samedi, 06 septembre 2008
La lezione di K. Haushofer e la discreta presenza di G. Tucci nel dibattito geopolitico

Giuseppe Tucci
LA LEZIONE DI KARL HAUSHOFER E LA DISCRETA PRESENZA DI GIUSEPPE TUCCI NEL DIBATTITO GEOPOLITICO DEGLI ANNI TRENTA
di Tiberio Graziani
Karl Haushofer, Italia, Germania, Giappone, a cura di Carlo Terracciano, Edizioni all'Insegna del Veltro, Parma 2004; pag. 34 + tavola illustrata a colori, Euro 5
Con la pubblicazione del testo di una conferenza del geopolitico tedesco Karl Haushofer1, dedicata alle affinità culturali tra l’Italia, la Germania e il Giappone, viene inaugurata, a cura delle Edizioni all’insegna del Veltro, la collana “Quaderni di Geopolitica”.
La conferenza “Analogie di sviluppo politico e culturale in Italia, Germania e Giappone“ venne tenuta dal professore tedesco, su invito del grande orientalista e tibetologo italiano Giuseppe Tucci2, il 12 marzo 1937, a Roma, presso l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO) 3.
Essa si inserisce, storicamente, come peraltro puntualmente evidenziato dal curatore del Quaderno, Carlo Terracciano, nel contesto delle attività culturali volte a informare e sensibilizzare l’intellighenzia italiana sulle opportunità e necessità, nonché problematicità, sottese all’accordo politico-militare relativo all’asse Roma-Berlino, siglato tra Italia e Germania il 24 ottobre 1936, e a quello antikomintern firmato, nello stesso periodo, tra Germania e Giappone. Ma testimonia soprattutto un aspetto, ancora poco esplorato dagli storici della cultura e della politica estera italiana, quello delle attività dell’ISMEO, ed in particolare del suo fondatore e vicepresidente, Giuseppe Tucci - originale ed inascoltato assertore dell’unità geopolitica dell’Eurasia4 - orientate alla promozione di una visione culturale, geopoliticamente fondante, dei rapporti tra l’Europa e il continente asiatico.
Un’impostazione, quella del Tucci, che si contraddistingue per essere non solo puramente culturale, accademica e, occasionalmente, di supporto alla nuova politica dell’appena nato impero italiano, ma per operare una sorta di svecchiamento, sia in ambito culturale che politico, dell’ancora persistente mentalità piccolo nazionalista sabauda che, nel solco della prassi colonialista italiana dei primi del Novecento, tentava di condizionare il nuovo corso impresso dal governo di Mussolini alla politica estera. A questo riguardo è utile riportare l’acuta osservazione di Alessandro Grossato che, sulla base di una lunga e profonda consuetudine con l’opera di G. Tucci, ritiene il fondatore dell’ISMEO un vero e proprio eurasiatista ed afferma che l’espressione “Eurasia, un continente” veniva intesa dall’orientalista marchigiano in un’accezione “soprattutto culturale, volendo [con essa] sottolineare le grandi identità di fondo fra civiltà solo in apparenza così distanti nello spazio e nella mentalità”5.
Il convincimento di Tucci sulla culturale identità di fondo delle civiltà eurasiane suppone un’adesione, da parte dello studioso italiano, a quel sistema di pensiero che interpreta le singole culture quali autonome ed autoconsistenti manifestazioni storiche di un unico sapere primordiale e ad esso le riconduce al fine di coglierne gli aspetti autenticamente fondativi. Il ricondurre le varie espressioni culturali ad un’unica tradizione primordiale si traduce, sul piano della ricerca storica e dell’analisi geopolitica, in un procedimento comparativo, che Haushofer, (inconsapevolmente e) magistralmente, adotta e utilizza in questa breve conferenza dedicata a individuare le analogie tra l’Italia, la Germania e il Giappone. Haushofer, pur basandosi su criteri oggettivi e “scientifici”, quali sono quelli della geopolitica, sorprendentemente6, perviene agli stessi risultati cui sembra essere giunto Tucci. Il geopolitico tedesco, infatti, nella sintetica e veloce conclusione di questa conferenza, si augura che “Possa questo modo di vedere i popoli [l’essersi cioè egli adoperato, nella sua prolusione, a porre in piena luce le armonie e le analogie che possono facilitare la comprensione reciproca dei grandi popoli tedesco, italiano e giapponese] superare qualunque tempesta d’odio di razza e di classe, soprattutto tra i sostegni del futuro.”
Certo, chi è abituato a sentir parlare di Haushofer come un rappresentante del cieco e rozzo pangermanesimo, o del cosiddetto imperialismo germanico, rimarrà stupito nel leggere questa frase appena citata.
Sarà proprio il fallimento della naturale alleanza eurasiatica, preconizzata negli anni Trenta dagli Haushofer, dai Tucci e dai Konoe7, a far precipitare i popoli e le nazioni dell’intero globo in una tempesta di cui ancora, dopo oltre sessanta anni, non si intravede la fine e che, anzi, è continuamente alimentata dall’odierna politica neocolonialista dei governi di Washington e Londra e dai propagandisti dello scontro di civiltà.
Il procedimento comparativo adottato da Haushofer lungi dall’appiattire le differenze tra i popoli presi in considerazione e dallo svilirne le appartenenze etniche, in virtù della generica appartenenza al genere umano e secondo la triste e riduttiva visione individualista, valorizza armonicamente, al contrario, le affinità e le differenze, e le riconduce ad un’analoga condivisione, pur con sensibilità diverse, di valori che potremmo definire ad un tempo etici ed estetici, cioè “nobili”. Essi si esprimono, nella visione haushoferiana, sia per il Giappone, sia per la Germania, l’Italia e la Russia in una loro precisa funzione geopolitica, quella di concorrere all’unificazione della massa continentale e di difenderne pertanto il limes, al fine di poter sviluppare armonicamente le potenzialità delle popolazioni che vi abitano. Si contrappongono dunque alle “invasioni” degli uomini del mare, del commercio, della morale individualistica, del lusso e del consumo, ai predatori delle risorse naturali.
Il testo di Haushofer si contraddistingue per la sua chiarezza e semplicità, ed in questo senso rappresenta un documento didattico di rilevante importanza per gli studiosi di geopolitica. Da scienziato della geopolitica, egli evidenzia gli elementi geografici che hanno influito sulla storia e sulla politica dei tre popoli in esame, soffermandosi brevemente sulla analoga formazione delle cellule regionali avvenuta in Germania e in Giappone, e sulla fondazione di Roma, Berlino e Tokyo, città fondate originariamente sul confine nordest delle loro regioni, e “debitrici di una parte del loro splendore alla circostanza che la loro posizione di margine, in origine coloniale, si rivelò più tardi favorevolissima agli scambi ed ebbe funzione di ponte. Il flavus Tiberis, l’originaria valle di congiunzione dell’Oder coll’Elba, e il Kwanto col ponte Nihon provvedono alle città rispettive una posizione similmente favorevole e sono loro debitrici di analoga protezione.” Ma accanto ai dettami del determinismo geopolitico, Haushofer sottolinea le affinità culturali tra Italia, Germania e Giappone, che nota soprattutto nel “ghibellin fuggiasco” Dante Alighieri, araldo dell’idea imperiale, in Chikafusa8, un altro grande fuggiasco nonché impareggiabile autore del Jinnoshiki, e nei Minnesaenger tedeschi “fedeli all’Imperatore e al popolo”. Altre affinità colte da Haushofer sono quella tra lo spirito della Cavalleria occidentale e il Bushido giapponese e quella dei comportamenti tra coloro che egli chiama gli eroi fondatori del risorgimento nazionale: Ota Nobunaga, Sickingen-Wallestein, Cesare Borgia.
Haushofer sostiene che si possa parlare anche per il Giappone, come per l’Italia e la Germania di un periodo romanico, gotico, rinascimentale, barocco, di un rococò, di un romanticismo e financo di uno stile impero.
Un termine che ricorre spesso negli scritti Haushofer è quello di “destino”. E’ forse nel sintagma “destino comune” che si esprimono più compiutamente le affinità di popoli (apparentemente) tanto diversi sul piano culturale e etnicamente differenti su quello fisico. La coscienza di un destino comune dei popoli e delle nazioni che vivono nel “paesaggio” eurasiatico è la sola arma che abbiamo per sconfiggere la civilizzazione occidentalistica e talassocratica dei predoni del XXI secolo.
1) Karl Haushofer (Monaco, 27 agosto 1869 – Berlino, 10 marzo 1946), fondatore della rivista Zeitschrift für Geopolitik ed autore di numerose opere di geopolitica, fu assertore dell’unità geopolitica della massa continentale eurasiatica. Demonizzato come ideologo del cosiddetto espansionismo hitleriano, fu invece autenticamente antimperialista. Secondo lo studioso belga Robert Steuckers, “la geopolitica di Haushofer era essenzialmente anti-imperialista, nel senso che essa si opponeva agli intrighi di dominio delle potenze talassocratiche anglosassoni. Queste ultime impedivano l’armonioso sviluppo dei popoli da loro sottomessi e dividevano inutilmente i continenti”. In traduzione italiana è disponibile l’opera di Haushofer Il Giappone costruisce il suo impero, a cura di Carlo Terracciano, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1999.
2) Giuseppe Tucci (Macerata, 5 giugno 1894 - San Polo dei Cavalieri (Tivoli), 5 aprile 1984) ritenuto il più grande orientalista italiano del Novecento, e fra i massimi tibetologi a livello internazionale, nel 1930 diviene docente di lingua e letteratura cinese all'Università di Napoli, e nel 1932 insegna religione e filosofia dell'Estremo Oriente all'Ateneo di Roma. Nel 1933 fonda l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente. “L'attenzione rivolta anche agli aspetti politico-economici è documentata, oltre che dalle numerose pubblicazioni dell'Istituto come i periodici Bollettino dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (1935) e Asiatica (1936-1943), dallo specifico interesse di Tucci per la geopolitica dell'Asia in un periodo cruciale della sua storia, e dalla sua amicizia personale con Karl Haushofer, che invita a tenere importanti conferenze su questa materia. Tucci concentra i suoi viaggi di ricerca nella vasta regione himalayana, quale naturale crocevia storico fra tutte le diverse culture dell'Asia, raccogliendo sistematicamente materiale archeologico, artistico, letterario, di documentazione storica e altro. Risultati eccezionali vengono così ottenuti dalle sue lunghe spedizioni in Tibet fra il 1929 e il 1948, anno in cui l'Is.M.E.O. riprende in pieno la sua attività postbellica sotto la sua diretta presidenza, destinata a durare fino al 1978. Tra il 1950 e il 1955 egli organizza nuove spedizioni in Nepal, seguite dalle campagne archeologiche in Pakistan ('56), in Afghanistan nel ('57) ed in Iran ('59). Sempre nel 1950 avvia il prestigioso periodico in lingua inglese East and West, e nel 1957 fonda il Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma. Tra i suoi numerosi ed importanti scritti ricorderemo solamente, sia i sette volumi di Indo-tibetica (Accademia d'Italia, 1932-1942) che i due di Tibetan Painted Scrolls (Libreria dello Stato, 1949) per la loro ampiezza documentaria, e la Storia della filosofia indiana (Laterza, 1957) per la sua portata innovativa, specie per quanto riguarda la logica indiana. Ma Giuseppe Tucci ci ha soprattutto trasmesso la sua appassionata ed intelligente dimostrazione dell'unità culturale dell'Eurasia, e una lucida consapevolezza del fatto che, giunti come siamo ad un capolinea della storia, essa dovrà tradursi anche in un'effettiva unità geopolitica.” (Alessandro Grossato, Giuseppe Tucci in http://www.ideazione.com/settimanale/78-20-12-2002/78tucc...).
3) L’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente venne fondato nel 1933 su iniziativa del tibetologo Giuseppe Tucci e di Giovanni Gentile, che ne assunsero rispettivamente la vicepresidenza e la presidenza, con lo scopo di “promuovere e sviluppare i rapporti culturali fra l'Italia e i paesi dell'Asia Centrale, Meridionale ed Orientale ed altresì di attendere all'esame dei problemi economici interessanti i Paesi medesimi”.
Nel 1995 l’Ismeo è stato accorpato all’Istituto Italo Africano (IIA) dando origine all’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), che ne ha raccolto l’eredità e gli scopi culturali nonché la prestigiosa biblioteca.
4) Confronta Alessandro Grossato, Il libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano tra Oriente e Occidente Mondatori, 1999.
5) A. Grossato, op. cit. p.10
6) Haushofer venne invitato dall’ISMEO per una seconda conferenza, che si tenne il 6 marzo 1941. Il testo della conferenza “Lo sviluppo dell’ideale imperiale nipponico” è, attualmente, in corso di stampa per le Edizioni all’insegna del Veltro.
7) “Il leader degli Eurasiani giapponesi era il principe Konoe, uno dei politici più in vista del Giappone d’anteguerra, primo ministro dal 1937 al 1939 e dal 1940 al 1941; ministro di Stato nel 1939; membro di gabinetto nel 1945 del principe Hikasikuni (gabinetto che firmò la capitolazione e fu, pressoché interamente, arrestato dagli Americani). Konoe era sostenitore della maggiore integrazione possibile con la Cina, dell’unione con la Germania ed era un risoluto avversario della guerra contro l’Unione Sovietica (il patto di non aggressione fu firmato quando egli era primo ministro). Konoe odiava gli Americani e si suicidò nell’autunno del 1945 alla vigilia del suo arresto. Ancora oggi, egli gode di una grande notorietà in Giappone e la sua personalità suscita sempre rispetto.” (da una lettera del nippologo russo Vassili Molodiakov al geopolitico e filosofo Alexander Dughin, pubblicata in Elementy, n.3 - http://www.asslimes.com/documenti/mondialismo/giappone.htm).
8) Kitabatake Chikafusa (1293-1354), nell’opera classica (Jinnoshiki) del pensiero politico giapponese, fissava, in coerenza con la tradizione shintoista, i principi di legittimità della discendenza imperiale
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vendredi, 05 septembre 2008
La politique étrangère européenne après la guerre du Caucase

Andreas MÖLZER, MPE:
La politique étrangère européenne après la Guerre du Caucase
En jouant le rôle d’intermédiaire dans le conflit du Caucase, par le biais du Président en exercice du Conseil de l’UE, Nicolas Sarközy, et de la Chancelière fédérale allemande Angela Merkel, l’UE tente, vaille que vaille bien que la démarche soit importante, d’acquérir une certaine autonomie en politique étrangère. Parce que le Caucase, au contraire des déserts du Tchad africain, se trouve véritablement à la périphérie de l’Europe, les engagements que prend Bruxelles ont un sens, surtout parce qu’il ne faut pas laisser le terrain à une puissance extérieure à l’Europe, notamment les Etats-Unis.
Après l’attitude pondérée et bien balancée adoptée par Sarközy et Merkel au début de l’affaire géorgienne, les tentatives de médiation de l’UE risquent désormais de s’enliser dans les sables mouvants d’un parti-pris unilatéral en faveur de la Géorgie. Ainsi, le Président français Sarközy a menacé les Russes de “conséquences” s’ils ne retiraient pas leurs troupes le plus rapidement possible du pays voisin. Merkel, elle aussi, n’a pas fait mystère de ses sentiments lors de sa visite à Tiflis. La Géorgie peut, si elle le souhaite, devenir membre de l’OTAN, a déclaré la Chancelière fédérale. Or ce sont justement les effots entrepris par le Président géorgien Saakachvili pour faire adhérer son pays à l’OTAN qui ont constitué l’une des raisons majeures du conflit actuel qui l’oppose à la Russie. Car le Kremlin, pour des raisons bien compréhensibles, n’a pas le moindre intérêt à ce que l’Alliance atlantique, dominée par les Etats-Unis, se cramponne dans une région qui forme l’arrière-cour de la Russie.
Si l’UE prend parti unilatéralement en faveur de la Géorgie, ce ne sera pas seulement un acte relevant de la sottise politique mais un acte tout à fait contraire aux intérêts de l’Europe. Finalement, la Russie n’est pas seulement importante pour l’Europe sur le plan de la politique énergétique, elle l’est aussi sur le plan stratégique, afin de s’opposer de concert aux tentatives d’imposer l’hégémonie des Etats-Unis sur le monde. Si, un jour, l’UE veut jouer un véritable rôle en politique internationale, au-delà des discours policés et dominicaux de son établissement, elle ne pourra pas faire autrement que de tendre la main à Moscou. Cette politique de la main tendue implique de respecter les sphères d’intérêts de la Russie, celles qu’elle a acquises au cours de son histoire, depuis le temps du Tsar Pierre le Grand.
Bien sûr, un partenariat avec la Russie ne sera pas toujours facile à gérer. Mais vouloir transformer l’UE en complice de Washington et sacrifier la vie de soldats européens pour les seuls intérêts américains, voilà deux attitudes qui ne peuvent, en aucun cas, constituer une alternative viable et intelligente.
Andreas MÖLZER.
(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°34/2008, trad. franç. : Robert Steuckers).
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M. Mann et la notion d'"Empire incohérent"

Synergies Européennes – Ecole des Cadres / Bruxelles – octobre 2004
Dimitri SEVERENS :
Michael Mann et la notion d’”Empire incohérent”
Face aux entreprises de l’Amérique de Bush en Afghanistan et en Irak, les réactions sont diverses, multiples, montrant, hélas, la disparité problématique d’une opposition trop bigarrée à la guerre américaine en Mésopotamie. Bon nombre de réactions relèvent d’un pacifisme pur et simple, c’est-à-dire d’une idéologie diffuse qui a pour caractéristique principale d’être irréaliste, de ne pas réinscrire les événements d’aujourd’hui dans la trame éternelle de l’histoire mondiale, dans le cadre géopolitique d’un Proche- et d’un Moyen-Orient disputé entre puissances rivales depuis la fin de l’ère néolithique.
D’autres ouvrages critiques méritent cependant le détour, notamment celui du sociologue Michael Mann, qui enseigne en Californie. Michael Mann a rédigé un plaidoyer pacifiste, qui consiste, en gros, à dire que les entreprises de Bush, inspirées par l’école néo-conservatrice où se rencontrent tous les anciens comploteurs rooseveltiens-trotskistes, ne sont ni plus ni moins que les expressions d’un “néo-militarisme”. Rien de bien original dans cette assertion, qu’il suffit de répéter pour se faire bien voir dans les salons de la gauche planétaire, où l’on bavarde sans jamais défier le système sur le fond. Donc première remarque d’ordre stratégique : l’ouvrage de Mann pourrait nous servir à apprendre le langage des pions en place, dans la vitrine pseudo cultureuse et bien-pensante des établissements occidentaux, qui se piquent d’anti-bushisme. Mann permet donc l’entrisme, une stratégie habile de dissimulation à la Sun Tzu. Le militant identitaire peut apprendre le langage de ceux qu’il souhaite ardemment renverser, jeter à la poubelle de l’histoire. Ce qui nous amène à formuler une deuxième remarque stratégique, à tirer de la lecture du livre du Prof. Michael Mann : celui-ci poursuit son raisonnement en disant que ce néo-militarisme conduit à l’incohérence. Montrer l’incohérence de l’adversaire, pour le déstabiliser, est une pratique du combat culturel et politique dont il faut être virtuose.
Pour Mann, l’incohérence américaine actuelle consiste à proclamer et à espérer l’avènement d’un “Nouvel Ordre Mondial”, sans être en mesure d’asseoir une réelle “pax americana”. Mann ne cite pas une seule fois Carl Schmitt dans son ouvrage, or son argument majeur rappelle pourtant quelques éléments de l’œuvre du grand politologue et juriste allemand, et procède du constat que les Etats-Unis ne sont pas une “nouvelle Rome”, en dépit de cette prétention souvent affirmée ces dernières années dans les cénacles néo-conservateurs , notamment chez des auteurs comme Charles Krauthammer et Robert Kagan. Pour Schmitt, les Etats-Unis des années 40 à 70 étaient une sorte de “nouvelle Carthage”, dont l’élément-symbole était l’eau, l’eau salée de la mer, de l’océan, sur laquelle les hommes ne peuvent rien faire pousser, ne peuvent habiter. Schmitt raisonne en paysan romain, germanique et catholique tout à la fois, en natif de ce patelin qu’est Plettenberg dans le Sauerland. La mer n’est rien de concret, même si elle procure la puissance, une puissance issue de la piraterie éternelle, à qui la maîtrise techniquement. Mieux, dans ses écrits d’après-guerre, Schmitt, notamment dans son journal, le fameux “Glossarium”, revient sans cesse sur la dichotomie Terre/Mer et se fait prophète : un impérialisme maritime est un impérialisme qui va introduire la mort car il est, par définition, un impérialisme mouvant comme un navire. Sur la mer, il faut donc bouger sans cesse car qui s’arrête de bouger, de nager, de flotter sur un radeau ou une coquille de noix, sombre, coule à pic et meurt. L’homme est un être politique, lié à la Terre, qu’il organise et qu’il féconde : c’est le “nomos” de la Terre. Le pirate est un vauteur, dans cette perspective, non pas un “zoon politikon”, qui gère, norme, arpente, mesure comme un géomètre, plante et récolte.
Mann ne dit pas autre chose, mais dans une langue assez conformiste, qui peut passer comme une petite pilule toute légère à travers le gosier délicat des écervelés contemporains. Schmitt était agacé par le discours “démocratique” de l’Amérique de Wilson et de Rossevelt, qu’il considérait comme une formidable hypocrisie. Plus on parle de démocratie, constatait-il, plus la praxis est brutale et haïssable, diamétralement différente du discours lénifiant. Mann affirme dans son livre que l’Amérique contemporaine parle de liberté et de démocratie, d’abondance matérielle, de cette paix perpétuelle qui viendra après l’élimination des “mauvais”, mais qu’en réalité les guerres se multiplient et se succèdent, les terrorismes jaillissent du sol comme les champignons après la pluie. L’Amérique n’est donc pas une puissance politique au sens d’Aristote et de Schmitt : elle ne pacifie pas, elle ne procède pas au travail du “nomos”.
Mann, comme Schmitt, constate que les fondements concrets, idéologiques et économiques, des Etats-Unis sont faibles, dans le fond, et que cette faiblesse postule une politique brutale, celle d’un militarisme qui frappe mais ne construit pas d’acqueducs ou de routes comme les légionnaires de la Vieille Rome. Washington peut gagner la puissance mais n’aura jamais cette fascinante “auctoritas”, fondatrice des vrais empires historiques, qui apportent la paix pendant de longs siècles. Si le langage pacifiste de Mann peut nous faire croire, de prime abord, que son analyse de la situation actuelle est irréaliste, mais, finalement, elle donne, pour qui sait raisonner dans les termes et les catégories que nous a légués Carl Schmitt, la clef pour présenter, hors milieu identitaire, un schmittisme soft (en apparence, car aucun schmittisme n’est soft, in fine) aux âmes fragiles, habituées à un discours médiatique tout de guimauve. Autre concept intéressant de Mann : l’Amérique comme puissance schizophrénique. La schizophrénie américaine selon Mann consiste, comme on l’a vu au cours de ces neuf dernières décennies, à osciller entre “multilatéralisme” et “unilatéralisme”, à conquérir des pays mais sans pouvoir les remettre d’aplomb (comme les Romains l’avaient fait en Gaule), sans comprendre les ressorts des pays conquis, comme l’ethno-nationalisme ou le fondamentalisme religieux.
Que faut-il faire du livre de Mann? Un Cheval de Troie pour entrer dans le discours de l’établissement et y injecter un schmittisme corrosif !
Dimitri SEVERENS.
Michael MANN, Incoherent Empire, Verso, London, 2003. La version française vient de sortir de presse : L'Empire incohérent. Michael Mann, Paris, Calmann-Lévy. ISBN 2702135005. EAN 9782702135006. Code Hachette
5176904. Format : 230x150x25 mm. 384 pages. Prix TTC : 19,00 €.
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jeudi, 04 septembre 2008
V.Dachitchev : les Etats-Unis veulent la guerre

Géorgie: les Etats-Unis veulent la guerre
Entretien avec le Professeur Viatcheslav Dachitchev, ancien conseiller de Gorbatchev
Q.: Professeur Dachitchev, avez-vous été étonné de l’escalade en Géorgie?
VD: Non, à plusieurs reprises j’avais prévu qu’une guerre allait survenir dans la région. Depuis que Mikhail Saakachvili a pris le pouvoir en Géorgie, ce pays est devenu un satellite des Etats-Unis. Les dirigeants américains veulent la guerre dans le Caucase. Le but est d’abord de chasser la Russie du Caucase et des rives de la Mer Noire, ensuite d’y attiser un foyer de conflictualité permanente et de l’exporter en Asie centrale.
Q.: Cette guerre aurait-elle pu être évitée?
VD: Probablement. Les dirigeants russes auraient du reconnaître l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud comme des Etats pleinement indépendants et forger avec eux une alliance défensive. Cela ne s’est pas passé: j’estime que c’est une grave erreur.
Q.: Exactement comme l’Occident a reconnu le Kosovo...
VD: Bien entendu.
Q.: Pourquoi cela ne s’est-il pas passé?
VD: Parce que jusqu’ici le Kremlin avait parié pour une politique d’apaisement face à Washinton, même si l’OTAN se rapprochait toujours davantage du territoire russe. S’il n’avait fallu tenir compte que de la volonté américaine, la Géorgie aurait été depuis longtemps membre de l’OTAN. Cette politique américaine d’agression pourrait mener à une guerre mondiale.
Q.: Comment?
VD: Il y a cinq ans déjà, j’évoquais une crise de pré-belligérance, dans laquelle nous nous trouvons toujours. Tous les paramètres le confirment. La comparaison avec les situations qui règnaient avant les première et deuxième guerres mondiales est possible. Jusqu’à présent, Washington a parié pour l’ “approche indirecte” (“indirect approach”), telle que l’avait décrite l’historien militaire Basil Liddell Hart. Le but était d’affaiblir la Russie de manière si décisive qu’on aurait pu la dominer de l’intérieur et l’éliminer en tant que contrepoids militaire et politique des Etats-Unis. Cette stratégie de l’approche indirecte peut cependant déboucher rapidement sur une “guerre chaude”, comme viennent de le démontrer les événements de Géorgie. Les Etats-Unis ne se contentent pas de susciter des conflits dans le Caucase: ils le font aussi au Proche Orient, en Iran, en Pologne et en Lituanie et surtout, ce qui est le pire aux yeux des Russes, en Ukraine.
Q.: Quelle sera l’issue du conflit russo-géorgien?
VD: Saakachvili a fort mal calculé son coup. Depuis longtemps, on prêche la haine de la Russie en Géorgie et l’on y développe une progagande virulente et hostile à notre pays. Mais les Ossètes du Sud se réclament de la Russie et la plupart d’entre eux possède la citoyenneté russe. Les Abkhazes sont musulmans mais se réclament, eux aussi, de la Russie. Poutine ne peut plus se retirer de ces régions, sans perdre la face.
Q.: Une guerre contre l’Iran est-elle encore à l’ordre du jour?
VD: Oui. L’opinion publique est préparée de manière optimale pour accepter une attaque contre l’Iran. Depuis deux ans, la menace est militairement bien présente dans la région. Le monde commence à se lasser de cette question iranienne: c’est quand cette lassitude aura atteint un point “x” que l’attaque surviendra, soudainement.
Q.: Pourriez-vous nous dire dans quelle mesure vous avez apprécié Alexandre Soljénitsyne, le Prix Nobel de littérature, récemment décédé?
VD: Soljénitsyne a critiqué le système stalinien de manière virulente et, simultanément, il s’est avéré un grand patriote. C’est pour cette raison qu’il n’a pas pu rester aux Etats-Unis. Il s’opposait à fond à la politique hégémonique poursuivie par les Etats-Unis et ne cessait de souligner la spécificité des peuples. Lorsqu’Eltsine a voulu lui octroyer la plus haute distinction russe, l’Ordre de Saint-André, il a refusé de l’accepter, car c’était Eltsine qui avait ruiné le pays.
Q.: Estimez-vous fondé le reproche d’antisémitisme que l’on adresse à Soljénitsyne, pour ses deux ouvrages “Les juifs en Union Soviétique” et “Deux siècles ensemble” (trois tomes qui relatent les rapports entre Russes et Juifs au cours de l’histoire récente de la Russie)?
VD: J’ai lu ces ouvrages et je les tiens pour équilibrés et pondérés. Si l’étude des faits révèle un rôle négatif des juifs dans la révolution de février ou dans la révolution d’octobre, cela ne signifie nullement que leur simple évocation relève de l’antisémitisme.
Q.: Vous étiez officier dans l’Armée Rouge en 1945, tout comme Soljénitsyne. Avez-vous lu les rapports qu’il a écrits, à l’époque, sur l’entrée de cette Armée Rouge en Prusse orientale?
VD: Oui. Mais à la différence de Soljénitsyne et de Lev Kopelev, que j’ai personnellement bien connu, mon unité n’a pas été engagée en Prusse orientale, mais en Slovaquie.
(entretien paru dans DNZ, Munich, n°34/2008 – août 2008 – trad. franç.: Robert Steuckers).
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Les orientations géopolitiques de la Turquie

