados Unidos (independientemente del color de su piel).

Jose Luis Forneo

Extraído de CuestiónateloTodo.

samedi, 08 août 2009

1979: Guerres secrètes au Moyent Orient

1979: Guerres secrètes au Moyen Orient

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L’incroyable année 1979 a vu se succéder des événements qui ont changé le cours de notre histoire : révolution iranienne, accords de Camp David, prise d’otages de La Mecque et de l’ambassade américaine à Téhéran, et enfin, invasion soviétique de l’Afghanistan… Voici comment, pendant cette période, la France a cru pouvoir manipuler l’ayatollah Khomeiny et prendre en Iran la place des Américains, comment le Mossad a organisé, en pleine révolution islamique, l’exode clandestin de dizaines de milliers de Juifs iraniens, et comment le royaume saoudien a fait appel au GIGN français pour libérer les lieux saints de l’islam occupés par des terroristes avec, à la clé, une récompense inattendue. On lève ici le voile sur les complicités occidentales qui ont permis au Pakistan, bien avant l’Iran, de mettre sur pied le premier programme nucléaire islamique et l’on découvre de quelle manière les services de renseignement saoudiens et pakistanais ont organisé les réseaux de financement et d’armement d’intégristes prêts à se retourner contre l’Occident. Les services secrets de tous bords – CIA, Sdece, Mossad… – et les présidents Carter et Giscard d’Estaing ont joué dans cette époque agitée un rôle crucial et parfois trouble, entraînant une série de réactions en chaîne. En quelques mois, le Moyen-Orient a basculé, et le monde entier avec lui, favorisant l’avènement d’un islamisme radical aujourd’hui florissant.

Yvonnick Denoël est éditeur et historien. Il a notamment publié Le livre noir de la CIA (Nouveau Monde éditions, 2007).

Disponible sur Amazon

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mercredi, 29 juillet 2009

Réflexions sur le destin de Dara Shukoh

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Réflexions sur le destin de Dara Shukoh

 

Un musulman peut-il être tolérant? Faire preuve de tolérance d’esprit? Etre sincèrement intéressé aux autres cultures? Oui, bien sûr, il existe indubitablement de tels musulmans. La seconde question que nous posons: quel a été leur sort?

 

Dara Shukoh (1615-1659) était le fils aîné de l’Empereur moghol Shah Jahan et de son épouse favorite Mumtaz Mahal. Lorsque celle-ci mourut à la suite de son quatorzième accouchement, son époux fit construire pour elle un superbe monument funéraire, en dehors de sa capitale Agra, le fameux Taj Mahal. Après l’achèvement du bâtiment, il fit trancher la main à tous les maîtres d’oeuvre de cette merveille architecturale, de façon à ce qu’ils ne puissent pas en reproduire de pareilles ailleurs. Le Prince héritier Dara Shukoh reçut une bonne éducation, large d’esprit, que nous aurions qualifié d’“humaniste” en Europe. Il devint adepte du soufisme, une branche mystique à l’intérieur de l’islam. Il était un élève du saint soufi Mian Mir de Lahore. En disant cela, je n’ai pas dit grand chose car le soufisme présente un vaste éventail de variétés et de tendances.

 

On dit souvent que le soufisme est plus tolérant et plus large d’esprit que l’islam ortohdoxe. C’est partiellement vrai. Certains soufis ont été d’effroyables fanatiques. Comme, par exemple, Mouïnouddin Tchichti  qui, en tant qu’espion, a préparé la plus sanglante invasion de l’Inde par Mohammed Ghori (en 1192). Même Faridouddin Attar, connu comme doux poète, a écrit un chant à la louange de Mahmoud de Ghazni, autre grand massacreur d’“infidèles”. Dara Shukoh lui, était d’une toute autre trempe. Il cherchait une base commune à l’hindouïsme et à l’islam. Dans ce but, il traduisit pour la toute première fois en persan les textes  qui forment le noyau de la philosophie indienne, les Upanishads (“l’enseignement confidentiel”). Il expliqua les conclusions de ses recherches dans un ouvrage intitulé “Madschma al-Bahrain”, ou “Le confluent de deux mers”. Oui, concluait-il, de fait, l’hindouïsme et l’islam dans sa variante soufie, sont une seule et même chose. Tous deux valorisent l’“unité de l’Etre”. En posant ces conclusions, Dara Shukoh donnait une base philosophique à la politique que menait la dynastie moghole depuis près d’un siècle: faire cohabiter dans l’harmonie hindous et musulmans en arrondissant les angles du principe musulman d’inégalité entre croyants et idolâtres. Contrairement au régime tyrannique et fanatique du Sultanat de Delhi (1206 à 1526), qui avait sans cesse été confronté à des révoltes hindoues et des vendettas entre divers partis musulmans, l’Empire moghol, à partir du grand-père de Dara Shukoh, Akbar (1556-1605), reposait sur un compromis avec les Hindous, notamment par l’abrogation de l’impôt de tolérance que devaient payer tous les non-musulmans, par l’autorisation de rebâtir les temples qui avaient été détruits et par l’intronisation de princes hindous dans l’appareil administratif de l’Empire. Ces princes devaient servir de contre-poids pour le régime du Padishah (l’Empereur moghol), qui avait bien des ennemis dans le camp musulman: certains seigneurs et les clercs les plus radicaux, sous la houlette de Ahmad Sirhindi (mort en 1624), qui condamnaient sa politique de compromis. Le plus jeune frère de Dara Shukoh, Aurangzeb, appartenait, lui, à l’école de Sirhindi. Aurangzeb fulminait contre la politique d’apaisement de Dara Shukoh, avec son principe de dialogue inter-religieux et sa valorisation de la spiritualité par-delà l’exotérisme des pratiquants. Aurangzeb reprochait également à son frère de pratiquer l’art de la peinture et de favoriser les arts de la scène. Reproduire le visage humain est explicitement interdit par la religion islamique, bien que les princes les plus éclairés l’aient toujours toléré, du moins tant qu’on ne cherchait pas à peindre ou dessiner Dieu ou le Prophète.

