
La concretezza geopolitica del diritto in Carl Schmitt
La produzione teorica di Carl Schmitt è caratterizzata dalla tendenza dell’autore a spaziare in diversi settori di ricerca e dal rifiuto di assolutizzare un solo fattore o ambito vitale. Nonostante gli siano state rivolte frequenti accuse di ambiguità e asistematicità metodologica – in particolar modo da chi sostiene la “purezza” della scienza del diritto -, in una delle sue ultime interviste, rilasciata nella natia Plettenberg, Schmitt ribadì senza mezzi termini la sua radicale scelta esistenziale: «Mi sento al cento per cento giurista e niente altro. E non voglio essere altro. Io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta» (Lanchester, 1983, pp. 5-34).
Un metodo definito sui generis, distante dalle asettiche teorizzazioni dei fautori del diritto positivo ma non per questo meno orientato alla scienza giuridica, sviscerata fin nelle sue pieghe più riposte per ritrovarne la genesi violenta e i caratteri concreti ed immediati, capaci di imporsi su una realtà che, da “fondamento sfondato”, è minacciata dal baratro del nulla.
In quest’analisi si cercherà di far luce sul rapporto “impuro” tra diritto ed altre discipline, in primis quella politica attraverso cui il diritto stesso si realizza concretamente, e sui volti che questo ha assunto nel corso della sua produzione.
1. Il pensiero di Schmitt può essere compreso solo se pienamente contestualizzato nell’epoca in cui matura: è dunque doveroso affrontarne gli sviluppi collocandoli in prospettiva diacronica, cercando di individuare delle tappe fondamentali ma evitando rigide schematizzazioni.
Si può comunque affermare con una certa sicurezza che attorno alla fine degli anni ’20 le tesi schmittiane subiscano un’evoluzione da una prima fase incentrata sulla “decisione” a una seconda che volge invece agli “ordini concreti”, per una concezione del diritto più ancorata alla realtà e svincolata non solo dall’eterea astrattezza del normativismo, ma pure dallo “stato d’eccezione”, assenza originaria da cui il diritto stesso nasce restando però co-implicato in essa.
L’obiettivo di Schmitt è riportare il diritto alla sfera storica del Sein – rivelando il medesimo attaccamento all’essere del suo amico e collega Heidegger -, che si oppone non solo al Sollen del suo idolo polemico, Hans Kelsen, ma pure al Nicht-Sein, allo spettro del “Niente” che sopravviveva nell’eccezione, volutamente non esorcizzato ma troppo minaccioso per realizzare una solida costruzione giuridica. La “decisione”, come sottolineò Löwith – che accusò Schmitt di “occasionalismo romantico” – non può pertanto essere un solido pilastro su cui fondare il suo impianto teoretico, essendo essa stessa infondata e slegata «dall’energia di un integro sapere sulle origini del diritto e della giustizia» (Löwith, 1994, p.134). Il decisionismo appariva in precedenza come il tentativo più realistico per creare ordine dal disordine, nell’epoca della secolarizzazione e dell’eclissi delle forme di mediazione: colui che s’impone sullo “stato d’eccezione” è il sovrano, che compie un salto dall’Idea alla Realtà. Quest’atto immediato e violento ha sul piano giuridico la stessa valenza di quella di Dio nell’ambito teologico, tanto da far affermare a Schmitt che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (Teologia politica, 1972, p.61). Solo nell’eccezione il problema della sovranità si pone come reale e ineludibile, nelle vesti di chi decide sull’eventuale sospensione dell’ordinamento, ponendosi così sia fuori che dentro di esso. Questa situazione liminale non è però metagiuridica: la regola, infatti, vive «solo nell’eccezione» (Ivi, p.41) e il caso estremo rende superfluo il normativo.
La debolezza di tale tesi sta nel fissarsi su una singola istanza, la “decisione”, che ontologicamente è priva di fondamento, in quanto il soggetto che decide – se si può definire tale – è assolutamente indicibile ed infondabile se non sul solo fatto di essere riuscito a decidere e manifestarsi con la decisione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, decisionismo non è dunque sinonimo di soggettivismo: a partire dalla consapevolezza della sua ambiguità concettuale, Schmitt rivolge la sua attenzione verso la concretezza della realtà storica, che diviene il perno della sua produzione giuridica.