ARCHIVES: Texte de Jean-Gilles Malliarakis datant de l'automne 2003.
Les orientations géopolitiques de la Turquie
Les orientations géopolitiques de la Turquie n’ont rien à voir avec les réalités de l’Europe
Article de Jean-Gilles Malliarakis extrait du site: www.europelibre.com
Recevant le Premier ministre turc Erdogan début septembre à Berlin, le chancelier Schroeder a-t-il cru nécessaire de qualifier de "polémique de caniveau" la volonté de la CSU bavaroise exprimée par Edmund Stoiber de faire campagne contre l’adhésion de la Turquie lors des élections européennes de 2004. Le débat relatif à la candidature de la Turquie à l’Union européenne a certes le mérite de rappeler aux Européens qu’ils relèvent d’une identité commune. Et bien entendu, toute l’offensive de la pensée unique cherche, depuis l’affirmation de cette évidence (1) à contourner cette identité. On balaye ainsi allègrement d’un trait de plume des siècles d’Histoire européenne.
Innombrables sont les déclarations conventionnelles de nos hommes politiques sur le thème "L’Europe n’est pas un club chrétien". Avec quelques variantes, c’est surtout la date qui change.
Le Premier ministre turc abonde aujourd’hui dans le même sens: "L’Union européenne, dit-il sentencieusement, n’est pas une communauté culturelle, religieuse ou géographique. C’est une communauté de valeur". Si la Bolivie, la Malaisie ou le Zimbabwe prétendent partager ces "valeurs", eh bien ces pays pourraient donc rejoindre l’Union européenne.
Mais ce faisant on bazarde aussi l’identité et la géopolitique spécifiques de la Turquie elle-même. Ce pays, quant à lui, n’a pas le souci de se présenter comme une "communauté de valeurs". Sa réalité nationale est à la fois culturelle, religieuse et géographique. Et, avant que de lui décerner des couronnes de fleurs et de lui dire "aloha", c’est peut-être sur l’identité géopolitique de ce candidat exotique que les Européens gagneraient à être mieux informés.
Selon les milieux, selon les institutions, selon les forces politiques, la vision géopolitique des Turcs n’est certes pas identique. De plus les lignes de forces évoluent : on ne pensait pas de manière identique à Ankara en 1952, quand la Turquie participait à la guerre de Corée, et, en 2002, quand pour la première fois depuis la fondation de la république kémaliste un parti musulman obtenait 35 % des voix et la majorité des sièges au Parlement.
Soulignons d’abord un aspect essentiel de l’État turc : il est constitutionnellement nationaliste. Il fait de la nation la valeur suprême et le Code pénal ne badine pas avec les atteintes à la sécurité nationale, à l’identité nationale, à l’unité nationale. Quelles que soient les réformes formelles, votées en 2003 (abolition de la peine de mort, progrès de la liberté d’expression, reconnaissance timide du droit des minorités), ou celles promises pour 2004, la conception turque des Droits de l’Homme demeurera longtemps (pour ne pas dire toujours) tributaire de la suprématie fondamentale du Droit de la nation.
L’ambition du pays est multiforme.
Dans un premier temps, la Turquie kémaliste a conçu sa construction comme une révolution dirigée contre les puissances européennes. Lorsqu’en 1922 l’armée grecque d’Asie mineure, soutenue puis trahie par l’Angleterre, est vaincue, la guerre victorieuse de Kemal est présentée comme une guerre de libération. Elle s’inscrit dans la grandiose vision "anticolonialiste" du congrès de Bakou. Et dans les premières années il est posé en dogme que les frontières du traité de Lausanne ne seront plus jamais remises en question.
Mais très vite, la politique turque se révélera expansionniste (2). Tout d’abord, elle cherche à établir des liens avec des pays où l’influence "touranienne" peut être invoquée - légitimement ou, au contraire, de manière très approximative pour ne pas dire fantaisiste : aussi bien la Bulgarie que l’Iran ou l’Irak. Le panturquisme deviendra bien vite une notion à la fois floue et sentimentale comportant des directions fort différentes.
Sa première caractéristique a toujours été de tourner le dos à la fois à l’Europe et aux liens du passé. Si l’Empire ottoman a laissé quelques (rares) traces de nostalgies, si certains bons esprits "occidentaux" croient possible de le reconstruire, notamment pour briser toute trace de nationalisme arabe, très peu nombreux sont les Turcs désireux de renouer avec l’espace du Croissant fertile qu’ils ont pourtant dominé pendant près de 1 000 ans. La garnison ottomane chassée d’Akaba en juillet 1917 par le colonel Lawrence l’a probablement été pour toujours.
Depuis les années 1950 les Turcs sont indéfectiblement alliés des Israéliens. Dans l’affaire d’Irak, leur préoccupation vise d’abord de maintenir sous tutelle les populations kurdes : il ne doit pas exister de Kurdistan irakien afin d’empêcher la contagion dans les départements kurdes du sud-est anatolien. Éventuellement, on se souviendra que les pétroles du nord de l’Irak appartenaient avant 1918 à une Turkish Petroleum Company. Et, enfin, ce qui est invoqué actuellement par les Turcs pour intervenir dans le nord de l’Irak c’est la protection des minorités turkmènes... La solidarité turco-arabe n’est donc qu’une vue de l’esprit. Accessoirement on remarquera que l’Europe est bien loin.
La dimension islamique de la politique extérieure turque ne doit pas non plus faire l’objet d’un malentendu. Depuis le XVIe siècle, l’islam turc est soumis à l’État (3). La prétendue laïcité kémaliste n’a fait que renforcer cette tendance en instaurant l’usage de la langue turque et en encadrant la vie religieuse par 60 000 fonctionnaires de la Diyanet (4). La religion est utilisée comme moyen de rayonnement national, certainement pas comme un courant de solidarité effective avec les coreligionnaires arabes. Elle offrait aux Kurdes, par exemple, un moyen de se mettre au service de l’Empire d’hier : c’est chez les islamistes kurdes que se recrutait la milice du sultan Abdül Hamid. De même pendant les 15 ans de lutte contre la guérilla du PKK, les milices de protecteurs de villages étaient recrutées sur la base de la religion. La vraie solidarité que ressentent et manifestent constamment aussi bien les politiciens, les milieux militaires, les hommes d’affaires ou les confréries s’exprime en direction de toutes les populations plus ou moins mythiquement, linguistiquement ou réellement apparentées aux "Turks"(5).
Un “monde turc de l’Adriatique à la Muraille de Chine”
Au début de la guerre de Yougoslavie par exemple Türgüt Özal, premier homme politique turc civil à prendre le relais du pouvoir militaire justifia son soutien aux ennemis des Serbes orthodoxes par le rêve d’un "monde turc allant de l’Adriatique à la muraille de Chine". Il se trouve que dans les Balkans la base démographique de ce rêve est très étroite et se compose de quelques rares minorités turques ou musulmanes, les groupes les plus consistants étant albanais ou bosniaques. Il est vrai que du point de vue turc ces Européens, convertis à l’islam autour du xviie siècle, sont représentés par d’importantes communautés considérées comme turques, présentes à Istanbul et dans les couches dirigeantes.
En 1991, George Herbert Bush déclarait ainsi, sans périphrase : "La Turquie est l’étoile montante de l’Europe". De la sorte, depuis cette date on a vu de manière systématique les hommes d’affaires d’Istanbul et les agents des services spéciaux d’Ankara servir de relais à l’expansion américaine dans la zone d’expansion "rêvée" par Özal. On les a vus dans toute l’Europe du Sud-Est, où la diplomatie turco-américaine a cherché à mettre en place la "zone de coopération de la Mer Noire". Mais on les a également observés en Asie Centrale et jusque dans le territoire chinois du Sin-jiang revendiqué par les Turks Ouïgours (6).
La communauté linguistique des Turks est un phénomène impressionnant. En restaurant ce qu’il appelait la "langue soleil", purgée des apports arabes et persans, Mustapha Kemal a ainsi rapproché la langue parlée par les Turcs d’Anatolie des langues parlées en Asie centrale. C’est une des bases du panturquisme. Et tout naturellement à partir de 1992 quand les républiques soviétiques dessinées artificiellement sous le stalinisme (Ouzbékistan, Kirghizstan, Turkménistan, Azerbaïdjan - le Kazakhstan est à moitié russe et le Tadjikistan est de souche iranienne) sont devenues théoriquement indépendantes. Leurs dirigeants, quoiqu’issus des appareils communistes, ont cherché à contrebalancer l’influence russe. Les agents turco-américains y ont donc été reçus à bras ouverts et il semble bien que l’enthousiasme était général. D’autre part, dans ces pays, les confréries islamiques dont l’existence n’avait jamais disparu sous le communisme ont pour la plupart retrouvé dans l’enthousiasme leurs homologues turcs (7). Certes, depuis, certaines illusions se sont dissipées (8), mais cette ambition demeure une constante de la politique d’Ankara.
On doit se souvenir que, dès les années 1910, la révolution jeune turque a commencé à s’intéresser à ce qu’on appelait alors le "Turkestan russe". À la même époque, les provinces arméniennes d’Anatolie représentaient un obstacle géopolitique non négligeable et se tournaient au contraire vers la Russie (9). On retiendra le destin exemplaire d’Enver Pacha. Principal chef des jeunes-turcs lors des révolutions de 1908-1909, après la défaite de l’Empire ottoman en octobre 1918, il fut chassé de Constantinople, se réfugia dans le Caucase où il prit la tête des Basmadjis, révoltés touraniens qui cherchèrent, tout d’abord, à s’allier avec les bolcheviks en Asie centrale, mais se retournèrent contre leurs alliés d’un moment. Et c’est les armes à la main qu’il fut abattu par un détachement de l’armée rouge en août 1922.
Les rapports de von Papen
Dans les années 1940, l’Axe s’intéressera beaucoup à cet héritage, et aux braises panturquistes d’aujourd’hui sous la cendre soviétique. Toutefois les Occidentaux auraient dû prendre mieux connaissance des rapports de von Papen, ambassadeur allemand à Ankara : il concluait de manière assez négative quant aux retombées bien concrètes de cette parenté linguistique et mythique des Touraniens. Parmi les ambitions les plus réalistes de l’expansionnisme turc, fondées aujourd’hui par une démographie galopante, opposées à ses voisins du Proche Orient notamment sur la disposition des réserves d’eau, attirées par toute la géopolitique du Pétrole - dans le nord de l’Irak comme dans le Caucase - il en reste une. C’est probablement l’ambition sur laquelle l’islamiste "modéré" Erdogan et le chef de l’armée "laïc", le général Ozkok, semblent être tombés d’accord pendant l’hiver 2002-2003 : à cette date on sortait du coup de tonnerre de l’élection de novembre 2002 donnant la majorité au parti d’Erdogan.
Il ne s’agira pas en effet, de servir l’islamisme mondial (10), mais de s’en servir, avec l’argent des Européens, afin de construire une immense puissance orientale. Et alors "l’étoile montante de l’Europe" (Bush père dixit) redeviendra pour l’Occident une menace tangible, comme elle l’était à l’époque du siège de Vienne. Mais cette fois les églises seront-elles là pour sonner le tocsin ?
Jean-Gilles Malliarakis.
Notes:
(1) Au sein de la classe politique, elle a été constatée notamment par le chancelier Kohl, par M. Giscard d’Estaing, etc.
(2) La première entorse sera opérée en 1939 lors du traité franco-anglo-turc de 1939 aux termes duquel la France remettait avec la bénédiction de la Grande-Bretagne le sandjak d’Alexandrette détaché de la Syrie, alors sous mandat français, en échange de la promesse Turque de se joindre à la guerre contre l’Allemagne, ce qu’elle fit... en 1945.
(3) Dans l’Empire ottoman, à partir du XVIe siècle et contrairement au droit coranique, c’est le Sultan qui nommait le Cheïkh ül-islam.
(4) Direction des Affaires religieuses
(5) Un certain usage désigne comme "turks" avec un k les populations apparentées linguistiquement aux Turcs d’Anatolie, et qui n’ont pas nécessairement d’Histoire commune avec les Turcs. Nous préférons l’appellation de "Touraniens".
(6) La découverte par les Chinois d’agents militaires turcs et de militants islamistes parmi les terroristes ouïgours à la fin des années 1990 aura été un coup de tonnerre amenant Pékin à reconsidérer sa politique extérieure et ses relations, tant avec la Turquie qu’avec le Pakistan.
(7) On rappellera à ce sujet qu’un personnage comme Özal était affilié à la secte des "derviches" naqshbandi, etc...
(8) En particulier l’Ouzbekistan a la prétention au leadership en Asie centrale et ne désire point y voir la Turquie trop active.
(9) Sans justifier le moins du monde les affreux massacres de 1915, cette situation géopolitique explique une volonté d’éradication qui semble avoir épargné les Arméniens de Constantinople.
(10) Rappelons que la Turquie prétendument "laïque" appartient à l’Organisation de la Conférence Islamique. De plus en janvier 2003, le ministre des Affaires étrangères Abdüllah Gül n’a pas hésité à faire acte de candidature à... la Ligue arabe. Où est donc l’appartenance européenne dans tout celà ?
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mercredi, 03 septembre 2008
Doctrine de Monroe et géopolitique moderne

James Monroe
Pankraz / “Junge Freiheit”:
Doctrine de Monroe et géopolitique moderne
Les héritiers de Friedrich Ratzel et de Karl Haushofer ont bien du pain sur la planche ces jours-ci. Le concept de “géopolitique”, qu’ils ont forgé jadis, est dans toutes les bouches. En effet, les événements de Géorgie et autour de la Géorgie ont fait prendre conscience même au plus obscur des téléspectateurs que la politique étrangère actuelle n’est pas un jeu simple, qui se joue sur un damier rudimentaire et enfantin et sur base de quelques règles proprettes de politologie et de quelques principes juridiques relevant du droit de gens, mais qu’elle est bien plutôt un art de jonglerie, d’une haute complexité, avec un nombre incalculable de balles qui, de surcroît, sont de dimensions différentes, et dont le mouvement propre est seulement “devinable” par les acteurs en piste et ne peut jamais, ne pourra jamais, être totalement prévisible.
Celui qui voudra sur le long terme connaître le succès en politique étrangère devra, par la force des choses, se faire géopolitologue. Il ne suffit pas de se réclamer pompeusement des droits de l’homme, qui sont abstraction, et, pour le reste, s’efforcer d’avoir un potentiel supérieur de suffrages ou de présenter de bons scores électoraux, il faudra bien plutôt immerger ses pensées dans le “génie de l’espace” (comme disait Rudolf Kjellén), c’est-à-dire respecter au cas par cas les traditions régionales, prendre au sérieux les passions du lieu, se donner des idées claires, sans illusions, au-delà de l’espace réduit de ses propres compétences et autorités.
En fait, ce que je dis là sont de pures évidences, que l’on pouvait déjà lire chez Montesquieu (1689-1755). L’ère du colonialisme européen et, à la suite de celui-ci, l’époque de la communication technique embrassant le globe tout entier (la “globalisation”) ont fait en sorte que ces évidences ont perdu de leur lustre. On s’est mis à cultiver l’illusion que l’on pourrait (et devrait) mettre tout dans le même sac, juger tout à la même aune, en matière de politique. On a tenté de mettre en pratique des doctrines sotériologiques universelles, ce qui eut des conséquences désastreuses. La fable qu’un “policier mondial”, soi-disant hissé au-dessus de tous les partis, a eu son heure de gloire; un “policier mondial” qui aurait eu le droit de s’immiscer partout dans tout, avec ou sans l’aval d’un caucus ou d’un conseil autorisé.
Ce que nous apercevons aujourd’hui, c’est la fin de cette politique de la “planche à dessin”, de l’épure permanente hors du réel, et le retour de la géopolitique. On reconnaît désormais, lentement mais sûrement, que les “droits fondamentaux”, conçus par la pensée aux heures les plus sublimes de l’histoire occidentale, se télescopent en permanence dans le concret des situations spatiales/territoriales; il en va ainsi de la doctrine de l’intangibilité des Etats et de leurs frontières; cette doctrine de l’intangibilité se heurte, sans espoir aucun d’accalmie, à celle du droit des peuples à l’auto-détermination.
Si les Albanais du Kosovo ont le droit de se débarrasser des structures étatiques qui les liaient à la Serbie, pourquoi les Ossètes du Caucase n’auraient-ils pas, à leur tour, le droit de se séparer de l’Etat géorgien? Quelle loi autorise-t-elle l’une sécession et interdit l’autre? Quelle loi autorise-t-elle l’OTAN, instance étrangère à l’espace balkanique, de bombarder Belgrade dans l’intérêt des Albanais? Quelle loi interdit-elle à la Russie, qui est depuis des siècles la puissance protectrice des Ossètes, d’intervenir à leur profit en Géorgie? Ces lois, que j’évoque dans mes questions, n’existent pas, ni réellement ni potentiellement.
Il n’existe que des intérêts et des rapports de force entre regroupements d’Etats, proches ou étrangers à l’espace où se déroulent les affrontements. Sur leurs torts ou leurs raisons ne statue pas une “table de lois” transcendantale, mais, à chaque fois, une constellation régionale concrète, faite d’accords, de conventions et de nécessités. Il est clair, bien évidemment, que les forces inhérentes à l’espace ou proches de cet espace, c’est-à-dire les forces qui sont immédiatement confrontées à la teneur de ces accords et conventions, les forces dont le quotidien est marqué par ceux-ci, ont un droit plus direct et prépondérant à agir ou réagir sur le terrain que les forces qui sont étrangères à cet espace. Ce principe demeure valable même à notre époque de communication globale, où la politique qui régit le flux des finances et des matières premières est mondiale.
Lorsque le président américain James Monroe proclame en 1823 la fameuse doctrine qui porte son nom, il a posé, à coup sûr, le premier grand acte de géopolitique prévoyante, visant le long terme. Les Etats-Unis ne se mêleront pas des affaires européennes, disait Monroe, rassurant; mais il fallait aussi que les Européens s’interdisent toute immixtion dans les affaires américaines ou toute implantation de colonies sur un territoire américain. La devise était: “L’Europe aux Européens”, ce qui avait pour corollaire implicite, “L’Amérique aux Américains”.
Bien entendu, nous pourrions dire que ce sont là des déclarations et des mots d’ordre antérieurs à la globalisation: il n’en demeure pas moins vrai qu’ils recèlent un solide noyau de réalisme, transcendant les époques; les peuples auraient eu un avenir bien meilleur, s’ils avaient écouté ces déclarations et mots d’ordre plus attentivement; nous aurions pu éviter toute l’ère du colonialisme européen et des guerres mondiales. Aujourd’hui, sous les conditions dictées par les technologies globales de la communication à haute vitesse, plus aucune Doctrine de Monroe n’est possible, sous quelque forme que ce soit. Mais son intention première était juste, comme nous nous en apercevons à nouveau, chaque jour, dans les faits.
Prenons en considération la guerre d’Irak et ses conséquences catastrophiques. Le gouvernement Bush, à Washington, disposait de toutes les informations nécessaires pour évaluer de manière réaliste les conséquences de cette guerre. Mais il a obtenu exactement le contraire de ce qu’il avait planifié. Il voulait affaiblir l’Iran, mais celui-ci s’est considérablement renforcé. Mais, au fond, il ne s’agissait pas vraiment d’informations disponibles mais bien plutôt de l’incapacité américaine —parce que l’Amérique, là-bas, est une puissance totalement étrangère à l’espace moyen-oriental— à comprendre et à interpréter correctement les informations disponibles dans le cadre des spécificités régionales de cette partie du monde.
Les géopolitologues conclueront dès lors: lorsque l’on cherche à résoudre les conflictualités d’une région du monde, il faut appliquer une sorte de principe de subsidiarité, tenant compte du degré d’éloignement spatial par rapport au foyer du conflit. Cet éloignement devant constituer l’instrument de mesure le plus important. Les premiers à pouvoir exercer le droit de résoudre un conflit devraient être les Etats, les peuples et les ethnies qui sont directement concernés par les affrontements. Dans ce cadre, la voix des acteurs les plus modestes devraient peser davantage dans la balance que celle des acteurs les plus puissants. Les forces qui, elles, sont éloignées géographiquement et mentalement du foyer de conflit devront se contenter de patienter et, dans les cas où elles interviendraient effectivement, elles devraient le faire avec beaucoup de décence, de distance et d’indépendance. Elles devraient juguler leur fringale de puissance et surtout faire montre d’une réelle retenue dans leurs médias.
Tout beuglement médiatique émis au départ d’un poste soustrait à tous les dangers de la belligérance, dans des rédactions ou des bureaux très lointains sont une nuisance, du point de vue géopolitique. Bien sûr, cela vaut aussi, et d’abord, pour les parties directement concernées. Pour le reste, la géopolitique relève bien de l’esprit de notre temps. Elle vit une nouvelle haute conjoncture. C’est bon signe.
PANKRAZ.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°36/2008 – 29 août 2008 – trad. franç.: Robert Steuckers).
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R. Steuckers: entretien à "Militant" (1992)