 

Aurangzeb était un homme de stricte obédience. Il fit tout ce qu’il put pour décourager des pratiques non islamiques comme le théâtre, la danse et la musique. Plus tard, quand il fut devenu Padishah, il congédia les musiciens de la cour; ceux-ci manifestèrent alors devant le palais, en trimbalant un cerceuil pour simuler l’enterrement de la Muse. Aurangzeb leur cria alors de l’enterrer bien profondément pour qu’il n’ait plus jamais à entendre parler d’elle dans l’avenir. Il voulait ainsi se montrer féal disciple du Prophète qui se bouchait les oreilles lorsqu’il entendait jouer de la musique. Ce fut donc Aurangzeb qui devint Padishah et non Dara Shukoh. En 1657, Shah Jahan tomba malade et, aussitôt, une querelle éclata entre ses quatre fils pour sa succession. Dara Shukoh, qui était l’aîné donc le prince héritier en titre, bénéficiait du soutien de son père. Dans un premier temps, il vainquit son frère, Shah Shuja, qui s’était proclamé Padishah. Mais il fut vaincu  à son tour le 8 juin 1658, lors de la Bataille de Samogarh, près d’Agra, où il faisait face aux troupes d’Aurangzeb. Dara Shukoh put prendre la fuite et commencer à lever une nouvelle armée lorsqu’un traître le livra à son frère. Les juges islamiques le condamnèrent à mort pour hérésie. On le couvrit de chaînes, on le promena à travers la ville pour l’humilier et on le tortura jusqu’à ce que mort s’ensuive. De sa propre main, Aurangzeb trancha la tête de Dara Shukoh, son frère, et l’envoya à leur père, qu’il avait fait enfermer dans une tour, où il resta les huit dernières années de sa vie, avec toutefois une faveur: il bénéficiait d’une vue sur le Taj Mahal. Le monument dédié à l’amour...

 

“Moestasjrik”/ “ ’t Pallieterke”  (Anvers, 21 juin 2006, trad. franç.: Robert Steuckers).

mardi, 28 juillet 2009

Le débarquement à Dieppe fut-il un fiasco?

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Erich KÖRNER-LAKATOS:

 

Le débarquement à Dieppe fut-il un fiasco?

 

19 août 1942: dans le courant de l’après-midi la “radio grande-allemande” annonce une nouvelle depuis le quartier général du Führer, le Werwolf, situé alors près de Vinnitza en Ukraine. Après l’habituel morceau de musique, les auditeurs apprennent par leur poste qu’une “invasion” vient d’échouer à l’Ouest.

 

“Le Commandement suprême de la Wehrmacht fait savoir qu’un débarquement de grande ampleur de troupes anglaises, américaines, canadiennes et gaullistes, dont les effectifs s’élèvent à une division pour la première vague, a eu lieu dans les premières heures de la matinée près de Dieppe sur la côte française de la Manche; cette tentative de débarquement a bénéficié de l’appui de forces navales et aériennes importantes et a été soutenue par des blindés; les forces allemandes chargées de défendre la côte ont brisé l’élan de l’ennemi qui avait essuyé des pertes élevées et sanglantes (...)”.

 

Un mois plus tôt, le 22 juillet 1942, Staline avait exigé, sur le ton de l’ultimatum, que ses alliés  occidentaux ouvrissent un second front. En effet, le dictateur soviétique venait d’encaisser l’offensive estivale du groupe d’armées allemandes “Süd”: ses défenses étaient profondément ébranlées et il demandait qu’une offensive à l’Ouest soulage ses propres troupes. Ce sera surtout son représentant à Washington, son ancien ministre des affaires étrangères, Maxime Litvinov, qui insistera pour que les Occidentaux prennent des mesures concrètes. Winston Churchill temporise, promet aux Russes qu’il agira dans un an, car un débarquement exige des préparations de grande ampleur. La première tentative de s’incruster sur le sol français sera donc ce débarquement offensif, tenté sur les côtes normandes de la Manche, près de Dieppe.

 

Cette petite ville se situe dans le département de Seine-Maritime, à environ cent kilomètres au nord-est du Havre. Dès le départ, la tentative de débarquement des Alliés, dont le nom de code était “Jubilee”, connut la malchance. Une partie des trois à quatre cents navires de débarquement rencontra, quand la nuit était encore noire, un convoi de la marine allemande, chargé de surveiller le littoral. Elle perdit ainsi d’emblée tout effet de surprise.

 

A six heures du matin, le débarquement commence en trois endroits. 6100 hommes mettent pied à terre, pour la plupart appartenant à la 2ème Division canadienne du Général Roberts. Des unités de commandos de la Royal Navy les assistent.

 

L’ensemble de l’opération s’effectue sous un parapluie aérien de centaines de Spitfires et Hurricanes. Mais les attaquants se heurtent à une forte résistance, à laquelle ils ne s’attendaient pas: celle des hommes du 71ème Régiment d’infanterie du Lieutenant-Colonel allemand Bartel. L’artillerie côtière allemande est bien placée et les chasseurs Focke-Wulf procurent un appui-feu  appréciable.

 

Les Canadiens sont plus nombreux mais inexpérimentés: ils ne font pas le poids devant les soldats éprouvés de la Wehrmacht dans les combats rapprochés le long des plages. Dans le ciel, toutefois, aucun des deux camps n’a le dessus: les Anglais, les Polonais exilés et les Américains perdent 98 avions, tandis que les Allemands en perdent 91. Vers midi, les Canadiens doivent déjà se replier; leurs chefs décident que le réembarquement aura lieu vers 15 h. Peu parmi les soldats débarqués retourneront ce jour-là en Angleterre, seulement un petit tiers. 1179 attaquants (dont près de 900 Canadiens) tomberont au combat; 2190 seront prisonniers, dont 60 officiers canadiens. Six cents prisonniers sont blessés et soignés sur place. Les Alliés perdent 28 chars et de nombreux navires de débarquement, ainsi que quatre destroyers et sept navires de transport. La Wehrmacht annonce 311 morts ou disparus et 280 blessés.

 

Officiellement, Londres tente de minimiser l’échec de Dieppe comme étant “un exercice armé de reconnaissance”. Pour les Allemands, en revanche, ce 19 août est la journée qui a prouvé que le Mur de l’Atlantique pouvait tenir, sans qu’il ne faille, insistait le haut commandement de la Wehrmacht, engager des réserves supplémentaires, constituées de troupes aguerries.

 

Mais cette propagande allemande cachait la vérité: l’aventure de Dieppe n’est nullement l’échec allié qu’elle a décrit pour les besoins de la cause. L’objectif de l’Opération “Jubilee” n’était pas d’ouvrir un second front à l’Ouest comme le réclamait Staline (pour le faire, il aurait fallu des effectifs bien supérieurs à ceux d’une simple division); ce n’était pas davantage un exercice général en prévision du débarquement de 1944, car on aurait pu le faire à bien moindre prix en Angleterre sous la forme de manoeuvres. Non: l’objectif de “Jubilee” n’était ni plus ni moins “Freya”, la plus moderne des stations radar allemandes, installée près de Dieppe. Son rayon d’action dépassait les 200 km et couvrait une bonne partie de l’Angleterre, ce qui permettait aux Allemands de détecter le décollage des escadres de bombardiers alliés immédiatement après leur envol.