Un cambio di rotta dovuto pure all’erosione della forma-Stato, evidente nella crisi della ”sua” Repubblica di Weimar. Il decisionismo rappresentava un sostrato teorico inadeguato per l’ordinamento giuridico internazionale post-wesfaliano, in cui il tracollo dello Stato[1] spinge Schmitt a individuare nel popolo e nei suoi “ordinamenti concreti” la nuova sede del “politico”.
Arroccato su posizioni anti-universaliste, l’autore elabora tesi che vanno rilette in sostanziale continuità con quelle precedenti ma rielaborate in modo tale da non applicare la prospettiva decisionista a tale paradigma cosmopolitico.
2. Il modello di teoria giuridica che Schmitt approfondì in questa tappa cruciale del suo itinerario intellettuale è l’istituzionalismo di Maurice Hauriou e Santi Romano, che condividono la definizione del diritto in termini di “organizzazione”. La forte coincidenza tra organizzazione sociale e ordinamento giuridico, accompagnata alla serrata critica del normativismo, esercitò una notevole influenza su Schmitt, che ne vedeva il “filo di Arianna” per fuoriuscire dal caos in cui era precipitato il diritto dopo la scomparsa degli Stati sovrani.
Convinto fin dalle opere giovanili che fosse il diritto a creare lo Stato, la crisi irreversibile di quest’ ultimo indusse l’autore a ricercarne gli elementi essenziali all’interno degli “ordinamenti concreti”. Tralasciando la dottrina di Hauriou, che Schmitt studiò con interesse ma che esula da un’analisi prettamente giuridica in quanto fin troppo incentrata sul piano sociologico, è opportuno soffermarsi sull’insegnamento romaniano e sulle affinità tra questi e il tardo pensiero del Nostro. Il giurista italiano riconduceva infatti il concetto di diritto a quello di società – corrispondono al vero sia l’assunto ubi societas ibi ius che ubi ius ibi societas – dove essa costituisca un’«unità concreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono» (Romano, 1946, p.15) e miri alla realizzazione dell’«ordine sociale», escludendo quindi ogni elemento riconducibile all’arbitrio o alla forza. Ciò implica che il diritto prima di essere norma è «organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità» (Ivi, p.27).
La coincidenza tra diritto e istituzione seduce Schmitt, al punto da fargli considerare questa particolare teoria come un’alternativa al binomio normativismo/decisionismo, “terza via” di fronte al crollo delle vecchie certezze del giusnaturalismo e alla vulnerabilità del positivismo. Già a partire da Teologia politica il pensiero di matrice kelseniana era stato demolito dall’impianto epistemologico che ruotava intorno ai concetti di sovranità e decisione, che schiacciano il diritto nella sfera del Sein riducendo il Sollen a «modus di rango secondario della normalità» (Portinaro, 1982, p. 58). Il potere della volontà esistenzialmente presente riposa sul suo essere e la norma non vale più in quanto giusta, tramontato il paradigma giusnaturalistico, ma perché è stabilita positivamente, di modo che la coppia voluntas/auctoritas prevalga su quella ratio/veritas.
L’eclissi della decisione osservabile dai primi scritti degli anni ’30 culmina col saggio I tre tipi di pensiero giuridico, in cui al “nemico” scientifico rappresentato dall’astratto normativista Schmitt non oppone più l’eroico decisionista del caso d’eccezione quanto piuttosto il fautore dell’ “ordinamento concreto”, anch’esso ubicato nella sfera dell’essere di cui la normalità finisce per rappresentare un mero attributo, deprivato di quei connotati di doverosità che finirebbero per contrapporsi a ciò che è esistenzialmente dato. Di qui la coloritura organicistico-comunitaria delle istituzioni che Schmitt analizza, sottolineando che «esse hanno in sé i concetti relativi a ciò che è normale» (I tre tipi di pensiero giuridico, 1972, pp.257-258) e citando a mo’ di esempi modelli di ordinamenti concreti come il matrimonio, la famiglia, la chiesa, il ceto e l’esercito.
Il normativismo viene attaccato per la tendenza a isolare e assolutizzare la norma, ad astrarsi dal contingente e concepire l’ordine solo come «semplice funzione di regole prestabilite, prevedibili, generali» (Ibidem). Ma la novità più rilevante da cogliere nel suddetto saggio è il sotteso allontanamento dall’elemento decisionistico, che rischia di non avere più un ruolo nell’ambito di una normalità dotata di una tale carica fondante.