ARCHIVES: Un entretien de 1992, pour tous ceux qu'intéressent à l'histoire du mouvement identitaire et "néo-droitiste" (en dépit des variétés que cette appelation peut recouvrir). A noter, cet entretien a été accordé à Xavier Cheneseau quelques semaines avant la rupture définitive avec le "canal historique" (et hystérique) de la nouvelle droite centrée autour d'Alain de Benoist et au moment des accords de Maastricht. La donne internationale a considérablement changé depuis. Prière aux lecteurs de 2008 d'en tenir compte!
Entretien de Robert Steuckers à la revue «Militant»
I - Animateur de la «Nouvelle Droite», pensez-vous que votre mouvance a contribué à préparer le terrain pour le Front National, par exemple?
Je voudrais d'abord apporter une petite précision: je ne me sens ni ne me considère comme étant de «droite», même si j'ai souscrit à bon nombre d'analyses posées par le mouvement d'Alain de Benoist, abusivement baptisé «Nouvelle Droite» par les milieux du journalisme parisien. Dans cette mouvance, c'est essentiellement la «nouveauté» qui m'a séduit. Je ne crois pas que la «Nouvelle Droite» d'Alain de Benoist et de Guillaume Faye ait préparé le terrain pour le Front National. Celui-ci a été porté par une dynamique qui lui est propre. Si le Front National s'était laissé inspirer par les thèses de la ND, il aurait choisi une orientation moins occidentaliste et repris à son compte l'anti-américanisme gaullien; son programme économique n'aurait pas été directement calqué sur Reagan et Thatcher, mais aurait opté pour un dirigisme à la française (Déat, le néo-socialisme, le gaullisme) ou pour un auto-centrage tel que l'a préconisé le grand économiste français François Perroux. Enfin, le poids de l'intégrisme catholique aurait été moins net dans la presse du FN, si le souffle du «paganisme néo-droitiste» l'avait touchée, paganisme qui, en dernière instance, est une religion de la Cité et un refus tranché de toute forme de cosmopolitisme.
2 - Ne pensez-vous pas que le succès relatif du lepénisme peut apparaître comme un démenti cinglant à la stratégie métapolitique?
Le succès électoral du FN, drôlement étrillé à cause des manipulations de la loi électorale, est une chose. La stratégie métapolitique en est une autre. Celle-ci n'a nullement perdu de sa validité, quand le FN a commencé son ascension. Par stratégie métapolitique, il faut entendre une volonté de réactiver des idées, des pratiques, des programmes, des faits d'histoire, qui ont été refoulés par les idéologies dominantes. Devant les effets du déclin, que nous constatons tous, cette stratégie métapolitique possède des vertus réparatrices: elle permet, sur base d'une documentation, d'une incessante combinaison de thèmes politiques et historiques, de critiquer les idéologies dominantes, d'en montrer les tares et les insuffisances qui conduisent à des faillites retentissantes, ce que prouvent des faits comme la désindustrialisation de l'Europe, le chômage de masse, le déclin démographique, l'incapacité de construire une défense européenne cohérente et de fédérer les atouts industriels de notre continent, et, enfin, le laisser-aller généralisé, que les sociologues contemporains ont appelé l'«ère du vide» de la «bof-generation». Le FN a obéi à une toute autre logique que celle de la «métapolitique» d'Alain de Benoist: il a réactivé les clivages de la IVème République, renonçant ainsi à prendre acte des potentialités de l'ère gaullienne: organisation de la société française selon les critères de la «participation», orientations diplomatiques de Troisième Voie (dialogue euro-arabe, relations avec l'Amérique Latine, avec la Chine, l'URSS, l'Inde, etc.), indépendance militaire et nucléaire, centrage de l'économie (Elf-Aquitaine), grands projets technologiques (Concorde), etc. La ND, quant à elle, n'a peut-être pas assez insisté sur ces réalités, bien que les livres de Faye constituent un bon tremplin didactique pour les réinjecter dans le débat.
3 - Partisan d'une Europe indépendante, vous préconisez une économie auto-centrée. Pouvez-vous dire pourquoi et comment vous comptez y arriver?
L'idée d'un auto-centrage de notre continent est assez ancienne et, dans la littérature économique, elle est récurrente. Je songe aux projets de Friedrich List (1789-1846), qui fut l'artisan du Zollverein allemand et des politiques protectionnistes américaines, à l'œuvre d'Anton Zischka, qui traverse le siècle, et aux théories de François Perroux, qui a démontré les atouts du centrage des économies et la nécessité, pour le bon fonctionnement de celles-ci, d'une homogénéité culturelle. C'est dans cette tradition multicéphale, refoulée, radicalement différente de celles des idéologies dominantes, que je m'inscrit. Ce qu'il faut faire, sur base de ces théories? D'abord militer pour la diffusion de ces alternatives cohérentes, non utopiques et, abandonner l'a priori anti-économie des «droites», qui rend leurs programmes totalement inopérants à long terme. Ensuite, quand ces idées pratiques auront acquis une certaine notoriété, travailler à infléchir la logique actuelle qui est mondialiste, qui disperse les capitaux tous azimuts et délaisse l'investissement dans nos pays. A l'échelon européen, nous nous ferons les défenseurs des fusions industrielles internes à notre continent. En clair, nous applaudirons à des fusions comme Matra-Ericsson (le cas du contrat de la CGCT), comme Volvo-Daf, comme Peugeot-Mercedes et nous lutterons contre les fusions qui impliquent des partenaires non européens, japonais ou américains. Cette idée, nous la partageons avec beaucoup d'Européens engagés dans d'autres circuits politiques et idéologiques que le nôtre. Nous espérons que se réalisera un jour la fusion de ces bonnes volontés, en dépit des étiquettes actuelles.
4 - La politique euro-arabe préconisée par Benoist-Méchin vous paraît-elle toujours applicable?
Le monde arabe est pluriel, malgré la force unificatrice de l'Islam ou les nostalgies nasseriennes. Le rôle de l'Europe est de jouer la conciliation entre les parties, sans imposer quelque politique que ce soit. Les Arabes sont nos voisins et, si nous sommes réalistes, nous devons bien admettre qu'il faut s'entendre avec eux pour éliminer, chez nous, les effets négatifs de Yalta. La logique des relations euro-arabes futures ne saurait plus être de type colonialiste, puisque les Arabes disposent désormais de solides atouts dans leur jeu: pétrole, démographie en hausse, identité politique, grands espaces. L'Europe, malgré son déclin démographique préoccupant, possède encore et toujours les cerveaux techniciens et une infrastructure industrielle remarquable, qui a besoin de débouchés. Les Arabes ont intérêt à s'entendre avec les Européens plutôt qu'avec les Américains qui financent une tête de pont dans leur espace, Israël, qui bafoue leur dignité et ne serait pas viable sans cette aide. Des opérations comme l'organisation de la téléphonie saoudienne par les Suédois d'Ericsson, la vente d'appareils militaires français, la reconquête des zones désertifiées en Algérie par une équipe du Baden-Wurtemberg, les pourparlers (torpillés) entre Belges et Libyens ou entre Français et Irakiens en matières nucléaires, les bonnes relations commerciales que continue à entretenir la RFA avec l'Iran, sont autant d'opportunités qui s'offrent à nos pays de sortir de la logique binaire de Yalta, de s'affranchir des dépendances économiques imposées par les réseaux transnationaux téléguidés depuis Washington et d'accroître leurs potentiels industriels. A la logique de Benoist-Méchin, qui, malgré son passé collaborationiste, a infléchi la politique de la Vème République dans un sens arabophile, doit s'ajouter la logique de Zischka, qui en 1952 avait ébauché un plan de reconquête et de rentabilisation du Sahara, plan que les politiciens médiocres de notre après-guerre n'ont pas retenu (cf. Anton Zischka, Afrique, complément de l'Europe, Laffont, 1952). L'industrialisation et la refertilisation des zones sahariennes exigeront beaucoup de main-d'œuvre et les immigrés maghrébins d'Europe pourraient y pourvoir. L'immigration, qui crée un antagonisme euro-arabe compréhensible, est un fruit du libéralisme économique: cette idéologie a toujours rejeté les planifications audacieuses, comme celles de Zischka, parce que, par idéalisme irréaliste, elle ne reconnaît pas le primat du politique. Le retour à un planisme grandiose permettrait de règler la question de l'immigration dans un sens positif. Le pétrole des Libyens et des Saoudiens pourrait largement financer des projets agricoles et industriels de ce type. Les fermes libyennes, irriguées selon des procédés modernes, sont d'ores et déjà des modèles du genre.
Autre écueil à éviter: prendre parti pour une et une seule idéologie arabe, au détriment de toutes les autres. Les Européens, dans leur politique arabe, ne doivent privilégier aucun interlocuteur: ni les nassériens, ni les intégristes, ni les baathistes, ni les frères musulmans, ni les Libyens, ni les Irakiens mais viser la conciliation de tous sans s'immiscer dans les affaires intérieures des pays arabes.
5 - La Turquie, Israël, les pays d'Afrique du Nord ont demandé à rejoindre la CEE. Que vous inspirent ces demandes?
On ne crée pas un espace économique auto-centré sans homogénéité culturelle. Les différences entre le Nord et le Sud de l'Europe, entre les pôles latin et germanique, entre les Britanniques et les Continentaux, etc. rendent le fonctionnement de l'Europe des 12 déjà fort problématique. Si l'on y adjoint le Maghreb et la Turquie, le chaos sera à son comble. Tout centrage économique sans homogénéité culturelle conduit à une logique implosive, à un dérèglement généralisé. Au nom des impératifs géopolitiques, la Turquie et les pays du Maghreb doivent devenir des alliés de l'Europe, dans des sphères voisines, intégrées selon les mêmes règles de l'auto-centrage. La Turquie, dont l'opposition politique à Türgüt Özal ne veut pas de la CEE, a intérêt à rejouer un rôle «ottoman» au Proche-Orient et à renouer avec la Syrie, l'Irak et l'Iran, en dépit des conflits récents. Tout axe diplomatique optimal pour la Turquie s'oriente vers le Golfe Persique, alors que l'axe occidental, choisi par Özal, conduirait Ankara à n'être qu'un appendice mineur de la CEE, mal industrialisé et incapable de tenir devant les concurrences ouest-européennes. Les Nord-Africains, eux, doivent jouer la carte du Grand Maghreb et refuser que leurs ressortissants ne deviennent les nouveaux esclaves de l'Europe industrialisée. L'Europe doit, pour sa part, tolérer l'expansion des Etats nord-africains vers le sud et, en tant que non français, je déplore l'action retardatrice que joue sur ce plan l'armée française au Tchad, faisant ainsi le jeu des Américains, ennemis de toute forme de rassemblements continentaux ou sub-continentaux. Quant à Israël, un seul choix s'offre à lui, qui s'articule comme suit: renoncer à son rôle de tête de pont de l'impérialisme américain en Méditerranée orientale, s'entendre avec les Palestiniens comme le préconisent les diplomates européens et l'Internationale Socialiste (cf. la récente visite d'Arafat à Strasbourg), dialoguer avec les Turcs soucieux d'orienter leur diplomatie dans un sens ottoman. L'option CEE n'est pas un remède pour Israël: en effet, comment pourrait-il y vendre ses fruits devant la concurrence espagnole? De plus, il serait excentré et détaché artificiellement de son voisinage. La faiblesse géographique de l'Etat hébreux le rend inviable à long terme, a fortiori quand la démographie palestinienne minorise déjà le peuplement juif. Les élites israëliennes, comme les chrétiens du Liban, ont intérêt à réviser leur sionisme ou leur particularisme dans la perspective d'un néo-ottomanisme: c'est pour eux une question de vie ou de mort politiques.
6 - L'Acte Unique européen vous paraît-il une bonne base de départ pour l'Empire européen à construire?
Votre question n'autorise pas de réponse tranchée. L'Acte Unique aura pour conséquence d'éliminer des secteurs viables sur le plan national mais aussi des tares locales anachroniques. L'Acte Unique favorisera les grandes entreprises capitalistes au détriment des PME mais créera simultanément des institutions permettant une plus grande mobilité d'action pour tous. Nous restons conscients du fait que la CEE a été créée jadis pour faciliter la pénétration en Europe des capitaux du Plan Marshall mais que l'idée d'une unité continentale et d'une intégration économique est plus ancienne et ne provient pas des Etats-Unis. Le défi à affronter, complexe et à facettes multiples, est donc le suivant: choisir une politique d'auto-centrage mais ne pas confisquer à certains Européens les relations privilégiées qu'ils entretiennent avec des Etats européens non membres de la CEE. Le «grand espace» de 1992 ne sera pas d'emblée un paradis, un bijou politique. Le risque d'un gigantisme stérilisant demeure, donc cette Europe en gestation ne doit pas se considérer comme achevée; elle doit être ouverte à toutes les candidatures européennes, fermée aux candidatures non européennes. Prenons quelques exemples: la Suède et la Norvège comptent des industries de pointe remarquables, avec lesquelles les grands consortiums européens ont intérêt à s'entendre plutôt qu'avec des équivalents japonais ou américains. La RDA est membre du COMECON mais, par le biais des relations inter-allemandes, elle constitue aussi, officieusement, le treizième Etat de la CEE; la RFA, à partir de 1992, ne devra pas renoncer à ses liens spéciaux avec la RDA ni avec les autres pays de l'Est européen, car cette situation est l'amorce d'un élargissement généralisé à toute l'Europe. La Grèce souhaite, pour sa part, une accentuation des relations inter-balkaniques. Toutes ces dynamiques et ces synergies, dont l'impact dépasse le cadre territorial de la CEE, ne seront possibles que quand disparaîtra l'OTAN et l'inféodation à Washington, car sinon jamais les Suédois, les Suises, les Autrichiens et les Yougoslaves, qui détiennent des zones cruciales en Europe, ne pourront participer à la construction de notre continent. Mes amis et moi-même, qui constituons une forme de pôle germano-belge de la ND européenne, avons souvent été accusés de pro-soviétisme par des camarades français. Nous constatons, en revanche, que ces accusateurs sont frappés d'une étrange myopie historique et réduisent l'Europe au territoire de la CEE ou à celui de l'OTAN. A l'heure où la perestroïka de Gorbatchev est avant toute chose un aveu d'impuissance économique, le danger ne vient plus prioritairement de l'Est. Il vient des concurrences capitalistes extra-continentales. Le danger soviétique ne redeviendra primordial que si l'Europe actuelle, celle des libéraux et des marchands, reste sur ses positions et refuse les dynamiques que je viens d'évoquer. Les Russes n'auront plus qu'une solution: reconduire leur vieille alliance avec l'Amérique. Car il faut savoir que la Russie ne pactice qu'avec le plus fort: avec l'Amérique comme pendant la Guerre de Sécession —ce qu'avait prévu Tocqueville en 1834— ou sous Roosevelt (de 1941 à 1945) et Khroutchev (de 1959 à 1962); avec l'Allemagne (de 1939 à 1941) ou l'Europe unie quand celles-ci sont puissantes et fermes.
En conclusion, l'Acte Unique peut être le meilleur ou le pire: espérons au moins qu'il balaiera les anachronismes nationaux, portés par des politiciens sans envergure, sans mémoire historique et, surtout, sans vision d'avenir grandiose.
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mardi, 02 septembre 2008
Analyse géopolitique des événements de Géorgie

John LAUGHLAND:
Analyse géopolitique des événements de Géorgie
Sir Halford John Mackinder (1861-1947), professeur de géographie à l’Université d’Oxford, directeur de la London School of Economics et membre du Parlement, est généralement considéré comme le fondateur de la “géographie politique”. Profondément pénétré de l’idée très britannique qu’il est nécessiare de maintenir l’équilibre entre les puissances du continent pour pouvoir conserver l’hégémonie sur la mer, Mackinder, en 1904, pose sa fameuse affirmation: l’Eurasie est le pivot géographique de l’histoire mondiale; de cette affirmation découle que celui qui contrôle l’Europe orientale contrôle simultanément l’Eurasie et, par conséquence, le monde entier.
Ses écrits ont eu une influence énorme, qui s’exerce encore aujourd’hui: Zbigniew Brzezinski, le conseiller de Jimmy Carter pour les questions de sécurité nationale, est l’un des principaux débiteurs actuels de Mackinder, notamment pour sa théorie qui veut que l’Amérique doit exercer un contrôle sur l’Asie centrale pour consolider sa propre hégémonie dans le monde. Cependant, les férus actuels de géopolitique ne se rappellent guère que le sommet de la carrière politique de Mackinder fut atteint en 1919, lorsque Lord Curzon, ministre des affaires étrangères, le nomma Haut Commissaire britannique pour la Russie méridionale.
La Grande-Bretagne de l’époque avait envoyé des troupes en Russie méridionale pour combattre aux côtés des forces anti-bolcheviques commandées par le Général Denikine. Mackinder avait persuadé ce dernier de reconnaître l’indépendance des peuples du Caucase en cas de victoire blanche; dès que Mackinder s’en retourna à Londres, il déclara que la Grande-Bretagne aurait dû forger une alliance entre une Ukraine indépendante et les Etats du Caucase et maintenir un contrôle sur la ligne de chemin de fer Bakou/Batoum afin de ne pas mettre en danger les fournitures de pétrole en provenance de la Caspienne et afin d’empêcher les Bolcheviques de règner sur l’ensemble des côtes septentrionales de la Mer Noire. A l’époque, la Grande-Bretagne n’opta pas pour cette politique et l’Union Soviétique de Lénine a fini par contrôler efficacement tous les territoires qui avaient appartenu jadis à l’Empire russe (même si elle le transforma en une “fédération”). La vision de Mackinder, elle, n’est devenue réalité qu’un peu moins d’un siècle plus tard, en 1991, au moment de l’effondrement de l’Union Soviétique.
C’est à la lumière de cette perspective historique et idéologique que nous devons appréhender, aujourd’hui, le soutien énergique qu’ont apporté les géo-stratèges américains à l’adhésion à l’OTAN de tous les pays riverains de la Mer Noire qui ne le sont pas encore, c’est-à-dire l’Ukraine et la Géorgie. Comme Mackinder jadis, les géo-stratèges américains actuels veulent transformer la Mer Noire en un lac “otanique” et expulser la Russie de tous les territoires pontiques qu’elle a absorbés au cours de l’histoire. Leurs objectifs sont au nombre de trois: 1) protéger les fournitures énergétiques; 2) contribuer à la “démocratisation” (c’est-à-dire à l’occidentalisation) du “Grand Moyen-Orient” de Casablanca à Kaboul; et 3) infliger une défaite décisive à la Russie sur le plan géostratégique. Ces objectifs expliquent pourquoi l’Occident a soutenu Victor Youchtchenko en Ukraine, un politicien pro-OTAN, ainsi que la décision du gouvernement géorgien de reprendre le contrôle de deux provinces séparatistes, l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud, où les tensions se sont dangereusement amplifiées, avec des dizaines de tués lors d’un affrontement aux abords de la capitale sud-ossète Tskhinvali.
Quelles sont les chances de succès de l’Occident dans son entreprise? Certes, plusieurs éléments de la théorie de Mackinder ont déjà été traduits dans le réel: l’UE et l’OTAN ont été élargies en direction de l’Est et l’influence de l’Occident vient de progresser en Serbie. Le projet de créer un bouclier “anti-missiles” en Europe orientale avance également et, quand il sera parachevé, il constituera indubitablement une menace pour la Russie. Mais la violence dans le Caucase, si elle s’intensifie, sera la première véritable guerre pour un objectif stratégique depuis l’invasion de l’Irak en 2003; l’ “indépendance” du Kosovo, elle, a été obtenue sans qu’un seul coup de feu n’ait été tiré.
Dans son dernier livre, “Le nouveau XXIe siècle”, l’économiste français Jacques Sapir écrit, de manière particulièrement convaincante, que le projet de créer un empire mondial américain est mort-né et cela, depuis 2003. Bien sûr, le projet agite encore l’esprit de quelques fanatiques à Washington.
Evidemment, l’économie et la politique des Etats-Unis continuent d’être lourdement influencées par l’industrie militaire, qui stipendie les politiciens pour qu’ils plaident la cause d’un expansionisme militaire, qui a encore le vent en poupe. Enfin, il est patent aussi que les Etats-Unis font montre d’une tendance inquiétante à susciter de nouvelles crises pour distraire l’attention des observateurs, afin qu’ils n’examinent plus trop les crises plus anciennes.
Mais les guerres d’usure en Irak et en Afghanistan démontrent que les Etats-Unis ne peuvent effectivement “démocratiser” le Moyen-Orient ni le contrôler véritablement; il s’avère dès lors de plus en plus difficile, dans de telles conditions, de songer à vouloir contrôler toute l’Asie centrale, pour ne pas évoquer l’ensemble du monde. L’armée américaine, finalement, n’est pas assez nombreuse. On peut douter que Washington décide d’envoyer ses propres troupes pour combattre contre les forces pro-russes (ou russes) en Géorgie, même si une telle éventualité reste malgré tout fort probable si John McCain devient président. Mais il ne sera pas nécessairement vrai que “celui qui contrôle Tskhinvali, contrôle le monde”. Néanmoins, l’issue de cette guerre décidera de l’équilibre des forces entre la Russie et l’Amérique dans les prochaines années à venir.
John LAUGHLAND.
(article paru dans “Rinascita”, Rome, 12 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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A. J. Langbehn: le prophète solitaire de la simplicité

August Julius Langbehn: le prophète solitaire de la simplicité
Hommage à l'Allemand qui aimait Rembrandt à l'occasion du 90ième anniversaire de sa mort
Dans les années 90 du siècle passé, la bourgeoisie cultivée allemande, la Bildungsbürgertum, a été saisie par un malaise culturel, qui s'était lentement insinué dans les esprits à partir de la fondation du IIième Reich et avait atteint son point culminant dans l'atmosphère “fin-de-siècle” vers 1900. Dans cette époque de désorientement culturel où l'on recherchait de nouvelles voies, un nouveau livre est paru avec un titre tout aussi prophétique que mystérieux: Rembrandt als Erzieher - Vom einen Deutschen (= Rembrandt comme éducateur. Par un Allemand). L'auteur restait en effet anonyme. Mais son livre deviendra vite l'un des plus gros succès de librairie du siècle. Edité pour la première fois en 1890, il connaîtra 43 éditions rien que dans les trois années suivantes.
L'auteur, August Julius Langbehn, est pratiquement tombé dans l'oubli aujourd'hui. Né en 1851 dans le Nord du Slesvig/Schleswig dans la famille d'un vice-recteur de Gymnasium, Langbehn sombra vite dans la détresse matérielle après la mort prématurée de son père, ce qui ne l'empêcha pas, à terme, de s'inscrire dans les universités de Kiel et de Munich dès 1869, où il termina des études de philologie et de science naturelle. Après un long voyage en Italie, il se tourna finalement vers l'archéologie des premiers âges de la Grèce antique. Il termine ces études en 1880 et rédige un mémoire. Pendant et après ses études, qui ont duré dix ans, Langbehn a vécu une existence nomade, instable et très précaire. Mais jamais il n'a exercé de profession parallèle; pendant longtemps, il n'a vécu que de petites publications ou des dons de quelques mécènes comme le peintre Wilhelm Leibl et Hans Thoma.
Le livre Rembrandt als Erzieher est le reflet de la conception que Langbehn se faisait de la vie. En plein milieu d'un siècle scientifique, perclus de positivisme et de modernité, d'un siècle qui voit émerger partout des mégapoles où croît démesurément l'importance de l'économie et du capital, Langbehn voulait annoncer et préfigurer une ère nouvelle placée sous l'enseigne de cet esprit prémoderne que fut l'idéalisme, un esprit qu'il espérait capable de propulser dans l'avenir le meilleur de la culture allemande. En écrivant ce livre, Langbehn était l'un des premiers en Allemagne à affirmer ouvertement, dans un langage clair, ce qu'une grande partie des bourgeois cultivés allemands ressentait confusément. Langbehn écrivait ainsi avec ses propres mots —et portés par d'autres intentions— ce qu'avant lui Nietzsche et Paul de Lagarde avaient exprimé dans leurs critiques de la culture européenne: à l'effondrement du système des valeurs qui avait dominé jusque là, il fallait répondre par un retour conscient aux valeurs spécifiques de son propre peuple. Pour Langbehn, outre le retour aux sources de la paysannerie allemande, il fallait aussi s'adonner totalement à l'art. Un art véritable, pensait-il, ne pouvait émerger et s'amplifier qu'au départ de cette force intacte du paysannat allemand, non encore appauvri dans ses instincts. C'est la raison pour laquelle les attaques critiques de Langbehn contre la culture dominante concernaient en première instance le scientisme. Par haine contre toutes les formes d'intellectualisme, il avait déchiré son propre diplôme de doctorat et l'avait renvoyé chez le doyen de l'université de Munich, afin d'être rayé de la liste des diplômés. A une culture trop savante et trop compilatoire, il opposait la simplicité comme “médicament pour les maux du présent”.
Bien que Langbehn se soit considéré comme un aristocrate, il était un défenseur véhément de la “communauté populaire” (Volksgemeinschaft). Très tôt, il souleva la question sociale et voulut dépasser les clivages entre classes. Peu sensible aux contradictions, il réclamait l'avènement d'un Ständestaat et un retour de l'aristocratie au pouvoir, de façon “à ce que chacun puisse conserver sa dignité à sa place et faire valoir sa personnalité”, et “se soumettre volontairement à ceux qui sont au-dessus de lui”.
Le catholicisme d'un éternel enfant
A juste titre, on a reproché à Langbehn d'avoir produit un mauvais livre à l'écriture trop pathétique, un livre illisible véhiculant dans ses idées beaucoup trop de contradictions: une “rhapsodie d'irrationalisme” (Fritz Stern). D'autres en revanche le nommaient un “visionnaire”, un “homme à la quête de Dieu” ou un “héraut dans le désert”. C'est un fait: pendant toute sa vie, Langbehn a cherché. Issu d'un foyer au protestantisme strict, il se convertit en 1900 au catholicisme, dans l'espoir d'y trouver l'“holicité originelle perdue”. A ce propos, il a dit: “J'ai toujours été enfant et c'est en tant qu'enfant que je me sens attiré par la nature maternelle de l'église catholique”. C'est justement parce que le nationalisme et l'idée grande-allemande chez Langbehn ont pris ultérieurement des formes plus catholiques et que sa critique de la culture dominante s'en ressentait, que les nationaux-socialistes ont pris leurs distances par rapport à son œuvre. Son ouvrage principal, Rembrandt als Erzieher, a encore connu une édition en 1943 —sans doute parce qu'il avait des connotations antisémites— mais depuis longtemps déjà la diffusion de ses ouvrages ne recevait plus aucun soutien.
Mais c'est essentiellement dans le mouvement de jeunesse que l'influence de Langbehn a duré le plus longtemps sans fléchir. Le fondateur du mouvement Wandervogel, Karl Fischer, le pédagogue et réformateur Ludwig Gurlitt, de même que Hans Blüher, étaient des disciples de Langbehn. Après la mort de Langbehn lors de son voyage à Rosenheim en 1907, il fut, selon ses vœux, enterré dans le village de Puch, près de Fürstenfeldbruck, sous un tilleul qui avait servi de toit à Sainte-Edigna au moyen-âge. Les garçons et les filles du mouvement de jeunesse ont fait de cette tombe un lieu de pélérinage. Ils voulaient honorer le “Rembrandtdeutscher” et se souvenir de lui.
Frank LISSON.
(texte paru dans Junge Freiheit, n°18/1997; trad. franç.: Robert Steuckers).
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lundi, 01 septembre 2008
Guerre du Caucase: chronologie des événements

Soldats géorgiens en manoeuvre
Andreï ARECHEV:
Guerre du Caucase: chronologie des événements
Dans la chronologie des événements, qui ont précédé l’agression géorgienne contre l’Ossétie du Sud, il y a un aspect qui mérite tout particulièrement notre attention: le 31 juillet s’étaient clôturées des manoeuvres communes, regroupant unités géorgiennes et unités américaines, que l’on avait baptisées “Immediate Response 2008”; au cours de ces exercices, les instructeurs américains avaient entraîné les forces armées géorgiennes à parachever des “opérations de nettoyage” contre des terroristes embusqués en zones résidentielles. Les exercices comprenaient des actions comme nettoyer un village des terroristes qui s’y dissimulaient, probablement en vue des engagements futurs des soldats géorgiens en Irak, et de mettre en lieu sûr les populations civiles; Les atrocités commises par les forces géorgiennes à Tskhinvali sont donc le résultat de l’entraînement qu’elles ont reçues de leurs instructeurs occidentaux sous la couverture cynique de “lutte contre le terrorisme”. Les véritables objectifs sont bien entendu complètement différents. L’ancien ministre géorgien des affaires étrangères, Salome Zurabishvili, qui est indubitablement une personnalité bien informée, a déclaré que la présence des Etats-Unis en Géorgie impliquait le déploiement d’une vaste gamme d’activités, parmi lesquelles l’instruction des forces armées et le contrôle du corridor de grande importance stratégique qui passe par le Caucase, où est notamment installé le tracé de l’oléoduc Bakou-Tbilisi-Ceyhan. Selon Zurabishvili, c’est là l’objectif principal du conflit actuel, qui oppose la Géorgie à la Russie et renforce simultanément la loyauté qu’éprouvent désormais les Géorgiens à l’égard des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne, ce qui permet à ces deux dernières puissances de contrôler la Géorgie et, par voie de conséquence, l’ensemble du versant méridional du Caucase.
Il faut également noter que l’intensification du conflit caucasien, aux confins méridionaux de la Russie, a coïncidé avec les tensions qui ont agité la région autonome chinoise du Xinjiang, où, alors que commençaient les Jeux Olympiques, une attaque terroriste a été commise. Quelques jours auparavant, à Bishkek, la capitale du Kirghizistan, on avait découvert un dépôt illégal d’armes, près duquel résidaient une dizaine de militaires américains et plusieurs diplomates de l’ambassade des Etats-Unis dans ce pays d’Asie centrale. L’agression de la Géorgie contre l’Ossétie du Sud est un acte de guerre, dans une guerre qui se déroulera dans l’intérêt de tierces puissances et où les Géorgiens sont destinés à jouer le rôle de chair à canon. Si l’agression contre cette petite région caucasienne ne trouve pas rapidement bonne fin, d’autres conflits régionaux seront inévitables et prendront à coup sûr une ampleur bien plus dramatique.
Andreï ARECHEV.
(extrait d’un article paru dans “Rinascita”, Rome, 12 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Les Indo-Européens dans la Chine antique