 

C’est pour mener à bien ce coup de main contre “Freya” que les Britanniques ont déployé cette opération commando surdimensionnée. Le personnage-clef de l’opération est un Canadien de 28 ans, d’origine juive-polonaise, Jack Nissenthal. Il était un expert en radar particulièrement doué. Il s’est retrouvé à la pointe des opérations, tout à l’avant, où cela “pétait” le plus. Il était l’un des rares savants qui connaissaient en tous ses détails la technologie alliée des radars. Lors du débarquement de Dieppe, il était flanqué de dix soldats d’élite, non seulement pour sa protection mais pour celle du savoir-faire allié en matières de radar, car ces hommes ont reçu aussi pour mission complémentaire  —et comme ordre strict—  de ne pas laisser Nissenthal tomber vivant aux mains des Allemands. Nissenthal avait d’ailleurs reçu à cette fin une capsule de cyanure.

 

Nissenthal, homme de beaucoup d’allant, athlétique et impétueux, est parvenu, sous une pluie de balles allemandes, en perdant sept de ses gardes-du-corps, à approcher par deux fois l’appareil “Freya” et d’en démonter d’importantes composantes qui ont fourni aux Alliés des connaissances précieuses sur les techniques radar allemandes.

 

Grâce à Dieppe et à Nissenthal, les attaques à grande échelle des bombardiers anglo-saxons sur l’Allemagne ont été rendues possible car les savants alliés avaient constaté qu’il suffisait de tromper les radars allemands en lançant de simple bandes de feuilles d’aluminium. L’effroyable attaque contre Hambourg, qui dura trois jours en 1943 et fut baptisée l’“Opération Gomorrhe”, eut lieu sans que les Allemands n’aient pu organisé la moindre défense sérieuse de la ville hanséatique.

 

Vu dans cette optique, le fiasco apparent de Dieppe est en réalité un succès préparé avec audace et obtenu au prix fort. C’est une entreprise de type “troupe d’assaut” qui a obligé par la suite les Allemands à garnir davantage le Mur de l’Atlantique, avec des forces qui leur ont cruellement manqué ailleurs.

 

Bien entendu, dans le contexte de l’époque, la propagande allemande ne pouvait voir l’affaire sous un tel angle. Dans les actualités allemandes, la “bataille victorieuse” de Dieppe a pris une ampleur considérable: on la passait et la repassait inlassablement au cinéma avant le film de fiction. En plus, les producteurs de reportages de guerre, issus des “PK” (les “compagnies de propagande”),ont publié une sorte de recueil, intitulé “Dieppe – die Bewährung des Küstenwestwalles”  (= “Dieppe – Comment le Mur de la côte occidentale a tenu”).

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°49/2005, trad. franç. : Robert Steuckers).

mardi, 14 juillet 2009

Le rôle du Vatican dans l'élaboration du Traité de Versailles

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SYNERGIES EUROPÉENNES - Septembre 1986

Le rôle du Vatican dans l'élaboration du "Diktat" de Versailles

C'est un document très curieux qu'a réédité la Faksimile Verlag de Brème. Rédigé par un certain "Mannhart", ce texte, datant de 1938, accuse le Vatican d'avoir voulu la destruction de l'Allemagne prusso-centrée, née du génie politique de Bismarck. Procédant systématiquement, "Mannhart" a épluché toute la presse allemande, vaticane, italienne et française pour étayer sa thèse. Son travail a ceci d'intéressant qu'il aide à mettre en exergue les manigances d'Adenauer, catholique rhénan francophile. Et ainsi d'expliquer quelque peu la division actuelle de l'Allemagne, voulue dans les années 50 par le calamiteux ex-bourgmestre de Cologne.

Si en août 1914 le Vatican de Pie X souhaite la victoire de l'Autriche-Hongrie, puissance catholique, contre les Serbes et les Russes orthodoxes, le vent tournera à Rome en octobre 1914 quand le Cardinal Gasparri devient "Secrétaire d'Etat du Vatican", au-trement dit Ministre des Affaires Etrangères de l'Eglise. Le 7 janvier 1915, dans un journal américain, le New York Herald,  les intentions de Gasparri apparaissent, à peine déguisées, pour la première fois: détacher les provinces catholiques de l'Allemagne du Sud de la Prusse protestante. Pour obtenir l'élimination du protestantisme en Allemagne septentrionale, donc pour "déprussianisé" l'ensemble créé par Bismarck, l'Eglise sera prête à tout, en tablant sur l'impérialisme français et en abandonnant l'Autriche-Hongrie. C'est parmi les partisans de cette "géopolitique" catholique que Clémenceau trouvera, en Allemagne, des alliés pour sa politique. A Versailles, le Vatican appuyera les annexions en faveur des nations catholiques, la France, la Belgique, l'Italie et la Pologne mais déplorera le démantèlement de la Monarchie austro-hongroise. Par la suite, ce jugement ambigu se maintiendra: anti-allemand à l'Ouest (en France et en Belgique, où la querelle se complique par l'avènement du mouvement flamand) et anti-bolchévique, c'est-à-dire anti-russe et relativement pro-allemand en Europe Centrale et en Europe de l'Est. "Mannhart" décrit avec minutie les complots du parti ultra-montain en Allemagne pendant la guerre.

Mannhart, Verrat um Gottes Lohn? Hintergründe des Diktates von Ver-sailles, Faksimile-Verlag, Bremen, 1985, 104 S., 13 DM.

Adresse: Faksimile-Verlag,

Postfach 66 01 80, D-2800 Bremen 66.

mardi, 07 juillet 2009

Bibliographie sur les événements de "Yougoslavie"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Bibliographie sur les événements de «Yougoslavie»

 

Pour comprendre la question croate

 

Walter SCHNEEFUSS, Die Kroaten und ihre Geschichte,  Wilhelm Goldmann Verlag, Leipzig, 1942.