3. L’idea di diritto che l’autore oppone sia alla norma che alla decisione è legata alla concretezza del contesto storico, in cui si situa per diventare ordinamento e da cui è possibile ricavare un nuovo nomos della Terra dopo il declino dello Stato-nazione.
Lo Schmitt che scrive negli anni del secondo conflitto mondiale ha ben presente la necessità di trovare un paradigma ermeneutico della politica in grado di contrastare gli esiti della modernità e individuare una concretezza che funga da katechon contro la deriva nichilistica dell’età della tecnica e della meccanizzazione – rappresentata sul piano dei rapporti internazionali dall’universalismo di stampo angloamericano.
Sulla scia delle suggestioni ricavate dall’istituzionalismo, il giurista è consapevole che solo la forza di elementi primordiali ed elementari può costituire la base di un nuovo ordine.
La teoria del nomos sarà l’ultimo nome dato da Schmitt alla genesi della politica, che ormai lontana dagli abissi dello “stato d’eccezione” trova concreta localizzazione nello spazio e in particolare nella sua dimensione tellurica: i lineamenti generali delle nuove tesi si trovano già in Terra e mare del 1942 ma verranno portati a compimento solo con Il nomos della terra del 1950.
Nel primo saggio, pubblicato in forma di racconto dedicato alla figlia Anima, il Nostro si sofferma sull’arcana e mitica opposizione tra terra e mare, caratteristica di quell’ordine affermatosi nell’età moderna a partire dalla scoperta del continente americano. La spazializzazione della politica, chiave di volta del pensiero del tardo Schmitt, si fonda sulla dicotomia tra questi due elementi, ciascuno portatore di una weltanschauung e sviscerati nelle loro profondità ancestrali e mitologiche più che trattati alla stregua di semplici elementi naturali. Il contrasto tra il pensiero terrestre, portatore di senso del confine, del limite e dell’ordine, e pensiero marino, che reputa il mondo una tabula rasa da percorrere e sfruttare in nome del principio della libertà, ha dato forma al nomos della modernità, tanto da poter affermare che «la storia del mondo è la storia della lotta delle potenze terrestri contro le potenze marine» (Terra e mare, 2011, p.18) . Un’interpretazione debitrice delle suggestioni di Ernst Kapp e di Hegel e che si traduceva nel campo geopolitico nel conflitto coevo tra Germania e paesi anglosassoni.
Lo spazio, cardine di quest’impianto teorico, viene analizzato nella sua evoluzione storico-filosofica e con riferimenti alle rivoluzioni che hanno cambiato radicalmente la prospettiva dell’uomo. La modernità si apre infatti con la scoperta del Nuovo Mondo e dello spazio vuoto d’oltreoceano, che disorienta gli europei e li sollecita ad appropriarsi del continente, dividendosi terre sterminate mediante linee di organizzazione e spartizione. Queste rispondono al bisogno di concretezza e si manifestano in un sistema di limiti e misure da inserire in uno spazio considerato ancora come dimensione vuota. È con la nuova rivoluzione spaziale realizzata dal progresso tecnico – nato in Inghilterra con la rivoluzione industriale – che l’idea di spazio esce profondamente modificata, ridotta a dimensione “liscia” e uniforme alla mercé delle invenzioni prodotte dall’uomo quali «elettricità, aviazione e radiotelegrafia», che «produssero un tale sovvertimento di tutte le idee di spazio da portare chiaramente (…) a una seconda rivoluzione spaziale» (Ivi, p.106). Schmitt si oppone a questo cambio di rotta in senso post-classico e, citando la critica heideggeriana alla res extensa, riprende l’idea che è lo spazio ad essere nel mondo e non viceversa. L’originarietà dello spazio, tuttavia, assume in lui connotazioni meno teoretiche, allontanandosi dalla dimensione di “datità” naturale per prendere le forme di determinazione e funzione del “politico”. In questo contesto il rapporto tra idea ed eccezione, ancora minacciato dalla “potenza del Niente” nella produzione precedente, si arricchisce di determinazioni spaziali concrete, facendosi nomos e cogliendo il nesso ontologico che collega giustizia e diritto alla Terra, concetto cardine de Il nomos della terra, che rappresenta per certi versi una nostalgica apologia dello ius publicum europaeum e delle sue storiche conquiste. In quest’opera infatti Schmitt si sofferma nuovamente sulla contrapposizione terra/mare, analizzata stavolta non nei termini polemici ed oppositivi di Terra e mare[2] quanto piuttosto sottolineando il rapporto di equilibrio che ne aveva fatto il cardine del diritto europeo della modernità. Ma è la iustissima tellus, «madre del diritto» (Il nomos della terra, 1991, p.19), la vera protagonista del saggio, summa del pensiero dell’autore e punto d’arrivo dei suoi sforzi per opporre un solido baluardo al nichilismo.