Reconstitution d'une des momies d'Urumtchi
Les Indo-Européens dans la Chine antique
Dans le livre troisième de son fameux Essai sur l'inégalité des races humaines, publié dans les années 50 du 19ième siècle, Arthur de Gobineau décrivait les flux migratoires des peuples indo-européens en Orient et relevait que «vers l'année 177 av. J. C., on rencontrait de nombreuses nations blanches à cheveux clairs ou roux et aux yeux bleus, installées sur les frontières occidentales de la Chine. Les scribes du Céleste Empire, auxquels nous devons de connaître ce fait, citent cinq de ces nations… Les deux plus connues sont le Yüeh-chi et les Wu-suen. Ces deux peuples habitaient au nord du Hwang-ho, aux confins du désert de Gobi… De même, le Céleste Empire avaient pour sujets, au sein de ses provinces du Sud, des nations aryennes-hindoues, immigrées au début de son histoire» (1).
Arthur de Gobineau tirait ses informations des études de Ritter (Erdkunde, Asien) et de von Humboldt (Asie centrale); tous deux se basaient sur les annales chinoises de la dynastie han, dont les premiers souverains ont commencé leur règne en 206 av. J. C. De fait, nous savons aujourd'hui que, dès le 4ième siècle avant J.C., les documents historiques du Céleste Empire évoquaient des peuples aux cheveux clairs, de mentalité guerrière, habitant sur les confins du territoire, dans ce que nous appelons aujourd'hui le Turkestan chinois ou le Xinjiang. Selon Gobineau, ces faits attestaient de la puissance expansive et implicitement civilisatrice des populations "blanches". Mais, au-delà des interprétations unilatérales et, en tant que telles, inacceptables de l'écrivain français, presque personne n'a pris en considération la signification que ces informations auraient pu revêtir pour retracer l'histoire de la culture et des influences culturelles, sur un mode moins banal et linéaire que celui qui était en vogue au 19ième siècle.
On a plutôt eu tendance à rester incrédule quant à la fiabilité des annales, parce qu'on était animé par un indécrottable préjugé euro-centrique, selon lequel les peuples de couleurs étaient en somme des enfants un peu fantasques, incapables de saisir l'histoire dans sa concrétude. En outre, à l'époque, il était impossible de vérifier la présence de ces populations "blanches" : même en admettant qu'elles aient existé, personne ne pouvait dire depuis combien de temps elles avaient disparu, noyées dans la mer montante des populations asiatiques voisines. Cette zone géographique, jadis traversée par la légendaire "route de la soie" et devenue depuis longtemps en grande partie désertique, était devenue inaccessible aux Européens, qui ne pouvaient évidemment pas y mener à bien des études archéologiques sérieuses et approfondies.
Latin, irlandais ancien et tokharien
Comme l'a souligné Colin Renfrew, célèbre pour ses recherches sur les migrations indo-européennes, ce n'est qu'au début du 20ième siècle que les premiers érudits ont pu s'aventurer dans la région, en particulier dans la dépression du Tarim et dans diverses zones avoisinantes (2). Ils ont trouvé de nombreux matériaux, bien conservés grâce à l'extrême aridité du climat désertique qui règne là-bas. Il s'agit essentiellement de textes en deux langues, écrits dans une langue jusqu'alors inconnue, qui utilisait cependant un alphabet du Nord de l'Inde; à côté du texte en cette langue, figurait le même texte en sanskrit. Ce qui a permis de la comprendre et de l'étudier assez rapidement. Cette langue a été appelée par la suite le "tokharien", dénomination que l'on peut juger aujourd'hui impropre. Elle se présentait sous deux formes légèrement différentes l'une de l'autre, qui révélaient "diverses caractéristiques grammaticales les liant au groupe indo-européen" (3). Notons le fait que les ressemblances les plus frappantes liaient cette langue au celtique et au germanique, plutôt qu'aux groupes plus proches de l'iranien et des autres langues aryennes d'Asie. A titre d'exemple, nous comparerons quelques mots fondamentaux que l'on retrouve respectivement en latin, en irlandais ancien et en tokharien. "Père" se dit "pater", "athir" et "pacer"; "Mère" se dit "mater", "mathir" et "macer"; ""Frère" se dit "frater", "brathir" et "procer"; "Sœur" se dit "soror", "siur" et "ser"; "Chien" se dit "canis", "cu" et "ku" (4). A titre de curiosité, signalons une autre correspondance: le nombre "trois" se dit "tres" en latin, "tri" en irlandais ancien et "tre" en tokharien.
Les affinités sont donc plus qu'évidentes. «Les documents remontent aux 7ième et 8ième siècles après J. C. et comprennent des correspondances et des comptes rendus émanant de monastères… Des deux versions de la langue tokharienne, la première, nommée le "tokharien A" se retrouve également dans des textes découverts dans les cités de Karashar et de Tourfan, ce qui a amené certains savants à l'appeler le "tourfanien". L'autre version, appelée "tokharien B", se retrouve dans de nombreux documents et textes trouvés à Koucha et donc baptisée "kouchéen" (5).
Processus endogène ou influence exogène?
Aujourd'hui, on tend à penser que ces langues ont été parlées par les Yüeh-chi (ou "Yü-chi"), le peuple mentionné dans les annales antiques, peuple qui avait entretenu des contacts prolongés avec le monde chinois. C'est là un point fondamental, qui est resté longtemps sans solution. En fait, sur la naissance de la civilisation chinoise, deux opinions s'affrontent : l'une entend privilégier un processus entièrement endogène, sans aucune influence extérieure d'autres peuples; l'autre, au contraire, met en évidence des apports importants, fondamentaux même, venus d'aires culturelles très différentes. La première thèse est naturellement la thèse officielle des Chinois, mais aussi celle de tous ceux qui s'opposent à toute conception de l'histoire qui pourrait donner lieu à des hypothèses "proto-colonialistes" voyant en l'Occident la matrice de tout progrès. Les défenseurs les plus convaincants de la thèse "exogène" —c'est-à-dire Gobineau, déjà cité, mais aussi Spengler, Kossina, Günther, Jettmar, Romualdi, etc.— sont ceux qui soulignent, de manières très différentes, le rôle civilisateur des peuples indo-européens au cours de leurs migrations, parties de leur patrie primordiale, pour aboutir dans les contrées lointaines auxquelles ils ont donné une impulsion bien spécifique. Bien sûr, dans certains cas, ces auteurs ont constaté que l'apport culturel n'a pas été suffisamment fort pour "donner forme" à une nouvelle nation, vu le nombre réduit des nouveaux venus face aux populations indigènes; néanmoins, la simple présence d'une influence indo-européenne a suffit, pour ces auteurs, pour imprimer une impulsion vivifiante et pour animer un développement chez ces peuples avec lesquels les migrants indo-européens entraient en contact. Ce serait le cas de la Chine avec les Tokhariens.
Par exemple, Spengler (6) souligne l'importance capitale de l'introduction du char de guerre indo-européen dans l'évolution de la société chinoise au temps de la dynastie Chou (1111-268 av. J. C.). D'autres auteurs, comme Hans Günther, plusieurs dizaines d'années plus tard, avait avancé plusieurs hypothèses bien articulées et étayées de faits importants, attribuant à cette pénétration de peuples indo-européens l'introduction de l'agriculture parmi les tributs nomades d'Asie centrale, vers la moitié du deuxième millénaire; il démontrait en outre comment l'agriculture s'était répandue en Asie centrale, parallèlement à l'expansion de populations de souche nordique.
Bronze et chars de guerre
De même, l'introduction du bronze en Chine semble, elle aussi, remonter aux invasions indo-européennes; ensuite, on peut supposer qu'aux débuts de l'histoire chinoise, il y a eu l'invasion d'un peuple équipé de chars de guerre, venu du lointain Occident. Par ailleurs, on peut dire que les sinologues actuels reconnaissent tous l'extrême importance du travail et du commerce du bronze dans le développement de la société en Chine antique (7). La même importance est attribuée aujourd'hui, par de plus nombreux sinologues, à l'introduction de certaines techniques agricoles et du char hippo-tracté.
Les études de Günther sur le parallélisme entre la présence de peuples aux cheveux clairs et la diffusion de la culture indo-européenne en Asie ont d'abord été diabolisées et ostracisées, mais, aujourd'hui, au regard des apports nouveaux de l'archéologie, elles méritent une attention nouvelle, du moins pour les éléments de ces études qui demeurent valables. Peu d'érudits se rappellent que, dans l'oasis de Tourfan, dans le Turkestan chinois, où vivaient les Tokhariens, on peut encore voir des fresques sur lesquelles les ressortissants de ce peuple sont représentés avec des traits nettement nord-européens et des cheveux clairs (8). C'est une confirmation de la fiabilité des annales du Céleste Empire. On ne peut donc plus nier un certain enchaînement de faits, d'autant plus que l'on dispose depuis quelques années de preuves plus directes et convaincantes de cette installation très ancienne d'éléments démographiques indo-européens dans la zone asiatique que nous venons d'évoquer. Ces installations ont eu lieu à l'époque des grandes migrations aryennes vers l'Est (2ième millénaire avant J. C.), donc avant que ne se manifestent certains aspects de la civilisation chinoise.
Ces preuves, disions-nous, nous n'en disposons que depuis quelques années…
Les traits europoïdes des momies d'Ürümtchi
En 1987, Victor Mair, sinologue auprès de l'Université de Pennsylvanie, visite le musée de la ville d'Ürümtchi, capitale de la région autonome du Xinjiang. Il y voit des choses qui provoquent chez lui un choc mémorable. Il s'agit des corps momifiés par cause naturelle de toute une famille : un homme, une femme et un garçonnet de deux ou trois ans. Ils se trouvaient dans une vitrine. On les avait découverts en 1978 dans la dépression du Tarim, au sud du Tian Shan (les Montagnes Célestes) et, plus particulièrement, dans le désert du Taklamakan (un pays peu hospitalier à en juger par la signification de son nom : "on y entre et on sort plus!").
Plusieurs années plus tard, Mair déclare au rédacteur du mensuel américain Discover : «Aujourd'hui encore, je ressens un frisson en pensant à cette première rencontre. Les Chinois me disaient que ces corps avaient 3000 ans, mais ils semblaient avoir été enterrés hier» (9). Mais le véritable choc est venu quand le savant américain s'est mis à observer de plus près leurs traits. Ils contrastaient vraiment avec ceux des populations asiatiques de souche sino-mongole; ces corps momifiés présentaient des caractéristiques somatiques qui, à l'évidence, étaient de type européen et, plus précisément, nord-européen. En fait, Mair a noté que leurs cheveux étaient ondulés, blonds ou roux; leurs nez étaient longs et droits; ils n'avaient pas d'yeux bridés; leurs os étaient longs (leur structure longiligne contrastait avec celle, trapue, des populations jaunes). La couleur de leur épiderme —maintenu quasi intact pendant des millénaires, ce qui est à peine croyable— était typique de celle des populations blanches. L'homme avait une barbe épaisse et drue. Toutes ces caractéristiques sont absentes au sein des populations jaunes d'Asie.
Les trois "momies" (il serait plus exact de dire les trois corps desséchés par le climat extrêmement sec de la région et conservés par le haut taux de salinité du terrain, qui a empêché la croissance des bactéries nécrophages) constituaient les exemplaires les plus représentatifs d'une série de corps —à peu près une centaine— que les Chinois avaient déterrés dans les zones voisines. Sur base des datations au radiocarbone (10), effectuées au cours des années précédentes par des chercheurs locaux, on peut dire que ces corps avaient un âge variant entre 4000 et 2300 ans. Ce qui nous amène à penser que la population, dont ils étaient des ressortissants, avait vécu et prospéré pendant assez longtemps dans cette région, dont la géologie et le climat devaient être plus hospitaliers dans ce passé fort lointain (on y a d'ailleurs retrouvé de nombreux troncs d'arbre desséchés).
Spirales et tartans
Le matériel funéraire et les vêtements de ces "momies", eux aussi, se sont révélés fort intéressants. Par exemple: la présence de symboles solaires, comme des spirales et des swastikas, représentés sur les harnais et la sellerie des chevaux, relie une fois de plus ces personnes aux Aryens de l'antiquité, sur le plan culturel.
L'étoffe utilisée pour fabriquer leurs vêtements était la laine, qui fut introduite en Orient par des peuples venus de l'Ouest. Le "peuple des momies" connaissait bien l'art du tissage: on peut l'affirmer non seulement parce que l'on a retrouvé de nombreuses roues de métier à tisser dans la région mais aussi parce que les tissus découverts sont d'une excellente facture. Pour attester des relations avec le Céleste Empire, on peut évoquer une donnée supplémentaire: la présence d'une petite composante de soie dans les effets les plus récents (postérieurs au 6ième siècle av. J. C.), qui ont de toute évidence été achetés aux Chinois. Les autres éléments vestimentaires, dans la majeure partie des cas, démontrent qu'il y avait des rapports étroits avec les cultures indo-européennes occidentales; le lot comprend notamment des vestes ornées et doublées de fourrure et des pantalons longs.
Plus révélateur encore: on a retrouvé dans une tombe un fragment de tissu quasi identique aux "tartans" celtes (11) découverts au Danemark et dans l'aire culturelle de Hallstatt en Autriche, qui s'est développée après la moitié du 2ième millénaire avant J. C., donc à une époque contemporaine de celle de ces populations blanches du Xinjiang. Si l'on pose l'hypothèse que les Celtes d'Europe furent les ancêtres directs de ces Tokhariens (ou étaient les Tokhariens tout simplement), cette preuve archéologique s'accorde bien avec ce que nous disions plus haut à propos des similitudes entre la langue celtique et celle des Indo-Européens du Turkestan chinois : les deux données, l'une linguistique, l'autre archéologique, se renforcent l'une l'autre.
Chapeau à pointe et coquillages
Autre élément intéressant : la découverte d'un couvre-chef à pointe, à larges bords, que l'on a défini, avec humour, comme un "chapeau de sorcière"; il était placé sur la tête de l'une des momies de sexe féminin, remontant à environ 4000 années. Ce chapeau ressemble très fort à certains couvre-chef utilisés par les Scythes, peuple guerrier de la steppe, et qu'on retrouve également dans la culture iranienne (on pense aux chapeaux des Mages). Ces populations étaient des populations d'agriculteurs, comme le prouve la présence de semences dans les bourses. Elles avaient également des rapports avec des populations vivant en bord de mer, vu que l'on a retrouvé près des momies ou sur elles de nombreux coquillages de mollusques marins.
L'intérêt extrême de ces vestiges a conduit à procéder à quelques études anthropologiques (principalement d'anthropométrie classique), sous la direction de Han Kangxin de l'Académie Chinoise des Sciences Sociales (Beijing). Ces études ont confirmé ce que le premier coup d'œil déjà permettait d'entrevoir : dans de nombreux cas, les proportions des corps, des crânes et de la structure générale du squelette, ne correspondent pas à celles des populations asiatiques jaunes, tandis qu'elles correspondent parfaitement à celles que l'on attribue habituellement aux Européens, surtout aux Européens du Nord.
Par le truchement de l'archéologie génétique, on pourra obtenir des données encore plus précises, pour élucider ultérieurement les origines et la parenté de ce peuple mystérieux. La technique, très récente, se base sur la comparaison de l'ADN mitochondrial (12) des diverses populations, que l'on veut comparer, afin d'en évaluer la distance génétique. L'un des avantages de cette technique réside dans le fait que l'on peut aussi analyser l'ADN des individus décédés depuis longtemps, tout en restant bien sûr très attentif, pour éviter d'éventuelles contaminations venues de l'environnement (par exemple, les contaminations dues aux bactéries) ou provoquées par la manipulation des échantillons. L'archéologie génétique s'avère utile, de ce fait, quand on veut établir un lien, en partant des molécules, entre l'anthropologie physique et la génétique des populations.
Les premiers tests ont été effectués par un chercheur italien, le Professeur Paolo Francalacci de l'Université de Sassari. Ils ont confirmé ultérieurement l'appartenance des individus analysés aux populations de souche indo-européenne, dans la mesure où l'ADN mitochondrial, qui a été extrait et déterminé, appartient à un aplotype fréquent en Europe (apl. H) et pratiquement inexistant au sein des populations mongoloïdes (13). Les autorités de Beijing n'ont autorisé l'analyse que d'un nombre réduit d'échantillons; beaucoup restent à étudier, en admettant que les autorisations soient encore accordées dans l'avenir.
Traits somatiques des Ouïghours
Enfin, il faut également signaler que les habitants actuels du Turkestan chinois, les Ouïghours, présentent des traits somatiques mixtes, où les caractéristiques physiques europoïdes se mêlent aux asiatiques. On peut donc dire que nous nous trouvons face à une situation anthropologique où des ethnies de souches diverses se sont mélangées pour former, en ultime instance, un nouveau peuple. Ce n'est donc pas un hasard si les autorités de Beijing craignent que la démonstration scientifique de l'existence de tribus blanches parmi les ancêtres fondateurs de l'ethnie ouïghour contribue à renforcer leur identité culturelle et qu'au fil du temps débouche sur des aspirations indépendantistes, violemment anti-chinoises, qui sont déjà présentes. Cette situation explique pourquoi les Chinois boycottent quasi ouvertement les recherches menées par Mair et ses collaborateurs.
En conclusion, l'ampleur, la solidité et la cohérence des données obtenues contribuent à confirmer les intuitions de tous les auteurs, longtemps ignorés, qui ont avancé l'hypothèse d'une contribution extérieure à la formation de la civilisation chinoise. Cette contribution provient de tribus aryennes (ndlr: ou "proto-iraniennes", selon la terminologie de Colin McEvedy que nous préférons utiliser), comme semble l'attester les découvertes effectuées sur les "momies", et permet d'émettre l'hypothèse que le bronze et d'autres acquisitions importantes ont été introduites directement, et non plus "médiatement", par ces tribus dans l'aire culturelle de la Chine antique.
Par exemple, Edward Pulleyblank a souligné récemment qu'il «existait des signes indubitables d'importations venues de l'Ouest : le blé et l'orge, donc tout ce qui relève de la culture des céréales, et surtout le char hippo-tracté, …, sont plus que probablement des stimuli venus de l'Ouest, ayant eu une fonction importante dans la naissance de l'âge du bronze en Chine» (14).
Bien sûr, cette découverte ne conteste nullement la formidable originalité de la grande culture du Céleste Empire, mais se borne à mettre en évidence quelques aspects fondamentaux dans sa genèse et dans son évolution ultérieure, tout en reconnaissant à juste titre le rôle joué par les nomades antiques venus d'Europe.
Giovanni MONASTRA.
(e mail: g_monastra@estovest.org ; texte paru dans Percorsi, anno III, 1999, n°23; le texte original italien est sur:
http://www.estovest.org/identita/indocina.html... ; trad. franç.: Robert Steuckers).
Notes :
[1] Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 443.
[2] Colin Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, Bari 1989, p. 77.
[3] ibidem, p. 79.
[4] Les Chinois, pour désigner le chien, utilisent le terme "kuan", qui est quasiment le seul et unique mot de leur langue qui ressemble au latin "canis" ou à l'italien "cane", sans doute parce que le chien domestique à été introduit dans leur société par des populations indo-européennes, qui ont laissé une trace de cette transmission dans le nom de l'animal.
[5] Colin Renfrew, Archeologia ecc.cit., pp. 78-9.
[6] Oswald Spengler, Reden und Aufsätze, Monaco 1937, p. 151.
[7] Jacques Gernet, La Cina Antica, Luni, Milano 1994, pp. 33-4.
[8] Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, Popoli e Lingue, Adelphi, Milano 1996, p. 156.
[9] Discover, 15, 4, 1994, p. 68.
[10] La méthode du radiocarbone (14C) se base sur le fait que dans tout organe vivant, outre l'atome de carbone normal (12C), on trouve aussi une certaine quantité de son isotope, le radiocarbone, qui se réduit de manière constante, pour devenir un isotope de l'azote. Tandis que le rapport entre 14C et 12C reste stable quand l'organisme est en vie, cet équilibre cesse d'exister à partir du moment où il meurt; à partir de cette mort, on observe un déclin constant qui implique la disparition du radiocarbone, qui diminue de moitié tous les 5730 ans. De ce fait, il suffit, dans un échantillon, de connaître le rapport entre deux isotopes pour pouvoir calculer les années écoulées depuis la mort de l'organisme. La méthode connaît cependant une limite : elle ne peut pas s'utiliser pour des objets d'investigation de plus de 70.000 ans.
[11] Archaeology, Marzo 1995, pp. 28-35. Le "tartan" est une étoffe typique du plaid écossais. Pour se documenter plus précisément sur les divers éléments liés aux textiles et aux vêtements de ce peuple, nous recommandons la lecture d'un ouvrage excellent et exhaustif, comprenant de nombreuses comparaisons avec les équivalents en zone européenne : Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, W. W. Norton & Company, Inc., New York, 1999.
[12] Les mitochondries sont des organites présents dans les cellules des eucaryotes (tous les organismes vivants, des champignons aux mammifères) à des dizainesde milliers d'exemplaires. Seules ces structures, mis à part le noyau cellulaire, contiennent de l'ADN, molécule base de la transmission héréditaire, mais leur ADN est de dimensions beaucoup plus réduites que celui du noyau (200.000 fois plus court) : il sert uniquement pour la synthèse des protéines nécessaires à ces organites. Il faut se rappeler qu'au moment de la fécondation, il semble que seule la mère transmet les mitochondries à sa progéniture.
[13] Journal of Indo-European Studies, 23, 3 & 4, 1995, pp. 385-398.
[14] International Rewiew of Chinese Linguistics, I, 1, 1998, p. 12. Voir aussi: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, op. cit.
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dimanche, 31 août 2008
La "Mensur"
La Mensur
autore: Ella Loescher
categoria: --vario
inserito il: 2006-09-17
Grazie al gentile permesso dell'autrice, la Sig.na Ella Loescher, redattrice del sito Scherma Online, pubblichiamo il seguente excursus su una tradizione squisitamente germanica quale la "mensur", o per dirla all'italiana: "mensura".
Introduzione
La Mensur non è nè una disciplina sportiva nè un duello, tuttavia ha qualcosa in comune con entrambi: è un duello rituale in cui i due avversari devono rispettare una distanza fissa, cioè una misura, o Mensur, rimanendo fermi evitando il retrocedere vile; l'arma, la spada da Mensur, viene tenuta al di sopra della testa e puntata verso il viso dell'avversario.
I tagli vanno suturati senza uso di anestetico. Le parti del corpo minacciate, in particolare occhi, naso, orecchie, collo, insomma tutte le parti superiori del corpo sono protette da monocoli in ferro con un'appendice che protegge il naso, da gorgiere, bendaggi, corsetti, cinture di cuoio o di tela imbottita.
La Mensur pretende norme rigorose
Come in tutti gli sport da combattimento, non deve esistere nessuna antipatia o rivalità personale, anzi una certa fiducia nella relazione fra i contendenti è necessaria.
La Mensur non conosce vincitori o perdenti; più importante di una "vittoria" è la partecipazione diretta. La prestazione di ogni schermitore partecipante viene valutata indipendentemente dalla prestazione del suo avversario: è una dimostrazione di coraggio, di autocontrollo, di responsabilità, non di tecnica schermistica.
La Mensur è una lotta fra due di uomini, e si tratta solo di questo, in cui i partecipanti devono superare il timore di possibili ferite, che è l'obiettivo reale della Mensur.
Contrariamente al duello non si cerca di provocare una morte per avere "soddisfazione" in seguito a violazioni "dell'onore": tutto questo è giuridicamente vietato e molto lontano dal senso delle Mensuren che oggi possono essere combattute soltanto a condizione di escludere ferite serie o mortali.
Alcune critiche vedono una similarità della Mensur con un comportamento autolesionistico, ma mi viene ribattuto da uno studente universitario di una confraternita che la pratica, che nella Mensur non ci si ferisce da soli bensì è l'avversario che colpisce. Non capisco chi ci rimprovera. Diversamente da quella parte di uomini timorosa delle cure chirurgiche e con stati e relazioni emozionali inquietanti, noi impariamo a controllare la paura e a mantenere il pieno autocontrollo dei conflitti interiori, ad acquisire fiducia in noi stessi e nei compagni. Ci alleniamo praticamente tutti i giorni, per stimolare l'attitudine a batterci.
Lo scopo della Mensur è dunque sempre stato quello di essere un aiuto importante e doveroso per la formazione della personalità, poichè il partecipante deve prepararsi con cura e autodisciplina a battersi con le proprie forze; l'affrontare con calma una situazione pericolosa superando timori rafforza allo stesso tempo la coesione delle comunità.
A sostegno di questo, alcuni tenaci sostenitori della Mensur vorrebbero che i contendenti, per misurare maggiormente il proprio sangue freddo, non si conoscessero e non appartenessero alla stessa corporazione. Per altri la Mensur, ritornando al suo scopo, non dovrebbe avere una partecipazione volontaria, ma obbligatoria e più allargata.
Infine, qualcuno critica la tradizionale esclusione delle donne.
Sta di fatto che in Germania, pur non essendo un fattore determinante, l'aver praticato la Mensur giocava e pare possa ancora giocare a favore di un candidato alla dirigenza d'azienda.
L'inizio
Prima del 1514 il porto d'armi era un privilegio concesso soltanto ai soldati e all'aristocrazia; gli studenti, costretti a spostarsi spesso in viaggi d'istruzione da uno stato all'altro, da un'universitè all'altra, non avevano nessuno strumento per difendere la loro incolumità. In quell'anno, Massimiliano I d'Asburgo (imperatore del Sacro Romano Impero) concesse anche ad essi il porto d'armi, che rappresentava per l'epoca la carta d'identità di una elevata posizione sociale.
Le armi piè utilizzate inizialmente furono pugnali e "rapire" o daghe; successivamente si preferirono le armi spagnole e italiane, più maneggevoli. Il privilegio d'arma era legato strettamente ad un codice d'onore sociale: i signori pretendevano rispetto non soltanto dalle bande di ladri che incontravano lungo la via, ma esigevano che nessuno dubitasse del loro rango.
Presso gli studenti universitari dell'epoca andò formandosi via via la consapevolezza del loro stato sociale basata sull'uso di una propria lingua (il latino), su norme proprie di comportamento e sull'uso di abiti speciali di propri colori che portò a voler difendere la loro libertà di studio, la gioia di vivere e la difesa del loro mondo e dei cittadini.
Per gli studenti il porto d'armi e i duelli studenteschi di scherma diventarono presto un elemento indispensabile della vita universitaria.
Particolarmente brutali furono i duelli universitari che aumentavano selvaggiamente in tempi di guerra, specie nelle guerre di Riforma e nella guerra dei Trent'anni.
Numerosi furono i divieti delle università al "duello selvaggio" - ovviamente con scarso successo -: in ordine cronologico lo Statuto di Erfurt, la decisione del rettore di Heidelberger, l'Editto di Wittenberg sul duello, il Mandato sul duello di Jena.
Allora le autorità universitarie, inascoltate, provarono ad orientare il combattimento studentesco verso l'uso di regole con la speranza di ridurre, attraverso una migliore formazione, il numero dei feriti. Fu così che l'arte del combattere diventò nel corso del tempo una disciplina universitaria peculiare.
Accanto ai maestri di equitazione e di danza, molte università richiesero maestri di scherma: ad esempio, è documentata l'assunzione di maestri di scherma presso l'Università di Jena nel 1550, a Rostock nel 1560.
Danzare, cavalcare e duellare erano dunque esercitazioni universitarie precorritrici dello sport universitario attuale.
Nel frattempo alcuni maestri di scherma fondarono proprie associazioni sviluppando presto tecniche di combattimento comuni.
La necessità di regole
Nel suo autobiografico "Dichtung und Wahrheit", Johann Wolfgang Goethe descrive le sue lezioni di scherma prima a Francoforte e, dal settembre 1765, a Lipsia, dove si era spostato per dedicarsi allo studio del Diritto.
In un primo tempo lui e i suoi amici si esercitarono con armi di legno (bastoni); successivamente passarono alle armi d'acciaio munite di un guardamano "a canestro", e le lezioni si fecero più animate e divertenti. In seguito Goethe continuò a tirare di scherma ma non diventò mai un abile spadaccino.
Nuovo impulso verso una regolarizzazione del duello fu nel secolo XIX la codificazione di regole da parte delle università - un primo tentativo vero e proprio lo troviamo nel "Mandato sul duello" di Jena del 1684 - che stabilivano fra l'altro la necessità di una giusta causa, la presenza di secondi e arbitri e la condanna per crimine se le regole non venivano osservate.
Le dispute furono organizzate da delegati in luoghi convenuti e sempre piè disciplinate ottenendo, si sperava, una fermezza di carattere attraverso l'osservanza delle regole, considerata ben più importante del reale risultato schermistico.
Benchè il "duello selvaggio" fosse stato vietato severamente e disapprovato per i feriti e i morti che procurava, godette comunque di una certa accettazione sociale da parte di chi riteneva che uno studente potesse difendere con l'arma non soltanto la vita, ma anche il suo "onore".
Per quanto riguarda le armi da combattimento, gli studenti continuarono a utilizzare prevalentemente le "dagen" fino al XVIII secolo (anche se sono citati combattimenti con bastoni e fruste), che adottarono come elemento fisso dell'uniforme o dell'abito una volta divenuti persone autorevoli.
Circa i vari nomi attribuiti alle armi, in documenti fra cui uno statuto universitario, si trovano riferimenti riguardanti rispettivamente "Galanteriedegen" e "gladius consuetus".
Il termine "Raufdegen" venne utilizzato spontaneamente per indicare l'arma appuntita degli studenti facili alla "Rauferei", allo scontro, qui chiamato anche "duello selvaggio".
La facilità e la continuità con cui avvenivano questi scontri portarono man mano alla creazione di armi apposite con guardia ampia e lame più corte, aguzze, triangolari e prive di affilatura il cui obiettivo era infilzare l'avversario. Modifiche successive, che variavano in base alle aree geografiche, portarono all'uso generalizzato di un'arma corta con la guardia "a canestro" di dimensioni assai ridotte quindi poco protettiva, la punta smussata per evitare facili perforazioni e la lama affilatissima.
Furono questi i cambiamenti che portarono allo sviluppo delle "Mensurwaffen", armi da Mensur.
Nel frattempo, per impedire il dilagare del "duello selvaggio" fra studenti, nelle città degli stati tedeschi e dell'Impero Austro-ungarico venne vietato il porto d'armi, la cui concessione rimase invariata solo nel caso di viaggi extraurbani.
Tali innovazioni portarono a stabilire norme di comportamento (Komment) riservate agli studenti universitari delle varie confraternite locali.
Queste nuove leggi scritte per gli studenti delle rispettive università furono una prima forma di regolamento amministrativo studentesco.
L'evoluzione
All'inizio del XIX secolo, le università tedesche adottarono un codice di comportamento con priorità diverse di regione in regione.
Nella stesura venne considerato tra l'altro che...
malgrado fra gli studenti di teologia questi scontri godessero di grande popolarità, era sentita l'esigenza di rendere le cicatrici meno visibili per non rischiare la fine della carriera universitaria.
Ci si sofferma a riflettere sull'elevato pericolo di vita causato dalla Mensur; gli ultimi decessi avvennero a Jena e a Monaco negli anni 1840, l'ultimo scontro mortale fu nel 1860.
A Tèbingen, nel 1831, la Mensur era considerata una rappresentazione romantica tipica dell'epoca Biedermeier, tutta sentimentalismi e arcadiche situazioni rusticane.
I regolamenti erano differenti, tuttavia simili nei punti importanti come al giorno d'oggi, da università ad università.
Ecco alcuni esempi:
uno scontro durava anche dodici riprese;
uno scontro poteva concludersi in un quarto d'ora;
con un colpo inferto, lo scontro poteva essere interrotto;
un colpo andava a segno anche se la lama segnava soltanto gli abiti;
il piede posteriore doveva restare fermo;
lo scontro finiva per scadenza del termine, perchè si indietreggiava per paura, per ferimento con perdita di sangue;
la ferita doveva avere una certa dimensione;
ci si poteva servire di protezioni: un cappello simile al tipico copricapo universitario che, per gli studenti di teologia, era munito di un'ampia visiera più in là sostituito da occhiali senza lenti;
una sciarpa per salvare il collo e la carotide;
un guanto di cuoio (l'altra mano era fissata dietro i pantaloni), una fascia di seta per proteggere il braccio.
L'appartenenza a confraternite studentesche non era determinante per combattere.
Alcuni studenti lasciarono l'università senza mostrare un solo segno provocato da armi aguzze, perfettamente in linea col modo generale di pensare dell'epoca che poneva la rispettabilità al centro.
Tuttavia, relazioni contemporanee a quel periodo dicono che gli schermitori che raggiunsero l'obiettivo della Mensur ottennero un buon ritorno d'immagine non soltanto negli ambienti di studenti, ma anche in altre parti della popolazione.
Il Pastore Franz O. Goettinger parlò di atteggiamento nobile degli studenti che salvaguardavano la loro parola d'onore; del resto, era proprio la difesa dell'onore come segno esteriore del valore individuale che ci si aspettava da essi, secondo lo spirito del tempo.
Ancora oggi una valutazione della Mensur non riguarda solo gli aspetti tecnici come la qualità e la complessità dei colpi, ma giudica la consistenza di valori come l'onore e l'amicizia e caratteristiche individuali quali la personalità e il carattere. Un'eliminazione dovuta, per esempio, al solo ritrarsi istintivo del capo, è temuta ancora oggi più di una ferita fisica. Per riacquistare nuovamente credito lo schermitore "pusillanime" deve affrontare nuove Mensur. Nei casi più gravi di "vigliaccheria" viene ancora oggi radiato dalla Corporazione.
Tuttora sono due le forme di Mensur che prevalgono: quella tra due privati in cui le regole vengono stabilite attraverso un contratto personale; quella tra più confraternite, in cui le regole vengono stabilite dai delegati e dove i migliori combattono per tutti.
Ad esempio, l'immagine qui a fianco rappresenta una Mensur nei dintorni di Tubinga intorno al 1831, in cui i contendenti usano armi con il guardamano "a canestro".
Dal nazismo ad oggi
Si potrebbe pensare che chiunque praticasse la Mensur fosse attratto dall'ideologia di Hitler: no.
I nazisti, d'altra parte, non tolleravano le associazioni ben strutturate, quindi anche le confraternite studentesche erano combattute come possibili forze nemiche. Alcune di esse si adattarono ben presto alle regole imposte dal regime, una parte invece volle mantenere una posizione autonoma e intransigente, che portò ben presto ad accese rivalità fra gli studenti.
L'irremovibilitè dei "puristi" della Mensur che volevano mantenere la propria indipendenza dal nazismo li portò però all'isolamento.
Nel frattempo Hitler decretò che i tedeschi dovevano saper combattere per salvaguardare il proprio onore; a tutti gli studenti nazionalsocialisti tedeschi fu vietato praticare la Mensur e fu reso obbligatorio l'apprendimento della scherma; ben presto fiorirono circoli che la insegnavano, le Mensurwaffen furono escluse.
In quel clima, chi continuò a praticare la Mensur lo fece segretamente e con un gesto di sfida, accrescendone talora il fascino.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il combattimento della Mensur si è mantenuto segreto senza regole giuridiche.
Nel 1951, alcune requisizioni di armi da Mensur a due corporazioni studentesche di Goettingen da parte della polizia locale, hanno portato all'istituzione di un processo.
Il 19 dicembre dello stesso anno il Tribunale di Goettingen ha dichiarato che la Mensur non è un duello con armi mortali e che inferire una lesione corporale col consenso delle due parti come nella Mensur non è punibile e non è immorale.
La Corte Federale di Giustizia ha confermato il giudizio il 29 gennaio 1953 (Goettinger Mensurenprozess).
Per evitare l'incriminazione è dunque chiaro che:
- non bisogna combattere una Mensur per difendere l'onore
- si devono osservare regole e protezioni che escludano ferite mortali.
La situazione giuridica della Mensur è resa sorprendentemente simile ad altri sport da combattimento!
Nel 1954 il Tribunale Amministrativo di Hannover ha riportato l'attenzione sulla Mensur in seguito alla denuncia di due corporazioni studentesche (Corps Hannoverania Hannovre, Corps Teutonia Berlino): ad uno studente che si era dichiarato favorevole alla Mensur era stata rifiutata l'iscrizione alla Libera Università di Berlino. Questa decisione è stata revocata il 24 ottobre 1958 dal Tribunale Amministrativo Federale (BVerwGE 7/287).
La motivazione di salvaguardare il proprio onore sfidandosi alla Mensur non è più considerata valida dal 8 aprile 1953, quando i rappresentanti di alcune corporazioni studentesche (Kèsener Senioren-Convents-Verband, Weinheimer Senioren-Convent, Deutsche Burschenschaft e Coburger Convent) hanno promesso formalmente davanti all'allora Presidente della Repubblica Theodor Heuss che la natura del duello studentesco apparteneva definitivamente al passato.
L'ultima crisi della Mensur ha avuto il suo apice nel 1968, anche se i prodromi si erano avvertiti fin dai primi anni sessanta. In quegli anni di rinnovamenti sociali e culturali, le tradizioni avevano poco peso e così anche nella Mensur si è avvertita la necessità di qualche cambiamento. Nelle confraternite il combattimento è diventato facoltativo, le protezioni si sono parzialmente rinnovate ed estese talora anche alla mandibola inferiore.
Negli anni settanta alcune confraternite che volevano eliminare completamente il combattimento studentesco si sono sciolte, ma dagli anni ottanta si assiste ad un incremento d'interesse verso di esso, tanto che nel 2005 le confraternite che rendono la Mensur obbligatoria sono numericamente stabili.
Ella Loescher
http://blog.schermaonline.com/kasher/
schermaonline@libero.it
articolo originariamente pubblicato su www.schermaonline.com
Bibliografia:
Martin Biastoch, Duell und Mensur im Kaiserreich, SH-Verlag, Vierow 1995
Egon Eis, Duell, Geschichte und Geschichten des Zweikampfs, K. Desch Verlag, Mènchen 1971
Michael Gierens S.J., Ehre, Duell und Mensur, Darstellung und Begrèndung der christlich-ethischen Anschauungen èber Ehre und Ehrenschutz, Duell und Mensur auf Grund einer Synthese historischer, biblischer, juristischer, kanonistischer und philosophischer Erkenntnisse, Akademischen Bonifatius-Einigung, Congregazione curatrice della vita religiosa dello studente cattolico, Paderborn 1928
Jonathan Green, Armed and Courtegous, Financial Times magazine, 3. Januar 2004
Links
http://www.swordhistory.com
http://www.prager-arminia.de
http://www.die-corps.de
http://www.slesvigia-niedersachsen.de
http://www.jonathan-green.com
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samedi, 30 août 2008
Conflictmaatschappij en nationaal gevoel
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Du symbolisme de la hache