Cet ouvrage a paru pendant la guerre, au moment où l'Allemagne hitlérienne soutenait l'Etat ousta­chiste d'Ante Pavélic. Son analyse de la réalité po­litique, par conséquent, est marquée par ce con­­texte et n'a plus aucun intérêt aujourd'hui. En revanche, son esquisse de l'histoire de la Croatie, depuis l'arrivée des premières tribus croates, en passant par les époques byzantines, italiennes, ot­tomanes et hongroises est l'une des pré­sen­ta­tions les plus claires de la question qui ait jamais été publiée en Europe de l'Ouest. L'auteur recon­naît les erreurs des administrations autrichienne et hon­groise en Croatie, ce qui a suscité des désirs d'u­nification yougo-slave chez les intellectuels croa­tes. Mais ces aspirations ont été dénaturées par la monarchie des Karageorgevitch. Les Croa­tes ont alors revendiqué leur indépendance. Un li­vre à rechercher chez les bouquinistes!

 

Wolfgang LIBAL, Das Ende Jugoslawiens. Chronik einer Selbstzerstörung, Europaverlag, Wien/Zürich, 1991, 176 S., DM 29,-/öS 198,-. ISBN 3-203-51135-5.

Correspondant de plusieurs agences de presse et journaux allemands, suisses et autrichiens, Wolf­gang Libal (né en 1912) est l'un des plus émi­nents spécialistes ès-affaires balkaniques de lan­gue allemande. Son verdict: la «Seconde You­go­slavie» de Tito est morte. Elle vient de connaître le même sort que la «Première Yougoslavie» des Karageorgevitch. Elle a succombé à ses contra­dictions internes. Aucun des peuples de l'espace sud-slave n'a accepté l'hégémonie serbe puis ser­bo-communiste. Le poids du passé, des diffé­ren­ces de tous ordres forgées au cours des siècles qui nous ont précédés, a pesé plus lourd que la volonté politique d'unir cette région d'Europe. Le livre de Libal retrace les péripéties de la vie po­li­tique et parlementaire yougoslave de 1918 à 1934, date de l'assassinat à Marseille du Roi Ale­xandre par les Macédoniens et les Oustachistes de Pavelic. Dans les querelles entre centralistes et fédéralistes, séparatistes et royalistes, nous re­trou­vons tous les clivages de l'espace you­go­sla­ve.

 

Jens REUTER, «Der Bürgerkrieg in Jugoslawien. Kriegsmüdigkeit, Kriegspsychose und Wirtschaftsverfall», in Europa Archiv. Zeitschrift für Internationale Politik, 1991/Nr. 24, 25.12.1991.

Bimensuel édité par la Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik, Verlag für Internationale Politik, Bonn (Adenauerallee 131, D-5300 Bonn). ISSN 0014-2476.

L'auteur examine l'état des «mouvements pour la paix» (la «Marche des Mères», la «Caravane de la Paix», le «Referendum contre la guerre», etc.) en Serbie et en Voïvodine. Le gros de la population est hostile à la guerre. Mais le gouvernement to­lè­re les parades de Tchetniks armés dans les rues et sur les places de marché de Belgrade. Le com­mer­ce des armes est libre et les partisans serbes peuvent vendre le produit de leurs pillages sur les marchés. Mais 30% seulement des réservistes ser­bes ont rejoint leurs unités lors de la mobili­sa­tion de l'automne 1991. A Belgrade, moins de 10%! Au Monténégro, 40% des rappelés ont répondu. A Zagreb, règne une psychose para­ly­sante: les irréguliers serbes ne campent pas loin de la capitale croate.

Reuter se penche ensuite sur le problème des dé­sertions, au début de l'automne 91: Bosniaques et Macédoniens ne veulent plus servir dans l'armée fé­dérale. En Macédoine, les fonctionnaires font dis­paraître les listes d'appelés; quelques jours plus tard, le Président macédonien Kiro Gligorov et son parlement décident officiellement de ne plus envoyer de soldats dans l'armée fédérale. La si­tuation économique est catastrophique: en Ser­bie, la planche à billets fonctionne sans in­ter­rup­tion, annonçant une inflation sans précédent; la Ser­bie a néanmoins pu dégager de substantiels sur­plus agricoles; en Croatie, l'économie est blo­quée à cause des combats; la Slovénie a perdu 23% de son marché, qui était auparavant inter-yougoslave. 

 

Wolfgang WAGNER, «Acht Lehren aus dem Fall Jugoslawien», in Europa Archiv. Zeitschrift für internationale Politik, 1992/2, 25.1.1992 (réf. et adresse ci-dessus).

Wagner énonce huit leçons de la crise you­go­sla­ve.

1. Quand l'Europe était partagée en deux blocs, el­le vivait davantage en paix qu'à l'heure actuelle, où cette confrontation globale a disparu.

2. Les élections libres ne sont plus une garantie de voir les peuples vivre côte à côte en harmonie.

3. Il est faux de croire que la guerre a cessé d'être perçue comme moyen de la politique en Europe, malgré les expériences tragiques des deux guerres mondiales.

4. Les Etats-Unis ne veulent pas intervenir en Europe. Ils estiment que c'est le rôle des Euro­péens de faire respecter les grands principes hu­ma­nitaires dans les Balkans.

5. L'idée qu'il faut intervenir dans les affaires in­térieures d'un Etat qui ne respecte pas les droits de l'homme reste une pure vue de l'esprit. Les réa­lités politiques continuent à s'imposer, dans tou­tes leurs dimensions tragiques, en dépit de ce vœu pieux, lancinant depuis la SDN.

6. Les moyens d'empêcher toute effusion de sang dans un conflit politique demeurent faibles.

7. Vu leur impuissance à agir et à résoudre les con­flits, les gouvernements cherchent des dériva­tifs humanitaires ou diplomatiques, non pas pour résoudre les problèmes par d'autres voies mais pour éviter qu'on ne leur reproche leur inaction.

8. Ni l'Europe ni le monde ne disposent d'une or­ganisation internationale capable d'enrayer et d'ar­rêter les conflits contre la volonté de leurs pro­tagonistes.

 

Waldemar HUMMER u. Peter HILPOLD, «Die Jugoslawien-Krise als ethnischer Konflikt», in Europa Archiv. Zeitschrift für internationale Politik, 1992/4, 25.2.1992.