Nel nomos si afferma l’idea di diritto che prende la forma di una forza giuridica non mediata da leggi che s’impone con violenza sul caos. La giustizia della Terra che si manifesta nel nomos è la concretezza di un arbitrio originario che è principio giuridico d’ordine, derivando paradossalmente la territorialità dalla sottrazione, l’ordine dal dis-ordine. Eppure, nonostante s’avverta ancora l’eco “tragica” degli scritti giovanili, il konkrete Ordnung in cui si esprime quest’idea sembra salvarlo dall’infondatezza e dall’occasionalismo di cui erano state accusate le sue teorie precedenti.
Da un punto di vista prettamente giuridico, Schmitt ribadisce la sentita esigenza di concretezza evitando di tradurre il termine nomos con “legge, regola, norma”, triste condanna impartita dal «linguaggio positivistico del tardo secolo XIX» (Ivi, p.60). Bisogna invece risalire al significato primordiale per evidenziarne i connotati concreti e l’origine abissale, la presa di possesso e di legittimità e al contempo l’assenza e l’eccedenza. La catastrofe da cui lo ius publicum europaeum è nato, ossia la fine degli ordinamenti pre-globali, è stata la grandezza del moderno razionalismo politico, capace di avere la propria concretezza nell’impavida constatazione della sua frattura genetica e di perderla con la riduzione del diritto ad astratta norma. Ed è contro il nichilismo del Gesetz che Schmitt si arma, opponendo alla sua “mediatezza”, residuo di una razionalità perduta, l’“immediatezza” del nomos, foriero di una legittimità che «sola conferisce senso alla legalità della mera legge» (Ivi, p.63).
GEOPOLITICA & TEORIA 27/05/2015 Ugo Gaudino
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Die Leute werden nicht müde, trotz Abwesenheit allgemein akzeptierter Autoritäten, von indiskutablen letzten Werten, verbindlichen Normen sowie gemeinsamen Überzeugungen über Politik zu reden.
Demokraten z.B. gehen davon aus, dass ihresgleichen einer mit sachlichen Argumenten geführten Diskussion zugänglich sein muss. Es kann ja gar nicht anders sein. Nach ihnen hat die Vernunft es so eingerichtet, dass „wir Demokraten“ miteinander reden können. Schließlich sind wir alle – d.h. „wir Demokraten“ – vernünftig.
In der Demokratie zählt Gleichheit mehr als Vernunft
Dabei wird vergessen, dass in der Demokratie die Gleichheit der Vernunft übergeordnet ist: Entweder ist die Vernunft allen Individuen gleichermaßen angeboren, oder aber wir haben kein individuelles Vernunftvermögen, welches uns bezüglich der Vernunft voneinander unterschiede.
Entweder sind „wir Demokraten“ alle von Natur aus gleich weise, einsichtig und vernünftig bzw. töricht, uneinsichtig und unvernünftig, oder aber „wir Demokraten“ können nachträglich gemeinsam übereinkommen in Einsicht, Verständigkeit und Besonnenheit, bzw. in Torheit, Unverstand und Wahnsinn, vermittels der Gleichheit.
Unmöglichkeit der Diskussion
Trotz demokratischer „Gleichberechtigung“ in der Diskussion sollte die Pattsituation, in der sich jede Diskussion von selbst erübrigt, die demokratische Situation schlechthin sein. Denn dem der Demokratie zu Grunde liegenden individualistischen Gleichheitsgrundsatz, der von der geistigen Autarkie und Autonomie der Einzelnen ausgeht, entspricht es nämlich beileibe nicht, von anderen zu fordern, sie möchten die besseren eigenen Argumente doch einsehen, sie akzeptieren und, infolgedessen, sich selbst zu eignen machen.