Du symbolisme de la hache
Le terme "hache" ("ascia" en italien) existe dans nos langues de manière quasi inchangée au cours des millénaires. Il correspond effectivement au terme latin "ascia", qui dérive de la forme indo-européenne *aksi/*agwesi, que les linguistes ont reconstituée sur base de comparaisons entre le terme latin et le terme gothique "aqizi", le terme de vieil haut allemand "ackus" (en allemand moderne "Axt", en anglais "ax", "adze") et le grec "axi(on)". Il me semble nécessaire de préciser cependant que cette forme est une forme indo-européenne occidentale; les linguistes ont également reconstitué la forme orientale, soit "*peleku", cette fois sur base d'une comparaison entre certaines formes linguistiques grecques et sanskrites. C'est ainsi que le pélican, à travers un processus assez intéressant, se voit assimilé à la hache, à cause de son grand bec caractéristique.
La hache revêt une importance énorme, comme en témoigne le passé archaïque des Indo-Européens. Adams et Mallory expliquent que, durant le néolithique, les haches, en Eurasie, étaient faites de silex ébréchés ou d'autres pierres capables d'être façonnées. En outre, il s'agissait généralement de haches plates; cependant, dans certaines cultures néolithiques plus tardives, on trouve rapidement des haches munies d'une perforation permettant d'y placer un manche. Ces haches sont qualifiées de "haches de bataille"; quand on les trouve dans des sépultures, comme par exemple celles de la céramique cordée (notamment dans les régions d'Europe septentrionale, où l'on parle de la "culture des haches de combat"), elles sont de toute évidence des instruments ou des armes considérées comme "viriles". Elles sont donc les emblèmes d'une société patriarcale et guerrière, car, comme l'a écrit Adriano Romualdi, "la culture nordique ne présente aucune trace de matriarcat: les idoles féminines sont absentes… la structure familiale est solide, les traditions de chasse et de guerre attestent d'une culture éminemment virile". Quant à E. Sprockhoff, il formule des observations extrêmement intéressantes sur la hache de guerre dans l'antique culture mégalithique; il assimile la hache primordiale au dieu du Tonnerre, qui, aux temps les plus reculés, était aussi le dieu du Ciel et du Soleil. D'après ce chercheur allemand, "on consacre à cette puissante divinité des haches d'ambre et d'argile, comme d'ailleurs des haches en miniature. Ainsi, la femme germanique a porté ultérieurement le marteau de Thor comme bijou, suspendu à une chaîne; de même, les populations nordiques de l'âge de la pierre le plus éloigné ont porté au cou cet ornement, en tant que perles d'ambre en forme de hache bipenne, symbole du dieu du Tonnerre et des jours, un dieu qui n'a plus de nom aujourd'hui pour nous. La hache de combat est tout simplement devenue le symbole de la plus haute divinité" (ex: "Die nordische Megalithkultur").
L'irruption de la hache de combat dans les régions du Sud et de l'Est, attestée par des découvertes archéologiques, montre comment se sont déroulées les différentes phases de pénétration indo-européenne; on les identifie évidemment aux pointes les plus avancées des conquêtes cimmériennes et tokhariennes: «Le témoignage concret de cette migration, écrit Romualdi, est l'arrivée subite en Chine d'une quantité d'armes occidentales, que l'on date en Europe entre 1100 et 1800 avant J. C., et qui n'avaient en Asie aucun antécédent». La hache est, en somme, le symbole du dieu céleste suprême et de l'esprit créateur de nos plus lointains ancêtres.
Alberto LOMBARDO.
(Etude parue dans La Padania, 14 octobre 2001 - http://www.lapadania.com ; trad. franç.: Robert Steuckers).
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vendredi, 29 août 2008
Technopol und maschinen-Ideologie

Technopol und Maschinen-Ideologien
Analyse: Neil POSTMAN, Das Technopol. Die Macht der Technologien und die Entmündigung der Gesellschaft, S. Fischer Verlag, 1991, 221 S., ISBN 3-10-062413-0.
Neil Postman, zeitgenößischer amerikanischer Denker und Soziolog, ist hauptsächlich für seine Bücher über die Fernsehen-Gefahren bei Kindern bekannt. In seinem Buch Das Technopol klagt er den Technizismus an, wobei er nicht die Technik als solche ablehnt, sondern die Mißbräuche davon. In seiner Einleitung, spricht Postman eine deutliche Sprache: Die Technik ist zwar dem Menschen freundlich, sie erleichtert ihm das Leben, aber hat auch dunkle Seiten. Postman: «Ihre Geschenke sind mit hohen Kosten verbunden. Um es dramatisch zu formulieren: man kann gegen die Technik den Vorwurf erheben, daß ihr unkontrolliertes Wachstum die Lebensquellen der Menschheit zerstört. Sie schafft eine Kultur ohne moralische Grundlage. Sie untergräbt bestimmte geistige Prozesse und gesellschaftliche Beziehungen, die das menschliche Leben lebenswert machen» (S. 10).
Weiter legt Postman aus, was die Maschinen-Ideologien eigentlich sind und welche Gefahren sie auch in sich tragen. Postman macht uns darauf aufmerksam, das gewisse Technologien unsichtbar sein können: so Postman: «Management, ähnlich der Statistik, des IQ-Messung, der Notengebung oder der Meinungsforschung, funktionniert genau wie eine Technologie. Gewiß, es besteht nicht aus mechanischen Teilen.
Es besteht aus Prozeduren und Regeln, die Verhalten standardisieren sollen. Aber wir können ein solches Prozeduren- und Regelsystem als eine Verfahrensweise oder eine Technik bezeichnen; und von einer solchen Technik haben wir nichts zu befürchten, es sei denn, sie macht sich, wie so viele unserer Maschinen, selbstständig. Und das ist der springende Punkt. Unter dem Technopol neigen wir zu der Annahme, daß wir unsere Ziele nur erreichen können, wenn wir den Verfahrensweisen (und den Apparaten) Autonomie geben. Diese Vorstellung ist um so gefährlicher, als sie niemand mit vernünftigen Gründen gegen den rationalen Einsatz von Verfahren und Techniken stellen kann, mit denen sich bestimmte Vorhaben verwirklichen lassen. (...) Die Kontroverse betrifft den Triumph des Verfahrens, seine Erhöhung zu etwas Heiligem, wodurch verhindert wird, daß auch andere Verfahrensweisen eine Chance bekommen» (S. 153-154).
Weiter warnt uns Postman von einer unheimlichen Gefahr, d. h. die Gefahr der Entleerung der Symbole. Wenn traditionnelle oder religiöse Symbole beliebig manipuliert oder verhöhnt werden, als ob sie mechanische Teilchen wären, entleeren sie sich. Hauptschuldige daran ist die Werbung, die einen ständig größeren Einfluß über unseres tägliche Denken ausübt und die die Jugend schlimm verblödet, so daß sie alles im Schnelltempo eines Werbungsspot verstehen will. Um Waren zu verkaufen, manipulieren die Werbeleute gut bekannte politische, staatliche oder religiöse Symbole. Diese werden dann gefährlich banalisiert oder lächerlich gemacht, dienen nur noch das interressierte Verkaufen, verlieren jedes Mysterium, werden nicht mehr mit Andacht respektiert. So verlieren ein Volk oder eine Kultur ihren Rückengrat, erleben einen problematischen Sinnverlust, der die ganze Gemeinschaft im verheerenden Untergang stoßen. Postmans Bücher sind wichtig, weil sie uns ganz sachlich auf zeitgenößischen Problemen aufmerksam machen, ohne eine peinlich apokalyptische Sprache zu verwenden. Zum Beispiel ist Postman klar bewußt, daß die Technik lebenswichtig für den Menschen ist, denunziert aber ohne unnötige Pathos die gefährliche Autonomisierung von technischen Verfahren. Postman plädiert nicht für eine irrationale Technophobie. Schmittianer werden in seiner Analyse der unsichtbaren Technologien, wie das Management, eine tagtägliche Quelle der Deligitimierung und Legalisierung der politischen Gemeinschaften. Politisch gesehen, könnten die soziologischen Argumente und Analysen von Postman eine nützliche Illustration der Legalität/Legitimität-Problematik sein (Robert STEUCKERS).
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jeudi, 28 août 2008
Brève note sur Heimito von Doderer

Brève note sur Heimito von Doderer
Né le 5 septembre 1896, sous le nom de Franz Carl Heimito, Chevalier von Doderer, à Hadersdorf-Weidlingau et mort à Vienne le 23 décembre 1966, Heimito von Doderer fut un écrivain autrichien, fils d'un architecte et entrepreneur de travaux de construction. Il a servi comme aspirant dans un régiment de dragons pendant la première guerre mondiale. Il a été prisonnier pendant quatre ans en Russie [ndt: plus exactement, en Sibérie]. En 1920, il revient en Autriche, où il étudie l'histoire à Vienne, notamment sous la férule du Chevalier Heinrich von Srbik [ndt: et obtient son diplôme en 1925]. Sous la forte influence d'Albert Paris Gütersloh, il tente de s'initier au difficile métier d'écrivain. Il a commencé, ainsi, mais sans grand succès, par publier des poèmes, de brèves nouvelles et des romans. En 1933, il adhère à la NSDAP, qui est interdite en Autriche à l'époque, mais la quitte en 1938. Cette année-là, il accède enfin à une plus vaste notoriété grâce au roman Ein Mord den jeder begeht. En 1940, après sa conversion, il est accepté au sein de l'Eglise catholique. Pendant la seconde guerre mondiale, il sert en tant qu'officier de la force aérienne. Finalement, il acquiert la gloire par la publication de deux grands romans à thématique sociale, Die Strudlhofstiege (1951) et Die Dämonen (1956).
La prose de Doderer se caractérise par une langue imagée, totalement inédite. Une série de motifs revient sans cesse dans son écriture, dont une critique systématique du progrès technique et de la civilisation moderne des grandes métropoles; Doderer rejette aussi tous les linéaments de l'ère des masses, qui empêchent, dit-il, le déploiement optimal de l'individualité personnelle. Il écrit, à ce propos: «Celui qui appartient aux "masses", a d'ores et déjà perdu la liberté et peut s'installer où il veut».
Une adhésion à la plénitude complète du réel
[ndt: Le style littéraire de Doderer est largement influencé par Marcel Proust et Robert Musil, dans la mesure où, tout entier, il part, lui aussi, à la "recherche du temps perdu"; chez lui, cette recherche vise à retrouver les innombrables fractions de bonheur de l'Autriche-Hongrie d'avant 1914, en replongeant dans l'histoire sociale des hommes et des familles. Pour Doderer, le chaos de la société moderne exprime la crise de l'universalité, raison pour laquelle la tâche de l'écrivain doit être d'esquisser une nouvelle universalité, qui n'est évidemment pas un universalisme idéologique à côté d'autres universalismes idéologiques, mais une adhésion à la plénitude complète du réel, comme on l'éprouvait généralement sans détours dans l'ancien empire danubien austro-hongrois. L'homme universel n'est pas un modèle abstrait, taillé sur mesure une fois pour toutes, mais un être qui se manifeste sous des "variations multiples". En revanche, plongé dans le carcan étroit d'une "réalité seconde", faite de restrictions mutilantes de nature idéologique, il perd et son universalité et ses variations pour n'être plus qu'un instrument au service des pires barbaries politisées de l'histoire. Heimito von Doderer dénonce l'idiotie immanente de toutes les positions doctrinaires, quelles qu'elles soient. En cela, Doderer est disciple de Hoffmansthal, qui disait: «L'idiotie, comme l'indique l'étymologie de ce mot étranger, n'est rien d'autre que l'auto-limitation de l'homme par lui-même». Une telle posture implique de revaloriser les communautés humaines, avec leurs échelles variables de formes sociales et de classes, contre l'uniformité grise des sociétés totalitaires, plaide simultanément pour une restauration des qualités humaines contre les affres de la quantité (Musil, Guénon). Universalité, variété et qualité impliquent de ce fait de respecter et de conserver le jeu des interpénétrations créatrices entre les éléments contradictoires du réel prolixe pour unir l'esprit conservateur et l'esprit émancipateur dans une quête permanente de la "totalité" (Ganzheit) ou, comme on le dit plus justement aujourd'hui en philosophie, l'"holicité" - RS].
Dans les ouvrages de Doderer, nous trouvons donc trois concepts centraux, présentés sous des facettes diverses: celui d'"aperception" (Apperzeption), celui de "seconde réalité" (zweite Wirklichkeit) et celui du "devenir-homme" (Menschwerdung). Celui qui refuse de percevoir la réalité (telle qu'elle est), c'est-à-dire la réalité première, dit Doderer, fait éclore en lui, justement par ce refus de l'aperception, une seconde réalité, sous la forme d'une représentation fixiste (fixe Vorstellung) ou d'une idée-corset ou idée-cangue (Zwangsidee), ce qui correspond à une image du donné viciée par l'idéologie. Doderer considère que l'Etat totalitaire constitue une "seconde réalité" de ce type, de même que ces volontés révolutionnaires et fébriles de vouloir tout changer, que le primat accordé névrotiquement à la politique, que les complexes d'ordre sexuel, que les névroses et que l'attachement forcené à certains systèmes et ordres.
La vie telle qu'elle est
Une bonne partie des personnages de l'univers romanesque de Doderer sont en lutte contre les formes de "seconde réalité". Les dépasser n'est possible que par un processus de "devenir-homme", soit par le fait que l'homme revient ainsi à sa véritable destination, en s'ouvrant, de manière inconditionnelle, à la première réalité, la seule vraie, qui, pour Doderer, est la vie civile naturelle, sans fard et sans excitations artificielles. Dans ce contexte, Doderer se réclame "de la vie telle qu'elle est" et nous enjoint de l'accepter. Il faut dès lors se détourner des fixismes idéologiques —qu'il désigne comme les "hémorroïdes de l'esprit"— des convictions et des idéaux qui sont soi-disant sublimes, pour s'adonner à l'aperception pleine et entière du réel. Cette aperception est essentiellement conservante —ici, Doderer articule clairement sa position— car celui qui adopte cette position ne souhaite pas voir modifier ce qu'il aime réceptionner par "aperception" et se trouve autour de lui. Raison pour laquelle Doderer dit: «L'attitude fondamentale de l'homme apercevant est conservatrice».
Dr. Ulrich E. ZELLENBERG.
(extrait de "Lexikon des Konservatismus" - Caspar v. Schrenck-Notzing /Hrsg. - Leopold Stocker Verlag, Graz, 1996 - ISBN 3-7020-0760-1; trad. franç.: Robert Steuckers).
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mercredi, 27 août 2008
Citaat Max Horkheimer

"De deugdelijkheid van de eigen identiteit in een kwaad daglicht stellen en als racisme bestempelen, is een opvallend voorbeeld van verstandsverbijstering van de rede."
Max Horkheimer
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De la guerre dans le cyberspace