Les auteurs partent du constat qu'en dépit des ex­pulsions massives de minorités (surtout alleman­des) après 1945, les conflits inter-ethniques en Eu­rope demeurent aigus. La crise «yougoslave» en est la plus sanglante illustration. Tito avait réus­si à maintenir l'équilibre entre les différents peu­ples de Yougoslavie en introduisant des mé­canismes de rotation du personnel politique et administratif. Mais cet équilibre était précaire. Dès la mort du Maréchal, les troubles ont com­mencé au Kosovo, conduisant, par la suite, Bel­gra­de à réduire l'autonomie accordée en 1963 à cette province ethniquement albanaise à 90%. Hum­mer et Hilpold analysent les textes de la nou­velle constitution croate et constatent que les rè­gles de protection des minorités, telles qu'elles ont été élaborées par les instances européennes, sont respectées. La constitution croate prévoit é­ga­lement l'autonomie des communes de la Kra­ji­na, où les Serbes sont majoritaires. Les Serbes, op­posés au nouvel Etat fédéral croate, contestent le principe de territorialité qui préside à l'attri­bu­tion ou à la non-attribution des droits de minorité, comme l'emploi de la langue serbe (rédigée en caractères cyrilliques). Pour eux, l'emploi de la lan­gue serbe devrait être possible partout sur le ter­ritoire de la Croatie indépendante. Ensuite, les droits des minorités doivent reposer sur le prin­cipe de réciprocité: si l'Etat A accorde des droits à la minorité B, majoritaire dans l'Etat B voisin, cet Etat B doit accorder les mêmes droits à la mi­no­rité A, majoritaire dans l'Etat A. Les Croates sont prêts à accorder ces droits aux Serbes de Croatie, à la condition que les Croates de Serbie jouissent exactement des mêmes droits. Les Slovènes ont exi­gé de l'Italie qu'elle accorde les mêmes droits aux 100.000 Slovènes d'Italie qu'accorde la Slo­vénie aux 3000 Italiens qui résident sur son terri­toire. Rome a refusé! 

lundi, 06 juillet 2009

Wann war das Dritte Reich?

Wann war das Dritte Reich?

Betrachtungen zu Beginn und Ende der Imperii auf deutschem Boden

von Richard G. Kerschhofer - http://www.ostpreussen.de/

Von wann bis wann existierte das Dritte Reich. Von 1933 bis 1945, werden viele sagen und vielleicht ergänzen, von der Machtergreifung am 30. Januar 1933 bis zur Kapitulation am 9. Mai 1945. Leider unrichtig, wie zu zeigen ist. Außerdem ist Hitlers Bestellung zum Reichskanzler nicht „die Machtergreifung“, denn die war ein Vorgang, der lange vor 1933 begonnen hatte und sich danach noch fortsetzte. Bis alle gleichgeschaltet oder ausgeschaltet waren.

Begonnen haben kann das Dritte Reich erst nach dem Ende des Zweiten Reiches – doch wann war das? Ebenfalls eine schwierige Frage. Der Anfang hingegen ist eindeutig: Das Zweite Reich, das „Wilhelminische Deutschland“, begann am 18. Januar 1871, als König Wilhelm I. von Preußen zum Deutschen Kaiser ausgerufen wurde.

Ebenso eindeutig sind die Eckdaten beim „Ersten Reich“, auch „Altes Reich“ genannt. Es begann am 2. Februar 962, als der zum deutschen König gewählte Sachsenherzog Otto I. von Papst Johannes XII. in Rom zum Kaiser gekrönt wurde. Dieses Reich ist später als „Sacrum Imperium“ belegt, dann als „Sacrum Romanum Imperium“ – Heiliges Römisches Reich – und am Beginn der Neuzeit wurde „deutscher Nation“ hinzugefügt. Es endete am 6. August 1806, als Kaiser Franz II. die Reichskrone niederlegte. Er hatte bereits 1804 das Erzherzogtum Österreich zum Kaisertum gemacht und war Kaiser Franz I. von Österreich geworden. Aber durfte der Kaiser das Reich beenden? Ob er durfte oder nicht – er mußte, auf Druck Napoleons.

Das Alte Reich war kein Nationalstaat, nicht einmal ein Staat im modernen Sinn – und schon lange vor Napoleon nur mehr eine Fiktion. Goethe läßt in Auerbachs Keller den einen Saufkumpan ein Spottlied auf dieses Reich anstimmen. Ein anderer bringt ihn zum Schweigen: „Ein garstig Lied! Pfui! Ein politisch Lied.“ Aber das wahrhaft Garstige war der dynastische Egoismus deutscher Fürsten, der das Reich in den Untergang trieb und die Anrainer zum Raub von Reichsgebiet einlud.

Das Erste Reich nannte sich nie „Erstes Reich“, denn kein Reich nimmt an, daß danach noch eines kommt. Auch das Zweite Reich nannte sich nicht „Zweites Reich“, denn für die allermeisten war es keine Wiedergeburt des Ersten Reiches. Es war ein weltliches Reich, keines „von Gottes Gnaden“, und es verkörperte nur die „kleindeutsche Lösung“, war also eher ein „großpreußisches Reich“.

Woher stammen dann die Ausdrücke „Erstes Reich“, „Zweites Reich“, „Drittes Reich“ und „Tausendjähriges Reich“? Sie kommen allesamt aus der Religion. Sie hängen zusammen mit dem „Millenarismus“ (lateinisch) oder „Chiliasmus“ (griechisch), mit dem Glauben an die Wiederkunft des Messias. Für „Drittes Reich“ steht auch „Tausendjähriges Reich“ – wobei „tausendjährig“ nach Ablauf des ersten Jahrtausends nicht mehr wörtlich genommen wurde, sondern soviel wie „ewig“ bedeuten sollte.

Erstmals in politischem Sinn verwendete diese Ausdrücke der deutsche Kulturhistoriker und Politiktheoretiker Arthur MOELLER VAN DEN BRUCK in seinem Buch „Das dritte Reich“ (1923). „Parteigenosse“ war er keiner und er starb schon 1925. Ob man ihn als „Wegbereiter“ bezeichnen kann, ist Geschmackssache, aber sicher erleichterte er die Arbeit nationalsozialistischer Ideologen. „Drittes Reich“ und „Tausendjähriges Reich“ paßten trefflich in das mythisch-mystische Gedankengebäude, das der religionsartigen Überhöhung einer durchaus weltlichen Politik diente. „Drittes Reich“ wird heute zwar pauschal für die NS-Zeit verwendet, war aber nicht mehr als ein Schlagwort der Propaganda. Es hatte nie ein Territorium und war nie ein Völkerrechtssubjekt.