So betrachtet ist Überzeugen keine Option, sondern ein Wahn: von mir kann vernünftigerweise niemand verlangen, den Willen aufzubringen, je nachdem, entweder andere überzeugen zu wollen, oder aber mich überzeugen zu lassen. Längst gibt es die schwächlichen, den Gegenüber angeblich beschwichtigenden Wendungen: „Ich will die ja gar nicht überzeugen“ und „Das ist einfach nur meine persönliche Meinung ohne jeden Anspruch auf Wahrheit“.
Liberale Demokratie und „dialogische Form“ schließen einander aus
Die liberale, fälschlich für dialogisch gehaltene Form der Demokratie, welche auf der unentwegten gegenseitigen Zusicherung von Gesprächsbereitschaft – „parlement“ – beruht, erweist sich bei näherem Hinsehen als Chimäre. Soll überhaupt ein Dialog stattfinden, müssen die Kontrahenten einander wirklich ebenbürtig sein. Ebenbürtigkeit aber schließt Gleichheit mit Nichtebenbürtigen von vornherein aus. Und ebenbürtig ist auch nur der, der gleich geartet, d.h. gleichen Geistes und Gemüts wie einer selbst, ist. Damit aber ist ein Schlussstrich unter die Demokratie gezogen.
Nach Einigung auf die Sachlichkeit der Argumente erfordert der Dialog von beiden Seiten noch behelfsmäßige Annahme, Prüfung, Erörterung, Auseinandersetzung sowie beiderseitige Willfährigkeit, zu überzeugen und sich überzeugen zu lassen, gerade weil beider Leitstern die Wahrheit ist. Denn wäre sie das nicht, wozu dann diskutieren, meinen, reden? Wer ohne Wahrheit, d.h. vernunftlos, redet, redet einfach nur der Rede wegen, oder aber weil es ihm um nichts anderes als um die Vormacht geht, und zwar nicht um die Vormacht im Gespräch, sondern um die wahre, die handfeste Vormacht.
„Demokratie“ als Recht des Stärkeren – Recht des Listigeren
Innerhalb der liberalen Demokratie ist es um dialogische Form von vornherein schlecht bestellt: Gibt es doch tatsächlich Menschen, die zu ihrer natürlichen geistigen Begnadetheit auch noch die notwendige Selbstbeherrschung mitbringen, um allein Dienst an der Wahrheit zu tun. In der Konfrontation mit ihnen landen unsere gesprächsbereiten Demokraten früher oder später bei Machiavellis Standpunkt, dass die sicherste Art zu herrschen – bzw. davon abgeleitet: in der Diskussion zu triumphieren – immer noch die der Zerstörung (des Gegners) ist.
Dabei ist die einzige Herrschaft, für die gestritten werden sollte, die der Wahrheit. Demokraten aber geht es letztlich auch nur um ihre Herrschaft. Innerhalb des liberalen gesellschaftlichen Redeflusses sind „gleiche Chance“ und „Gleichberechtigung“ daher nichts anderes als Chiffren: Für den Einzelnen chiffrieren sie seine Selbstsucht und seinen Eigennutz, für Gruppen und Parteien die eigene Selbstgerechtigkeit und Scheinheiligkeit, also ebenfalls Selbstsucht und Eigennutz. „Demokratie“ kann deshalb sowohl Recht des Stärkeren als auch Recht des Listigeren, vor allem des Hinterlistigeren, bedeuten.
Von der liberalen Demokratie zur Wissensgesellschaft
Die Schwierigkeit der dialogischen Form, die sie auch mit der liberalen Demokratie unvereinbar macht, liegt in ihren individuellen Voraussetzungen. Nicht jeder Mensch ist fähig und auch willens, im Dialog der Wahrheit uneigennützig zum Siege zu verhelfen. Vielmehr gilt: Für Eigensinn und Willen zur Macht gibt es kein besseres Mistbeet und Treibhaus als eben unsere liberale Demokratie, die sich selbst „Wissensgesellschaft“ zu nennen goutiert.