De la guerre dans le “Cyberspace”
Entretien avec le journaliste Stefano Silvestri, expert militaire, sur la cryptographie, la sphère privée et la sécurité sur le net
Q. : Professeur Silvestri, au cours de cette dernière année 1998, on a beaucoup parlé, sur le net et ailleurs, du projet “Echelon”, élaboré par l'agence américaine NASA, dans le but de contrôler toutes les communications téléphoniques, y compris les fax et les courriers électroniques, même en dehors d'Amérique et, surtout, en Europe. D'après certains observateurs, il s'agirait en fait d'une légende colportée sur le net; pour d'autres, en revanche, cette intrusion est une donnée fondamentale, comme l'explique l'intérêt qu'y portent les organismes officiels de la Communauté Européenne; cet intérêt semble prouver qu'il ne s'agit donc pas d'une “légende”. Qu'en dites-vous?
StS : Je dis que le contrôle des communications a toujours grandement focalisé l'attention des agences d'information américaines. En ce qui concerne les simples communications téléphoniques, leur contrôle est déjà un fait acquis depuis longtemps. L'attention actuelle, portée à internet, n'a fait que croître ces derniers temps, d'abord dans l'intention de contrôler les aspects de cette technologie qui ont bénéficié à la criminalité —je pense notamment à la pornographie— ensuite dans l'intention de protéger les informations confidentielles contre les interventions des “hackers”, les pirates de l'informatique. Dans ce double contexte, est née l'idée qu'il faudra contrôler toujours plus étroitement les communications. Le problème qui se pose est, tout naturellement, de savoir si un tel contrôle est légitime ou non, et dans quelle mesure, car les communications sont en théorie ouvertes, car elles ont été créées pour être et demeurer ouvertes, pour être lues de tous, comme c'est le cas sur la grande toile. Mais si elles sont lues par tous, elles peuvent l'être par les agences de sécurité. Cette évidence est moins légitime, voire totalement illégitime, si l'on parle d'informations confidentielles, de quelque forme que ce soit, de quelque manière qu'elles soient cryptées, même si elles ne sont que de simples communications téléphoniques. S'il existe une tutelle, ou des garde-fous, pour ce qui concerne les communications à l'intérieur d'un Etat, il n'existe aucune protection juridique pour les communications internationales.
Q. : Je vais émettre une hypothèse, faire un saut en avant dans le temps, disons de dix ans, ce qui nous amène en l'an 2009. On peut prévoir, sur base de ce qui se passe aujourd'hui, que les autoroutes de l'information acquerront une importance encore plus importante d'ici ces dix années. A quoi ressembleront ces autoroutes de l'information, seront-elles plus libres ou plus contrôlées? Quelle forme prendra, selon vous, la lutte pour le contrôle et la surveillance des informations et surtout pour la protection de la sphère privée?
StS : Ce n'est pas facile de faire des prévisions, parce que le net, tel qu'on le connaît aujourd'hui et tel qu'il s'est développé jusqu'ici, se base sur l'idée d'une liberté complète d'informer et de faire circuler des informations. Mais la multiplication des phénomènes de nature criminelle a forcé les autorités à élaborer des systèmes plus complexes de contrôle. Je crois donc que cette lutte continuera. Vous savez qu'il existe des organisations à l'intérieur même de la grande toile qui s'opposent d'ores et déjà, par principe, à toute forme de contrôle, même limitée, parce qu'elles estiment que tout type de contrôle finit par bloquer la communication. Je retiens personnellement qu'il faut certaines formes de contrôle, s'il n'y a pas moyen de faire autrement. Il faut réussir pour le net ce qui se passe déjà pour les communications téléphoniques internationales : parvenir à généraliser un contrôle sur les thèmes et les mots clefs. De ce fait, je ne pense pas que nous aurons nécessairement plus ou moins de liberté, mais que nous aurons une situation différente, où deux phénomènes prendront parallèlement de l'ampleur : l'élargissement de la grande toile, c'est-à-dire un accroissement de liberté, mais aussi, simultanément, une “intrusivité” accrue de la part de certaines agences étatiques.
Q. : Quels instruments pourra-t-on utiliser pour maintenir la sphère privée dans une situation de ce genre?
StS : Partiellement, la sphère privée est reliée à ce qui se met sur la toile. Il est dès lors évident que ce qui est présent sur la toile peut être lu, tandis que les choses qui n'y sont pas de manière évidente, ne peuvent pas être lues. Par conséquent, on sera tenté de ne pas dire certaines choses sur la toile elle-même. Par ailleurs, on pourra recourir à des systèmes de plus en plus sophistiqués de cryptage. Mais c'est une démarche beaucoup plus complexe, parce que tout système de cryptage peut être décrypté, sauf si l'on utilise un système supérieur d'élaboration de données. En conséquence, le problème, à ce niveau, est celui de posséder une capacité systémique à élaborer des données de manière plus rapide et plus puissante que les autres. Ce type de capacité, seuls les Etats les possèdent.
Q. : Quels sont les Etats qui ont les systèmes les plus puissants ?
StS : Essentiellement, les Etats-Unis. Nous en sommes arrivés au stade que les Etats-Unis, sur injonction de leur ministère de la défense, n'exportent jamais ces systèmes de sécurité complets, qu'ils élaborent chez eux pour le bénéfice du gouvernement américain, pour éviter d'affronter des systèmes de cryptage étrangers, difficiles à briser.
Q. : Si je vous comprends bien, nous avons affaire, d'une part, à un processus de globalisation et, d'autre part, à un retour au nationalisme, face au nouveau système mondial de communication…
StS : C'est un double processus qui survient toujours sur les marchés globalisés : au départ, on commence avec un maximum de liberté, puis, à un certain moment, on en arrive à développer des rapports de force. Dans le cas qui nous préoccupe, nous sommes face à un problème de rapports de force.
Q. : Nous avons donc affaire à une guerre dans le “cyberspace”, pour le contrôle des flux d'informations, mais est-ce une perspective bien réelle? Si oui, comme va-t-on la combattre et par quels moyens?
StS : Disons que cette idée d'une guerre dans le “cyberspace” reçoit beaucoup d'attention actuellement parce qu'elle se concilie parfaitement avec l'hypothèse que posent les Américains aujourd'hui, affirmant que nous assistons à une nouvelle révolution dans les affaires militaires. Ce que l'on considère désormais comme le système des systèmes consiste, pour l'essentiel, en une méthode électronique de contrôle des diverses armes, qui tend simultanément à utiliser aussi des systèmes de guerre non traditionnels: par exemple, le contrôle de l'information. Celui-ci revêt évidemment une importance cruciale en temps de guerre. Les médias donnent de fausses informations, ou n'en donnent pas, et réussissent ainsi à empêcher la circulation de certaines informations déterminées, ou à se substituer aux systèmes d'information nationaux des pays que l'on veut attaquer. Tout cela est théoriquement possible. Le contrôle peut également s'exercer sur les informations d'ordre technique, dans la mesure où nos nouveaux systèmes d'armement dépendent d'un certain flux d'information. Par exemple, les informations, en provenance de satellites, relatives aux positions géo-stationnaires, au climat, etc., peuvent se faire influencer d'une certaine manière, ce qui est aussi une façon de faire la guerre. Notamment l'intrusion, en provenance de l'extérieur, dans les systèmes d'information ou de sécurité, ou dans les systèmes de contrôle du trafic aérien, sont considérés comme des actes de guerre. De telles intrusions n'ont pas encore eu lieu; elles ne sont que de pures hypothèses, relevant de la science fiction ou du roman et non pas encore du réel. Mais il est évident que si un hacker peut perturber un ordinateur du Pentagone, celui-ci peut utiliser la même technique contre un tiers.
Q. : Par conséquent, dans l'hypothèse d'une guerre “informatique”, n'aurons-nous pas affaire à un problème se focalisant davantage sur les sources d'information?
StS : Effectivement, plusieurs problèmes se juxtaposent: un problème qui relève de la sécurité des sources, un problème quant à la “pureté” des informations et un problème de sécurité des informations. Sur le Vieux Continent, nous avons peu d'expériences, parce qu'en Europe, nos systèmes militaires sont archaïques, au pire, trop vieux en tout cas pour faire face à la nouvelle donne. Les Américains ont plus d'expériences parce qu'en fait leurs systèmes militaires utilisent certes d'anciennes techniques, comme les Européens, mais utilisent aussi la grande toile; ils ont donc une indéniable expérience dans la façon d'utiliser celle-ci, tant sur le plan défensif que, potentiellement, sur le plan offensif.
Q. : Pourriez-vous nous donner quelques exemples récents de conflits ou, plus généralement, d'événements de la politique internationale, où la lutte pour le contrôle de l'information dans le “cyberspace” a déjà eu un rôle d'une importance particulière?
StS : Je dirais que, pour l'essentiel, c'est encore une question de rapports de force entre les Etats-Unis, l'Europe et les autres pays. Exemple : nous avons affaire à un nouveau niveau dans l'utilisation des informations et des données recueils à la suite d'interceptions téléphoniques à la suite immédiate des attentats en Afrique contre les ambassades américaines; ce nouveau degré d'utilisation de la technologie s'utilise désormais pour repérer les groupes terroristes responsables de ces attentats. Ce niveau technologique en est encore au stade de la simple information. Par ailleurs, il y a toute une série d'exemples de guerre informatique mais ces cas sont surtout liés au monde industriel plus qu'au monde militaire ou à la sécurité pure. Ou bien l'on utilise les canaux informatiques libres ou couverts pour troubler la sécurité des industries.
Q. : Le “cyberspace”, par définition, est en quelque sorte “a-territorial”, ou, au moins, très éloigné du type de territorialité auquel nous sommes habitués dans le monde réel (et non virtuel). Existe-t-il dès lors une géopolitique du “cyberspace”. Et sous quelle forme?
StS : Le “cyberspace” constitue une négation de la géopolitique. Par suite, nous pouvons dire que nous sommes essentiellement confrontés à une question de frontières. Les frontières peuvent tout simplement se connecter, non pas aux médias, mais aux utilisateurs eux-mêmes. Nous pouvons dire qu'il existe une géopolitique du “cyberspace” dans la mesure où nous trouvons plus d'utilisateurs concentrés dans une région du monde que dans une autre. Ce qui nous donne une forte concentration aux Etats-Unis, une concentration en croissance constante en Europe et une concentration très réduite et éparpillée en Afrique. Autre hypothèse : on pourrait développer des catégories géopolitiques reposant sur la capacité technologique à intervenir dans le “cyberspace”, capacité qui coïncide dans une large mesure avec la zone où l'on utilise de la manière la plus intense ces technologies et où celles-ci sont par conséquent les plus avancées. Je crois que j'ai énuméré là les principales catégories, parce que, pour le reste, introduire des barrières à l'intérieur même du “cyberspace” équivaudrait à détruire le “cyberspace” lui-même. Et, en conséquence, cela signifierait ipso facto de détruire ce principe de liberté de circulation ou ce principe de grande facilité de circulation des informations, qui pose problème, mais qui est simultanément la richesse de cet instrument.
Q. : Existe-t-il des protocoles de réglementation entre les Etats en ce qui concerne le “cyberspace”?
StS : Non. Pas encore en tant que tels. Je dirais que ce qui va se faire tournera essentiellement autour du problème des contrôles. En d'autres termes: comment pourra-t-on générer des coopérations pour éviter l'augmentation de la criminalité dans ce nouveau moyen de communication qui, comme tous les médias, peut évidemment se faire pénétrer par les réseaux criminels. Tous ces problèmes sont liés au fait que le “cyberspace” est par définition extra-territorial. En tant que tel, toutes les interventions à l'intérieur de ce cyberspace, mises à part les interventions sur un opérateur singulier, sont des interventions forcément transnationales. A l'échelon national, une intervention est possible, mais elle fait automatiquement violence à des tiers. Des romans commencent à paraître qui prennent pour thème de tels sujets. Tom Clancy est de ceux qui s'occupent ainsi de la grande toile; il a inventé une police américaine fictive qui s'appelle “Net Force” mais qui n'a pas une fonction seulement protectrice et judiciaire, mais se livre à des actions offensives et défensives à l'intérieur même du “cyberspace”. En Europe, nous n'en sommes pas encore là. Loin de là.
Q. : Pouvez-vous nous donner une définition de ce que l'on appelle un système de “cryptographie”?
StS : La cryptographie est un système visant à camoufler, à masquer, le langage. Vous prenez un mot et vous lui donnez une tout autre signification. Vous avez affaire là à un système de cryptographie banale. Les systèmes de cryptographie ont crû en importance, au fur et à mesure que les communications, elles aussi, ont acquis de l'importance. Ainsi, au fur et à mesure que les opérations militaires proprement dites se sont mises à dépendre toujours davantage du bon fonctionnement des communications, la cryptographie est, à son tour, devenue très importante. C'est clair : tant que les communications se faisaient entre le commandant des forces sur le terrain et, par exemple, le peloton de cavalerie qu'il avait envoyé en reconnaissance, la communication se voyait confiée à un messager et la cryptographie n'avait pas beaucoup de sens. Pour l'essentiel, il suffisait que le messager comprenne bien ce que le commandant lui disait et le répète correctement. Petit à petit, quand les opérations sont devenues plus globales, on a commencé à utiliser des systèmes plus complexes, mais qui risquaient d'être interceptés ou décryptés comme la radiophonie. La cryptographie était devenue nécessaire. Pendant la seconde guerre mondiale, la cryptographie a joué un rôle fondamental. Les alliés ont réussi à décrypter le système allemand de cryptographie. Cela leur a procuré un gros avantage stratégique, pendant toute la durée des hostilités. Pendant la guerre froide également, la capacité de pénétrer les systèmes de communication de l'adversaire a eu une importance capitale. Dans cette guerre, la capacité des Américains à parfaire ce genre d'opération était supérieure à celle des Soviétiques, ce qui a donné, in fine, l'avantage aux Etats-Unis. Aujourd'hui, la guerre des cryptographies continue tant dans la sphère économique que dans celle du militaire. La guerre actuelle dépend largement des nouveaux systèmes de cryptographie, lesquels sont désormais intégralement basés sur l'informatique. Plus l'ordinateur est rapide et puissant, plus le logarithme est complexe, sur base duquel on crée la cryptographie des phrases, et, finalement, l'ensemble du système est le plus fort. Les super-ordinateurs américains sont nés, partiellement, pour être capables de gérer les opérations de la Nasa dans l'espace, mais aussi, pour gérer de nouveaux systèmes de cryptographie.
Q. : Par conséquent, les systèmes de cryptographie, comme le soutient le département de la défense aux Etats-Unis, peuvent se considérer véritablement comme des armes?
StS : Ils font assurément partie du système de sécurité et de défense d'un pays. Ils constituent une arme offensive dans la mesure où ils peuvent potentiellement pénétrer le système de communication de l'ennemi, et constituent aussi une arme défensive, car ils empêchent l'ennemi de pénétrer leurs propres systèmes. A ce système de cryptographie s'ajoutent les autres systèmes spécialisés mis en œuvre. La combinaison des divers types de systèmes donne un maximum de sécurité.(entretien paru dans Orion, n°179/août 1999; trad. franç.: Robert Steuckers).
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mardi, 26 août 2008
Pour un populisme offensif!

Pour un populisme offensif!
Le terme “populisme” désigne tous les mouvements politico-sociaux qui dérangent et qui ne sont pas assimilables à la gauche classique, au nationalisme traditionnel ou à une forme ou une autre de néo-fascisme ou de néo-nazisme. Le “populisme” est un mouvement politique qui s'adresse directement au peuple, qui est animé par des hommes et des femmes qui sont eux aussi directement issus du peuple, qui, avant de passer à l'action politique, n'appartenaient à aucun réseau "traditionnel”, à aucun parti en place. Le populisme, c'est la spontanéité populaire, c'est la réaction directe du peuple, de la population, surtout dans les grandes villes où, justement, les attaches avec les réseaux partisans conventionnels se sont relâchées et où cette population, venue généralement des quatre coins du pays, ne se reconnaît plus dans les agences politiques de l'établissement.
Le peuple, c'est avant toute chose, les hommes et les femmes qui doivent travailler chaque jour pour gagner leur vie, c'est l'ensemble de ceux qui ne sont pas sûrs du lendemain, que guette le spectre du chômage, ce sont aussi ceux qui n'ont pas la garantie de l'emploi et qui sombrent parfois dans ce chômage désormais omniprésent et dans ses humiliations: faire interminablement la file à la CAPAC pour ne demander rien que son droit le plus strict à des apparatchiks grossiers, subir la scandaleuse tracasserie du pointage, quémander un emploi auprès de fonctionnaires qui se fichent de votre destin et de votre misère comme un poisson d'une pomme. En latin, travailler se dit laborare, ce qui veut également dire souffrir. Le populisme est donc l'idéologie de ceux qui travaillent donc qui souffrent.
Car, chacun le sait, travailler sans souci du lendemain n'est plus une évidence aujourd'hui. Depuis plus de vingt ans, l'incompétence et l'insouciance des partis en place, des coalitions rouges-romaines ou bleues-romaines, a plongé le pays dans une basse conjoncture aux effets négatifs devenus permanents. L'ensemble de la population est appauvri sur fond d'une dette publique colossale, qui fait que chacun d'entre nous, du nourrisson au centenaire et immigrés compris, est endetté pour un million de francs! Cette situation malsaine, la plus malsaine d'Europe en ce qui concerne l'endettement public, fait que le chômage frappe les jeunes, qui ne fondent plus de famille, qui n'ont plus d'enfants, qui vivent dans la précarité et l'instabilité financière, qui sont exclus des circuits du travail, qui alimentent les effectifs de la “nouvelle pauvreté”. Notre pays perd sa population tout simplement parce que les générations ne se renouvellent plus, le mal-vivre ne permettant pas de voir la vie en rose, de cultiver la sérénité qu'il faut avoir pour élever des enfants. Dans une vingtaine ou une trentaine d'années, notre pays sera un gigantesque hospice, financé par une poignée de personnes qui travailleront encore.
L'établissement nous dit: «Mais ce sont les immigrés qui payeront nos pensions...». Ce discours est malhonnête. D'abord pour les immigrés eux-mêmes qui songent tout naturellement aux leurs d'abord, à éduquer leurs propres enfants, et non pas à financer les pensions d'une population qui leur est étrangère et à qui ils reprocheront d'avoir élu de mauvais bergers. Enfin, les immigrés, même ceux qui sont les mieux payés, touchent des bas salaires et ne paient pas suffisamment d'impôts pour financer une aussi gigantesque machine. Ensuite, précarisés eux-mêmes dans un pays qui leur a promis monts et merveilles et ne leur a donné que le chômage, les immigrés font aussi de moins en moins d'enfants. Donc ceux sur qui nos lamentables escrocs comptent pour payer nos pensions, n'existeront tout simplement pas, parce qu'on n'aura pas eu le cœur de les engendrer! Il y a ensuite tout lieu de croire que les flux migratoires vont s'inverser: ne trouvant plus d'emplois stables chez nous, les allocations se faisant de plus en plus congrues, étant de plus en plus bouffées par l'inflation, les jeunes immigrés vigoureux et courageux iront chercher un destin ailleurs, dans des pays où la conjoncture est haute.
Le bilan de tout cela, c'est que personne n'a été intégré: ni les autochtones ni les immigrés. La source de notre malaise, c'est effectivement que les recettes de l'établissement ne permettent plus aucune forme d'intégration sociale. On le constate aisément: les statistiques et les travaux d'observation des grands instituts européens, comme l'OCDE, parlent sans arrêt d'une désagrégation de la société, démontrent que les immigrés sont les premières victimes du chômage donc qu'ils ne sont nullement intégrés et risquent de rester inintégrables, vu le manque de moyens. Tel est donc le langage que nous tient l'OCDE, qui constate la faillite de toutes les formes d'intégration sociale pour les autochtones comme pour les immigrés; mais au lieu de prendre cette misère à bras le corps, de chercher des solutions réalisables, de fixer des projets clairs, satisfaisants pour tous, l'établissement esquive les vrais problèmes et camoufle ses carences derrière un formidable battage publicitaire et médiatique où l'on ne parle plus que d'intégration et où l'on promet le purgatoire et l'enfer à tous ceux qui oseraient douter de l'opportunité de ce miroir aux alouettes.
Personne ne peut être hostile à la notion d'intégration et nous ne le sommes pas a priori, car nous aimerions que chaque concitoyen, que chaque étranger qui est notre hôte, ait son boulot, son atelier, puisse travailler selon son cœur et ses aptitudes. Animés comme tous les populistes par une volonté sincère de donner à chacun son dû, nous sommes tout simplement hostiles aux prometteurs de beaux jours, aux charlatans et aux menteurs: cette intégration tous azimuts n'est malheureusement plus possible et le sera encore moins demain. Nos enfants ne sont déjà plus pleinement intégrés à la société dans laquelle ils vivent et les enfants des immigrés risquent bien de connaître un sort pire, même s'ils ont réussi de brillantes études, comme certains sont en train de le faire.
Pour reprendre un vieux slogan socialiste, les “damnés de la terre” sont revenus à l'avant-plan. Et ces “damnés de la terre”, c'est nous! Cette position peu enviable postule d'organiser la résistance et de s'opposer rationnellement et efficacement à tous ceux qui jouissent de privilèges indûs dans notre société, qui bénéficient de pensions exagérément élevées, qui ne subissent pas le principe du cumul des époux et/ou des cohabitants dans la fiscalisation des pensions, qui bénéficient de clauses de stabilité d'emploi dont les salariés ne bénéficient plus et dont les indépendants ne peuvent que rêver, qui ont obtenu des emplois dans la fonction publique en dépit de l'inutilité de ces postes. La priorité doit être redonnée en matières d'emploi et de lois sociales à tous ceux qui travaillent dans la précarité, qui doivent lutter âprement, chaque jour que Dieu fait, pour vivre, qu'ils soient indépendants ou salariés.
Car se déclarer “populiste”, c'est marquer une volonté d'aller au réel et de ne pas vouloir transformer le monde d'après une idéologie toute faite, d'après des planifications qui ne masquent que très mal les intentions idéologiques de leurs auteurs. En effet, le peuple est un tout complexe, composé de personnalités et d'individus très différents les uns des autres. Développer un discours ou une action populistes ne signifie pas une volonté de mettre au pas ces innombrables différences entre les personnes, mais constater que celles-ci ne peuvent plus déployer leurs originalités, exercer leurs compétences, si le pays est mal gouverné, si l'endettement jugule toutes les initiatives intelligentes. Aussi différentes que soient les personnes qui composent notre peuple, elles partagent une sorte de destin, de fatalité: elles vivent non seulement sur un même espace géographique mais aussi sous un seul régime politique qui finit par les exclure du marché du travail, par leur confisquer leur liberté de créer, par les ligoter dans leur élan par une fiscalité qui sert avant tout à nourrir les suppôts fonctionnarisés du régime ou à payer les intérêts pharamineux de la dette. La démocratie, qu'il ne s'agit pas de nier ici, a prévu l'alternance: si un gouvernement ou une coalition ne donne pas satisfaction, il faut mettre les meilleurs challengeurs au pouvoir, s'ils sont choisis par le peuple. En rendant nulle et non avenue la séparation des trois pouvoirs, en nommant les magistrats en dépit de l'indépendance que devrait avoir le pouvoir judiciaire, en rendant la séparation entre le législatif et l'exécutif illusoire à cause du poids des partis et des chefs de parti, le régime a perdu sa légitimité démocratique: le recours au peuple, à ces innombrables différences qu'il recèle, devient donc une nécessité. Il faut inventer de nouveaux mécanismes de pouvoir ou en réexhumer dans nos traditions politiques.
Le régime se défend, bien évidemment. Il veut conserver la non-démocratie qui le maintient au pouvoir et empêcher tout recours au peuple réel.
- D'où des trains de lois qui décrèteront “raciste” toute question relative au bien-fondé, à l'utilité ou à l'efficacité de l'immigration (répétons-le: nous sommes hostiles au mécanisme économique qui consiste à recourir à l'immigration, nous déplorons la non-intégration de masses immigrées et juvéniles désœuvrées, nous déplorons la petite criminalité qui en découle en en rendant prioritairement responsable le pouvoir et non pas les délinquants, nous refusons toute démarche qui serait a priori hostile à des personnes en vertu de leurs appartenance à une race ou à une religion autres que celles de la majorité de la population).
- D'où les tentatives de juguler l'action des syndicats qui débordent leur encadrement dévoué d'une façon ou d'une autre au pouvoir, notamment aux partis socialistes.
- D'où la suppression subtile de la liberté de la presse par un contrôle systématique des rubriques “courrier des lecteurs”.
- D'où l'augmentation scandaleuse des tarifs postaux pour les éditeurs de revues indépendantes, qui pourraient préparer des équipes à reprendre les affaires en mains (c'est là une manière de ruiner les audacieux qui osent faire usage de leur droit à la parole).
- D'où la déconstruction systématique de l'enseignement, de façon à raréfier l'esprit critique dans les nouvelles générations: l'enseignement gratuit de qualité avait été un des plus beaux acquis démocratiques de ce siècle; le pouvoir est en train de le démonter pour faire de nos enfants un vulgaire troupeau de moutons de Panurge, taillable et manipulable à souhait. C'est la raison pour laquelle les populistes doivent défendre les enseignants et l'enseignement.
Le populisme peut recevoir une interprétation de gauche ou une interprétation de droite. Il est de gauche quand il prend appui sur des injustices sociales flagrantes, quand il vient d'une base ouvrière lésée, quand il prend racine dans des comités de quartiers. Il est de droite quand il veut dépasser les divisions naturelles de la société en mythifiant l'unité de destin des personnes et en évoquant ainsi l'unité mythique de la Nation, quand il se range derrière la bannière d'un chef politique charismatique ou d'une élite de notabilités traditionnelles. Mais les frontières entre populisme de gauche et populisme de droite sont floues et poreuses. Le peuple dans sa plénitude et dans ses différences transcende le clivage d'une gauche ou d'une droite: le peuple est un, il n'y a pas deux demi-peuples.
Le populisme, répétons-le, n'est pas une idéologie pré-fabriquée que l'on plaquerait sur une réalité mouvante et rétive. Le populisme, c'est le recours à la réalité quotidienne.
Dans notre contexte, celui des dix-neuf communes de la Région de Bruxelles-Capitale, la réalité quotidienne ne fonctionne plus correctement parce qu'une immigration incontrôlée, avec beaucoup de clandestins, ne parvient pas à s'intégrer, parce qu'un urbanisme délirant chasse les hommes de chair et de sang pour faire place aux bureaux et aux administrations eurocratiques, parce que la convivialité disparaît. L'immigration n'aurait pas posé beaucoup de problèmes si nos dirigeants avaient respecté scrupuleusement les clauses des accords belgo-marocains, prévoyant des contrats de travail pour cinq ans seulement, sans regroupement familial, dans cinq secteurs précis de l'industrie. Pacta sunt servanda, les traités (pactes et accords) doivent être respectés, dit l'adage latin. Quand les Belges se plaignent de l'immigration, c'est ce que leur répondent les autorités marocaines: si vous aviez respecté nos accords à la lettre, l'immigration n'aurait pas posé de problèmes, vous n'avez donc qu'à vous en prendre à vous-mêmes. Les débordements d'une jeunesse immigrée déboussolée, la non-intégration, le taux de chômage des immigrés sont des effets pervers de la négligence de nos gouvernants et non pas des immigrés ou des autochtones qui seraient brusquement devenus des “racistes”. L'afflux d'immigrés et d'eurocrates, couplé à un urbanisme spéculateur et axé sur la seule construction de bureaux, fait augmenter considérablement le coût du logement à Bruxelles, l'espace se raréfie pour les familles et les enfants, la population de souche doit migrer vers les campagnes ou les communes périphériques du Brabant flamand ou wallon, ce qui fait disparaître la convivialité et monter la tension entre les plus démunis qui restent dans leur ville natale et les nouveaux arrivants qui ne comprennent pas pourquoi ils sont mal reçus.
Chômage, dette, urbanisme spéculateur, disparition de la convivialité ambiante, nécessité de respecter les traités signés pour réguler harmonieusement les flux migratoires: ce sont là autant de problèmes auxquels il s'agit désormais de donner une forme politique, non idéologique, réalitaire et populiste. En forgeant cette forme politique, nous donnerons de la substance à la protestation populaire contre les déraillements de l'établissement et des partis au pouvoir depuis des décennies et des décennies.
Les objectifs d'un nouveau populisme à Bruxelles:
- répondre aux problèmes de la vie quotidienne;
- opposer aux partis établis une logique du bon sens;
- libérer les énergies du peuple réel qui ont été brimées pendant trop longtemps.
Robert STEUCKERS.
(texte de 1999).
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lundi, 25 août 2008
Consolidons deux axes contre l'atlantisme!