Eines ist noch offen: Wann endete das Zweite Reich? Sicher nicht 1918, wie das die Nationalsozialisten sahen. Denn 1918 wie 1933/34 änderte sich jeweils nur die Regierungsform. 1938 entstand ein „Großdeutsches Reich“, das beinahe den großdeutschen Vorstellungen des 19. Jahrhunderts entsprach. Aber auch wenn im „Anschluß-Gesetz“ (RGBl Nr. 28 vom 18.3.1938) „Großdeutsches Volksreich“ steht – völkerrechtlich blieb es wie 1918 das „Deutsche Reich“.

Der Ausdruck „Drittes Reich“ war jetzt nicht mehr erwünscht und ab 10. Juli 1939 auf Weisung von Goebbels den Medien sogar untersagt. „Großdeutsches Reich“ findet sich im Gesetz zur Einverleibung der Rest-Tschechoslowakei (RGBl Nr. 47 vom 16.3.1939) und in anderen amtlichen Texten. Jener Erlaß der Reichskanzlei, der das Deutsche Reich auch formell in „Großdeutsches Reich“ umbenannte (RK 7669 E vom 26. Juni 1943), wurde aber nicht mehr publiziert. „Großdeutsches Reich“ stand nur auf den Briefmarken.

Anders als das Heilige Römische Reich Deutscher Nation wurde das Deutsche Reich nie durch irgendeinen Formalakt für beendet erklärt – nicht durch die Kapitulation, nicht durch die Besatzungsmächte, nicht durch Gründung der Bundesrepublik Deutschland und der Deutschen Demokratischen Republik, ja nicht einmal durch den „Zwei-Plus-Vier-Vertrag“. So wurde die Bundesrepublik zwar Rechtsnachfolgerin des nie für tot erklärten Reiches – mit allen daraus erwachsenen Nachteilen. Friedensvertrag gibt es aber keinen. Und auch Österreich hat nur einen „Staatsvertrag“ mit Einschränkungen der Souveränität, darunter das „Anschlußverbot“.

Opération Barbarossa: forces en présences et conclusions à tirer

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1991

 

 

Opération Barbarossa: les forces en présence et les conclusions qu'on peut en tirer

 

par Joachim F. WEBER

 

Un matin d'été, 3 h 30. La nuit est sombre du Cap Nord à la Mer Noire. Tout d'un coup, l'air est déchiré par le fracas assourdissant des canons. Des milliers d'obus forment une pluie d'acier et martèlent le versant sovié­tique de cette frontière. Les positions avan­cées de l'Armée rouge sont matraquées. Et quand les premières lueurs du jour appa­raissent, la Wehrmacht allemande et ses al­liés franchissent la frontière et pénètrent en URSS.

 

C'était le 22 juin 1941. Un jour historique où l'Allemagne a joué son destin. La lutte âpre qui commence en ce jour va se terminer un peu moins de quatre années plus tard, dans les ruines de la capitale allemande, à Berlin. Pendant 45 ans, on nous a répété que cette défaite était le juste salaire, bien mérité, de l'acte que nous avions commis ce 22 juin. L'historiographie des vainqueurs de 1945 et de leur clientèle parmi les vaincus a pré­senté pendant plusieurs décennies l' comme une guerre d'ex­ter­mination minutieusement planifiée, per­pé­trée par des parjures qui n'avaient pas res­pecté le pacte qui nous liait à notre voisine de l'Est. Les historiens qui osaient émettre des opinions différentes de celles imposées par cette sotériologie offi­cielle n'ont pas rigolé pen­dant quarante-cinq ans! Mais au­jour­d'hui, alors que l'ordre éta­bli à Yalta s'ef­fondre, de gros lambeaux de légende s'en vont également en quenouille. En cette année 1991, cinquante ans après les événements, on pourrait pourtant examiner les tenants et aboutissants de cette guerre et de ses prolé­go­mènes sans s'encombrer du moindre dog­me. En effet, on est impres­sionné par le grand nombre d'indices qui tendent à réfuter la thèse officielle d'une at­taque délibérée et injustifiée contre une Union Soviétique qui ne s'y attendait pas. Ces indices sont telle­ment nombreux qu'on peut se demander com­ment des historiens osent encore défen­dre cette thèse officielle, sans craindre de ne plus être pris au sé­rieux. Nous savons dé­sor­mais assez de choses sur ce qui s'est passé avant juin 1941, pour ne plus avoir honte de dire que l'attaque allemande du 22 juin a bel et bien été une guerre préventive.

 

Un vieux débat

 

Pourtant ce débat pour savoir si l' a été une attaque délibérée ou une guerre préventive n'est ni nouveau ni ori­ginal. Les deux positions se reflétaient déjà dans les déclarations officielles des an­tagonistes dès le début du conflit. Le débat est donc aussi ancien que l'affrontement lui-même. L'enjeu de ce débat, aujourd'hui, est de savoir si l'on veut continuer à regarder l'histoire dans la perspective des vainqueurs ou non.

 

L'ébranlement des armées allemandes qui a commencé en ce jour de juin a d'abord été couronné d'un succès militaire sans précé­dant. Effectivement, le coup brutal asséné par les troupes allemandes surprend la plu­part des unités soviétiques. Par centaines, les avions soviétiques sont détruits au sol; les positions d'artillerie et les concentrations de troupes sont annihilées. Au prix de lourdes pertes en matériel, les Soviétiques sont con­traints de reculer. Dès le début du mois de juillet, commencent les grandes batailles d'en­cerclement, où des centaines de milliers de soldats soviétiques sont faits prisonniers. En tout et pour tout, l'URSS perd, au cours des trois premières semaines de la guerre, 400.000 hommes, 7600 chars et 6200 avions: une saignée inimaginable.

 

C'est après ces succès inouïs que le chef de l'état-major général de l'armée de terre al­lemande, le Colonel-Général Halder, écrit dans son journal: . Une erreur d'appré­cia­tion, comme on n'en a jamais vue. Car au bout de 1396 jours, la campagne la plus coû­teuse que l'Allemagne ait jamais déclen­chée, se termine par une défaite.

 

Le désastre soviétique

 

Pourtant, le désastre soviétique paraissait complet. Au vu de celui-ci, on comprend l'eu­phorie de Halder, même si on ne prend pas seulement en considération les deux pre­mières semaines de la guerre mais ses six premiers mois. Jusqu'à la fin de l'année 1941, la Wehrmacht fait environ trois mil­lions de prisonniers soviétiques. C'est l'am­pleur de ces pertes qui incite les défen­seurs de la thèse de l'attaque délibérée à jus­tifier leur point de vue: en effet, ces pertes ten­de­raient à prouver que l'Union Soviétique n'é­tait pas préparée à la guerre, qu'elle ne se doutait de rien et qu'elle a été complètement surprise par l'attaque allemande.