Aus ihr sprießen Heerscharen von Schulmeistern, sonstigen wissenden Widerspruchswichten aber auch grobianischen Wortberserkern. Sokrates selbst findet freilich auch unzählige Nachahmer, unter denen sich aber kein einziger echter Sokrates auffinden lässt, sondern einfach nur Papageien. Kein Mensch hat Nerven, die demokratische Pattsituation zu akzeptieren. Auch sind es immer wieder liberale Demokraten, die ein geradezu pathologisches Mitteilungsbedürfnis haben. „Lakonisch“ und „liberal“ sind nicht nur politisch Gegensätze. Sie sind es auch in der Rede.
Machtmensch vs. Dialogiker
Dem Dialogiker, der sich unvorsichtigerweise darauf eingelassen hat, mit Machtmenschen zu reden, kommt seine Unvorsicht teuer zu stehen. Der Machtmensch dankt dem Dialogiker seine Gesprächsbereitschaft nicht. Im Gegenteil versucht er ihn zu überbieten. Aufgrund der demokratischen Gleichheit hegt der Machtmensch nämlich den Verdacht, der Dialogiker wolle ihn überbieten.
Damit ihm ja nicht geschehe, was er selbst seinem Gegenüber, seinem potentiellen Opfer, antun will, bietet er alles auf, um durch vorauseilendes Übertrumpfen zu verhindern, dass er zum Überbotenen und, somit, zum Besiegten werde. Die Mittel dazu sind: den Gegenüber sprachlos, rhetorisch, logisch und auch bezüglich Einzelheiten platt zu machen. Und zu diesem Zweck werden Kampfmittel aufgefahren und sogar Täuschungsmanöver angewandt.
Alles eine Machtfrage!?
Das Gespräch ist ein Kampf. Der Soziologe Gabriel de Tarde hat sogar von einem „logischen Zweikampf“ gesprochen. Und die alten Griechen kultivierten den rhetorischen Wettkampf wie jeden anderen Wettkampf auch. Der Machtmensch aber macht aus diesen logischen Wettkämpfen einen Ringkampf um die Macht, bei dem jegliches Einhalten von Regeln zu seinen eigenen Ungunsten ausschlagen würde.
Nichts liegt ihm ferner als liberales Fairplay. Argumente sind ihm Waffen und Waffen Argumente. Selbst die behelfsmäßige Annahme, getätigt im Dienste der Wahrheit, sein Gegenüber könnte Recht haben, verlangt ihm eine Liebe zur Wahrheit (Philosophie) ab, die er gar nicht haben kann. Und, anstatt die Willfährigkeit und die sich aus ihr ergebende Bereitschaft, zu überzeugen und selbst – wenn auch nur der Möglichkeit nach – überzeugt zu werden, mitzubringen, bringt er ganz einfach den Willen zur Macht mit. Und selbst für gewitztere (liberale) Demokraten, die als ihre einzigen Waffen entwaffnenden Humor und Ironie mitbringen, ist allein der Wille zur Macht maßgebend.
Sektierer, Gemeinde und Gesinnungspolizei in einer Person
Das politische Gespräch heutzutage ist eine Unmöglichkeit. Hauten sich die Leute gegenseitig die Köpfe ein und schwiegen sie – oder umgekehrt – wäre ihnen besser gedient. Es ist nämlich ganz zwecklos, mit anderen Menschen über Politik ins Gespräch zu kommen. Man scheint in die Lage des inneren Exilanten Machiavelli versetzt, der sein Zwiegespräch mit den römischen Klassikern hielt, um über Politik reden und schreiben zu können.
Oder aber in die Platos, des Meisters des Dialogs, der sich seine Dialogpartner selbst ersann um die Dinge der Politik dialogisch-dialektisch auseinanderzusetzen. Oder aber in die Rankes, welcher durch die beiden Brüder seines „politischen Gesprächs“ selbst zu Wort kam. Die Benimmregel, aus Gründen des Zusammenlebens bei Tisch nicht über Politik, Religion und Fußball – was im Grunde alles dasselbe ist – zu reden, kann man getrost auf die ganze gnostische Wissensgesellschaft ausdehnen: In ihr ist jeder sein eigener Sektierer und sich selbst dazu noch die Gemeinde.
Damit sind Sektierer und Gemeinde in einer Person vereint und die Gesinnungspolizei, die man ebenfalls selbst ist, hat allerhand zu tun, sowohl mit gleich und als auch ungleich gearteten Menschen verbal handgreiflich zu werden.