Ugo GAUDENZI:
Consolidons deux axes contre l’atlantisme !
Depuis des années déjà, mon quotidien romain, “Rinascita”, milite, prêche et exhorte ses lecteurs pour aboutir à ce qui semble la seule et unique solution possible pour assurer la survie de notre Europe: l’union stratégique de l’Ouest et de l’Est du continent.
Cette unité de la “plus grande Europe” est une question de vie ou de mort: elle ne se réalisera que par la réactivation et la consolidation d’un nouvel “axe carolingien”, l’Axe Paris-Berlin-Moscou (ndt: remarquablement mis en exergue par Henri de Grossouvre en France), et par l’invention révolutionnaire d’une “alliance continentale-méditerranéenne”, d’un Axe Madrid-Rome-Belgrade-Moscou, capable de fermer les côtes méridionales de l’Europe à toute influence hostile émanant de l’atlantisme.
Telle est notre “utopie réalisable” (et, en partie, elle est déjà en voie de réalisation): construire un double axe géopolitique assurant la défense et la sécurité en Europe.
L’objectif, de fait, est de rendre la souveraineté aux Etats nationaux européens, qui ont été transformés, par les Anglo-Américains, en un chapelet de petites colonies satellisées. L’objectif, pour tous les peuples d’Europe, c’est de faire converger leurs forces, de les additionner et de les joindre à celles de la Russie, l’unique Etat national européen encore capable de donner à notre “plus grande patrie” un avenir dans l’unité sur tous les plans: culturel, social, économique et politique.
En dépit de toutes les vicissitudes, et même des vicissitudes négatives, jour après jour, année après année, notre vision commune s’est renforcée et n’a cessé de se renforcer en Europe. Notre voix, celle de “Rinascita”, n’est plus une voix qui crie dans le désert, mais une voix qui a suscité, en dehors de son vivier d’origine, un écho tangible et des analyses similaires, désormais partagées par de nombreux cercles et personnalités.
De l’effondrement du Mur de Berlin à nos jours, l’histoire européenne a enregistré et subi des offensives répétées contre son territoire. Par le miroir aux alouettes du bien-être occidental ou par les armes de l’OTAN, les fédérations des Etats d’Europe orientale, soit l’URSS et l’ex-Yougoslavie, ont été brisées, émiettées et fragmentées par l’offensive anglo-américaine et néo-libérale, agissant souvent par le biais de “révolutions oranges”, financées par des fonds issus de l’usure et de la finance.
Actuellement, les “fondations” et les groupes de pression occidentaux (Rockefeller, Agnelli, Trilatérale, Davos et autres) ont juré de détruire tous les Etats nationaux et tous les systèmes de protection sociale qu’ils ont mis sur pied, en faisant miroiter les délices d’un “fédéralisme” composé d’autonomies régionales, alors que leur objectif réel est tout entier contenu dans le vieil adage latin “Divide et impera” (“Diviser pour régner”), à appliquer, cette fois, à tout le globe, par ceux qui détiennent le maximum de pouvoir sur les plans politique et économique.
Mais voilà que l’attaque en direction du coeur de la Russie, attaque qui était censée constituer la manoeuvre principale dans la conquête définitive de l’Europe, vient d’échouer.
Le Kremlin a repris les rênes du pouvoir en ses terres propres. Il a utilisé les mêmes armes que les puissances atlantiques, le pétrole et l’énergie, mais sans avoir eu besoin, pour ce faire, d’envahir d’autres pays et de les occuper. Ainsi, le Kremlin est revenu à un “status quo ante” qui hisse à nouveau la Russie au rang de puissance planétaire et non plus régionale.
Pour le bien commun de toutes nos terres européennes, pour le bien de l’humanité toute entière, il faut qu’échoue la stratégie mondialiste qui, sous les oripeaux de la “globalisation économique” et sous la bannière du “libre marché”, cherche en réalité à imposer à toutes les nations la domination unipolaire des Anglo-Américains, orchestrée par la haute finance.
L’enjeu est énorme, extrême. Tellement extrême que, depuis 2001, Washington, prévoyant, pour sa puissance, l’émergence imminente de vents prochains très défavorables, a fait battre ses tambours de guerre, partout dans le monde.
Ces tambours, il faut les faire taire. Notre tâche, à nous Italiens, est de travailler à l’alliance méditerranéenne/continentale, à l’Axe qui nous unira à Moscou.
Ugo GAUDENZI.
(éditorial de “Rinascita”, Rome, 13 août 2008; trad. franç.: Robert Steuckers).
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Emigration blanche, fascismes russes, stalinisme

Emigration blanche, fascisme, stalinisme: approches nouvelles après la chute du communisme
Le généalogie des droites russes chez Walter Laqueur
par Robert STEUCKERS
L'impact des fascismes ouest-européens et du national-socialisme allemand a été important dans les cercles d'émigrés blancs pendant l'entre-deux-guerres. Le fascisme séduisait parce qu'il promettait des solutions rapides aux problèmes de l'époque, alors que les parlements, qui soumettaient tout à d'interminables discussions, étaient accusés de laisser «pourrir les situations». Ce culte de la «décision rapide», très présent dans les débats allemands de l'époque et dans les discours tonitruants de Mussolini, débordait les cercles restreints des fascistes russes purs et durs et séduisait des conservateurs, dont Struve, et des modérés, dont Timachev.
Pour propager ce double culte de l'autorité et de la vitesse de décision, plusieurs groupes ont vu le jour dans les années 20. Ils étaient surtout constitués de jeunes gens enthousiastes. Le plus petit de ces groupes était le «Mouvement des Jeunes Russes» (Mladorossitsy), dirigé par Alexandre Kassem Bek, issu d'une famille aristocratique d'origine persane, russifiée au cours du XIXième siècle. Emigré à Paris, Kassem Bek prend dès l'âge de 21 ans la tête d'un groupe d'étudiants blancs, réclamant l'avènement d'une monarchie totalitaire de type nouveau. Reprenant à leur compte tous les éléments du decorum fasciste, ainsi que la discipline qui caractérisait cette mouvance, les adeptes de Kassem Bek estimaient, nous explique Laqueur, que l'ancien régime ne pouvait plus être restauré, car il avait été rongé de l'intérieur par la décadence, le «bourgeoisisme» et le «philistinisme». L'effondrement de ce régime sous les coups des Bolcheviks était donc une punition largement méritée. L'apocalypse de 1917 et l'horreur de la guerre civile auraient donc eu des vertus purgatives, selon les partisans de Kassem Bek. Propos qui n'ont guère choqué les conservateurs comme Struve (qui ouvre aux «Jeunes Russes» les colonnes de sa revue) ni Cyrille, le prétendant au trône des Romanovs. Deux grands-princes adhèrent au mouvement.
Au culte de Mussolini et de Hitler, s'ajoute, curieusement, le culte de Staline. Ce dernier, affirmaient Kassem Bek et ses «Jeunes Russes», avait mis un terme à l'anarchie révolutionnaire, avait rétabli l'autorité de l'exécutif (concentrée entre ses mains) et donné congé à l'internationalisme. Kassem Bek plaidait dès lors pour une symbiose entre l'ordre ancien et l'ordre nouveau, pour une monarchie incarnée par le Grand-Prince Cyrille mais reposant sur les nouvelles institutions soviétiques: bref, pour une monarchie bolchévique!
Après une tentative de collaboration avec les nationaux-socialistes allemands, qui téléguidaient le ROND (un parti nazi russe établi à Berlin), le rapprochement tourna court: les Allemands reprochant aux Russes d'être des «nationaux-bolchévistes» et non d'authentiques «nationaux-socialistes». Xénophobes (mais pas officiellement antisémites; en pratique, pourtant, ils l'étaient), les «Jeunes Russes» reprenaient aux Eurasiens l'idée que la mission réelle de la Russie est en Asie, et que Moscou doit constituer un glacis pour la race blanche contre le «péril jaune». Mais Kassem Bek se méfiait des projets concoctés par les Allemands en Europe orientale: en 1939, il demande aux «Jeunes Russes» de soutenir la cause des alliés occidentaux et quitte l'Europe pour les Etats-Unis. En 1956, il revient à Moscou, y devient le secrétaire du Patriarche et meurt en 1977. Il aurait été un agent soviétique tout au long de sa carrière. Laqueur souligne (pp. 111-112) que les Soviétiques ont recruté bon nombre d'agents dans tous les milieux politiques de l'exil russe, y compris chez les Mencheviks, mais que seuls les Blancs fascisants ont été autorisés à rentrer au pays.
Parmi les idéologues autoritaires, monarchistes-bolcheviks, une figure sort du lot: celle d'Ivan Loukianovitch Solonévitch (1891-1953). Il a commencé sa carrière dans la presse radicale de droite avant la Révolution. Il quitte l'URSS en 1934, en franchissant clandestinement la frontière finlandaise, puis publie le récit de cette évasion, qui devient un best-seller international. Solonévitch devient alors journaliste dans la presse émigrée libérale et modérée. Puis, brusquement, il opère un virage à droite, qui le rapproche des cénacles conspiratifs animés par d'anciens lieutenants et capitaines de l'armée du Tsar. Il termine sa vie en Argentine. Son ouvrage politique majeur, Narodnaïa Monarkhiia («La Monarchie Populaire»), a été réédité à Moscou en 1991, et inspire quelques néo-monarchistes.
Les partis fascistes russes ont connu une brève existence en Allemagne, en Mandchourie et aux Etats-Unis dans les années 30. Le groupe le plus significatif était celui de Mandchourie. Il naît dans la faculté de droit de l'université locale, parmi les jeunes Blancs réfugiés là-bas. Le général tsariste Kosmine les soutient. Ils se regroupent d'abord dans l'«Organisation Fasciste Russe» (OFR), puis dans le «Parti Fasciste Russe» (PFR), et éditent deux revues: Nache Poute («Notre Voie») et Natsia («Nation»). De 1931 à 1945, année où l'armée rouge pénètre dans Kharbine, capitale de la Mandchourie, ce fut la figure de Konstantin Rodzayevski qui mèna le parti. Enthousiaste, fougueux mais naïf, il adopte fébrilement les colifichets à croix gammées des nationaux-socialistes allemands, donnant à sa formation des allures quelque peu carnavalesques. De plus, il dépend financièrement du bon vouloir des Japonais. Il espère une victoire de l'Axe Berlin-Tokyo, dont les armées, espère-t-il en dépit de son nationalisme russe, occuperont l'Union Soviétique et placeront à la tête de la nouvelle Russie dé-bolchévisée un «gouvernement national», dirigé évidemment par lui!
Concurrent de Rodzayevski en Mandchourie: l'Ataman Semionov, militaire conservateur, nullement attiré par les imitations du folklore nazi, parie sur la solidarité des Cosaques réfugiés en Extrême-Orient. En 1945, Rodzayevski et Semionov sont tous deux condamnés à mort dans un procès commun, assez expéditif. Et l'activiste du PFR introduit alors une demande pour rentrer au service de Staline, considéré comme «leader fasciste russe», et propose de réactiver ses réseaux pour en faire une «cinquième colonne» au bénéfice de la politique de Moscou. Sa demande n'a pas été retenue.
Aux Etats-Unis, un certain Anastase Vozniyatski fonde une «Organisation Fasciste Panrusse» (OFPR) en 1933, à Windham County dans le Connecticut, avec l'argent de son épouse, une millionaire américaine du nom de Marion Stephens, née Buckingham Ream dans une famille de négociants en bétail et en céréales. Malgré son argent, Vozniyatski n'a pas réussi en politique. La chronique de son mouvement ne révèle rien d'original ni d'extraordinaire.
Pendant les vingt premières années d'exil des Blancs et des anti-bolchéviques de toutes opinions, le mouvement qui, incontestablement, a connu le plus de succès, fut le NTS (in extenso: «Fédération Nationale du Travail de la Nouvelle Génération»). Ce mouvement d'inspiration solidariste et chrétienne-orthodoxe a tenu son premier congrès en 1930 et élu son président, W. M. Baïdalakov, un Cosaque du Don. Objectif: poursuivre le combat pour l'«idée blanche» sous une autre forme, adaptée aux plus jeunes générations. Le NTS travaillait très sérieusement, contrairement aux «Jeunes Russes» et aux groupuscules fascistes de Mandchourie. A peu près tous les deux ans, l'organisation tenait un congrès où l'on décidait des nouvelles orientations et où l'on fixait un nouveau programme. Son idéologie sociale était le solidarisme, un solidarisme qui se distinguait toutefois du solidarisme préconisé par les écoles politiques catholiques d'Europe occidentale. Ce solidarisme reposait sur une triade: idéalisme, nationalisme, activisme. L'idéalisme soulignait l'importance des idées pures et des valeurs, formes permanentes et indépassables dans le monde effervescent de la politique. Le nationalisme indiquait que ces valeurs s'inscrivaient toujours dans un contexte et que ce contexte était la nation, en l'occurrence la nation russe. L'activisme correspondait à la volonté de réaliser l'adéquation de la théorie et de la pratique, un peu comme dans le marxisme.
Ce solidarisme était bel et bien une idéologie conservatrice, dans le sens où l'harmonie entre les classes qu'il prônait le conduisait à rejeter l'«individualisme libéral excessif» et à imposer des limites à la liberté individuelle; le solidarisme du NTS refusait également la démocratie pluripartite. Les industries-clefs devaient demeurer sous la houlette de l'Etat. Le NTS reprenait à son compte une idée centrale dans l'héritage slavophile, l'idée de Sobornost, telle que l'avait théorisée Khomiakov.
Le NTS ne s'est jamais aligné idéologiquement sur les fascismes européens ou sur le nazisme, car sa dimension religieuse le rapprochait davantage du corporatisme catholique autrichien ou du salazarisme portugais, idéologies éloignées du modernisme industrialiste fasciste-italien ou national-socialiste allemand. Quelques éléments toutefois ont collaboré en Allemagne avec les autorités nationales-socialistes, même si le NTS était interdit et ses adhérants emprisonnés. Cette coopération a eu lieu dans les territoires occupés par l'armée allemande et dans le mouvement du général Vlassov. L'organe de presse de ces militants pro-allemands du NTS était le Novoïé Slovo.
Après la guerre, le NTS adopte une idéologie de «troisième force», cherchant à dépasser le marxisme et le capitalisme. Les puissances occidentales ont passé l'éponge sur la collaboration des quelques éléments du NTS (Redlich, Poremski, Tenserov, Vergoune, et Kazantsev) et les Américains, logique de la guerre froide oblige, ont soutenu le mouvement et financé sa propagande à l'intérieur du territoire soviétique. Cette double collaboration avec les ennemis de la Russie, l'Allemagne d'abord, les Etats-Unis ensuite, n'ont pas donné bonne presse au NTS, en dépit de la pureté de ses idéaux, bien ancrés dans la tradition et le mental du peuple russe. Le citoyen soviétique moyen s'en désintéressait.
Selon Laqueur, le principal idéologue du NTS fut le Professeur Ivan Ilyine (1881-1954), qui enseignait la philosophie à l'Université de Moscou avant la Révolution. Cet excellent connaisseur de la pensée de Hegel est expulsé d'URSS en 1922, en même temps que Berdiaev. Il publiait ses écrits dans la revue Russkii Kolokol, proche du NTS sans en épouser toutes les thèses: en effet, Ilyine était monarchiste tandis que les militants du NTS ne se prononçaient pas sur cette question et envisageaient l'éventualité d'une République russe non soviétique. Ilyine se faisait l'avocat d'une «démocratie organique», qui n'aurait plus été ni formelle ni mécanique à la façon occidentale. Dans son livre Pout'k otchevidnosti (= La Voie vers l'évidence), Ilyine définit la «vraie politique» comme un «service», comme le contraire diamétral de la politique envisagée comme «carrière». La notion de service implique de servir les intérêts du peuple tout entier et non d'une catégorie sociale ou d'un réseau d'intérêts. Cette volonté de servir une entité collective de vastes dimensions fait de la politique un «art de la volonté», d'une volonté qui sait d'instinct choisir et promouvoir, dans le flot ininterrompu des faits et des événements, ce qui est bon pour le peuple dans son ensemble, pour l'avenir de l'entité nationale. Or cette volonté doit pouvoir se lover dans le moule d'un idéal et ne pas oublier les vertus du cœur, qui donnent impulsion et sagesse aux potentialités créatives de l'homme politique (pour une approche des idées d'Ilyine, cf. Helmut Dahm, Grundzüge russischen Denkens. Persönlichkeiten und Zeugnisse des 19. und 20. Jahrhunderts, Johannes Berchmans Verlag, München, 1979).
Laqueur, ensuite, passe à une analyse des sources du néo-nationalisme russe contemporain. Ce «parti russe» est né des œuvres des néo-slavophiles et des «écrivains du terroir». Pionniers à l'ère stalinienne de ce style ruraliste, Vladimir Ovetchkine et Yefim Doroche ont préparé le terrain d'une nouvelle école littéraire populiste et nationaliste. Dans les années 60 et 70, les écrivains de Russie septentrionale et de Sibérie, comme Fiodor Abramov, Vassili Choukchine (Kalina Krasnaïa, Le beau bosquet de boules de neige) et Valentin Raspoutine (Adieu à Matiora). Cette littérature est loin d'être idyllique, souligne Laqueur. Les conditions de vie dans les villages du Nord et de la Sibérie sont terribles et les villageois décrits par Abramov se haïssent mutuellement, ne forment plus une communauté soudée et solidaire. Belov, pour sa part, est moins pessimiste: ses personnages vivent dans un monde beau et pur, à l'ombre des clochers en bulle, bercé par la musique douce et gaie des cloches des églises, où se côtoient des mystiques et des idiots qui atteignent la sainteté. Soloükhine se déclare disciple du Norvégien Knut Hamsun, qui, lui aussi, a décrit des personnages ruraux non pervertis par la civilisation moderne. Astafiev et Raspoutine évoquent les descendants des pionniers, dispersés dans les immensités sibériennes. Dans les petites villes, les habitants n'ont plus de référants moraux: ils pillent un dépôt en flammes, n'ont plus de racines et plus aucun sens du devoir. Ils ne songent qu'à s'enrichir et saccagent l'environnement naturel. Cette dépravation est le fruit du pouvoir communiste, écrivait Soloükhine, sans pour autant encourir les foudres du régime; au contraire: il a été lauréat du Prix Lénine! La tonalité générale de cette littérature ruraliste est un scepticisme à l'égard du progrès mécanique, matériel et économique, à l'égard des productions intellectuelles des grandes villes, à l'égard de la culture de masse contemporaine, importée de l'Ouest.
Dans le grand public, ce sont des revues littéraires conservatrices, mais fidèles en paroles au régime, qui se sont fait le relais de ce ruralisme, de ce culte de l'enracinement et de ce refus du déracinement: Nache Sovremenik et Molodaïa Gvardiya. Novii Mir, pour sa part, défendait les thèses progressistes classiques de l'idéologie marxiste. Cet engouement pour le passé intact de la Russie a conduit à une redécouverte de l'héritage slavophile du 19ième siècle, dès la fin des années 70, où Chalmaïev, Lobanov et Kochinov en arrivent à la conclusion que la Russie est devenue un pays décérébré et américanisé, qui perd sa «dimension intérieure», ses racines, en dépit de sa puissance militaire. La Russie est une «coquille vide».
Ce mélange de ruralisme, de slavophilie rénovée, de culte de l'enracinement et d'anti-américanisme, conduit à une critique plus fondamentale de l'idéologie marxiste dominante. Les nationalistes, en effet, évoquent la thèse du «flux unique» de l'histoire russe, thèse qui est en contradiction totale avec le léninisme. En effet, d'après Lénine et ses disciples, l'histoire russe se subdivise en deux courants, un courant progressiste (Pierre le Grand partiellement, Herzen, Tchernitchevski et Gorki) et un courant obscurantiste composé de réactionnaires, de fanatiques religieux et d'exploiteurs du peuple. A ce dualisme officiel, les ruralistes opposent, sans nier la validité du courant progressiste, une réhabilitation des forces politiques et spirituelles qui ont consolidé la Russie au cours des siècles passés, sans être marquées par la philosophie progressiste, moderniste et occidentaliste. L'histoire russe, dans cette optique slavophile et nationale, draine dans un fleuve unique une masse d'éléments positifs, tantôt frappés du sceau du progressisme, tantôt frappés de celui de l'enracinement ou de la tradition, soit de l'immuable.
Le Parti ne pouvait pas accepter cette vision sans risque. Car cela aurait impliqué une revalorisation du rôle de la monarchie et de l'église dans l'histoire russe. Et cela aurait également signifié que, lors de la guerre civile, les Rouges comme les Blancs avaient eu des raisons, avaient eu les uns et les autres partiellement ou entièrement raison. Si Nicolas II et Lénine avaient eu tous deux raison, la révolution aurait pu être considérée comme inutile et l'idéal aurait sans doute été un régime à mi-chemin entre le bolchevisme et la monarchie, sans doute une monarchie populaire comme l'envisageait Ivan Solonévitch. Mais lentement la thèse du «flux unique» a fait son chemin, s'est imposée et structure métaphysiquement la convergence que l'on observe actuellement entre nationalistes et anciens communistes. Hors du «flux unique» ne se trouvent désormais plus que les libéraux qui restent fidèles aux thèses «progressistes», tout en avalisant l'inflation terrible qui secoue la vie russe depuis la libéralisation des prix de janvier 1992, voulue par Gaïdar et son équipe. Aval qui leur fait perdre toute légitimité populaire.
Déjà pendant les dernières années du règne de Brejnev, la maison d'édition Roman Gazetta, qui publiait des livres de poche bon marché, n'éditait plus que des auteurs populistes, slavophiles ou nationalistes, précise Laqueur (p. 135). Signe de leur victoire: quand Alexander Yakovlev, chef du département idéologique du comité central, prononça en 1972 un discours contre l'«anti-historicisme» des russophiles et critiqua leur culte de la religion orthodoxe, tout en défendant les «démocrates» révolutionnaires du XIXième siècle, il fut promu ambassadeur d'URSS au Canada et y resta de nombreuses années. Eviction déguisée, bien évidemment. Cet incident marqua la victoire des revues Nache Sovremenik et Molodaïa Gvardiya. Novii Mir, dont les collaborateurs «libéraux» et «progressistes» avaient été écartés dès les années 70, tenta de reprendre son combat en faveur du «courant progressiste». Sans succès. Elle fut réduite au silence pendant 20 ans et ne reparut que dans le sillage de la perestroïka.
Au départ de sa carrière d'écrivain persécuté, Alexandre Soljénitsyne se situait plutôt dans le camp libéral. Il en sortira petit à petit pour esquisser les grandes lignes d'un «conservatisme» populiste et slavophile particulier, en marge du conservatisme plus musclé des nationalistes et des paléo-communistes actuels. Au départ, ce sont les libéraux, notamment les rédacteurs de Novii Mir, qui se sont engagés à défendre l'écrivain Soljénitsyne, alors que conservateurs et nationalistes critiquaient ses positions. Mais Soljénitsyne jugeait les libéraux trop mous dans leur défense des dissidents. Son glissement vers un conservatisme populiste et slavophile s'est amorcé dès sa lettre ouverte aux dirigeants soviétiques, où, depuis son exil zurichois, il critiquait cette intelligentsia libérale qui croyait que sa tâche première était de «dépasser la folie nationale et messianique des Russes». Entreprise impossible, selon Soljénitsyne, car elle aurait réduit la russéité à rien. Dans cette lettre, il exhortait les dirigeants soviétiques à abandonner le marxisme-léninisme, une idéologie qui ne cessait de provoquer des conflits avec l'étranger, affaiblissait la Russie de l'intérieur et instaurait un système du «mensonge permanent». Ensuite, il demandait l'abrogation du service militaire obligatoire, ce qui hérissait les nationalistes. Sa pensée, au fond, était une synthèse entre le libéralisme national et populaire et le nationalisme dur: le régime qui conviendrait à la Russie serait à la fois éclairé et autoritaire, et s'appuyerait sur les Soviets, car introduire une démocratie à l'occidentale sans transition en Russie conduirait à la catastrophe.
Cette synthèse, malgré ses relents d'anti-militarisme, ou, au moins, son hostilité à la conscription générale, finit tout de même par plaire davantage aux nationalistes qu'aux libéraux. Sakharov trouvait le nationalisme de Soljénitsyne «exagéré», voire quelque peu «xénophobe» et déplorait que l'auteur de l'Archipel Goulag n'entonnât pas un plaidoyer a-critique en faveur de la démocratie à l'occidentale. Le nouveau clivage séparait désormais ceux qui prétendaient que les idées occidentales (dont le marxisme) pervertissaient l'âme russe et ceux qui affirmaient que c'était les défauts de la mentalité russe qui précipitaient la Russie dans le malheur.
La «Nouvelle Droite» russe, ou plutôt les «nouvelles droites» russes, puisent leurs idées dans des synthèses plus modernes ou chez des auteurs plus actuels et seul Soljénitsyne conserve une influence réelle dans le débat. Son influence est évidement plus nette auprès des nationaux-libéraux et des conservateurs tranquilles qu'auprès des nationaux-bolchéviques plus militants et plus activistes. Les Russes d'aujourd'hui tentent également de découvrir des auteurs occidentaux auxquels ils n'avaient pas accès au temps de la censure. La révolution conservatrice allemande et la ND franco-italienne, de même que les synthèses nationales-révolutionnaires de tous acabits, influencent les conservateurs musclés et les nationaux-bolchéviques, tandis que les travaux de Max Weber, José Ortega y Gasset, etc. intéressent les nationaux-libéraux. L'engouement pour Nietzsche est général et cela va des réceptions caricaturales aux analyses les plus fines. Dans ce bouillonnement, un penseur original: Lev Goumilev, décédé en juin 1992, considéré comme une sorte de «Spengler russe»; il a élaboré une théorie de l'«ethnogénèse» des peuples, en expliquant que ceux-ci font irruption sur la scène de l'histoire, animés par une passionarnost, une «passion», un instinct, une pulsion. Cette passionarnost s'épuise petit à petit, forçant les peuples vidés de leurs pulsions créatives, à quitter l'avant-scène de l'histoire, puis à sombrer dans l'insignifiance. Goumilev était «eurasiste» et essuyait les critiques de ceux qui revendiquaient une russéité européenne.
Les nouvelles synthèses russes se forgeront dans la lutte, dans cette opposition à l'occidentalisation brutale dont ils sont les victimes. Imaginatifs et prenant les idées beaucoup plus au sérieux que les Occidentaux, les concepts mobilisateurs de demain seront à coup sûr originaux. Et provoqueront l'étonnement de ceux qui veulent tout mesurer à l'aune des statistiques et des chiffres, des bilans et des profits. Et aussi l'étonnement de ceux qui croient, sur les rives de la Seine, les neurones assaillis par les gaz d'autos, avoir trouvé la formule politique définitive et indépassable dans cette panade ultra-mixée, suggérée par certains journaux (un peu comme si vous mélangiez des fraises écrasées dans l'huile de vos sardines, avec une cuiller de chocolat chaud et du müesli, le tout arrosé de Curaçao bleu, avec un zeste de pamplemousse, le tout saupoudré d'ail).
Robert STEUCKERS.
Walter LAQUEUR, Der Schoß ist fruchtbar noch. Der militante Nationalismus der russischen Rechten, Kindler, München, 1993, 416 S., DM 42, ISBN 3-463-40212-2.
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dimanche, 24 août 2008
Société "Thulé": mythe, légende et réalité