 

Il est exact de dire, en effet, que l'Union So­vié­tique n'avait pas imaginé que l'Alle­ma­gne l'attaquerait. Néanmoins, il est tout-à-fait incongru de conclure que l'Union Sovié­tique ne s'était pas préparée à la guerre. Sta­line avait bel et bien préparé une guerre, mais pas celle qu'il a été obligé de mener à partir de juin 41. Pour les officiers de l'état-major allemand comme pour tous les ob­ser­va­teurs spécialisés dans les ques­tions mili­tai­res, c'est devenu un lieu com­mun, depuis 1941, de dire que l'avance alle­mande vers l'Est a précédé de peu une avance soviétique vers l'Ouest, qui aurait été menée avec beau­coup plus de moyens. La vé­rité, c'est que le déploiement soviétique, pré­lude à l'ébran­le­ment des armées de Staline vers l'Ouest, n'a pas eu le temps de s'achever.

 

Comparer les forces

et les effectifs en pré­sence

 

Lorsque l'on compare les forces et les effec­tifs en présence, on en retire d'intéressantes leçons. On ne peut affirmer que la Wehr­macht allemande  —sauf dans quelques uni­tés d'attaque aux effectifs ré­duits et à l'affec­tation localisée—  était supé­rieure en nom­bre. Les quelque 150 divisions allemandes (dont 19 blindées et 15 motori­sées), qui sont passées à l'attaque, se trou­vaient en face de 170 divisions soviétiques massées dans la zone frontalière. Parmi ces divisions sovié­tiques, 46 étaient blindées et motorisées. En matériel lourd, la supériorité soviétique était écrasante. Les unités alle­mandes attaquan­tes disposaient de 3000 chars et de 2500 a­vions, inclus dans les esca­drilles du front; face à eux, l'Armée Rouge aligne 24.000 chars (dont 12.000 dans les ré­gions mili­tai­res proches de la frontière) et 8.000 avions. Pour ce qui concerne les pièces d'artillerie, la Wehrmacht dispose de 7000 tubes et les Soviétiques de 40.000! Si l'on in­clut dans ces chiffres les mortiers, le rapport est de 40.000 contre 150.000 en faveur des Soviétiques. Le 22 juin, l'Armée soviétique aligne 4,7 mil­lions de soldats et dispose d'une réserve mo­bilisable de plus de 10 mil­lions d'hommes.

 

Les Landser allemands avançant sur le front russe constatent très vite comment les choses s'agençaient, côté soviétique: effecti­vement, les pertes soviétiques sont colos­sales, mais, ce qui les étonne plus encore, c'était la quantité de matériels que les Sovié­tiques étaient en mesure d'acheminer. Les Allemands abattent quinze bombardiers so­vié­tiques et voilà qu'aussitôt vingt autres sur­gissent. Quand les Allemands arrêtent la contre-attaque d'un bataillon de chars sovié­tiques, ils sont sûrs que, très rapidement, une nouvelle contre-attaque se déclenchera, ap­puyée par des effectifs doublés.

 

Un matériel soviétique

d'une qualité irrépro­chable

 

Sur le plan de la qualité du matériel, la Wehr­macht n'a jamais pu rivaliser avec ses ad­versaires soviétiques. Alors qu'une bonne part des blindés soviétiques appartiennent aux types lourdement cuirassés KV et T-34 (une arme très moderne pour son temps), les Allemands ne peuvent leur opposer, avant 1942, aucun modèle équivalent. La plupart des unités allemandes sont dotées de Panzer I et de Panzer II, totalement dépassés, et de chars tchèques, pris en 1938/39.

 

Pourquoi l'Allemagne ne peut-elle rien jeter de plus dans la balance? Pour une raison très simple: après la victoire de France, l'in­dustrie allemande de l'armement, du moins dans la plupart des domaines cru­ciaux, a­vait été remise sur pied de paix. Ainsi, les usines de munitions (tant pour l'infanterie que pour l'artillerie) avaient ré­duit leurs cadences, comme le prouvent les chiffres de la production au cours de ces mois-là. Est-ce un indice prouvant que l'Allemagne prépa­rait de longue date une guerre offensive?

 

Concentration et vulnérabilité

 

Mais cette réduction des cadences dans l'in­dustrie de l'armement n'est qu'un tout petit élément dans une longue suite d'indices. Surgit alors une question que l'on est en droit de poser: la supériorité sovié­tique était si impressionnante, comment se fait-il que la Wehrmacht n'ait pas été battue dès 1941 et que l'Armée Rouge ait dû at­tendre 1944-45 pour vaincre?. La réponse est sim­ple: parce le gros des forces soviétiques était déjà massé dans les zones de rassem­ble­ment, prêt à passer à l'attaque. Cette énorme concentration d'hommes et de ma­tériels a scellé le destin de l'Armée Rouge en juin 1941. En effet, les unités militaires sont ex­ces­­sivement vulnérables lorsqu'elles sont con­centrées, lorsqu'elles ne se sont pas en­co­re déployées et qu'elles manœuvrent avant d'a­voir pu établir leurs positions. A ces mo­ments-là, chars et camions roulent pare-chocs contre pare-chocs; les colonnes de vé­hicules s'étirent sur de longs kilomètres sans protection aucune; sur les aérodromes, les avions sont rangés les uns à côté des au­tres.

 

Aucune armée au monde n'a jamais pris de telles positions pour se défendre. Tout état-ma­jor qui planifie une défense, éparpille ses troupes, les dispose dans des secteurs forti­fiables, aptes à assurer une défense efficace. Toute option défensive prévoit le creusement de réseaux de tranchées, fortifie les positions existantes, installe des champs de mines. Sta­line n'a rien fait de tout cela. Au con­trai­re: après la campagne de Pologne et à la veil­le de la guerre avec l'Allemagne, Staline a fait démanteler presque entièrement la ligne dé­fensive russe qui courait tout au long de la frontière polono-soviétique pour préve­nir tou­te réédition des attaques polonaises; mieux, cette ligne avait été renforcée sur une pro­fon­deur de 200 à 300 km. Or, pourtant, l'Armée Rouge, pendant la guerre de l'hiver 1939-40 con­tre la Finlande, avait payé un très lourd tribut pour franchir le dispositif défen­sif fin­landais. Toutes les mesures défen­sives, tou­tes les mesures de renforcement des défen­ses existantes, ont été suspendues quelques mois avant que ne commence l'. Les barrières ter­restres ont été démontées, les charges qui minaient les ponts et les autres ouvrages d'art ont été en­levées et les mines anti-chars déterrées. Quant à la , bien plus per­fec­tionnée, elle a subi le même sort, alors que, depuis 1927, on n'avait cessé de la renforcer à grand renfort de béton armé. Et on ne s'est pas contenté de la démonter en enlevant, par exemple, toutes les pièces anti-chars: on a fait sauter et on a rasé la plupart des bun­kers qui la composaient. Ces démon­tages et ces destructions peuvent-ils être in­terprétés comme des mesures de défense? Le Maré­chal soviétique Koulikov disait en juin 1941: .

 

Les dix corps aéroportés de Staline

 

Bon nombre d'autres mesures prises par les Soviétiques ne sauraient être interprétées com­me relevant de la défense du territoire. Par exemple, la mise sur pied de dix corps aéroportés. Les troupes aéroportées sont des unités destinées à l'offensive. Entraîner et équiper des unités aéroportées coûtent des sommes astronomiques; pour cette raison bud­gétaire, les Etats belligérants, en géné­ral, évitent d'en constituer, ne fût-ce qu'un seul. L'Allemagne ne l'a pas fait, alors que la guerre contre l'Angleterre le postulait. Sta­line, pour sa part, en a mis dix sur pied d'un coup! Un million d'hommes, avec tous leurs équipements, comprenant des chars aéroportables et des pièces d'artillerie lé­gères. Au printemps de l'année 1941, l'in­dus­trie soviétique, dirigée depuis sa cen­trale moscovite, ordonna la production en masse des planeurs porteurs destinés au transport de ces troupes. Des milliers de ces machines sont sorties d'usine. Staline, à l'évidence, comp­tait s'en servir pendant l'été 1941, car rien n'avait été prévu pour les en­treposer. Or, ces planeurs n'auraient pas pu résister à un seul hiver russe à la belle étoile.

 

Ensuite, depuis la fin des années 30, l'in­dustrie de guerre soviétique produisait des milliers d'exemplaires du char BT: des blin­dés de combat capables d'atteindre des vites­ses surprenantes pour l'époque et dont le ra­yon d'action était impressionnant; ces chars avaient des chenilles amovibles, de fa­çon à ce que leur mobilité sur autoroutes soit en­co­re accentuée. Ces chars n'avaient au­cune utilité pour la défense du territoire.

 

En revanche, pour l'attaque, ils étaient i­déaux; en juillet 1940, l'état-major sovié­tique amorce la mise sur pied de dix armées d'a­vant-garde, baptisées  pour tromper les services de rensei­gnements étrangers. A ce sujet, on peut lire dans l'En­cyclopédie militaire soviétique:  (vol. 1, p. 256). Il s'agissait d'armées disposant de mas­ses de blindés, en règle gé­nérale, de un ou de deux corps dotés chacun de 500 chars, dont les attaques visait une pé­nétration en profondeur du territoire en­nemi.

 

Les préparatifs offensifs de l'Armée rouge peu­vent s'illustrer par de nombreux indices encore: comme par exemple le transport vers la frontière occidentale de l'URSS de gran­des quantités de matériels de génie pré­voyant la construction de ponts et de voies fer­rées. Les intentions soviétiques ne pou­vaient être plus claires.

 

Hitler prend Staline de vitesse

 

C'est sans doute vers le 13 juin que l'état-ma­jor général soviétique a commencé à met­tre en branle son 1er échelon straté­gique, donc à démarrer le processus de l'offensive. L'organisation de ce transfert du 1er échelon stratégique a constitué une opé­ration gi­gan­tesque. Officiellement, il s'agissait de ma­nœuvres d'été. A l'arrière, le 2ième échelon stratégique avait com­mencé à se former, dont la mission aurait été de prendre d'as­saut les lignes de défense allemandes, pour le cas (envisagé comme peu probable) où el­les auraient tenus bon face à la première vague.

 

Mais le calcul de Staline a été faux. Hitler s'est décidé plus tôt que prévu à passer à l'action. Il a précédé son adversaire de deux semaines. Côté soviétique, la dernière phase du déploiement du 1er échelon (trois mil­lions d'hommes) s'était déroulée avec la pré­cision d'une horloge. Mais au cours de ce déploiement, cette gigantesque armée était très vulnérable. Le matin du 22 juin, l'of­fen­sive allemande a frappé au cœur de cette su­perbe mécanique et l'a fracassée.

 

A ce moment, de puissantes forces sovié­tiques se sont déjà portées dans les balcons territoriaux en saillie de la frontière occiden­tale, notamment dans les régions de Bia­lystok et de Lemberg (Lvov). Les Allemands les ont encerclées, les ont forcées à se ras­sembler dans des secteurs exigus et les y ont détruites. Et ils ont détruit égale­ment d'é­nor­mes quantités de carburant et de munitions que les trains soviétiques avaient acheminés vers le front le matin même.

 

Staline jette ses inépuisables réserves dans la balance

 

Le désastre soviétique était presque parfait. Presque, pas entièrement. Les pertes étaient certes énormes mais les réserves étaient en­core plus énormes. De juillet à décembre 1941, l'Union Soviétique a réussi à remettre sur pied 200 importantes unités, dont les ef­fectifs équivalaient à ceux d'une division. La Wehrmacht n'a pas su en venir à bout. Pen­dant l'hiver, devant Moscou, l'Allemagne a perdu sa campagne de Russie. A partir de ce moment-là, la Wehrmacht n'a plus livré que des combats désespérés contre l'Armée Rou­ge, avec un acharnement aussi fou qu'inu­tile, tant l'adversaire était numériquement supé­rieur, et compensait ses pertes en maté­riel par les livraisons américaines.

 

Voici, en grandes lignes, les faits présents le 22 juin 1941. L'histoire des préliminaires de cette campagne de Russie, la question de sa­voir à quelle date précise les Allemands et les Soviétiques avaient décidé d'attaquer, res­tent matières à interprétation, d'autant plus que d'importantes quantités d'archives allemandes sont toujours inaccessibles, aux mains des vainqueurs, et que les archives soviétiques ne peuvent toujours pas être con­sultées par les chercheurs. La raison de ces secrets n'est pas difficile à deviner...

 

Joachim F. WEBER.

(texte issu de Criticón, Nr. 125, Mai/Juni 1991; adresse de la revue: Knöbelstrasse 36/0, D-8000 München 22).