La société Thule: légende, mythe et réalité
Il n'y a pas une organisation qui a autant fait spéculer et autant alimenter les imaginations fertiles que la “Thule-Gesellschaft”. Selon leur provenance politique ou idéologique, les auteurs, qui en traitent, disent tantôt qu'elle est un ordre occulte, une secte, tantôt qu'elle a été l'avant-garde intellectuelle, voire le moteur secret qui téléguidait en coulisses la marche en avant de la NSDAP hitlérienne. La littérature consacrée à cette organisation est désormais assez importante, mais, malgré cette ampleur relative, on peut dire que le mystère et/ou le flou qui entourent cette organisation défunte n'ont pas été dissipés. Les affects des auteurs (favorables ou défavorables) oblitèrent encore et toujours la recherche sur cette question et empêchent tout jugement serein.
Detlev Rose, auteur du livre Legende, Mythos und Wirklichkeit der Thule-Gesellschaft, peut revendiquer, pour lui-même, d'avoir enfin comblé, de manière convaincante, une lacune dans l'historiographie contemporaine relative à ces questions. Son écriture est analytique et précise, ses jugements sur les faits sont prudents, on ne peut pas lui reprocher de prendre parti ou de fantasmer.
Pour ce que l'on allait appeler plus tard la “Société Thule”, un homme revêt une importance capitale: Theodor Fritsch, que l'on décrit généralement comme “le principal antisémite allemand avant Hitler”. Il fait irruption sur la scène politico-intellectuelle de son pays à une époque que Detlev Rose décrit comme “le début d'un tournant stratégique définitif” pour le mouvement nationaliste et folciste (völkisch) en Allemagne. Concrètement, Rose désigne l'année 1912, où les sociaux-démocrates deviennent la faction la plus forte du Reichstag et où les premiers symptômes d'une grave crise internationale pointent à l'horizon. Cette époque est celle où l'Allemagne se sent menacée et encerclée par les puissances voisines.
“Un puissant mouvement extra-parlementaire”
Cette constellation crée un climat propice à l'éclosion de toutes sortes de théories du complot, qui ont dès lors connu une haute conjoncture. Du point de vue folciste (völkisch), ce sont surtout les francs-maçons et les juifs qui auraient soi-disant comploté contre l'Allemagne. Fritsch, dans ce contexte, était un élément moteur de l'antisémitisme. Son objectif était d'établir l'antisémitisme comme “un puissant mouvement extra-parlementaire”. Il voulait réformer la société allemande en se basant sur les données raciales. Concrètement, cela signifiait que les Juifs ne pouvaient plus avoir de place dans la vie publique allemande. La pensée de Fritsch était influencée par les théories biologiques sur les races, notamment celles que propageait le philosophe Houston Stewart Chamberlain.
Logique avec lui-même, Fritsch a tenté de rassembler en un seul mouvement tous les activistes antisémites. Ce projet, le maître ès-étalonnage Hermann Pohl de Magdebourg le réalisera. L'objectif principal du programme du Germanen-Orde (L'Ordre des Germains), qu'il avait fondé, était de surveiller et de combattre les Juifs en Allemagne. Seules des “natures germaniques” pouvaient être acceptées comme membres au sein de cet Ordre, c'est-à-dire des hommes et des femmes que la nature avait pourvu d'yeux bleus et de cheveux blonds. La situation de l'Ordre est vite devenue problématique pendant la première guerre mondiale, lorsque la moitié des membres sont mobilisés et envoyés à la guerre. L'Ordre a connu dès 1914 de sérieuses difficultés financières. Le Grand-Maître Pohl, vu cette situation financière déplorable, subit des critiques de plus en plus sévères et finit par être démis de ses fonctions.
Glauer, alias “Sebottendorf”
Pohl réagit à cette exclusion en provoquant une scission dans l'Ordre. A cette époque, survient un homme qui se fera un nom en tant que président et fondateur de la Société Thule: Rudolf von Sebottendorf, né Adam Glauer (1875-1945). La place nous manque, dans le cadre de ce bref article, pour évoquer toutes les vicissitudes de la vie mouvementée de cet homme. En résumé: Sebottendorf se met à déployer un zèle étonnant dans ses activités au bénéfice de l'aile demeurée fidèle à Pohl dans le Germanen-Orde. Cette aile acquiert dès lors une importance sans cesse croissante.
A la fin de la première guerre mondiale, la situation devient critique: la révolution spartakiste provoque une hémorragie de membres. Dans cette situation, Sebottendorf décide, pour des raisons de camouflage, de prendre le nom de “Société Thule”. L'emblème de cette “nouvelle” société est une croix gammée aux branches arrondies avec épée.
Pour l'extérieur, on essayait de donner l'impression que la société existait uniquement pour favoriser des recherches scientifiques sur l'histoire allemande et pour promouvoir de toutes manières jugées opportunes le peuple allemand (la race germanique) en tant que tel. En réalité, cette Société Thule se concevait comme le fer de lance d'une contre-révolution, qui, aux yeux de ses membres, s'avérait nécessaire, car la situation sociale et politique, dans l'Allemagne vaincue de 1918 et 1919, s'éloignait de jour en jour des objectifs jadis fixés par le Germanen-Orde.
Quand le publiciste israélite Kurt Eisner devient Premier Ministre de Bavière pour le compte de l'USPD (les sociaux-démocrates radicaux qui s'étaient désolidarisés de la SPD), et cherche à fusionner système parlementaire classique et républicanisme des conseils de facture bolchevique, en coulisses, la faction des “ennemis du peuple”, appartenant à la Société Thule, semblaient prendre le contrôle de la situation. En effet, les efforts de la société pour abattre la république des conseils de Munich avaient été considérables; sa stratégie n'était toutefois pas la “terreur à objectif précis”, comme le constate Rose. Malgré toutes les suppositions qui ont été énoncées, rien de clair ne peut être dit sur la participation éventuelle de la Société Thulé dans l'attentat qui a coûté la vie à Kurt Eisner.
Une fois la république des conseils de Munich abattue, la Société Thule semble effectivement avoir atteint son objectif, accomplie la mission qu'elle s'était donnée, et ne s'occupe plus que d'activités fort modestes. Ce qui permet d'affirmer que le développement ultérieur du national-socialisme ne lui doit vraiment pas grand chose et que ce mouvement politique a suivi sa logique et ses dynamiques propres, sans la tutelle d'une société à vocation ésotérique.
Une signification marginale
Dès lors, pour en arriver au cœur de la problématique et du “mythe” qui s'y accroche, posons la question: quel rôle cette Société a-t-elle joué en tant qu'élément précurseur du national-socialisme? Rose nous brosse un tableau bien moins coloré et fantasmagorique que celui que nous font miroiter les interprétations habituelles (ndlr: néo-nazies exaltées ou anti-fascistes tourmentées par de nouvelles théories du complot) . Il constate: «Nous ne pouvons parler ni d'une idéologie unitaire ni d'une Weltanschauung originale dans le cas de la Société Thule». Pour Rose, la Société Thule ne revêt qu'une signification marginale dans le processus général d'émergence du national-socialisme.
A propos de la Société Thule, on ne peut nullement parler d'une “influence téléguidée, dûment planifiée, aux objectifs précis, visant à piloter la NSDAP”. Bon nombre d'auteurs se sont laissé piéger par Sebottendorf, qui a donné trop d'importance à la Société Thule dans son livre Bevor Hitler kam (= Avant que Hitler n'arrive). Sebottendorf, notamment, exagère et extrapole en écrivant que certains membres en vue de la NSDAP, comme Rudolf Hess ou Hans Frank, étaient membres de la Société Thule.
Les élucubrations de Rauschning
Rose a également abordé la question cruciale des racines soi-disant occultes du national-socialisme; évoquons rapidement ses arguments: avec des phrases claires, Detlev Rose écrit que les cent conversations que Hermann Rauschning aurait, paraît-il, eues avec Hitler, ne sont que des élucubrations, notamment quand Rauschning parle des “tendances occultistes” de Hitler («Hitler aurait été l'instrument de “forces mystérieuses”»). Pourtant, ces conversations, vraisemblablement fausses, ont été décrites par l'historien Theodor Schieder, décédé en 1984, comme des “documents attestant de sources indubitables et de grande valeur”. A la lumière des recherches de Rose, on peut dire désormais que Schieder a malheureusement répandu et consolidé, par son autorité, une “grossière falsification de l'histoire”.
Tentons une synthèse: l'écriture claire et précise de Rose, qui évite toute jactance et toute grandiloquence, rend son livre indispensable pour tous ceux qui veulent jeter un regard critique ou s'informer sur les racines soi-disant occultes ou ésotériques du national-socialisme.
Michael WIESBERG.
(article paru dans Junge Freiheit, n°3/1995; trad. franç.: Robert Steuckers).
Detlev ROSE, Die Thule-Gesellschaft. Legende, Mythos, Wirklichkeit, Grabert Verlag, Tübingen, 1994, 224 pages, DM 32.
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samedi, 23 août 2008
G. Schröder sur la Guerre du Caucase et les relations euro-russes

L’ex-Chancelier Gerhard Schröder sur la Guerre du Caucase et les relations euro-russes
Résumé de l’entretien qu’il a accordé au “Spiegel”, n°34/2008
Q.: Monsieur Schröder, qui est responsable de la guerre dans le Caucase?
GSch: Le conflit possède sans nul doute ses racines historiques, car ila déjà connu plusieurs expressions au cours de l’histoire. Mais l’élément déchencheur dans les hostilités actuelles est l’entrée des troupes géorgiennes en Ossétie du Sud. Voilà ce qu’il ne faut pas chercher à dissimuler.
Voilà la première réponse de l’ancien Chancelier fédéral Schröder aux journalistes du “Spiegel”, cette semaine. Le ton est donné. Il est vif, succinct, dépourvu d’ambigüités. Schröder rappelle également dans cet entretien, plusieurs vérités bonnes à entendre et qui recèlent bien des similitudes avec notre discours, que nous tenons depuis bientôt trois décennies:
- qu’il n’a jamais jugé intelligente la politique de Washington de faire encadrer l’armée géorgienne par des conseillers militaires américains;
- qu’il est bizarre que ces conseillers n’ait pas eu vent des projets russes; “ils sont soit dénués de qualités professionnelles ou alors ils ont été trompés sur toute la ligne”, ajoute-t-il;
- qu’il ne faut pas oublier que le déploiement de fusées américaines en Pologne et en Tchéquie a hérissé les Russes; ndlr: imagine-t-on l’effet qu’aurait fait l’installation de fusées en Géorgie?
- que l’Occident a commis des erreurs très graves dans sa politique à l’endroit de la Russie.
- qu’il ne partage pas l’idée répandue en Occident d’un “danger russe” et que la perception de la Russie à l’Ouest n’a pas grand chose à voir avec la réalité;
- qu’il existe une dépendance mutuelle entre l’Ouest (du moins l’Europe de l’Ouest, ndlr) et la Russie; qu’il n’y a pas un seul problème global qui puisse être réglé sans le concours de la Russie; qu’il n’y a pas moyen, en Europe de l’Ouest, de se passer du pétrole et du gaz russes et, en Russie, de se passer des commandes européennes;
- qu’il n’y a aucune raison d’abandonner le principe du “partenariat stratégique” germano-russe pour satisfaire la politique de Saakachvili;
- qu’il n’y aura pas de retour au “status quo ante” en Abkhazie et en Ossétie du Sud, non pas parce la Russie y a pratiqué, contre Saakachvili, une politique du “gros bâton”, mais parce que la population ne le veut pas;
- qu’il ne souhaite pas l’envoi de soldats allemands en Géorgie pour une mission de pacification;
- que Merkel et Steinmeier ont eu raison de ne pas s’enthousiasmer, de manifester leur scepticisme, lors du sommet de l’OTAN en avril dernier à Bucarest, face à la candidature géorgienne, contrairement à l’avis des Américains et de certains pays est-européens;
- que si la Géorgie avait fait partie de l’OTAN, l’Allemagne et l’Europe entière se seraient retrouvées aux côtés d’un aventurier politique (“ein Hasardeur”);
- que l’Ukraine et la Géorgie doivent d’abord régler leurs problèmes intérieurs avant de songer à rejoindre des regroupements d’Etats comme l’OTAN ou l’UE;
- que le coup de force de Saakachvili aura eu au moins l’effet bénéfique de postposer pendant plusieurs années au moins l’adhésion effective de la Géorgie à l’OTAN;
- qu’il ne partage pas les propos tenus, lors des événements de Géorgie, par le secrétaire général de l’OTAN;
- qu’il n’est pas un “Géorgien” dans le sens où le veut la déclaration du candidat républicain à la présidence des Etats-Unis, McCain, qui avait proclamé: “Nous sommes tous des Géorgiens!”;
- qu’après avoir lu les dernières tirades du belliciste néocon Robert Kagan à propos de l’entrée des troupes russes en Ossétie du Sud, évoquant un “tournant dans l’histoire” et “le retour des conflits entre grandes puissances pour raisons territoriales”, il reste profondément perplexe; que Kagan appartenait déjà au club de “ces messieurs” (sic) qui ont poussé à la guerre en Irak, guerre dont les conséquences ne sont intéressantes ni pour l’Amérique ni pour l’Europe; et que, par conséquent, personne ne doit plus écouter les “bons conseils” de ce Kagan;
- que la fin de la domination unipolaire de l’Amérique approche (allusion à son récent essai publié par l’hedomadaire “Die Zeit” de Hambourg); que les démocrates autour d’Obama s’en rendent compte, comme d’ailleurs tous les républicains raisonnables; que l’Amérique est contrainte d’accepter la multipolarité dans le monde, qu’il n’y a plus moyen désormais d’agir sur le monde autrement qu’en termes de multipolarité; que les républicains devront se soumettre à cette évidence et agir en cherchant des alliés et en tenant compte de l’avis des instances internationales (ndlr: contrairement à l’équipe de Bush jr.); sinon, l’Amérique gagnera sans doute encore des guerres mais perdra toujours la paix; en clair, Schröder annonce la faillite de l’option néocon;
- que l’unification des esprits en Europe, sur le plan de la politique extérieure, a connu un réel ressac depuis 2005 (ndlr: c’est-à-dire depuis la disparition factuelle de l’Axe Paris-Berlin-Moscou), notamment à cause de l’intégration de nouveaux Etats (ndlr : agités par une certaine russophobie);
- que l’Europe ne jouera un rôle sur l’échiquier international, entre l’Amérique et l’Asie, que si elle développe des relations étroites avec la Russie et les maintient sur le long terme; qu’en ce sens, lui Schröder, perçoit la Russie comme partie intégrante de l’Europe plutôt que comme partie intégrante de toute autre constellation;
- que l’équipe dirigeante de la Russie actuelle pense de la même façon mais que sa marge de manoeuvre est plus grande: la Russie peut jouer une carte asiatique mais non l’Europe;
- qu’il s’insurge contre toute diabolisation de la Russie dans les médias; que ni le “Spiegel” ni les autres organes de presse en Allemagne et en Europe ne doivent participer à la diffusion d’informations erronées voire carrément fausses (ndlr: c’est-à-dire, pour nous, à ne pas reproduire les clichés des agences du soft power américain);
- qu’il est le président du comité des actionnaires de “Nord Stream” (le complexe des oléoducs et gazoducs amenant vers la Baltique les hydrocarbures de Russie); que ce complexe est géré par un ensemble d’entreprises allemandes, néerlandaises et russes dont l’objectif est de construire un réseau de gazoducs et d’oléoducs sous la Baltique pour approvisionner l’Europe et l’Allemagne parce que cet approvisionnement garantit le bon fonctionnement de nos économies, donc de nos sociétés.
Des propos qui ont le mérite de la clarté. Et auxquels nous n’avons rien à ajouter! Puisque c’est ce que nous avons toujours dit, depuis la création des revues “Orientations” (1980) et “Vouloir” (1983), “Nouvelles de Synergies Européennes” (1994) et “Au fil de l’épée” (1999), dont le relais est repris, entre autres, par ce blog (2007).
(résumé de Robert Steuckers).
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Géorgie: les racines du conflit

Günther DESCHNER:
Géorgie: les racines du conflit
C’est dans une constellation “triangulaire” de tensions, entre Tiflis (Tbilisi), Washington et Moscou qu’il faut aller rechercher les déclencheurs de la “Guerre d’août” dans le Caucase, guerre qu’a ordonnée le président Mikhail Saakachvili pour ramener de force dans l’ordre étatique de la Géorgie la “République d’Ossétie du Sud” qui avait fait sécession et n’avait pas été reconnue en tant que telle par l’ordre politique international. Cette action a donné à la Russie le prétexte d’une intervention militaire de grande ampleur. Finalement, les raisons profondes de cette “Guerre d’août” résident dans la lutte géostratégique que mènent les Etats-Unis et d’autres puissances pour contrôler les ressources pétrolières et gazières des régions caucasienne et caspienne.
Mais ce conflit a d’autres racines et il faut remonter loin dans le passé pour les découvrir et les comprendre. Au 18ième siècle, l’Empire des Tsars, en pleine expansion, absorbe, dans le Caucase du Sud les territoires habités par les Abkhazes, les Géorgiens et les Ossètes, qui deviennent une province russe. En Ossétie, plus exactement sur le territoire actuel de l’Ossétie du Nord/Alanie, qui appartient à la Fédération de Russie, la “Commission du Caucase” fit construire une forteresse en 1784, qui deviendra la capitale de la région, en portant le nom significatif de “Vladikavkaz” (= “Qui domine le Caucase”).
Après la chute des tsars et la révolution d’Octobre qui s’ensuivit, on vit d’abord se constituer dans la région une “République Fédérative et Démocratique de Transcaucasie”, qui s’est rapidement disloquée. Finalement, à côté d’une nouvelle Arménie et d’un nouvel Azerbaïdjan, une “République Démocratique de Géorgie” proclame son indépendance en 1918. Le Reich allemand contribua directement à l’émergence de cette république géorgienne, notamment par l’action du général bavarois Kress von Kressenstein, qui appartenait à l’encadrement allemand de l’armée ottomane, alors alliée de Berlin. Les Géorgiens espéraient à l’époque que les Allemands l’emporteraient sur les Russes, victoire qui leur garantirait l’indépendance. Ce fut partiellement le cas. Les objectifs allemands en Géorgie étaient de lier le pays à l’Allemagne par le truchement de traités économiques et de conventions militaires.
Ces plans allemands ne pouvaient se réaliser que si la Géorgie accédait à la pleine indépendance; dès lors, on assista à une convergence des intérêts allemands et géorgiens dans la région. En avril 1918, Berlin s’immisca directement dans les événements. L’Allemagne et la Géorgie signent un accord, où les parties reconnaissent les frontirèes de la Géorgie; pour sa part, l’Allemagne promet de jouer un rôle d’intermédiaire entre la Géorgie, la nouvelle Russie et l’Empire ottoman. Pour appuyer l’indépendance de la Géorgie, l’Allemagne envoie trois mille soldats. L’Allemagne a ainsi parrainé l’indépendance géorgienne qui n’a duré que jusqu’en 1921. Les bonnes relations germano-géorgiennes, qui persistent encore, sont dues partiellement à ce souvenir historique.
Suite aux vicissitudes de la guerre civile russe, entre Blancs et Rouges, la Géorgie glisse, elle aussi, sous l’autorité des Bolcheviks; elle est conquise, toutefois après que les Abkhazes et les Ossètes aient proclamé leurs propres républiques soviétiques. Au départ, ces deux républiques ont constitué des “oblast” autonomes de la grande “République Soviétique de Transcaucasie”, à laquelle appartenait aussi la Géorgie. En 1936, Joseph Staline dissout cette république transcaucasienne.
C’est justement lui, un Géorgien, qui a tracé arbitrairement les frontières des républiques soviétiques. La nouvelle “République Socialiste Soviétique de Géorgie”, selon la volonté de Staline, reprenait à son compte les territoires inclus dans cette Géorgie qui s’était proclamée indépendante en 1918; l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud devinrent dès lors parties intégrantes de la RSS de Géorgie, mais jouissaient d’une très large autonomie.
Par ce processus, les Ossètes furent partagés en deux entités, l’une au Nord du Caucase, l’autre au Sud. Les uns appartenaient désormais à la République Socialiste Soviétique Fédérative de Russie, tandis que les autres se retrouvaient au sein de la nouvelle RSS de Géorgie, ce qui, à l’époque, n’avait guère d’importance pour la vie quotidienne du peuple ossète. Les choses ont changé lorsque la Géorgie, dans les années 90 du 20ième siècle, a retrouvé une nouvelle fois son indépendance, au moment de l’effondrement de l’URSS. Dès ce moment, les Ossètes ont été véritablement séparés les uns des autres, car la frontière, internationalement reconnue, passait alors au beau milieu de leur territoire.
Dans l’ivresse de leur indépendance retrouvée, les Géorgiens ne se sont pas rendus compte que d’autres peuples vivaient sur le territoire de leur république et aspiraient à une autonomie politique dans les limites de leur propre espace vital. L’un des premiers chefs d’Etat de la nouvelle Géorgie, l’ancien ministre soviétique des affaires étrangères, Edouard Chevarnadzé, comprenait les aspirations abkhazes et ossètes, s’était montré conciliant face aux frictions et aux tensions inter-ethniques, tandis que son successeur Saakachvili, lui, se pose comme un “dur”, un “hardliner”.
L’Occident, sur lequel Saakachvili a tant parié, n’a cessé de cultiver les ambigüités et n’a rien fait pour améliorer la situation, bien au contraire, il a tout fait pour envenimer les choses. L’Occident proclame qu’il est pour l’ “intégrité territoriale” de la Géorgie, mais ne souffle mot quant à la façon dont le gouvernement géorgien s’y prend pour maintenir cette “intégrité territoriale”. La Géorgie, ex-république de l’Union Soviétique, s’est proclamée indépendante lors de l’effondrement de l’URSS, ce qui entre parfaitement dans le cadre du droit des gens.
Les républiques autonomes d’Abkhazie et d’Ossétie du Sud, du coup, n’ont plus eu la possibilité de se déclarer indépendantes de la Géorgie selon le droit international. Nous sommes là face à une contradiction non résolue. Qui a débouché, en 1992, sur une guerre de sécession sanglante, qui a duré un an. Crimes de guerre, massacres et expulsions furent à l’ordre du jour; des milliers de Géorgiens, d’Abkhazes et d’Ossètes ont été chassés de leurs lieux de résidence. En 1992, un armistice est signé avec l’Ossétie du Sud et, deux ans plus tard, avec l’Abkhazie, armistice qui prévoit que des troupes des Etats de la CEI y maintiendront la paix et y feront taire les armes. En Abkhazie, la Russie a envoyé 3000 militaires, qui ont quasiment constitué le seul contingent de “soldats de la paix” jusqu’à ce qu’éclate la “Guerre d’août”.
De facto, l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud sont des républiques agissant en toute autonomie même si elles ne sont pas reconnues sur le plan international et continuent d’appartenir à la Géorgie selon le droit des gens. Le conflit persistant entre la Russie et la Géorgie a poussé petit à petit les deux républiques dans les bras de la Russie. Quand la Géorgie a décrété, par sottise, un embargo économique général contre les deux républiques, la Russie a eu beau jeu de placer les deux régions sous sa propre tutelle économique. Les deux républiques se posent certes comme “indépendantes” mais elles ne le sont pas car leur survie sur les plans économique, politique et militaire dépend directement de leur grand voisin russe, avec lequel elles aimeraient d’ailleurs fusionner. Mais sans l’accord de la Géorgie, cet “Anschluss” est tout aussi impossible sur le plan du droit des gens que leur déclaration unilatérale d’indépendance. La plupart des habitants des deux régions sécessionnistes ont d’ailleurs déjà reçu des passeports russes. Quant au président sud-ossète Edouard Kokoity, il souhaite que se constitue une Ossétie unie.
Les parallèles et les différences entre ce conflit et celui du Kossovo sont étonnants. Dans les deux cas, nous avons affaire à des régions autonomes, où l’Etat titulaire réclame le droit d’exercer sa souveraineté, en se basant sur une interprétation stricte du droit des gens, tandis que ce sont des soldats de la paix venus d’autres pays qui y assurent la sécurité. Quand l’Occident a reconnu le Kosovo, à l’évidence, la Russie allait, dans l’avenir proche, soutenir l’indépendantisme abkhaze et sud-ossète, surtout si cela nuisait à la Géorgie et présentait un intérêt dans l’opposition géostratégique générale entre Washington et Moscou.
Dans cette logique, en avril 2008, deux mois après la reconnaissance du Kosovo, Vladimir Poutine, qui était encore le président russe à l’époque, ordonne de “soutenir substantiellement” l’Abkhazie et l’Ossétie du Sud, tandis que la Douma préconisait de reconnaître les deux républiques. Depuis lors, les autorités russes ont reconnu tous les documents émis par ces deux républiques et permis l’établissement de relations consulaires. La Russie a donc reconnu de facto les deux républiques sécessionnistes, ce que la Géorgie interprète comme une annexion déguisée. C’est cela qui a donné le prétexte à Saakachvili de se lancer dans cette aventure militaire, dont l’issue conduira à l’émergence de réalités nouvelles dans la région.
Günther DESCHNER.
(artcle tiré de “Junge Freiheit”, Berlin, n°34/2008, trad. franç.: Robert Steuckers).
20:49 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : affaires européennes, europe, russie, caucase, ossétie, abkhazie, géorgie | |
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00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : dionysos, nietzsche, mythologie, dieux, antiquité grecque, grèce antique | |
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